Bring me back to life

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Parte 1 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Parte 2 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Parte 1 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 - Parte 2 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 32: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


PARTE I

 

Capitolo 1

 

Volteggiò sulla sua poltrona di pelle nera e si picchiettò delicatamente la matita sulle labbra rosate.

Del tutto all’improvviso si alzò e chiuse le veneziane tirando la cordicella con uno scatto brusco. Nell’oscurità del suo ufficio abbassò lo schermo del suo laptop, che infilò nella sua borsa a tracolla, e poi uscì sbattendosi la porta alle spalle. La chiuse con una mandata di chiave e rimase per un secondo di troppo ad osservare ciò che c’era scritto sul vetro zigrinato incastonato nel legno: Mitch Schneider Investigations.

Fu solo un attimo, ma abbastanza per farle ricordare suo padre, ciò che era diventata per lui e il motivo per cui faceva il suo lavoro. Ovviamente, come ormai accadeva da due mesi a quella parte, un nodo le strinse la gola pensando all’ultimo “caso” che aveva accettato.

Scacciò quei pensieri dalla mente e trotterellò giù dalle scale dell’edificio, tenendosi saldamente al corrimano di legno con una mano. Salutò il portinaio con un cenno del capo, senza sbottonare nemmeno un sorriso, quindi saltò sul suo fuoristrada grigio gettando la tracolla sul sedile del passeggero.

Stare alla guida la rilassò, tanto che le venne anche un certo languorino. Si fermò al solito Starbucks e prese due caffè, il suo con un pizzico di vaniglia, e un paio di brioches. Tornò in auto e guidò ancora per una decina di minuti, poi parcheggiò nei pressi degli studi di registrazione della Cherry Tree Records.

Si tolse la cintura di sicurezza e tirò un po’ indietro il sedile per poter posare i piedi ai lati del volante, poi prese il suo caffè ancora caldo e ne bevve un sorso, sentendosi immediatamente più rilassata. Il caffè per lei era come una droga e non era l’unica ad avere quella strana patologia, a quanto aveva scoperto.

Accese il suo laptop, intercettò il segnale delle microspie audio e video che aveva piazzato nell’edificio qualche mese prima e sullo schermo apparvero quattro riquadri che le mostrarono in simultanea tutto ciò che stava avvenendo nello studio di registrazione, nella sala mixer, nella sala riunioni e per concludere nelle vicinanze della macchinetta del caffè, il posto più ingegnoso in cui si potesse mettere una cimice. Luogo perfetto per fare due chiacchiere e lasciarsi andare, no? Grazie a questo piccolo espediente aveva raccolto molte informazioni interessanti.

Mentre guardava ed ascoltava tramite un auricolare, sperando che dicessero qualcosa di succulento, mangiò la sua brioche immergendola ogni tanto nel caffè. Una volta finita, non resistette e sbocconcellò anche un angolo dell’altra.

Non era il suo giorno fortunato: quella era proprio una di quelle mattinate piatte in cui quei quattro non facevano altro che dondolarsi sulle sedie e sbadigliare, a corto di ispirazione; per cui si concesse di distrarsi e si perse ancora una volta nei suoi pensieri: perché aveva accettato quel caso? Un caso che in fondo non poteva essere definito tale, perché lei non era pagata per indagare, o meglio… sì, però non era appagante come lo era per esempio confutare od accertare un tradimento. Lei era pagata per seguire ed osservare un’unica persona, tutto il santo giorno, e per riferire ogni cosa che vedeva e sentiva alla sua cliente – persino quante volte l’aveva visto fumare le sue amate sigarette. Che poi… facesse qualcosa di davvero interessante, quel benedetto Tom Kaulitz!

Ridacchiò mentre si puliva la bocca con un tovagliolo di carta. Stava proprio iniziando a credere che avesse dei superpoteri: ogni volta che pensava il suo nome lui aveva la straordinaria capacità di percepirlo.

Lo vide alzarsi dalla sua sedia di pelle nera, stiracchiarsi e dire al fratello gemello e ai suoi due amici: «Vado a fare due passi», per poi uscire dalla stanza.

Spostò lo sguardo sul riquadro che mostrava i dintorni della macchinetta del caffè e lo vide passare per il corridoio, con le mani in tasca. Dopo qualche minuto alzò lo sguardo dal laptop e lo vide uscire dall’edificio spingendo in avanti la porta a spinta, lasciarsela alle spalle e, adocchiando il suo fuoristrada, andarle incontro.

La ragazza non riuscì a ricacciare indietro un’altra risatina, perché notò che aveva ancora la stupida fissa di guardarsi le spalle per essere certo che nessuno lo seguisse, quella che gli aveva inculcato lei quando aveva fatto lo stupido errore di farsi scoprire proprio da lui, colui che non avrebbe dovuto nemmeno accorgersi della sua presenza.

Ricordava ancora perfettamente la prima volta in cui si erano parlati.

Si era appisolata un momento, uno soltanto, e proprio allora Tom e compagni erano usciti in giardino per una pausa sigaretta. Aveva la bruttissima abitudine di dormire spesso e volentieri a bocca aperta e anche quella volta non era stata da meno, tanto che i Tokio Hotel – così si chiamava la loro band – si erano chiesti se stesse semplicemente dormendo o se fosse morta.

Tom successivamente le aveva raccontato che avevano fatto la conta per decidere a chi toccasse scoprirlo e lo sfigato di turno era stato lui. Così si era avvicinato al fuoristrada e con un po’ di reticenza le aveva bussato al finestrino, facendola svegliare di colpo.

Appena lei lo aveva visto così da vicino aveva pensato che era davvero carino, poi si era ricordata del fatto che sarebbe dovuta rimanere un fantasma nella sua vita e allora tutti i suoi progetti erano andati in fumo, poiché la sua copertura era saltata: se l’avessero vista un’altra volta nei paraggi si sarebbero insospettiti e addio caso, anche se dopotutto non le sarebbe dispiaciuto così tanto, se solo non fosse stato per i soldi che quella ragazzina milionaria le dava ogni settimana per abitare nel suo fuoristrada, praticamente.

I soldi… era per quello che aveva accettato quell’incarico; se suo padre l’avesse vista sarebbe stato profondamente deluso, ma suo padre non aveva mai capito che i soldi, almeno un pochino, facevano la felicità.

Comunque, non era andata come aveva previsto, perché alla ragazzina non importava che l’avesse scoperta. Anzi, ancora meglio se aveva un contatto diretto con lui! Voleva assolutamente sapere in tempo reale che cosa facesse il suo idolo, il suo amore platonico.

Così era tornata ancora a spiarlo, anche se scettica, e si era messa apposta in una posizione in cui l’avrebbe facilmente notata, per accontentare quella ragazzina viziata.

Il chitarrista, come previsto, era andato da lei a chiederle che cosa volesse e perché continuasse ad appostarsi lì fuori. Alla domanda: «Sei una stalker?», lei aveva detto di sì, troppo legata alla segretezza professionale.

Tom aveva fatto solo finta di crederci: insomma, non somigliava affatto ad una stalker! Ma non le aveva più fatto domande, non sembrava nemmeno che gli importasse, fino a quando, appunto, non gli aveva sbattuto in faccia che se quel giorno non si fosse addormentata lui non si sarebbe accorto di lei e chissà per quanto tempo avrebbe vissuto nella beata ignoranza.

Da quel giorno Tom aveva iniziato a guardarsi le spalle, quasi in maniera ossessiva, tanto che non se ne rendeva nemmeno più conto, e nonostante fossero passate settimane, non si era ancora liberato da quella fissa.

Chiuse il laptop e lo mise di nuovo nella sua borsa a tracolla, che sistemò sui sedili posteriori; impostò su REC il suo piccolissimo registratore professionale, poi lo cacciò con nonchalance sotto il sedile del passeggero, come sempre. Per finire si portò sulle gambe la confezione di cartone in cui era infilato l’altro bicchiere di caffè.

Tom aprì la portiera e salì sul fuoristrada, si mise seduto comodo sul sedile accanto a quello della ragazza e le fregò subito il bicchiere di caffè dalle mani.

«Buongiorno anche a te», lo salutò lei aggrottando le sopracciglia: odiava i maleducati.

«Ciao Brooklyn», Tom ricambiò distrattamente il saluto ed aprì il sacchetto con la sua brioche, la tirò fuori e corrugò la fronte notando un angolo sbocconcellato. «Hai i ratti in questa carretta?».

«Primo, questo Mr. Fuoristrada non è una carretta. Secondo, non ci sono ratti; sono stata io».

Tom la osservò e scrollò le spalle prima di addentare la sua brioche.

«Vi tengono a digiuno là dentro?», gli domandò dopo qualche minuto di silenzio, nel quale l’aveva ascoltato masticare e bere.

«Hai smesso di farci le foto?».

La ragazza roteò gli occhi al cielo: lo odiava anche quando cambiava in quel modo argomento.

«Siete monotoni, dopo un po’. Quando cambierete pettinatura, allora può darsi che tornerò a farvi le foto. Ora dimmi se state lavorando a qualcosa di nuovo, rintanati là dentro».

«Mi ricordi perché sto dietro ad una come te?».

Si trattenne nello scaraventargli la fronte contro il portaoggetti. «Perché ti porto il caffè e la brioche tutte le sante mattine e perché ti do’ il permesso di chiamarmi Brooklyn – sai quanto odio questo soprannome».

Tom scrollò di nuovo le spalle e finì di bere il suo caffè. «Il tuo cognome è simile», disse.

Bröker. Per lui era Helen Bröker, non Grace Schneider. 

Quindi si voltò verso di lei con un sorriso raggiante. «Ora devo tornare al lavoro se non ti dispiace».

«Oh sì che mi dispiace», lo trattenne per un braccio e si portò un ciuffo di capelli neri dietro l’orecchio con fare sensuale, si avvicinò a lui e soffiò: «Avrai pure qualcosa che non so da svelarmi…».

Tom si leccò le labbra, guardando quelle di Grace, poi posò gli occhi nei suoi verdi. «Che cosa sai tu di me?».

«Non puoi nemmeno immaginare…», gli fece camminare due dita sul petto, «non puoi nemmeno immaginare quante cose io sappia di te».

Tom aprì la bocca per parlare, ma all’ultimo la richiuse e sogghignò. «Non mi conosci affatto».

Aprì la portiera ed uscì dal veicolo, lasciandola con un palmo di naso.

Grace lo guardò allontanarsi e quando si fu ripresa del tutto scese anche lei dal fuoristrada e gridò nella sua direzione: «E dai, Tom!».

Lui si voltò e la guardò con lo stesso sorriso beffardo. «Vedi, sei anche come quelle gomme da masticare: appiccicosa».

«Eppure continui a starmi dietro», lo rimbeccò con una punta di arroganza nella voce.

Tom tornò da lei e le sistemò dietro l’orecchio lo stesso ciuffo di capelli che era sfuggito alla coda scomposta che aveva sulla nuca, si piegò e con la bocca vicina al suo orecchio sussurrò: «Detto fra noi, Brooklyn… devi fare molto di più per conquistare uno come me. Da quanto tempo non fai sesso?».

Grace lo spintonò con forza e tornò a passo di marcia al suo fuoristrada, coi pugni stretti lungo i fianchi e ogni muscolo facciale contratto in un’espressione furiosa.

«Ehi, non te la prendere!», gridò Tom, con una leggera risata nella voce. Poi tornò serio: «È davvero da così tanto tempo che non scopi?».

Grace sbatté la portiera con forza e premette sull’acceleratore senza curarsi di Tom che era ancora in mezzo alla strada deserta. Frenò appena in tempo, a pochi centimetri da lui, e lo guardò truce, mentre lui aveva come minimo perso dieci anni di vita. Non doveva scherzare con lei, perché aveva già ucciso prima e non avrebbe esitato se gliene fosse capitata l’occasione.

Lui si spostò spaventato e lei sgommò via senza curarsi di quello che considerava un idiota ogni giorno di più.

 

***

 

Era certo che Helen non fosse né una stalker né tantomeno una groupie. La seconda ipotesi era assolutamente da escludere, non sapeva nemmeno perché l’avesse presa in considerazione!

Forse era così tanto attratto da lei proprio perché non sapeva chi era e cosa voleva da loro. Anche fisicamente non era male e il suo viso spruzzato di efelidi sembrava così delicato che anche la carezza di una piuma avrebbe potuto creparlo, per non parlare dei suoi occhi verdi che erano in grado di graffiare se la si faceva arrabbiare. Ma la sua identità e il motivo che la portava a trovarsi sempre dove c’erano loro erano qualcosa che l’attiravano ancora di più. Voleva scoprire tutto, ma… come?

Ormai aveva capito abbastanza bene che non era una ragazza facile, che se faceva una cosa era perché le faceva da tornaconto, che era più furba di quello che credeva. Helen era ancora una sconosciuta per lui, nonostante si vedessero quasi tutti i giorni da quasi due mesi. Non gli aveva mai parlato di sé e non sembrava nemmeno intenzionata a farlo. Chi era quella ragazza? Che cosa voleva da lui?

«Tom? Uh-uh? Ci sei?». Bill gli sventolò una mano di fronte al viso e si dimenticò per un istante tutte quelle domande che gli vorticavano in testa.

«Sì, scusami, mi sono distratto. Stavamo dicendo?».

Sulle labbra di suo fratello si disegnò un sorrisetto furbo.

«Stavi pensando ad Helen?», gli domandò, più interessato a quello piuttosto che al loro lavoro.

Tom si portò le mani sulla testa, puntando i gomiti sul tavolo, e sbuffò. «Che cosa vuole da me, Bill? Perché le sto dietro, invece di andare da un giudice ad accusarla di stalking? Perché alla fine è quello che sta facendo…».

«Nah», schioccò la lingua contro il palato. «Lei non è una stalker. Casualmente ovunque andiamo noi c’è anche lei, però non si comporta come una stalker: fino ad adesso non ci ha mai dato fastidio più di tanto».

«A me dà fastidio!», sbottò, arrossendo sul collo. «Mi dà fastidio che se ne stia tutto il giorno in auto ad aspettarci, mi dà fastidio che mi porti la colazione alla mattina, che cerchi di strapparmi di bocca qualche anteprima sul nostro nuovo album… Mi dà fastidio non trovare una motivazione per ciò che fa!».

Il frontman dei Tokio Hotel scrollò le spalle ed allungò le braccia sul tavolo lucido della sala riunioni, in cui si erano isolati per parlare un po’. Si guardò le unghie corte e scrollò di nuovo le spalle sospirando.

«Sta diventando un’ossessione, Tom».

«Sì, lo so», mugugnò ed abbassò lo sguardo. «E la cosa che mi dà più fastidio sai qual è?».

«Che lei sa moltissime cose su di noi, mentre noi non conosciamo praticamente nulla di lei», rispose come se fosse una filastrocca imparata a memoria, continuando ad ammirarsi le unghie.

«Esatto». Si appoggiò allo schienale e stirò le gambe sotto al tavolo, portandosi le mani sulla nuca.

«Forse dovrei fare come fa lei: seguirla e vedere dove abita, cosa fa…».

L’aveva buttata lì come un’idea sciocca, ma appena realizzò che poteva non essere del tutto una cavolata si tirò su con gli occhi spalancati e guardò il gemello, il quale aveva già capito tutto e aveva lo stesso sguardo incredulo.

«Vuoi farlo davvero?», gli chiese.

Tom sogghignò. «Perché no?».

 

***

 

Non si era laureata in giurisprudenza né aveva ottenuto la licenza di investigatrice privata per stare dietro ad uno come Tom Kaulitz. Proprio no.

Dopo quello che aveva osato dire quella mattina – la verità, perché era davvero una vita che non faceva del sano sesso – si era rifiutata di stare ancora lì, non le importava di quella ragazzina che avrebbe sicuramente fatto i capricci. L’aveva persino chiamata quel pomeriggio, seduta sotto l’ombra degli alberi del parchetto in cui suo padre la portava sempre a giocare.

«Non ne posso più di quel tizio», le aveva detto subito, senza nemmeno salutarla.

La ragazzina aveva riso di gusto, come se avesse detto la barzelletta più divertente del mondo.

«Non sto scherzando», aveva precisato allora, scocciata.

«Hai registrato tutto quello che vi siete detti?».

«Sì, in un modo o nell’altro sì», si era sfiorata la spilla d’argento che aveva attaccata alla maglietta: c’era una piccolissima microspia video e audio anche in quella; era il regalo che suo padre le aveva fatto quando aveva compiuto diciassette anni. L’ultimo regalo che le aveva fatto.

«Bene! Non vedo l’ora di vedere tutto!».

«Molly, davvero, io non voglio più continuare. Non mi sento appagata, io… non è per questo che sono diventata un’investigatrice privata».

La ragazzina finalmente sembrava aver compreso le sue ragioni e aveva sospirato.

«Okay, senti… mio padre oggi mi ha sequestrato la carta di credito perché ho speso troppo l’ultima volta che sono andata a fare shopping. Riesco a pagarti questa settimana di lavoro, ma non la prossima. Facciamo che te ne vai in vacanza, okay? Vedrai che ne sentirai la mancanza».

«Ne dubito. Ne dubito davvero».

Comunque, da brava ed onesta lavoratrice qual’era, poco dopo era tornata a seguire gli spostamenti dei quattro. Non che ne avessero fatti, di spostamenti: per carità, stavano tutto il giorno chiusi in quello studio di registrazione!

Aveva cambiato postazione, aveva nascosto il fuoristrada dietro i cassonetti dell’immondizia sul retro dell’edificio: l’odore non era ottimo, ma aveva una visuale perfetta della sala riunioni, la quale aveva delle ampie vetrate sulla facciata che dava sul giardino.

Aveva ascoltato un pezzo della conversazione intrattenuta dal management dei Tokio Hotel, Benjamin Ebel, col loro produttore più famoso, David Jost, e la loro promotion manager, Dunja Pechner.

Era stato interessante e a tratti divertente, soprattutto sentire i commenti e le battutine su quei quattro ragazzi che non avrebbero mai immaginato di essere soggetti così buffi, tanto da far scompisciare dal ridere. Adesso Grace avrebbe potuto prendere per il culo a vita quel simpaticone di Tom, ma facendolo avrebbe commesso un altro errore.

Peccato, aveva pensato schioccando la lingua contro il palato.

Aveva atteso pazientemente che i Tokio Hotel finissero di “lavorare” e quando erano usciti dall’edificio aveva tratto un respiro di sollievo: quella sera non dovevano andare da nessuna parte, a meno che i ragazzi non decidessero di fare qualcosa all’ultimo momento. Era quasi escluso, poiché il giorno seguente Gustav e Georg avrebbero dovuto prendere un aereo che li avrebbe riportati in Germania dalle loro fidanzate, come avevano concordato con i gemelli.

Appena vide Tom fiutò che aveva qualcosa in mente, perché non cercò il suo fuoristrada con lo sguardo, né fece salire suo fratello gemello sulla sua Audi. Che cosa aveva intenzione di fare?

Aspettò che si allontanasse, per ultimo dietro le auto dei suoi amici, poi Grace mise in moto a sua volta e lo seguì.

Tom fece la solita strada verso casa, ma del tutto all’improvviso svoltò a destra e Grace non riuscì ad essere tanto rapida; o meglio, avrebbe anche potuto, ma avrebbe sicuramente dato troppo nell’occhio. Così tamburellò le dita sul volante e si disse che l’avrebbe sicuramente recuperato se avesse svoltato alla prossima e poi fosse sbucata nella stessa via.

Si attenne al piano, ma quando si immise nella via che aveva preso il chitarrista non lo vide davanti a sé, bensì dietro. Lui l’aveva aspettata, sapeva che si sarebbe comportata così ed ora la guardava con un sorriso beffardo sulle labbra: ora era lui a seguire lei.

A che gioco stai giocando, Kaulitz?

Incrociò ancora il suo sguardo e sorrise nello stesso modo, forse anche un pelino più arrogantemente. In fondo le erano sempre piaciuti i giochi e quello che Tom le stava proponendo non era tanto male; peccato che lui fosse un poppante in quel campo, che stesse soltanto giocando a fare il piccolo investigatore, e sarebbe stato fin troppo facile vincere.

Non voleva umiliarlo, non amava mostrare troppo la propria bravura, e allo stesso tempo non voleva dargli troppa corda, anche se sarebbe stato divertente farlo uscire di testa girando sempre intorno allo stesso isolato. Così decise che la cosa migliore da fare era chiamare un amico che sicuramente l’avrebbe aiutata a levarsi dai piedi quel rompiscatole.

«Guarda, guarda! Che onore!».

«Ciao Dylan», ridacchiò. «Come te la passi?».

«Tutto nella norma. Tu? Non hai fatto altri danni, vero?».

«No, stai tranquillo. Sei in servizio ora, vero?».

«Certo. Stesso posto, come sempre».

«Giornata tranquilla?», gli domandò per precauzione: voleva far conoscere a Tom alcuni aspetti della sua vita – ovviamente senza farglielo sapere, – non traumatizzarlo.

«Nella norma. Vuoi venire a fare un giretto nell’Inferno della Città degli Angeli?», ridacchiò divertito.

«In realtà dovresti farmi un favore», sorrise.

«Qualsiasi cosa, tesoro».

 

Tom si guardò intorno e capì di essere nell’Eastside di Los Angeles. Non era un posto esattamente consigliato, perché Helen si era spinta fino a lì?

Si guardò intorno con un certo sospetto, notando gli occhi luminosi e allo stesso tempo affamati di alcuni ragazzini ispanici sulle loro biciclette sgangherate, i quali non perdevano nemmeno un dettaglio della carrozzeria e dei cerchioni scintillanti della sua Audi.

Perché si era messo in testa di seguirla?

Appena superò una vettura della polizia parcheggiata sul ciglio della strada, questa diede gas e lo seguì accendendo anche le luci blu e rosse sopra il tettuccio. Si spaventò immediatamente, credendo di aver fatto qualcosa di male, ma quando notò il sorrisetto più che divertito che aleggiava sulle labbra di Helen capì che lei c’entrava qualcosa. Le rivolse un’occhiata fulminante e la vide alzare una mano in segno di saluto, mentre si fermava ad un semaforo rosso, proprio come se volesse farlo soffrire di più. Si affacciò pure dal finestrino per godersi la scena, quella sfrontata!

Parcheggiò sul ciglio della strada ed aspettò che l’agente, sceso dal suo vecchio modello di Ford Crown Victoria, lo raggiungesse. Il poliziotto si chinò verso di lui per vedere gli interni dell’auto e gli rivolse un sorriso solare. Anche lui aveva origini ispaniche, doveva proprio essere messicano, considerato anche il suo particolare accento.

«Bell’auto! L’ha comprata qui o se l’è fatta arrivare dalla Germania? Perché le Audi sono tedesche, vero? Del ramo Volkswagen, no?».

«Sì», rispose Tom, attonito.

«Sì che cosa?», domandò l’agente, arricciando il naso e cercando di nascondere un sorriso divertito, mentre lanciava un’occhiatina a Grace, ferma ancora al semaforo.

Tom non si accorse di nulla e rispose: «… Le Audi sono tedesche e sono della Volkswagen».

«Oh! Oh, sì, lo sapevo. E se l’è fatta arrivare da là o l’ha comprata qui?».

«Beh… Ma questo cosa c’entra? Non mi avrà fatto fermare solo per chiedermi questo!».

Dylan parve pensarci su, passandosi le dita sul pizzetto nero. «E anche se fosse?».

«Mi scusi, ma io ho davvero molto da fare e se non c’è nulla che non va…», gettò una rapida occhiata verso il fuoristrada di Helen, «io andrei».

L’agente rimase a fissare la mora dagli occhi verdi mentre rientrava del tutto nell’abitacolo ed alzava un po’ il volume della radio. Riusciva a sentire la musica persino da lì.

«Oh, ho capito», mormorò.

«Grazie», sospirò Tom. «Posso andare?».

«Ho capito! Lei sta inseguendo quella ragazza!», lo accusò puntandogli un dito contro, facendolo sbiancare. «Lo sa che lo stalking è un reato?».

Tom sbarrò gli occhi. «Certo che lo so! E se vuole la verità è lei che…».

Il poliziotto lo interruppe e con tono serio disse: «Patente e libretto».

«Che cosa?», squittì Tom, sempre più sconvolto.

«Ho detto patente e libretto», rimarcò il concetto, sollevando le sopracciglia. «Non vorrà mica essere accusato di resistenza a Pubblico Ufficiale, vero?».

«No», mugugnò.

Tirò fuori il libretto e la patente e li porse all’agente, poi si girò a guardare se quel maledetto semaforo fosse ancora rosso e anche Dylan lo fece, sorridendo di sfuggita alla ragazza alla guida.

Quando finalmente scattò il verde, Grace svoltò a sinistra e salutò con un cenno del capo il chitarrista, il quale digrignò i denti e si rivolse all’agente con tono brusco: «Ha finito?».

«Sì», esclamò il poliziotto. «È tutto in regola, nemmeno una virgola fuori posto. Ma senta, per caso lei è tedesco? Perché sa, si dice che i tedeschi sono sempre precisi in tutto… E lei ha anche l’accento da straniero!».

Tom si trattenne dallo sbuffargli in faccia, infastidito, e mise a posto i documenti. Tanto ormai Helen l’aveva persa!

«Posso andare?», domandò con tono lamentoso.

«Certo! Anzi, è meglio che se ne torni a casa – scommetto che abita dalle parti di Hollywood, oppure di Beverly Hills – sta iniziando a fare buio e non è consigliato andarsene in giro di notte da queste parti».

Tom si limitò a ringraziare con stizza, certo che quell’agente l’avesse preso per il culo per tutto quel tempo.

Stava per fare manovra per uscire dal suo parcheggio di fortuna, quando l’agente lo richiamò:  «Alla fine non mi ha detto se si è fatto arrivare l’auto dalla Germania!».

Il chitarrista roteò gli occhi al cielo, salutò il poliziotto con un gesto distratto della mano e sgommò via.

Dylan lo guardò allontanarsi e una volta perso di vista non riuscì a trattenere una grassa risata. Si portò il cellulare all’orecchio, ancora con le lacrime agli occhi, e quando Grace gli rispose, disse: «Tesoro, non mi sono mai divertito tanto!».

«Mi fa piacere, davvero».

«Però un giro me lo offri comunque uno di questi giorni, eh».

Grace ridacchiò. «Andata».


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Non so quale cavolata abbia fatto, ma avevo cancellato questo capitolo per sbaglio. Lo riposto così com'è, poi quando avrò tempo lo sistemerò a dovere.
Abbiate pazienza e scusatemi.

I Tokio Hotel non mi appartengono e questa storia non è scritta a scopo di lucro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

“I'm the devil on your shoulder
I'm the conscious in your mind
I'm the feeling, that you, you cannot hide
I'm the devil on your shoulder,
telling you that love is blind
It's okay when, it's hiding in disguise”

(Reckless – You me at six)

 

La odio.
Dopo l’ultimo scherzetto che gli aveva fatto, portandolo nell’Eastside di Los Angeles, era giunto a quella conclusione: la odiava da morire. E quello che gli dava più fastidio era che non era ancora riuscito a vendicarsi, perché da allora non l’aveva più vista. Era sparita nel nulla, quella stronza!
Helen, volendolo o no, si era avvicinata così tanto a lui che adesso… non riusciva proprio a non vedersela sempre intorno. Voleva sapere dove fosse, voleva vederla. Ovviamente perché voleva dirle quanto non la sopportasse più, non per altro. Assolutamente! Non gli mancavano le colazioni insieme a lei, le sue buffe provocazioni, i loro giochetti. No, per nulla…
Sbuffò innervosito. Non era un buon segno, visto che si era appena svegliato.
Si alzò dal letto scostandosi bruscamente le coperte di dosso e si diresse a passo svelto verso il bagno.
«Tom! Ti sei svegliato?!», gridò suo fratello dal piano inferiore.
«No, sono sonnambulo», sbottò.
Bill uscì dalla cucina e una volta nell’ampio salotto alzò la testa verso il soppalco adibito a zona living, quella che Tom stava attraversando.
«Vuoi i pancakes o i leka leka waffles?».
Tom si girò verso di lui con lentezza e lo guardò torvo. «Mi stai prendendo per il culo? Perché se è così ti dico subito che è una pessima giornata. Pessima».
Il frontman lasciò che un sorriso mesto si disegnasse sulle sue labbra e scosse lievemente il capo, mentre si andava a sdraiare sulla sua chaise-longue in acciaio e pelle nera.
«Si tratta di Helen, non è così?».
Il chitarrista rovesciò gli occhi e sollevò le braccia, poi le fece ricadere lungo i fianchi. «Non è importante se si tratta di lei o meno; è una pessima giornata e basta».
«Forse dovrei davvero farti provare questa», indicò la chaise-longue su cui si trovava e socchiuse gli occhi prima di continuare: «Ci si sente proprio come dallo psicologo! Magari ragioneresti meglio su quello che quella ragazza è riuscita a farti».
«Illuminami, ti prego», sbuffò e si appoggiò con le braccia alla ringhiera, sporgendosi verso il piano inferiore.
«Ti ha fottuto il cervello. Quel poco che hai per queste cose, chiaramente».
«Di quali cose stai parlando?».
Bill si tirò su a sedere e lo guardò serio negli occhi, tanto che Tom sentì un brivido corrergli su per la schiena e fu in grado di leggergli nella mente.
«No», negò deciso. «Non dire cazzate, Bill».
«Non dirne te, Tom», ribatté il gemello. «Ti conosco come le mie tasche e fidati, se ti dico che…».
«No, no, no!», strepitò e si portò le mani sulle orecchie per non sentire. Ma fu praticamente inutile, perché ormai la voce del fratello si era insediata nella sua testa, non lasciandogli via di fuga.

Lei ti piace! gli gridò senza pietà.
Tom rimase ad ascoltare il silenzio calato improvvisamente dentro ed intorno a lui, poi iniziò a sollevare le palpebre. Trovò subito lo sguardo furbo di Bill, il quale si era alzato e si era portato le mani sui fianchi, con quell’aria da saputello stampata in faccia.
Represse in un angolo della mente l’idea di saltare giù dal soppalco ed atterrarlo con una mossa di wrestling e si limitò soltanto a mandarlo affanculo.

 

***

 

Grace tirò la cordicella con dolcezza e aprì le lamelle della tenda alla veneziana. Il sole filtrò nella stanza, illuminando il parquet scuro, i mobili stracolmi di grandi raccoglitori sistemati in ordine cronologico e la lampada da tavolo anni ’50 con la base in ghisa nera e il cappello in plastica verde.
Posò lo sguardo proprio su quella lampada e passò un dito sull’interruttore, lo premette, ma i contatti fusi non permisero alla corrente di arrivare alla lampadina, che rimase spenta. Non funzionava da anni, ma non aveva mai pensato di disfarsene: era di suo padre e da quando se n’era andato anche quel vecchio cimelio si era rifiutato di illuminare di verdognolo quella scrivania, di essere l’unica fonte di luce soffusa in quell’ufficio quando la notte calava e l’ultimo caso non era ancora stato risolto. Suo padre era fatto così: quando iniziava un caso non lo lasciava mai a metà, andava sempre in fondo, a discapito di tutto il resto.
Grace prese il caffè sulla scrivania, scrollandosi di dosso quei ricordi, ed andò alla finestra. Allargò con due dita la fessura tra una lamella e l’altra per vedere gli edifici di fronte e la strada sottostante. Appoggiò le labbra al bordo del bicchiere di cartone e lo mordicchiò per qualche secondo, ancora soprappensiero, quindi bevve un sorso caldo.
Tornò alla scrivania e accese il suo laptop, ma il suo sguardo, nonostante fosse puntato sullo schermo, era altrove. Non si stupì, quando si sorprese a pensare ancora una volta a Tom.
Aveva pensato spesso a lui, in quei quattro giorni – un’eternità! – in cui il suo incarico era stato sospeso. Finalmente aveva ottenuto ciò che voleva, o almeno qualcosa che avrebbe dovuto farla felice, si era levata dalle scatole quello sfrontato, eppure… le mancava. Alla fine Molly aveva avuto ragione. Aveva ancora altri tre giorni di vacanza e, ironia della sorte, credeva che sarebbe impazzita se non fosse tornata a pedinarlo entro le prossime ventiquattr’ore.

Buffo. Davvero buffo.
Guardò il cellulare sotto l’ombra verdastra della lampada illuminata dal sole, allungò la mano come se una presenza invisibile l’avesse persuasa a farlo e, controllando sul suo taccuino, digitò il codice di decodifica del segnale della microspia GSM che aveva incorporato al cellulare di Tom la prima volta che era salito sul suo fuoristrada.
Era stato facile: aveva fatto in modo che si distraesse abbastanza da potergli infilare una mano nella tasca della felpa leggera, aveva fatto cadere il suo cellulare sotto i sedili e quando Tom era sceso dal veicolo, del tutto ignaro di ciò che aveva fatto, aveva infilato la microspia nel cellulare. Quando Tom si era accorto di averlo perso era tornato da lei, certo che fosse ancora lì fuori, a chiederle se gli fosse caduto nel fuoristrada. Lei, che l’aveva rigettato in precedenza sotto i sedili, lo aveva aiutato a cercarlo e gli aveva sorriso quando l’aveva ritrovato e tutto contento era rientrato nell’edificio.
Stava per premere il tastino verde di chiamata, con il quale avrebbe attivato la cimice e avrebbe sentito tutto quello che faceva il chitarrista – aveva il cellulare sempre attaccato al culo! – ma poi cambiò idea, dandosi della ridicola, e si alzò per andare a fare quattro passi.
Saltò sul suo amato fuoristrada e guidò per qualche chilometro, con la musica a palla, gli occhiali da sole sul viso, una sigaretta fra le labbra e un gomito fuori dal finestrino abbassato.
Le sarebbe piaciuto andare un po’ in spiaggia, era una bellissima giornata e la colonnina di mercurio sfiorava ancora i venti gradi, ma doveva stare in ufficio. Era vero, i clienti non erano mai stati tanti da non permetterle qualche gita anche in orario lavorativo, però doveva ricordarsi che si era presa una vacanza da Tom, non dal suo lavoro.
Tom, Tom, Tom! Era sempre nei suoi pensieri in un modo o nell’altro, quel cretino! Che poi, che aveva di così speciale? Nulla, assolutamente nulla! Era carino, sì, anche parecchio, okay… era davvero un ragazzo appetibile, ma in quanto al resto non ne valeva la pena. Che cosa le mancava di lui, esattamente? Le sue battutine pungenti, il suo sguardo sempre un po’ malizioso e sfrontato, il modo in cui pronunciava l’odioso nomignolo che le aveva affibbiato? Che cosa, che cosa?
Parcheggiò il fuoristrada e camminò con passo lento e sicuro fino alle grandi cancellate del cimitero. Prima di entrare fece un respiro profondo e si tolse gli occhiali da sole dal viso.
Si aggirò fra le lapidi di marmo grigio che il sole faceva brillare e raggiunse quella che la interessava. Fissò il volto segnato dal tempo e dal lavoro dell’uomo sorridente nella foto e anche lei accennò un sorriso, ma aveva gli occhi lucidi.
«Ciao, papà».


Come tutte le volte in cui andava a trovare suo padre, poi si era ritrovata con un opprimente senso di vuoto a schiacciarle il petto.
Era tornata nel suo ufficio e aveva aperto la cassaforte in cui teneva tutti i dossier e i documenti del caso più importante di suo padre, quello a cui aveva lavorato per quasi un anno, fino a quando era morto.
Non era mai riuscito a risolvere quel caso e nel tentativo era stato ucciso. Non avevano mai trovato il colpevole e tutti i bastardi che c’erano dietro, ed era per quello che Grace aveva seguito le orme di suo padre, per scoprire e dare un senso alla sua morte, per fare giustizia in un modo o nell’altro. Quello era l’unico caso di cui le importasse veramente, quello in cui ci metteva anima e corpo, ma ancora non era riuscita a scoprire nulla di significativo da integrare alle informazioni che suo padre aveva raccolto in mesi di duro lavoro. Lei non era nemmeno brava come lui… Forse non doveva nemmeno provaci, forse avrebbe davvero dovuto accontentarsi dei verdoni che quella ragazzina piena di soldi le offriva per pedinare il suo idolo. Quello era il massimo a cui poteva ambire.
Quella sera, afflitta e frustrata, aveva pensato che era arrivata l’ora di pagare quel famoso giro a Dylan per averla aiutata con Tom. Quel maledetto Tom…
L’aveva chiamato senza pensarci su troppo, a meno che non volesse finire ad ubriacarsi da sola nel suo appartamento. Aveva bisogno di un amico che la facesse ridere, che la distraesse da tutta la merda in cui si era immersa nelle ore precedenti, e chi meglio di Dylan? Lui era l’unico vero amico che avesse.
Ora era seduta al bancone del Broadway Bar, ad aspettare che finisse il turno.
Inquieta, si girò e rigirò il bicchiere di vetro trasparente fra le mani. Il barista glielo prese e senza nemmeno chiederle se fosse d’accordo le versò un altro giro di vodka liscia. Grace non ringraziò né si mise a discutere, sollevò il bicchiere e bevve tutto d’un fiato. La gola le bruciò e dovette strizzare gli occhi, ma fu solo per qualche secondo.
Perché era inquieta? Sapeva fin troppo bene che quella era zona d’azione dei gemelli Kaulitz – quel bar era uno dei più chic di Los Angeles, escludendo le persone che lo frequentavano – e li aveva persino seguiti lì, una volta o due. Aveva paura di incontrarli e non ne sapeva nemmeno il motivo. Che poi, perché dovevano andare lì proprio quella sera, in cui c’era anche lei? La sua sfiga era così grande?! Beh, forse sì, visto che era stata proprio lei a ritrovarsi quella ragazzina rompiscatole e milionaria tra capo e collo, che l’aveva incastrata nel vero senso della parola.
«Ehi», le soffiò una voce calda all’orecchio destro, mentre una mano si posava delicatamente sul suo fianco sinistro. Grace si girò ed incontrò subito il sorriso solare di Dylan, capace di farne nascere uno anche a lei.
«È da molto che mi aspetti?», le chiese, mentre prendeva posto al suo fianco.
«No, non molto». Alzò una mano in direzione del barman ed indicò l’amico, gridando: «Due Black Russian!».
Dylan, che non le aveva mai scollato gli occhi di dosso, allargò ancora di più il sorriso e quando Grace si voltò verso di lui, disse: «Non dovremmo invitarci a bere solo quando scrocchiamo favori all’altro».
La ragazza scosse lievemente il capo, poi scoppiò a ridere insieme a lui.
Parlarono del più e del meno, mentre si scolavano un bicchiere dietro l’altro senza nemmeno rendersene conto e la testa si alleggeriva e la parlantina diventava più sciolta.
Ad un certo punto della sua sbronza, Grace si incupì. Smise di ridere e di scherzare, sul suo volto comparvero delle ombre e Dylan le pizzicò il braccio per farla tornare dal suo universo parallelo, ma la ragazza non gli diede retta e con la voce roca disse: «Oggi sono andata a trovare mio padre».
Quelle parole scossero Dylan a tal punto che parte della sbronza se ne andò per un po’, dandogli un frangente di lucidità. Però non disse niente, lasciò che Grace si sfogasse.
«Quei bastardi… quei bastardi che l’hanno ammazzato devono pagare», ruggì a bassa voce, stringendo le mani intorno al suo bicchiere che ormai conteneva solo ghiaccio. «Mio padre non può essere morto per nulla. Ha lasciato il compito a me, ma io… io non ne sono in grado. Sono una fottuta incapace!». Sbatté i pugni sul bancone, facendo girare il suo vicino tozzo e rasato, il quale si voltò quasi immediatamente, incurante.
Dylan osservò le labbra rosate di Grace tremare ed avvicinò la mano al suo viso, le accarezzò la guancia quasi in trans e glielo sollevò per poterla guardare negli occhi.
La ragazza fissò i suoi occhi scuri con stupore e lo vide avvicinarsi. Poi socchiuse le labbra e lasciò che si incastonassero con quelle del suo amico.

 

***

 

Tom alzò un po’ il volume dello stereo e, provando a cantare qualche strofa, mosse a tempo la testa al ritmo di Chiddy Bang. Non era uno dei suoi rapper preferiti, ma quella canzone gli piaceva davvero tanto.
Suo fratello, seduto sul sedile del passeggero, aveva un gomito appoggiato contro il finestrino e a volte lo guardava come se avesse avuto un pazzo accanto, ma non osava dire nulla: quella sera non era proprio consigliabile dargli fastidio. In realtà, era da quella mattina che era intrattabile e Bill sapeva perfettamente perché.
Quindi, quel giorno Tom aveva avuto il comando assoluto del tempo e dello spazio e non aveva potuto fare molto quando gli aveva detto che voleva andare al Broadway Bar. Gli aveva semplicemente risposto che voleva accompagnarlo. Conosceva suo fratello quando era incazzato o nervoso e altrettanto bene quando si ubriacava. Per non parlare di quando le due cose erano unite! La catastrofe, se lasciato da solo, era fin troppo prevedibile.
Tom parcheggiò l’auto, scese e Bill si affrettò a raggiungerlo. Il maggiore camminò a passo spedito verso il bancone circolare e si sporse verso la passerella per attirare l’attenzione del barman, che fu da lui quasi subito.
«Desidera?», gli domandò.
«Un mojito red bull, tanto per iniziare».
Si mise seduto sullo sgabello ed aspettò con impazienza il suo drink, quando gli arrivò di fronte ci si gettò a capofitto, dimentico di avere un gemello alle spalle.
Bill si mise seduto al suo fianco, diede le spalle al bancone e spaziò con lo sguardo, soffermandosi sulle scale che portavano al piano superiore. Dopo aver visto una ragazza coi tacchi alti rischiare di cadere, si voltò e posò lo sguardo sulla grande piramide di bottiglie di vetro che, illuminate, riempivano il soffitto basso di riflessi, conferendo una luce soffusa a tutto il resto del locale.
Nonostante la poca luce, riuscì a scorgere comunque la ragazza seduta in obliquo a loro: stava baciando un ragazzo di origini ispaniche, forse messicano; un poliziotto della stradale, vista la divisa beige.
Non perse tempo e si voltò subito verso Tom per chiedergli se potevano andare a sedersi su quei divanetti rossi tanto comodi, ma gli bastò un secondo per capire che l’aveva già vista.

Oh no. Oh no, qui si mette proprio male.
Ma Tom non reagì affatto come aveva previsto. Anzi, non reagì proprio. Tenne lo sguardo fisso su di loro, nonostante i suoi occhi si fossero adombrati, e continuava a bere il suo mojito. Quando lo finì sbattè il bicchiere sul tavolo e ululò: «Un altro!».
La ragazza parve sentirlo e aprì gli occhi. Non realizzò subito chi fosse, ma quando lo fece… oh, Bill vide tutte le emozioni possibili nel suo sguardo: prima di tutto la confusione, poi lo stupore, la rabbia e poi ancora la vergogna; per concludere, una tristezza che non seppe spiegarsi.
Tra loro però, fieri del loro orgoglio o forse soltanto presi in contropiede, si scambiarono uno sguardo privo di qualsiasi sentimento, vacuo, che gli fece scorrere i brividi lungo la schiena.
«Ecco a lei», esclamò il barman sopra la musica e Tom ruppe il contatto visivo con Helen, prese il suo mojito e non si staccò dal bicchiere fino a quando non rimase nemmeno una goccia di alcool.
Nel frattempo, Helen scostò da sé il messicano, pagò in contanti senza nemmeno interessarsi di prendere il resto e lo fece alzare. Prima di uscire dalla visuale del chitarrista gli gettò un’ultima occhiata, ma lui non la calcolò nemmeno, troppo occupato ad affogare in quel mojito.
Bill la guardò uscire dal Broadway Bar trascinandosi dietro il ragazzo, poi si girò verso il fratello e sospirò portandosi i pugni sulle guance.
Si era sbagliato. A Tom non piaceva Helen. Si piacevano a vicenda.
«Scusi!», gridò al barman, che si pulì le mani e gli fece un cenno con il capo, in attesa del suo ordine.
Tom finì il suo mojito e si pulì la bocca con il dorso della mano. Aveva gli occhi già liquidi.
Bill sospirò ancora. «Un altro mojito red bull per lui e un malibu per me».

 

***

 

Grace si risvegliò lentamente, con un forte mal di testa ad attanagliarle le meningi.
Si girò supina e guardò il soffitto bianco per qualche minuto, concentrandosi su ciò che c’era intorno a lei. Fu così che si accorse del respiro lento e pesante alla sua sinistra. Voltò il capo verso quella direzione e rimase senza parole, quando vide i capelli neri ed arruffati di Dylan, il suo collo, le sue braccia forti e la sua schiena scolpita, dalla pelle caffellatte.
Si tirò su a sedere, appoggiò le spalle alla testata del letto e pian piano focalizzò tutto quello che vedeva. Nulla di anomalo, quella era la sua camera da letto; peccato che ci fossero vestiti ovunque, sia suoi che di Dylan, e c’era proprio lui nel suo letto.
Ricordò alcuni flash di quella sera e lo sguardo glaciale di Tom si infilò con prepotenza nella sua mente, facendola sentire sporca e… ferita.
Alzò il lenzuolo bianco che l’avvolgeva per accertarsi che fosse successo ciò che aveva dedotto – ricordava poco o niente di quella notte, – poi si portò le mani sulla faccia, imprecando.

 

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Ehi, ciao! :) 
La situazione tra Tom e Helen/Grace si sta un po' complicando e Dylan non ha di certo migliorato la situazione! Nel frattempo però abbiamo anche scoperto qualcosa sul passato e sul dolore che ha spinto Grace a diventare una detective privata...
Ringrazio ancora tutti quelli che hanno commentato/letto lo scorso capitolo e spero che anche questo vi sia piaciuto! ;)
Un bacio, a lunedì prossimo!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

Odiava i lunedì mattina. Soprattutto quelli in cui si svegliava tardi e con una strana ansia a divorarle lo stomaco.
Dopo tutto quello che era successo non se la sentiva proprio di andare al lavoro, che era tornato ad essere quello di pedinare il caro vecchio Tom Kaulitz.
Saltò giù dal suo fuoristrada con la borsa a tracolla che le sbatteva su un fianco e corse nell’edificio, ad ogni passo un’imprecazione.
«Signorina Schneider!».
Grace si fermò sui primi gradini delle scale, su cui si era fiondata senza nemmeno salutare il portiere. Si girò e guardò proprio lui, che estrasse una busta da sotto il bancone e la sventolò nella sua direzione.
La ragazza si avvicinò, prese la busta fra le mani e guardò l’uomo in cerca di spiegazioni.
«Ieri sera, sul tardi, è arrivato qui un uomo chiedendo di lei. Mi ha detto di consegnarle quella busta. Non so altro».
«Aspetto fisico, età, altezza…?».
Il portiere la guardò con tanto d’occhi, pensando che non era lui l’investigatore privato, ma rispose comunque: «Alto nella media, magro… Sui quarant’anni, forse di più… Biondo, occhi azzurri…». Allo sguardo non soddisfatto di Grace, sbuffò: «Non posso dirle di più, davvero».
«Grazie», borbottò la ragazza, incamminandosi su per le scale, quella volta lentamente, con la busta fra le mani.
Entrò nel suo ufficio e aprì le veneziane. Si tolse la borsa a tracolla dalla spalla e la appoggiò accanto alla sedia, su cui si sedette senza mai distogliere lo sguardo dall’anonima busta bianca. Col busto in torsione si voltò verso la luce che filtrava dalla finestra e ne sbirciò l’interno: c’era soltanto un trafiletto di giornale.
Stava per aprire il bordo della busta, ma l’occhio le cadde sull’orologio digitale posato sulla sua scrivania ed imprecò ancora una volta.
Infilò la busta nella borsa a tracolla, prese tutti i suoi attrezzi del mestiere e corse di nuovo fuori dall’ufficio, giù dalle scale e fuori dall’edificio.
Nemmeno quella volta aveva salutato il portiere.

 

***

 

Tom, per sua sfortuna, non aveva dimenticato nulla di quella famosa notte. Ricordava persino il numero esatto delle volte in cui era andato in bagno a vomitare – quattro e mezzo, perché una volta non aveva fatto in tempo e aveva condiviso i suoi mojito con il pavimento del corridoio, – con suo fratello sempre attaccato al culo, nonostante volesse stare male da solo.
Ricordava il forte senso di nausea che aveva provato quando aveva visto Helen sbaciucchiarsi con il poliziotto che lo aveva fermato nell’Eastside e la più totale repulsione quando lei aveva provato a guardarlo negli occhi.

Sbronza com’era, aveva pensato piegato sul cesso, mi avrà visto tre volte.
Per fortuna lui aveva appena iniziato a bere quando l’aveva notata e si era risparmiato la tortura di vederla in duplice o triplice copia. Una Helen bastava e avanzava.
Allo stesso tempo, però, ricordava di essersi sentito parecchio… ferito. Sì, strano ma vero, quella era la parola da usare. Ci sarebbe stata bene anche umiliato, ma ferito andava meglio.
Perciò era stato un vero sollievo quando, quella mattina, non aveva visto il suo fuoristrada nei paraggi della Cherry Tree Records. Aveva di fronte a sé l’ottavo giorno senza di lei e… ah, stava tornando ad amare la particolare sensazione di non averla fra i piedi.
E per questo ci era rimasto ancora più male quando, per la pausa pranzo, lui e suo fratello avevano deciso di andare a mangiare qualcosa di serio in un ristorantino appartato, in cui il cibo era davvero buono, e aveva visto Helen e il suo maledetto fuoristrada arrivare appena in tempo per seguirli.
«Cazzo», berciò fra le labbra, avendo la forte tentazione di fermare il fratello e di ordinargli di tornare indietro, ma sapeva che se l’avesse fatto Bill sarebbe tornato ad assillarlo sul fatto che era cotto di lei e la cosa non gli piaceva affatto. Così fece finta di niente: non la guardò né disse qualcosa in proposito al gemello.
Guidò verso la loro meta e parcheggiò l’auto in un posto che si era appena liberato. Menomale che la fortuna era dalla sua parte!
Entrarono nel ristorante e si sedettero ad un tavolo in fondo alla sala, accanto alle vetrate che davano sui tavolini all’aperto, ombreggiati da grandi ombrelloni.
Helen si sistemò in uno di quelli e come se nulla fosse tirò fuori il cellulare per ascoltare un po’ di musica attraverso gli auricolari che si era infilata nelle orecchie.
Quanto la odiava.
 

