De ore turris - Le fauci della torre di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 1 *** I ***
De ore turris - I
Storia prima classificata al contest "Un'Ora e... la Violenza" (link: http://originalconcorsi.forumfree.it/?f=9826358) indetto da MissDark su Original Concorsi.
Il giudizio è riportato in recensione.
• Titolo: De ore turris – Le fauci della torre
• Tipologia: a capitoli
• Lunghezza: 4.990 parole, escluso note
• Genere: Dark, Fantascienza, Horror
• Avvertimenti: Angst, Character Death, Non per stomaci delicati, Violenza
• Rating: Arancione
• Credits: -
• Note dell'autore: l’ambientazione è di genere steampunk.
La mutazione dei licantropi
della storia si rifà alla versione medioevale, che implicava la
volontà del trasformarsi per mezzo di un artefatto magico. Anche
l’aspetto dei licantropi si rifà alla stessa tradizione
che li vuole di dimensioni molto maggiori dei lupi comuni e privi di coda.
• Introduzione alla storia.
La notte avvolge il Monte Titano, nascondendo trame silenziose,
dove politica e sangue si mescolano fino a divenire una cosa sola
nelle fauci di una bestia oscura, venuta da lontano.
I
Ore 00:16
Contrada di Portanova
Il
centro della città era un intrico di salite e discese immerse in
un buio liquido come inchiostro, dove i guizzi amaranto delle lampade a
gas disegnavano i profili di pietra delle botteghe e degli androni.
La campana della Chiesa dei
Cappuccini, a pochi passi dalla porta cittadina, aveva segnato la
mezzanotte diversi minuti prima, in un miscuglio di stridii di ruote
dentate e rintocchi stonati.
Un gruppo di uomini emerse dalla
Contrada, varcando l’immenso arco in pietra fortificato.
Parlavano fitto tra di loro, alcuni sorreggendosi a vicenda per la
stanchezza e il vino che aveva accompagnato le discussioni fino tarda
ora. Qualche sbadiglio poco signorile interrompeva il ritmico battere
delle suole sul selciato e il fruscio dei mantelli seguiva il dondolio
incerto dei cilindri sulle teste.
L’angusto piazzale incuneato
tra la cinta muraria e la chiesa era occupato da alcuni mezzi,
trabiccoli di ultima generazione con cui le nobili famiglie sanmarinesi
si sfidavano in gare di lusso e tecnologia. Piccole nubi di vapore
s’innalzavano dai motori dei vari modelli, disegnando un velo
denso e pallido sopra il pinnacolo di San Quirino. Il ritmico borbottio
delle caldaie somigliava a una litania profana.
Alcuni salutarono e si allontanarono
verso i veicoli, altri nelle strade della cittadella. Solo un gruppetto
rimase a chiacchierare a breve distanza dal monumento del santo, che
insisteva stoicamente a fissare la vallata, senza prestare ascolto agli
intrighi politico-economici che sciamavano dalle bocche impastate.
Un paio di uomini rimanevano in disparte, osservando gli altri avviarsi incerti alle macchine sbuffanti.
«Tutto bene?» domandò quello più alto, posando una mano sulla spalla dell’altro.
Questi sorrise vago, aggiustando con mano incerta il bavero della giacca.
«Certamente. Do un’altra impressione forse?»
«A dirla tutta, Francesco,
sì. Qualcosa ti preoccupa? La bambina? Tua moglie? Il
lavoro?» s’informò.
Il tono apprensivo e teso fece sospirare l’interlocutore, evidentemente a disagio per la domanda.
Squadrò rapidamente l’uomo prima di rispondere.
«No, nient’affatto,
Antonio. Va tutto benissimo. Oppure… devo essere più
stanco di quanto pensi io stesso. È stato un periodo concitato
in banca. Sai, acquisti, revisioni, i documenti per la Repubblica
e… devo aver speso troppe energie dietro ad inutili scartoffie.
Ci sono state le riunioni con il Consiglio Grande e il Consiglio
Generale per lo stanziamento dei fondi per le opere per
l’eliporto, per l’ampliamento dell’acquedotto, per i
nuovi contrafforti… le cene che le hanno accompagnate»
declamò reprimendo a fatica un rutto. «E poi Marina ci
tiene svegli tutte le notti: una volta perché ha fame, una volta
per il mal di pancia, una volta sa il cielo che; Elisabetta si lamenta
di continuo come se avesse ancora le doglie, le da fastidio qualunque
cosa dica o faccia; la balia non riesce a far star zitta né
l’una né l’altra e si aggiunge alla
solfa…» e s’interruppe, riconsiderando quanto detto.