***

 

Grace si mise seduta ad uno dei tavolini all’aperto in modo tale da poter guardare i gemelli, che ne avevano scelto uno all’interno del ristorante, senza però dare nell’occhio.
Tirò fuori il cellulare e si infilò gli auricolari nelle orecchie, poi digitò sulla tastiera il codice di decodifica della microspia presente nel cellulare del chitarrista e chiuse gli occhi quando sentì le loro voci: stavano discutendo su ciò che c’era scritto sul menù e questo sarebbe potuto interessare a Molly, ma sicuramente non a lei, ancora meno quando rammentò di avere una busta piuttosto sospetta nella borsa.
Un cameriere passò anche da lei e Grace ordinò un piatto di nachos senza peperoni nel condimento e una birra. Quando se ne andò, la ragazza tornò ad interessarsi della busta, che estrasse dalla tracolla e si rigirò ancora fra le mani, incerta. Alla fine prese il coltello posato sopra la tovaglia immacolata e ne tagliò il bordo; ne fece scivolare sul tavolo il contenuto ed accertò quello che aveva ipotizzato nel suo ufficio: si trattava proprio di un piccolo articolo di giornale, ritagliato in maniera minuziosa.
Osservò il pezzetto di carta grigia, macchiato dell’inchiostro delle parole e della piccola foto sotto il titolo del trafiletto. Lo scrutò e lo lesse dall’alto, senza toccarlo, ma dovette farlo quando il cameriere tornò da lei col suo piatto di nachos: lo levò dalla tavola e se portò sul petto, come se fosse la cosa più preziosa che possedesse.
«Buon appetito», le augurò il cameriere, anche se un po’ stranito dal suo comportamento bizzarro.
Grace non rispose. Guardò ancora una volta l’articolo di giornale, poi posò lo sguardo sul suo piatto caldo e prese una tortilla di mais, trascinandosi dietro un po’ di formaggio fuso.
Lesse ancora l’articolo, mangiando una tortilla alla volta e bevendo un sorso di birra ogni tanto, ma non ci trovò nulla di particolare.
Perché quell’anonimo “informatore” le dava informazioni che non riusciva a capire? Provò a leggerlo sotto un’altra prospettiva, ma nulla.
Talmente concentrata su quello, si era completamente dimenticata di Bill e Tom. Mentre si grattava il capo, confusa, alzò lo sguardo ed incrociò quello del chitarrista, il quale si voltò subito dopo.
Grace sospirò e si immobilizzò quando Bill disse, nel suo tedesco impeccabile: «Smettila di guardarla, se poi devi fuggire in questo modo».

«Stai zitto, Bill».
«Potrei anche farlo, ma…».
«Il fatto è che
devi, punto».
Bill ridacchiò. «Da uno a dieci, quanto ti ha dato fastidio vederla con quello là, l’altra sera?».

«Nessun fastidio!», ribatté subito il gemello, alterato. «L’ho solo compatita, perché poteva certamente trovarsene uno migliore».
«Uno come te, insomma».
«Smettila Bill, davvero, o ti ficco la testa nell’insalata».
«Uh, che paura»
, lo prese in giro. «E poi, che hai detto? Poteva certamente trovarsene uno migliore? Nel senso che ha tutte le carte in regola per una sco-».
Grace sentì un movimento brusco e qualcosa che cadeva. Guardò ancora in direzione dei gemelli, spaventata, e vide Tom semisteso sul tavolo, che cercava di spingere la faccia di Bill verso il piatto di insalata che aveva di fronte a sé.

Che qualcuno fermi quei due bambini, pensò portandosi una mano sulla fronte. Ma non impedì ad un leggero sorriso – il primo della giornata – di illuminarle il volto. Non avrebbe mai sentito quei “complimenti” se non avesse usato delle microspie, però non si sentiva affatto in colpa, anzi. Un po’ di merito ce l’aveva anche lei, in fondo, visto che conosceva il tedesco; o meglio, il merito era ancora una volta di suo padre e delle sue origini.
Si pulì le dita unte sul tovagliolo, bevve l’ultimo sorso di birra e proprio in quel momento un auto accostò sul ciglio della strada. Il finestrino si abbassò e un uomo dai capelli biondi e gli occhi azzurri, con un viso da bambino che nascondeva un’età compresa tra i quaranta e i cinquant’anni, le fece segno di salire. Grace pensò immediatamente all’uomo descritto dal portiere, quello che le aveva fatto recapitare quella busta, e lo stomaco le si strinse in una morsa. Come faceva a sapere che lei si trovava lì?
«Si muova!», le gridò in labiale.
Allora Grace fece un respiro profondo e decise di fidarsi del suo istinto.

 

***

 

«Ehi! Ehi, signorina!».
Il capocameriere corse fuori dal ristorante, ma ormai era troppo tardi: Helen era già salita sull’auto che si era fermata lì di fronte appena qualche secondo prima.
L’uomo rientrò, infuriato, e mostrò alla ragazza che stava alla cassa il tovagliolo scritto che Helen gli aveva lasciato: «C’è scritto “Torno subito”!».
La ragazza trattenne un sorrisino, mentre il capocameriere, sul punto di avere un esaurimento nervoso, si rinchiuse in cucina.
«Ma che cosa…?», balbettò Bill, puntando lo sguardo su suo fratello gemello, il quale non aveva ancora schiodato lo sguardo dal posto vuoto lasciato da Helen: sul tavolo c’era ancora il piatto di nachos che non aveva finito.
«Quella è pazza», disse ancora Bill, scuotendo il capo. «Chissà cosa le è preso… Dici che dovremmo seguirla?».
Tom si voltò verso di lui e lo guardò con occhi inespressivi. «Da quando siamo noi che dobbiamo seguire lei?».

 

***

 

Grace infilò una mano nella borsa e sfiorò con le dita il suo registratore, ma non fece in tempo a schiacciare il tasto REC che l’uomo alla guida disse: «Non ci provi nemmeno, signorina». La guardò con la coda dell’occhio e le sorrise. 
Grace fece una smorfia. «Posso sapere con chi ho l’onore di parlare?», gli domandò con finta cortesia.
«Lionel Reed».
«Lionel Reed…», ripeté a bassa voce. Aveva come la sensazione di averlo già sentito da qualche parte.
«E tu sei Grace». Le rivolse un altro dei suoi sorrisi. «Scusa, posso darti del tu, vero?».
«Come fai a conoscermi? E come facevi a sapere che mi trovavo in quel ristorante?».
Lionel ridacchiò. «Diciamo pure che siamo amici di vecchia data, anche se tu probabilmente non ti ricordi di me. Trovarti in quel ristorante è stato un semplice colpo di fortuna».
Grace non ci credeva, nemmeno un po’. Doveva assolutamente scoprire di più su questo Lionel Reed. A partire dal perché le risultasse familiare. Amici di vecchia data, aveva detto? E quando mai l’aveva conosciuto?
«E per quanto riguarda questo?», gli chiese estraendo dalla borsa l’articolo di giornale. «Perché dovrebbe interessarmi?».
Lionel le gettò un’occhiata di sfuggita e si lasciò andare ad una risata. Poi disse: «Ma tu sei la figlia di Mitch, vero? Ci mancherebbe soltanto che io abbia trovato la Grace sbagliata».
All’udire il nome di suo padre, Grace impallidì. «Come… come fai a conoscere mio padre?».
«Abbiamo fatto la qualificazione per entrare in marina insieme. Bei tempi. Io e tuo padre eravamo molto amici, sai?».
«È morto», mormorò, mentre il suo volto si pietrificava.
«Lo so bene».
«E allora perché…? Che cosa vuoi da me?».
Lionel indicò l’articolo che Grace teneva ancora fra le mani. «Credo che questo caso possa essere collegato alla morte di Mitch».

 
Lionel costeggiò il ciglio della strada e si fermò di nuovo di fronte al ristorante da cui l’aveva prelevata. Grace scese dall’auto, profondamente scossa, e chiuse la portiera con un gesto privo di energia.
«Grace», la chiamò Lionel, sporgendosi verso il finestrino abbassato. La ragazza si voltò e lo guardò con sguardo spento. «Semper fidelis».
Le venne in mente la voce di suo padre – non la sentiva così distintamente nelle orecchie da anni ormai 
e fu un vero colpo al cuore, ma ebbe la forza di annuire e di salutare l'ex-marine con un gesto della mano.
Entrò all’interno del ristorante e vide subito che i gemelli non c’erano più, se n’erano andati. Raggiunse il bancone del bar e il capocameriere la riconobbe subito, perché si alzò in piedi e la guardò stupefatto.
«Signorina, ma lei…», mormorò.
«L’avevo detto che sarei tornata», replicò abbassando lo sguardo sulla sua borsa a tracolla. «Quant’è?».
«Ehm, in realtà…».
«Che cosa c’è?», domandò Grace spazientita, sollevando il capo ed incontrando lo sguardo confuso dell’uomo.
«Il fatto è che il suo conto è stato già pagato».
«In che senso? Chi l’ha pagato?».
«Il signor Kaulitz. Quello…».
Grace lo interruppe: «Sì, ho capito. Grazie allora, a presto».
Raggiunse l’uscita senza voltarsi più indietro, salì sul suo fuoristrada e posò le mani sul volante, quando un piccolo sorriso si fece spazio sulle sue labbra. 

 

***

 

«Allora, com’è andato il primo giorno di ritorno dalle vacanze?».
Grace masticò il pezzo di panino che aveva ancora in bocca ed annuì, come se Molly potesse vederla attraverso il cellulare.
«Tutto sommato bene».
«Successo qualcosa di interessante?».
«Uhm… non esattamente».
Tenne premuto il cellulare contro l’orecchio sollevando la spalla e sistemò in un’unica pila le carte che aveva davanti: gli appunti che aveva preso in mesi di studio del caso di suo padre, che improvvisamente si era riaperto grazie a Lionel Reed.
All’inizio del malloppo c’era proprio il fascicolo dell’ex-marine, ritiratosi dal corpo dei marines quasi un decennio prima. L’aveva ottenuto dopo essersi infiltrata negli archivi elettronici dei computer della U.S. Navy, la Marina Militare degli Stati Uniti, a cui aveva accesso esattamente come lo aveva sempre avuto suo padre.
Aveva scavato un po’ nel suo passato e ora sapeva che aveva perso sua moglie e sua figlia a causa di un vecchio pareggio di conti che riguardava l’Iraq. Alcuni terroristi islamici avevano deciso di vendicarsi sulle persone a cui teneva di più al mondo perché con l'aiuto di due soli uomini della sua squadra era riuscito a sabotare un pericoloso attentato, programmato per distruggere una delle basi navali americane a Baghdad.
«Tom mi ha pagato il pranzo», disse dopo essere rimasta per qualche secondo in silenzio ad immaginarsi un Lionel più giovane, in uniforme da combattimento, alle prese con temibili terroristi appoggiati da Saddam.
«Che cosa?! Ma è fantastico!».
L’investigatrice alzò il sopracciglio. «Io credevo che dovessi pedinarlo e dirti tutto ciò che scoprivo, non pensavo che tu volessi trovarmi un fidanzato».
«Beh, ormai siamo amiche Grace… e non mi dispiacerebbe se tu e Tom vi metteste assieme, sai? Anzi, vi vedrei proprio bene».
«Hai mangiato caviale avariato? Tu stai male, Molly».
«No, assolutamente no! Sarebbe stupendo, davvero! Il matrimonio ve lo finanzio io!».
«Molly, ti prego, non fantasticare troppo. Sognare fa male alla salute».
«Macché!», rise. «Ora dove sei?».
«Nel fuoristrada, di fronte al giardino sul retro. Come al solito».
«E riesci a vedere dentro la sua camera?».
«Sì, in questo momento è tutto nudo!», imitò la voce di una di quelle ragazzine con gli ormoni impazziti e dovette allontanare il cellulare dall’orecchio per tutta la durata di un urlo che non avrebbe mai imputato a quella dolce ragazzina, se non fosse stato per il fatto che ci stesse rimettendo direttamente un orecchio.
«Stavo scherzando», sbuffò con un sorriso quando dall’altra parte ricadde il silenzio, probabilmente perché Molly era svenuta.
«Ah», mormorò la ragazzina milionaria. «Non fare mai più una cosa del genere».
«Mai più», promise. Ne andava anche della salute del suo apparato uditivo.
«È sempre un piacere parlare con te, Grace, ma ora devo proprio lasciarti. Ci sentiamo domani, okay? E ringrazia Tom, mi raccomando».
«Buonanotte, Molly», disse e riappese.
Lanciò il cellulare sul sedile del passeggero, accanto alla scatola in cui c’era ancora metà del suo panino, e tornò ad esaminare le sue carte.
Non sapeva come avrebbe fatto, d’ora in avanti, ad occuparsi sia del pedinamento di Tom sia di quel caso, ma quest’ultimo aveva la massima priorità.

«E ringrazia Tom, mi raccomando». Grace ripensò alle parole di Molly e sospirò, appoggiando il gomito al finestrino. Era da molto che non parlava con Tom, era davvero il caso…?
Scosse il capo e riacciuffò il cellulare. Dei ringraziamenti glieli doveva, non aveva scuse.

 

***

 

Grazie per avermi pagato il pranzo oggi, non avresti dovuto. Io mantengo sempre la parola data.

Tom strabuzzò gli occhi leggendo quel messaggio appena arrivatogli.
Helen? Da quando Helen aveva il suo numero di cellulare? Come…?
Si mise seduto meglio sul divano, su cui si era spaparanzato per guardare un film con Bill, il quale si era addormentato ancora prima che iniziasse. Guardò il gemello e si levò dalla testa l’idea di svegliarlo solo per dirgli che Helen aveva avuto – non sapeva da chi né come – il suo numero.
Si alzò e raggiunse le vetrate che davano sul giardino sul retro. Vide una piccola luce illuminare l’interno del fuoristrada che conosceva bene e per una frazione di secondo vide anche i suoi occhi verdi brillare al buio, che lo scrutavano con attenzione.
Improvvisamente si diede del cretino: era inutile continuare a non parlarsi, dato che a lui non gliene doveva fregare niente se scopava con qualcuno. L’aveva istigata lui a farlo, d’altronde.
Fece scorrere delicatamente una delle due porte finestre ed uscì in giardino col cellulare stretto nella mano destra. Raggiunse il suo fuoristrada e la vide nascondere dei fogli, che cacciò nella sua borsa a tracolla. Poi aprì la portiera del passeggero e si infilò nell’abitacolo, trovandosi in mano un contenitore con un mezzo panino all’interno.
La luce che si era accesa in mezzo a loro quando era entrato lentamente si affievolì e solo quando fu spenta si girò verso di lei.
«Ciao», la salutò.
«Ciao», ricambiò il saluto, arricciando il naso per reprimere un sorriso impacciato.
Tom si guardò intorno. «Che fai?».
«Ti osservo».
«Beh, allora ti ho fatto un piacere venendo qui».
«Sì, potrebbe darsi».
«Posso?».
Grace abbassò lo sguardo sul suo panino e poi lo sollevò per incontrare gli occhi seri di Tom, che indicava la sua cena con un dito. La ragazza scrollò le spalle e il chitarrista non se lo fece ripetere due volte ed addentò il panino.
«Era lì da una settimana», disse Grace.
Tom lo sputò immediatamente, facendo un bel pasticcio, e poi la guardò con gli occhi fuori dalle orbite. Lentamente la sua espressione mutò in una adirata, mentre sul volto di Grace si allargava un sorriso.
«Sì, era uno scherzo», gli sussurrò.

 
 

______________________________

 

Grace, grazie all'aiuto di Lionel, un ex-marine amico di suo padre, riuscirà a fare progressi col caso? E lei e Tom faranno la pace?
Per oggi dico solo questo ;) Aspetto di leggere le vostre opinioni, come sempre!
Ringrazio infinitamente chi ha lasciato due parole allo scorso capitolo e chi ha aggiunto questa storia fra le preferite/seguite! Love U :)
A lunedì prossimo (e abbiate fede, pian piano i capitoli si allungheranno e succederanno un sacco di cose interessanti! ;D)
Vostra, 

_Pulse_ 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 

«Sai, non penso di aver mai odiato tanto una ragazza quanto odio te».
«Avvertimi quando i tuoi sono complimenti, così ti ringrazio», disse voltando il viso verso il finestrino. Il suo sguardo però non andò oltre il vetro, rimase lì a fissare il nulla eccetto il suo debole riflesso.
«Non sei abbastanza acida, questo vuol dire che hai la testa altrove», dedusse Tom. «In realtà è tutto il giorno che ti comporti in maniera strana. Per esempio a pranzo. Hai mollato tutto e sei salita nell’auto di quello… sconosciuto? Era uno sconosciuto?».
Grace scosse lievemente il capo e chiuse lentamente gli occhi. «È un amico di mio padre. Credo di essere stata amica di sua figlia, da piccola, ma non ne sono sicura».
Non avrebbe dovuto dirgli quelle cose, ma… le erano uscite di bocca senza che nemmeno se ne accorgesse.
«E che cosa aveva da dirti di tanto urgente, tanto da sequestrarti?», sollevò il sopracciglio ed ebbe la forte tentazione di prenderle il mento fra le dita e di voltarle il viso verso di lui. Ma non lo fece, nonostante volesse guardarla negli occhi.
La ragazza non rispose a quella domanda, non poteva parlargli del caso e di tutto il resto. Lui non doveva sapere nulla di lei. Non a caso non sapeva nemmeno il suo vero nome.
«Brooklyn», richiamò la sua attenzione il chitarrista, «mi hai sentito?».
«Sì», rispose in tono piatto. «Sta per piovere».
Tom sbuffò e scosse il capo, afflosciandosi un po’ di più sul sedile.
«Ti detesto, davvero», sussurrò. Poi ritrovò la sua voce e disse: «Se non ne vuoi parlare basta dirlo, sai?».
«Come se tu ti accontentassi di un “Non ne voglio parlare”. Saresti ancora più insistente. Ti conosco ormai, Tom».
«Non credo proprio», mormorò incrociando le braccia al petto.
«Okay», si arrese Grace, girandosi finalmente verso di lui. «Non ne voglio parlare, cambiamo argomento?».
Tom le rivolse uno sguardo freddo, poi fu lui a girare il capo verso il finestrino. Anche la sua voce cambiò, sembrava… lontana.
«Parliamo della tua serata al Broadway Bar».
Grace si portò una mano sulla fronte e represse una risatina nervosa. «Così mi fai preferire di rispondere all’altra domanda».
«Fai un po’ come credi», borbottò, anche se dentro di sé sperò che non tornasse sull’argomento precedente; l’ultimo lo interessava di più.
La sentì sospirare e poi far schioccare la lingua contro il palato.
«Dylan è l’unico vero amico che ho», esordì, passandosi i palmi delle mani sui jeans a pinocchietto. «E non ho la più pallida idea del perché sia successo… Insomma, non pensavo che potesse…».
«Da quanto vi conoscete?», chiese con tono sicuro, come se si fosse preparato la domanda da tempo.
Ma Grace non ebbe la stessa rapidità né sicurezza quando rispose: «Eravamo dei ragazzini. Lui era appena entrato nella stradale, io… avevo appena finito l’università e bazzicavo nell’ambiente di mio padre».
Tom si voltò di scatto verso di lei e la guardò intensamente negli occhi, tanto che la ragazza provò un po’ di soggezione.
«Tu sei… diabolica», sibilò. «Non mi hai dato nemmeno un’informazione, solo degli accenni molto vaghi! Sei andata all’università – quale facoltà, in cosa ti sei laureata? – e poi hai lavorato nell’ambiente di tuo padre – che ambiente? Perché non…», sbuffò sonoramente, irritato, «non provi a raccontarmi qualcosa di te senza nascondermi anche le cose più banali?».
«Stavamo parlando di Dylan, se non sbaglio», glissò e si portò il pugno di fronte alla bocca, tornando a fissare un punto oltre il suo finestrino.
«Sì, certo», mormorò Tom, facendole cenno di proseguire.
Quella ragazza era pazzesca: preferiva parlare di cose di cui non avrebbe voluto parlare, piuttosto che raccontargli un po’ di sé.
«Beh, alla fine non c’è molto altro da raccontare», rifletté ad alta voce Grace.
«È stato lui a provarci?», le domandò.
Annuì. «Io non l’avrei mai fatto, insomma…».
«E avete scopato comunque, anche se tu non l’avresti mai fatto».
«Già». Spostò gli occhi sul parabrezza ed indicò col dito una piccola goccia d’acqua che si era appena schiantata contro il vetro e si prestava a scivolare verso i tergicristalli. «L’avevo detto che sarebbe piovuto».
Qualche secondo dopo molte altre gocce si schiantarono contro il parabrezza, il cofano e il tetto del fuoristrada, producendo un suono metallico. Era un vero e proprio acquazzone, uno di quelli che preannunciavano l’arrivo delle piogge invernali, nonostante fosse soltanto fine ottobre.
«Divertita?».
Grace non diede più peso alla pioggia e si voltò verso il ragazzo, la cui voce aveva sentito a malapena. Ma l’aveva sentita e il cuore le era schizzato in gola. Perché avrebbe dovuto interessargli?
«Non pensi che sia un po’ privata, come cosa?», gli chiese con espressione ancora un po’ sorpresa.
Lui scrollò le spalle. «La mia è semplice curiosità».
Non ci credeva totalmente, soprattutto dopo quello che aveva ascoltato quella mattina al ristorante. Forse un po’ curioso lo era sul serio, ma voleva metterlo alla prova.
«È stato, diciamo… una delle migliori scopate della mia vita. Decisamente».
Lo osservò attentamente e vide i muscoli della mascella irrigidirsi e poi sciogliersi per permettere ad un sogghigno di prendere il sopravvento sulle sue labbra.
«Perché non hai ancora provato il mio amichetto», disse.
Immagazzinò la sua risposta nel cervello. «Oh, fidati», continuò poi la sua sceneggiata, portandosi una mano sul petto con gli occhi leggermente spalancati. «Non penso che tu potresti superare Dylan».
«Ah no?», inarcò il sopracciglio, come se le stesse lanciando una sfida. Quel Kaulitz, dotato o meno che fosse, era un po’ montato.
«Mm-mmh», sollevò ed abbassò il capo. «Al dipartimento gli hanno affidato un certo soprannome…!».
Tom si avvicinò col viso al suo e inspirò ed espirò profondamente prima di dire, con malizia negli occhi: «Se non ti odiassi così tanto ti dimostrerei quanto ti sbagli seduta stante».
«Sei solo un pallone gonfiato», e lo spinse via ridendo sotto i baffi. «Adesso penso proprio che tu debba andare a nanna». Accennò con un’occhiata alla portiera.
Tom guardò fuori l’acquazzone che non era ancora finito, poi guardò Helen con la faccia di un bambino sperduto. «Ma diluvia ancora!».
«Che cosa vorresti fare allora, restare qui finché non smette, con me?», sollevò le sopracciglia.
Il ragazzo guardò ai lati del sedile fino a trovare la manopola che lo inclinò tanto da farlo somigliare ad un letto. La guardò con un sogghigno dipinto in faccia, mentre si girava sul fianco, e disse: «Magari nel frattempo cambi idea sulla dimostrazione».
Grace lo imitò, tirando giù il sedile, e gli diede le spalle. «Cos’è, già non mi odi più così tanto?».

 

***

 

La vibrazione del suo cellulare la svegliò lentamente, tanto che quando se lo portò all’orecchio era ancora con gli occhi chiusi a causa del sole del mattino che rischiarava il cielo e dava una sfumatura leggermente rosata alle nuvole.
«Pronto?», mugugnò con la voce roca, mentre faceva leva sul braccio per girarsi. Aveva dormito nel fuoristrada tutta la notte e aveva la schiena a pezzi.
«Ciao Grace. Scusa, ti ho svegliata?».
Realizzare che aveva davvero dormito tutta la notte nel fuoristrada
con Tom accanto per giunta!  fu un duro colpo, che la fece svegliare del tutto col cuore che le batteva nella carotide.
«Dylan
No. Cioè sì, però…», rispose a scatti, dandosi della cretina. «Scusami un attimo».
Si portò il cellulare sulla clavicola e guardò Tom che ancora dormiva sul sedile del passeggero, con una mano sotto la guancia, poi aprì la portiera e senza fare troppo rumore uscì dal veicolo.
Dal terreno impregnato d’acqua si levava un forte profumo e l’aria frizzante della mattina la fece rabbrividire un poco, ma fu in grado di rischiararle le idee.
Si appoggiò al cofano del fuoristrada e mise un piede sul paraurti, dando le spalle al sole e a Tom. Poi tornò a parlare al cellulare: «Eccomi. Dicevi?».
«Oggi a pranzo hai da fare?», le chiese subito Dylan, senza nemmeno l’ombra di una risata nella voce, ciò che la contraddistingueva. «È da quando è successa quella cosa che non parliamo. Dovremmo».
«Oh». Grace si portò una mano fra i capelli e sospirò. «Sì, dovremmo».
«Ci vediamo all’una all’Homegirl Cafè, allora».
«Okay, ci vediamo lì».
Dylan pose fine alla telefonata senza nemmeno salutarla e Grace si portò entrambe le mani sul viso, che si massaggiò.
Con la coda dell’occhio osservò Tom all’interno del fuoristrada e un piccolo sorriso le incurvò all’insù le labbra.
Quindi lo raggiunse e chiuse con delicatezza la portiera, poi si sporse verso di lui e gli posò un dito fra gli occhi, lo fece scivolare sulla linea delicata del suo naso e lo fermò sulla sua punta arrotondata, la schiacciò un pochino e solo allora Tom iniziò a svegliarsi.
Grace trattenne il respiro, come se quell’evento avesse un qualcosa di miracoloso, e ripensò alla notte che aveva trascorso con lui a dormire. Non si erano nemmeno sfiorati, ma l’aveva sentito parecchio vicino.
Era la prima volta che le accadeva una cosa del genere ed era una strana sensazione, quella che si sentiva appiccicata addosso. Perché lui aveva quegli effetti collaterali su di lei? Era profondamene convinta che quello sarebbe sempre stato un caso irrisolto.
«Helen», mugugnò il chitarrista e lei rinvenne.
Portò lo sguardo sui suoi occhi piccoli ed accennò un sorriso.
«Buongiorno», lo salutò. «Si dorme bene sul mio fuoristrada, vero?».
Tom si girò supino sul sedile e la sua espressione vagamente sofferente la fece ridere sotto i baffi. Anche lui aveva il suo stesso mal di schiena. Ma non fu soltanto quello, perché sulla guancia aveva il segno rosso della sua stessa mano, usata come cuscino.
Stava per dirgli che sembrava davvero un bambino, quando si rese conto che lei era la prima a non poter parlare: probabilmente aveva tutto il mascara sbavato sotto gli occhi, che le dava l’aspetto di un panda.
«Promettimi che non me lo farai fare mai più», disse Tom, sollevando l’indice del braccio che si era portato sugli occhi.
«Non sono stata io a costringerti a stare qui. Sei stato tu a fare i capricci perché fuori diluviava», ribatté.
«Ho un bisogno assoluto di caffè», esclamò Tom, togliendosi il braccio dagli occhi e guardando il soffitto del fuoristrada. «E di una doccia», arricciò il naso. «Non vorrei prendermi qualche strana malattia. Chissà da quanto tempo non pulisci qui dentro…».
«Ehi!», gli schiaffeggiò l’addome con il dorso della mano e lui rise. Grace si riempì le orecchie di quella risata contagiosa, diversa da tutte le altre che aveva sentito da quando si conoscevano: era più leggera, spensierata, vera. E bellissima.
Quando Tom smise di ridere, lasciandosi andare ad un sospiro, Grace si riprese e si girò verso il volante.
«Ti do’ ragione sul caffè», disse ed avviò il motore con una mandata di chiavi nel cruscotto.
«Che hai intenzione di fare?», le chiese, sollevando il capo. «È sequestro di persona questo!».
«Macché», sorrise. «Andiamo soltanto da Starbucks. Stai giù, fai finta di dormire; non ti preoccupare».
Tom la scrutò per alcuni secondi, soffermandosi in particolare sul suo viso punteggiato di efelidi e sul sorriso che le aleggiava sulle labbra, poi scosse il capo e lo posò di nuovo sul sedile, chiudendo gli occhi.
Cullato dalla guida sicura di Helen e dalle canzoni che passavano alla radio, si riappisolò, ma nel dormiveglia la sentì canticchiare a bassa voce l’ultima hit di Enrique Iglesias.
Quando il fuoristrada si fermò la sentì muoversi accanto a sé ed aprendo un occhio la vide col busto in torsione che cercava di prendere la borsa a tracolla sui sedili posteriori. Vide la pelle tesa del suo ventre, lasciata nuda dalla maglietta grigia che le si era sollevata, e anche il suo ombelico.
La ragazza si accorse del suo occhio aperto e gli fece cadere sul viso la sua giacca di pelle marrone, rimbeccandolo: «Tieni gli occhi a posto, Kaulitz».
Lui sollevò le mani in segno di resa e rimase così fino a quando non sentì la portiera aprirsi e richiudersi lasciando che il freddo mattutino si infiltrasse nell’abitacolo.
Stava per togliersi la sua giacca dalla faccia, ma all’ultimo decise di tenersela: aveva un buon profumo, che respirò a fondo, tanto da sentirlo bruciare piacevolmente nei polmoni.
Ripensò alla notte che avevano passato insieme e non ci vide nulla di male, proprio nulla. Era stata una bella serata, anche se non avevano parlato molto né avevano fatto qualcos’altro. Si era sentito bene.
«Grazie a Dio esiste Starbucks!», esordì Grace entrando nuovamente nel fuoristrada con una confezione da quattro su cui erano impilati tre bicchieroni di caffè. La diede a Tom ed avviò il motore.
«Il tuo è il terzo», disse indicandolo frettolosamente, mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio.
«Questo?».
«No, quello è alla cannella, per tuo fratello. Quell’altro è il mio, alla vaniglia, e il tuo è l’unico rimasto».
Tom sollevò il suo bicchiere di cartone e se lo portò alle labbra per bagnarsele con il caffè. «Uhm. Ti piace Enrique Iglesias e il caffè con la vaniglia. Ho già imparato due cose su di te stamattina».
Grace lo guardò con la coda dell’occhio e sogghignò. «Lo spirito d’osservazione è importante, ma non sempre le cose sono come sembrano. Non mi piace Enrique Iglesias, quella canzone l’hanno mandata così tante volte alla radio che ormai l’ho imparata a memoria».
«Devi sempre stare lì a smontarmi», si lamentò, imbronciandosi.
La ragazza scosse il capo, arricciando le labbra in un sorriso.


«Mi raccomando, non andate in posti in cui non possa rintracciarvi».
Tom si voltò verso Helen prima di aprire la portiera e disse: «Tu ci rintracceresti persino al Polo Nord».
La ragazza sorrise corrugando la fronte. «Finalmente un complimento! Sono stupita, Tom».
Lui le fece l’occhiolino e scese dal fuoristrada. Fece il giro, passando di fronte al cofano, e si diresse verso le porte vetrate che davano sul giardino sul retro.
«Tom!», gridò Grace sporgendosi dal finestrino che aveva aperto. Lui si voltò e la guardò con un grande punto interrogativo in faccia.
L’investigatrice l’aveva chiamato per dirgli di quella serata, che tutto sommato si era sentita bene con lui, ma alla fine non fu più così sicura di volerglielo dire.
«Niente», concluse infatti, scuotendo il capo con un sorriso appena accennato sulle labbra.
Il chitarrista scrollò le spalle e rientrò in casa.

 

***

 

Bill si svegliò e vide suo fratello seduto al tavolo della cucina, vestito come il giorno precedente, che beveva da un bicchiere di cartone con il simbolo di Starbucks stampato sopra e puntava il telecomando verso la televisione.
«Che… Tom?».
Il gemello gli prestò un briciolo della sua attenzione e gli rivolse una rapida occhiata, dandogli il buongiorno.
Il frontman si alzò dal divano, levandosi la coperta di dosso, e traballò fino alla cucina, ancora un po’ intontito. Si mise seduto accanto al fratello e lo guardò attentamente, poi posò lo sguardo sull’altro bicchierone di caffè sul tavolo.
Lo indicò col dito, dicendo: «Non è opera tua, ne sono certo. Anche perché tu almeno ti saresti cambiato per uscire».
Tom sollevò il sopracciglio e con esso anche un angolo della bocca, in un mezzo sorriso. «Ebbene sì, è opera di Helen».
Bill ci mise qualche minuto a fare tutti i collegamenti del caso e, tenendo conto anche della strana luce che brillava negli occhi di suo fratello, capì che dovevano “aver fatto pace” in qualche modo.
«Raccontami tutto quello che è successo», lo minacciò assottigliando gli occhi.
Allungò il braccio fino ad arrivare al primo cassetto alla sua destra, quello delle posate, e ne tirò fuori una cannuccia di plastica rosa. La infilò nel bicchiere di caffè e dopo aver succhiato qualche sorso, concluse: «Dall’inizio».

 

***

 

Dormì ancora un po’ nel suo letto, dicendosi che se lo meritava dopo aver fatto tutte quelle ore notturne di straordinari.
Quando si svegliò il sole era già allo zenit ed ebbe solo il tempo necessario per una doccia, poi dovette correre fuori di casa per non arrivare tardi al suo appuntamento con Dylan.
Parcheggiò di fronte all’Homegirl Cafè e prima di scendere dal fuoristrada si guardò nello specchietto retrovisore: non aveva un filo di trucco sul viso e i capelli ancora umidi erano legati in una coda scomposta sulla nuca.
Respirò profondamente, tamburellando le dita contro il volante, poi si decise ad andare incontro a ciò che l’aspettava.
Camminò accanto alle vetrate del cafè e vide quasi subito Dylan all’interno, seduto ad uno dei tavolini contro la parete est del locale, che consultava il menù.
Grace entrò annunciata da uno scampanellio e Dylan sollevò il capo. I loro sguardi si incrociarono quasi subito e lei vi fuggì, in imbarazzo.
Si avvicinò al tavolo e si mise seduta di fronte a lui tossicchiando. Proprio come la mattina dopo aver fatto l’amore, non sapeva da che parte prenderlo, si sentiva a disagio e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era scappare il più lontano possibile.
«Ehi», la salutò lui.
«Ciao», riuscì a ricambiare.
Dylan le posò le dita sotto il mento e le tirò su il viso, in modo tale che potesse guardarla negli occhi e rassicurarla con un sorriso appena accennato, che celava il vero dispiacere che giaceva dentro di lui.
«Come stai?», le chiese.
«Tutto bene. Tu?».
«Ho rischiato di prendermi delle pallottole, ieri sera. Ma per il resto sto bene».
Grace trasalì. «Stai scherzando?».
«No, purtroppo no», scosse il capo. «Abbiamo visto dei ragazzetti spacciare un po’ di droga ai loro amici e li abbiamo avvicinati, questi hanno tirato fuori delle pistole ed hanno iniziato a sparare. Abbiamo aspettato che finissero i proiettili, poi hanno provato a scappare, ma li abbiamo presi».
«Feriti?», chiese la ragazza, con gli occhi grandi preoccupati.
«Un ragazzino, beccato di striscio alla spalla da uno degli spacciatori. Si riprenderà presto». Sorrise amaramente e posò una mano sulla sua. «Ho avuto la prontezza di gettarmi dietro un cassonetto. Ma se non avessi fatto in tempo? Se mi fossi beccato quelle pallottole?». Sollevò gli occhi e li immerse nei suoi. «È per questo che ho voluto vederti subito e risolvere questa faccenda, perché col lavoro che facciamo… non si può mai sapere per quanto si può rimandare. Non me lo sarei mai perdonato se avessimo lasciato in sospeso qualcosa tra noi».
Una cameriera messicana, con folti capelli neri e il naso a patata, lo interruppe chiedendogli che cosa volessero ordinare. Dylan rispose subito con: «Pollo con salsa di semi di zucca» e Grace ordinò la stessa cosa, conscia che non avrebbe mangiato molto comunque, vista la piega che aveva assunto la loro conversazione.
Quando la cameriera se ne fu andata, Dylan portò lo sguardo ancora su di lei, poi sulla sua mano, che accarezzò con il pollice.
«Non devi nemmeno pensarle queste cose», esordì Grace a bassa voce. «Rischia di farti sparare addosso un’altra volta e giuro che io…».
Il poliziotto ispanico ridacchiò. «Grace… nel caso dovesse capitare che qualcun altro mi spari addosso voglio che tu sappia fin da ora che l’unico motivo per cui lotterò sarai tu».
Grace trattenne il respiro, mentre veniva scossa da un fremito. Inconsciamente strinse la mano di Dylan ed abbassò lo sguardo.
«Quello che è successo quella sera…», riprese a parlare il ragazzo. «Non voglio che le cose tra noi cambino, o meglio…», si lasciò andare un sospiro e chiuse gli occhi per trovare le parole adatte per spiegarsi. «Io tengo molto a te, Grace. Non voglio perderti per nessuna ragione al mondo».
«Nemmeno io», sussurrò. «Da quanto…».
«…sono follemente innamorato di te?», concluse la frase per lei e fece per ridacchiare, ma gli riuscì per metà, perché l’altra metà gli si strangolò in fondo alla gola. «Da quella volta in cui abbiamo fatto coppia per prendere quel piccolo magnaccia…».
Grace annuì. Si ricordava di quella missione, era stata una delle prime in cui aveva collaborato con la polizia. Era ancora una ragazzina, e lui pure.
«Confortante», mormorò, arricciando le labbra.
«Che cosa?».
«Faccio l’investigatrice privata per mestiere e non sono mai riuscita a capire che tu – tu – provavi qualcosa per me».
«Non sei tu. Sono io che sono troppo bravo sotto copertura».
Grace sollevò il viso e si perse nel sorriso dolce di Dylan. All’inizio riuscì persino a ricambiare, poi il mondo le crollò improvvisamente addosso: il suo unico amico era innamorato di lei, erano andati a letto insieme e lei non aveva nemmeno uno straccio di idea su come agire.
Le tornarono alla mente episodi della sua adolescenza, parole ed immagini alla rinfusa che erano proprio fuori luogo; poi vide con fin troppa chiarezza l’immagine di Tom che dormiva accoccolato come un bambino sul sedile del suo fuoristrada, con una mano sotto la guancia.
La cameriera portò loro ciò che avevano ordinato e Dylan lasciò andare la sua mano per concentrarsi sul piatto che aveva di fronte, sospirando sommessamente al suo silenzio.
Grace si guardò la mano stretta a pugno sul tavolo e pian piano il calore di quella di Dylan svanì. Ricordò il calore che lei e Tom avevano creato quella notte nel fuoristrada e questo tornò a vivere sulla sua pelle.
Erano così diversi, loro due…
«Nemmeno io voglio perderti», ripeté Grace, attirando gli occhi di Dylan di nuovo su di sé.
«Non mi perderai», le rispose stiracchiando un sorriso. «Ora mangia, o si raffredda».

 

***

 

«Grace».
«Lionel».
L’ex-marine si mise seduto di fianco a lei ed ordinò un bicchiere di rum.
«Come mai mi hai fatto venire in questa bettola?», le domandò guardandosi intorno nel locale appena illuminato, in cui c’era una grande puzza di fumo e si potevano fare ottime conoscenze se si volevano avere soffiate su magnacci e traffici illeciti di droga.
«C’è gente simpatica qui», gli spiegò stringendosi nelle spalle. «E poi volevo fare quattro chiacchiere con te».
«A che proposito?». Ricevette il suo bicchiere di rum e se ne bagnò le labbra.
Grace invece tirò fuori dalla tasca della giacca di pelle marrone il suo pacchetto di sigarette e se ne accese una tenendola fra le labbra, poi porse il pacchetto all’ex-marine, il quale rifiutò gentilmente.
Espirò il fumo e disse: «Ho fatto una ricerca su di te».
«Ero certo che l’avresti fatto», sorrise. «Scoperto qualcosa di interessante?».
La ragazza annuì, imitando Lionel. «Voglio sapere perché sei venuto a cercarmi per dirmi che forse quell’omicidio in Virginia è collegato a quello di mio padre».
«Perché sono quasi certo che quella donna è stata uccisa perché sapeva qualcosa che non doveva sapere, proprio come tuo padre».
Grace si fece più vicina a lui, assottigliando gli occhi. «E cioè cosa?».
Lionel sorrise. «Ti stai chiedendo come faccio io a sapere del caso che stava seguendo tuo padre, vero?».
«Beh, il dubbio è lecito».
L’ex-marine finì di bere il suo rum. «Tuo padre era venuto a parlarmi, voleva che gli raccontassi tutto quello che era accaduto quel giorno a Baghdad». A quel ricordo le sue spalle si curvarono, come se improvvisamente gli fosse caduto addosso un peso che non poteva sopportare. «Mi aveva accennato qualcosa, da amico ad amico».
L’investigatrice soppesò le sue parole e si disse che dopotutto poteva avere un senso. Peccato che non ci fosse nulla sugli appunti di suo padre che provasse la loro chiacchierata.
«Ho bisogno di sapere che cosa vi siete detti», disse.
Lionel annuì e si guardò intorno con sguardo circospetto. «Spero non qui né adesso».
«No, non ti preoccupare».
Spense la sigaretta nel posacenere sul bancone e quella fu anche la fine del sorriso sulle sue labbra, che incontrarono il sapore della vodka liscia.
«Perché?».
Gli occhi di Lionel si posarono su di lei ed attesero che continuasse a parlare.
«Perché vuoi aiutarmi?».
«Mitch era un mio amico», rispose con tranquillità. «È il minimo che potrei fare per lui, scoprire chi l’ha fatto fuori a sangue freddo. Ho provato a fare domande in giro, ma… non ho contatti, non ho nulla in mano, e non sono portato per fare il detective». Dell’amarezza contaminò il suo lieve sorriso. «Da quando sono tornato da Baghdad la mia vita è andata a rotoli, non ho più uno scopo e quando ho letto di quella donna uccisa con lo stesso modus operandi in Virginia… sono venuto subito a cercarti».
Grace rimase in silenzio per un po’, cercando di ricordare qualcosa che la legasse a quell’uomo amico di suo padre e all’improvviso rammentò il volto di una bambina che rideva spensierata prendendola per mano e conducendola in giardino, mentre i loro genitori rimanevano a chiacchierare in salotto. Quella bambina aveva gli stessi occhi di Lionel e il suo stesso colore di capelli, biondi come se fossero stati immersi nel miele.
Non ricordava esattamente quando avevano smesso di giocare insieme, ma le passò di fronte agli occhi un pomeriggio in cui era andata da suo padre per chiedergli i soldi per il cinema e lui in risposta le aveva detto che uno dei suoi migliori amici stava per partire per l’Iraq.
«Lionel Reed. Ti ricordi di lui?», le aveva chiesto, con le mani intrecciate di fronte alla bocca. Lei aveva scosso il capo e aveva ripetuto: «Mi dai i soldi per il cinema?».
A sedici anni era così superficiale, capiva che cos’era una guerra ma non era importante chi ci andasse, chi moriva combattendo e chi tornava indietro. La cosa fondamentale erano i soldi per il cinema.
Solo crescendo era maturata, aveva scoperto che cos’era il dolore e aveva capito molte delle cose che suo padre le aveva detto, molte delle quali le erano ritornate vitali.
«Baghdad…», mormorò ancora soprappensiero. «Com’era?».
«Che cosa, la guerra? Caos e morte».
Il barista passò da loro per servirgli un altro giro. Quella volta anche Grace ordinò del rum.
«Una cosa interessante l’ho scoperta», riprese a parlare la ragazza, dopo qualche minuto di silenzio passato a bere. «Ho scoperto che hai ricevuto una Medaglia d’Onore per ciò che hai fatto in Iraq».
Una medaglia di quelle concesse solo ad un membro delle forze armate degli Stati Uniti che si distingue per un «atto di coraggio e ardimento a rischio della propria vita sopra e aldilà del richiamo del dovere mentre impegnato in uno scontro con un nemico degli Stati Uniti».
Lionel sorrise amaramente, socchiudendo gli occhi azzurri ed arrossati. «Sì, l’ho ricevuta. Ma la mia famiglia è saltata in aria, letteralmente».
Grace arricciò le labbra in una smorfia e posò una mano sul viso di Lionel, con una tenerezza che non riservava quasi a nessuno da quando suo padre era morto. Ma loro erano simili, avevano lo stesso dolore a marcirgli nell’anima.
L’ex-marine lasciò che le lacrime sgorgassero dai suoi occhi come un torrente ed alcune di esse scivolarono anche fra le dita di Grace, adagiate sulla sua guancia ispida a causa della barba di qualche giorno.
«Ci ho messo un po’», mormorò Lionel con le labbra tremanti. «Ho impiegato due anni della mia vita a cercare quei fottuti bastardi, ma li ho presi. Oh sì che li ho presi». Si voltò verso di lei ed accennò un sorriso fra le lacrime. «Il Presidente avrebbe dovuto darmi un’altra medaglia solo perché li ho lasciati in vita».
Grace ricambiò il sorriso. «Hai proprio ragione».
E fecero scontrare i loro bicchieri di rum.

 

____________________________

 

Tom, Dylan e Lionel. Tre persone con le quali Grace avrà un bel da fare d'ora in avanti, chissà in quale modo! :)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi possiate dire le cose che vi sono piaciute di più e di meno! Per quanto mi riguarda una delle mie scene preferite è proprio l'ultima con Lionel in lacrime per la sua famiglia distrutta dall'odio provocato dalla guerra.
Ringrazio ancora tutti coloro che hanno commentato lo scorso capitolo e anche chi ha soltanto letto :)
Ci vediamo lunedì prossimo, un bacio! Vostra, 

_Pulse_

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

 

Grace e Lionel passarono molto tempo insieme nei mesi successivi.
Lei gli aveva dato una copia di tutti i dossier e gli appunti di suo padre del caso che entrambi volevano risolvere, insieme avevano trovato delle informazioni sulla donna freddata in Virginia, e appena aveva un momento libero lo raggiungeva per esaminarli di nuovo da cima a fondo, accompagnati sempre da un po’ di alcool che non faceva mai male.
Capitava che a volte Grace si fermasse a dormire a casa sua e che la mattina facessero colazione insieme, sfatti.
Capitava, alle volte, che guardandosi negli occhi si sentissero sollevati, come se avessero ritrovato nell’altro qualcosa che pensavano di aver perso per sempre.
Una sera, dopo aver riesaminato tutto con attenzione e non aver trovato nulla di nuovo, si erano seduti in veranda con una birra in mano e avevano guardato il sole infuocato tramontare lentamente tra gli alberi del parco poco lontano da lì.
Lionel, seduto accanto a Grace, si era soffermato ad osservarla un po’ più del solito e lei gli aveva chiesto se avesse qualcosa in faccia; lui aveva sorriso e scuotendo il capo aveva detto: «Pensavo alla mia Hilary. Mi chiedevo come sarebbe stata alla tua età. Tu sei proprio come io volevo che fosse la mia piccola».
Grace aveva sorriso ed aveva abbassato lo sguardo, ma non aveva potuto fare lo stesso ragionamento: come sarebbe stata la sua vita se suo padre non fosse stato ucciso? Lei sarebbe diventata la stessa persona che era adesso? Lionel avrebbe mai potuto prendere il posto di suo padre?
Avrebbe potuto farsi altre mille domande, ma sapeva che sarebbero sempre rimasti quesiti senza risposte.


Nella mente di Grace, nelle nottate senza sonno trascorse a pensare, era scattato qualcosa, ma ancora non sapeva che cosa. Aveva come un presentimento e dentro di lei era nata la stramba idea di fare una visitina ai due terroristi che avevano fatto a pezzi la famiglia di Lionel.
Da quello che l’ex-marine le aveva raccontato, suo padre era andato da lui per chiedergli del giorno in cui aveva mandato all’aria l’attentato a Baghdad. Perché gli interessava? Era anche quello collegato al caso a cui stava lavorando?
E poi, perché ad un certo punto suo padre aveva smesso di prendere appunti? Era persino arrivata a pensare che avesse smesso perché riteneva troppo pericoloso ciò che stava scoprendo, per proteggerla, ma si sbagliava di grosso se credeva che così facendo l’avrebbe fermata. Se da lassù pregava perché lo facesse… beh, non avrebbe esaudito le sue preghiere.
Ne aveva parlato con Lionel, ma non gli aveva menzionato il fatto che volesse parlare con quei due pazzi. Era quasi certa che Lionel non avrebbe retto il colpo, vedendoli di nuovo.
Aveva provato da sola, ma non appena le avevano detto che quei due erano morti in carcere… beh, aveva lasciato perdere. 
Altra idea da cancellare.