«Forse hai ragione. Devo essere uno straccio. Grazie per avermelo
fatto notare».
L’altro sorrise nell’oscurità, fingendo palesemente di credere alla bugia.
«I fratelli minori esistono per
questo, per ficcanasare e parlare a sproposito. Se non ci fossi,
chissà di cosa non ti accorgeresti! Meglio andare ora, il vino
mi sta salendo alla testa e non vorrei infilarmi per sbaglio nella
camera di uno stalliere. Sarebbe indecente… e nostra madre non
approverebbe. Buona notte» salutò, salendo sulla
Landaulette1, imitato da Francesco che si avviò al proprio veicolo.
Alcuni mezzi sfilarono lungo la
discesa, diretti ciascuno a casa propria, mentre altri poltrivano in
attesa dei ciarlieri proprietari, allontanatisi per svuotare le
vesciche tra i cespugli. Tra questi, quello del banchiere Francesco
Scarito, con l’autista che seguitava a trafficare nel vano
posteriore.
Il banchiere attese che i rombi e le
voci si dileguassero nel buio, controllando l’orologio da
taschino. Era quasi mezzanotte e mezza.
Fece segno al conducente di salire in
auto e attenderlo lì, a Porta della Fratta, allungandogli un
paio di monete per garantirsi il suo silenzio, casomai ce ne
fosse stato bisogno. Questi tornò a coricarsi sul sedile
posteriore senza dire nulla.
L’uomo non tergiversò oltre: aveva poco tempo per recarsi all’appuntamento.
1 Landaulette: antenato dell’automobile.
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Capitolo 2 *** II ***
De ore turris - II
II
Ore 00:43
Il Montale1
Aveva impiegato più tempo del
previsto per raggiungere il luogo dell’appuntamento, per colpa
del buio creato da una nube di passaggio davanti alla luna che gli
aveva fatto imboccare un sentiero senza via d’uscita. Era tornato
di corsa sui suoi passi, salendo e scendendo a perdifiato
nell’intrico del bosco, fino a che il piede massiccio e nudo
della torre non aveva fatto capolino tra le frasche.
Francesco sentì la gola
inaridirsi: trovava il luogo quantomeno inappropriato a un incontro
come quello che l’attendeva. Giorni addietro aveva ricevuto una
breve missiva, carica di disperazione. Era firmata da una donna, una
straniera maritata a un sanmarinese residente nella Repubblica di
Venezia che operava nel commercio dei pellami, disperata per le
condizioni in cui versava il marito. Il mercante era stato accusato di
frode e gettato nelle celle della risorta Serenissima, e lì
sarebbe marcito se il governo di cui l’uomo tesseva perennemente
le lodi, dove custodiva i propri ricchi averi e cui inviava regolari
tributi, non avesse mosso un dito per soccorrerlo. La costernazione
della moglie era talmente grande che Francesco, una volta verificata la
veridicità dei fatti, si era risolto a offrirle aiuto,
acconsentendo all’incontro privato dove chiarire ogni dettaglio
dell’intervento.
In particolare, il banchiere era
rimasto colpito da due elementi: il primo era la promessa di un
cospicuo deposito nelle casse dell’istituto da lui diretto, cui
sarebbero seguiti debiti contatti per l’apertura di
un’agenzia di credito ove ritenesse maggiormente fruttifero. Il
secondo era la veemenza con cui la sposa si rivolgeva a lui quale
intermediario con il Consiglio di Stato. Lui e non suo fratello,
Capitano Reggente della Repubblica. In più punti, la donna
ribadiva la necessità di appoggiarsi a una figura di fiducia del
consorte, un patrocinatore della causa, individuato dal detenuto nel
proprietario del Banco di Stato Sanmarinese, vista la sua
magnanimità e la rinomata capacità dialettica.
«Sarà davvero
così disperata o ci avrà ripensato?» si
domandò per l’ennesima volta Francesco mentre aguzzava lo
sguardo nell’oscurità.
Provava disagio per aver accettato
d’incontrarla in un luogo simile, attorno a cui ruotavano da
sempre storie di amori torbidi e clandestini. Le pagine dei giornali
erano zeppe di articoletti a riguardo, supportati da indizi più
o meno attendibili. Sperava di non divenirne protagonista suo malgrado:
dalla nascita della bambina si era allontanato dalla famiglia per una
serie disastrosa di congiunture lavorative che l’avevano
obbligato a trattenersi spesso in ufficio fino a notte fonda. Sarebbe
stato fin troppo semplice travisare le cose. D’altra parte, le
spie di Venezia avevano orecchie ovunque e la donna non poteva
permettersi che la sua richiesta d’aiuto oltrefrontiera venisse
udita e ostacolata.
Una figura snella e sottile si stagliava contro le pietre fredde.
«Madame?» chiamò, incerto se si trattasse della sua ospite o di qualcuno a suo nome.
La sagoma si mosse in un cenno d’assenso. Era lei.
Ansimando come un treno per la corsa, Francesco le si avvicinò.
«Madame, le chiedo perdono per il deplorevole ritardo. Purtroppo questo luogo non sembra adatto…»
Le parole gli morirono sulle labbra,
mentre seguiva la mano della donna scostare un poco i lembi del
mantello mostrando un volto pallido e macilento, dai contorni spigolosi
e affilati, selvatici. Tentò di nascondere lo smarrimento che
provava riprendendo il discorso.
«M-madame… ho… ho
preso visione d-del vostro caso e… e posso garantirvi che
f-farò il possibile…»
La mano si mosse nuovamente, passando
fulminea dal cappuccio al volto di Francesco. Era ruvida e calda, le
unghie tanto lunghe da graffiare la guancia del banchiere. La
sgradevole sensazione di quelle dita lo fece incespicare nelle parole
ancor di più.
«D… di…
dicevo… s-sarà mia p-premura esporre ogni c… ogni
cosa al Consiglio p-per… perché si… si giu-giunga
alla… alla liberazione di… di vostro marito, un…
un c-così illustre… il-lustre c-cittadino…»
La donna annuì, tetra. Il suo
silenzio pesava come roccia e fece temere a Francesco che le sue parole
fossero intese solo come una vana speranza. O che fosse già
troppo tardi.
Lei si nascose rapida tra le ombre,
mettendo in allarme Scarito che si guardò attorno in cerca di
curiosi o spie. La donna ne approfittò per dargli una spinta
violenta che, oltre a fargli dolere una spalla, per poco non lo
mandò lungo supino nella polvere. Francesco rimase a fissarla
inebetito dal colpo mentre scivolava dietro il Montale, slacciando il
mantello che cadde a terra, disegnando un’indicazione che il
banchiere seguì spaventato.
Fece il giro attorno al pinnacolo,
inseguendo fruscii, abiti e ombre, fino a quando non ebbe
l’impressione di aver perso l’orientamento.
«Madame?» chiamò con la voce rotta dal panico.
Rami spezzati.
Ansiti bestiali.
Pietre che ruzzolavano.
«Madame!» gridò, inciampando in una radice.
Occhi tondi e gialli dardeggiarono
nell’oscurità, comparendo e scomparendo tra il fogliame
nero. Francesco deglutì a vuoto, arretrando di un passo.
«Ma che splendida immagine di cavalleria» lo canzonò una voce, che si accompagnava battendo le mani.
Onofrio Leonardelli, Capitano
Reggente insieme ad Antonio, apparve ai piedi del Montale. Era un uomo
basso e grassoccio, con la faccia tonda contornata da una barba ispida
e scura. I pochi capelli disegnavano un alone impreciso sulle tempie,
mettendo in evidenza la prematura calvizie. Il ventre prominente era
contenuto a stento dal panciotto, non solo a causa della cena
luculliana di poco prima. Si appoggiava ad un bastone a stantuffo, che
ammortizzava l’impatto della flaccida stazza con tonfi grevi.
Ma non appartenevano a lui le iridi
dorate e fameliche: l’animale balzò fuori dai cespugli
dove la donna era scomparsa poco prima, mostrando una mole gigantesca e
zanne ferali. Il dorso inarcato era coronato da una cresta di peli
ispidi, irti come aculei. Le zampe lunghe e nervose terminavano in
artigli lunghi e ricurvi che tracciavano solchi netti nel terreno duro.
Dal muso allungato prorompevano bassi latrati e respiri rapidi,
eccitati. Da predatore in caccia.
Non era difficile intuire si
trattasse di un lupo mannaro: c’era qualcosa nella ferocia del
suo sguardo che non aveva assolutamente nulla di animalesco. Per
assurdo, ricordava la lucida consapevolezza di un assassino, di una
mano umana armata per sottrarre vite altrui.
Francesco tentò di
allontanarsi, ma quello, con un balzo, gli sbarrò la strada. Si
volse indietro, trovando il governatore immobile dov’era apparso.
Onofrio scosse la testa, gravando con tutto il peso sul bastone da passeggio che protestò cigolando.
«È una faccenda curiosa,
se me lo permetti. Meglio che nessun altro sappia della nostra
conversazione e della presenza della… signorina» rispose
ironico, additando la creatura e camminando a capo chino come se
cercasse qualcosa tra le pietre che sporgevano dal terreno.