Ovviamente non aveva smesso di pedinare Tom; anzi, in quei mesi aveva persino dovuto aumentare il ritmo perché sembrava che quei quattro finalmente avessero deciso di sfornare un nuovo album, per la gioia e gli ormoni di tutte le loro fan. Tra cui anche la piccola Molly, elettrizzata come non l’aveva mai sentita prima. Non a caso l’ultima volta che l’aveva vista di persona aveva evitato qualsiasi contatto fisico con lei per paura che potesse prendere la scossa.
Tom era il solito idiota che a volte faceva proprio di tutto per farsi odiare e che a volte era l’unico a capirla veramente, tanto da farla sentire meglio anche solo con la sua presenza.
Anche lui aveva notato la sua frustrazione, la sua poca attenzione, e una volta aveva provato a chiederle che cosa le stesse capitando, ma lei aveva abilmente cambiato argomento. Avrebbe tanto voluto parlargliene, ma… come?
In compenso gli aveva raccontato di Dylan. Non ne era stata particolarmente entusiasta all’inizio, ma mettendo da parte le battutine e le frecciatine aveva considerato alcuni aspetti mai presi in considerazione e aveva visto con occhi “maschili” tutta la faccenda.
Tom una volta le aveva detto, testuali parole: «Deve essere proprio andato se ha detto che non lo perderai mai. Non è una cosa che si dice tutti i giorni. Almeno, Bill direbbe così…». E Grace si era trovata d’accordo con lui. E sapendolo, non era proprio riuscita a mettere in chiaro un paio di cose con Dylan.
Lui… non le faceva pena, il fatto era che non voleva farlo soffrire e per quel motivo ogni tanto si era data a lui. Ogni tanto avevano fatto l’amore, ma loro non erano una coppia. Nessuno dei due sapeva che cos’erano diventati dopo la prima volta e non ne parlavano, proprio perché sapevano che non avrebbero cavato nemmeno un ragno dal buco. Erano così legati l’uno all’altra… tanto da non mettere dei paletti fra loro per non ferire l’altro.
Ma tutto questo non lo sapeva. Tom non sapeva che qualche volta andavano a letto insieme. Grace aveva come la sensazione che, dicendoglielo, le cose si sarebbero compromesse anche con lui e… ah, ne aveva abbastanza di compromettere le cose con tutti.


Alzò al massimo l’aria condizionata e si coprì meglio con la coperta, mentre allungava le gambe sul cruscotto. Poi si soffiò rumorosamente il naso.
Non era esattamente nella sua forma migliore, ma quei giorni sembravano essere i più cruciali per Molly: era da più o meno un mese che fremeva per sapere che cosa avrebbero fatto i gemelli a Natale e Grace non se l’era proprio sentita di darle buca per uno stupido raffreddore.
Chiuse gli occhi, posando il capo contro il poggiatesta, e ricordò i Natali passati con suo padre. Quando c’era lui adorava quella festa, era la sua preferita in assoluto. Ora, con lui morto e i suoi assassini ancora a piede libero, non le faceva il ben che minimo effetto, anche se stare nel suo fuoristrada a spiare una rock star era un po’ deprimente.
Accese il laptop che aveva sulle gambe e si collegò alla microspia che aveva piazzato nel salotto dei Kaulitz. Poi intercettò anche la frequenza di quella che aveva installato nel loro telefono.
Si strofinò gli occhi che le bruciavano e li chiuse, posando la fronte sul finestrino fresco.
In quel periodo a Los Angeles c’erano a malapena dodici gradi centigradi – faceva davvero freddo, dato che di solito negli altri mesi si registravano costantemente dai venti gradi in su – ma Bill e Tom se ne andavano in giro solo con magliette a maniche lunghe e felpe. In effetti, per loro che arrivavano dalla Germania, doveva essere una sorta di primavera quella.
Si appisolò giusto per qualche minuto, fino a quando una ventata d'aria fresca non la fece rattrappire. Si voltò verso destra e vide Tom entrare nel fuoristrada con la fronte aggrottata.
«Helen? Stai bene?».
La ragazza si affrettò a chiudere il laptop di fronte a sé e scosse leggermente il capo, non facendo altro che aumentare il senso di vertigine.
Sentì qualcosa di morbido e allo stesso tempo calloso sulla fronte e sobbalzò quando si rese conto che quella era la mano di Tom. Lo guardò con la coda dell’occhio, trattenendo il respiro, ed aspettò che la togliesse per riprendere ad incamerare ossigeno.
«Tu hai la febbre. Non dovresti stare qui dentro, sai? L’aria condizionata non funziona nemmeno bene».
«Che cosa…?», farfugliò Grace, assottigliando gli occhi.
«Vieni con me, dai». La incitò con una sollevata di sopracciglia e poi si sciolse in un sorriso. «Bill ancora non morde, non aver paura».
L’investigatrice gettò uno sguardo verso la casa e poi lo posò di nuovo su di lui. Non poté rifiutare e forse era vero che l’aria condizionata non funzionava bene: aveva i piedi congelati.
Entrarono in casa passando per il giardino sul retro e nell’ampio salotto diviso in zone incontrarono subito uno dei cani dei gemelli, che iniziò ad annusarla, e Bill, appollaiato su uno dei tre divani in pelle che creavano una specie di recinzione intorno al televisore al plasma. Stava sfogliando una rivista, Vogue se non errava.
Appena la vide nei suoi occhi si illuminò qualcosa, nonostante la sorpresa, e un grande sorriso gli si dipinse sul volto senza trucco.
«Ciao», la salutò, gettando da parte il giornale. «Helen, vero?».
«Helen», annuì lei, non troppo convinta. «Bill, vero?».
«Così pare», ridacchiò.
I suoi occhi luminosi si posarono sul gemello, il quale ricambiò lo sguardo con un’espressione minacciosa sul viso, che sembrava proprio voler dire: “Se dici qualcosa ti ammazzo”.
«Helen non sta molto bene, mi sa che ha la febbre, e ho pensato che poteva stare un po’ qui», gli spiegò poi, dosando bene la cadenza di ogni parola. «Giusto per non peggiorare le cose».
Il gemello sfarfallò le ciglia. «Oh, come sei carino a preoccuparti per lei, Tomi», disse, in tedesco però, non essendo a conoscenza che lei in realtà lo sapeva.
«Comunque è ovvio che puoi stare», si rivolse a lei quella volta, alzandosi e lasciandole il divano proprio di fronte al plasma. «Ti vado a preparare qualcosa di caldo. Un tè, magari?».
«Magari», sorrise impacciata. «Grazie».
«Oh, figurati!». E saltellò in cucina.
Quando se ne fu andato, Tom scosse il capo e posò una mano sulla schiena di Helen per farla avanzare.
Immediatamente nel punto in cui la toccò scoppiò un incendio e Grace arrossì come non faceva da anni; il rossore dovuto alla febbre però nascose il suo imbarazzo.
Si mise seduta sul divano, vagamente a disagio, e si guardò intorno come se ci fossero pericoli ovunque.
Tom lo notò. «Perché sei così in ansia? Rilassati un attimo!».
«È una cosa più forte di me», scrollò le spalle, stringendosi un po’ di più nella sua coperta.
Tom si alzò e andò a prendergliene un’altra, gliela gettò sopra e si mise seduto sul tappeto, con le spalle appoggiate al divano, all’altezza delle sue gambe piegate.
«Beh, fattela passare», disse, «perché fai stare in ansia pure me».
Grace rimase per qualche secondo ad osservarlo e vide nei suoi occhi il riflesso del plasma acceso di fronte a loro. Non si sentiva praticamente nulla, il volume era quasi a zero, ma a nessuno dei due interessava.
Ad un certo punto arricciò le labbra in un sorriso e trattenne una risatina sinceramente divertita. Tom girò il capo verso di lei ed aggrottò le sopracciglia.
«Perché ridi?».
«Stavo pensando che… sei davvero carino a preoccuparti per me, Tomi».
La seconda metà della frase l’aveva detta in tedesco ed appena il ragazzo aveva realizzato che sapeva parlare la loro lingua madre – anche se con una pronuncia un po’ arrugginita – era decisamente andato in panico.
Grace gli diede una leggera pacca sul capo, come a volerlo confortare. «Non ti preoccupare, non è successo nulla di grave», ridacchiò.
Il silenzio cadde su di loro e i loro sguardi si posarono su tutto fuorché sull’altro.
Helen intrecciò le dita delle mani sopra le coperte e si schiarì la voce prima di parlare di nuovo, con un tono più insicuro e perciò senza ironia: «Davvero, non era necessario che ti preoccupassi per me».
Tom rimase ancora per qualche secondo in silenzio, poi si voltò di scatto verso di lei ed aprì la bocca, ma venne bloccato da Bill che rientrò in salotto con un vassoio su cui c’erano tre tazze di tè caldo, lo zucchero e un po’ di latte.
«Eccoli qua, i piccioncini», squittì a bassa voce in tedesco, ma entrambi sentirono ed in particolare Tom, che divenne tutto rosso in faccia dalla rabbia.
Il frontman se ne accorse e posò spaventato lo sguardo su Helen, la quale alzò le mani e con espressione dispiaciuta disse: «Capisco e so parlare il tedesco».
«Oh. Fantastico», mormorò Bill, arrossendo.
«Vai a cagare», sibilò subito dopo Tom, lanciandogli un’occhiataccia.


Il tè di Bill era davvero buono, doveva chiedergli se avesse una ricetta particolare. Non beveva un tè del genere da quando i suoi genitori avevano firmato le carte della separazione. A suo padre non era mai piaciuto il tè, era sua madre la patita, probabilmente perché essendo mezza londinese ce l’aveva nel sangue.
«Che cosa fate per Natale?», domandò senza sollevare lo sguardo dalla bevanda, soffiandoci sopra ogni tanto, in modo tale che si raffreddasse; inoltre le piaceva come il calore e il profumo che si sollevavano si posassero piacevolmente sul suo viso.
«Domani mattina partiamo. Passeremo la Vigilia, il giorno di Natale e forse qualche altro giorno da mamma, in Germania».
Bill gettò un’occhiata sconcertata al gemello, il quale scrollò le spalle e spiegò: «Tanto lo avrebbe scoperto comunque», indicando Grace, che sorrise. Sotto sotto, quello era un altro complimento.
«Tu invece?», le chiese Tom, puntando gli occhi in quelli della ragazza.
«Ancora non lo so».
Il chitarrista sbuffò. «Qualche idea?».
«Forse con Dylan». Scosse leggermente il capo. «Non lo so».
Tom si appoggiò lentamente allo schienale del divano e si portò le mani dietro la nuca. «Non ce l’hai una famiglia?».
Grace si irrigidì nel suo stesso abbraccio ed assunse un’espressione distaccata. Infine scrollò le spalle, cosa che mandò in bestia il ragazzo.
«Siamo alle solite», berciò senza guardarla.
«Che ci vuoi fare, è la vita», rispose lei.
«Ragazzi…», tentò di dividerli Bill, ma il fratello lo interruppe, alzando un po’ di più il tono della voce.
«No, non è la vita, è che tu non vuoi raccontare mai un cazzo di te!».
La ragazza continuò a rispondere con voce pacata: «Non vedo perché dovrei».
«Okay, io me ne vado…». Bill si alzò e nello stesso istante lo fece anche Tom, infuriato.
«Questo tuo modo di comportarti non è da persona normale, semplicemente!», gridò piazzandosi di fronte a lei. «Sono mesi che ci conosciamo – mesi! – e tutto quello che so di te è decisamente irrilevante! È come se ti avessi conosciuto ieri, in pratica! Non so nemmeno qual è il tuo cantante preferito!».
Grace si alzò dal divano lentamente, mettendosi sulle spalle la sua coperta proprio come se fosse un mantello, e sostenne senza difficoltà il suo sguardo. Anzi, quando Tom ebbe di fronte i suoi occhi verdi si ritrovò spiazzato.
«Me ne basta uno», sollevò l’indice fra i loro visi. «Dammi un motivo valido per cui dovrei parlarti di me».
Rimasero così, testa a testa, per minuti interi. Bill, paralizzato sul posto, li guardò attentamente e riuscì a sentire sulla sua pelle l’elettricità che vibrava intorno a loro. Era certo che Tom avrebbe potuto fare solo due cose: tirarle uno schiaffo, così forte da farla cadere a terra, oppure baciarla. E forse era proprio quel dubbio a tenergli i piedi ben radicati lì e gli occhi fissi su di loro.
«Tu dici sempre che mi conosci», disse infine Tom, spezzando il silenzio.
Grace stiracchiò un sorriso amaro. «Non è un motivo valido».
«Beh, allora sai che cosa puoi fare? Andare affanculo», disse a denti stretti il chitarrista, prima di correre su per le scale che portavano al soppalco e alle camere da letto.
La ragazza ascoltò il rumore di una porta che sbatteva, poi chiuse gli occhi e trattenne una risata malinconica.
Si girò verso Bill e gli concesse un sorriso più sincero. «Grazie per l’ospitalità e per il tè, era veramente ottimo. Mi dovrai dire come lo fai».
«D-Dove vai?», le domandò titubante, ma lei non rispose, uscì dalle porte scorrevoli, attraversò il giardino sul retro e rientrò nel suo fuoristrada.
Si sistemò meglio sul sedile abbassato, stringendosi più che poteva nella sua coperta, ed alzò al massimo l’aria condizionata. Quindi chiuse gli occhi.


Tom, seduto sulla poltrona nella sua camera da letto, guardava proprio Helen nel suo fuoristrada, che batteva i denti per il freddo e continuava a girarsi per trovare una posizione più comoda. Il tutto inconsciamente, perché si era addormentata già da un po’.
Sbuffò sonoramente, dicendosi che non avrebbe dovuto farlo, ma si alzò dalla poltrona ed uscì dalla sua stanza. Andò a prendere un po’ di altre coperte e trotterellò giù dalle scale senza sapere bene dove mettere i piedi. Non rispose alle domande del fratello, inforcò le scarpe ed uscì di casa.
Raggiunse il fuoristrada di Helen, aprì la portiera in silenzio per paura di svegliarla e lentamente tirò giù il sedile del passeggero. Si sdraiò sul fianco accanto a lei e la coprì con le coperte, lasciandosene un bordo anche per sé. Poi rimase lì in silenzio a guardarla.


Quando Grace aprì gli occhi, accortasi del piacevole calore che la ricopriva, vide Tom di fianco a sé, che la fissava, e non si sorprese.
Ricambiò lo sguardo per diversi minuti, senza dire niente, poi riabbassò le palpebre pesanti.
«Adoro i Coldplay», mormorò. «Li adoro».
Tom sorrise, reprimendo una lieve risata, e le sistemò un ciuffo di capelli neri dietro l’orecchio arrossato per la febbre. Glielo avvolse con il palmo della mano e chiuse anche lui gli occhi.

 

***

 

Molly, titubante, dondolò sui talloni e le gettò sulla scrivania un rotolo di banconote da cinquanta dollari fermato con un elastico.
«Per che cosa sono questi?», le domandò Grace, puntando i gomiti sulla scrivania, con le mani sulla fronte ancora calda. Grazie alla sua espressione stanca poteva apparire anche leggermente disperata.
«C’è un volo che parte tra…», controllò sull’orologio che aveva al polso, «mezz’ora».
Grace assottigliò gli occhi. «Un volo per dove?».
«Per la Germania». Le schioccò un sorriso smagliante, che le incavò le guance e gliele alzò di qualche centimetro, tanto da sembrare dei cuscini per le ciglia.
«Oggi è il 22 dicembre, non il 1° aprile. Non è il giorno giusto per gli scherzi».
«Non è uno scherzo!», disse con voce squillante, scivolando sulla punta della poltrona per guardarla negli occhi da più vicino. «Desidero davvero che tu vada là. Magari vedrai anche la neve!».
Grace ricambiò il suo sguardo con uno inespressivo, poi si voltò verso la finestra del suo ufficio.
Le tornò alla mente la settimana che aveva trascorso con suo padre nella sua terra natia, a Berlino precisamente, dai suoi nonni. Un giorno aveva nevicato così tanto che svegliandosi alla mattina si era spaventata, perché tutto fuori dalla finestra era ricoperto di bianco. Una splendida, innocente valle bianca.
Quando suo padre era morto aveva pensato alla neve. Sì, ricordava fin troppo bene quell’immagine. Aveva visto la neve spruzzata di sangue. E tutta l’innocenza era stata spazzata via.
Allontanò da sé le banconote arrotolate e scosse il capo. «Non ci vado in Germania. Staranno lì solo qualche giorno, che trascorreranno con la loro famiglia. Nulla di speciale, le solite cose che fanno le famiglie a Natale».
Molly abbassò lo sguardo e fece scivolare di nuovo le banconote nella sua borsetta firmata. Si alzò in piedi e si ravvivò i capelli biondi, che le ricaddero in morbidi boccoli sul collo di pelo bianco del cappotto rosa che indossava.
«Tu che cosa farai in questi giorni?».
Grace distolse ancora lo sguardo e scosse il capo. «Non lo so ancora».
«Se ti va potresti venire a cena da me la Vigilia. Ci sarà tantissima gente che non conosco nemmeno, mio padre parlerà d’affari tutto il tempo e mia madre della sua nuova linea d’abbigliamento. Tu almeno mi farai compagnia», disse con lo sguardo acceso di speranza. Sembrava ancora una bambina, nonostante i suoi quattordici anni.
L’investigatrice si alzò dalla sua poltrona, le andò di fronte e le posò le mani sulle spalle, accennando un sorriso.
«Mi farebbe davvero molto piacere».
«Ti aspetto, allora».
Grace annuì. Molly si diresse verso la porta e l’aprì, poi si girò di nuovo verso di lei e con gli occhi che nascondevano un vago senso di abbandono disse: «Tu sei l’unica vera amica che ho. Buffo, no?».
«Sì, buffo», rispose e Molly abbassò di nuovo lo sguardo uscendo dal suo ufficio.
Grace si portò alla finestra e allargò lo spazio tra una lamella e l’altra della tenda alla veneziana. Guardò in strada e vide Molly salire sulla sua limousine bianca. Rimase lì a guardare l’auto allontanarsi, poi prese la sua giacca di pelle marrone e corse fuori dall’edificio, diretta al suo fuoristrada parcheggiato dall’altra parte della strada.


Arrivò trafelata all’aeroporto di Los Angeles, guardò i tabelloni e vide che mancava ormai pochissimo alla partenza dell’aereo che avrebbero preso i gemelli per andare in Germania.
Attraversò tutto l’ampio salone di corsa e vide i due, imbacuccati con occhiali da sole e cappellini sulla testa, dirigersi verso il gate.
«Tom! Tom, aspetta!».
Il ragazzo, udendo il suo nome, si voltò e la guardò correre verso di lui. Ne rimase piuttosto sbigottito, dato che lei non aveva mai fatto una cosa del genere prima d’ora.
«Che cosa… Helen, che ci fai qui?», le chiese, mentre suo fratello si era già avviato e il bodyguard che per sicurezza gli stava alle costole non sapeva se andare con lui oppure restare col chitarrista e la ragazza.
Grace si tirò indietro i ciuffi di capelli che durante la corsa erano sfuggiti alla coda scomposta che aveva sulla nuca, ma fu pressoché inutile, poiché tornarono ad accarezzarle il viso spruzzato di efelidi.
Respirò profondamente, per cercare di mandare via il fiatone, e si lasciò andare ad un sorriso.
«È una lunga storia. Mi devi fare un favore».
«Lo sapevo che c’era qualcosa sotto», brontolò il ragazzo. «E io che pensavo che fossi venuta per salutarmi!».
«Ah, non mi conosci proprio per niente allora», scherzò e anche se quello di solito era un tasto dolente, quella volta Tom ci sorrise sopra.
«Tom, ci lasciano a terra!», gridò Bill, già dall’altra parte del check-in.
«Arrivo, un attimo!», gridò di rimando e si voltò verso la ragazza, la quale gli rivolse un altro insolito sorriso luminoso, mentre gli prendeva la mano e con una penna gli scribacchiava sul palmo un numero di cellulare.
«Appena puoi chiama questo numero». Lo guardò intensamente negli occhi e gli puntò un dito contro. «Promettimi che lo farai».
«Questa è bella», borbottò.
«Promettimelo, Tom».
Il chitarrista sollevò lo sguardo nel suo e promise, ipnotizzato da quegli occhi che si abbellivano ogni giorno di più.
«Grazie», sospirò Grace, dandogli uno schiaffettino sulla guancia. «Ora vai, o ti lasciano davvero qui. Buon viaggio».
Si girò e si allontanò, infilando le mani in tasca e non guardandosi più indietro.

 

***

 

La sera della Vigilia, Grace si trovò nel suo appartamento, sola.
Non era per niente in vena di festeggiamenti e aveva già avvertito Molly, prima di chiamare uno di quei ristoranti giapponesi take away – uno di quelli che non avrebbe mai chiuso, nemmeno se fosse finito il mondo – ed ordinare la sua cena a base di sushi.
Mentre aspettava si mise seduta sul divano e sintonizzò la televisione su un canale in cui davano l’ennesimo film di Natale, visto e rivisto.
Soprappensiero accarezzò con la punta delle dita lo schienale piatto del divano bianco e raggiunse senza nemmeno a farlo apposta il suo cellulare. Lo prese fra le dita e premette il tasto delle chiamate rapide: lesse il primo numero sulla lista e pigiò il tasto con la cornetta verde.
«Grace…», rispose con un sospiro Dylan, come se fosse già dispiaciuto per ciò che le avrebbe detto.
In sottofondo il suono della sirena della volante di polizia e la radio che gracchiava, mentre il motore si riscaldava e l’acceleratore veniva premuto.
La ragazza accennò un sorriso amaro. «Sei in servizio, eh? Pure la Vigilia di Natale?».
«Forse gli automobilisti sconsiderati non festeggiano il Natale».
«Probabile».
«Appena finisco vengo da te».
«Appena finirai dormirò già».
«Ti guarderò dormire, allora».
«Okay», mormorò.
«Okay. Ciao, tesoro».
«Ciao», sussurrò in modo appena udibile, prima di riappendere.
Chiuse gli occhi, appoggiandosi ai cuscini alle sue spalle, e si posò un polso sulla fronte.
Del tutto all’improvviso le ritornarono alla mente le parole di Tom: «Non ce l’hai una famiglia?».
Una famiglia… Beh, forse un tempo ce l’aveva. Ora, non ne era certa.
Si sollevò, raggiunse il cordless sul tavolino basso di fronte a lei e compose il numero di sua madre.
Da quando i suoi genitori si erano separati e ancora di più da quando suo padre era morto aveva smesso di sentirla, il loro rapporto era andato proprio disintegrandosi, e non seppe nemmeno perché ebbe la stramba idea di telefonarle. Forse perché era Natale.
«In questo momento non sono in casa, vi prego di lasciare un messaggio dopo il bip e vi richiamerò al più presto».
Sentire la sua voce, seppur gracchiante attraverso la segreteria telefonica, le fece venire la pelle d’oca. Solo allora si rese conto del tempo che era passato.
Ci fu il famoso bip e Grace rimase per qualche secondo in silenzio, poi sospirò ed infine chiuse gli occhi dicendo: «Ciao mamma. Sono io, Grace. Io… beh, volevo soltanto… Buon Natale». E buttò giù, portandosi le mani fra i capelli.

 

***

 

Tom bloccò la tastiera del suo cellulare scuotendo leggermente il capo e sbuffò.
«Chi hai provato a chiamare?», gli chiese Bill, comparendo all’improvviso dietro di lui.
«Fatti gli affari tuoi, impiccione».
«Tanto lo so che era lei», sghignazzò e si spostò dalla sua traiettoria, prima di vedersi arrivare un cuscino in faccia.
«Non ti ha risposto?», gli domandò poi, più serio.
«No, io… non l’ho chiamata, in realtà».
Bill socchiuse le labbra. «Tu però… vuoi farlo, no?».
«Non lo so», sbuffò e si alzò dal divano. «Vado a fumarmi una sigaretta».
«Tesoro, il fumo fa male!», lo rimproverò sua madre dalla cucina.

Fosse solo quello…
Si mise seduto in veranda con la sigaretta penzoloni fra le labbra. Il suo cane preferito posò il muso sul suo grembo e lui lo accarezzò sorridendo. Poi lo sguardo gli cadde sul numero un po’ sbavato che aveva ancora segnato sul palmo della mano e si ricordò della promessa fatta a Helen.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca, compose quel numero e, anche se un po’ titubante, se lo portò all’orecchio.
«Pronto?», rispose la voce di una ragazzina.
«Ehm… ciao. Sono Tom Kaulitz e… beh, Helen mi ha detto di chiamarti. Buon Natale».

 

***

 

Solo il trillo del campanello riuscì a schiodarla da quel divano. Grace andò alla porta, convinta che fosse il ragazzo del take away, ma si trovò davanti Lionel, con una bottiglia di vino infiocchettata.
«Sorpresa», sussurrò con un sorriso vivace sulla bocca.
«Lionel! Che cosa ci fai qui?».
Sbirciò all’interno della casa. «Sei sola?».
«Sì, ma…».
«Allora sono venuto a farti compagnia. Non è bello passare la notte di Natale senza nessuno accanto, non trovi? E poi mica vorrai farmi bere tutto questo buon vino da solo, vero?».
Grace scosse il capo, ridacchiando. «Oh, no di certo».
Lo lasciò entrare e si sistemarono entrambi nella piccola cucina aperta, seduti sugli sgabelli alti del bancone che dava sul salotto e in particolare sul divano.
Sorseggiarono un po’ di quell’ottimo vino, discorrendo del più e del meno, fino a quando il campanello non trillò di nuovo.
«Aspettavi qualcuno?», domandò Lionel, con le gote già un po’ arrossate a causa dell’alcool.
«Nessuno, a parte il ragazzo del ristorante giapponese. Deve essere lui».
Ma anche quella volta sbagliò previsione. Infatti, dietro la sua porta c’era una Molly eccitata, vestita e truccata come una vera donna pronta per andare ad una cena di gala.
«Molly, ma tu…?».
La ragazzina la interruppe gettandole le braccia intorno al collo. «Ti adoro Grace/Helen! Macché, ti amo!».
«Oh, ho capito», ridacchiò. «Tom ti ha chiamata, non è così?».
«Sì!», saltellò sul posto sui suoi tacchi – non troppo alti, ma nemmeno uno scherzo. «Oh, è stato… ah, non me lo dimenticherò mai! Ha una voce così bella! È il Natale più strepitoso della mia vita!».
«Sono contenta per te», le passò dolcemente una mano fra i capelli. «Resti un po’ con noi?».
«Perché no? Non penso che a casa qualcuno si sia accorto della mia assenza», scrollò le spalle e sorridendo si tolse i tacchi, per poi correre a presentarsi e a gettarsi sul divano, dove monopolizzò il televisore.
Grace guardò rapita quello strano quadretto e sobbalzò quando per l’ennesima volta suonarono al campanello. Quella volta era il ragazzo del take away con la sua cena.
«Si mangia!», gridò felice.
Posò tutti i sacchetti sul bancone ed insieme a Lionel divise per tre quello che aveva ordinato. Molly si mise seduta accanto all’ex-marine e Grace, di fronte a loro, sorrise con una serenità nel cuore che non sentiva da tempo.
Pensò che forse non aveva una famiglia, ma qualcosa di simile. A cui mancava solo…
Prese il cellulare e scrisse un breve messaggio, poi lo inviò.
«Buon appetito e buon Natale!», gridò Molly e la ragazza sollevò il capo, ricambiando gli auguri e scambiando uno sguardo complice con Lionel.


Sentì la porta di casa aprirsi dopo qualche giro di chiave e poi dei passi che si avvicinavano alla sua stanza. Vide Dylan affacciarsi, mentre si toglieva la cintura con la fondina della pistola. Chiuse gli occhi e finse di dormire.
Lui, del tutto ignaro che fosse sveglia, salì sul suo letto e si appoggiò col petto alla sua schiena, in modo tale da riuscire a vederle il viso illuminato in parte dalla luce della luna.
Una mano le scivolò sul braccio, dal gomito alla spalla nuda, per poi posarsi sul suo collo. Il respiro caldo di Dylan le sfiorò l’orecchio e le sue labbra si posarono sulla sua tempia in un tenero bacio.
Lei sospirò e si sdraiò sulla schiena per guardarlo in viso. Lui allora sorrise e le accarezzò il viso con una mano, sussurrando: «Buon Natale».
Poi la baciò e Grace ricambiò senza molta convinzione, ma Dylan non se ne accorse e si intrufolò sotto le coperte, la sovrastò e le aprì le gambe.
Iniziò a muoversi, a sospirare e a gemere dentro di lei, ma Grace, aggrappata alle sue spalle, non pensò ad altro che al messaggio che aveva mandato a Tom qualche ora prima.

 

Buon Natale, Tom. Quasi quasi mi manchi.

 

______________________________________

 

Oddio, è già Natale! Un po' in anticipo rispetto a noi, però vabbè xD
In questo capitolo viene spiegato un po' il rapporto che si è creato tra Grace e l'ex-marine Lionel, ma non solo! Si direbbe che lei e Tom stiano sempre più diventando amici (solo?), anche se hanno i loro alti e bassi e Grace non si vuole aprire ancora con lui... E poi ora ha conosciuto Bill ufficialmente, quindi è come se facesse parte della famiglia xD
Abbiamo anche visto per la prima volta Molly, fin'ora rimasta un'entità telefonica xD E come vi sembra? A me sta troppo simpatica e più avanti sarà una vera protagonista ;) Tra l'altro, ha confidato a Grace che lei è la sua unica amica ed è persino andata da lei a cena la Vigilia! E Grace le ha fatto pure il regalo di essere chiamata da Tom in persona! Che bello, questo sì che è Natale *^*
Per quanto riguarda Grace e Dylan la situazione è ancora un po' complicata, chissà se si risolverà mai? 
Ho detto fin troppo oggi, spero di non avervi fatto addormentare e che questo capitolo vi sia piaciuto! :) 
A lunedì prossimo, un bacio a tutti e grazie!! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 

«Oh, salve signora Thompson». Si alzò dalla scrivania e le strinse la mano.
«Nuovo coinquilino in vista?», domandò nascondendo un sorriso divertito fra le labbra.
La donna roteò gli occhi al cielo, concedendosi un sospiro mentre si sedeva su una delle due poltrone di fronte alla scrivania, dietro la quale si era appena accomodata Grace.
«Mi sembrava che quella ragazza fosse in regola, che le piacesse», continuò la detective. «Che fine ha fatto?».
«Ha detto che non mi facevo gli affari miei ed ero troppo assillante», sventolò una mano come se avesse dovuto scacciare una mosca. «Se n’è andata».
«Oh… capisco». Nascose ancora una volta il sorriso divertito che premeva per mostrarsi.
«Vuole che agisca nel solito modo di sempre col nuovo coinquilino?».
«Esattamente», la donna annuì.
«Sarà fatto», le sorrise e si alzò per stringerle la mano mentre l’accompagnava alla porta.
Una volta sola nel suo ufficio liberò finalmente quel sorriso divertito, che si accompagnò più che piacevolmente ad una risatina.
La signora Thompson era una frizzante sessantenne che era sempre stata una sua cliente affezionata, al contrario di tutti quelli che entravano in casa sua per affittare una delle innumerevoli stanze vuote.
Una donna dolcissima e premurosa, ma, ecco, forse un po’ troppo. Non aveva mai avuto figli e da quando suo marito era morto soffriva di disturbi ossessivi-compulsivi: puliva casa in continuazione, ma soprattutto si occupava con troppa premura delle persone che andavano ad alloggiare in casa sua, tanto che veniva spesso definita una ficcanaso ed una possessiva. Ciò che non aveva mai dato ai figli che avrebbe voluto avere lo dava ai suoi ospiti, in maniera fin troppo esagerata.
L’investigatrice privata si era sempre occupata di sorvegliare i coinquilini della signora Thompson per i primi giorni per capire le loro abitudini, i loro interessi e tutto ciò che poteva interessare alla vecchietta per compiacerli in ogni modo – con impeccabile nonchalance ovviamente.
Grace tirò su la cornetta del telefono sulla scrivania e compose il numero di Molly.
«Sì, chi è?», rispose con voce squillante la ragazzina.
«Buongiorno Molly, sono io».
«Oh, Grace! Ciao! Dove sei?».
«Ti ho chiamata col telefono fisso, dove credi che sia?».
«Che ci fai ancora in ufficio?! L’aereo di Tom atterrerà fra… cinque minuti!».
«Oh, me ne bastano due per arrivare all’aeroporto», sogghignò. «Comunque volevo avvisarti che ho accettato un caso di routine. Mi serviranno solo pochi giorni, poi tornerò a concentrarmi ventiquattr’ore su ventiquattro su Tom, okay? A te sta bene?».
«Sì, certo. Al massimo se ho bisogno di qualcosa chiamo direttamente lui!», rise come una bimba e Grace scosse il capo, arricciando le labbra in un sorriso.
«Non assillarlo, ti supplico; poi se la prende con me», l’ammonì.
«Oh no, non ti preoccupare!», si affrettò a dire. «Non avrei mai il coraggio di chiamarlo!».
Fu lei quella volta a ridere, mentre si infilava la giacca di pelle marrone.
«Beh, nemmeno lui dopo l’ultima volta, visto quello che mi hai raccontato».
«Su su, torna al lavoro, sfaticata!», disse con tono offeso, ma prima di terminare la chiamata rise anche lei.

 

***

 

Tom scese dall’aereo e si coprì subito gli occhi con un paio di grossi occhiali da sole.
Si era appena svegliato, ci vedeva a malapena e con gli occhiali non era tanto meglio, ma almeno nascondeva gli occhi ancora piccoli e lucidi e le borse provocate dal fuso orario.
Lui e suo fratello – nelle sue stesse condizioni – aspettarono i loro bagagli e una volta presi si diressero verso l’uscita. Proprio allora Tom si accorse della ragazza seduta ad uno dei tavolini esterni del bar all’interno dell’aeroporto.
Appena lei notò il suo sguardo alzò gli occhi e gli sorrise, alzandosi ed affiancandolo come se nulla fosse.
«Ciao», lo salutò a bassa voce e gli porse uno dei due bicchieroni giganti di caffè che aveva in mano.
«E a me non l’hai preso?!», squittì offeso il frontman, con una borsa decisamente femminile appesa al braccio e uno sguardo che sotto gli occhiali scuri doveva essere adirato.
«Questo con la cannuccia per chi credi che sia?», gli domandò la ragazza, porgendogli il secondo bicchierone di carta che aveva in mano.
«Oh, sia lodato il cielo», sospirò e si attaccò come una ventosa alla cannuccia gialla.
Grace tornò a guardare Tom e il sorriso che aveva in faccia pian piano si allargò, assumendo un tratto un po’ beffardo.
«Sei proprio messo male. E menomale che sei tu quello abituato a viaggiare in tutto il mondo».
«Ah-ah, quanto ridere», biascicò.
«Sono contenta che sia andato bene il viaggio, comunque», gli diede una pacca sulla scapola.
Li accompagnò alla loro auto e lo stesso bodyguard che avevano alla partenza gli aprì la portiera. Bill si infilò subito in macchina, ancora attaccato alla cannuccia. Tom invece si guardò intorno con circospezione e poi guardò negli occhi, occhiali permettendo, la ragazza di fronte a sé.
Lei si rese conto della serietà del suo volto, che sembrava più spigoloso e duro, e la sua espressione si adeguò di conseguenza, non nascondendo però un po’ di insicurezza.
«Ti sono mancato davvero o quel “quasi quasi” stava a significare: “Ti sto prendendo per il culo”?».
La domanda la sorprese, e non poco. Questo ebbe delle ripercussioni sulla sua lucidità, tanto che faticò a controllare la propria voce.
«A te cosa sembrava?», sussurrò assottigliando gli occhi.
«Non lo so», rispose abbassando ancora un po’ il tono di voce.
«Già», annuì Grace. «Non lo so».
Tom la imitò, muovendo su e giù il capo, lentamente. «Bene».
«Adesso devo andare». Indicò con il pollice il fuoristrada alle sue spalle, dall’altro lato della strada.
«Dove? Tu non… non ci segui?», mormorò sporgendosi verso di lei.
La sua voce quella volta l’aveva tradito, mostrando la sorpresa ma anche la preoccupazione che aveva provato quando aveva capito che no, non li avrebbe seguiti.
«Ho delle commissioni da fare». Distolse lo sguardo ed accennò un sorriso. «Sono certa che tutto quello che farete in questi ultimi giorni di vacanza sarà sicuramente dormire, guardare la TV, dormire, giocare alla playstation e ancora dormire. Non mi perdo nulla».
Tornò a guardarlo in faccia ed alzò una mano in segno di saluto, voltandosi ed incamminandosi verso il suo fuoristrada.
«E io che mi perdo?».
Grace si fermò all’improvviso, ma non si voltò. Che cosa intendeva dire? Scosse leggermente il capo.
«Hai capito bene. Io che mi perdo? Con te non si sa mai quello che succederà. Se tu non ci sei… è tutto calcolato, no? Quasi… monotono».
«Dormi, ne hai davvero bisogno», disse con voce dura e si allontanò definitivamente.
Quando fu al volante, però, non poté trattenersi e gettò un’occhiata verso l’auto dei gemelli: Tom era appena entrato e anche lui si era voltato a guardarla.
Grace si girò di scatto appena incontrò il suo sguardo e mise in moto.
Solo dopo qualche chilometro sbatté il palmo della mano contro il volante ed imprecò contro il macigno che le opprimeva il petto.

 

***

 

Aveva piazzato le microspie nella camera del futuro coinquilino già la prima volta in cui la signora Thompson l’aveva assunta. Delle VOX, per la precisione: microspie che consentivano di trasmettere solo quando nell’ambiente sorvegliato erano presenti voci o rumori, consentendo così di allungare la durata delle batterie e riducendo il rischio di intercettazione tramite un rilevatore.
Erano le sue cimici preferite, forse anche perché il loro nome le ricordava il grande cantante degli U2.
Nonostante la loro proverbiale efficacia, con il nuovo coinquilino non funzionarono. Ebbe persino il timore che si fossero scaricate le batterie, un timore che venne però scacciato via quando sentì chiaramente la signora Thompson entrare nella stanza per chiedere se il suo ospite volesse che gli cucinasse qualcosa. Solo allora era riuscita a sentire la voce dell’uomo.
Col passare delle ore aveva realizzato che nessuno sarebbe stato in grado di fare tanto silenzio, a meno che non fosse stato addestrato a dovere. Oppure, a meno che non fosse uno di quei paranoici che pensano che siano pedinati ed osservati a tutte le ore. Ma qualcosa, probabilmente la parte di cervello che ragionava come un detective, le diceva che era la prima opzione quella più valida.
Lo osservò con attenzione sempre crescente e si rese conto che non si mostrava mai apertamente e che pur non sapendo delle cimici se doveva fare qualcosa andava a farla altrove, dove non poteva essere sentito. Magari nel bagno, con l’acqua della doccia che scorreva per precauzione.
Non sapeva assolutamente cosa fare. Aveva provato a fotografarlo per poter fare un confronto facciale con gli archivi della polizia, ma sarebbe stato più facile fare una foto ad un moscerino con la nebbia.
Quella sera si ritrovò a fare i conti con il nulla, ciò che aveva su quell’uomo. A quel punto credeva che anche il nome che aveva dato alla signora Thompson fosse falso.
Era la prima volta che le capitava una cosa del genere ed era incazzata nera. Non se ne faceva una colpa, semplicemente non poteva accettare la disfatta.
Stava per levare le tende, quando con la coda dell’occhio vide la porta principale aprirsi a mostrare l’uomo.
Erano le due di notte, c’era un buio pesto, e lui andava in giro con un cappellino da baseball! Come se non bastasse, poi, camminando per strada, si infilò anche un paio di occhiali da sole. Incredibile!
Grace fece finta di consultare una cartina, coi fari accesi proprio come se fosse arrivata in quel momento, ed aspettò che l’uomo si allontanasse. Quando svoltò l’angolo, si piegò verso il sedile del passeggero e tirò fuori dal doppio fondo del portaoggetti la sua Glock calibro 9mm. Se la infilò nei pantaloni, dietro la schiena, e con cautela uscì dal fuoristrada.
Si guardò bene intorno, poi corse verso il giardino della casa e si appiattì al muro fino a quando non arrivò alla finestra della cucina. Sapeva che quella era sempre aperta e fu proprio quella la sua via d’entrata.
La signora Thompson era andata a dormire da un pezzo, la casa era buia e silenziosa. Sentiva il cuore martellarle nelle orecchie, anche se quello che stava facendo non era pericoloso come altre cose che aveva fatto in passato. Anzi, doveva essere una passeggiata per lei, ma aveva un brutto presentimento.
Salì le scale lentamente, con una mano sempre pronta sul calcio della pistola, e una volta al secondo piano camminò con passo felpato fino alla camera del nuovo coinquilino.
L’aprì usando un fazzoletto sulla maniglia, per non lasciare impronte, e quando fu dentro non trovò proprio nulla di strano, perché non c’era nulla eccetto ciò che faceva parte dell’arredamento. Non c’era niente che stesse ad indicare che qualcuno si fosse appena trasferito in quella camera, eccetto una borsa nera appoggiata accanto al muro.
Si avvicinò ad essa, l’aprì con la massima attenzione e sospirò quando vide che all’interno c’erano solo vestiti.
Si tirò su e fece qualche passo nella stanza. Si avvicinò all’armadio, ne aprì le ante e vide un’altra borsa uguale a quella precedente. Avvicinò la mano alla lampo e grazie alla luce della luna che entrava attraverso una tenda che non era stata tirata del tutto sulla finestra riuscì a scorgere il metallo lubrificato di alcune pistole e di altre armi che in quel momento non riuscì a distinguere, ma una di esse somigliava terribilmente ad un mitra.
Il nuovo coinquilino della signora Thompson aveva un arsenale di armi nascosto nell’armadio. Come gliel’avrebbe dovuto dire, questo?

«Il suo coinquilino ama le armi. Gli regali un AK-47, ne andrà matto!».
All’improvviso sentì una lieve vibrazione dietro di sé e non riuscì a girarsi per vedere chi fosse, ma dalla stretta del braccio che le aveva avvolto il collo capì che il coinquilino doveva essere tornato.
Merda, pensò prima di addormentarsi fra quelle braccia.


Quando aprì gli occhi vide il coinquilino della signora Thompson seduto sul letto a gambe divaricate, con i gomiti puntati sulle ginocchia, che accarezzava il suo mitra. Grace notò che accanto a lui, sul letto, c’erano il suo portafoglio, il suo tesserino identificativo di investigatrice e la sua Glock. Si portò le mani, legate dietro la schiena con un po’ di nastro adesivo in PVC, sulla cintura ed ebbe la prova che la pistola sul letto era proprio la sua.
«Detective Grace Schneider», disse l’uomo con voce pacata. «Le piace il mio Thompson? Che coincidenza», ridacchiò. «Il mio mitra si chiama esattamente come questa anziana signora».
Grace non provò nemmeno a stiracchiare un sorriso, impegnata ad individuare qualcosa che potesse aiutarla a liberarsi.
Si trovava in un angolo della stanza, vicino al letto su cui era seduto il coinquilino, e lui la teneva in pugno.
«È un marine?», azzardò la ragazza, tirando le gambe al petto e schiarendosi la gola che le procurava ancora qualche fastidio a causa del principio di strangolamento che l’aveva fatta addormentare come un sasso.
Per la prima volta l’uomo sollevò gli occhi blu su di lei e sul suo viso apparve un largo sorriso, fra la barba incolta.
«Che intuito», si complimentò.
«Beh, la tecnica che ha utilizzato su di me è dei marines», scrollò le spalle con indifferenza.
Il marine scese dal letto e si mise seduto di fronte a lei. Si avvicinò al suo viso e fissò gli occhi nei suoi. Poi mormorò: «E tu sei la figlia di Mitch? Lo sei davvero?».
Grace strabuzzò gli occhi. Prima Lionel, ora lui… Che cosa stava succedendo? Perché tutti i marines sembravano conoscerla?
L’uomo allargò ancora di più il suo già ampio sorriso e si sporse su di lei per tagliarle il nastro adesivo che le legava i polsi.
«Mi dispiace per l’inconveniente, ma sai com’è…».
«Lei sa chi sono io. Ma io non so chi è lei», osservò in tutta risposta, riservandogli un’occhiata truce.
«Kyle Bryant. Chiamami Bryant, odio il mio nome. Mi chiama Kyle solo mia madre».
«Okay, Bryant». Si guardò i polsi arrossati, poi tornò a posare lo sguardo sul marine. «Che cosa ci fa con un arsenale di armi nell’armadio?».
Bryant le posò un dito sulle labbra e con l’altra mano si ravvivò i capelli di un biondo sporco che gli arrivavano fin sopra le spalle.
«Vieni con me», le sussurrò.
La fece alzare da terra, le ridiede tutto ciò che le apparteneva, Glock compresa, e la portò nel giardino sul retro. Si misero seduti sugli scalini della piccola veranda e il marine tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. Se ne accese una tenendola fra le labbra e ne offrì una anche a Grace, che la prese volentieri, pentendosene subito: il fumo aveva agito come benzina sul fuoco sulla sua povera gola già infiammata.
Tossì un paio di volte e un gatto randagio dagli occhi gialli che stava rovistando in uno dei cassonetti dell’immondizia lì vicino sollevò il capo per controllare che cosa fosse stato; poi tornò alla ricerca della sua cena.
«Non è affatto un bel periodo, lo sai Grace?», esordì Bryant.
«Quando mai?».
Il marine sorrise. «Somigli a tuo padre».
«Grazie. Ora dimmi che cosa te ne fai di tutte quelle armi».
«Con quelle io mi difendo», le rivolse un’occhiata glaciale e la ragazza avvertì un brivido attraversarle la schiena.
«Da che cosa?».
«La domanda esatta sarebbe: “Da chi?”», sospirò. «Presumo da quelli che hanno fatto fuori anche Carter».
«Chi è Carter?», domandò Grace, tossicchiando ancora a causa della sigaretta.
«Era il mio compagno di vita. Ci siamo conosciuti durante le qualificazioni per entrare in marina, ci siamo ritrovati durante la Guerra d’Iraq e abbiamo sventato un fottutissimo attentato a Baghdad. Ci hanno pure dato delle merdose Medaglie d’Onore, ma è da allora che è iniziato tutto ‘sto schifo».
«Scusa, che hai detto?», balbettò Grace. La mano con cui teneva la sigaretta aveva iniziato a tremare, e non per il freddo. «Tu… tu hai mandato a monte l’attentato di Baghdad, quello alla base navale americana?».
Bryant si voltò a guardarla. «Sì, come fai a sapere che…?».
«Lionel Reed», sputò Grace.
«Lionel? Tu conosci Lionel? Era… era a capo dell’operazione, tutti la ritenevano un suicidio, io e Carter siamo stati gli unici a dargli fiducia e noi tre abbiamo fatto in modo che la base non saltasse in aria. Come fai a conoscerlo?».
«Lui è venuto a cercarmi. Crede che l’omicidio di una donna in Virginia sia collegato a quello di mio padre e…».
«Devi portarmi da lui», disse con tono distaccato, col quale tentava di nascondere una certa preoccupazione. Poi aggiunse: «Immediatamente».

 

***

 

«Tom… che ci fai ancora in piedi?», chiese Bill strofinandosi gli occhi mentre scendeva gli ultimi gradini della scalinata e raggiungeva il fratello.
Era seduto sulla sua chaise-longue e aveva il capo rivolto verso le porte vetrate su cui aveva fatto calare le veneziane. Bill contò le quattro righe di luce lunare che gli attraversavano il viso, mentre si sedeva sul bracciolo della poltrona lì accanto.
«Non riesco a dormire», disse con poca voce, come se qualcuno gliel’avesse strappata dalla gola e tutto ciò che ne era rimasto fosse un gorgoglio rauco. «Vorrei, ma non ci riesco».
«A che pensi?».
«Penso a Helen».
«Non ne dubitavo», accennò un sorriso, ma Tom non lo calcolò nemmeno: la sua mente, come il suo sguardo, era altrove.
«Prima ho chiamato Molly, o come si chiama… l’amica di Helen», confessò.
«Uhm. Che ti ha detto?».
«Le ho chiesto come mai Helen si comporta in questo modo, perché oggi non è stata con noi… Mi ha risposto che aveva del lavoro da fare».


«Ah sì? E che lavoro fa?».
«Ahm… Beh, lei, ecco… Sai, per quanto bene io ti voglia – e te ne voglio tanto, dico sul serio – tengo alla mia vita».
«Fa l’assassina per professione?».
«Oh no», ridacchiò. «Ma potrebbe iniziare questa attività proprio con la sottoscritta, se ti raccontassi qualcosa di lei».
«Per quale cavolo di motivo nessuno vuole dirmi niente su di lei?», sbraitò allora.
«Forse… forse lei non ritiene che ci sia molto da dire».


Il silenzio calò su di loro dopo che Tom ebbe finito di raccontare della loro conversazione.
Bill non rispose subito, ci mise un po’ a scovare le parole adatte da poter dire. Forse perché non ce n’erano.
«Magari tutto quello che Helen è ce l’hai di fronte agli occhi. Solo che non riesci a vederlo».
Il maggiore si girò per la prima volta verso di lui e lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Che cazzo stai dicendo?».
Aveva pienamente ritrovato la sua voce e con quella anche i movimenti, frenetici e nervosi.
«Sto solo cercando di dire che…», Bill prese un lungo respiro, posando le dita sulle tempie. «Tu… tu sei fissato. Tu vuoi così tanto conoscere un po’ di lei che appena lei si mostra tu non riesci a vederlo… Scommetto che lei si sia lasciata andare qualche volta con te, magari non con le parole… però l’ha fatto. E magari tu hai apprezzato un suo gesto, un suo sorriso… ma non l’hai capito fino in fondo».
Tom si mise seduto sulla chaise-longue, lentamente. Strinse con forza i bordi d’acciaio e scosse il capo.
«Quante cazzate, Bill», sbuffò.
Dopodiché si alzò e salì due a due le scale che portavano al piano superiore. Si fermò nella zona living del soppalco e prese a calci il dorso di una poltrona, su cui poi si lasciò sprofondare. Si posò una mano sulla fronte e chiuse gli occhi.
Gli tornò alla mente la sera in cui avevano dormito nel suo fuoristrada, il calore che l’aveva invaso svegliandosi e il pizzicorio che aveva provato allo stomaco udendo come prima cosa la sua voce.
Ricordò anche la volta in cui Helen, nonostante la febbre e il freddo che provava, aveva continuato a stare appostata nel suo fuoristrada con una sola coperta a proteggerla.
Si guardò la mano con cui quella volta le aveva accarezzato i capelli e che poi aveva racchiuso al suo interno un suo orecchio bollente.
E dentro di sé ebbe la sensazione che le cose che aveva detto suo fratello non fossero cazzate.