Osservandolo, Scarito non poté
non pensare a quanto somigliasse a un grasso tacchino tronfio e
borioso. Persino i pensieri che gli si dipingevano sul volto sembravano
renderlo più sgradevole del solito. Le sue riflessioni furono
interrotte da una brusca testata alla schiena e lo fece cadere prono.
Pietre aguzze gli si piantarono nello stomaco e nelle ginocchia.
«Dimentica la tua proposta
d’aiuto, Francesco. E vedi d’accettare di buon grado quella
che sto per farti io. Risparmierai molte grane ad entrambi».
Francesco si limitò ad
aggrottare la fronte, ancora preso dal disperato tentativo di respirare
e contemporaneamente di trovare una spiegazione alla presenza di
entrambi in quel luogo appartato.
Onofrio cominciò a parlare,
portando le mani dietro la schiena. Così facendo ricordava i
ritratti dei predecessori alla carica, appesi nella galleria del
Palazzo Pubblico2 appena ultimato. Francesco non poté
notarlo: le fauci del licantropo si erano chiuse come una tagliola
attorno al suo ginocchio sinistro, facendolo urlare. Le zanne erano
penetrate a tal punto che poteva sentirle graffiare le ossa.
«La politica è un affare
subdolo e crudele, che difficilmente ammette bontà e purezza
d’intenti» declamò Onofrio. «Carità,
onestà, senso di responsabilità, buonafede,
moralità… eccellenti caratteristiche, che però non
si sposano affatto con il mondo spietato in cui operiamo. Specialmente
se si cerca di instillarvele restandone al di fuori».
Scarito non riusciva a spianare le rughe di perplessità e sofferenza che gli solcavano la fronte.
1 Il Montale: terza rocca di San Marino, costituita da una singola torre di avvistamento. Fu usata anche come prigione.
2 Palazzo Pubblico: sede del governo di San Marino, costruito tra il 1884 ed il 1894.
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Capitolo 3 *** III ***
De ore turris - III
III
Ore 00:59
Il Montale
«Che stai
cercando di dire? Dove vuoi arrivare?» rantolò,
combattendo contro le fitte causate da una zampa che gli schiacciava la
mano sinistra.
«Ti sto dicendo che devi farti da parte, Francesco. La tua presenza intralcia i piani della Repubblica».
Occorse quasi un minuto, prima che le parole del Capitano venissero assimilate dall’interlocutore.
«Ma
che… diamine vai b-blaterando? Qu… quali piani?»
strillò, pungolato dagli strattoni con cui il licantropo gli
squarciava la coscia a poco a poco.
«Sai perfettamente di cosa parlo. O vorresti farmi credere che Antonio non te ne abbia fatto alcun cenno?»
In quel momento,
accecato dal dolore, il banchiere ricordò. Leonardelli parlava
di un possibile scontro con il Granducato di Toscana; uno scontro non
solo burocratico ma anche militare, per l’acquisizione dei
territori oltre i borghi di Chiesanuova, Acquaviva e Gualdicciolo.
Quella storia andava avanti da anni e di recente aveva teso ad
inasprirsi per via di alcune infelici uscite dell’Ambasciatore
sanmarinese presso varie sedi istituzionali, dove aveva rivendicato il
possesso di quelle terre da parte del Monte Titano.
Antonio si era
detto preoccupato della cosa ed era quasi sicuro che dietro le parole
di sfida del delegato ci fosse lo zampino di Onofrio.
«Le terre…» tossì.
Non si accorse
del sangue che gli colava dalle narici e dalle labbra, a differenza del
lupo mannaro che si posizionò sopra la sua schiena per poter
leccare la leccornia che stillava dalle ferite.
«Non parlo
solo di questo – che pure è un argomento alquanto
interessante -, ma anche della possibilità di modificare lo
statuto della Repubblica, rendendo ereditaria la carica di Capitano
Reggente» precisò l’altro, aggiustando la presa sul
bastone tra mille scricchioli e fischi.
«Il…
il n-nostro go-governo si… è sempre retto su più
spalle... pe… per e-evitare la comparsa… di despoti e
tiranni. S-San Ma-Marino non…» sbraitò, subito
interrotto da un morso al costato che gli mozzò il respiro.
«Lascia perdere quelle storie, non sono un marmocchio» sibilò Onofrio.
«Nes…
suno t-ti da… darà corda… n-nessuno… in
t-tutto il Co… nsiglio s-sarà m-mai d’accordo
s-su… una… simile mo-mod-difica, né
t-ta-tantom-meno su… una guer-ra col Granducato!»
riuscì a gridare, prima che un nuovo strattone gli mettesse a
nudo le ossa del dorso e tramutasse in rantoli le parole.