 

***

 

Grace si fermò col suo fuoristrada ad un semaforo rosso e di fianco a loro fece lo stesso l’auto decappottabile di un gruppo di ragazzi ispanici che ascoltavano ad alto volume una canzone di qualche rapper.
«Ehi piccola, non è un po’ troppo grande quello per te?», le domandò il ragazzo con il cappellino storto sulla testa, svaccato sul sedile del passeggero, indicando Bryant.
La ragazza sorrise e alzò gli occhi sul grande edificio che si stagliava sull’angolo, coi suoi quadratini gialli: le finestre dietro le quali le luci erano ancora accese.
«E tu non sei troppo piccolo per stare nell’auto di Doc Mahkah?».
Il ragazzo, più che sorpreso, si voltò verso il capo della gang, seduto sui sedili posteriori, e si passò le dita sui baffetti neri.
«Capo, conosci questa tipa?».
Doc Mahkah sogghignò e si sporse verso il suo finestrino per vederla in faccia. «Oh sì, teppista. La mia cara Grace! Come stai, bambina?».
«Non c’è male. E tu, come te la passi?».
«Tutto alla grande, sì. Gli affari procedono bene in questo periodo».
«Sono contenta per te».
Il semaforo diventò verde e la ragazza alzò la mano in segno di saluto. Lo fece però troppo all’improvviso, perché i ragazzi di Doc Mahkah portarono subito le mani sulle schiene o nelle tasche delle giacche.
«Ragazzi, calmatevi», disse Grace con una risatina e schioccò un occhiolino al capo. «Ci si becca in giro, Doc!».
«Sarà un piacere!».
Dopodiché Grace premette l’acceleratore, sgommando un po’ sulla strada liscia.
Il silenzio accompagnò lei e Bryant ancora per un po’, poi lui esordì: «Amici tuoi?».
«Sì, una specie», annuì.
Fece schioccare la lingua contro il palato, con disappunto. «Tuo padre non avrebbe approvato».
«Sono bravi ragazzi, se si chiude un occhio».
«Forse se si chiudono entrambi», commentò.
«Doc Mahkah e la sua gang controllano la maggior parte dei sobborghi di LA, lui sa tutto di tutti… è un buon informatore».
Lo guardò e si scostò un ciuffo di capelli che il vento fresco della sera le aveva posato sulle ciglia. Le fu impossibile non notare il sorriso divertito che aleggiava sulle labbra del marine.
«Mi piaci, cazzo!», esclamò Bryant, prima di scoppiare in una grossa risata a cui anche lei prese parte.


Arrivarono a casa di Lionel una decina di minuti dopo e lo buttarono giù dal letto. Si erano completamente dimenticati che fossero quasi le tre e mezzo di notte.
Appena Lionel vide Grace accompagnata da quell’uomo che aveva proprio bisogno di un barbiere corrugò la fronte, spaesato. Poi si soffermò ad osservarlo con maggior attenzione e lo riconobbe.
«Bryant», sussurrò, mentre gli occhi gli si inumidivano.
«Capo», rispose il marine, attirandolo in un frettoloso abbraccio.
«Che fine avevi fatto? Ti ho cercato, qualche volta, ma… E Carter? Carter dov’è, come sta?».
Grace abbassò lo sguardo e si infilò le mani nelle tasche dei jeans, stringendosi il collo fra le spalle.
«Lionel», mormorò, «dobbiamo parlare». 


«Carter… fatto fuori», ripeté per l’ennesima volta l’ex-marine, prima di allungare il bicchiere che aveva stretto nella mano verso Grace, la quale gli versò ancora un po’ di rum. Lui lo bevve tutto d’un fiato e tornò a fissare con sguardo assente il marmo lucido del bancone della cucina.
«Stanno dando la caccia anche a me», disse Bryant, passandosi una mano sulla barba incolta. «Tutto è iniziato quando abbiamo mandato a monte quell’attentato e Mitch vi ha collegato uno dei suoi casi. È stato risucchiato da questa storia ed è morto. Dopo di lui hanno dato la caccia a Carter. È riuscito a scamparla per un po’, poi ce l’hanno fatta». Anche lui affogò il suo dolore nel bicchiere di rum. «Rimaniamo io e te, Lionel, e stai pur certo che non si daranno pace fino a quando non saremo seppelliti sotto tre metri di terra».
«Tutti quelli che hanno partecipato all’operazione e quelli che ne sanno qualcosa devono essere fatti fuori», disse Lionel con voce lontana.
Sulla sua scia, Grace disse: «Devono portare i loro segreti nella tomba…».
Sollevò il capo, con gli occhi sgranati, e strinse con più forza il bicchiere di vetro fra le mani, tanto da far sbiancare le nocche.
«Ma cosa? Che cosa avete visto, che cosa avete fatto sventando quell’attentato?».
«E chi sono quei figli di puttana che hanno fatto fuori Mitch e Carter?», domandò Bryant.
«Carter… Perché non se n’è saputo niente? È stato un marine con una carriera esemplare e ha ricevuto pure quella Medaglia d’Onore. Come minimo i media ne avrebbero dovuto parlare, eppure… hanno insabbiato tutto».
L’investigatrice finì anche lei il suo bicchiere di rum. «Amici ai piani alti», rispose secca.
Bryant la osservò. «Così alti da azzittire tutta la stampa?».
«Così alti che farebbero di tutto, pur di non compromettersi».

 

***

 

Tom scostò le tende dalle finestre della sua camera per far entrare un po’ di luce e stava anche per aprirle per far cambiare l’aria, quando vide arrivare il fuoristrada di Helen. Allora lasciò perdere e corse al piano inferiore.
Suo fratello stranamente non si era ancora svegliato e pensò che era meglio così: non avrebbe dovuto dargli alcuna spiegazione imbarazzante, soprattutto dopo la discussione della notte precedente.
Si infilò soltanto le scarpe, se ne fregò di essere in tuta, ed attraversò il giardino sul retro imponendosi un certo contegno, anche se fremeva: avrebbe tanto voluto correre.
Arrivò al fuoristrada, ne fece il giro sotto lo sguardo un po’ perso della ragazza e vi salì. La guardò in viso con affanno e pian piano il suo sorriso spontaneo si spense.
«Questa mattina sei tu quella messa male», disse accennando con un gesto della mano alle sue occhiaie.
Lei si passò una mano pesante sul viso privo di trucco e Tom pensò che le sue efelidi sarebbero state cancellate se avesse usato tutta quella forza, ma quando tolse la mano erano tutte lì, non ne mancava nemmeno una. Gli piacevano le sue efelidi, tutte quante, anche quelle che le assalivano i bordi delle labbra.
«È stata una nottataccia, ho lavorato fino a tardi», sospirò. «Non sono nemmeno riuscita ad andare da Starbucks, mi dispiace…».
Tom sorrise e le sistemò la solita ciocca di capelli dietro l’orecchio. Era un gesto che faceva quotidianamente ormai ed entrambi si erano abituati.
«È l’occasione perfetta per provare il mio caffè! Fino ad ora hai provato solo il tè di Bill, ma vedrai che dopo una tazza del mio caffè ti prostrerai ai miei piedi».
Grace accennò un sorriso, accompagnato da un cenno d’assenso del capo, ed uscì dal fuoristrada.
«Ehi, ciao bello».
Appena entrata, Grace si chinò per accarezzare le grandi orecchie del cane di Tom, mentre questo scodinzolava felice di rivederla.
«Mettiti sul divano, arrivo subito», le disse Tom, indicandogliene uno in salotto.
«Okay».
Tom andò in cucina, preparò il caffè canticchiando, e quando fu pronto lo versò in due tazze. Tornò in salotto e vide Helen rannicchiata sul divano di fronte al plasma spento, che dormiva con una mano ancora sul pelo corto del cane.
Si avvicinò con cautela e posò le due tazze sul tavolino basso, poi prese la coperta piegata sul bracciolo del divano accanto e gliela stese sopra, inginocchiandosi in corrispondenza del suo viso. Scostò le corte ciocche di capelli che le ricadevano sulla fronte e seguì il contorno del suo volto con il dorso delle dita, un lieve sorriso sulle labbra.

 

_____________________________

 

Un po' di routine della nostra detective alle prese di un caso piuttosto bizzarro che si è però rivelato di una certa importanza. E' entrato in scena, infatti, Bryant, un altro marine che faceva parte del gruppo ristretto comandato da Lionel e che ha sventato quell'attentato a Baghdad. Purtroppo questa riunione non è stata felice, poiché ha rivelato che Carter, il terzo uomo del gruppo, è stato ucciso da quelli che hanno ucciso il padre di Grace e che danno la caccia pure a lui.
Che cosa succederà ora? E tra Tom e Grace? Rimaniamo così in sospeso fino a lunedì prossimo ;)
Ringrazio ancora tutti coloro che hanno commentato e letto lo scorso capitolo e spero che questo sia stato di vostro gradimento!
Alla prossima! Vostra, 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

 

«Dovresti interrompere le indagini, questo caso è più grande di te», disse Lionel, socchiudendo gli occhi.
«Non ci penso nemmeno», ribatté Grace, mentre lavava i bicchieri che avevano usato per scolarsi un’intera bottiglia di rum.
Bryant era svaccato su una delle sedie del tavolo da pranzo e guardava con occhi acquosi sia la ragazza che l’ex-marine.
«È troppo rischioso. Se continui finirai per diventare anche tu un bersaglio di quei pazzi e…».
Grace finì di lavare i bicchieri e si asciugò le mani con un straccio.
«
Questo caso è l’unico motivo per cui sono diventata un’investigatrice privata. Non mi tirerò indietro fino a quando non lo avrò risolto e non avrò spedito in prigione a calci in culo chi ha ammazzato mio padre».
Lionel scattò verso di lei e le prese con forza un polso, la strattonò e la fece voltare verso di lui.
Era decisamente quello che aveva bevuto più di tutti e la scoperta che Carter era stato assassinato lo aveva sconvolto, ma quando parlò a Grace nei suoi occhi c’era una lucidità profonda, macchiata soltanto dal dolore.
«Finirai come tuo padre, se continui», sussurrò a pochi centimetri dal suo viso. «Ti ammazzeranno prima che tu riesca a risolvere il caso e io… non lo posso permettere». La sua voce si era incrinata e una lacrima era scivolata lungo la sua guancia. «Ho già perso una figlia, non posso perderne un’altra».
Grace lo fissò per minuti che sembrarono ore, nel silenzio della notte e alla luce fioca proveniente dalle lampadine che illuminavano il marmo bianco del bancone. Poi la sua espressione si ammorbidì tanto da rivelare della malinconia e sussurrò: «Io non sono tua figlia».
Si scostò lentamente dall’ex-marine, il cui viso – e non solo quello – era ormai andato in pezzi, e si infilò la giacca in salotto.
Prima di andare si voltò ancora nella sua direzione e gli osservò la schiena.
«Mi dispiace».

 
Grace aprì di scatto gli occhi, senza muovere nessun’altro muscolo, e vide Tom seduto per terra, con la schiena contro il bordo del divano, all’altezza delle sue ginocchia piegate, che guardava la TV col volume al minimo ed accarezzava il dorso del cane sdraiato al suo fianco.
C’erano ben altri due divani nei paraggi, perché non era andato a sedersi su uno di quelli?
Sorrise inconsciamente ed osservò il suo profilo, definendone i contorni con accuratezza.
Provò a scacciare dalla testa l’ultima parte della nottata passata con Lionel e Bryant, quella che aveva anche sognato, ma non ci riuscì del tutto, perché il peso di quello che si erano detti le comprimeva il petto.
Lionel le aveva rivelato che la considerava come una figlia e che non voleva che corresse il pericolo di venir ammazzata come suo padre e lei gli aveva risposto in quel modo brusco… Avrebbe dovuto scusarsi, anche se l’importanza di quel caso era pressoché vitale per lei. Non si sarebbe arresa per nulla al mondo, anche a costo di rischiare la vita, e di perderla.
«Ehi, sei sveglia».
Posò di nuovo gli occhi su Tom e notò il sorriso che gli incurvava all’insù le labbra.
Ormai, da quando lo sapeva, con lei parlava solo tedesco e Grace glielo lasciava fare, perché un po’ di allenamento non le avrebbe fatto male e poi perché sapeva che lui era in grado di esprimersi meglio nella sua lingua madre. Inoltre, era a conoscenza di quanto gli desse sui nervi correggersi se faceva qualche errore di grammatica inglese.
Annuì con un leggero movimento del capo. «Scusa se mi sono addormentata».
«Avevi bisogno di dormire», la rassicurò. «Adesso vuoi provare il mio caffè?».
«Sei proprio ostinato a volermelo far provare… Cos’è, l’hai avvelenato?», sogghignò e Tom scosse il capo, trattenendo una risata.
«Ci avevo pensato», le confessò. «Ma poi mi son detto che mi conveniva aspettare ancora un po’: ci sono troppe cose ancora che non so di te».
«Già», mormorò e il sorriso le si spense sulle labbra. Tom non se ne accorse.
Si alzò in piedi e le porse una mano, lei l’afferrò e si lasciò condurre in cucina, dove apprese che erano quasi le undici del mattino.
«Ho dormito così tanto?», domandò più a se stessa che a Tom, ma lui rispose ugualmente.
«Già. Fino a che ora sei stata in piedi, ieri notte?».
Grace si sedette su uno sgabello del tavolo alto che faceva da prolungamento al piano da lavoro della cucina e si sciolse la coda che aveva sulla nuca.
Tom si soffermò a guardarla mentre con l’elastico tra le labbra se la rifaceva con gesti morbidi ma decisi. Era uno spettacolo della natura, perché pur avendo i capelli così corti riusciva a tenerli fermi, almeno per i primi due minuti.
«Perché mi fissi?», gli chiese la ragazza, notando il suo sguardo colmo di curiosità.
«Niente, io… prova un attimo a tenerli sciolti?».
Grace si bloccò con le mani sulla nuca e i gomiti rivolti verso l’esterno. Osservò il chitarrista, poi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi: i capelli le ricaddero ai lati della testa, coprendole le orecchie ed arrivandole complessivamente a metà del collo. Alcune ciocche erano più lunghe, altre più corte, e quella che doveva essere una frangetta l’aveva trasformata in un ciuffo laterale che teneva fermo su un lato della testa con una forcina.
Tom si avvicinò a lei, dipingendosi un sorrisino sulle labbra, e la scrutò da vicino, facendo un giro intorno a lei. Una volta di nuovo con gli occhi nei suoi le posò le mani sui lati della testa e le sistemò i capelli dietro le orecchie. Piegò il capo leggermente di lato e continuò ad osservarla, tanto che Grace, un po’ infastidita – ma soprattutto confusa ed imbarazzata – da tutto quell’interesse, sbottò: «Hai finito sì o no?».
Il ragazzo scosse il capo, come se fosse rivenuto or ora da uno stato di ipnosi, e disse: «Non ti avevo mai vista con i capelli sciolti».
«Ho fatto un casino l’ultima volta che li ho tagliati», borbottò e riprese a farsi la coda, non badando a lui. «È per questo che fanno schifo».
«Te li sei tagliati da sola?», domandò Tom, sorpreso. Lei annuì e prima che potesse aprire bocca, lui aggiunse: «Sono belli, invece. Nel senso, ti stanno bene».
Grace arricciò il naso e si lasciò andare ad una risatina, abbassando lo sguardo. «Ora che me l’hai detto tu sicuramente andrò in giro a vantarmene».
«No, non penso tu sia capace di fare una cosa del genere», schioccò la lingua contro il palato, con un sopracciglio sollevato. «Però è quello che penso veramente, non ti sto prendendo in giro».
La ragazza sollevò lo sguardo e dai suoi occhi capì che non stava mentendo. Lui le rivolse la stessa occhiata perplessa, poi si voltò per andare a versare il caffè nelle due tazze.
«Visto che sei in vena di sincerità… c’è qualcos’altro che ti piace di me?», gli domandò, osservandosi le mani unite sul tavolo.
Stava per risponderle: «Solo se dopo mi dirai quello che ti piace di me»,  ma senza saperne bene il motivo evitò.
«Uhm… le tue efelidi», si voltò con le due tazze di caffè fra le mani e le rivolse un sorriso. Dopodiché si mise seduto al tavolo, di fronte a lei, e gliene porse una.
«Davvero ti piacciono?».
Lui scrollò le spalle. «Sì, perché?».
«Io le ho sempre odiate».
Tom non le chiese il motivo, rimase in silenzio, e la tecnica funzionò, perché Helen riprese a parlare autonomamente.
«Da ragazzina rubavo i trucchi di mia madre e me li spalmavo in faccia fino a quando non sparivano. Uscivo dal bagno che sembravo un clown», rise di sé e Tom l’accompagnò con un sorriso, mentre si portava la tazza alle labbra. «Quando ero piccola tutti mi prendevano in giro perché avevo queste strane macchie in faccia. Una volta delle stupide bambine…», al ricordo strinse più forte la tazza fra le mani, «ci hanno passato sopra la gomma da cancellare così forte che quando mia madre mi ha vista credeva che mi fossi spellata per il troppo sole». Rimase in silenzio per qualche secondo, poi riprese, distendendo i tratti del viso: «Nessuno mi ha mai detto che le trovava belle».
«Fino ad oggi», disse Tom.
«Fino ad oggi», ripeté Grace, guardandolo negli occhi.
«Ti rendono unica», soggiunse il chitarrista, sfuggendo però al suo sguardo. «Non che tu non lo sia già, unica, però, ecco… ti danno un qualcosa che… Mi piacciono e basta».
«Grazie», rispose la ragazza, con un sorriso timido. «Ora forza, chiedimelo».
«Che cosa?».
Grace aggrottò le sopracciglia, divertita. «Che cosa mi piace di te, no? Scommetto che non aspetti altro».
Tom fece l’indifferente, scrollando le spalle, ma puntò tutta la sua attenzione su di lei.
«Risulterò scontata», mise le mani avanti, «ma mi piace il tuo sorriso».
Forse era vero, era un po’ scontato: tantissime ragazze gli avevano detto che il suo sorriso era bello. Ma forse era quello il punto… lei aveva detto che piaceva a lei, non che era bello.
Per questo disse: «Nessuno me l’aveva mai detto».
Grace lo guardò sconcertata. «Non ci credo».
Lui scosse il capo. «Non come me l’hai detto tu».
Calò un pesante silenzio, nel quale l’imbarazzo era palpabile e buona parte di esso apparteneva proprio alla ragazza, la quale non riuscì a far altro che portarsi la tazza alle labbra per bere un po’ di caffè.
«Com’è?», le domandò Tom quando posò di nuovo la tazza sul tavolo.
«Buono», rispose schiarendosi la voce.
Poi, quasi all’improvviso, si ricordò di Bill, che non aveva ancora visto. «Che fine ha fatto tuo fratello?», gli chiese.
«È uscito stamattina, tu ancora dormivi».
«E dov’è andato?».
«Non ne ho idea», scrollò le spalle.
«Avete litigato?».
Tom sospirò. «All’incirca. Tu come fai a saperlo?».
«Quando litighi con tuo fratello te lo si legge in faccia, bisogna solo saper leggere», gli sorrise.
Quelle parole lo riportarono alla discussione con Bill e socchiuse gli occhi. Colpo basso.
Ma che voleva dire, saper leggere la faccia di una persona? Riuscire a vedere ciò che è? Saperne apprezzare e capire un gesto?
«Dai, vieni con me», esclamò Grace allontanando col dorso della mano la tazza di caffè vuota ed alzandosi dallo sgabello.
Il chitarrista sollevò di scatto la testa. «Dove?»
Lei gli sorrise sbarazzina. «Non ti piacerebbe essere nei miei panni, per una volta?».
«Intendi…».
«Sì, andiamo alla caccia di Bill».


«Bene, se non vuoi dirmi per quale motivo avete litigato… dimmi almeno dove andrebbe tuo fratello in questo caso».
«Forse andrebbe a fare shopping. Per scaricare la tensione, sai».
«Oh sì, capisco», rispose Grace, ma scosse il capo continuando a guidare. «Quindi, in un centro commerciale?».
«Nah, troppo confusionario. A lui piacciono i negozietti».
«Tipo quelli etnici?».
«No, tipo Chanel e Gucci».
«Negozietti», borbottò.
«Non faremmo prima a chiamarlo e a chiedergli dove si trova?», chiese Tom, già con il cellulare in mano.
Grace non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca, lui aveva già inoltrato la chiamata.
Bill rispose dopo qualche squillo e Tom esclamò: «Ehi, si può sapere dove sei finito?».
«Metti il vivavoce», sussurrò Grace e Tom obbedì, anche se non ne capì immediatamente il motivo.
«Non te lo dico», rispose il gemello più piccolo, con voce dura. Era proprio arrabbiato.
«Oh su, lo sai che non volevo prendermela con te ieri notte. È che…».
«Tu sei un cretino, Tom, okay?».
Il chitarrista percepì nell’aria che Bill avrebbe spiegato tutti i motivi per cui lui era definibile «un cretino» e sicuramente avrebbe accennato anche qualcosa su Helen, così tentò di arrestarlo sul nascere.
«È vero», disse, «sono un cretino. Ora dimmi soltanto dove sei, mi sto preoccupando a morte». Non era propriamente vero, ma un po’ preoccupato lo era.
Bill sbuffò e Grace ebbe l’opportunità di sentire meglio i rumori di sottofondo, quelli che potevano ricollegarla alla sua possibile posizione.
«Dimmi se sbaglio, Bill: sei a La Placita?», gli chiese.
«Ehi Helen, ci sei anche tu?! La Plachecosa?».
Grace roteò gli occhi, ma poi si ricordò che era un’abitudine tutta latina, tipica anche di Dylan, quella di chiamare in quel modo una delle strade più famose e antiche del centro di Los Angeles. Quindi sorrise e spiegò: «Intendevo Olvera Street».
«Oh mio Dio, ma come hai fatto a capirlo?», strillò il frontman, sorpreso. Anche Tom, al suo fianco, era ansioso di scoprirlo.
«Vedete, non sapete cogliere i particolari. C’è un grande vociare intorno a te e l’unico posto sempre affollato e dove si parla molto spagnolo che io sappia è proprio il mercato di Olvera Street. Ora mi dici per quale cavolo di motivo tu e Tom avete litigato?».
«Ah, lui non te l’ha detto?», le domandò con un tono di voce divertito, anche un po’ sadico, che fece sudare freddo il suo gemello.
«No, si è rifiutato di dirmelo», rispose Grace, imbronciata, prima di gettargli un’occhiata di traverso.
Tom strinse più forte il cellulare tra le mani, ascoltando il silenzio inquietante di Bill e pregando perché non lo tradisse.
Alla fine il cantante sospirò e disse: «Era una cosa molto stupida, niente di che».
Il chitarrista dentro di sé tirò un enorme respiro di sollievo e promise a se stesso di abbracciare suo fratello non appena fossero rimasti soli, ringraziandolo per essere sempre così comprensivo con lui.
«E va bene», si arrese Grace, tornando a concentrarsi completamente sulla strada oltre il parabrezza. «Aspettaci lì, stiamo arrivando».
«Sì», intervenne inutilmente Tom.
«Va bene, tanto sto facendo dei veri affari! Prima sono stato anche a Little Tokyo, sapete? Al Little Tokyo Shopping Centre, precisamente, e sapete che tutti i reparti d’abbigliamento delle bambine sono pieni di cose di Hello Kitty?! È ovunque!».
«E tu che ci facevi nel reparto d’abbigliamento delle bambine?», domandò Tom, mentre la sua voce si incrinava a mostrare tutto lo sconcerto provocatogli da quell’affermazione.
«Ci sono passato per caso!», gridò Bill, anche lui stridulo. Grace scoppiò a ridere e così il frontman, forse offeso, si affrettò a chiudere la chiamata.
Tom allora si infilò in tasca il cellulare e posò lo sguardo su di lei. Non venne scoperto, così poté osservarla in lungo e in largo, senza fretta.
Quella volta, come molte altre, riuscì soltanto a pensare che quella bellezza era un continuo mistero. E non solo perché ogni giorno che passava gli sembrava un tantino più bella, ma perché… tutto ciò che si celava dietro di essa era un mistero. Ancora non era riuscito ad inquadrarla, sembrava che avesse chissà quali misteri alle spalle… non era nemmeno certo che quella ragazza fosse la stessa che aveva conosciuto, né quella che sarebbe stata il giorno seguente.
Arrivarono in Olvera Street una manciata di minuti dopo la conclusione della chiamata e dovettero parcheggiare il fuoristrada prima di immettersi nella strada affollata e costeggiata da bancarelle così addossate l’una sull’altra che non si capiva nemmeno di quale fosse quella merce e di quale quell’altra.
Circondato da file e file di pignatte di ogni forma e piene di caramelle, di sombreri, di pupazzi a forma di scimmie e di strumenti musicali colorati, gli sembrava di essere stato catapultato nel vecchio, romantico ed ospitale Messico.
«È una delle vie più belle che abbia mai visto», disse Tom, infilandosi le mani nelle tasche e continuando a guardarsi intorno con gli occhi colmi di luci, le orecchie piene di note di flauti e di arpeggi di chitarre classiche.
«Ci credo», rispose Grace, anche se con voce metallica. «Però devi starmi vicino».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi a quelle parole. «Eh?».
«Ti ho detto di starmi vicino. Questa via è tanto bella, ma ci sono scippatori ovunque e se non conosci bene il posto è impossibile che tu riesca a vederli», gli spiegò e gli prese bruscamente la mano destra, lo avvicinò a sé e si infilò sotto al suo braccio.
Tom ci mise qualche secondo a metabolizzare ciò che aveva appena fatto e a scacciare dalla testa tutti quegli strani pensieri che gli avevano attraversato la mente quando aveva sentito il fianco di Helen premere contro il suo e il suo braccio avvolgergli la schiena.
Quando si riprese, non poté non sogghignare e lanciare una delle sue frecciatine: «Dici sul serio o è solo una scusa per abbracciarmi?».
Grace scosse il capo, divertita. «Secondo te?».
«Indubbiamente è solo una scusa per abbracciarmi».
«Pallone gonfiato», lo prese in giro, pizzicandogli il fianco. «E tieni a posto quella mano, che non ci metto nulla a schiantarti al suolo».
Tom sollevò la mano che penzolava sulla sua spalla, vicino al suo seno. «Sissignora».
Camminarono per un po’ lungo la strada e ogni volta che si stringevano un po’ di più per passare fra la gente che si ammassava alle bancarelle con le super offerte era un brivido per entrambi. E di Bill ancora nessuna traccia.
«Dove cavolo si è cacciato?», domandò ad un certo punto Grace, seccata. «Tu lo vedi?».
«No», rispose Tom con voce tranquilla, scrollando le spalle.
La ragazza sollevò un sopracciglio. «No?», ripeté ed imitò anche il suo gesto, desiderosa di una spiegazione.
«Non posso dire che passeggiare e stare abbracciato ad una bella ragazza non mi piaccia!».
L’investigatrice puntò lo sguardo di fronte a sé, come se quelle parole non l’avessero minimamente toccata.
«Stai flirtando con me, Kaulitz?».
«Avrei qualche chance?».
«Certo che no».
«Allora no, non sto flirtando con te, Brooklyn».
Tornò a fissarlo, ma quella volta fu lei a non trovare il suo sguardo.
Tom era sempre più criptico, in quel periodo: sembrava che volesse intendere qualcosa e che poi la confutasse, tirandosi indietro e facendo finta di nulla. Era da un po’ che, per quel motivo, non riusciva a capire chiaramente le sue intenzioni.
«Tu hai già il ragazzo poi, non è così?». Tom se ne uscì fuori all’improvviso, tanto che Grace non riuscì a controllare il suo tono di voce, che diventò un po’ isterico.
«Io? Io non ho il ragazzo».
«E allora Dylan che cos’è?».
«Chi ti ha detto che noi due…».
Tom girò il viso verso il suo e i loro nasi quasi si sfiorarono. La guardò intensamente negli occhi e capì quello che aveva voluto dire Bill la notte prima: era tutto lì, in quegli occhi, stava a lui decifrarne i codici segreti. E non sarebbe stato affatto facile.
«Ogni tanto scopate, dì la verità».
«Ma… oh, insomma!», sbottò, arrossendo.
Tom ridacchiò. «Lo prendo come un sì».
«No, lo prendi come un bel niente! Io e Dylan non stiamo insieme, noi… siamo solo amici, per quel che mi riguarda».
«Scopi con tutti i tuoi amici? Perché se è così hai dimenticato me», continuò con le sue frecciatine.
«Infatti, chi ha detto che siamo amici?», lo smontò, pezzo per pezzo, e Tom si ammutolì. Questo non se lo aspettava di certo. 
«Oh, finalmente. Ecco Bill», disse ancora e lo indicò con un dito. Era di fronte ad una bancarella che vendeva strani gioielli ed inusuali accessori, come quelli che piacevano tanto al cantante dei Tokio Hotel.
Mentre si avvicinava con Tom ancora appeso addosso, Grace si accorse subito dei due ragazzini che, sulle loro BMX tempestate di adesivi e ridipinte con le bombolette spray per coprire la ruggine, guardavano con sguardo acceso il frontman; in particolar modo sembravano attratti dalla borsa che aveva appesa al gomito e che sporgeva proprio nella strada sgombra.

Il bodyguard se ne accorgerà, pensò Grace. È un bodyguard anche per questo, no?
Bill, vedendoli arrivare, sollevò il braccio libero per salutarli con la mano e si sporse ancora di più verso l’esterno della bancarella. Grace ebbe come l’impressione di vedere il riflesso della borsa di pelle nera che dondolava negli occhi del ragazzino che, seguito dal suo compagno, iniziò a pedalare nella direzione del cantante.
Quando capì che il bodyguard non se ne sarebbe accorto in tempo scattò verso Bill, lasciando Tom sbigottito.
Corse verso di lui concentrando tutta la propria forza nelle gambe e lo strattonò verso di sé, come se avesse voluto abbracciarlo, giusto un momento prima che il ragazzino riuscisse ad afferrare i manici della borsa. Il ragazzino, preso in contropiede, si sbilanciò e cadde dalla sua BMX; l’amico dietro di lui lo schivò per miracolo.
Dalle bancarelle vicine un nugolo di persone si precipitò dal ragazzino appena caduto. Anche Grace si avvicinò, ovviamente non avrebbe voluto che si facesse male ma purtroppo aveva pestato la faccia sul cemento, facendosi sanguinare il naso e prendendo una botta sulla fronte.
Sentì Tom alle sue spalle chiedere a Bill se stava bene e lei chiese la stessa cosa al ragazzino, come fecero molte altre persone, tra cui riconobbe anche la madre, la quale iniziò a parlargli nello slang tipico di quel quartiere – una particolare fusione tra l’inglese americano e lo spagnolo – di cui Grace riuscì ad afferrare solamente qualche parola, grazie alle saltuarie lezioni che Dylan le aveva impartito.

«¿Qué ha pasado, niño?
», domandò al figlio, adirata e già pronta a tirargli uno schiaffo. Forse non era la prima volta che lo beccava dopo un tentativo di borseggio.
Grace la fermò, prendendole la mano nella sua. «È soltanto caduto. Ho visto che stava per finire contro mi ami
go, ma non ho fatto in tempo a…», deglutì e socchiudendo gli occhi concluse: «Non ha fatto nulla di male. È stato un... accidente».
Il ragazzino era pressoché incredulo: non capiva perché, nonostante si fosse accorta delle sue reali intenzioni, l’avesse protetto.
Grace gli rivolse un’occhiata quasi materna, anche se leggermente delusa, e i lineamenti del viso della mamma del ragazzino si ammorbidirono e finalmente mostrarono la preoccupazione per il proprio figlio sanguinante.
«Gracias. Muchas gracias, se
ñorita», le disse la donna, ma nel suo tono di voce c’era della rassegnazione: probabilmente aveva capito che Grace aveva mentito per difenderlo, ma si voleva aggrappare all’illusione che avesse detto la verità. O meglio, questo fu quello che percepì Grace.

 
Quando la situazione si ristabilizzò e tutti tornarono alle loro occupazioni in Olvera Street, il ragazzino e sua madre erano già andati via e Bill era ancora mezzo sconvolto per ciò che era successo. Per non parlare del bodyguard, il quale sembrava un bambino spaesato, incapace di realizzare ciò che non aveva fatto.
Mentre tornavano alle loro auto il clima non era uno dei migliori e Bill riuscì ad afferrare che doveva essere successo qualcosa anche fra suo fratello e la ragazza, dato che ogni tanto lo scopriva ad osservarla di sfuggita.
Non si azzardò a chiedere nulla, anche perché era ancora troppo scosso, nonostante non avesse ben capito la dinamica dei fatti.
«La sua auto è di qua…», disse il bodyguard, indicando la parte opposta rispetto a quella in cui stavano andando loro tre.
«Sì, lo so. Prendila tu», Bill gli lanciò le chiavi. «Io vado con Helen».
«O-Okay», balbettò il bodyguard, per poi allontanarsi.
Quando fu lontano, Helen ritrovò il dono della parola e sfogò tutta la propria rabbia.
«Voi avete il coraggio di chiamarlo bodyguard, quello?!», gridò, arrossandosi in viso e camminando all’indietro durante l’ultimo pezzo del tragitto verso il fuoristrada. «No, perché se è così dovreste un po’ rimodernare la vostra definizione. Se non ci fossi stata io a quest’ora sai dove saresti?», guardò con sguardo infuocato Bill, «All’ospedale!». E con una borsa in meno nella tua collezione!
«Robe d’altro mondo!», borbottò ancora e salì sul fuoristrada. Bill e Tom fecero lo stesso, il primo sistemandosi nei sedili posteriori e il secondo accanto a lei.
«Grazie Helen», mormorò il cantante, sporgendosi in mezzo ai due sedili anteriori.
Lei trasse un profondo respiro e scosse il capo, socchiudendo gli occhi. «Non c’è di che, Bill».
Girò la chiave nel cruscotto e si girò verso di lui per aggiungere: «Ma ti prego, d’ora in avanti smettila di andare in giro con quelle borse. Okay?».
Il frontman non aprì bocca e Tom la guardò con sguardo circospetto, poi si voltò verso il suo finestrino.
Grace annuì, concedendosi un altro respiro profondo, quindi si allontanarono da Olvera Street.

 
Grace scese dal suo fuoristrada dopo i gemelli e si appoggiò alla portiera unendo le mani dietro il sedere. Si sentiva stanca, stremata, e non era passata ancora metà giornata.
«Ti fermi qui a pranzo?».
«No, grazie dell’invito», sorrise debolmente, stropicciandosi il viso con una mano. «Credo che andrò un po’ a casa a riposarmi. Tanto voi ve ne state qui buoni, vero? Le uscite fuori porta sono finite, spero».
«Sì, sono finite», ridacchiò Bill. «Grazie ancora per prima, Helen», disse e per dar ancora più valore alle sue parole la strinse in un abbraccio impacciato, che fece sobbalzare sia lei che Tom.
«Non preoccuparti Bill, è stato un piacere», balbettò imbarazzata.
Lui sorrise entusiasta, si scostò e la salutò, poi entrò in casa. Tom rimase ancora un po’ con lei, a scrutarla a tre passi di distanza.
«Mi dispiace per quello che ho detto prima, non lo pensavo veramente», esordì Grace, abbassando il capo e spostandosi dalla portiera fino al retro del fuoristrada, dove aprì il bagagliaio enorme su cui si mise seduta. Tom la raggiunse e si sistemò accanto a lei.
«Cioè, stai dicendo che siamo amici?», le chiese.
«Beh… non vedo cos’altro potremmo essere, altrimenti».
I loro sguardi si incatenarono e nessuno dei due ebbe la forza necessaria a liberarsi.
«Quel ragazzino», disse il chitarrista dopo alcuni minuti di silenzio passati a fissarsi negli occhi. «Quel ragazzino non è soltanto caduto, vero? Voleva strappare via la borsa a Bill».
Grace rimase sorpresa dalla sua intuizione, ma non lo diede a vedere. «Come hai fatto a capirlo?».
«Ho visto la scena… E poi per quale altro motivo avresti detto a Bill di non usare più le sue tanto amate borse?», sorrise smagliante e Grace rise.
«Già, hai proprio ragione. Bravo Tom, stai migliorando», gli diede una pacca sul braccio, ma la sua mano improvvisamente si bloccò lì; o meglio, fu bloccata lì da quella del ragazzo, che tornò a guardarla negli occhi con quell’intensità che metteva i brividi.
«Non dire mai più una cosa del genere», sussurrò.
«Che cosa?».
Tom scosse il capo, come se si fosse arreso, e guardò la strada di fronte a sé. «È stato bello passeggiare con te, prima».
Grace, sconcertata dal suo comportamento, si alzò e gli passò davanti senza degnarlo di uno sguardo. Quando fu accanto alla fiancata, posò una mano sulla portiera del bagagliaio.
«Sarà meglio che vada», disse.
Il chitarrista annuì e si alzò, le passò di fianco e prima che potesse superarla lei infilò un braccio sotto al suo, come se dovessero iniziare a girare in tondo a braccetto.
Entrambi guardavano in direzioni diverse, ciò che c’era di fronte a loro.
Grace posò lievemente il capo sulla sua spalla ed abbassò le palpebre stanche. «Sì, è vero, è stato bello».
«Riposati», le sussurrò amorevolmente Tom fra i capelli, per poi scostarsi e dirigersi verso la porta principale, senza guardarsi più indietro.
Grace aspettò che entrasse, poi chiuse il bagagliaio, entrò nel fuoristrada e guidò verso casa.
Mentre ripensava a tutto ciò che era successo in quella mattinata piuttosto strana ed emotivamente coinvolgente, le tornò alla mente il momento in cui aveva insinuato che lei e Tom non fossero nemmeno amici. Quando aveva pronunciato quelle parole si era sentita piccola piccola, bugiarda, e aveva anche un po’ sofferto perché, volendo o meno, il suo legame con Tom era decisamente cambiato rispetto all’iniziale “rapporto di lavoro”.

«Non dire mai più una cosa del genere». Solo ora riusciva a capire quello che Tom aveva voluto far intendere.
Il loro rapporto stava tutt’ora cambiando e anche lui se n’era accorto.

 

***

 

Sollevò la cornetta del telefono del suo ufficio e se la portò all’orecchio mentre sistemava su un’unica pila alcuni fogli sparpagliati sulla scrivania.
«Schneider Investigations», rispose atona.
«Signorina Schneider, sono la signora Thompson».
«Oh, salve. Mi dispiace molto, ma questa mattina non sono proprio riuscita a venire…».
L’anziana signora la interruppe: «Non si preoccupi, non ce ne sarà più bisogno: il signor Bryant se n’è andato giusto poco fa, non mi ha voluto dire se aveva trovato un altro alloggio o se cambiava città…».
Grace pensò a Bryant e a Lionel, che dopo tanto tempo si erano ritrovati, e non fu difficile immaginare che avessero deciso di stare insieme per un po’. In fondo Lionel era solo in casa e un po’ di compagnia gli avrebbe fatto sicuramente bene.

Lionel…
Socchiuse gli occhi alle immagini della notte precedente.
«Signorina Schneider, è ancora lì?».
«Sì, sì certo», si riprese scuotendo il capo. «Le è dispiaciuto?».
«Un po’, ma non importa. Appena ha un po’ di tempo venga da me, ché le devo pagare il disturbo».
«Non ce n’è davvero bisogno», accennò un sorriso. L’anziana provò a ribattere, ma Grace la prevenne: «Parlo sul serio, non ho fatto praticamente niente. Siamo a posto così. Adesso devo proprio andare, se ha bisogno di qualcosa mi chiami, non si faccia scrupoli».
«Va bene signorina, grazie. Lei è un angelo».
«Prego, si figuri», rispose e concluse la chiamata.
Finì si sistemare i dossier che aveva tirato fuori per l’ennesima volta a causa dei dubbi che la tormentavano e poi uscì dal suo ufficio, lo chiuse a chiave e si infilò la giacca.
Aveva proprio bisogno di una doccia e di una bella dormita, per questo andò subito dritta a casa. Non aveva ancora mangiato e probabilmente non c’era nulla nel frigorifero, ma non le importava davvero: voleva soltanto chiudere gli occhi e lasciarsi andare, dimenticare per un attimo la sua vita ed immaginarne una migliore, senza doveri né preoccupazioni, senza ragazzi criptici né tanto innamorati da ridursi a zerbini, senza uomini feriti né in fuga dalla morte.
Parcheggiò il fuoristrada ed appena scesa notò un uomo dai capelli biondi seduto sulle scale del suo palazzo, che davano direttamente sul marciapiede. L’uomo alzò il capo e i loro occhi si incrociarono: i suoi, azzurri, erano opachi e tristi.
Grace andò da lui e si mise seduta al suo fianco. Lionel la guardò in viso per un po’ e poi l’attirò a sé in un abbraccio che non necessitava di parole. La ragazza ricambiò posando la guancia sulla sua spalla.
«Mi dispiace tanto, ieri sera non avrei dovuto…».
Lionel le posò una mano sulla testa, sussurrandole di stare in silenzio, e così fece.

 

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Buondì! :)
Questo capitolo è quasi tutto incentrato su Tom e Grace! Vi piacciono più così oppure quando c'è un po' d'azione? Io personalmente preferisco il secondo caso ;) Spero che vi sia piaciuto comunque e che spendiate cinque minuti del vostro tempo per scrivermi due righe in proposito! 
Nel frattempo ringrazio ancora coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, chi legge e "fa numero" (letteralmente xD) e chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi voglio tutti bene! :D
Ah, in questo capitolo è stata citata una strada realmente esistenta a Los Angeles e se passerete sulla mia pagina Facebook (=> _Pulse_ EFP ) potrete vedere delle foto che ho trovato su Internet e molto altro materiale riguardante questa FF! ;)
A lunedì prossimo! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Buongiorno! Quest'oggi preferisco che vi godiate pienamente il capitolo per vostro conto, senza che io dica niente, per questo scrivo prima. Spero solo che vi piaccia e che me lo facciate sapere in qualche modo! ;)
Ringrazio di cuore le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, quelle che hanno messo la FF tra le preferite/seguite/ricordate e chi legge soltanto. Siete tutti importanti per me :)
Noi ci risentiamo nelle risposte alle recensioni e comunque lunedì prossimo! 
Buona lettura! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 8

 

«Se quest’indagine è davvero così grande non possiamo pensare di risolverla da soli, abbiamo bisogno dell’aiuto della polizia, addirittura anche dei federali».
Sia Lionel che Bryant sollevarono lo sguardo ed osservarono Grace, in piedi di fianco alla libreria nel salotto del marine più anziano.
«Vuoi coinvolgere l’NCIS, per caso?», domandò Bryant con una smorfia di disappunto.
Si era appena svegliato e si stava apprestando a bere una grande tazza di caffè. Non aveva una bella cera, con i capelli spettinati, la barba incolta e quelle occhiaie sotto gli occhi, ma nessuno dei due gli aveva fatto domande, sapendo alla perfezione che aveva problemi di insonnia, soprattutto dopo i mesi trascorsi a fuggire e a nascondersi da loro.
«E anche l’FBI se necessario! Non ce la faremo mai da soli e voi ora come ora avete bisogno di protezione».
«È ridicolo, Grace…».
La ragazza posò lo sguardo, acceso e colmo di inquietudine, su Lionel, che continuò: «Non sappiamo nemmeno chi siano quelli che hanno fatto fuori tuo padre, Carter e quella donna, se siano le stesse persone… Per non parlare delle prove: non abbiamo nulla in mano e siamo arrivati fino a qui solo grazie a delle supposizioni che potrebbero essere sbagliate».
Grace aprì la bocca, ma non le venne in mente nulla da dire e si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Poi strinse i pugni lungo i fianchi e serrò la mascella.
«Sta di fatto che non possiamo andare avanti così, non possiamo aspettare che quei pazzi piombino qui e vi ammazzino».
Lionel scosse il capo. «Te l’ho già detto come la penso, vero?».
«Sì», gli posò una mano sulla spalla, «ma non abbandonerò questo caso, non ho nulla da perdere».
Peccato che appena lo disse le venne in mente il viso di Tom, con tanto di particolari come le fossette che gli si creavano all’interno delle guance quando sorrideva e la ruga di espressione che aveva in mezzo alle sopracciglia quando era confuso o arrabbiato.
Scosse energicamente la testa per scacciarlo dai suoi pensieri, ma non ci riuscì tanto bene, anche a causa del cellulare che le vibrò improvvisamente nella tasca dei jeans. Era certa che non si trattasse di Molly, l’aveva avvisata quella mattina che non sarebbe stata appresso a quei due per un po’, ed infatti non era lei, bensì Tom.


Abbiamo bisogno di un bodyguard. Mentre ne cerchiamo uno, tu sei libera per farci da scorta? Vogliamo fare un giro sulla spiaggia.


Tom è un cretino
, pensò subito, e anche Bill.
Continuava a leggere e rileggere quel messaggio, senza capacitarsi della loro stupidità: avevano licenziato il loro bodyguard? E volevano che lei gli facesse da scorta? E perché volevano andare a fare un giro sulla spiaggia l’otto gennaio? Forse l’unica domanda che doveva realmente porsi era: perché aveva lasciato che quei due entrassero così tanto nella sua quotidianità?
«Chi è?», chiese Lionel, estrapolandola dai suoi pensieri.
«Un cretino», ribadì, anche a voce. «Però devo andare da lui».
«Uhm, okay. Ci vediamo a cena?».
«Probabile».
Andò a prendere la sua giacca in salotto e se la infilò, aggiungendo: «Se non confermo, non mi aspettare».
«Sissignora», le sorrise.
«Ciao Grace, divertiti», le augurò Bryant con un cenno della mano.
«Oh sì, certo», borbottò ed uscì.


Arrivò a casa dei gemelli e li vide entrambi seduti sul divano in salotto, ancora mezzi addormentati, anche loro che bevevano grandi tazze di caffè.
Corrugò la fronte, confusa, e scese dal fuoristrada guardandosi intorno con sguardo circospetto. Con una breve corsetta raggiunse le porte vetrate che davano sul giardino sul retro e bussò. Tom la vide e corrugò la fronte allo stesso modo mentre andava ad aprirle.
«Che cosa c’è?», le domandò, insospettito dal suo comportamento.
«Avete licenziato il vostro bodyguard?».
«Sì, ma… ma tu come fai a saperlo? Ancora non…».
Grace sospirò e si portò una mano sulla fronte. «Non volete andare a fare un giro sulla spiaggia, vero?».
«No, perché?».
«Merda», disse stringendo i denti e voltando il capo verso destra, saltellando sul posto. «Il tuo cellulare, Tom».
«Helen, ma che ti prende?», sbottò infastidito, ma lei scosse la testa e gli porse il palmo aperto della mano.
«Ce l’ho di sopra il cellulare, non l’ho nemmeno guardato stamattina! David è venuto qui, ci ha svegliati all’alba e…».
«Non mi interessa, vallo a prendere, muoviti! Mi serve!», strillò e lo spostò per poter entrare nel grande salotto.
Il chitarrista sbattè la porta vetrata chiudendosela alle spalle e si trascinò su per le scale, borbottando tra sé, di umore nero.
Bill, intanto, che aveva assistito a tutta la scena, poggiò sul tavolino di fronte al divano il suo caffè e chiese alla ragazza: «Qualcosa non va?».
«Ancora non ne sono sicura», mormorò con lo sguardo ancora puntato sulle scale che portavano al piano superiore.
Il cantante scrollò le spalle e riprese il telecomando in mano, iniziando a fare zapping.

“Il miglior sgrassatore sul mercato, provalo sub – Quello che rende grande un piatto è il condimento, per questo c’è – Ed ora passiamo alla cronaca. Macabro ritrovamento quello di stamattina sulla spiaggia di – Nell’episodio precedente…”
«Torna indietro, Bill!», gridò Grace col respiro mozzato e gli occhi sgranati.
«Dove, sul telegiornale?».
La ragazza si mise seduta sul bordo del divano più vicino e si avvicinò più che poté allo schermo, come se avesse voluto entrarci dentro. Ascoltò tutto senza nemmeno respirare, né chiudere gli occhi.

“Infatti, qui sulla spiaggia di Santa Monica questa mattina è stato ritrovato il cadavere di una donna. Una ragazza stava facendo jogging insieme al suo cane ed è stato proprio l’animale a trovare il corpo. La ragazza ha subito chiamato il 911 e la polizia scientifica è stata la prima ad arrivare sul posto. Come vedete alle mie spalle, è ancora al lavoro sulla scena…”
«Helen».
La ragazza si voltò di scatto verso le scale ed incontrò gli occhi preoccupati di Tom.
«Non trovo più il mio cellulare».
Grace chiuse gli occhi lentamente e serrò la mascella, respirando grevemente. Poi si alzò in piedi, estrasse dalla tasca il suo cellulare e chiamò il numero di Tom.
Al terzo squillo sentì la voce grave e criptata di un uomo dire: «Stanne fuori, sei ancora in tempo». Poi la linea cadde.
Tremava da capo a piedi, ma compose subito il numero di Lionel.
«Abbiamo un problema», disse. «Uno bello grosso».


***

 

Dylan intercettò lo sguardo di Grace e sospirò lievemente mentre tornava a concentrarsi su ciò che gli stavano dicendo le due rockstar.
Non era la prima volta che lui, un semplice agente della polizia stradale dell’Eastside, partecipava a casi appartenenti ad altri dipartimenti grazie ad amici che lo presentavano come “agente di collegamento”; tutto questo solo per amor della ragazza.
Quel giorno si era precipitato proprio a Beverly Hills, a casa di Bill e Tom Kaulitz, e maledicendosi continuava a pensare che non avrebbe dovuto farlo.
Lui, le due già citate rockstar, Grace e Lionel erano tutti seduti intorno al tavolino posto sotto il porticato nel giardino sul retro. Paul e Andrew, i due agenti della omicidi che erano stati spediti lì a fare un sopralluogo perché di troppo sulla vicina spiaggia di Santa Monica, erano invece dentro casa che cercavano qualche prova che accertasse l’avvenimento di un furto e magari un collegamento con l’omicidio di quella donna. Quest’ultimo sì che sarebbe stato un colpaccio!
«Quindi, se ho capito bene», tirò le somme Dylan, «l’unica cosa che è sparita è il suo cellulare. Il quale è stato usato per mandare un messaggio alla signorina», indicò Grace, stando attento a non dire il suo nome né il suo cognome vero. «Il messaggio diceva che loro avevano bisogno di un nuovo bodyguard e che volevano andare a fare un giro in spiaggia, giusto?».
«Sì», rispose l’investigatrice, tirando fuori dalla borsa il pacchetto di sigarette e l’accendino. Se ne accese una ed aspirò la prima boccata. «Proprio così».
«E secondo lei perché avrebbero dovuto fare una cosa del genere?».
I suoi occhi scuri la penetrarono e lei, non potendo rivelare tutto quanto davanti ai gemelli, scosse lievemente il capo. «Non ne ho idea. Comunque puoi anche darmi del tu, Dylan».
Il viso dell’agente si stropicciò in una smorfia e in quel momento Andrew uscì dalla casa, con Paul al seguito. Il primo, un ragazzo giovane e piacente, coi capelli scuri e gli occhi che potevano essere castani o verdi in base alla luce del sole, posò una mano sulla spalla di Dylan e lo guardò negli occhi con aria scettica. Poi posò lo sguardo sul chitarrista.
«Ma lei è sicuro di non averlo lasciato da qualche parte?», gli domandò. «Abbiamo controllato dappertutto, ma non ci sono segni d’effrazione né di una possibile presenza estranea, nulla di nulla. Più tardi controlleremo i video delle telecamere, ma…».
«Dubito che troverete qualcosa», lo prevenne Grace, soffiando il fumo verso l’alto. «Se sono stati così bravi da non lasciare nemmeno una traccia, non credo che si siano lasciati fregare dalle telecamere. Erano preparati a dovere».
Si chiese se avessero fatto qualche appostamento per studiare la pianta della villa con la disposizione delle camere e soprattutto per capire gli orari e gli spostamenti dei gemelli, proprio come aveva fatto lei per mesi, e si rese penosamente conto che se così era stato, lei non si era accorta di nulla.
«Esatto», annuì Andrew e diede una pacca al braccio di Dylan. «Amico, sei sicuro che la tua bella ti abbia detto tutto quello che sa? Mi sembra che abbia le idee chiare: è già convinta che questo furto ci sia stato e che non sia stata una sola persona – parlava al plurale».
Grace si trovò sei paia di occhi addosso, in particolar modo quelli spenti di Dylan, il quale disse a mezza voce: «No, non ne sono sicuro».
Lionel guardò l’investigatrice e le fece un segno d’assenso col capo, dandole una strizzatina al polso.
A quel punto Grace si rivolse direttamente a Dylan: «Ne parliamo in privato?».
«Va bene», rispose scrollando le spalle. «A patto che in privato significhi io e Andrew».
«Oh, come sei gentile», lo ringraziò il diretto interessato con un sorrisetto divertito sulle labbra.
«Okay. Allora io mi porto Lionel», rispose a tono Grace, stringendosi il collo fra le spalle.
I quattro si diressero verso l’interno della casa, ma Tom fece tornare indietro di qualche passo la ragazza, richiamandola.
Grace incrociò le braccia al petto, segno che aveva altro per la testa e ciò che avrebbe detto non le sarebbe interessato più di tanto, a meno che non fosse essenziale per le indagini.
«Che cazzo sta succedendo? Che cosa ci nascondi?», le domandò, alterato e preoccupato allo stesso tempo.
«È meglio che voi ne restiate fuori», rispose stizzita.
Si alzò dalla sedia bruscamente, il viso rosso dalla rabbia. «Peccato che io abbia la sensazione di esserci dentro fino al collo!», gridò.
La sua corazza si sgretolò in un istante. Grace gli posò le mani sul petto e lo guardò negli occhi, facendo del suo meglio per fargli capire che era solo per il loro bene se si comportava in quel modo. Li aveva già coinvolti troppo, tutte le persone che stavano dietro la serie di omicidi a cui stava indagando li avevano presi di mira per farla spaventare e rinunciare al caso, ma…
Improvvisamente la paura insita nell’angolo più profondo della sua anima la fece vacillare: era disposta a mettere a rischio l’incolumità di Bill e Tom, pur di non lasciare il caso?
«Helen dì qualcosa, cazzo», soffiò Tom.
Nella sua espressione c’era ancora dell’ira, ma gran parte di essa si era sciolta al tocco delle sue mani.
«Fidatevi di me», sussurrò tenendo gli occhi bassi. «Fidati di me».
Levò le mani dal suo petto e sentì ancora sui palmi il suo calore, come se le avesse appoggiate sopra una piastra calda. Le strinse a pugno all’altezza dei fianchi, poi fece un passo indietro ed entrò in casa.
Raggiunse i due agenti e l’ex-marine in cucina e appena chiuse la porta alla sue spalle si sentì in trappola, in una bolla carica di tensione. Lionel doveva avergli già spiegato i loro progressi per quanto riguardava l’omicidio di Mitch Schneider, suo padre. Gli occhi di Dylan glielo confermarono.
Non si era nemmeno seduta insieme a loro, quando esordì: «Non posso permettere che Bill e Tom vengano usati come esche per arrivare a me. Non sappiamo con certezza se le nostre supposizioni sono esatte, ma l’istinto mi dice che è così. E quello che è successo oggi potrebbe esserne la prova: perché prendersi la briga di rubare il cellulare di Tom e mandarmi un SMS, dandomi come indizio la spiaggia, dove questa mattina è stato ritrovato un cadavere? Mi hanno voluta avvisare che possono arrivare a loro con estrema facilità e che sono informati – sapevano che in questo momento non hanno un bodyguard. Magari li hanno tenuti e li tengono sott’occhio anche adesso. E il riferimento alla spiaggia… beh, è semplice da capire. Inoltre c’è una cosa che non vi ho ancora detto».
«Che cosa?», domandò Andrew.
Solo allora Grace si mise seduta al tavolo e si sporse verso di loro per parlare più a bassa voce.
«Ho chiamato il numero del cellulare di Tom, appena ho capito che le cose non tornavano, e mi ha risposto la voce di un uomo; era criptata, forse non era così grave, ma era sicuramente di un uomo. Mi ha detto: “Stanne fuori, sei ancora in tempo”». Sospirò e si portò le mani ai lati del viso.
«Ora si spiegano molte cose», disse Andrew. «E che cosa dovremmo fare ora, esattamente?».
«Tu che cosa faresti?», gli chiese.
Andrew scosse il capo, desolato.
«Ecco, appunto».
Un lieve bussare alla porta li fece voltare tutti di scatto. Bill, pallido come un cencio e tremante, incrociò gli occhi di Grace.
«I nostri cani…», mormorò, così lievemente che stentò a decifrare le sue parole. Ma quando capì quello che poteva essere successo fu come ricevere un pugno al cervello.
La detective saltò giù dallo sgabello e seguì Bill al piano superiore, in una stanza che non aveva mai esplorato e di cui rimase sorpresa, ma nemmeno troppo: i loro cani avevano una cameretta tutta per loro, come se fossero stati dei bambini veri e propri, con cuscini, giochi di ogni tipo e…
«Ehi, cucciolo, svegliati… per favore…».
Nell’udire la voce di Tom e un debole guaito, Grace si riprese ed abbassando gli occhi lo trovò inginocchiato accanto al suo cane preferito, quello che quando la vedeva la salutava sempre scodinzolando felice. Si portò subito al suo fianco e gli aprì le palpebre per vedere come le pupille reagivano alla luce del sole che entrava attraverso la finestra: si sforzava di chiudere gli occhi, quindi il cane era vigile, anche se un po’ intontito e quasi paralizzato sul posto.
«Credi li abbiano sedati?», domandò Dylan, avvicinandosi ad un altro cane per posargli una mano sul ventre che si abbassava e si alzava lentamente, forse fin troppo.
«Pensavo dormissero…», disse Paul, spaventato, perché lui aveva controllato quella stanza e non aveva notato nulla di strano.
Grace fece finta di non averlo sentito e diede una rapida occhiata alla stanza. Nulla di anomalo, se non avesse notato in controluce dei residui calcarei sul pavimento, che andavano dalla ciotola d’acqua posta in un angolo al cuscino su cui si era sdraiato il cane che stava “visitando”.
«Gli hanno drogato l’acqua», esclamò, indicando la ciotola e accarezzando con un dito il pavimento: se fosse stata solo acqua sarebbe evaporata e non avrebbe lasciato tracce sul pavimento.
«Avrei dovuto cambiargliela stamattina», disse Tom, con gli occhi lucidi.
La ragazza gli posò una mano sulla spalla, stringendogliela un poco in segno di conforto.
«Meglio se li portate subito dal veterinario».


Grace aiutò Bill e Tom a caricare in auto i cani, ancora semi-incoscienti, poi li guardò andare via in fretta, appoggiata al cofano del suo fuoristrada con le braccia strette al petto e la fronte corrugata, in pensiero.
Qualche minuto dopo, sentì dei passi alle sue spalle e con la coda dell’occhio vide Dylan affiancarla.
Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma non voleva parlare con lui di Bill e Tom, non in quel momento. Il poliziotto però la sorprese, perché introdusse l’argomento in modo indiretto.
«Non avresti dovuto chiamare quel numero da sola. Avremmo potuto intercettare la chiamata, capire dove…».
Grace lo interruppe: «Non ci ho nemmeno pensato. E poi non ci saremmo riusciti, ha detto solo quelle parole e poi ha spento, mi dispiace. Potremmo provare ad intercettare comunque la microspia inserita in quel cellulare».
Dylan sollevò gli occhi su di lei. «Hai messo una microspia nel cellulare di Tom Kaulitz?».
«Se è per questo, avevo messo delle microspie anche in casa loro, ma guarda caso le ho tolte pochi giorni fa».
Si accese l’ennesima sigaretta e si chiuse nel suo silenzio, colmo di riflessioni e di insicurezze.
«Assurdo che ti paghino per tenere d’occhio quei due».
«Assurdo o meno, è ciò di cui vivo in questo momento».
«Ma se li hanno presi di mira vuol dire che c’è di più», osservò Dylan. «In che rapporti sei con loro?».
L’investigatrice scrollò le spalle, nervosamente. «Siamo diventati amici, Dio solo sa come, e un po’ di tempo fa al mercato di Olvera Street mi sono esposta troppo».
Lui si appoggiò meglio al cofano del fuoristrada ed inarcò le sopracciglia, incrociando le braccia al petto.
«In che senso?».
«Nel senso che Bill ha avuto la fantastica idea di andarsene in giro con un bodyguard incapace e io e Tom siamo andati a recuperarlo. E già lì, camminando fianco a fianco con lui… non sembrava che lo stessi pedinando, sai? Sembravamo, piuttosto…».
«Una coppia», terminò la frase per lei e Grace poté percepire nel suo tono di voce una lieve tensione: era geloso.
Ci passò sopra e continuò: «Poi Bill è stato quasi borseggiato. Quasi perché ovviamente io sono intervenuta».
«Ed è possibile che… insomma, che quelli che dovrebbero esserci dietro tutto questo vi abbiano visti ed abbiano pensato che tu avresti ceduto, se fosse stata messa a rischio la loro incolumità?».
«Sì, è possibile».
Gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò con la punta della scarpa.
«Dobbiamo prenderli, Dylan».
«Chi? Sono dei fantasmi, Grace. Non abbiamo nulla, oltre alle supposizioni e al tuo istinto».
Abbassò il capo e si spostò verso la portiera della sua volante, parcheggiata davanti al fuoristrada.
«Un mio amico della scientifica mi deve un favore, gli chiederò di passare appena avrà un minuto».
La ragazza lo guardò entrare nella sua auto, poi si chinò all’altezza del finestrino. «E se non trovasse niente?».
«Abbandonerai questo caso, per il bene di tutti».
«Sai che non lo farò».
«Allora pregherò per i tuoi amici».
Dylan diede gas, Grace fu costretta a spostarsi e guardò andare via anche lui.

 

***

 

L’arrivo della sera aveva portato con sé un vento freddo proveniente da nord e la pioggia, che impregnava la terra e ne sollevava il profumo.
«Ho bisogno di sapere il più possibile della donna trovata morta sulla spiaggia di Santa Monica. Ha qualche collegamento con il caso che seguiva mio padre? Anche lei sapeva? O era semplicemente una donna nel posto sbagliato al momento sbagliato che hanno fatto fuori per mostrarmi la loro bravura?».
«Vedrò quello che posso fare. Dylan lo sa che me lo stai chiedendo?».
«Andrew, non ti ci mettere anche tu», lo supplicò, sospirando.
«Lo conosco da una vita e ti posso assicurare che se non ti appoggia in quest’indagine è perché pensa sia troppo pericoloso, anche per l’intrepida Grace Schneider».
«Non voglio che lui mi appoggi a tutti i costi, infatti. È una sua libera scelta».
Sollevò il viso verso il cielo e non vide altro che pioggia e nuvole scure che impedivano alla luna e alle stelle di brillare.
«È innamorato di te».
Grace chiuse lentamente gli occhi. «Lo so».
«Tu no, vero?».
«Andrew, basta».
«Sissignora», si schiarì la voce. «Ah, abbiamo provato a seguire la microspia che tu hai detto di aver inserito nel cellulare di Tom, ma…».
«Se ne sono disfatti. Come immaginavo».
«Abbiamo provato anche a chiamare quel numero, ma il cellulare è risultato spento».
«Okay. Se ci sono novità non aspettare a chiamarmi, mi raccomando».
«Va bene».
«Grazie, Andrew».
«Prego. Però secondo me dovresti parlarne con Dylan, sai?».
«Buonanotte», disse e concluse la chiamata.
Guardò di fronte a sé cercando di scorgere nel buio la soluzione a tutti i suoi rompicapi, come se avesse davanti la chiave del caso ma non la riuscisse a vedere.
C’erano troppi pezzi del puzzle che mancavano, tra cui che cosa c’entrasse il mancato attentato a Baghdad.
Era certa che suo padre fosse arrivato vicino alla conclusione, ma non aveva potuto, o forse voluto, che qualcuno vi giungesse come lui e rischiasse la vita. Si era sacrificato, aveva preferito portarsi le sue scoperte nella tomba, pur di proteggere chiunque avesse preso parte a quelle indagini. Ed era questo a confondere ancora di più Grace, perché suo padre non avrebbe mai fatto una cosa del genere: si sarebbe sacrificato comunque e avrebbe fatto in modo di limitare i danni, ma avrebbe lasciato a qualcuno il compito di proseguire da dove aveva lasciato. Ma… come?
Si rannicchiò a terra, con le tempie fra le dita, e chiuse gli occhi per concentrarsi meglio. Suo padre era troppo furbo, troppo intelligente e cauto per lasciarsi prendere di sorpresa ed essere ammazzato – professionisti o meno – senza aver lasciato una traccia, una pista da seguire.
All’improvviso ebbe come la sensazione di vedere la risposta alla domanda di fronte agli occhi, ma non l’afferrò per un soffio a causa di una voce che si intrufolò nei suoi pensieri, distraendola.
Voltò il viso verso le porte vetrate e vide Tom a pochi passi da lei, che la guardava leggermente preoccupato.
«Che stai facendo, lì rannicchiata?», le chiese.
«Pensavo. E tu mi hai interrotta», borbottò e si lasciò andare un sospiro frustrato perché ovviamente il lampo di genio che le aveva attraversato la mente era scomparso, irrecuperabile. «Grazie tante».
«Non volevo, davvero».
Le porse una mano, lei l’afferrò e la forza con cui Tom la tirò su fu tanta che Grace traballò e cadde col viso ad un centimetro dal suo. Si guardarono negli occhi per qualche secondo, in un silenzio carico di imbarazzo, poi il chitarrista sogghignò.
«L’hai fatto apposta».
«No, non è vero!».
«Oh sì, invece. Ammettilo, dai, che ti costa!».
«Ma non è vero! Sei tu che sei un montato!».
Si scostarono l’uno dall’altra, lei gli posò le mani sul petto come a volerlo allontanare da sé, ma la forza che impiegò fu minima perché si misero a ridere, nonostante tutto quello che era successo quel giorno – tra cui il rischio, fortunatamente scampato, che avevano corso i cani dei gemelli, a cui era stata somministrata una forte dose di Ketamina, mischiata all’acqua della loro ciotola.
«Eri venuto a chiedermi qualcosa?», gli domandò poco dopo, quando smisero. Sulle loro labbra, però, aleggiava comunque un sorriso sereno che non vedevano da tempo sul viso dell’altro e che per un po’ li fece stare bene.
Tom si passò una mano dietro il collo. «In effetti sì. Volevo chiederti se restavi qui, stanotte. Insomma, né io né Bill ci sentiamo molto tranquilli a stare da soli, visto che sono riusciti a rubarmi il cellulare senza lasciare nemmeno una traccia… Ci sentiremmo più al sicuro se tu…».
«E in che modo potrei proteggervi, io?», gli domandò. «Non ero una stalker?».
«Una stalker… Sicura di non essere piuttosto un’agente sotto copertura dell’FBI o della CIA?».
Lei rise ancora, tenendosi la pancia, e Tom ne fu irrimediabilmente contagiato.
«Comunque non so, tu ci faresti sentire al sicuro in ogni caso», concluse, cercando invano il suo sguardo.
Grace parve rifletterci un po’ su, con lo sguardo perso di fronte a sé. Poi si voltò verso di lui, in attesa, ed accennò un sorriso.
«Va bene. Vado a prendere una cosa che ho lasciato nel fuoristrada. Tu inizia a rientrare, arrivo subito».
Tom annuì, rincuorato, e tornò in salotto. Grace trasse un respiro profondo, poi corse sotto la pioggia ed aprì il suo fuoristrada. Si mise seduta sul sedile del passeggero, aprì il vano portaoggetti e nel doppio fondo vide la sua Glock. La prese fra le mani e si assicurò che la sicura fosse inserita, socchiuse gli occhi deglutendo e se la infilò nella cintura, sotto la maglietta. Sentì il metallo freddo premerle contro la pelle nuda della schiena, come se quello fosse un prolungamento della sua spina dorsale, e rabbrividì.
Infine scese dal fuoristrada e corse di nuovo verso il portico, dove poteva proteggersi dalla pioggia.


Il buio della casa era quasi inquietante. Odiava dormire in luoghi che non conosceva bene, anzi a dire il vero odiava dormire al di fuori di casa sua o del suo fuoristrada. E il temporale fuori dalla finestra non la rassicurava per niente. Perché aveva deciso di rimanere lì, quella notte?
Un lampo illuminò gran parte della zona living sul soppalco, dove l’avevano sistemata sul divano letto che si apriva proprio lì in mezzo. Il tuono seguente la fece sobbalzare e la rete cigolò un poco al suo movimento improvviso.
Chiuse gli occhi, traendo respiri profondi per rilassarsi, quando un altro rumore improvviso, un tonfo, la fece rizzare seduta sul materasso, con le dita già strette intorno al calcio della sua pistola.
Allungò il collo per vedere oltre la ringhiera che dava sul salotto sottostante, poi si sporse per vedere le porte delle camere da letto che davano sul corridoio.
Vide una porta schiudersi lentamente e deglutì il nodo che le bloccava la gola. Aveva i palmi sudati, sentiva l’impugnatura della sua Glock scivolarle via.
«Tom, sei tu?», domandò a bassa voce rivolta verso il corridoio.
Una testa sbucò fuori dalla porta socchiusa e lei trattenne il respiro fino a quando un lampo non ne illuminò il profilo. Sì, era lui.
«Dio, che spavento», sospirò sollevata, ma il cuore continuò a batterle nella cassa toracica a velocità sostenuta.
Nascose nuovamente la pistola nello spazio tra la testata del divano e il materasso ed aspettò che Tom la raggiungesse. Rimasero per un minuto buono a fissarsi, senza sapere bene che dire, poi Grace lo invitò ad accomodarsi al suo fianco con un cenno leggero del capo.
Il chitarrista fece il giro del divano letto, salì con un ginocchio sul bordo e la rete sotto di esso cigolò di nuovo. Corrugò la fronte e posò anche le mani sul materasso, poi spinse facendo dei piccoli saltelli. Il cigolio persistette e Grace distolse lo sguardo, imbarazzata da quel rumore.
«Piantala, Tom», gli disse.
«Stavo solo…». L’occhiata che ricevette fu in grado di interromperlo e finì di sistemarsi sdraiato al suo fianco, con le spalle contro la testata e le mani unite sul petto.
«Non riesci a dormire?», gli domandò la ragazza, dopo qualche altro minuto di silenzio.
Lui scosse il capo, socchiudendo gli occhi. «Pensare che delle persone siano riuscite ad entrare in casa mia come se nulla fosse…».
«Non ti faranno niente», lo rassicurò e si mise anche lei nella sua identica posizione, vicina al suo corpo caldo. Il suo profumo lentamente la invase.
«Ce ne siamo andati dalla Germania proprio per evitare che accadessero cose simili, ma non è cambiato niente», sbuffò. «Non vedo l’ora di andarmene da qui».
«Accadrà presto?».
«L’album è finito, lo stanno già stampando. La settimana prossima iniziamo a girare il video del nostro primo singolo, poi ci sarà tutto il lavoro di promozione… e poi il tour, ovviamente. Forse è la volta buona che ne facciamo uno mondiale. Non vedrò questa casa per molto, molto tempo e non vedo l’ora».
Fu un duro colpo per Grace. In quelle ultime settimane si era completamente dimenticata di quale fosse il suo vero lavoro con loro e questo non prevedeva nulla di tutto ciò che avevano fatto, come non prevedeva che diventasse un’amica dei gemelli. Venire a conoscenza in quel modo di tutti quei cambiamenti… beh, la fece sentire piuttosto impreparata e malinconica. Era maledettamente certa che le sarebbero mancati, tutti e due.
L’ennesimo cigolio la fece voltare verso Tom e vide che si era girato sul fianco, verso di lei, e si era sollevato puntando un gomito sul materasso. La guardava con occhi curiosi, nei quali però c’era la stessa malinconia che aveva ombreggiato quelli della ragazza.
«Non dici niente?», le chiese e la sua voce si era abbassata di qualche ottava, divenendo roca e sensuale.
Lei distolse lo sguardo e con voce atona disse: «Vuoi che vi innaffi il giardino, quando sarete via?».
Non lo vide nemmeno, si trovò soltanto con le labbra intrappolate nelle sue, che avide le baciavano, le mordevano e le torturavano con insignificanti sfioramenti mentre le sue mani viaggiavano sotto la sua maglietta e gliela sfilavano senza alcuna difficoltà.
Grace non si chiese cosa stessero facendo, lo attirò a sé bruscamente e ricambiò il bacio, infilandogli la lingua tra le labbra. Lui ansimò ed immerse le dita fra i suoi capelli, ai quali tolse l’elastico per accarezzarli.
Allo stesso tempo la ragazza gli levò la maglia e tastò con le mani le sue spalle, la sua schiena longilinea, gli graffiò i fianchi e tornò ad accarezzargli gli addominali e i pettorali appena pronunciati.
Tom fece scontrare ed aderire perfettamente i loro bacini e anche quel briciolo di razionalità che si era preservata nelle loro menti andò a farsi fottere.


Caddero esausti l’uno affianco all’altra, col fiatone ed ogni muscolo ancora in contrazione, accompagnati dal solito cigolio. Entrambi guardarono il soffitto, increduli e distrutti, ma pienamente soddisfatti.
«Cristo», soffiò Grace.
«Che hai detto?», domandò Tom, con gli occhi piccoli come se sforzando la vista nell’oscurità potesse sentire meglio.
«Niente», rispose frettolosamente la ragazza, dandogli le spalle e rannicchiandosi sul bordo del letto.
Tom fece lo stesso, scrollando le spalle, ma nessuno dei due si addormentò presto: a Grace ci volle una buona mezz’ora, Tom non ci riuscì proprio e guardò fisso davanti a sé senza capacitarsi di come potesse essere successo. Era stato come… una reazione chimica: erano finalmente esplosi e insieme avevano fatto fuoco e fiamme. Allora era proprio vero che gli opposti si attraggono.
Qualche ora dopo, quando iniziò anche lui ad assopirsi, cullato dallo scrosciare della pioggia insistente, si voltò ad osservare la schiena nuda di Helen sollevarsi ed abbassarsi in sincronia col suo respiro lento. Si sporse verso di lei e la guardò in viso scostando delicatamente qualche ciocca di capelli neri che le cascavano sugli occhi. Le accarezzò la schiena con la punta delle dita, facendola rabbrividire, ed osservò le sue palpebre alzarsi appena.
La guardò quasi incantato, Grace si girò lentamente verso di lui e ricambiò lo sguardo, ancora un po’ intontita, ma capì immediatamente quello che gli stava passando per la testa e gli accarezzò il collo come a volergli dare la sua approvazione. Allora Tom si chinò sul suo viso e le sfiorò le labbra con le proprie, la baciò con un’intensità sempre crescente, ma senza mai perdere la dolcezza iniziale. Accompagnò Helen a salirgli sopra e lei si lasciò coccolare ancora un po’, riservandogli lo stesso insolito trattamento.
Fecero un’altra volta l’amore, ma fu molto diverso dalla prima, nella quale avevano agito d’istinto e si erano saltati addosso quasi come animali, con una brutalità che non si sarebbero mai immaginati derivasse dalla potenza della loro attrazione.
Quella seconda volta fu completamente diversa perché entrambi lasciarono da parte gli istinti e seguirono il cuore. Strano a dirsi, ma… ci fu una strana dolcezza, si completarono l’un l’altra.
Quella seconda volta fecero proprio l’amore, non scoparono e basta. Sia Tom che Grace se ne accorsero, ma non si dissero nulla, forse intontiti dal sonno o forse consapevoli che era ancora troppo presto per ammettere all’altro che c’era qualcosa di più della semplice attrazione fisica.
Quando Tom venne, venne anche lei; e fu piuttosto particolare, perché quando Tom venne dentro di lei, quella volta, Grace sorrise, come se il calore che si era sprigionato dentro di lei le fosse arrivato fino al cuore, sciogliendole i lineamenti delicati del viso, facendolo brillare di vita.
Quel sorriso non abbandonò le sue labbra, rimase lì ancora per un po’, anche se nascosto, e quando Tom se ne accorse era ancora steso su di lei, col viso ad un palmo dal suo, fiato contro fiato. Avvicinò una mano alle sue labbra, ancora con quello sguardo un po’ perso, e percorse con le dita quella linea che si sollevava in modo quasi impercettibile agli angoli.
«Quelle bambine erano così invidiose di te che se avessero potuto non avrebbero provato a cancellarti solo le efelidi. Sei bellissima», sussurrò senza nemmeno rendersene conto.
Grace si lasciò andare ad una lieve risata espirando forte col naso. Poi gli diede un’altra carezza sul collo e sempre ad occhi chiusi mormorò: «Anche tu lo sei, Tom. Anche tu».
Tante ragazze gli avevano detto che era bello – milioni di ragazze in tutto il mondo, ma come l’aveva detto Helen… ah, era tutta un’altra storia. Non potevano esserci paragoni, perché Helen era unica nel suo genere, in peggio e in meglio.


Quando la mattina dopo Tom si svegliò, allungò il braccio e si accorse che la parte di letto non occupata da lui era vuota.
Aprì gli occhi, nonostante la luce del sole che era tornato a splendere dopo quell’intenso temporale, e non vide Helen. Si arrabbiò, e molto. Non sapeva esattamente perché, ma gli diede parecchio sui nervi svegliarsi solo. Forse a causa della nottata così particolare che avevano vissuto? Non se lo chiese nemmeno, accecato dall’ira.
La notte l’amava, la mattina dopo la odiava con tutte le sue forze.
Si scostò le coperte di dosso, sbuffando pesantemente, e fece il giro del letto per andare in bagno. Quando ebbe la visuale del pavimento sotto la parte di letto occupata da Helen, però, si bloccò come gli si arrestò il cuore nella cassa toracica: lei era lì, stesa sul pavimento, con lo stesso lieve sorriso della notte precedente disegnato sulle labbra, che ancora dormiva con le braccia a farle da cuscino, con solo un po’ di lenzuolo arrotolato intorno alla vita a coprirla.
Bastò il tempo di uno sguardo perché tutta la rabbia gli scivolasse addosso e uno strano calore si diffondesse dentro di lui partendo proprio dal centro del suo petto.
Non seppe nemmeno perché, ma gli venne naturale stendersi sul pavimento accanto a lei, con una mano sotto la guancia e l’altra ad accarezzarle il viso e i capelli perché si svegliasse dolcemente.
Questo accadde qualche minuto dopo e Tom si meravigliò come un bambino quando vide le sue palpebre tremare e poi sollevarsi, mostrando al mondo quei due specchi verdi di cui avrebbe dovuto andare soltanto fiera.
«Ciao», sussurrò.
«Ciao», ricambiò Helen, stiracchiandosi. «Che ci fai per terra?», gli domandò, corrugando la fronte.
Tom sogghignò. «Volevo farti la stessa domanda».
«Beh, tu quando dormi ti muovi troppo per i miei gusti».
Il ragazzo le spostò ancora un ciuffo dal viso e Grace rimase affascinata dalla delicatezza con la quale aveva compiuto quel gesto e dal suo sorriso, ma non glielo fece notare.
«La prossima volta sdraiati sopra di me», le disse.
«Sdraiarmi… sopra di te?», ripeté, non capendo.
Tom accennò un sorriso imbarazzato ed abbassò gli occhi. «Quando io e Bill eravamo piccoli e facevamo qualche incubo ci mettevamo a dormire nello stesso letto e capitava che io mi muovessi molto. Così una volta Bill si è steso completamente sopra di me, per farmi stare fermo, e ci è riuscito… forse avevo capito che c’era lui e per non fargli del male mi impegnavo inconsciamente a non agitarmi. Io non so se funzioni ancora, però… tentar non nuoce, no?». Riabbassò gli occhi su di lei e le scoccò un altro sorriso. «Soprattutto per la tua schiena, non penso sia comodo dormire per terra».
Grace ricambiò il sorriso, ma glielo nascose puntando il mento sul proprio sterno.
«Beh, io… vado a farmi una doccia, okay? Sperando che Bill non ti trovi ancora in questo stato, quando si sveglierà». E le rivolse un’occhiata eloquente.
«Oh. Sì, certo», annuì Grace, imbarazzata.
Tom si alzò dal pavimento e coi soli boxer addosso – gli altri vestiti li aveva raccolti e se li era messi sotto braccio – si avviò verso la sua stanza, in fondo al corridoio.
La ragazza si stese a pancia in su sul pavimento per poter guardare il soffitto e pensare, soffermandosi in particolar modo sul momento in cui Tom aveva pronunciato le parole: «La prossima volta sdraiati sopra di me».
Aveva detto «La prossima volta». Tom pensava che ci sarebbe stata una prossima volta. E Grace ancora non sapeva minimamente se fosse un bene o un male.
Non si era ancora guardata allo specchio, non poteva sapere che il leggerissimo sorriso che aveva preso dimora fissa sulle sue labbra le dava già la risposta che cercava.

«La prossima volta».

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 

“And I just keep on trying, but I don't know what for,
'cause trying not to love you…
only makes me love you more”

(Trying not to love you - Nickelback)

 

Entrò in casa e sentì subito dei rumori provenienti dal salotto. Si portò velocemente una mano dietro la schiena, sull’impugnatura della sua pistola, ed era pronta ad estrarla quando vide Dylan sbucare fuori dal suo salotto, con i capelli spettinati e un aspetto pessimo in generale.
Lui sobbalzò e sollevò le mani verso l’alto, gettando un’occhiata alla posizione del suo braccio.
«Sono solo io».
«Per fortuna», borbottò Grace. «Che ci fai qui?».
Lo scansò ed entrò in salotto: vide una coperta sul divano e dedusse che doveva essersi accampato lì per la notte.
«Ti hanno sfrattato, per caso?».
«No», rispose con tono fin troppo composto. Anche la sua espressione era cambiata, ora che lei non aveva più la mano sulla sua Glock: era dura, quasi contratta dall’ira. «Tu, piuttosto, dove sei stata?».
L’investigatrice si voltò di scatto e si trovò pochi centimetri dal suo corpo, ma non distolse mai lo sguardo dai suoi occhi.
«Hai qualche supposizione, tu?».
«Ovviamente. Dai Kaulitz».
Grace fece un ampio sorriso e gli diede una pacca sulla spalla. «Sei un bravo poliziotto».
Stava per dirigersi verso la cucina, quando si sentì strattonare. Abbassò gli occhi sul suo polso e vide le dita di Dylan tenerlo stretto con forza; poi li fece scorrere lentamente sul suo braccio, fino ad arrivare di nuovo al suo viso.
«Solo amici, eh?», le disse in tono sarcastico, con un sorriso storto sulle labbra.
«Vaffanculo, Dylan».
«Lo sapevo».
Le mollò il polso con un gesto brusco e voltò il viso, passandosi le dita di una mano sulle guance su cui era cresciuta un po’ di barba nera.
«Tu e Tom… Non si può stare in mezzo a voi senza prendere la scossa. È come esporsi alle radiazioni…».
«Che cosa stai tentando di dire?», sbottò Grace, portandosi i pugni sui fianchi.
«Che si sente l’attrazione fisica che c’è tra voi, è… è fortissima! Se ne accorgerebbe chiunque! E poi basta guardarti…», le prese il mento fra le dita, guardandola con l’espressione di un cane bastonato. «Hai quella luce negli occhi, stamattina… Non la vedevo da tanto tempo».
Grace si scostò e fece un passo indietro, allontanandosi da lui. Il suo volto era di pietra, i suoi occhi freddi come il ghiaccio, come la sua voce.
«Smettila di sparare cazzate. E vattene, per piacere».
Un lampo di tristezza attraversò gli occhi del ragazzo, che allungò una mano verso di lei. «Grace…».
L’investigatrice gli diede le spalle ed andò a prepararsi un caffè. «E non entrare mai più così in casa mia».
«Me l’hai data tu la chiave».
«Lasciala sulla mensola in corridoio».
Dylan abbassò lo sguardo, ferito, ed annuì debolmente. «Non volevo che finisse così…».
«Non è finita», sospirò, chiudendo gli occhi. «Ne riparleremo, ma non ora. Te lo prometto».
Dylan fece un altro silenzioso cenno d’assenso e rientrò nel salotto. Prese la giacca beige con lo stemma della polizia stradale dell’Eastside di LA, se la infilò e lasciò la chiave dell’appartamento sulla mensola che gli aveva indicato Grace. Poi uscì di casa, gettandole un ultimo non ricambiato sguardo.
Quando la ragazza rimase sola nel suo appartamento, si lasciò andare ad un sospiro tremante e strinse gli occhi.
Sentì la porta riaprirsi e sobbalzò. Dylan era di nuovo di fronte alla porta della cucina.
«Che c’è?», gli domandò, affranta e sorpresa.
«Ha chiamato tua madre, questa mattina presto. Ha lasciato un messaggio sulla segreteria».
«E che diceva?».
«Che le farebbe piacere vederti».
Il fiato le mancò. «Quando?».
«Domani pomeriggio».
Annuì leggermente. Dylan accennò un sorriso e la salutò. Lei non rispose.

 

***

 

Suo fratello non si accorse subito della sua presenza, a dir la verità non si sarebbe accorto di lui nemmeno se gli avesse tirato uno dei suoi anfibi più pesanti sulla testa, concentrato com’era sui suoi famosi waffles. In più, canticchiava. Tom non canticchiava mai, eccetto in rarissimi casi… e Bill sapeva con assoluta certezza che quella notte fosse successo qualcosa in grado di far avvenire il rarissimo caso.
«Buongiorno!», esclamò e fece finta di entrare in cucina con il passo di uno che si era appena svegliato, proprio come se non fosse stato una buona decina di minuti appoggiato allo stipite della porta ad osservarlo mentre si muoveva di fronte alla piastra per i waffles, con il mestolo sporco in mano.
Tom sollevò il capo e Bill si bloccò del tutto quando vide sul suo viso un sorriso così bello da togliere il respiro.
Erano… anni? Forse non l’aveva mai visto un sorriso del genere sulle labbra di suo fratello gemello. E anche l’aura di pura positività che emanava solo stando in piedi in quella stanza era impressionante: sembrava che nulla potesse andare storto, che tutto fosse rose e fiori.
«Ciao Bill», lo salutò con gli occhi luminosi. «Li vuoi i waffles, vero? Li ho fatti anche per te».
Bill, incapace di rispondere, annuì con un movimento della testa; poi andò a sedersi, proprio di fronte a dove stava lui, che aspettava che anche l’ultimo waffle che aveva messo nella piastra fosse pronto.
«Perché mi fissi?», gli domandò Tom ad un certo punto, incuriosito.
In un frangente normale lo avrebbe fatto senza l’ombra di un sorriso, ma quella mattina… sembrava che il suo corpo non riuscisse a trattenere dentro di sé la felicità, tanto che sembrava sul punto di scoppiare a ridere in ogni momento.
«Dobbiamo cambiare quel divano letto nella zona living. Scusami se per te ha un valore affettivo fondamentale ora, ma davvero, fa troppi cigolii. Non vi siete sentiti a disagio, tu e Helen?».
Tom lo guardò per diversi istanti in silenzio, ma il suo sorriso non si scompose nemmeno di un millimetro, sembrava disegnato. Alla fine scoppiò a ridere.

 

***

 

L’ultima volta che si era innamorata non era andata a finire bene. Grace e il suo ragazzo di allora erano quasi stati fatti fuori da un uomo a cui suo padre dava la caccia da tempo e dopo quell’episodio ovviamente lui l’aveva scaricata, dicendole che non voleva rischiare ancora una volta la vita perché suo padre era un investigatore privato fin troppo bravo.
Era appena una ragazzina e si arrabbiò parecchio con suo padre, pensava davvero che fosse stata colpa sua se la sua prima storia d’amore fosse finita. Con il tempo aveva capito che non c’entrava nulla e che in realtà quella era stata solo l’occasione adatta per scaricarla, visto che subito dopo si era fidanzato con una cheerleader.
Dopo quell’episodio si era innamorata a stento un paio di volte, faticava a fidarsi di nuovo dei ragazzi e soprattutto il mondo di suo padre l’aveva così coinvolta, quasi risucchiata, che aveva iniziato a pensare come un vero detective: tutte le persone che avevano un legame affettivo con lei potevano correre qualsiasi tipo di pericolo, ogni giorno. Lo sapeva bene.
Crescendo aveva capito che in fondo per lei l’amore non era poi così importante e si era allontanata da quel mondo, immergendosene in un altro, quello delle indagini, della polizia, degli spacciatori, dei magnacci, della mafia, a volte persino dei cadaveri.
In quel mondo aveva incontrato molti ragazzi con cui aveva passato delle belle serate, ma ormai il concetto dell’amore era troppo nascosto nella sua mente. Dopo anni ed anni era stato Dylan a rispolverarglielo e, come aveva sempre immaginato, non era stato il massimo: era un problema, soprattutto ora che lei e Tom…
Cavolo, Tom! Era lui in realtà l’artefice di tutto, non Dylan. Da quando aveva iniziato a pedinarlo e a diventare sua amica era entrato dentro di lei come una scheggia e da allora non aveva fatto altro che incasinarle l’esistenza. E poi, quella notte… Se ci ripensava aveva ancora i brividi e riusciva a sentire ancora tutto sulla pelle, nonostante avesse fatto la doccia: le sue labbra, il suo respiro, il suo sudore, il suo profumo.
Era stato davvero stupendo quella notte, doveva riconoscerlo; sia la prima che la seconda volta, anche se in modi completamente diversi. La seconda… tutta quella dolcezza, non se la sarebbe mai immaginata da Tom. Come non se la sarebbe mai immaginata da se stessa.
Ripensandoci le veniva da chiedersi se non l’avesse drogata, se la Grace di quella notte fosse davvero la Grace di sempre. Alla fine si era detta che sì, era quella parte di lei che si celava al mondo e che era uscita di nuovo allo scoperto dopo anni e… con Tom. Perché proprio lui?
Aveva paura a rispondersi.

 
Parcheggiò il fuoristrada nel vialetto che costeggiava il giardino sul retro di casa Kaulitz e rimase a guardare la veranda mentre sul finestrino iniziavano a scorrere dei piccoli rivoli di pioggia.
Aspettò e pensò, si immerse così tanto nei suoi ragionamenti che finì per non vedere più ciò che aveva di fronte e per questo non si accorse minimamente di Tom che aveva attraversato il giardino e aveva fatto il giro del fuoristrada per entrarvi e sedersi accanto a lei, sul sedile del passeggero.
«Che ci fai qui fuori?», le domandò.
Grace non si voltò, ma i suoi occhi tornarono ad osservare il porticato e il vetro che ormai veniva attraversato da rivoli d’acqua piovana spessi come arterie.
La sua voce però era rimasta ancora là, in un angolo della sua mente, coi suoi pensieri, e quando parlò sembrò infinitamente lontana. «Pensavo».
Tom fece un cenno d’assenso con il capo e schioccò la lingua contro il palato. «Sembravi veramente assorta».
L’investigatrice si lasciò sfuggire un breve sospiro e spostò velocemente gli occhi quando notò un movimento dietro la tendina della finestra in cucina. Era più che certa che lì dietro, intento a spiarli, ci fosse Bill.
«Che cos’ha tuo fratello?».
«Gli ormoni sballati. Il ciclo, o come lo vuoi chiamare».
Grace si voltò verso di lui con un sorriso appena accennato sulle labbra ed incontrò il suo, molto più aperto e sereno. Rimase affascinata da quel sorriso, ma soprattutto dalla luce brillante incastonata come diamanti nei suoi occhi nocciola. Sentì un piacevole calore nascerle nel petto e questo la fece rinvenire, perché era lì per il fare il contrario di ciò che stava pensando.
«Tu invece che cos’hai? È successo qualcosa?», le domandò, socchiudendo le labbra ed avvicinando una mano alla sua guancia.
Grace si spostò ed allontanò la carezza infilando il dorso della mano nel suo palmo alzato.
Sospirò di nuovo e chiuse gli occhi, annuendo lievemente. «Stanotte».
«Cosa?».
«Stanotte è successo qualcosa che non doveva succedere e che non dovrà più ripetersi». 
Tom, sorpreso da quelle parole e dal tono affranto con cui le aveva pronunciate, rimase per diversi secondi a bocca aperta, le parole che voleva urlare soffocate nella gola.
«Promettimelo, Tom».
Ebbe la forza di chiudere la bocca e di leccarsi le labbra secche, ma di parole non ne tirò fuori nemmeno una. Era sconcertato: non immaginava che Helen avrebbe potuto fargli così male, dopo avergli fatto così bene. Senza spiegargli nemmeno perché.
«Promettimelo», ripeté, ma anche lei stava lentamente cedendo: la sua voce si incrinava e si spezzava ogni secondo di più, il suo cuore a fatica le pompava il sangue in tutto il corpo.
In un lampo Tom riacquistò tutta la sua lucidità e il dolore si trasformò in rabbia, accartocciandogli il viso. Scosse energicamente il capo e posò una mano sulla maniglia interna della portiera.
«Puttana», farfugliò in inglese e scese dal fuoristrada, sotto la pioggia battente.
Grace lo guardò camminare coi pugni stretti lungo i fianchi, la pioggia che gli colava sul viso e gli inzuppava i vestiti, e dopo anni ebbe il forte impulso di lasciare che le lacrime sgorgassero dai suoi occhi. Se lo impedì e quando Tom scomparve in casa rimase ad ascoltare le sue urla, paralizzata sul sedile. Ma come poteva sentirle, chiusa nell’abitacolo e con la barriera del suono creata dalla pioggia? Erano urla immaginarie, presenti solo nella sua testa, perché il fatto che Tom non avesse gridato e mostrato tutta la propria ira l’aveva lasciata con un peso ancora più grande a schiacciarle il petto.
Premette l’acceleratore e le gomme posteriori schizzarono un po’ di fango sul paraurti, scavando dei solchi nel terreno. Poi sgommò via, più veloce che poté.

 
Appena arrivata a casa si era gettata sotto la doccia, nonostante ne avesse fatta una anche quella mattina, poi era andata direttamente a letto. Si era svegliata verso le nove di sera, aveva mangiucchiato qualcosa, poi era uscita a fare una passeggiata.
Aveva smesso di piovere, ma il cielo era più scuro del solito e nell’aria si poteva respirare ancora l’odore del temporale trasportato dalla brezza leggera che arrivava dall’oceano.
Camminò per un bel po’, pensando a diverse questioni che le punzecchiavano il cuore.
La prima, il messaggio che sua madre le aveva lasciato nella segreteria telefonica e che aveva ascoltato ben cinque volte prima di credere che non fosse una sua invenzione. Anche lei le aveva lasciato un messaggio sulla segreteria, quel Natale, ma non pensava che sua madre si facesse sentire. Insomma, erano anni che non si parlavano… Da quando era scappata di casa per andare a vivere con suo padre, a tredici anni e mezzo. Sua madre non l’aveva costretta a ritornare da lei e ancora si domandava se fosse perché non le importava o per qualche altra strana ragione.
Era così in ansia, aveva paura di rivederla, e avrebbe tanto voluto parlarne con qualcuno. Con Dylan, per esempio, ma non era decisamente il caso, dopo il comportamento che aveva tenuto quella mattina con lui.
Il suo amico fu la seconda cosa a cui pensò e si domandò che cosa ci fosse di tanto sbagliato in lei: era un ragazzo di bell’aspetto, avevano più o meno gli stessi orari, gli stessi pesi sul cuore, la violenza impressa nelle menti, amavano frequentare gli stessi pub e inoltre si conoscevano da anni, tanto da sapere che qualsiasi cosa sarebbe successa entrambi ci sarebbero stati l’uno per l’altra. Non poteva lasciarsi semplicemente andare? Dirsi che lui era il ragazzo con cui sentimentalmente avrebbe potuto costruire qualcosa di stabile e duraturo, qualcosa che poteva anche somigliare all’amore?
No. E qui entrava in gioco la terza cosa a cui pensò: Tom. Il chitarrista di una band di fama globale che era stata incaricata di seguire. Il contratto non includeva che diventasse prima sua amica, che ci andasse a letto e forse addirittura che si innamorasse di lui. Perché, no, lui non poteva far parte in quel modo della sua vita. Lui non poteva entrare nel suo mondo che a volte si rivelava una vera fregatura, per non dire di peggio. Non poteva correre il rischio di metterlo in pericolo, perché era quello 
il pericolo  che portava il suo lavoro, il lavoro di suo padre, il lavoro per cui sua madre ad un certo punto, esasperata, aveva chiesto la separazione.
Poteva sopportare che i suoi genitori si separassero, perché sapevano già che avrebbero vissuto gran parte della loro vita immersi in quel mondo, che lo volessero o no; poteva sopportare che lei ne rimanesse scottata, che soffrisse per ciò che ogni giorno poteva accaderle senza le amicizie giuste – 
e anche i nemici giusti – e senza una pistola che le premeva sulla schiena.
Ma non poteva permettere che una persona a cui teneva e che non avrebbe mai dovuto far parte di tutto quello soffrisse perché lei era stata così egoista da non riuscire a mettersi da parte. Doveva proteggerlo, ecco, e l’unico modo era far sì che dimenticassero quello che era successo fra loro.
Senza nemmeno accorgersene raggiunse il condominio in cui si trovava il suo ufficio e parcheggiata al bordo del marciapiede vide una limousine. Che ci faceva una limo in quel quartiere e a quell’ora?
La portiera del conducente si aprì all’improvviso e l’autista fece il giro della lunga vettura per andare ad aprire una portiera qualche metro più in fondo.
«Prego, signorina Schneider», le disse cortesemente, con un gesto della mano che doveva invitarla ad entrare. «La signorina Delafield vi sta aspettando».
Grace annuì, buttando giù il nodo che le aveva bloccato la gola quando aveva sentito il nome della ragazzina, e a passi piccoli raggiunse la portiera aperta, si abbassò ed entrò nell’abitacolo.
Non aveva mai visto così tanto spazio dentro un’auto e per un attimo la sorpresa le fece dimenticare il possibile motivo per cui era lì.
La zona in cui si trovava, delimitata da grandi finestrini oscurati e da divanetti in pelle di camoscio, era grande quanto il suo bagno, se non di più, e le luci soffuse donavano un’atmosfera di intimità, come se tutto quello spazio fosse un’illusione.
L’autista, di nuovo al suo posto di guida, avviò il motore e si allontanò dal luogo in cui l’avevano prelevata a velocità sostenuta. Grace si guardò intorno spaesata ancora per qualche secondo, immersa in tutto quel lusso, quindi i suoi occhi si posarono sulla chioma bionda di Molly, la quale le sorrideva con la testa leggermente piegata verso sinistra e le mani unite sulle gambe.
Sia quel sorriso che il suo sguardo privo della luce che di solito lo contraddistingueva le confermarono che non erano delle buone notizie quelle che doveva comunicarle con tanta urgenza e di persona.
«Ti piace?», le domandò.
«Sì, molto…».
«Un po’ troppo lussuosa, lo so. Il fatto è che la mia è dal meccanico per delle riparazioni; ho preso in prestito quella di mamma».
L’investigatrice gettò ancora una volta un sguardo intorno a sé. «Oh».
Molly si stirò la schiena con eleganza sul sedile, quasi con le movenze di una gatta, nonostante avesse addosso un completo elegante, un tallieur blu scuro.
«Allora… che mi racconti, Grace?», cantilenò.
«Che dei ragazzi della mafia italiana che incontrai qualche anno fa, molto simpatici devo dire, facevano molta meno paura di te in questo momento».
La ragazzina sorrise, quella volta candidamente. «Okay, volevo solo atteggiarmi un po’. Ho voluto venire a parlarti di persona adesso perché è da qualche tempo che non ricevo più niente, anche se non credo che tu abbia smesso di vedere Tom».
Grace chiuse gli occhi e ricacciò indietro un sospiro. «Hai ragione. Ma non ho scoperto molto di nuovo, solo che la settimana prossima andranno a registrare il video per il lancio del nuovo album, che è già in stampa ed uscirà a breve. Ah, e poi che forse il tour questa volta sarà mondiale».
«Già. Sapevo anche questo», annuì, per nulla sorpresa, con gli occhi fissi nei suoi. «Un amico di mio padre lavora alla Cherrytree Records, è un bel tipo, tosto, ma si è fatto corrompere con poco».
Grace non si accorse nemmeno di afflosciarsi sul sedile e di portarsi contemporaneamente una mano sul viso, sentendosi un’imbecille.
«Mi dispiace, davvero», mormorò.
Molly non rispose ed attaccò di nuovo: «In effetti non sei stata molto professionale. Quello che vorrei sapere è quanto non lo sei stata».
«Tuo padre ha anche un amico che fa l’investigatore privato?». Il sorriso che aveva sulle labbra era uno dei più amari che avesse mai dipinto sul suo viso.
«No. È solo una sensazione mia, Grace. Oltre al contratto che abbiamo stipulato, tu sei una mia amica, come ti ho già detto forse l’unica vera che io abbia, e vorrei tanto sapere se è successo qualcosa fra te e Tom. Da amica ad amica, quindi se vuoi puoi anche non rispondermi».
Grace sollevò lo sguardo ed incontrò quello umido di Molly. Ricordò il giorno in cui le aveva detto che non le sarebbe dispiaciuto se lei e Tom si fossero messi insieme, che li vedeva bene e che addirittura gli avrebbe finanziato il matrimonio. In quel momento, guardando i suoi occhi colmi di tristezza e delusione, capì che di fronte alla realtà Molly non aveva reagito proprio come aveva previsto, ossia con distacco e gioia per la cosiddetta amica: il suo idolo, il suo amore platonico, sarebbe sempre rimasto la linea del traguardo che, per quanto irraggiungibile, continuava a dare una speranza a quel cuore ancora giovane. Ma senza quella linea, già strappata da qualcun’altra, non c’era più motivo di sperare e faceva male.
Qualcosa le disse che era inutile mentirle ancora, farle credere che non ci fosse stato nulla fra loro.
«Io e Tom abbiamo fatto sesso», sputò senza guardarla in viso e fece ben attenzione ad usare quella parola, “sesso”, invece che “amore”.
Quando Molly metabolizzò la notizia si rilassò sul sedile, come sollevata da un peso troppo grande, e chiuse gli occhi mentre le luci giallognole dei lampioni scivolavano sul suo viso chiaro.
«Bene», mormorò. «Grazie».
«E ora?», domandò l’investigatrice privata.
«Sta a te. Vuoi continuare a…».
«No», la interruppe con voce dura. «Non voglio più un soldo da te. E voglio stare il più lontana possibile da Tom».
La ragazzina milionaria aprì di scatto gli occhi e la fissò con un’espressione strana sul viso, come se la notizia l’avesse spaventata.
«Perché? Hai appena detto che avete fatto sesso, che è successo?».
«È successo che abbiamo fatto sesso», ribadì. «Non posso permettermi di affezionarmi ancora a lui».
«Perché?», domandò ancora Molly, sbattendo le palpebre.
«Tu sai vero che ho una pistola dietro la schiena?», le chiese con un leggero sorriso sulle labbra, che le sollevava l’angolo sinistro della bocca. «A cosa credi che mi serva? La mia vita non è fatta solo di pedinamenti a persone innocue, ci sono volte in cui la tiro fuori e sparo. Non posso permettere che Tom o qualcun altro entri in questo mondo, nella mia vita. Hai capito bene, Molly? Questo vale anche per te, in questo momento più che mai».
Molly annuì lentamente, gli occhi spaventati che danzavano nella luce soffusa della limousine.
Rimasero per diversi minuti in silenzio a guardare fuori dal finestrino, cullate dalle fusa del motore dell’auto di lusso. Poi la ragazzina si sporse verso di lei e le chiese dove dovessero portarla. Grace le diede un indirizzo, poi si mise seduta accanto a lei sul sedile e l’abbracciò, proteggendola nell’incavo del suo corpo ed accarezzandole i capelli con una mano.  