«Ti sbagli, Francesco. Oh, come ti sbagli» lo canzonò, appoggiandosi con le spalle alla torre.
«N-on
i… incarni lo sp-spirito della R-Repubblica!» pianse,
nell’attimo esatto in cui degli artigli sprofondarono nel
polpaccio.
Il sangue zampillò ovunque come una macabra fontana.
«Sbagli
anche qui. Sono stato eletto per volere di molti. O meglio, per volere
dei molti denari che ho dovuto sborsare per convincere i consiglieri e
chi mi ha sostenuto dal basso».
Francesco tossì, spargendo altro sangue nella polvere. Il buio si addensava nei suoi occhi.
«Non dirmi
che non lo sospettavi. Non sono la gran brava persona che tutti vendono
in quell’inetto di tuo fratello, così buono, così
generoso. Così dannatamente ligio alla storia e alle
tradizioni» sputò disgustato. «È ora che le
cose cambino. San Marino deve poter competere realmente con le grandi
potenze europee e per farlo ha bisogno di una figura forte al suo
comando. E di certo, non parlo di tuo fratello né di te. Vedi,
se fossi stato tu a essere eletto, le cose non sarebbero cambiate
molto. E poco importa se sto infrangendo le leggi sull’ingresso
dei licantropi nella Repubblica. Dopo tutto, all’alba sarò
il solo ad essere a conoscenza di questo strappo alla regola»
sogghignò.
Con un breve
ululato, la creatura si avventò di nuovo sul corpo,
strappandogli un gemito soffocato. Le zanne apparivano e scomparivano
nella carne, aprendo solchi e voragini scure e umide.
«Vedi,
Francesco, io non sarò stato eletto per meriti miei, ma lo
stesso vale per Antonio: è stato eletto perché è
tuo fratello, non per qualità autentiche. Il Consiglio guardava
a te mentre sceglieva la sua candidatura. Sanno che non hai mai voluto
invischiarti nella politica, che preferisci la tua banca, esattamente
come sanno che quel beota pende dalle tue labbra, che ascolta solo i
tuoi suggerimenti e che gran parte dei suoi discorsi e delle sue
proposte sono farina del tuo sacco. Non c’è uno solo tra
quei burocrati impomatati che non si stenderebbe a terra al passaggio
del grande e potente Francesco Scarito. Senza contare che qui, a San
Marino, una grossa parte dell’economia si regge sulle tue
proprietà e sui tuoi investimenti. Nessuno darebbe contro a chi
può affamarci. Ma non temere: quando sarai sparito,
rileverò tutto io. Non lascerò invenduto un solo briciolo
delle tue proprietà perché, sai, è questo
ciò che accade quando uno di noi sceglie l’esilio a
seguito di un crimine. La legge è chiara: le proprietà
vanno all’asta e i parenti possono intervenire solo in minima
parte nell’acquisto, per garantire a tutti i cittadini la
possibilità di aggiudicarsi un brano dell’altrui
fortuna» spiegò, citando alla lettera le norme sulle
compravendite. «Per tutti sarai fuggito lontano con una donna
misteriosa, in barba alla tua immagine di marito e padre devoto che,
beh, lo abbiamo visto poco fa, è comunque una finzione.
Sembrerà che tu sia sparito dalla circolazione con la tua nuova
fiamma, saranno ritrovate sordide lettere d’amore che ho
provveduto a nascondere nei tuoi archivi, accrediti illeciti dal fondo
di Stato, lettere di cambio, fatture di preziosi e regali. Avrai ucciso
anche il vecchio Conte Baldi, tuo padrino e caro amico, che provava a
farti rinsavire ma che tu, ottenebrato dalla gelosia, hai ucciso
credendolo un rivale. Non mi dilungherò nei dettagli
dell’omicidio per bocca di un tuo feroce mastino, dubito che le
storie di altri morti possano interessare ad un morto».
Scarito non aveva ascoltato le sue ultime parole: la vita gli era sfuggita di dosso come un abito troppo largo.
«Ottimo lavoro, Ozana» commentò, scrutando senza orrore o sdegno il cadavere dilaniato.
Il lupo si volse
digrignando i denti insanguinati. Persino nell’oscurità
era possibile distinguere l’alone scarlatto che li avvolgeva in
un liquido sudario.
L’animale
avanzò verso di lui, il pelo irto sulla schiena. Le zampe
lasciavano impronte umide nella polvere. Quando fu a pochi passi
dall’uomo si drizzò sugli arti posteriori, gettando
indietro il muso. Dopo un attimo, durante il quale parve che la
creatura stesse fiutando l’odore della luna, la testa ricadde
all’indietro sulle spalle.