 

***

 

«Ma lei ha detto proprio così, che non doveva succedere e che non dovrà più ripetersi?».
Tom strinse più forte le dita intorno alla ceramica della tazza di tè che Bill gli aveva messo in mano qualche minuto prima.
Lui odiava il tè, ma suo fratello gemello era convinto che in un momento come quello gli avrebbe tirato su il morale. Avrebbe preferito dell’alcool.
«Sì, Bill», sospirò. «Me l’hai già chiesto ventimila volte, ti ho già raccontato nei dettagli tutto ciò che mi ha detto, e vorrei smetterla di pensarci, almeno per un po’».
«Sì, è vero che me l’hai raccontato, ma l’hai fatto come se l’avessi visto da fuori. Dovresti sfogarti, raccontarlo dal tuo punto di vista».
«Non voglio farlo».
«Non è consigliata, come opzione».
«Me ne fotto!».
Si alzò dal divano e passò di fianco a Bill, sdraiato sulla sua poltrona da psicanalizzato, sbuffando con ritmi regolari.
«E adesso, che cos’hai intenzione di fare?», gli chiese, evitando il suo sguardo, puntando il mento sullo sterno.
«Non lo so. Ho voglia di ubriacarmi. Abbiamo qualcosa, in casa?».
«No, non penso».
«Allora esco. Anzi, sai che faccio? Vado all’Halo».
Bill si tirò su e si portò le mani sulle ginocchia, preoccupato.
«All’Halo? Tom, non penso che tu…».
«Senti, ho voglia di divertirmi!».
«No, tu vuoi scoparti una qualsiasi per cercare di dimenticare Helen. Ti conosco, a volte penso che ti sfugga. E ti dico che non funzionerà, non è così che…».
Tom si chinò su di lui, tanto che le punte dei loro nasi quasi si sfiorarono.
«Vuoi venire anche tu?», sussurrò mellifluo.
«No».
«Bene».
Si rizzò e si diresse verso le scale che portavano al piano superiore.
«Ma non voglio che tu vada da solo, che ti ubriachi e che poi ti metta al volante».
Tom accennò un sorriso, senza voltarsi, e salì le scale.

 

***

 

Si sporse in strada per osservare la limousine di Molly allontanarsi, poi si voltò e salì gli scalini che portavano al piccolo portico sotto il quale si trovava la porta di casa di Lionel.
Bussò, ma nessuno le venne ad aprire. Così tirò fuori il doppione delle chiavi che l’ex-marine le aveva dato proprio per quelle occasioni: era troppo stanca e triste per stare a casa da sola.
Stava per gettarsi sul divano, per nulla intenzionata a svegliarlo, quando sentì il proprio cellulare vibrare nella tasca dei jeans. Lo tirò fuori e ancora prima di guardare il display illuminato le venne in mente Tom. Se fosse stato lui, che cosa gli avrebbe detto?
Chiuse gli occhi, respirando profondamente, poi si decise a guardare: non era Tom, bensì Dylan. La scoperta non la rincuorò, visto che aveva problemi pseudo-sentimentali con entrambi.
Lesse il messaggio appena arrivatole ed abbandonò del tutto l’idea di gettarsi su quel divano. Fece marcia indietro ed uscì dall’appartamento senza mai guardarsi indietro.

 

***

 

Gli era sempre piaciuto quel posto: un locale per soli uomini, uno strip-club piuttosto riservato e frequentato da gente importante.
Sapeva che lì dentro girava parecchia droga, ma finché si trattava delle sale due piani più su non era un problema per lui. Bill non era della stessa idea, ma quella sera l’aveva accompagnato comunque.
Era seduto su un divanetto, con un bicchiere di puro alcool in mano, che si godeva lo spettacolo di fronte a sé, in pace col mondo, quando notò un viso familiare tra la folla ammassata davanti al bancone del bar.
«Non è possibile, cazzo», mormorò incredulo.
«Che cosa?», gli domandò Bill.
Una delle spogliarelliste di fronte a loro gli accarezzò il viso per attirare la sua attenzione, ma Tom le allontanò la mano e guardò in fratello gemello negli occhi, indicando un punto verso il bancone del bar.
«Sono già ubriaco oppure quello è davvero Dylan?».

 

***

 

La polizia ha ricevuto una soffiata da uno della gang di Doc Mahkah. A quanto pare questa notte ci sarà uno dei più grandi scambi di droga, tanto da innevare tutta LA, tra due gang che fanno concorrenza a Doc. Ha chiesto espressamente la tua presenza. Ci vediamo all’Halo alle 23.45.


Aveva potuto fare ben poco quando aveva letto quel messaggio: Doc Mahkah aveva chiesto la sua presenza, ciò voleva dire che se non si fosse presentata si sarebbe giocata la sua amicizia.
Aveva fatto un salto a casa, si era vestita “a festa” e si era preparata un paio di caricatori, nel caso fosse successo qualcosa di grosso. Sperava ardentemente di no, perché un caso come quello l’avrebbe sicuramente coinvolta, nei rapporti della polizia sarebbe stato scritto il suo nome e per quanto Dylan e qualche altro suo aggancio potessero provare ad impedirlo, la stampa sarebbe arrivata a lei.
Si era incontrata con lui e proprio come ai vecchi tempi avevano pianificato tutto nei minimi particolari: le uniche donne ammesse nello strip-club erano quelle che si strusciavano sui pali, quindi doveva farsi credere una di loro mentre Dylan si fingeva uno dei tanti uomini in cerca di un po’ di distrazione. Sotto copertura, entrambi avrebbero avuto l’opportunità di guardarsi intorno e grazie agli auricolari che gli avevano piazzato addosso avrebbero comunicato con gli altri della squadra antidroga, pronti ad intervenire in qualsiasi momento.


Dylan si gettò nervosamente un’occhiata intorno e si premette più forte il cellulare all’orecchio per sovrastare la musica alta.
«Grace, sei pronta?».
«Sì, sto arrivando. Ma i tuoi amici dell’antidroga mi devono un grosso, un grossissimo favore!».
Il poliziotto ridacchiò avvertendo dell’imbarazzo nella sua voce e chiuse la chiamata, allontanandosi dal bancone dopo aver bevuto tutto d’un fiato il cocktail che aveva ordinato. In realtà non avrebbe dovuto, dopotutto era in servizio e si trattava di un’operazione delicata, ma non poteva di certo dare sospetti non bevendo nulla!
Si fece largo tra la folla e nello stesso momento vide Grace fare la stessa cosa.
Okay, forse non era stata un’ottima idea quella di lavorare al suo fianco, non dopo quello che era successo tra loro, ma lì per lì non ci aveva pensato, focalizzato soltanto sulla scabra frase: “Io proteggere Grace”.
Indossava un completino intimo di pelle nera da far battere i denti dall’eccitazione, con il reggiseno a balconcino e delle culottes che rendevano pazzesco il suo lato B. La cosa più sexy in assoluto però erano gli stivali col tacco coordinati al completino che le avvolgevano le gambe affusolate e le arrivavano a metà coscia.
Era semplicemente uno schianto e Dylan faticò a riprendersi, con la gola in fiamme e il cuore che gli correva nel petto.
«Agente Marìn, com’è la situazione?», gracchiò una voce nel suo orecchio, facendogli finalmente distogliere lo sguardo da quella provocante ed irriconoscibile Grace che si strusciava sul palo di fronte ad un branco di arrapati in visibilio.
«Per ora tutto tranquillo. Grace è entrata in azione».
«Uh. E come se la sta cavando?».
«Beh… Favolosamente, oserei dire».
«Io l’avevo detto che dovevamo piazzargli addosso delle microcamere! Perché qui non mi ascolta mai nessuno?!».
Dylan ridacchiò e dopo un piccolo “click” capì che la comunicazione, almeno per il momento, era terminata. Poteva tornare a concentrarsi sullo spettac… sull’operazione.
Si avvicinò al lungo tavolo scelto da Grace, dalla superficie luminosa e in cui vi erano conficcati diversi pali d’acciaio, e scrutò le persone sedute intorno ad esso: sui comodi divanetti di pelle bianca accostati alla parete c’era il cosiddetto “gruppo di arrapati”, uno sciame di uomini che probabilmente, dato l’elevato tasso di alcool che gli stava già circolando nelle vene, stavano festeggiando un addio al celibato. Nell’angolo, invece, in parte ombreggiati da una grossa colonna che ricordava quelle dei templi greci – cosa che di sicuro l’Halo non era e che, anche se lo fosse stato, non sarebbe stato di certo dedicato alla dea del matrimonio Era – c’erano…
Dylan sgranò gli occhi, sgomento. «Occristo».

 
Non immaginava di trascorrere così quella serata. No davvero.

Perché lo sto facendo? si chiese mentalmente, mordendosi la lingua ed aggrappandosi con entrambe le mani al palo e scivolando su di esso con la schiena. Non sapeva se si stesse comportando come una strip-dancer professionista, ma il suo piccolo ed adorante pubblico sembrava gradire, quindi…
Un sorriso le comparve sulle labbra, pensando che forse non era così impedita e ridicola come aveva pensato. Lei era sexy! Subito dopo, però, provò una gran pena per se stessa: si stava strusciando mezza nuda su un palo, agli occhi di quegli uomini doveva sembrare come una bistecca per un cane a digiuno da giorni, non c’era niente di cui rallegrarsi. Era davvero caduta in basso quella volta.
Cacciò quei futili pensieri dalla testa e si concentrò sull’operazione, mentre continuava a “ballare”.
Fino ad allora aveva già adocchiato un paio di membri delle due gang che avrebbero effettuato lo scambio: dei ragazzini, letteralmente, che avrebbero dovuto avvisare i capi, già ai piani superiori a contrattare, nel caso avessero visto qualcuno della polizia o comunque dall’aspetto sospetto. Erano troppo piccoli e dubitava che la potessero riconoscere.
Aveva anche scorto fra la folla due o tre brutti ceffi della gang di Doc Mahkah e questo non la tranquillizzò per niente, perché voleva dire che erano stati mandati apposta per lei.
Il lato negativo di avere per amico il boss di una delle gang più potenti di tutta Los Angeles: camminava sempre sul filo del rasoio.
A quanto poteva vedere, non c’era modo di arrivare ai piani superiori: davanti alle scale si stagliavano due armadi di bodyguard, i quali non permettevano a nessuno di avvicinarsi, probabilmente perché pagati dai capi delle due gang. Non volevano nemmeno un po’ di divertimento offerto dalle spogliarelliste!
La tensione si tagliava a fette e se qualcosa fosse andato storto era convinta che sarebbe scorso un bel po’ di sangue. La squadra le aveva raccomandato di avvertirla non appena avesse capito che l’aria si sarebbe surriscaldata, ma questo era ancora più pericoloso: se quelli ai piani superiori avessero capito che c’era la polizia poche persone sarebbero uscite vive da lì.

Ci siamo ficcati in una brutta, brutta situazione.
Come se le avesse letto nel pensiero, Dylan apparve nel suo campo visivo. Nel giro di un secondo provò sollievo, perché era felice di averlo accanto; vergogna, perché mai avrebbe voluto che la vedesse in quello stato; e infine preoccupazione, perché era quello che esprimeva il suo viso mentre la raggiungeva.
Dylan iniziò a parlarle in labiale, ma lei non riuscì ad afferrare ciò che voleva dirle, un po’ per la confusione e un po’ per il continuo girare intorno al palo sculettando.
Alla fine il poliziotto si spazientì, tirò fuori dal portafoglio un paio di banconote e si arrampicò sul tavolo, accompagnato da un grande boato di disapprovazione da parte dei depravati per cui stava ballando.
«Che c’è?», gli domandò esasperata, mettendocela tutta per non arrossire nello strusciarsi contro di lui.
«Abbiamo un problema», sussurrò, preso dal panico. «Bill e Tom sono qui».
Grace si fermò, con le mani artigliate sul palo, inebetita come se gli avesse appena tirato una mazza da baseball sulla testa.
Dylan le infilò le banconote nel reggiseno, più che imbarazzato, e soggiunse: «In fondo al tavolo, sui divanetti ad angolo vicini alla colonna».
«Ehi, amico, devi scendere!».
Sia Dylan che Grace abbassarono gli occhi sull’uomo vestito di nero, la scritta Security stampata in bianco sulla maglia, e il poliziotto si disegnò sul viso un sorriso da ubriaco, posandole possessivamente le mani sui fianchi.
«Ma io voglio stare qui con lei!», piagnucolò. «È la donna della mia vita!».
L’uomo chiamò i rinforzi e in poco tempo riuscirono a trascinare giù dal tavolo Dylan, il quale continuò a fingere magistralmente, tanto da meritarsi un Oscar.
«Tu invece stai bene?», le domandò un altro uomo della security, fissandola con cipiglio perplesso. Che si stesse chiedendo perché non l’avesse mai vista prima?
Grace riprese il controllo delle sue emozioni e gli sorrise in maniera disinvolta. «Sì, grazie. Ho solo bisogno di prendere una boccata d’aria».
Il bodyguard annuì e l’aiutò a scendere dal tavolo, provocando altre urla di disapprovazione. Aveva fatto davvero colpo! Nel peggiore dei casi, come per esempio se la sua attività di investigatrice privata fosse fallita, poteva sperare di avere una carriera in quell’ambiente.
Grace si diresse verso i bagni dall’altro lato del locale, così da passare di fronte al punto che Dylan le aveva indicato: doveva verificare di persona che quelli fossero Bill e Tom, non poteva davvero credere che la sua sfiga…
Quando le si bloccò il respiro capì che Dylan non si era sbagliato e che, dannazione, avevano davvero un grosso problema da risolvere. Come se non ce ne fossero abbastanza!
Che ci facevano loro due lì? Perché proprio quella sera? La situazione le stava sfuggendo di mano, come la sua lucidità al pensiero che se tutto fosse andato bene ci sarebbero stati una cinquantina di feriti e qualche morto.
Per una frazione di secondo intercettò gli occhi del chitarrista e questo le bastò per farle sudare freddo, soprattutto perché aveva colto nel suo sguardo un misto di stupore e di rancore che l’aveva fatta sentire come una farfalla sotto un bicchiere di vetro: in trappola.
Non voleva parlargli, non voleva spiegargli perché era vestita in quel modo e via discorrendo. Allo stesso tempo però doveva fare qualcosa, doveva mandare via dal locale lui e suo fratello, prima che fosse troppo tardi.
Sperando vivamente che avesse un briciolo di cervello e la seguisse, gli fece l’occhiolino e si creò un varco nella folla, ancora diretta verso i bagni.

 
«Ma che cazzo sta facendo?», borbottò Tom, alzandosi in piedi per vedere meglio ciò che stava succedendo.
Dylan si era improvvisamente arrampicato sul tavolo delle spogliarelliste, a qualche metro da loro, e si era piazzato di fronte ad una di loro, impedendogli di scorgerne il viso.
«Credo sia ubriaco», osservò Bill, mentre il poliziotto stringeva a sé la ragazza e urlava frasi da lì incomprensibili, che però portarono i bodyguard a tirarlo giù dal tavolo con la forza.
Solo allora Tom riuscì a vedere il volto della strip-dancer: Helen. Helen faceva la spogliarellista quando non era impegnata a pedinare lui?!
«Porca…».
La guardò mentre si faceva aiutare a scendere dal tavolo e poi si dirigeva proprio nella loro direzione. I loro sguardi si incrociarono per un attimo e Tom sentì il cuore cedergli, come il suo volto, che ormai non controllava più.
Helen esitò, con le labbra dischiuse come sospese su una domanda inespressa, e poi all’improvviso gli strizzò l’occhio, riprendendo ad andare per la sua strada.
«Beh, che stai aspettando?».
Tom abbassò gli occhi su Bill, sul suo volto che emanava pura innocenza. «Come?».
«Avanti, seguila!».
Col cuore che gli batteva come un gong nelle orecchie, agì d’istinto e diede ascolto alla voce della sua coscienza incarnata in Bill, partendo in quarta per non perderla di vista.
La vide sparire oltre la porta della toilette, circospetta, e Tom rimase a fissare per qualche secondo la scritta “Women”, poi si morse il labbro ed entrò di soppiatto.
Subito fu afferrato per il collo della maglietta e trascinato in un bagno angusto, dove c’era a malapena lo spazio per il cesso. Ma dopotutto non gli dispiaceva trovarsi appiccicato ad Helen, oltretutto mezza nuda!
«Scusa, ti dispiace?», berciò, prendendogli il mento tra le dita e sollevandogli di scatto il viso.
I suoi occhi verdi erano ardenti, un prato invaso dalle fiamme, e Tom ebbe come la sensazione di trovarsi proprio lì in mezzo, ad un passo dall’essere abbrustolito. Per non parlare poi dell’espressione indecifrabile sul suo viso, che non era delle più rassicuranti.
«Che cazzo ci fate voi qui?», gli domandò bruscamente.
«Noi… Tu, che cazzo ci fai qui!?», ribatté alterato, fronteggiandola. «Non ho mai immaginato che tu potessi…».  
Helen sospirò col naso, cercando di mantenere la calma e il sangue freddo. «Senti, non mi importa quello che immagini o non immagini, questo non è proprio il momento adatto. Te ne devi andare, subito. Porta il tuo culo e quello di Bill fuori da qui».
«E sentiamo, per quale motivo dovrei farlo?».
Grace sfuggì al suo sguardo, quella volta pieno di malizia, ma non poté sfuggire alla sua mano che le accarezzò i capelli sciolti, sistemandoglieli dietro un orecchio, a cui si avvicinò per sussurrarle in modo suadente, ma anche vittorioso: «Ormai ti ho scoperta, tanto vale…».
Grace lo spinse via da sé con violenza, facendolo quasi cascare nella tazza del cesso, ed uscì dal bagno, nauseata.
«Helen! Helen, aspetta!».
Tom l’afferrò per un polso e Grace si voltò di scatto, fissando gli occhi nei suoi. Il chitarrista ebbe l’istinto di tirarsi indietro, perché oltre che arrabbiata sembrava davvero ferita, il verde che tanto gli piaceva lacerato da artigli che lui stesso aveva maneggiato.
«Come… come puoi pensare di usarmi dopo quello che c’è stato ieri notte?!», gli urlò in viso, furente.
Al ricordo di quello che avevano passato insieme sentì il suo stomaco contorcersi, ma presto quelle immagini furono sommerse da altre, forse ancora più scottanti nel suo cuore, che lo fecero imbestialire.
«Sbaglio o sei stata tu a dire che quello che è successo l’altra notte non doveva succedere e che non dovrà più ripetersi?! Se hai paura di mettere in gioco i tuoi sentimenti, allora non li metterò in gioco nemmeno io! Ma se metti in bella mostra tutta la tua mercanzia, in questo modo, permetti che io –».
Lo scoppio di uno sparo lo interruppe e senza nemmeno sapere come si trovò a terra, con il viso di Helen ad un centimetro dal suo.
«C’è stato uno sparo, c’è stato uno sparo al piano di sopra! Dovete intervenire subito!», gridò lei, premendosi il dito dentro l’orecchio, e Tom non capì con chi stesse parlando, nella confusione generale. C’era gente che urlava, gente che si era rannicchiata a terra e chi ancora tentava di uscire dal locale ammassandosi di fronte alle porte, bloccando inevitabilmente il passaggio.
Nel frattempo ci furono altri spari, una raffica che non sembrava finire più, e alcuni esplosero talmente vicini a lui che credette di essere stato colpito e di morire lì, con Helen addosso.
«Dylan, dove sei?!», gridò ancora Helen, sollevando il viso per potersi guardare intorno, e Tom sbarrò gli occhi, non capendoci più niente.
Un proiettile colpì un vaso di fiori sul tavolino di fianco a dove erano sdraiati loro e il vetro si infranse spargendo schegge dappertutto. Alcune le sentì sulla pelle, ma non le vide perché Helen gli aveva posato una mano sugli occhi per proteggerlo.
«Cazzo, cazzo! Tom, non ti muovere, stai qui, okay?», la sentì gridare ed istintivamente le sue mani si strinsero sui suoi polsi.
«Cosa?! No, Helen, non puoi –!».
«Tuo fratello! Devo prendere tuo fratello!», gli gridò nell’orecchio e qualche secondo dopo non la sentì più sopra di sé.
Tom si ricordò di Bill e sentì una fitta al cuore. Si accucciò a terra, mentre gli spari non cessavano vicino a lui, e sollevò il capo in direzione del divanetto su cui lui e il suo gemello erano stati fino a poco tempo prima. Vide Helen correre piegata in due dietro un tavolo e quando un proiettile ne scheggiò la superficie luminosa, mancandola di un soffio, la vide estrarre una pistola dallo stivale destro, stendere il braccio, chiudere un occhio per prendere la mira e sparare un colpo.
Il chitarrista, sconvolto, si girò verso la direzione in cui la ragazza aveva sparato e vide un ragazzo steso a terra in un lago di sangue, con un buco nel petto. Quando tornò a cercare Helen con gli occhi, la vide accanto a Dylan, il quale aveva raggiunto Bill per primo.
Suo fratello era terrorizzato, nascosto tra il divanetto crivellato di buchi e il tavolo, ma stava bene. Era spaventato, ma stava bene.
Sorrise rincuorato, ma pochi secondi dopo una porta che non aveva nemmeno mai notato, sul retro del locale, sbatté a terra con un tonfo e diverse schegge; la stessa fine fece quella della cucina collegata al bancone del bar. Entrarono nel locale una decina di poliziotti con tanto di pistole e fucili alla mano e giubbotti antiproiettile.
«Giù le armi, tutti!», gridò uno di loro, puntando la canna della pistola prima a destra e poi a sinistra, ispezionando il perimetro, mentre i suoi uomini si avvicinavano ai civili rimasti feriti, a quelli illesi e alle persone che, purtroppo, ci avevano rimesso la pelle, tra cui anche gli uomini che avevano dato inizio a quella sparatoria.
Non era rimasto nessuno – di vivo – con le pistole, eccetto loro e la stessa Helen, quindi si rilassò ed abbassò l’arma.
«Dylan, Grace, state bene?», chiese uno dei poliziotti, e sia Dylan che Helen annuirono distrattamente.
Appunto, Helen.
Tom le puntò addosso gli occhi fino a quando la ragazza non ricambiò lo sguardo, per poi abbassarlo quasi subito, mortificata. Lui continuò a guardarla anche quando Dylan si tolse la giacca e la posò sulle sue spalle, per poi stringerla a sé in un abbraccio carico di affetto e preoccupazione.
«Ehi, tu, stai bene?».
Una voce lo distrasse e fu costretto a sollevare il capo per poter guardare negli occhi il poliziotto che si era chinato su di lui.
«No», rispose scuotendo il capo e si lasciò aiutare ad alzarsi in piedi.
Il poliziotto gli posò una mano sulla spalla e gli chiese ancora: «Dove ti fa male?».

Il cuore, è lì che mi fa male.
Altri due spari li fecero sobbalzare e tutta la squadra si voltò verso Grace/Helen e uno dei membri di una delle gang che era sfuggito ma non ancora scappato, il quale ora riversava a terra, privo di vita, colpito da un proiettile della ragazza, ancora con il braccio destro steso, appoggiato sulla spalla di Dylan.
Un paio di poliziotti ridacchiarono, passandosi una mano sulla fronte sudata, ringraziandola, ma lei ebbe occhi solo per Tom. Anche lui sostenne il suo sguardo, fino a quando non la vide alzarsi da terra divincolandosi dall’abbraccio di Dylan per correre da lui con il terrore negli occhi.
Il chitarrista non capì perché avesse quell’espressione e all’improvviso il suo cervello lo fece soffermare su un particolare: aveva sentito due boati, l’uno a poca distanza dall’altro. A rigor di logica: due boati, due spari.
All’improvviso sentì un fuoco divampare vicino all’ascella destra e quando abbassò lo sguardo la mano di Helen/Grace era già sul buco causato dal proiettile e si stava macchiando di rosso, come la sua maglietta.
«Cazzo», riuscì a biascicare, prima di svenire fra le braccia della ragazza che da lontano – o era solo una sua percezione? – aveva iniziato a gridare il suo nome.

 

 

________________________

 

Ed è qui che iniziano le cose veramente interessanti! *^*  
Ma andiamo con ordine (Buongiorno xD). In questo capitolo sono successe un sacco di cose e sono quasi tutte degne di nota! Riassumento, però, possiamo avere quattro momenti fondamentali: la "chiacchierata" tra Grace e Dylan, quella tra lei e Tom, quella tra lei e Molly e per finire questa superscena con spogliarelliste e sparatoria! ;)
Ebbene sì, Grace ha deciso di tagliare i ponti con Tom. O almeno... ci ha provato! In questo capitolo è spiegato chiaramente il motivo per cui Grace è tanto restia ad aprirsi con qualcuno e soprattutto ad amare. Spero che si sia capito bene, è importante capire il punto di vista della detective anche per i prossimi capitoli ;) 
C'è stata anche la reazione di Molly alla notizia che Tom e Grace sono andati a letto insieme! Che ve ne pare? Comprensibile? :)
Per quanto riguarda Grace e Dylan... chissà ora il loro rapporto come cambierà! Staremo a vedere!

Aspetto le vostre recensioni con ansia, sono proprio curiosa di sapere che cosa ne pensate ora che la storia entra nel vivo! *^*
Grazie a tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e poi a tutti quelli che seguono e hanno messo tra i preferiti/ricordate questa FF! I love u all :D
A lunedì prossimo! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

 

Si portò le mani sul viso, se lo massaggiò per qualche secondo, poi sospirò stancamente ed appoggiò la testa alla spalla chiudendo gli occhi, dicendosi che aveva davvero bisogno di almeno due minuti di sonno, ma nulla. Appena chiudeva gli occhi vedeva il sangue di Tom scivolarle fra le dita, vedeva le sue labbra stringersi in una smorfia sofferente e i suoi occhi chiudersi, mentre quella folle paura le devastava il sistema nervoso.
Non reagiva in quel modo da anni; anzi, non aveva mai reagito in quel modo dopo la morte di suo padre e non pensava che qualche altra scena l’avrebbe tormentata in quel modo, tanto da non farle chiudere occhio, eppure…
Decise di andare a prendersi l’ennesimo bicchiere di caffè al bar proprio di fronte all’ospedale, visto che quello che facevano le macchinette era veramente immondo, quando finalmente vide Bill uscire dalla stanza del gemello, col volto stanco e sciupato come il suo e gli occhi arrossati. Forse aveva pianto.
«Ehi», gli sussurrò e dopo essersi alzata in piedi l’attirò in un timido abbraccio, posandogli una mano fra i capelli scompigliati.
«Va tutto bene?».
«Non ne sono certo», mugugnò stringendo i pugni sulla sua schiena. «Sono distrutto».
Grace accennò un sorriso. «Lo capisco bene».
«Grazie». Bill arrossì lievemente sulle guance, scostandosi dal suo abbraccio.
«Per che cosa?».
«Per aver provato a mandarci via prima che succedesse tutto quanto e per averci difeso».
«E tu come fai a sapere che…?».
Bill sorrise e parve il solito Bill di sempre. «Me l’ha raccontato Tom. A proposito, stavo quasi per offendermi, sai?». L’espressione confusa di Grace lo fece ridacchiare divertito e continuò: «Quando si è svegliato mi ha salutato, mi ha detto che stava bene, anche se si sentiva stanco, e poi mi ha chiesto subito di te, Helen, Grace o chicchessia».
L’investigatrice sorrise e voltò il capo verso la sua camera: attraverso il vetro accanto alla porta lo vide steso sul letto, con gli occhi chiusi come se stesse dormendo.
«Dici che vorrà delle spiegazioni?».
«Credo proprio di sì. Ora, scusami, vado a prendermi un caffè. Tu lo vuoi?».
«Sì, grazie».
«Okay. Buona fortuna», sollevò il pollice e si allontanò nel corridoio, stringendosi le braccia al petto.
Grace lo guardò fino a quando non girò l’angolo, poi trasse un respiro profondo ed entrò nella stanza. Si chiuse piano la porta alle spalle e vi rimase appoggiata ad osservare Tom, incantata: il sole che entrava dalla finestra alla sua sinistra gli illuminava parte del volto, quella graffiata dalle schegge di vetro. Ma nonostante tutto, nonostante fosse stato immischiato in una sparatoria, si fosse preso un proiettile e avesse subìto un’operazione, era bello come sempre.
Dopo minuti che sembrarono ore Tom aprì gli occhi e la osservò. Lentamente le sue labbra si stesero in un sorriso e con un movimento impercettibile delle pupille le fece intendere che la voleva seduta al suo fianco.
Grace si avvicinò, come ipnotizzata da quegli occhi e quel sorriso appena accennato, e si mise seduta sulla sedia accanto al suo letto, cercando di allungare il più possibile la giacca di Dylan sulle cosce nude: era ancora nel suo costume da spogliarellista e nonostante molte persone l’avessero vista conciata in quel modo e lei non avesse fatto una piega, con lui si sentiva in imbarazzo.
«Avresti dovuto vedere la tua faccia, quando ti sei accorta che quello mi aveva colpito», le disse con voce roca, ridacchiando.
«Ma quanto sei scemo?», gli rispose con tono arrabbiato, ma non riuscì a resistere e si lasciò andare ad un sorriso e ad un sospiro di sollievo, anche se poi confessò: «Mi sono spaventata a morte».
«Anche io», disse Tom, finalmente serio. «Ma non quando mi sono accorto di aver un proiettile conficcato nel corpo. Ho davvero avuto paura quando ho iniziato a sentire gli spari e tu eri vicina a me, ma in qualche modo irraggiungibile; e ne ho avuta quando ti sei allontanata per andare da Bill, quando ti hanno quasi colpita e tu hai tirato fuori la pistola… In quei momenti in cui tu eri lontana ho avuto così tanta paura che tu potessi ferirti e allo stesso tempo ho avuto paura per me, perché se fossi morto senza te accanto non avremmo mai più potuto sistemare le cose, nemmeno in punto di morte, e me ne sarei andato senza dirti tante cose…».
La guardò e notò i suoi occhi lucidi di lacrime, mentre le sue labbra tremavano; allora avvicinò una mano al suo volto e le accarezzò una guancia, sistemandole con dolcezza una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
«Le pensavi davvero, le cose che mi hai detto ieri pomeriggio?».
Grace non gli rispose e non gli permise nemmeno di farle altre domande, perché timidamente si chinò su di lui e con una mano sulla sua guancia lo baciò.

 
Bill tornò dentro l’ospedale con due bicchieri di carta stracolmi di caffè bollente e mentre si dirigeva verso la camera di suo fratello incontrò Dylan, con il quale si mise a chiacchierare facendo parte del tragitto insieme.
«Ciao Bill», lo salutò con un sorriso amichevole sul viso, nonostante le occhiaie e la stanchezza per la nottata passata a fare inutili interrogatori, verbali e rapporti. «Come sta tuo fratello?».
«Sta bene, il dottore ha detto che non ci sono state gravi lesioni interne; si sta già rimettendo in sesto».
«Bene, sono contento. Tu, invece?».
Bill lo fissò, vagamente stupito, e senza nemmeno rendersene conto arrossì, ripensando al momento in cui, accucciato tra il divanetto che vomitava la sua stessa imbottitura e quel tavolo, aveva sentito il poliziotto stringerlo tra le sue braccia e proteggerlo col suo stesso corpo.
«Tu sei okay, vero? Niente shock post-traumatico, nulla di nulla?».
Il cantante scosse il capo, per poi abbassarlo a guardarsi i piedi. «Se ne sono uscito illeso è solo grazie a te».
Dylan sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. «Non dire scemenze, è il mio lavoro! O almeno quello che mi piacerebbe fare tutti i giorni».
«Alla stradale non ti trovi bene?».
«No, no, mi trovo benissimo, solo che… mi piacciono l’azione, i lavori sotto copertura, le indagini… per questo mi piace così tanto lavorare con Grace».
Bill sorrise, già consapevole di molte più cose rispetto a quelle che il poliziotto avrebbe voluto rivelargli. Per esempio, sapeva benissimo che c’era un altro motivo per cui gli piaceva così tanto lavorare con Grace.
«Potresti chiedere di trasferirti alla omicidi o, che so io, all’antidroga…».
«Potrei. Ma non è così semplice: ci sarebbero i corsi da frequentare e poi le selezioni…».
«Scommetto che ce la faresti benissimo. Dovrebbero darti il posto solo per la tua esperienza sul campo!». 
Dylan ridacchiò e lo ringraziò con gli occhi. Quindi sollevò una busta della spesa che, ad occhio, doveva contenere dei vestiti.
«Sai dove posso trovare Grace? Sono andato a casa sua a prenderle qualcosa con cui cambiarsi».
Il cantante evitò improvvisamente il suo sguardo. «Ahm… l’ho vista prima, ma ora non so dove…».
«Immagino che quel caffè allora sia per Tom, no?».
Bill arrossì, smascherato in pieno. Si era dimenticato che stava parlando con un poliziotto – uno bravo – e che i poliziotti di solito sono attenti ai particolari.
Dylan sospirò. «Puoi anche dirmelo, se ora è con lui, non succede nulla di male».
«Lo so, ma…».
«Cosa?».
«Lei… lei ti piace».
«Sì», ammise guardandolo di traverso, le labbra strette tra loro. «E allora?».
«Ecco… io credo che lei e mio fratello si piacciano».
«Lo credo anche io. Anzi, ne sono certo. Ma non c’è problema, non è colpa tua».
L’espressione di Dylan tornò serena, anche se gli occhi erano adombrati da un velo di malinconia. Gli posò di nuovo la mano sulla spalla e aggiunse: «Grazie, se quello che volevi fare era non ferire i miei sentimenti».
Bill non rispose, si limitò ad accennare un sorriso.
Camminarono in silenzio per il resto del tempo e quando arrivarono a destinazione sia il cantante che il poliziotto rimasero senza parole di fronte al vetro accanto alla porta che permetteva di vedere all’interno della camera.
Tom e Grace si stavano baciando, lei chinata su di lui per non fargli fare sforzi, e lui le accarezzava docilmente i capelli sulla nuca.
C’era un’insolita tenerezza nei gesti del suo gemello, misteriosa pure per Bill – non riuscì proprio a spiegarsela. Il loro legame era davvero tanto forte ed intenso, tanto da cambiarlo in quel modo?
Lentamente il cantante posò lo sguardo su Dylan, il quale dopo qualche secondo distolse gli occhi da quelle effusioni romantiche da film e gli prese un bicchiere di caffè dalle mani, offrendogli in cambio i vestiti puliti di Grace. Poi tornò in silenzio da dove era venuto, portandoselo alle labbra.

 

***

 

«La verità? Okay», sospirò. «Il mio vero nome è Grace Schneider, ho venticinque anni e sono un’investigatrice privata con tanto di porto d’armi. Il motivo per cui ho iniziato a starti dietro è perché mi pagavano per pedinarti e controllare tutto ciò che facevi, per poi riferire ogni cosa alla persona che appunto mi aveva dato questo incarico. Ti ho nascosto la mia vera identità solo per continuare a fare ciò che facevo e perché la mia politica lavorativa consiste nel non far capire alla persona coinvolta nel caso ciò che realmente sono. Purtroppo, pian piano sono andata un po’ oltre a ciò che mi veniva chiesto, siamo diventati amici e… insomma, il resto lo sai».
Ora che gli aveva confessato tutto – o quasi – si sentiva più leggera, ma non per questo meno in colpa.
«E ieri sera… Stavi lavorando con la polizia?», le domandò, con le sopracciglia inarcate.
«Sì, ero sotto copertura. Un mio ottimo informatore ha chiamato la polizia, avvisandoli che ci sarebbe stata una specie di… riunione fra gang con come tema del giorno la cocaina e altre droghe che avrebbero iniziato a girare in modo ancora più consistente fra le strade di Los Angeles, e questo ha chiesto la mia presenza. Pensa se non l’avesse fatto, chissà come sarebbe andata».
«Già…».
Tom abbassò lo sguardo, meditabondo. Poi si girò sul fianco, un po’ dolorante, e in quel modo le diede le spalle.
«Un’altra cosa. Chi è che ti pagava per sapere in tempo reale ciò che facevo? E che cosa faceva poi, sapendolo?».
«Io… non potrei dirtelo. Sai, il segreto professionale…».
«Grace», sibilò e il suono di quel nome ebbe ancora uno strano effetto su di lui: doveva ancora abituarsi.
Lei sospirò. «L’hai conosciuta».
«Che…?». Improvvisamente si ricordò del numero di cellulare che Grace gli aveva dato durante il periodo natalizio. «Quella ragazzina? Come si chiamava, Molly? Era lei che ti pagava?».
«È milionaria», rispose stringendosi nelle spalle, anche se lui non poteva vederla, girato. «E tu… tu sei il suo amore platonico. Ha sofferto molto, quando ha saputo che io e te avevamo… Comunque le informazioni che riceveva da me se le teneva per sé, te lo posso assicurare. Era solo un modo per sentirti più… vicino».
Tom chiuse gli occhi, accumulando dentro di sé tutte quelle nuove verità che gli erano sempre state nascoste e le nuove domande che si stavano accavallando nella sua mente.
«Non dirmi che anche il furto del mio cellulare c’entra con te…», mormorò.
Ma Grace non lo accontentò. «È molto probabile. È… è anche per questo che io ti ho detto quelle cose, ieri pomeriggio. Non volevo che tu corressi altri pericoli per colpa mia, non l’avrei mai sopportato se ti fosse successo qualcosa. Non volevo che tu entrassi a far parte di questo mio mondo fatto di… violenza e tu non sai cos’altro. Mi dispiace…».
Il chitarrista sbattè gli occhi, incredulo. «Raccontami in che cosa ti sei immischiata. È qualcosa di grosso e pericoloso, me lo sento».
«Ascolta, Tom, io… noi… sarebbe davvero meglio per entrambi se non ci vedessimo più, fino alla fine di questa storia. Più avanti, magari…».
«Lo stai facendo di nuovo, Helen».
Non si era sbagliato, aveva pronunciato il suo nome di copertura con consapevolezza e con rabbia, certo di tirarle un colpo basso. Grace infatti chinò il capo e pensò che le avrebbe rinfacciato per sempre tutte le menzogne che gli aveva sciorinato, o quasi.
«Mi stai ripetendo con parole diverse ciò che mi hai detto ieri pomeriggio e io non voglio più sentire tutte queste stronzate. Ho bisogno di stare solo, adesso».
Grace annuì e si alzò, lo sguardo basso. «Tom…».
«Per favore», la pregò, interrompendola.
«Mi dispiace tanto», concluse comunque ed uscì dalla sua stanza.
In corridoio incontrò subito Bill, con un bicchiere di caffè in una mano e una busta di plastica nell’altra. Sembrava teso, preoccupato, e Grace gli chiese che cos’altro fosse successo. Il cantante le spiegò tutto e il peso che le era crollato addosso dopo la conversazione con Tom aumentò di alcune tonnellate pensando a come doveva essersi sentito Dylan. Non faceva altro che farlo soffrire.
«Quindi il tuo caffè se l’è preso lui», concluse Bill, mordendosi il labbro inferiore.
Grace gli sorrise amaramente e, dopo aver preso i suoi vestiti, si voltò.

Purtroppo non si è preso solo quello.
«Vai a casa?», le domandò.
«Sì, ho bisogno di dormire. E di riflettere».

 

***

 

Seduta al tavolo della cucina con una tazza di tè tra le mani, osservava le lancette dell’orologio appeso al muro spostarsi inesorabilmente avanti, scandendo il tempo che passava.
Quando sarebbe arrivata Grace? Iniziava a dubitare che venisse, ma lo sperava con tutto il cuore.
Le erano serviti anni per superare quel dolore, causato prima dalla separazione con Mitch, poi dalla decisione di sua figlia di andare a vivere con lui e per finire dall’assassinio dello stesso Mitch, l’uomo che aveva amato e che tutt’ora amava. Non voleva che anche questa occasione di riallacciare i rapporti con sua figlia andasse sprecata.
Ma forse, chissà… Il suo mondo era imprevedibile, pieno di insidie e di pericoli. Quel mondo da cui aveva cercato di fuggire, preoccupata per la vita della sua famiglia. Era quello il motivo per cui, a malincuore, aveva deciso di separarsi da Mitch: per proteggere la propria famiglia. Ma non ci era riuscita nemmeno un po’: Mitch era stato ucciso, Grace aveva deciso di lasciarsi tutto alle spalle e di rinunciare a molte cose per vivere quella vita pericolosa e arrivare dunque a scoprire il nome di chi aveva ammazzato il suo caro papà, e lei… lei non sapeva ancora se era tornata, dopo quegli orribili anni trascorsi sotto l’influenza degli psicofarmaci.
Persa nei suoi ragionamenti, aveva continuato a guardare le lancette dell’orologio muoversi senza vederle realmente, con il tè fra le mani che intanto si era raffreddato.
Ad un certo punto sentì il trillo del campanello, corse all’ingresso e senza nemmeno guardare chi fosse aprì la porta.
«Grace!», esclamò con un sorriso radioso sul viso, che però si spense presto.

 

***

 

Erano poche a Los Angeles le autopattuglie utilizzate dalla polizia stradale, ma Dylan aveva lottato duramente per ottenerne una ed era davvero fiero della sua cara vecchia Ford Crown Victoria. D’altronde, in quasi tutti i film polizieschi gli inseguimenti più mozzafiato avvenivano con le auto, non con le moto, e per questo si sentiva un superpoliziotto ogni volta che si trovava con le mani sul volante.
La radio che Dylan si portava sempre dietro, sintonizzata sulle chiamate effettuate al 911, si mise a gracchiare, richiamando la sua attenzione.
Il suo partner, Oswin, la tirò fuori dal portaoggetti e sbuffò: «Non ci credo, vai ancora in giro con quest’affare!».
Ma Dylan lo azzittì con un gesto della mano, infastidito, ed ascoltò con attenzione.
Una voce di donna, una delle tante centraliniste, spiegò il caso e Dylan dovette stringere con più forza il volante quando sentì quel nome.
«Come ha detto che si chiama la donna?», domandò al proprio compagno, sperando di aver sentito male, anche se aveva iniziato a sudare freddo e sentiva il battito cardiaco aumentare secondo dopo secondo mentre accendeva le sirene e zigzagava fra le automobili col piede sull’acceleratore.
Oswin aggrottò le sopracciglia allo strano comportamento del partner. «Melanie Moore. La conosci?».
«È la madre di Grace», disse fra i denti, accelerando ancora un po’.
Arrivarono nel luogo in cui avevano trovato il corpo quasi senza vita della signora Moore, un vicolo buio e lercio nella parte più degradata della periferia nell’Eastside di Los Angeles, e scendendo dall’autopattuglia sentirono le sirene dell’ambulanza che si allontanava diretta a tutta velocità verso l’ospedale più vicino. Quasi certamente sarebbe stato lo stesso in cui era stato ricoverato Tom Kaulitz e pensò di chiamare alla reception per mandare qualcuno ad avvisare Grace, probabilmente ancora lì, ma poi Oswin attirò la sua attenzione parlando con il capo di una delle squadre della omicidi che aveva risposto alla chiamata e che quindi da quel momento in poi si sarebbe occupato del caso. Era un suo amico di vecchia data, non sarebbe stato difficile farsi dare qualche dettaglio in più.
«Che bel posticino!», ironizzò Oswin.
«Ma che…? E voi che ci fate qui?!».
L’uomo sorrise e passò sotto il nastro giallo piazzato dalla scientifica, già al lavoro sulla scena, per salutarli con una stretta di mano.
Dylan notò una striscia di sangue su un cassonetto verde coperto da sporcizia e graffiti e solo all’idea che la madre di Grace si fosse accasciata proprio lì qualcosa di pensante gli si schiantò sulla bocca dello stomaco.
«Dylan non ha ancora imparato a non ascoltare le chiamate al 911», spiegò Oswin, ridacchiando. Poi tornò serio e chiese: «Che è successo?». Il capo della squadra gli spiegò brevemente che un passante aveva trovato la donna e dato subito l’allarme.
Si sporse oltre il nastro e gli indicò un punto dove si trovavano ben due agenti della scientifica per fare dei rilevamenti. «Ha detto che era lì, che si teneva aggrappata al bordo del cassonetto, in completo intimo, e che aveva così tanti lividi sul corpo che appena l’ha vista non è riuscito a capire di che colore fosse la sua carnagione. Ha aggiunto inoltre che aveva il fiatone, come se avesse corso qualche chilometro prima di giungere qui. In effetti mi sembra improbabile che l’abbiano scaricata proprio in questo punto».
Oswin fece un altro mugugno d’assenso, massaggiandosi il mento. «Brutta storia. Dylan, tu che ne dici? Sei fin troppo silenzioso, vuol dire che hai già un’idea in testa».
Dylan socchiuse gli occhi e negò l’affermazione del partner con un cenno del capo. Mentì, perché ce l’aveva eccome un’idea in testa: quel pomeriggio Grace sarebbe dovuta andare a trovare sua madre e probabilmente, troppo presa da ciò che era successo a Tom, se n’era dimenticata. Come se non bastasse, avvertiva un’orribile sensazione bruciargli lo stomaco al solo pensiero che al 99,9 per cento l’aggressione a sua madre c’entrasse con il caso che si trascinava dietro dalla morte di suo padre e che in quell’ultimo periodo aveva ripreso in mano con ancora più convinzione, decisa a risolverlo ad ogni costo.
«Amico, va tutto bene?», gli chiese Oswin, non del tutto convinto. «Hai detto che conosci la vittima, non hai idea se avesse dei nemici o problemi di qualche…?».
«No», rispose bruscamente, portandosi il pollice e l’indice sulle palpebre pesanti. «So solo che devo andare da Grace».
«Certo, capisco. Io sto qui, caso mai mi farò dare uno strappo da qualcuno. Ti chiamo appena c’è qualche novità, okay?».
Dylan annuì, ringraziandolo, poi montò sull’autopattuglia e la chiamò al cellulare. Mentre aspettava che rispondesse tamburellò le dita contro il volante, sbuffando. Non gli andava di sentirla, ma presto avrebbe avuto bisogno di lui e voleva esserci, non gli importava quanto stava patendo per lei, per il suo amore non corrisposto, per la sua gelosia nei confronti di quel Kaulitz.
«Pronto?», rispose dopo un’eternità, facendolo sospirare.
«Ehi, Grace, sono io. Stavi dormendo?».
«Sì, ero appena riuscita a…».
«Allora sei a casa?».
«Sì, ma…».
«Sto arrivando, non ti muovere da lì», disse e chiuse la chiamata, facendo pressione sul pedale dell’acceleratore.

 

***

 

Grace si sollevò lentamente sul letto, ancora col cellulare stretto in una mano, e si portò l’altra sulla testa che iniziava a girarle furiosamente.
Spostò il viso per non vedere la luce del sole del pomeriggio riflettere sul pavimento lucido ed accecarla, poi si alzò in piedi e si infilò una maglietta larga dei Coldplay che aveva da quando aveva sedici anni e che usava di rado e solo in casa.
Camminò lentamente verso il bagno, sentendo la testa pesarle due quintali, senza essere certa di riuscire a tenerla dritta sul collo. Si sciacquò il viso e provò a mettere qualcosa sotto i denti, ma una leggera nausea le fece abbandonare il tentativo. Così si prese semplicemente un’aspirina, poi si appoggiò al tavolo in attesa dell’arrivo di Dylan.
Dal suo tono di voce aveva capito che doveva essere successo qualcosa di grave, ma non riuscì a fare ipotesi, forse a causa del mal di testa lancinante, forse per la mancanza di riposo e di zuccheri. Si costrinse ad aspettarlo e basta, perché provare a concentrarsi e a pensare la faceva stare soltanto peggio.
Quando arrivò, il suo amico suonò il campanello e il trillo le perforò il cranio, facendola lamentare. Si trascinò comunque alla porta e l’aprì, strizzando gli occhi per non vederlo in maniera sfocata.
«Va tutto bene?», le domandò invece di salutarla, inarcando le sopracciglia.
«Non sono molto in forma, se devo essere sincera», rispose con poca voce e si spostò per farlo entrare. «Che cos’è successo?».
Dylan non si mosse dall’uscio della porta e la guardò negli occhi con una serietà da mettere i brividi, che Grace riconobbe come quella che tutti i poliziotti usavano nel loro lavoro quando accadeva qualcosa di brutto e dovevano informare i parenti delle vittime.
«Mi sto preoccupando», sussurrò e sentì un’impellente bisogno di piangere, ma si trattenne. «Dylan…».
«Si tratta di tua madre», si decise a parlare e per l’investigatrice fu un colpo tremendo, anche se non lo percepì immediatamente. Prima vennero la confusione e l’incredulità, che la portarono a dire:
«Mia madre? Mia madre, certo! Avrei dovuto vederla oggi pomeriggio, ma mi sono completamente dimenticata!».
Purtroppo, si rese conto che persino alle sue orecchie quelle parole erano suonate stonate, come se in fondo sapesse che non erano quelle giuste da dire.
«Grace, tua madre è stata trovata in un vicolo nella periferia dell’Eastside. Da quello che so…».
Dylan, impassibile, continuò a parlare seguendo un filo tutto suo, per non incappare in frasi e parole che avrebbero mandato a monte tutta la sua copertura: doveva dimostrarsi forte, padrone della situazione, e non lasciarsi influenzare dai suoi sentimenti. Sapeva, però, che i suoi occhi non facevano lo stesso e mostravano tutto ciò che provava.
Quando finì, trasse un lungo respiro e posò le mani sulle spalle della ragazza che amava, immobile come una statua. Fece scontrare delicatamente le loro fronti e sussurrò: «Mi dispiace tanto. Vestiti, ti porto da lei».

 

***

 

«Ragazzi!», esclamò Tom sorpreso, alzando gli occhi dal PC portatile e vedendo Georg e Gustav entrare nella sua stanza seguiti da un Bill sorridente, tornato quasi se stesso. «Che ci fate voi qui?».
«Siamo venuti ad accertarci che stessi bene!», disse Georg, dandogli un pugnetto sull’avambraccio. «Lo dici sempre anche tu che sei il componente più importante della band e…».
Tom abbassò lo sguardo e sorrise quasi imbarazzato. «Oh, come siete carini».
Poi scoppiò a ridere, dimenticandosi per un attimo di Grace, di tutto quello che era successo fra loro e del peso che si sentiva sul cuore.
In effetti era da quando se n’era andata che si sentiva tremendamente solo e vuoto, fatta eccezione per quel peso che gli gravava all’altezza del petto, e non aveva fatto altro che pensare alla loro conversazione e a quello che aveva scoperto sul suo conto. Aveva proprio bisogno di un po’ di distrazione e Georg e Gustav, col loro arrivo improvviso, gli avevano portato una ventata di ossigeno.
«David vi ha già chiamati?», gli domandò, giocando con la freccetta del touchpad sullo schermo.
«Sì, ci ha già detto che il video si registrerà solo e soltanto quando tu sarai pronto e tutta la promozione dell’album è stata rimandata a data da definirsi», disse Gustav.
E Georg aggiunse, chinandosi leggermente verso di lui: «Vedi di metterci un sacco di tempo a rimetterti in sesto: non mi dispiacerebbe se allungassimo ancora un po’ questa pausa». 
Tom ridacchiò. «Vedrò cosa posso fare».
«Ma cos’è successo veramente in quel locale? Ne hanno parlato anche al telegiornale e non so come sei su tutte le riviste di gossip».
«Sì, ho visto un paio di video su Youtube e ho letto qualche articolo. Direi che le versioni raccontate e ciò che è successo veramente più o meno coincidono», raccontò, tornando a posare gli occhi sulle pagine che aveva aperto sul PC portatile. «C’è stata una sparatoria fra due gang che trafficavano droga, eccetera… C’è solo una cosa che non quadra».
«Quale?», domandò Bill, avvicinandosi per vedere.
«Non viene mai citata Grace. È come se lei… non ci fosse mai stata».
«Grace? Chi è?», domandò Gustav. 
Tom socchiuse gli occhi, morsicandosi la lingua: il suo pensiero era tornato a lei e non se n’era nemmeno accorto.
«È la… ragazza che ci ha protetti all’interno del locale, nel bel mezzo della sparatoria», tagliò corto. Non aveva voglia di raccontargli tutta la storia, non in quel momento.
«Sapete, Tom è innamorato di lei».
Tutti, compreso il diretto interessato, si voltarono ad osservare Bill, che aveva pronunciato quella frase come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Lui sorrise, per nulla in soggezione; non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello di aver detto una cazzata, perché era vero come era vero che lui era Bill Kaulitz.

 

***

 

La nausea, pur non avendo nulla nello stomaco, aumentò notevolmente quando vide sua madre addormentata in quella stanza nel reparto di terapia intensiva.
Aveva un occhio gonfio più dell’altro, contornato da un’ombra violacea che si espandeva anche sullo zigomo e su gran parte della fronte; le labbra erano tumefatte, di un rosso così vivo che sembrava avessero ancora del sangue sopra; il naso rotto era coperto dalla mascherina dell’ossigeno. Le bastò solo vederle il viso, non volle nemmeno immaginarsi come avesse il resto del corpo, nascosto sotto le lenzuola chiare.
Dylan provò ad allontanarla da lì, da quella visione a dir poco raccapricciante, ma la ragazza si divincolò e corse in bagno.
In ginocchio davanti al cesso, ficcò la testa nella tazza del water, squassata da conati asciutti e da singhiozzi che le toglievano il respiro.
Il poliziotto la raggiunse senza curarsi del fatto che quello fosse il bagno delle donne e Grace lo cacciò via, urlandogli di stare indietro e di non toccarla, così rimase alle sue spalle, appoggiato ad uno dei due lavandini.
Quando la detective tornò in sé, dopo aver gettato la faccia sotto il getto del rubinetto, si lasciò condurre mestamente lungo il corridoio, con una sua mano sulla schiena. Dylan la accompagnò a sedersi su una sedia posta nei pressi della camera della madre e si accovacciò di fronte a lei, osservandola in viso con un misto di compassione e dolore nella propria espressione.
Le accarezzò i capelli con una mano e con l’altra le strinse una mano, prima di sussurrare: «Lo so che non è un bel momento, ma devo chiederti se tu pensi che siano stati gli stessi che hanno rubato il cellulare di Tom e che ti stanno minacciando da mesi in questo modo perché non vogliono che tu continui ad indagare al caso di tuo padre».
«Dylan, io…», singhiozzò, senza lacrime e senza più ossigeno nei polmoni, guardandosi a destra e a sinistra come se stesse cercando una via di fuga.
«Non riflettere, segui l’istinto».
«Sì. Sì! Sì, loro!», strillò e si chinò in avanti coi gomiti puntati nelle ginocchia e le mani a nasconderle il viso.
«Okay», sussurrò Dylan, dandole un’altra carezza sulla testa. «Ti porto un bicchiere d’acqua. O vuoi qualcos’altro? Anche qualcosa da mangiare, magari?».
Grace non rispose, iniziò a dondolarsi avanti e indietro e continuò quel pianto silenzioso e senza lacrime.
Dylan rimase a guardarla e si disse che con qualcuno vicino non sarebbe mai riuscita a sfogarsi: era fatta così, la stoica Grace. La sua Grace. Inoltre, non piangeva da quando era morto suo padre e immaginava quanto fosse difficile per lei; probabilmente stava rivivendo anche la sua morte e stava crollando sotto il peso di tutto quel dolore.
Non voleva però che crollasse da sola. E se non era lui l’uomo con cui riuscisse a farlo senza sentirsi piccola e debole, chi altro, se non Tom Kaulitz? Gli costava molto ammetterlo, ma forse lui era davvero la persona giusta per lei e doveva farsi da parte, se voleva la sua felicità, per quanto fosse difficile e doloroso.

 
Si avvicinò alla sua camera e, nonostante avesse notato che aveva compagnia, bussò con decisione alla porta. L’aprì e vedendolo tutti smisero di parlare quella lingua strana, quasi incomprensibile, che però lo affascinava quando era Grace a parlarla. Forse era la divisa che indossava ad aver provocato quel silenzio surreale, forse la sua espressione stravolta.
«Ciao Dylan», lo salutò Bill stupito. «Tutto okay?».
«Devo parlare con lui», scandì bene le parole, indicando Tom con un cenno del capo.
«Ahm… io non penso che sia una buona idea», balbettò.
«Non voglio fargli del male, Bill», lo rassicurò, per poi smentirsi: «Anche se vorrei tanto».
Tom gli rivolse un’occhiata sprezzante e allo stesso tempo disse qualcosa al fratello e agli amici. Anche se non convinti, i tre uscirono dalla stanza, lasciandoli soli.
Dylan gli rivolse un sorrisetto di ringraziamento e pensò lui stesso a chiudere la porta. Si avvicinò alla sedia accanto al letto del chitarrista e vi sedette, stringendo le braccia al petto. Si fissarono per una ventina di secondi, senza dire una parola, e Dylan apprezzò il fatto che non avesse mai abbassato lo sguardo, anche se nei suoi occhi continuava a brillare quella scintilla di sfida.
Fu Tom a rompere il silenzio, chiedendogli spazientito: «Che cosa vuoi?».
«Mettiamo in chiaro subito una cosa: io ti detesto», esordì Dylan. «Per svariati motivi, ma il primo è sicuramente perché tu mi hai rubato Grace. Io la amo. Non so cosa tu provi per lei, ma prova soltanto a farla soffrire e io ti rovino».
«Le tue minacce non servono a nulla, non mi fai paura. E quello che c’è tra me e Grace non ti interessa».
Il poliziotto ci mise qualche secondo per elaborare, perché Tom aveva davvero una pessima cadenza, oltre che una pessima pronuncia. Probabilmente, abituato a parlare in modo così veloce nella sua lingua madre, non si rendeva conto che andando alla stessa velocità in inglese si mangiava le sillabe, se non intere congiunzioni. Ora capiva perché Grace avesse deciso di parlargli solo in tedesco: dava i nervi.
«Tu sì che sei un ragazzo con le palle», lo sbeffeggiò, sventolando una mano. «Non sono venuto qui per parlare di questo, comunque. Sono venuto qui per lei, perché sta male e penso che abbia bisogno di te».
Si fissarono intensamente negli occhi ancora una volta e Dylan nel frattempo buttò giù il boccone amaro che si era costretto ad ingoiare dicendo quelle parole, chiedendo aiuto a Tom.
Allo stesso tempo, però, nei suoi occhi notò una luce diversa, una che non aveva mai visto prima, e percepì sulla sua pelle il sentimento che lo legava a Grace.
Che lui lo volesse o no, quei due si erano scelti.

 
Da lontano, la vide seduta su una sedia del corridoio, con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani a coprirle il viso, mentre si dondolava leggermente avanti e indietro. Non l’aveva mai vista così, sembrava davvero distrutta ed indifesa.
Si dimenticò di tutto, non gliene importò più niente delle bugie, delle mezze verità… Lei era sua, Helen, Grace o chissene-frega-del-nome, e se lei aveva bisogno di lui, lui ci si sarebbe stato, sempre. Era così che ci si sentiva quando si amava una persona? Era pronto a spaccare il mondo per lei, ad uccidere per lei, a morire per lei; avrebbe fatto di tutto, pur di vederla di nuovo sorridente e felice.
«Bill, ti vuoi muovere?! Non sei in auto, non ci sono limiti di velocità!», inveì contro suo fratello, che spingeva la sedia a rotelle su cui era seduto.
«Tom, ma…!», provò a difendersi, ma lui lo interruppe bruscamente e gli fece segno di allontanarsi.
«Lascia, faccio io!».
Portò le mani sulle ruote ed iniziò a spingere con tutte le forze che aveva per arrivare più in fretta possibile da Grace, in fondo al corridoio. Sentì dolore vicino all’ascella, dove l’aveva colpito il proiettile, ma non se ne curò grazie alla forza dell’amore che gli circolava come adrenalina nelle vene.
Quando le arrivò accanto bloccò le ruote e la guardò con un leggero fiatone, aspettando che sollevasse la testa per guardarla negli occhi. Grace lo fece e il cuore di Tom mancò un battito, leggendo sul suo volto tutta la sofferenza che stava provando.
Senza nemmeno pensarci le prese la nuca con la mano e le fece posare delicatamente la fronte sulla sua spalla, iniziando ad accarezzarle i capelli su cui posava ogni tanto dei baci leggeri.
Con Tom che la teneva stretta, in poco tempo Grace riuscì a lasciarsi andare e pianse tutte le lacrime che non aveva mai versato in quegli anni.

 
Dylan rimase un po’ ad osservarli nascosto dietro l’angolo, poi sospirò appoggiandosi con le spalle alla parete. In quel momento il cellulare iniziò a suonargli nella tasca e dovette portarselo all’orecchio, anche se ne aveva fin sopra i capelli del suo lavoro e l’unica cosa che voleva era andare a casa per farsi una dormita decente.
«Oswin, sei tu?», domandò stancamente.
«Il tuo angelo custode a rapporto. Come sta Grace?».
Dylan gettò uno sguardo a Tom e Grace, ancora abbracciati, e sospirò. «Dimmi che hai delle novità per me».
«Un paio. Siamo andati a casa della vittima ed era come se dentro si fosse scatenato un uragano: completamente sottosopra».
«Stai dicendo che qualcuno si è introdotto in casa sua e l’ha messa a soqquadro?», domandò, decisamente più attento.
«Non solo. Probabilmente è qui che è avvenuta l’aggressione: abbiamo trovato del sangue in salotto».
«Sai già se hanno preso qualcosa in particolare?».
«Negativo. È una storia complicata, Dylan… Hai qualche idea?».
«Forse, ma… Uff, è complicata persino l’idea. È tutto?».
«Sì. Cioè, per questo caso sì. Poco fa ho chiamato un mio amico della scientifica che lavora sulla sparatoria all’Halo e mi ha detto che hanno rinvenuto un cellulare addosso al ragazzo che ha sorpreso i ragazzi dell’antidroga e ha sparato a Tom Kaulitz».
«Sì, e allora?».
«Aspetta, fammi finire!», ridacchiò. «Sono stati molto sorpresi, quando hanno rinvenuto all’interno di esso una microspia».
«Una microspia?».
«Già. E sai qual è la cosa più sorprendente in assoluto? Quel cellulare apparteneva allo stesso Tom Kaulitz».
Dylan strabuzzò gli occhi e si portò una mano alla fronte, che aveva iniziato a dolergli per la confusione.
Il cellulare che era stato rubato a Tom? Perché ce l’aveva addosso quel brutto ceffo? Che quelli che minacciavano Grace, la sua restante famiglia e i suoi amici, tra cui quei marines, c’entrassero anche in quella sparatoria? Non ci stava capendo più niente, tutto era così… confuso ed intricato!
«Dylan? Ehi, amico, ci sei?».
«Sì, Oswin», mormorò. «Grazie per le informazioni, ora… ora devo andare. Ci vediamo domani». Riappese.
Gettò un’ultima occhiata verso Grace e Tom e col suo perfetto tempismo li vide mentre si baciavano.
«Oh, merda», biascicò e quando si voltò trasalì trovandosi accanto Bill. Non l’aveva nemmeno sentito arrivare.
Il cantante lo guardò e gli sorrise teneramente, posandogli una mano sulla spalla. «Mi dispiace, sul serio».
Dylan scrollò il capo, amareggiato. Poi sollevò il viso e gli scoccò un sorriso. «Andiamo a berci qualcosa?».
«Ecco, io in realtà…», balbettò, accennando a Tom e Grace, ma il poliziotto ispanico lo interruppe, dandogli un pugnetto sulla spalla.
«Ne avranno ancora per molto, non si accorgeranno nemmeno della tua assenza».
Così Bill si lasciò convincere.

 

***

 

«Vai a casa, hai bisogno di riposare», le disse Tom, con tono premuroso, accarezzandole il viso.
«No, voglio stare qui. Nel caso si svegli», rispose ed indicò la porta chiusa di fronte a loro, dietro la quale riposava sua madre.
«Okay, ma vieni in camera mia. Diciamo ad un’infermiera di avvisarti subito, se si dovesse svegliare».
Grace annuì brevemente, con gli occhi ancora un po’ arrossati pieni di gratitudine. Si alzò in piedi e prese i manici della sedia a rotelle di Tom, lo girò e spinse la carrozzina lungo il corridoio fino a quando non incontrarono un’infermiera.
Dopo essersi accordati con lei, proseguirono fino alla camera del chitarrista. Durante il percorso Tom aveva gettato la testa all’indietro ed aveva posato la nuca contro il ventre di Grace, che l’aveva guardato negli occhi ricambiando il sorriso. Era stato uno scambio di sguardi e sorrisi piuttosto intenso, che le aveva fatto tremare piacevolmente il cuore e aveva fatto schiudere i bozzoli delle farfalle che aveva nello stomaco.
Una volta in camera aiutò Tom ad alzarsi dalla sedia a rotelle che gli avevano costretto ad usare se si doveva spostare, per non affaticarsi troppo, ma lui si beffeggiò di lei e cadde seduto sul letto trascinandosela addosso, con le mani sul suo sedere.
«Tu sei un caso perso», gli disse e lui sorrise furbescamente, avvicinando il proprio viso a quello di Grace per sfiorarle le labbra in un bacio appena accennato.
«Curami, se ne sei in grado», sussurrò suadente, continuando a stuzzicarle le labbra con quei mezzi baci.
«E chi ha detto che voglio curarti?».
Portò le mani sulla sua nuca e lo baciò con passione, dimenticandosi per un attimo di sua madre e dell’angoscia che l’aveva assalita qualche ora prima. Con Tom riusciva quasi sempre ad evadere dal suo mondo ed era una vera fortuna che ci riuscisse, perché a volte aveva come la sensazione che la soffocasse e la stritolasse.
Lo costrinse a stendersi e Tom le fece un po’ di spazio, in modo tale che si potesse accucciare al suo fianco. Adagiò la testa sopra la sua spalla e con la mano gli accarezzò il petto, soprappensiero, mentre lo osservava in viso di sottecchi. Nei suoi occhi brillava il riflesso bluastro della piccola televisione appesa al muro che aveva acceso per passare un po’ il tempo e come al solito Grace pensò che il suo viso fosse perfetto, ad eccezione di quell’accenno di barba che iniziava a spuntargli sulle guance e sul mento. Provò ad immaginarselo con la barba, nonostante lei odiasse gli uomini con la barba, e si rese conto che gli avrebbe dato qualche anno in più, tanto da raggiungerla, ma lo preferiva decisamente rasato.
Senza un motivo ben preciso sospirò e Tom si voltò per poterla guardare negli occhi.
«Che c’è?», le domandò, accarezzandole la mano ancora sul suo petto.
«Non sono convinta di quello che stiamo facendo», rispose istintivamente, lasciando che tutto venisse a galla da sé, evitando di rifletterci su.
«Perché, che stiamo facendo?».
Grace sbuffò, piantando gli occhi sul soffitto. «Lo sai… È una follia, te ne rendi conto? In questo momento rischieresti soltanto di cacciarti nei guai e io non voglio che ti succeda niente per colpa mia».
Tom le posò una mano sulla guancia e le voltò delicatamente il viso verso il suo.
«E non credi che io sia già troppo coinvolto?», disse a bassa voce, suadente.
«In che cosa?», domandò lei, arrossendo leggermente.
«Sia nelle tue indagini che con te».
Grace lo fissò intensamente negli occhi e si lasciò baciare, inerme e allo stesso tempo decisamente coinvolta.
Poi si appoggiò di nuovo alla sua spalla e gli avvolse un braccio intorno alla vita, chiudendo gli occhi e lasciandosi acchiappare dal sonno che non tardò ad arrivare.

               

_______________________________

 

Il mistero si infittisce! *^* Il caso di Grace ha portato sventura ancora una volta, coinvolgendo sua madre! 
Chi sono gli aggressori? Gli stessi che hanno rubato il cellulare di Tom e che hanno provato in ogni modo a far desistere Grace nell'andare avanti ad indagare sul caso di suo padre? C'entrano anche con la sparatoria all'Halo? A quanto pare sì, visto che è rispuntato il cellulare di Tom... E cosa cercavano a casa di Melanie Moore? Cosa farà Grace adesso? Ahahah, spero che tutte queste domande vi incuriosiscano e che, soprattutto, mi diciate le vostre ipotesi in una recensione (anche per quanto riguarda l'aspetto sentimentale di tutta la vicenda, che è sempre più intricato)! :) 
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, chi ha messo la FF tra le preferite/seguite/ricordate e chi legge soltanto ;)
A lunedì prossimo! Vostra, 

_Pulse_

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Parte 1 ***


Capitolo 11 – Parte 1

 

Si svegliò quasi di soprassalto, in preda ad un incubo, e si guardò intorno alla ricerca di qualcuno. Non sapeva nemmeno di chi, se ne ricordò soltanto quando gli tornarono in mente, appunto, sprazzi della serata precedente.
Scese dal letto e improvvisamente tutta la stanza iniziò a girargli intorno. Allora tornò a sedersi.
«’kay, Bill… Ce la puoi fare».
Riprovò e quella volta, seppure a tentoni, riuscì a muovere qualche passo nella stanza. Raggiunse la porta e da lì in avanti fu più facile: gli bastava strisciare una spalla contro la parete per andare più o meno dritto.
Raggiunse il soppalco e si aggrappò saldamente alla ringhiera per poter guardare il salotto sotto di sé. Proprio lì vide Dylan, che stava per aprire una delle porte finestre ed uscire nel giardino sul retro.
«Scappi?», disse e a causa dell’alcool e del sonno la sua voce si era indurita ed abbassata di parecchie ottave, tanto da somigliare in maniera impressionante a quella di suo fratello Tom.
Dylan si girò e sollevò la testa per poterlo guardare, con le labbra dischiuse dalla sorpresa.
Lentamente un sorrisino si fece spazio fra le sue labbra e rispose: «Devo andare al lavoro. Tu, come stai?».
Bill assottigliò le labbra e ricambiò il sorriso, nonostante la testa gli girasse vorticosamente. «Sono stato meglio».
«Avresti dovuto dirmelo che non reggi l’alcool».
«Non sono io che non lo reggo, siete voi poliziotti che avete nei geni qualcosa di strano: hai bevuto come una spugna e guardati, stai benissimo!».
Dylan ridacchiò. «Ci si fa l’abitudine. Ti ricordi tutto?».
«Ahm…». Bill socchiuse gli occhi per fare mente locale e fu una pessima mossa, perché al buio il suo equilibrio già precario a causa della sbronza divenne nullo e rischiò di cadere giù come un sacco di patate. Il poliziotto fece uno scatto all’interno della casa, accorgendosene, ma Bill aprì subito gli occhi e fece in modo di far tornare tutto alla normalità. O quasi.
«Non mi ricordo come sono arrivato a casa», rispose alla fine, con la fronte imperlata di sudore.
«Ti ci ho portato io», rispose semplicemente Dylan.
«Ho fatto qualcosa di vergognoso che io non ricordo?».
Il poliziotto ripensò la lunga chiacchierata che avevano fatto in auto, entrambi sbronzi (anche se Bill lo era decisamente di più). Quindi scosse il capo ed accennò un sorriso.
«Nulla di grave. Ora devo proprio andare», disse e si voltò.
«Dylan?».
«Dimmi».
«Non penso che riuscirò a scendere le scale da solo».
«Oh, certo».
Si girò di nuovo ed andò a prenderlo.

 

***

 

Aveva sentito la presenza dell’infermiera accanto a sé, nella stanza buia di Tom, ancora prima che lei potesse posarle una mano sulla spalla per svegliarla e dirle in un sussurro: «Signorina, ma che ci fa sdraiata qui? Potrebbe far del male al paziente!».
Lei si era subito alzata, facendo piano per non svegliare il chitarrista che dormiva ancora, e si era scusata. Solo dopo si era ricordata di sua madre e una maschera di delusione le si era dipinta sul volto.
«Quindi non è venuta per dirmi che mia madre si è svegliata?», aveva chiesto.
L’infermiera aveva accennato un sorriso. «Anche».
Dopodiché l’aveva accompagnata nella stanza di sua madre, la quale immobile giaceva sul letto, ancora sotto sedativi e  frastornata, ma sveglia.
Appena incrociò il suo sguardo, Grace trasalì. E anche sua madre, che strinse convulsamente il lenzuolo candido fra le dita. L’investigatrice, accorgendosene, sentì il peso di tutto ciò che le avevano fatto premerle sul cuore e voltò il capo per sfuggire a tutta quella tristezza e a quella paura. Si accorse così di Oswin, il quale le sorrise lievemente.
«Buongiorno», la salutò sollevando una mano, grande il doppio della sua.
Era un omaccione, un vero armadio, ma sapeva essere davvero dolce e confortante, in certi brutti momenti.
«Ciao, Oswin. Come mai da queste parti?».
Aveva la voce che andava e veniva, che gracchiava come una vecchia radio, a causa del sonno e dell’effetto che le aveva causato la visione di sua madre ridotta in quello stato.
«Ho accompagnato un collega che deve parlare con tua madre. Non volevo però che la vedesse prima di te: gli ho consigliato di andarsi a prendere un caffè», rispose con voce pacata e carezzevole, rivolgendole un altro dei suoi sorrisi dolci.
«Grazie, davvero. Ma credo che mi serviranno ancora un paio di minuti».
Si sedette accanto a lui, su una seggiola del corridoio, prendendosi la testa fra le mani.
«Non c’è problema. Piuttosto, hai visto Dylan? È da ieri pomeriggio che non lo sento».
Grace lo guardò con la coda dell’occhio e un altro peso si schiantò sopra il suo cuore.
«No, non l’ho visto», mormorò e chiuse gli occhi per concentrarsi in lunghi respiri profondi, con l’intento di rilassarsi. Purtroppo però il pensiero che dopo l'arrivo di Tom si fosse comportata proprio come se il suo migliore amico non esistesse non glielo permise.
Notò che nello stesso periodo di tempo, ossia da quel pomeriggio, non aveva intravisto nemmeno Bill, ma non collegò le due sparizioni; era solo una coincidenza che non li avesse più visti entrambi proprio da quel momento in poi.
«Chissà che fine ha fatto», borbottò Oswin.
Nello stesso momento un’infermiera entrò nella camera di sua madre e dopo aver controllato le dosi di medicinali che doveva assumere per endovena uscì di nuovo.
«Signorina, lei è la figlia della signora Moore, vero?», le chiese, fermandosi proprio di fronte a lei. Grace annuì frettolosamente e l’infermiera sorrise, aggiungendo: «Mi ha chiesto di farla entrare».
L’investigatrice si alzò, ringraziò l’infermiera con un cenno del capo e si avvicinò alla porta. Fremette, posando la mano sulla maniglia, ma poi si fece coraggio ed entrò. Si chiuse la porta alle spalle, appoggiandovisi, ed aspettò qualche secondo prima di alzare lo sguardo su sua madre.
«Grace», sussurrò Melanie, con la voce rotta dal pianto.
«Mamma», soffiò, sgranando gli occhi e facendosi più vicina, cercando di non soffermarsi sui lividi e le escoriazioni sul suo viso e sulle sue braccia.
«Vieni qui, tesoro».
Le posò una mano tremante sulla guancia e poi la fece scivolare sulla nuca, l’attirò a sé e le fece posare il viso nell’incavo fra il collo e la spalla.
La strinse forte, più forte che poté, e col naso fra i suoi capelli corti e scompigliati biascicò istericamente: «Oh tesoro, tesoro smettila. Lascia perdere tutto, tutto! Lo faranno, mi uccideranno, ed uccideranno anche te e tutti quelli che si metteranno in mezzo a questa storia! Lascia perdere, ti supplico, lascia perdere!».
Grace si liberò dalla sua stretta, sconvolta, e guardò sua madre in preda al panico, che stringeva il lenzuolo candido fra le dita e si mordeva le labbra a sangue, muovendo in continuazione le palle degli occhi. Poco dopo iniziò ad urlare ancora più forte frasi sconnesse, intrise di paura, e le convulsioni presero il sopravvento su di lei.
Un medico e un’infermiera intervennero immediatamente, dandole un’altra pesante dose di sedativi, che la fece crollare in un sonno senza incubi.
Grace rimase ancora un po’ al suo fianco a guardarla dormire, poi indietreggiò ed uscì dalla camera per ultima. Sentì gli occhi di Oswin su di lei, ma non li incontrò, né gli spiegò quello che era successo.
Si strinse il collo fra le spalle, infilandosi le mani in tasca, e mormorò: «Vado a prendermi un caffè», prima di allontanarsi.

 

***

 

Dylan parcheggiò l’auto vicino all’entrata dell’ospedale e prima di entrare si fermò sulla rampa a fumarsi una sigaretta che gli bruciò la gola.
Si guardò intorno svogliatamente, lasciando che la sigaretta si consumasse pian piano fra le sue dita, e notò poco distante da lui un’infermiera in camice azzurro che lo stava osservando. Aveva i capelli biondi e gli occhi scuri. Carina, ma non il suo tipo.
All’improvviso, mentre ricambiava il suo sguardo accennando un sorriso, gli venne in mente Bill. Chiuse subito gli occhi per levarsi dalla testa la sua immagine e se li massaggiò con la punta delle dita, scuotendo lievemente il capo.
Quando li riaprì si soffermò sulla vetrina del bar di fronte, attraverso la quale vide una figura familiare seduta ad un tavolino. Aspettò che si togliesse le mani dal viso e le portasse sulla sua tazza di caffè per essere sicuro che fosse lei e dopo non ci pensò due volte prima di raggiungerla. Non si era nemmeno accorto dell’infermiera che aveva fatto qualche passo verso di lui.
Attraversò la strada frettolosamente, senza prestare molta attenzione alle automobili che passavano, ed infatti si beccò qualche clacson; poi entrò nel bar. Andò subito al suo tavolo, ma a pochi passi da lei rallentò e tutta la forza e il coraggio che aveva sentito dentro vedendola così ferita ed indifesa gli scivolarono addosso, tanto da fargli pensare che avrebbe fatto meglio a ricambiare lo sguardo di quell’infermiera con più convinzione.
Mise da parte tutte le paure, tutto il rancore e tutta la gelosia che aveva provato in quelle ore nei confronti di Tom; cancellò momentaneamente dalla sua testa le immagini di loro due che si baciavano e finalmente le fu accanto, le posò una mano sulla schiena e si chinò un poco per affiancare il suo viso e mormorare: «Ehi».
Grace si voltò verso di lui e gli mostrò gli occhi stanchi ed arrossati, ma pur sempre bellissimi; provò persino a sorridere, ma il tentativo non andò a buon fine.
«Ciao Dylan», lo salutò con poca voce, indicandogli il posto libero di fronte a sé. «Oswin ti cercava…».
«Oswin aspetterà», rispose, sedendosi. «Tu sei più importante, non credi?».
L’investigatrice si portò una mano sulla guancia e quella volta un minuscolo sorriso riuscì ad affiorare sulle sue labbra.
Dylan ne rimase incantato e sconvolto allo stesso tempo: c’era qualcosa di diverso in lei, una strana ombra e una sconosciuta dolcezza aleggiavano nei suoi occhi, espandendosi nei tratti delicati del suo viso spruzzato di efelidi.
La prima cosa che pensò fu che quello sguardo dolce e quel sorriso amaro erano molto simili a quelli di sua madre, in particolare quando aveva preso delle decisioni difficili che l’avevano portata a rinunciare a qualcosa a cui teneva molto per far sì che lui e i suoi fratelli e le sue sorelle avessero una vita felice. Non riuscì però a collegare Grace a sua madre e a capire quale fosse la decisione presa dalla ragazza che amava.
Un cameriere si avvicinò al loro tavolo e gli chiese che cosa desiderava. Dylan ordinò un caffè. Quando si allontanò, si appoggiò al tavolo con le braccia incrociate e si sporse verso di lei per parlare con un tono di voce basso.
«Hai visto tua madre?», le chiese.
Grace annuì. «Non ho molta voglia di parlarne, però».
«Okay, non importa», sorrise. «Allora ascoltami, perché ho un paio di cose da dirti».
«Va bene. Spara», sospirò ed infilò una gamba sotto l’altra, portandosi la tazza di caffè alle labbra. Poi parve rinvenire all’improvviso e raddrizzò la schiena. «Si tratta di nuovi sviluppi nelle indagini?».
«Sì, anche», rispose Dylan, confuso dalla sua reazione.
Lei gli disse di proseguire con un gesto vago della mano, come se non avesse chiesto niente, e si afflosciò di nuovo sulla panchina di velluto blu. Il poliziotto non si pose troppe domande ed iniziò:
«Il mio istinto mi dice che le persone che hanno aggredito tua madre siano le stesse che hanno ucciso tuo padre, rubato il cellulare a Tom e da quello che hai detto tu, ucciso quel marine, Carter. Chi altro può essere stato? Tua madre aveva nemici in grado di farle una cosa del genere? Io penso proprio di no. Anche perché hanno messo a soqquadro tutta la casa, probabilmente cercavano qualcosa. Ancora non sappiamo se l’hanno trovata, dovrà verificare tua madre».
«A casa sua?», mormorò Grace, gli occhi vacui puntati verso l’esterno del bar. «Che cosa poteva mai esserci a casa sua di tanto compromettente?».
«L’altra cosa che ho scoperto, riguarda la sparatoria all’Halo. Grace? Grace, mi stai ascoltando?».
La ragazza si voltò verso di lui, sorpresa, e scosse lievemente il capo. Aveva continuato a pensare a cosa potevano aver cercato a casa di sua madre, aveva immaginato quegli uomini senza volto gettare giù dalla libreria i libri, aprire i cassetti e svuotarli sul pavimento, frugare tra i suoi vestiti… e non le era venuto in mente nulla di significativo che potesse interessarli.
«La sparatoria all’Halo? Pensavo che fosse un caso ormai archiviato, in un certo senso…».
«Anche io pensavo che non ci sarebbe più dovuto interessare, ma la scientifica ha rinvenuto un cellulare addosso al ragazzo che ha sparato a Tom e, indovina?, dentro quel cellulare c’era una microspia».
«Una…?», sbarrò gli occhi e spalancò la bocca. «Il cellulare di Tom?».
«Proprio il suo. Quindi vuol dire che in qualche modo loro erano anche lì! E chissà, magari hanno causato proprio loro la sparatoria… In fondo non sappiamo come siano andate veramente le cose, i membri delle gang che stavano contrattando sono tutti morti a parte i boss, che sono riusciti a filarsela. Magari hanno fatto partire un colpo e una cosa tira l’altra…».
Grace scosse ancora il capo, abbassando lo sguardo spento. «Perché mandare a morire quel ragazzo? Sapevano che sarebbe morto, probabilmente lo sapeva anche lui che facendosi vedere da tutti quei poliziotti ed iniziando a sparare sarebbe finito così, allora perché…?».
«L’hanno costretto, semplice. O faceva così e come minimo si beccava una pallottola, oppure lo prendevano loro e lo trucidavano in chissà quale modo osceno».
Dylan posò le mani sul tavolo e spingendosi verso lo schienale di velluto della panchina si rese conto che il suo caffè non era più arrivato. Si voltò verso il bancone del bar ed alzò una mano, gridando: «Un quarto d’ora fa avevo ordinato un caffè, eh!».
Il cameriere che aveva preso la sua ordinazione arrossì violentemente ed iniziò a balbettare: «Mi dispiace tanto! Glielo porto subito!».
Quel ragazzo così impacciato ed in imbarazzo gli ricordò tantissimo Bill, non che l’avesse mai visto in quelle condizioni, ma a pelle glielo fece tornare alla mente per la seconda volta in quella mattinata e dovette fare un bello sforzo per cancellarselo dalla testa.
Grace però lo aiutò, mormorando all’improvviso: «Tutto questo per sparare nella direzione di Tom? L’hanno mandato a morire per…».
Dylan abbassò il viso e sfiorò il bordo del tavolo di legno chiaro con la punta del dito. «Ormai l’hanno capito pure loro quanto siete legati voi due».
Entrambi sollevarono il capo e i loro sguardi si incontrarono. Si fissarono per un bel po’, scambiandosi un’emozione dopo l’altra, dalla rabbia all’affetto più puro, per poi allontanarsi l’uno dall’altro con un’antica tristezza dipinta sul volto.

«Mi dispiace», mormorò lei alla fine, mentre Dylan si passava le mani sul viso stanco.
«Ti prego, mettiamoci una pietra sopra e non parliamone più».
Grace accennò un sorriso, allungando una mano verso di lui, sul tavolino. «È quello che stavo per dire io. Ti voglio bene come un fratello, Dylan…».
«E io voglio che tu sia felice», rispose, evitando il suo sguardo come se potesse davvero celarle il suo imbarazzo.
Quindi tossì e si alzò. «Sarà meglio che raggiunga Oswin, per vedere se hanno già parlato con tua madre…».
«Andiamo».

Grace lasciò i soldi del suo caffè sul tavolo e proprio mentre se ne stavano andando il cameriere richiamò la loro attenzione, ancora immerso nell’imbarazzo: «Scusi, il suo caffè? Non lo vuole più?».
«Sarà per la prossima volta», rispose il poliziotto, aprendo la porta e tenendola con un piede per far uscire prima di Grace.
Una volta all’aria fresca del mattino sospirò, infilandosi le mani nelle tasche e dondolandosi sui talloni mentre aspettavano di poter passare dall’altra parte della strada.
«Qualcosa non va?», gli domandò Grace, osservandolo.
«No… Sono solo piuttosto stanco».
«Menti, a me? Pessima mossa», lo prese in giro con un minuscolo sorriso sulle labbra. «Forza, sputa il rospo».
«Stanotte sono stato da Bill», sputò il rospo tutto intero, proprio così. Appena si accorse dell’espressione sconvolta della ragazza, però, si affrettò ad aggiungere: «Quando sono andato a chiamare Tom e poi voi due… Ecco, noi siamo andati a prenderci qualcosa da bere e non ce ne siamo nemmeno accorti, ci siamo ubriacati e Bill non si reggeva nemmeno in piedi… allora l’ho accompagnato a casa. Abbiamo parlato davvero tanto in macchina, ma puoi immaginare che discorsi… eravamo tutti e due sbronzi! Anche se ad un certo punto Bill ha detto una cosa strana, una cosa del tipo: “Grace è fortunata ad avere una persona come te al suo fianco: tu ci sarai sempre per lei, qualsiasi cosa accada… Anche io vorrei qualcuno come te…” e poi si è impappinato diverse volte, ma penso di aver capito che in qualche modo mi stesse dicendo che ero un bel ragazzo, sia dentro che fuori… Insomma, io non so se era l’alcool o se ho capito male io, ma ho avuto l’impressione… Bill non è gay, vero?».
Grace si fermò nel bel mezzo della rampa che portava all’entrata dell’ospedale, aggrappata al corrimano. Lo guardò per una decina di secondi in silenzio, poi disse: «Mi stai dicendo che hai avuto l’impressione che Bill ci stesse provando con te?».
Dylan annuì frettolosamente, scappando dai suoi occhi e vergognandosi come poche volte gli era capitato. Il perché gli era sconosciuto.
«Beh, io… non so davvero cosa dire», soffiò Grace. «Quindi è per questo che ieri siete scomparsi tutti e due nello stesso arco di tempo… E poi, poi cos’è successo, dopo la chiacchierata in auto?».
Il poliziotto non alzò lo sguardo, continuò a guardarsi i piedi, che muoveva come se stesse calciando dei sassolini immaginari.
«L’ho accompagnato dentro, l’ho portato in camera sua e…».
«E che cosa?», lo esortò a parlare, con una mano sul petto.
«E ci siamo addormentati tutti e due sul suo letto, così», scrollò le spalle.
«Quindi non è… non è successo niente».
«No!», urlò stridulo, arrossendo sulle guance. «Stamattina, quando mi sono svegliato e mi sono trovato lì di fianco a lui mi sono spaventato e allo stesso tempo…».
«Cosa?».
Dylan batté i piedi a terra, stringendo i pugni. «Niente, niente Grace».
«Ora lui dov’è?».
«A casa, dove vuoi che sia? Ha ancora i postumi».
«Sarà meglio che oggi pomeriggio passi a trovarlo…», rifletté e guardò il suo amico di sottecchi: sembrava un bambino vergognoso. «Vuoi che gli dica qualcosa?».
«No, non dirgli niente di quello che ti ho detto. Se ti racconta lui qualcosa bene, altrimenti… faremo come se non fosse mai accaduto nulla».
«Va bene, come vuoi».
«Okay».
Dylan sospirò ancora e si rese conto che anche se ne aveva parlato con Grace, il peso che sentiva sullo stomaco era ancora lì, non si era affievolito, né tanto meno era sparito come aveva sperato che accadesse.
Entrarono nella struttura ospedaliera e raggiunsero in silenzio la stanza della madre di Grace. Oswin era ancora lì, in corridoio, che aspettava il collega, e appena vide Dylan gli urlò contro diversi insulti e parecchi rimproveri.
La ragazza approfittò del momento per salutarlo con un gesto fugace della mano ed un sorrisino divertito, lasciandolo da solo con la sua “mammina”. Si diresse verso la camera di Tom e vi entrò facendo meno rumore possibile, per non svegliarlo. Infatti lo trovò ancora addormentato, con un’espressione innocente sul viso, appoggiato alla spalla sinistra. Si mise seduta su una sedia posizionata accanto al letto e rimase ad osservarlo, cercando di respirare il più silenziosamente possibile.
I suoi pensieri iniziarono ad accavallarsi l’uno sull’altro, sempre più freneticamente, ma ad un certo punto li fermò, dicendosi che ormai aveva preso la sua decisione e non sarebbe tornata indietro, per quanto le facesse male.
Non era riuscita a mettere da parte i sentimenti, quindi aveva già fatto da tempo la sua scelta, che se ne fosse resa conto o meno. Adesso però riconosceva perfettamente che non poteva più correre quei rischi, non poteva più permettere che le persone che amava soffrissero per causa sua. Per sua madre e per Tom, soprattutto, avrebbe rinunciato a tutto ciò che l’aveva portata fino a lì. La sua vita poteva anche non valere un tubo, ma quella di Tom… era molto più importante, quasi essenziale.
Quando realizzò che avrebbe anche dato la vita per lui, arrossì e le lacrime le riempirono gli occhi. Gli prese una mano fra le sue e se la portò al viso, lasciando che alcune di quelle lacrime le scorressero sulle guance.
«Grace».
La voce rauca e ancora assonnata di Tom le fece aprire di scatto gli occhi umidi e sollevare il capo. Si perse nei suoi occhi nocciola e a malapena si accorse della sua espressione profondamente preoccupata.
«Che cos’è successo?», le domandò, puntando i gomiti sul materasso per tirarsi un po’ più su.
Le strinse con più forza la mano, infondendole coraggio, e con l’altra le accarezzò il viso, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. A quel gesto così semplice e usuale la stoica Grace ebbe un altro crollo d’emotività e altre lacrime le segnarono il volto.
«Ho deciso di lasciare le indagini», singhiozzò. «Basta, io… non voglio più…».
Tom, senza la benché minima idea di cosa dire, l’attirò a sé e la strinse fra le braccia, posandole il capo sotto il suo mento e accarezzandole i capelli per rassicurarla.
«Ho paura, tanta paura», mormorò ancora Grace e in quel momento il chitarrista capì che qualcosa si era spezzato dentro di lei.

 

***

 

«Tu… tu che cosa?», balbettò ad alta voce, quasi gridando, un Dylan totalmente incredulo.
«Hai capito; non farmelo ripetere», rispose con voce pacata Grace, seduta in maniera fin troppo composta e rigida sulla sedia accanto al letto di Tom, spettatore più o meno silenzioso della loro discussione. Perché ne era certo: prima o poi – e scommetteva prima – sarebbe stata una vera e propria discussione, se non la litigata del secolo.
Si era accumulata così tanta tensione in quella stanza, subito dopo che la detective aveva rivelato al poliziotto della sua decisione di abbandonare il caso più importante della sua vita, che temeva che scariche elettriche improvvise potessero piombare giù dalla lampada al neon.
Dylan si strinse le braccia al petto e la sua espressione da incredula passò ad irata, per poi divenire frustrata e rancorosa.
«Scommetto che hai preso questa decisione quando ti ho detto che loro hanno cercato di uccidere il tuo Tom».
«Ehi, che cosa?!», gridò il chitarrista spaventato, ma nessuno dei due gli badò e Dylan continuò: «Te l’abbiamo detto in tanti, non ci hai mai ascoltati e sei sempre andata dritta per la tua strada, fregandotene del pericolo che noi e te stessa correvamo. Ci voleva proprio che rischiasse lui, perché tu fossi disposta ad abbandonare».
Tom spostò lo sguardo su Grace e solamente notando la rigidità dei tratti del suo viso capì che quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: sarebbe stata la litigata del secolo ed era appena iniziata.
La ragazza, nel rispondergli a tono, si alzò persino dalla sedia e si sporse col busto in avanti, come se volesse spingere fuori dal suo corpo tutto il veleno che conteneva.
«Ho preso questa decisione quando ho visto mia madre ridotta in quello stato!», urlò con tutta la voce che aveva, arrossandosi in viso, indicando un punto nella direzione della stanza di sua madre. «Quando lei mi ha implorato di abbandonare le indagini, quando l’ho vista in preda al panico al solo pensiero che potevano ferirla di nuovo, quando l’ho vista in preda dalle convulsioni. In questi momenti, ho preso la mia fottuta decisione. E quando mi hai detto che in quella sparatoria c’era anche il Loro zampino e che hanno provato ad uccidere Tom, mi sono convinta ancora di più della mia decisione. Mi dici dove sta il problema, nel fatto che c’entri Tom? Io lo so qual è il problema, lo so!», gli puntò il dito contro, quando il fiato iniziava già a mancarle. «Ti dà fastidio che sia arrivata a prendere questa decisione anche grazie a lui e non a te! Beh, ti assicuro che se invece che a lui avessero sparato a te avrei fatto la stessa identica cosa!».
«Perché, perché aspettare che sparassero a qualcuno e facessero del male a tua madre, prima di prendere questa fottutissima decisione, Grace?!». Le urla di Dylan, per ovvi motivi, erano state ben più forti di quelle dell’investigatrice, ma furono anche più efficaci: si conficcarono nella mente di Grace come una spada e la fecero ammutolire.
Così ferma e pallida, l’investigatrice sembrava un morto che camminava. L’unica cosa che permetteva a Tom di capire che era ancora viva era il suo respiro affannoso, ben udibile nel silenzio tombale che era calato.
All’improvviso Grace si mosse e lo fece in modo rapidissimo: corse alla porta, l’aprì e senza preoccuparsi di chiudersela alle spalle scappò via. Solo allora Tom, ma soprattutto Dylan, poterono tornare a respirare con un grande sospiro.
Il poliziotto spostò la sedia su cui fino a poco prima era stata seduta Grace e una volta accanto alla finestra si sedette, abbandonandovisi.
Rimasero in silenzio per un po’, ripensando entrambi a ciò che era appena accaduto. Tom fece particolare attenzione ripercorrendo le parole di Dylan e si sentì d’accordo con lui nella sua ultima domanda, ma non poté schierarsi pienamente da una parte piuttosto che dall’altra: non sapeva ancora una cosa.
«Dylan, perché Grace tiene tanto a quest’indagine?», gli domandò per togliersi subito il pensiero.
«Lei non te l’ha mai detto?», borbottò, guardandosi svogliatamente le mani intrecciate sull’addome, col mento puntato contro lo sterno.
«No. Per questo lo sto chiedendo a te».
«In questo caso, penso che debba parlartene lei», sospirò, sollevandosi dalla sedia.
«Che cosa?!», strillò. «Oh, lei non me ne parlerà mai! Non pensi che io debba essere informato di tutto, visto che ci sono dentro fino al collo?!».
Dylan, ormai accanto alla porta, l’aprì e posò per un’ultima volta lo sguardo su di lui.
«No», sussurrò e poi se ne andò, lasciandolo da solo nella sua più totale indignazione.
Prima di allontanarsi da quella stanza, però, sentì la suoneria del suo cellulare di riserva e si fermò accanto alla porta appena chiusa per ascoltare. Non seppe bene perché lo fece: forse spinto dalla curiosità di sapere se era Grace, che già si scusava – per quanto sembrasse improbabile, conoscendola – oppure credendo che fosse Bill, verso il quale sentiva il bisogno di chiarire la sua posizione.
Quindi, prima che Tom si decidesse a rispondere, nel suo cervello si crearono due tifoserie differenti: una che sperava che fosse Grace, in modo tale da dimostrargli che i suoi riguardi verso Bill erano del tutto insensati; la seconda invece sperava che fosse proprio lui, per il motivo opposto e perché sarebbe stata la prova che a lui, almeno un po’, ci teneva.
«Ehi, Bill! Dove sei?».
Nel sentire quel nome, una parte di lui fu serena, l’altra completamente adirata: lui non poteva essersi affezionato in quel modo a Bill!
Eppure, mentre se ne andava col passo pesante e il viso incupito, pensò e ripensò alla sera precedente.
Una volta giunto al volante della sua auto, si convinse che l’unico modo per mandarsi via dalla testa quel pensiero sconcertante era di parlare direttamente con lui, dicendogli chiaro e tondo tutto quello che pensava di quella faccenda che, se ne rese conto solo allora, non aveva alcun fondamento. In fondo la sua era soltanto stata un’impressione, da sbronzo oltretutto! Come poteva andare da Bill e spiegargli che lui non era gay e non ci sarebbero state possibilità per loro, quando non sapeva nemmeno se Bill ci aveva veramente provato con lui?
Posò la testa tra le braccia, appoggiate al volante, e con un sospiro si disse che comunque doveva passare da lui: aveva dimenticato le chiavi di casa e doveva assolutamente recuperarle, visto che aveva bisogno di una doccia. E magari ne avrebbe approfittato per scoprire se i suoi sospetti sulle avances di Bill fossero fondati.