Con un guizzo,
il lupo si rimpicciolì. Le zampe lasciarono il posto a braccia e
gambe, il mantello alla pelle. Dal fisico asciutto e nervoso emergevano
le linee nette delle ossa. I capelli erano lunghi e ricadevano in una
scura cascata sul suo viso e sulle spalle spigolose. Aveva mani lunghe
e sottili, percorse da tendini talmente robusti da dare
l’impressione fossero solcate da condotte in miniatura.
Poteva non
essere la donna più desiderabile e conturbante del mondo, ma
Ozana Sadoveanu era nota nelle gendarmerie d’Europa col
soprannome di Lupoaică1, probabilmente non molto fantasioso
ma prossimo alla realtà. Aveva fatto dell’antica e
blasfema tradizione magica di famiglia il proprio mestiere, arrivando a
essere considerata la più spietata assassina del continente.
Poter usufruire dei suoi servigi era tanto difficile quanto esoso,
ciò nonostante Onofrio era certo che un gruzzolo di denari ben
spesi valesse il potere e il prestigio che ne sarebbero derivati.
«Tu no
chiama mio nome. Tu sa che no può fare. I proibito»
ringhiò la donna, pulendosi le labbra sul braccio.
Il sangue le imbrattava le mani, il volto e il petto, rimarcandone l’estrema magrezza.
«So cosa
posso o non posso fare» replicò lui, secco. «Tu
piuttosto. Non hai ancora finito» rimbrottò severo,
indicando il Montale.
Lei
guardò la merlatura che si confondeva col cielo notturno. Un
sorriso perfido le tese le labbra mentre inclinava appena il capo verso
il cliente.
«Se tu chiede come deve, io fa. No problema».
Onofrio
sbuffò per la ridicola perdita di tempo, ma decise di stare al
gioco. Dopo tutto, aveva pur sempre una spietata assassina di fronte a
sé, che sicuramente fiutava la presenza nelle sue tasche del
compenso pattuito e di qualche prezioso gingillo che si portava
appresso. Incentivarla a ottenere degli extra non faceva parte del suo
piano.
«Signorina
Lupoaică, potrebbe per cortesia far sparire quell’orrore come
pattuito?» domandò inchinandosi goffamente.
«Tu sa
come si parla a donna, signore Capitano» replicò
soddisfatta Ozana, passando una mano sul seno minuscolo, in un gesto
che sarebbe voluto apparire sensuale.
Riuscì solo a renderla più raccapricciante, trascinando il sangue fin sul ventre scavato.
«Tu conosce il potere. Tu conosce suo… sapore» soggiunse con un basso latrato mentre si leccava le labbra.
«Signorina,
la notte corre più delle sue zampe. Vorrebbe…»
insistette Onofrio, indispettito dall’imprevisto ritardo.
Era quasi la una
del mattino ed entro breve sarebbe partito il giro di ronda della
gendarmeria. Doveva allontanarsi al più presto, se non voleva
far vacillare il piano.
«Cu plăcere2» latrò sommessa la donna.
Il muso del lupo
tornò a coprirle il volto e in pochi attimi l’enorme
bestia era tornata ad accovacciarsi a terra, accanto al cadavere di
Scarito. Le mascelle schioccarono di nuovo, questa volta con
l’intento di racchiudere con una presa possente le carni
martoriate.
1 Lupoaică : lupa in rumeno.
2 Cu plăcere: con piacere in rumeno
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Capitolo 4 *** IV ***
De ore turris - IV
IV
Ore 01:09
Salita al Montale1
Onofrio rifletteva sugli eventi che aveva tessuto e a cui aveva assistito.
Con un’agilità sorprendente, la forma animale di Ozana
aveva scalato le pareti della Torre Montale, portando penzoloni tra le
fauci il corpo esanime. Aveva infilato le zampe nelle buche pontaie che
un tempo erano servite per realizzare le scale provvisorie che
conducevano alla sommità della torre, issandosi con la stessa
sicurezza con cui si muoveva tra gli alberi. Di tanto in tanto, stille
di sangue erano precipitate a terra, tingendo le ginestre e le ortiche
di una patina tetra e luccicante.
Onofrio si era limitato a seguire distrattamente le operazioni di
occultamento, più interessato a crogiolarsi nei primi sbuffi di
piacere che la caldaia della sua anima stava emettendo. Non aveva
cercato la smorfia d’orrore che gli presentava il trapassato
sopra la sua testa, disgustato dai cordoni intestinali che pendevano
nel vuoto come macabri festoni, dall’alone violaceo delle sue
labbra e dalla vacuità del suo sguardo. Uno sguardo che trovava
ironicamente simile a quello che l’uomo aveva avuto in vita.
Alla sommità della torre, la licantropa aveva sfondato la
porticina di legno che dava sull’interno, facendo piovere pezzi
d’ingranaggi rugginosi e schegge di legno. Aveva scaraventato
all’interno quel che restava di Scarito, richiudendo
l’uscio alla bell’e meglio. La prigione era in disuso da
decenni, nessuno avrebbe prestato attenzione alle condizioni
dell’ingresso.
Dalle mura di pietra grigia non era emerso alcun suono quando il
cadavere era piombato sullo strato di ragnatele e sporcizia in fondo al
pozzo.
Raggiunta la Testa del Gigante, Onofrio si fermò. Da sotto la
giacca estrasse uno spesso fascio di banconote e alcuni documenti di
cambio. La donna lupo li cacciò a forza sotto al corsetto,
accompagnata da un sorriso maligno.
Le campane suonavano la una del mattino. I sibili dei meccanismi di
rotazione sottolineavano con stridente cupezza lo scorrere della notte.
Ripulitasi sbrigativamente del sangue, Ozana aveva indossato abiti da
viaggio semplici e dimessi, che la facevano somigliare a una delle
tante donne di servizio delle dimore gentilizie della Repubblica.
Nessuno le avrebbe prestato attenzione, vedendola camminare per strada.
«Bene, signorina. Direi che questo è un “a mai
più rivederci”» salutò Leonardelli,
aggiustando con calma il panciotto.
La rumena annuì, prendendolo sotto braccio e sfiorandogli il volto paffuto con le dita.
«Vreau sa fac dragoste cu tine. Si mananca atunci inima ta, prost săraci. Nu sunt sigur ce să se aştepte2» aggiunse strusciandosi contro di lui con voce bassa e languida.
Il Capitano la allontanò freddamente, quasi temesse di contrarre
chissà quale malanno dalla pelliccia ruvida e scura che portava
avvolta attorno alle spalle. Sapeva dalle cronache che, dopo aver
portato a termine i suoi lavori, Ozana soleva sfogare le ultime vampe
animalesche nel letto di qualche malcapitato senza arte né parte
che, inevitabilmente, il giorno successivo sfiorava la morte per
crepacuore scoprendosi suo occasionale amante. Preferiva non rientrare
nel suo nutrito carnet.
«A mai più rivederci, signorina» ripeté sbrigativo, indicandole la via.
La donna storse il naso, a metà tra l’indispettito e il sarcastico.
«Sì, sì, mai più, mai più… La revedere3, Ca-pi-ta-no» scandì avviandosi.
Leonardelli rimase a guardare il sicario imboccare il ripido sentiero
mangiato dai rovi e dall’oscurità. Di lì sarebbe
scesa fino ai piedi dello strapiombo, svanendo entro la mattina
seguente dai confini della Repubblica, portando con sé il suo
carico di segreti e sangue.
Contemplò il dondolio delle fronde al passaggio della donna,
finché questa non scomparve dietro le rocce a picco come
ricciolo di vapore. Pregustava compiaciuto i futuri sviluppi del piano.
Prima si sarebbe sparsa la voce della sparizione di Scarito, poi
avrebbero cominciato a emergere dicerie sul suo conto, qualche
dettaglio scabroso sul suo rapporto con una donna misteriosa, le
lettere, parole proferite casualmente dal Conte e via dicendo, fino a
costruire un castello di maldicenza attorno alla figura di Francesco.
Ciò avrebbe screditato il fratello il quale, ormai privo di una
guida, sarebbe stato incapace di gestire le bordate che sarebbero
giunte da parte sua e dai suoi sostenitori. In breve, la riforma
ereditaria sarebbe diventata legge, ponendo le basi di una nuova
dinastia europea.
Tutto secondo i piani elaborati per molte notti.
Tutto preciso come gli ingranaggi di una macchina ben oliata.
Tutto perfetto.
O quasi.
Onofrio non poteva sapere che ai piedi del monte, Antonio Scarito attendeva Ozana e le notizie che portava.
La donna lupo procedeva rapida sul sentiero, pregustando la generosa
ricompensa fornita dal secondo Capitano, di gran lunga più
interessante di quella appena ricevuta: oltre ad una lauta ricompensa
in documenti di cambio, l’attendevano anche un’automobile
con riserve di acqua e carbone sufficienti per raggiungere nottetempo
la costa adriatica e le vigorose grazie di un garzone del forno di Via
Basilicius, che lei stessa aveva scelto come compenso suppletivo per il
doppio gioco perpetrato.
Ozana non amava quel tipo di espedienti – era troppo alto il
livello d’incertezza -, preferiva un classico omicidio, schietto
e pulito, senza complicanze di quel genere, ma doveva ammettere che
dietro l’aria dimessa e sciatta di Antonio aveva potuto percepire
un’intelligenza vivida e acuta, un desiderio di potere torbido e
imponente, la scaltrezza di un’autentica macchina da politica.
Leonardelli faceva la voce grossa ed era preda dei propri istinti:
nessuna delle trame da lui ordite avrebbe potuto concretizzarsi
finché il giovane Scarito fosse stato in circolazione. Sarebbe
stato importante soddisfare a puntino quel cliente: aveva il sospetto
che avrebbe potuto riceverne ulteriori incarichi.
Antonio intanto controllava distrattamente che la porzione carnale del
compenso continuasse a dormire beata sul sedile posteriore della
Landaulette. Per un incredibile colpo di fortuna, il garzone non era di
turno quella notte e aveva deciso di brindare ai colleghi bevendo come
una spugna nel retro del ristorante dove il Consiglio aveva cenato.
Offrirgli un passaggio era stato facile, fare in modo che accettasse di
tener compagnia a una donna sola e bisognosa di calore maschile ancora
di più.
Già da prima della loro investitura, Antonio teneva
d’occhio il collega, di cui apprezzava l’ambizione ma
deprecava i modi. Si era prodigato per verificare ogni possibile voce a
suo carico, ogni indizio. Il che non si era rivelato troppo difficile,
poiché Onofrio, per quanto abile, aveva coinvolto troppe persone
nel suo piano, perché non arrivasse il momento in cui una dietro
cortese – ed economicamente cospicua - sollecitazione,
cominciasse a riferire quanto sapeva. Mettere insieme i tasselli era
stato semplice. Quando aveva scoperto che le trame di Onofrio passavano
dalla morte di Francesco, si era sentito di riconoscere
all’omologo un merito importante: quello di mettergli a
disposizione una scusa per accaparrarsi l’ingente patrimonio, cui
solo il primogenito avrebbe avuto accesso. Eliminato l’erede
originario, nessuno si sarebbe potuto opporre alla successione.
L’indomani tutta San Marino si sarebbe svegliata con un banchiere
benemerito e un Conte uccisi brutalmente ed un governante
accusato dell’omicidio con prove schiaccianti, dalle
testimonianze dei falsari che avevano scritto lettere e documenti, alle
evidenti tracce di sangue che Ozana aveva badato a lasciare sui suoi
abiti, alla confessione dell’autista di Francesco, pagato da
Leonardelli per diffondere per primo le maldicenze sul padrone. I
gendarmi avrebbero persino scoperto un incolpevole mastino legato e
ucciso a bastonate nelle scuderie di Onofrio, con brandelli delle vesti
del Conte fra i denti.
E lui, che in quel momento si trovava ai piedi di ogni cosa, nascosto
dietro al velo delle buone maniere e della rispettabilità come
dalle tenebre del bosco, sarebbe assurto agli onori delle cronache.
Avrebbe mostrato grande contrizione per gli eventi, dolore per la
perdita del fratello, inflessibilità nel giudicare il proprio
pari secondo le leggi vigenti, autorevolezza nel guidare la Repubblica
e coraggio nel sobbarcarsi da solo i compiti di due Reggenti a quattro
mesi dal termine della carica.
Quattro mesi. Il tempo che Onofrio aveva contato di impiegare per
rendere effettiva la legge sull’ereditarietà della carica.
Doveva ringraziarlo per aver pensato così a lungo termine:
grazie al suo piano male in arnese, a lui ne sarebbero serviti al
massimo due. Il Consiglio non avrebbe mai ammesso il ripetersi di
simili circostanze e avrebbe accettato la sua proposta senza problemi.
Onofrio, che aveva appena raggiunto la Cesta4, guardò l’orologio da taschino.
Antonio, molti metri più in basso, fece altrettanto.
L’una e sedici minuti.
Entrambi in orario per realizzare ogni progetto.
1 Salita al Montale : sentiero di collegamento tra la Cesta e il Montale.
2 Vreau sa fac dragoste cu tine. Si mananca atunci
inima ta, prost săraci. Nu sunt sigur ce să se aştepte.: Voglio fare
l’amore con te. E poi mangiarti il cuore, povero stupido. Non sai
cosa ti aspetta.
3 La reverde: addio.
4 Cesta: seconda rocca di San Marino.
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