 

_______________________________

 

Fine della parte uno :) Questo capitolo era piuttosto lungo tutto insieme, quindi l'ho tagliato a metà! Zac zac xD
Comunque, che ne pensate di questa prima parte? Grace ha deciso di abbandonare il caso e Dylan non l'ha presa proprio bene, dopo tutto quello che hanno passato... forse un po' ha ragione, ma anche Grace ha ragione a voler dare giustizia a suo padre, anche se non vuole che altre persone ci vadano di mezzo. Voi da che parte state? Che fareste in una situazione del genere?
Poi, l'altra novità assoluta del capitolo... Sì, avete già capito di chi sto parlando... *o* Vi sareste mai aspettati questo colpo di scena? Bill e Dylan.... Potrà mai funzionare? Ma soprattutto, Bill ci ha provato davvero con Dylan o quest'ultimo era talmente sbronzo che si è immaginato tutto? xD
Temo bisognerà aspettare la seconda parte per scoprirlo, lunedì prossimo! Spero nonostante tutto che questa prima parte vi sia piaciuta, dato che l'ultima volta siete un po' sparite, ma ringrazio coloro che hanno recensito e letto ;) 
Ah! Come ho già detto sulla mia pagina facebook ( _Pulse_ EFP ) da oggi in poi, causa lavoro, mi potrà capitare di dover postare la domenica sera, così che abbiate comunque il capitolo il lunedì mattina :) Detto questo mi dileguo xD
A presto! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Parte 2 ***


Capitolo 11 – Parte 2

 

“When I was younger you never said,
when I was older I'd feel helpless
When I was younger, you shone the light
Now that I'm older, it doesn't shine bright”

(When we were younger – You me at six)

 

Uscì dal bagno e si impose di ricomporsi: non voleva più piangere e fare la figura della debole, anche se le sarebbe piaciuto molto sfogarsi in quel modo ancora per un po’.
Da quando aveva inscenato la sua fuga dall’ospedale aveva pensato incessantemente a ciò che Dylan le aveva raccontato a proposito della deposizione di sua madre sull’aggressione, cioè che avevano ben poco su cui lavorare e con cui poter prendere quei bastardi.
Avevano sottoposto sua madre ad uno sforzo disumano nel ricordare quei momenti e il tutto quasi per niente: colui che aveva imperversato su di lei aveva il volto coperto da un passamontagna e non le aveva mai dato il tempo di vedere chiaramente i suoi occhi, complice anche l’oscurità del furgone su cui l’avevano caricata per continuare a pestarla senza farsi vedere né sentire da nessuno. Aveva ricordato che il furgone era sempre stato in movimento, ma non ricordava nulla degli interni, né del suo esterno.
Aveva sentito parlare il suo aggressore soltanto una volta, quando l’aveva schiantata a terra con una manata dopo essere entrato con la forza in casa sua, senza che nessuno si accorgesse di nulla, e le aveva detto chiaramente che era colpa di sua figlia, così ostinata a non voler lasciare il caso a cui lavorava dalla morte di suo padre. Per il resto, non conosceva nulla di chi stava alla guida, né sapeva se ci fosse qualcun altro sul veicolo.
Giunto il momento di scaricarla in quel vicolo l’avevano spogliata brutalmente, probabilmente per far sì che quelli della scientifica non avessero niente su cui cercare delle prove, e da lì in poi la storia la conoscevano bene.
Grace aveva ragionato così intensamente su quel racconto agghiacciante perché non voleva ricordare la sua ultima litigata con Dylan, che le aveva fatto addirittura più male di sapere tutti quei dettagli del pestaggio brutale di sua madre. Il motivo? Quello che le aveva gridato addosso era tutto penosamente vero e lei era una fottuta egoista, che pur di far giustizia a suo padre aveva messo in pericolo tantissime altre persone. Ed era certa che questo suo padre non l’avrebbe mai tollerato.
«Grace, vuoi una tazza di caffè?».
La ragazza si voltò di scatto verso la porta della cucina e vide Bill ridacchiare mentre si versava un po’ di caffè in una tazza verde petrolio. 
«Ti ho fatto spaventare? Scusami, non era mia intenzione», le disse con un sorriso sincero sul volto. «Allora, lo vuoi?».
«No, grazie, ne ho già preso uno prima…».
«Io è la terza tazza che mi faccio», biascicò il frontman, per poi spostarsi in salotto con lei. La fece sdraiare sulla sua chaise-longue di pelle nera e lui si appollaiò sul bracciolo della poltrona accanto, la tazza fra le mani.
«A che pensavi prima? Sembravi molto assorta».
Grace lo osservò e non poté fare a meno di notare che si sentiva come ad una seduta da uno psicologo. Non che ne avesse mai fatta una, ma quella era la percezione che aveva ed era quasi sicura che Bill non l’aveva fatta sdraiare lì a caso.
«Pensavo alla bruttissima situazione in cui vi ho messi. Voi non dovevate entrare in questa storia, non mi perdonerò mai per questo. E poi mia madre… che c’entrava mia madre in tutto questo?», scosse il capo per poi prenderselo fra le mani.
«L’hai vista? Ci hai parlato?», le chiese Bill, con voce pacata, non intrusiva.
«Sì, stamattina presto… Ed è stato orribile, mi sono sentita… come se le avessi fatto io tutte quelle ferite e quei lividi. Mi sono sentita davvero colpevole e ho capito che è davvero il caso di iniziare a proteggere le persone che ho accanto, invece di esporle continuamente al pericolo».
Il frontman posò la sua tazza di caffè sul tavolino basso di fronte alla poltrona su cui era appollaiato e corrugò la fronte. «Che cosa intendi dire?».
«Ho lasciato il caso. Domani consegnerò tutti i miei fascicoli, il mio lavoro di una vita, a Dylan. Avrei fatto meglio a dargli subito ascolto, invece di continuare in questa follia».
«Che cosa… Credo di aver perso dei pezzi. Che c’entra Dylan con il tuo caso?».
«Lui aveva subito intuito che le cose sarebbero degenerate e che sarebbe stato davvero pericoloso, mi ha detto di lasciar perdere, ma io non gli ho dato ascolto e guarda: Tom, mia madre… e se non mi fermo qui, può anche darsi che facciano del male a qualcun altro».
Bill si fermò un attimo a riflettere su quelle parole e credette di aver capito male: la sparatoria in cui erano stati coinvolti c’entrava con il suo caso? Stava per chiederle spiegazioni, ma lei riprese a parlare: gli raccontò della discussione che aveva avuto con Dylan quella mattina, di quanto si fosse sentita male, perché tutto ciò che le aveva detto era assolutamente veritiero.
Durante il racconto di Grace, Bill si distrasse un momento e il suo pensiero si posò sulla serata precedente, trascorsa in compagnia Dylan.
Quella mattina, pur sapendo di essere tornato con lui, non si ricordava ancora tutto ciò che era successo. Aveva chiesto a lui se da ubriaco aveva fatto qualcosa di vergognoso, avendone come il presentimento, e aveva ricevuto dal poliziotto una risposta né rassicurante né preoccupante. Poi, quando lui se n’era andato e si era un po’ ripreso dalla sbronza, aveva iniziato a ricordare la loro lunga chiacchierata in auto e il panico l’aveva divorato: aveva detto cose che non avrebbe dovuto dire e chissà come Dylan le aveva interpretate (sempre se le ricordava)! Riflettendoci, però, non seppe nemmeno lui dare un’interpretazione alle sue stesse parole, ai suoi stessi atteggiamenti. L’alcool l’aveva fatto sbarellare a tal punto, oppure aveva portato alla luce un sentimento nuovo, mai preso in considerazione, forse nato in compagnia di Dylan in quelle ore precedenti alla sbronza?
«Ehi, Grace».
La ragazza, che era stata interrotta bruscamente durante il suo sfogo, sollevò gli occhi su di lui ed ebbe come la sensazione di trovarsi di fronte ad un Bill diverso.
«Uhm?», mugugnò, incuriosita.
«Quando hai visto Dylan, stamattina, ti è sembrato…», cercò la parola giusta, ma non la trovò e usò la prima che gli venne in mente: «strano?».
Grace ci pensò su, arrivando a capire che tutto quel suo parlare di Dylan doveva avergli fatto tornare in mente la serata trascorsa con lui; ricordò anche le parole del suo amico poliziotto: «Non dirgli niente di quello che ti ho detto. Se ti racconta lui qualcosa bene, altrimenti … faremo come se non fosse mai accaduto nulla». Decise così di stare momentaneamente dalla sua parte, anche se mentire a Bill le dispiaceva.
«No, perché me lo chiedi?», gli rispose con nonchalance, abituata a mentire per mestiere.
Il cantante si strinse nelle spalle, poi nel suo stesso abbraccio. «Ieri sera, ecco… io e lui siamo andati a bere qualcosa insieme, visto che tu e Tom… Alla fine ci siamo ubriacati, io un po’ di più, e abbiamo parlato tanto, di tante cose… Sai, mi sono sentito davvero bene con lui e credo di essermi lasciato andare un po’ troppo, forse… forse ho detto cose che non dovevo dire…», il suo viso si chiazzò di rosso per l’imbarazzo.

Il fatto è che nemmeno io so che cosa significhi quello che ho detto.
Grace si tirò su seduta sulla chaise-longue e posò il mento nell’incavo delle mani, sospirando. «Ho capito. Vuoi che gliene parli, che gli dica qualcosa?».
«E che cosa potresti dirgli?», mormorò affranto.
«Che ti dispiace per aver detto quelle cose, che era l’alcool, che è tutto come prima», elencò, contando le opzioni sulle dita.
Bill però sobbalzò, lievemente preoccupato. «Ma io –!».
Si fermò appena in tempo, ma non abbastanza da sfuggire allo sguardo indagatore della detective.
«Bill, mi stai dicendo che ti piace Dylan?», gli domandò schietta, senza giri di parole, e lui si sentì mancare l’aria dai polmoni.

 

***

 

Suo fratello era strano al telefono, come se fosse preoccupato e tentasse di nasconderglielo. Aveva inoltre glissato le sue domande sulla sua improvvisa sparizione e quando gli aveva chiesto quando sarebbe tornato in ospedale da lui, si era sentito domandare se c’era Dylan nei paraggi. Suo fratello aveva decisamente qualcosa di strano e non vedeva l’ora di vederlo per poter leggere nei suoi occhi tutto ciò che voleva sapere.
«Mi dispiace davvero molto, signor Kaulitz, ma abbiamo l’ospedale sovraffollato e un paziente più grave di lei ha bisogno della sua stanza. Gliene daremo una singola appena le acque si saranno calmate», lo rassicurò un’infermiera, mentre spingeva la sua sedia a rotelle lungo il corridoio. Accanto a lei, un bodyguard nuovo di zecca e un agente della polizia che da quanto aveva capito si chiamava Oswin ed era il partner di Dylan. L'aveva raggiunto proprio quando l’infermiera era passata a prenderlo per il cambio di stanza e si era trovato costretto a fare il tragitto con lui. Tom aveva pensato di chiedere a lui delle spiegazioni sul caso a cui Grace teneva tanto e a cui aveva rinunciato, ma poi aveva pensato che non avrebbe fatto una bella figura e aveva lasciato perdere.
«Tanto non starò qui ancora a lungo, vero?», domandò all’infermiera, cercando un’altra risposta rassicurante: voleva tornare a casa, non ne poteva già più degli ospedali.
Lei gli sorrise candidamente, dicendo: «Dovrebbe essere dimesso in due o tre giorni, se non erro», e Tom ricambiò entusiasta: era quella la risposta che voleva sentirsi dire.
Lo portarono in una grande stanza, una camerata luminosa occupata già da tre pazienti molto più anziani di lui.
L’infermiera lo aiutò a sistemarsi sul suo nuovo letto, ma lui preferì fare da solo e se ne sorprese: che quel suo improvviso avvicinamento a Grace l’avesse cambiato tanto da rifiutare l’aiuto di un’infermiera carina e piuttosto disponibile?
Sta di fatto che quando questa se ne andò si trovò molto più a suo agio e si voltò verso destra, verso il suo unico vicino di letto, visto che dall’altra parte aveva il muro e poco distante la finestra. Non fece in tempo a salutare, che il vecchio incominciò a russare.
«Voglio andare a casa», borbottò, già annoiato al pensiero che avrebbe passato lì ancora due o tre giorni. Poi si ricordò di Oswin e lo vide fuori dalla camerata, che osservava quello che succedeva nella sala d’aspetto, dalla quale in effetti proveniva un certo vociare.
«Una rivolta dei pazienti?», sussurrò – per non svegliare il suo vicino – pieno di speranze.
Oswin scosse il capo, arricciando le labbra per reprimere una risatina. «Una ragazzina che si crede la sorella di Paris Hilton e pretende di andare da qualche parte – da qua non si capisce bene».
«Ci avviciniamo?», propose, con gli occhi ancora più luminosi.
Sia il suo bodyguard che il poliziotto lo guardarono con cipiglio perplesso e lui si scusò: «Potrebbe essere l’unica cosa interessante che io veda in questi giorni di reclusione!».
Oswin acconsentì con una scrollata di spalle – tanto lui sarebbe andato a vedere comunque – e il bodyguard del chitarrista non poté far altro che accontentare quel bimbo curioso.
La ragazzina in questione aveva anche lei il suo bodyguard e gridava come un’isterica nel bel mezzo della sala d’aspetto. Appena Tom la vide capì il motivo per cui Oswin l’aveva paragonata “la sorella di Paris Hilton”: capelli biondi, occhi chiari, vestiti griffati e quella punta di arroganza delle persone che pretendono di tutto senza dar conto a nessuno.
Tom si stava proprio divertendo nel vedere quella ragazzina fronteggiare ben due robuste infermiere, ma quando strillò: «So che la madre di Grace Schneider è ricoverata qui, io sono un’amica di Grace, davvero, e devo vederla!», sobbalzò sulla sua carrozzina. Quindi cercò di ricordare la voce della ragazzina che Grace lo aveva costretto a chiamare a Natale e si disse che se avesse smesso di gridare, sarebbe stata proprio la stessa. Che quella fosse davvero Molly, la ragazzina milionaria che aveva ingaggiato Grace per farlo seguire ventiquattr’ore su ventiquattro?
«Ehi!», intervenne, facendo calare un silenzio tombale nella sala, interrotto soltanto da qualche colpo di tosse scappato ad un paziente che insieme a qualche altro era stato spettatore del bello spettacolino che avevano organizzato per intrattenerli.
Molly si girò verso di lui e nel giro di pochi secondi il suo viso prima impallidì, poi arrossì ed infine perse ancora colore, tanto da fargli credere che sarebbe svenuta lì. Perlomeno era già in ospedale.
«Tu sei Molly, vero?», le chiese e la ragazzina annuì con un frettoloso cenno del capo. Allora le spiegò: «Adesso Grace non è qui. Devi dirle qualcosa di importante?».
«Beh, io… io, ecco…», il suo viso andò di nuovo in fiamme e fece finta di cercare qualcosa nella sua borsetta di Gucci per mandar via l’imbarazzo e non doverlo guardare negli occhi. «Ho saputo di sua madre e volevo soltanto dirle che… che, insomma, le sono vicina».
Tom sorrise dolcemente, intenerito, e con un cenno del capo indicò il corridoio alle sue spalle. «Dai, vieni con me».
«D-Dove?», balbettò, quasi terrorizzata.
Ma Tom non le rispose, si voltò ed iniziò a spingere le ruote della sua sedia a rotelle verso la sua nuovissima stanza. Molly lo seguì, lanciando un ultimo feroce sguardo alle infermiere che le si erano parate davanti quando era arrivata.
Il suo bodyguard e quello del chitarrista si trovarono l’uno affianco all’altro fuori dalla porta della camera, senza sapere che fare, e si misero a chiacchierare tra loro, discutendo animatamente su quale tipo di celebrità fosse la più difficile da seguire. Oswin, che era evidentemente capitato nel momento sbagliato, decise di andarsi a prendere un caffè.
Molly guardò la camerata in cui avevano sistemato il suo idolo e, inorridita, gli disse: «Se vuoi posso chiamare mio padre e dirgli di farti dare una camera singola. Ha finanziato lui gli ultimi lavori di ristrutturazione di questo ospedale, quindi non penso sia un problema per lui…».
«Oh, non ti preoccupare», le disse ridacchiando, sedendosi sul suo letto, rivolto verso la finestra. «A quanto pare al pian terreno capitano cose interessanti. Vuoi sederti?», le indicò la sedia appoggiata contro il muro e la ragazza la prese e l’avvicinò al suo letto.
«Allora…», Molly tossicchiò, imbarazzata: era arrivata lì sperando di vedere Grace, di darle un po’ di conforto, e guarda con chi era andata a finire! Nemmeno nei suoi migliori sogni era mai accaduta una cosa del genere.
«Grace mi ha raccontato che tu la pagavi per pedinarmi», esclamò interrompendola, anche se nella sua voce non c’era traccia di un rimprovero.
«Mi dispiace molto», si scusò però la ragazzina, col viso abbassato ancora una volta paonazzo.
«Non c’è bisogno che ti scusi, davvero. Certo, mi ha fatto un po’ effetto saperlo, ma… io ti devo ringraziare».
Molly aggrottò le sopracciglia, ripetendo: «Ringraziare?».
Tom annuì con un cenno del capo. «Se tu non l’avessi pagata per pedinarmi non l’avrei mai conosciuta e già questo, indipendentemente da tutto il resto, è qualcosa per cui ti devo davvero ringraziare».
La ragazzina abbassò gli occhi e quando li risollevò su Tom erano lucidi di commozione, mentre sulle sue labbra aleggiava un sorriso amaro, incerto, ma in fin dei conti contento per aver reso felice il suo idolo e Grace, quella che ormai considerava la sua migliore amica.
«Allora, chiamiamo Grace sì o no?», le chiese Tom, con un ampio sorriso sul volto.
Molly annuì e quel sorriso amaro divenne esclusivamente dolce.

 

***

 

Boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, senza riuscire ad articolare una frase di senso compiuto, forse perché nella sua mente non ce n’erano, in tutta quella confusione creatasi dopo la domanda bruciante di Grace.
A lui piaceva Dylan? Boh!
Era un bel ragazzo, questo l’aveva subito notato, col suo fisico possente e muscoloso e quel viso dai tratti decisi che quando sorrideva si addolcivano tanto da farlo sembrare un bambino; e quegli occhi neri che sembravano pozzi in cui perdersi in un oblio infinitamente piacevole.
La serata che aveva trascorso insieme a lui, a parlare e a bere, era stata una delle più belle e serene di quel periodo e aveva visto con occhi nuovi quel ragazzo che a prima vista non si sarebbe mai detto, ma era buono come il pane e si prendeva cura degli altri meglio che poteva.
Ricordava come si era messo a parlare con una bambina dalle origini indiane, di due anni o poco più, che passando accanto al loro tavolo si era incuriosita vedendolo in divisa. Il modo in cui le aveva sorriso, in cui le aveva rivolto la parola e in cui l’aveva ascoltata, facendole capire che era realmente interessato a ciò che diceva; in cui si era lasciato prendere per mano e in cui non aveva sciolto la presa, ma anzi l’aveva accarezzata, gli aveva fatto aprire il cuore in due e doveva essere sincero: non aveva mai visto un ragazzo comportarsi in quel modo tanto tenero e disponibile. E poi non poteva di certo dimenticare che lui l’aveva protetto, durante quella sparatoria!
Ma che questo bastasse per fargli provare per Dylan qualcosa di più dell’amicizia? Non lo sapeva proprio.
«Bill?», lo richiamò Grace, con un sorriso intenerito sulle labbra. «A me puoi dirlo, non ti devi vergognare. Siamo negli Stati Uniti! Qui non ci si vergogna di nulla ormai!», tentò di buttarla sul ridere, ma Bill non cambiò la sua espressione spaesata. Allora si alzò e si scambiarono le postazioni: il cantante si sdraiò sulla chaise-longue e l’investigatrice finì sulla poltrona.
«Ascolta, Bill…», riprese, con tono tranquillo e rassicurante.
«No, ascoltami tu, Grace!», la interruppe, con gli occhi spalancati. «Tu l’hai visto prima, no? Sei sicura che non ti abbia detto nulla, o che non fosse strano? Perché sai, io mi sento molto strano! Sono anche preoccupato, se vuoi la verità, perché non so che cosa provo per lui, non so che cosa sono io, e questa situazione è così strana!». Si infilò le mani tra i capelli e chiuse gli occhi, cercando di regolarizzare il suo respiro.
Grace, vedendolo così, si sentì proprio in colpa per avergli mentito e stava per dirgli tutto ciò che le aveva detto Dylan e quello che lei sospettava, ossia che anche il suo amico poliziotto non sapesse come muoversi in quella situazione ed avesse i suoi stessi dubbi, ma proprio in quel momento scorse un’auto della polizia fermarsi di fronte alla seconda entrata, quella che dava sul giardino sul retro, visibile dalle porte vetrate del salotto. Come sospettava e temeva, ne scese proprio Dylan, il quale suonò al piccolo citofono.
«Chi è?», domandò svogliatamente Bill, con un braccio sugli occhi, come se fosse esausto a causa del suo sfogo.
«È… ehm…».
Il cantante si tirò su seduto, allarmato, e trasalì quando vide Dylan.
Si accorse dell’aumento dei battiti del suo cuore, ma non ne fece parola con Grace, e provò a capire che cosa di lui lo facesse reagire in quel modo. Non ne cavò un ragno dal buco e, preso dal panico, mandò Grace ad aprire, mentre lui faceva finta di andare in bagno. Prima però le fece promettere di non dirgli nulla di ciò che le aveva confessato e inoltre le raccomandò di farsi dire qualcosa sulla serata che avevano trascorso insieme. A quel punto la detective capì di essere in mezzo a due fuochi e che se non si fosse spostata in fretta avrebbe finito per scottarsi.
Così gli posò le mani sulle spalle e lo guardò dritto negli occhi: «Penso che faresti meglio a parlargli tu».
«Ma… ma come?! No Grace, non puoi abbandonarmi adesso! Ho bisogno di te!», piagnucolò.
Dylan citofonò un’altra volta, spazientito, e Grace sospirò, abbattuta. «E va bene, ma solo per questa volta!».
Bill sorrise radioso e fece due saltelli sul posto prima di baciarle una guancia, per poi schizzare verso il bagno. Grace invece, convinta che avrebbe fatto meglio a tirarsene fuori sin da subito, aprì il cancello a Dylan e gli andò incontro attraversando il giardino.
«E tu… tu che ci fai qui?», balbettò Dylan, sorpreso di trovarsela di nuovo davanti dopo così poco tempo dalla loro discussione.
«Abbiamo lo stesso confidente», ipotizzò Grace sollevando le spalle, con l’accenno di un sorriso sulle labbra.
Dylan fece una smorfia per celare l’imbarazzo. «Bill non è il mio confidente, è che…». Si interruppe, rendendosi conto che il motivo per cui era andato a casa sua era ancora più imbarazzante del fatto di averlo per confidente.
«Ho dimenticato le chiavi di casa qui», mormorò, evitando i suoi occhi.
«Oh, ho capito».
Anche lei abbassò il capo, senza saper più cosa dire a causa del clima ancora di tensione che si respirava tra loro, derivato dalla loro discussione in ospedale.
Dopo un po’ di silenzio, si decise a romperlo facendo la scelta migliore della giornata. Si schiarì la voce e disse: «Mi dispiace per prima, io… non dovevo reagire in quel modo, perché tu avevi ragione; l’hai sempre avuta e avrei dovuto ascoltarti sin dall’inizio, ma… non l’ho fatto e quello che è successo in un certo senso me lo merito. Invece di proteggere i miei cari, li ho feriti e non mi perdonerò mai per questo».
I tratti del viso di Dylan si ammorbidirono e nei suoi occhi scuri tornò in parte la normale serenità che li rendeva luminosi. Le accarezzò una guancia e le prese delicatamente il mento fra le dita.
«A me pare che i tuoi cari ti abbiano già perdonata».
Grace scosse il capo, mestamente. «Temo che non mi basti».
Il poliziotto invece accennò un sorriso e le infilò un braccio tra le spalle. Quel gesto decretò la fine di ogni tensione fra loro, tutto era tornato come sempre, e insieme si avviarono verso il salotto di casa Kaulitz.
«Bill è in casa?», le domandò Dylan, impensierito, questa volta dall’altra questione che non gli permetteva di essere totalmente sereno: la presunta cotta di Bill che lo vedeva come protagonista.
«Certo», annuì la detective e come lo disse preoccupò ancora di più il poliziotto. «Si è ripreso dalla sbornia, sai?».
«Ah sì?», deglutì rumorosamente. «E… e ti ha raccontato qualcosa a proposito di ieri sera?».
«Sì».
«Dimmelo, che aspetti!?», saltò su Dylan, in allerta più che mai, come se ci fosse in gioco la sua vita.
Grace si voltò verso di lui, col volto serio, e concluse: «Mi ha fatto promettere di non dirti nulla».
«Oh, Grace…!».
Lei gli posò una mano sulla bocca, aggiungendo: «E detto questo, me ne tiro fuori definitivamente. È una cosa che io non posso risolvere, solo voi due ne siete in grado e, un consiglio, prima lo fate meglio è. Io sarò soltanto la spalla su cui piangere».
Dylan, sconvolto, la guardò entrare nel salotto e ripensando alle sue ultime parole, gli venne spontaneo chiedersi: Perché, ci sarà bisogno di una spalla su cui piangere? E la risposta gli fece così tanta paura che volle subito cancellarsela dalla testa, ma non ci riuscì. Non voleva ferire Bill, non voleva trovarsi in quella spiacevole situazione, ma per ora non vedeva altre vie d’uscita.
La seguì dentro casa e proprio in quel momento Bill uscì dal bagno, con un sorriso piuttosto plastico sul viso, come se lo avesse appena tirato fuori dalla confezione e se lo fosse appiccicato addosso.
«Oh, ciao Dylan», lo salutò con voce sorpresa, ma non troppo; poi si voltò verso Grace, sussurrandole: «Ci sono biscotti nuovi?».
Ma lei strabuzzò gli occhi, non capendo. «Biscotti nuovi?».
«Sì, ti avevo detto di… cercarli e poi di farmi sapere!», continuò con tanto d’occhi e con un cenno impercettibile del capo indicò il poliziotto, che si guardava intorno attendendo che avessero finito di bisbigliare.
«Oh. Oh! Sì, adesso ho capito!». Questo Bill, prima o poi mi farà impazzire! «No, mi dispiace, ma non ci sono biscotti nuovi in circolazione! Peccato!», concluse sollevando le mani, facendo un sorrisetto.
Bill le lanciò un’occhiataccia e stava per risponderle a tono, con chissà quale altra parola in codice, ma il cellulare di Grace si mise a suonare, interrompendolo.
«È tuo fratello», gli disse e si scusò anche con Dylan, per poi uscire nel giardino sul retro, sotto il porticato.
Così il poliziotto e il frontman dei Tokio Hotel rimasero da soli in salotto e l’atmosfera che si creò era intrisa di imbarazzo, tanto che entrambi avrebbero voluto scappare via al presentarsi della minima opportunità.
Bill fu in quel senso il più forte, perché si girò verso Dylan e gli sorrise candidamente, nonostante stesse andando in fibrillazione.
«Come mai di nuovo da queste parti?».
«Credo di aver dimenticato le chiavi di casa qui», rispose lui, tossendo nel bel mezzo della frase.
«Ah. E dove pensi che possano essere?».
«In… in camera tua, penso. Quando mi sono tolto la pistola e tutto il resto, credo di aver tirato via anche quelle perché in tasca mi davano fastidio…».
Bill accennò una risatina nervosa. «Okay, allora vado a vedere».
Si voltò verso le scale e con la coda dell’occhio vide il poliziotto seguirlo. Arrossì subito, senza nemmeno rendersene conto, e proseguì.
Una volta in camera sua, la ispezionò con gli occhi e la stessa cosa fece Dylan, standogli accanto.
Quella poca distanza che li divideva era una specie di tortura, perché oltre al desiderio di allontanarlo da sé, Bill ne aveva un altro – e ben più forte! – ossia quello di annullarla completamente. Al solo pensiero di stringersi fra le sue braccia si sentì girar la testa e fece un passo verso il letto, ipotizzando che forse le aveva abbandonate lì senza prestarci attenzione. Dylan non escluse l’ipotesi e lo aiutò a sollevare le coperte, per verificare se non si fossero infilate da qualche parte. Uno da un lato, uno dall’altro, ne sollevarono i lembi e vi si infilarono sotto; senza farlo apposta le loro fronti si scontrarono e quando alzarono gli sguardi incontrarono quello dell’altro e sembrò che lì sotto il tempo si fosse fermato. Si fissarono per un lasso di tempo indefinito, pensando e ripensando alla loro questione in sospeso, ognuno a modo suo, e se non fosse entrata in scena Grace chissà come sarebbe finita! Forse si sarebbe concluso tutto più in fretta, semplicemente.
«Ragazzi, ma che…?».
Entrambi si levarono furiosamente le coperte di dosso, tornando alla luce del sole, e guardarono la ragazza appoggiata allo stipite della porta con una mano, leggermente sconcertata. Quando li vide, rossi d’imbarazzo e a bocca aperta come pesci in agonia, scosse il capo e disse: «Devo tornare in ospedale da Tom, mi ha detto che c’è una persona che vuole vedermi urgentemente. Voi…?».
«Io vengo con te! – Io devo andare in centrale!», gridarono in sincronia Bill e Dylan.
Grace, sempre più convinta che ci sarebbero state un bel po’ di gatte da pelare con quei due, annuì frettolosamente e gli disse che avrebbe aspettato Bill in salotto.
Ancora una volta soli e ancora più imbarazzati di prima, si allontanarono l’uno dall’altro e non osarono alzare gli occhi da terra, per paura di incrociare quelli dell’altro. Dylan però ad un certo punto si mosse perché si ricordò che prima di addormentarsi, la sera prima, aveva lasciato cadere le chiavi per terra.
Fece mezzo giro del letto, si chinò a terra e sul pavimento trovò il suo mazzo di chiavi. Si tirò su trionfante e le mostrò il cantante, che fece molta fatica ad essere contento per lui, frastornato ed imbarazzato com’era.
«Okay, allora… allora vado», disse il poliziotto, accennando un sorriso. «Ci vediamo, eh». E detto questo se ne andò veramente, non avendo concluso nulla di buono e portandosi a casa un altro pacco di confusione, come se non ne avesse abbastanza.
Sotto quelle coperte, che gli era passato per la testa? Invece di spostarsi subito, come avrebbe dovuto, era rimasto ad osservare gli occhi nocciola di Bill e qualcosa di caldo si era diffuso nel suo petto.
In salotto incontrò Grace, la quale gli chiese con gli occhi delle spiegazioni riguardo ciò a cui aveva assistito, ma lui scosse il capo, amareggiato, e uscì dalle porte vetrate sventolando in aria le sue chiavi, il cui ritrovamento era l’unico obiettivo che aveva raggiunto.

 
Bill e Grace giunsero all’ospedale e per i corridoi non incrociarono nessuna infermiera di loro conoscenza che potesse avvisarli del cambiamento di camera di Tom, tanto che rimasero di stucco quando si trovarono di fronte ad un uomo che non avevano mai visto. Allora chiesero che fine avesse fatto il chitarrista e scoprirono che era in una delle camere del pian terreno che avevano superato proprio per andare a prendere l’ascensore.
Vi entrarono e Grace, scorgendolo sorridente a letto – l’unico sveglio nella grande stanza, – stava per dirgli della loro camminata, quando una testolina bionda si voltò verso di lei e due occhi chiari la fissarono intensamente.
Non fece in tempo a dire nulla, perché fu stretta in un abbraccio che le tolse il fiato e i capelli di Molly le accarezzarono le labbra, come a volerle dire di non aprile, che non ce n’era bisogno.
Era lì per lei e non vi erano dubbi.

 

***

 

Avevano trasgredito le regole ancora una volta, ma nemmeno i coinquilini di Tom si erano lamentati della presenza di Grace nel suo letto, così avevano dormito stretti stretti, lui steso col viso rivolto al soffitto e lei sul fianco, con un braccio ad avvolgergli la vita.
Quella mattina, fu lui a svegliarla con un bacio a fior di labbra ed accarezzandole i capelli.
«Devi andare?», le sussurrò languido, non volendosi staccare da lei. La ragazza annuì con il capo, stropicciandosi gli occhi, e si alzò sentendo le articolazioni irrigidite.
«E quando affiderai alla polizia il tuo caso, per te sarà tutto finito?».
«Finito. Finito, sì», mormorò Grace, facendo di tutto perché si convincesse lei stessa che quella fosse la realtà.
Era davvero giunta a quel punto? Le sue indagini erano state un tale disastro da costringerla ad abbandonarle, per non ferire ulteriormente le persone a cui voleva bene.
«E tutto il tempo che ti occupava questo caso, come lo userai?».
Quella domanda fu l’ennesimo colpo al cuore, che le fece stropicciare il viso in una smorfia.
Si avvicinò di nuovo a lui, posò un ginocchio sul materasso e la fronte contro la sua e gli prese il viso fra le mani.
Occhi negli occhi, bisbigliò: «Avete ancora bisogno di un bodyguard?».
Tom sorrise. «Un posto per te lo troviamo. Anche se speravo che ti offrissi di diventare la mia infermiera».
Le posò un lieve bacio sulle labbra, poi lei si scostò dolcemente e gli strinse la mano prima di uscire dalla camera.
Salì sul suo fuoristrada, che quella mattina guarda caso tentò di fermarla, facendo le bizze ad avviarsi, e si diresse verso il suo ufficio.
Il portiere del palazzo dormiva con un giornale di motori aperto sul viso e Grace non se ne lagnò poi molto: quell’uomo a pelle non le era mai piaciuto e non dovette far finta di non averlo visto per non salutarlo.
Salì le scale, si fermò di fronte alla porta del suo ufficio ed accarezzò il nome di suo padre sul vetro smerigliato. Quindi entrò nell’ufficio illuminato dalla debole luce di un normale mattino invernale e riempì uno scatolone con tutti i fascicoli e gli appunti che aveva raccolto durante gli anni spesi dietro quell’indagine, ma soprattutto nell’ultimo periodo, quando tutto era precipitato ed era stata travolta dagli eventi.
Una volta finito, chiuse con cura l’ufficio, nonostante non ci fosse più nulla di tanto prezioso, e scese le scale.
Trovò il portiere ancora addormentato, ma quando arrivò al portone qualcosa, la sensazione di essere osservata, la obbligò a posare lo sguardo su di lui e vide un suo occhio aperto sotto il giornale, che si affrettò a chiudere. Lo stomaco le si congelò in una morsa sterile e un’insofferenza ingiustificata le accartocciò il viso. Perciò si affrettò a caricare sui sedili posteriori lo scatolone e ad allontanarsi.
Fece un altro giro per arrivare alla centrale di polizia in cui lavorava Dylan, nell’Eastside. Passò di fronte al cimitero in cui era sepolto suo padre e con gli occhi umidi mormorò mentalmente: «Mi dispiace tanto, papà».
Poi accese la radio per riempire il silenzio che dentro la sua testa era solo un pretesto per pensare e ripensare a cosa aveva sbagliato in tutta quella vicenda.
Arrivò alla centrale fin troppo presto ed infatti vide Dylan parcheggiare la sua auto poco distante. Lo aspettò appoggiata al cofano del suo fuoristrada, con un piede sul paraurti. Dopo un cenno di saluto, in silenzio si fumarono insieme una sigaretta, poi Grace fece il giro del veicolo e tirò fuori lo scatolone. Lo posò nelle mani del suo amico, ma prima di mollare la presa chiuse gli occhi e strinse le labbra, ripetendo ciò che aveva mormorato a suo padre passando di fronte alla sua tomba.
Il poliziotto, con quello scatolone fra le mani, le rivolse un sorriso dolce e disse: «Tuo padre avrebbe fatto la stessa cosa se si fosse trovato nei tuoi panni».
Grace fece finta di essere d’accordo con lui, ma dentro di sé pensò che non era vero: lui non avrebbe fatto errori, avrebbe risolto il caso; lui non sarebbe mai arrivato a quel punto, lui – come aveva fatto – si sarebbe sacrificato per i suoi cari, non avrebbe mai permesso che gli fosse torto nemmeno un capello.
Ma lei non era come suo padre, doveva accontentarsi di essere stata pagata fior di quattrini per pedinare la superstar di cui si era innamorata.

 

 

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Buongiorno! Finalmente la seconda parte del capitolo numero 11, con il quale si chiude la prima parte di questa fanfiction! ;)
Vedrete infatti che nel prossimo capitolo ci sarà scritto: "Parte II". Di questo però ne parleremo la settimana prossima xD
Qui e adesso, invece, Molly ha incontrato Tom, il suo idolo! Non vi ha fatto molta tenerezza, il momento in cui la ringrazia per avergli fatto in qualche modo conoscere Grace? *^* Ma anche l'affetto che la ragazzina prova per la detective è molto bello e vero :)
Per quanto riguarda quei due, Bill e Dylan, invece... voi che ne pensate? Riusciranno mai a parlarne senza usare Grace come intermediaria? xD
E poi la fine... la fine! Credo sia la parte uscita meglio :) Voi che ne dite? Ci sarebbero tanti particolari da far notare, ma voglio vedere chi è attento e sa porsi le domande giuste ;)
Ringrazio tutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo, chi legge soltanto e chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate!
A lunedì prossimo, baci! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Ciao a tutti! :) Come vi avevo annunciato alla fine del capitolo precedente, qui inizia la seconda parte della storia, con Grace che non si occupa più del caso e tutto ciò che ne conseguirà. Ma per quanto tempo riuscirà a tenersi lontana dalle indagini? Chissà...
Sono felice inoltre di dire che dopo lo scorso capitolo, diviso a metà per la lunghezza improvvisa, ora siete pronti a sorbirvene uno lungo nella sua interezza, senza stacchi u_u (Spero che non vi annoiate a leggerlo tutto in una volta! xD) E abituatevi perchè d'ora in avanti saranno più o meno tutti lunghi così ;)
Ribadisco che tutto ciò che è scritto qui è frutto della mia fantasia e non voglio dare rappresentazione veritiera dei personaggi che uso, soprattutto in questo caso i parenti di Bill e Tom.
Credo di aver detto tutto... Ma non è vero! Devo ringraziare tutte quelle sante persone che hanno sempre cinque minuti per recensire, che leggono e che hanno messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate! Non vi ringrazierò mai abbastanza :D
Ora sì che ho detto tutto. A lunedì prossimo! Vostra,

_Pulse_

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PARTE II

 
Capitolo 12

“I know the memories rushing into minds
I want to kiss your scars tonight
I'm laying here
You gotta try, you gotta let me in, let me in”

(Heartbeat – The Fray)

 

Affidare a Dylan tutto il suo lavoro svolto sul caso di suo padre era stato come definirlo irrisolto e abbandonarlo.
L’unico scopo certo che aveva avuto in tutti quegli anni era venuto a mancare e questo aveva segnato l’inizio di una nuova vita per Grace, la quale aveva avuto come la sensazione di dover ricominciare tutto da capo, a tentoni. Non sapeva nemmeno se aveva ancora senso continuare quella professione, visto che l’unico motivo per cui l’aveva intrapresa era stato per suo padre. Ma aveva paura che abbandonata anche quella avrebbe davvero brancolato nel buio.
Così, mentre pensava a cosa fare, aveva chiuso l’ufficio e si era presa una vacanza per stare vicina a Tom che veniva dimesso dall’ospedale e, soprattutto, per assistere ancora di più sua madre, bisognosa di tutte le attenzioni possibili.
Che la sua vita sarebbe cambiata era fin troppo ovvio, ma ancora non immaginava in quale mondo si sarebbe trovata immersa. Ne ebbe un assaggio proprio il giorno in cui Tom venne dimesso dall’ospedale.
«Sei pronto?».
Tom si girò e le sorrise candidamente, stirandosi addosso il maglioncino marrone che si era infilato.
«Sì. Com’è la situazione là fuori?».
«È pieno di giornalisti e paparazzi», rispose per lei un bodyguard.
«Quindi che si fa?», domandò Grace, imbronciata. «Useremo l’uscita sul retro?».
«Brava», si complimentò Tom, facendo finta di essere sinceramente colpito dalla sua intuizione.
Grace, però, si sorprese davvero: veramente si abbassavano ad usare le uscite sul retro?
«Ti abituerai presto», le sussurrò il chitarrista, passandole accanto e posandole un bacio sulla fronte.
Abituarsi, certo. Bastava solo quello, giusto? E poi, una volta abituata alla sua nuova vita priva di quell’indagine, tutto sarebbe andato di bene in meglio.
C’era già un auto che li aspettava e il tragitto che dovevano fare era davvero ridotto al minimo e alcuni bodyguard avevano fatto in modo di distrarre i paparazzi, facendogli credere che sarebbero usciti dall’entrata principale, ma ce ne fu uno, uno molto scaltro oppure molto fortunato, che li beccò mentre uscivano facendo lo zig-zag tra i veicoli dell’ambulanza parcheggiati nel grande garage dell’ospedale.
«Ehi, piccioncini, guardate qui!», gridò, prima di scattare le sue foto.
Grace si coprì il viso con un braccio, infastidita dai flash e dal fatto che fosse diventata il soggetto delle foto che a volte aveva fatto anche lei, e si affrettò a raggiungere l’auto, senza badare all’impulso di tirar fuori la sua Glock e di scaricarla addosso a quel provocatore.
Una volta al sicuro, dietro i vetri oscurati, si girò verso Tom, seduto al suo fianco sui sedili posteriori, e lo guardò con gli occhi spalancati.
«Ti prego, dimmi che non si riferiva a noi quando ha detto piccioncini».
Lui ridacchiò. «C’era qualcun altro?».
«Oh», sospirò gettando la testa all’indietro, ma presto si trovò a sorridere, pensando alla sorpresa che gli avevano preparato a casa.


***

 
Sfogliò ancora una volta i fascicoli che aveva tra le mani e non poté fare a meno di pensare ad alta voce: «Tutto questo, Grace l’ha scoperto da sola?».
Oswin si avvicinò alla sua scrivania, con una mano sul fianco e una sulla testa. «Non l’hanno aiutata anche quei marines…?».
«Già, è vero!».
Si massaggiò il mento, meditabondo. «Chissà che fine hanno fatto quei due. Grace non me ne ha più parlato».
Il suo partner scrollò le spalle. «Ha così tante cose per la testa, quella povera ragazza».
«Sì, in effetti è stata così impegnata coi preparativi di quella stupida festa “Ben tornato a casa Tom”…», sbuffò, tenendosi il viso fra le mani. «Da quando si è avvicinata a quella sottospecie di… Non la riconosco più, sul serio».
Oswin scosse lievemente il capo, accennando un sorriso mentre si sedeva di fianco a lui, con un piede sulla sua scrivania.
«Sei ancora innamorato di lei, eh?».
In risposta Dylan si nascose il viso fra le braccia, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Non pensava di essere ancora innamorato di Grace, come non pensava che fosse una buona idea abbandonare quella scusa: fare finta, provare ad auto-convincersi di questo, magari l’avrebbe aiutato a levargli Bill dalla testa, la sua preoccupazione fissa.
«Ho capito, dai», disse alla fine Oswin, dandogli un manrovescio sul braccio. «Sarebbe stato carino comunque da parte sua invitarti».
«Oh, l’ha fatto! Ma non penso che ci andrò». Non posso rischiare di restare da solo con Bill!
«Da te questo non me l’aspettavo proprio: da quando ti fai i complessi d’inferiorità? Con quel Kaulitz, poi!», rise di gusto, tanto che fece adirare il collega.
«Io sono migliore di Kaulitz e su questo non ci sono dubbi! Se volessi riconquistarla, potrei farlo anche ad occhi chiusi!».
«Bene!», esclamò soddisfatto Oswin. «Quando inizia la festa?».
Dylan guardò di fronte a sé e capì di essersi cacciato nell’ennesimo guaio.

 

***


«Bill è strano in questo periodo, non trovi?».
Grace si voltò verso Tom e lo guardò con cipiglio perplesso, nonostante sapesse benissimo di cosa stesse parlando, anzi, nonostante sapesse molto più di lui – impossibile ma vero – rispetto a ciò che stava succedendo al cantante.
«In che senso?», gli domandò, per essere certa dei suoi sospetti e intanto guadagnare tempo per riflettere sul da farsi.
Bill le aveva proibito di parlarne con Tom e, per quanto tenesse a lui e non volesse tradirlo, dentro di sé non le sembrava giusto: lei era figlia unica, ma credeva fortemente che in un rapporto come il loro non ci dovessero essere segreti, anche perché era una cosa talmente importante… Se Bill si era innamorato – di Dylan tra l’altro! – Tom aveva il diritto di saperlo, visti anche i precedenti tra loro due e il loro non ottimo rapporto attuale. Se non vi prestavano la giusta attenzione, rischiavano di uscirne bruciacchiati tutti e quattro.
«Lo conosco da prima che nascessimo, lo sento quando Bill è strano», sentenziò Tom, con le sopracciglia aggrottate e uno sguardo eloquente. «Inoltre, è ormai ovvio che mi sta nascondendo qualcosa. Ma cosa? Non ci sono mai stati segreti fra noi, non capisco per quale motivo possa comportarsi così…».
«È stato un periodo difficile per tutti e credo che per Bill, conoscendolo, sia stato piuttosto stressante e traumatico vederti con una pallottola in corpo. Poi si è occupato molto anche di me, sai? Mi è stato molto vicino… Si è accumulato sulle spalle anche parte della mia tensione e magari sta riuscendo a smaltirla solo adesso. O magari è solo una tua impressione».
Tom rimase in silenzio per un po’, a riflettere, e alla fine rimase sulla sua posizione. Non lo disse a Grace, non gli andava proprio di continuare a parlarne, perché solo al pensiero che Bill stesse attraversando un periodo difficile senza renderlo partecipe l’ansia lo assaliva.
Allora le infilò un braccio intorno al collo, facendole posare il capo sulla sua spalla sinistra, e sospirò: «Spero che torni presto il solito Bill di sempre».
Grace si morse le labbra, sentendolo così avvilito, e odiò Bill coi suoi segreti, odiò Dylan con i suoi ed odiò anche se stessa per essersi lasciata mettere in mezzo a quella storia in cui non c’entrava nulla.
Ne era certa, avrebbe sicuramente detto qualcosa di azzardato per consolarlo, qualcosa che gli avrebbe fatto intuire che lei sapeva, ma a salvarla – o a prolungare la sua pena, dipende dai punti di vista – fu il suo cellulare con un bip bip.
Lo tirò fuori dalla tasca e appena vide chi era l’emittente capì che doveva essere successo qualcosa.
Con la coda dell’occhio vide Tom che cercava di sbirciare, allora gli rivolse un sorrisino e senza dargli il tempo di capire ciò che voleva fare gli gettò le braccia al collo e lo baciò con trasporto. In quel modo lo distrasse abbastanza da poter socchiudere un occhio e, tenendo il cellulare dietro la sua nuca, leggere velocemente il messaggio di Molly:

 

C’è stato un imprevisto, dobbiamo guadagnare tempo. Passa a casa mia, sai dov’è, sarò lì ad aspettarvi.

 
Tom non si era accorto proprio di nulla e quando Grace si scostò dolcemente da lui e tornò a sedersi in maniera composta sul sedile, la guardò soddisfatto del suo spirito d’iniziativa, dimentico dell’SMS e di tutto quello che gli era passato per la testa in quegli ultimi venti minuti.

Ah, gli uomini, pensò Grace sorridendo sotto i baffi. Poi si sporse verso l’autista e gli disse che la loro destinazione era cambiata.
Dopo avergli dato il nuovo indirizzo, quello di casa Delafield, tornò a sedersi tranquillamente accanto a Tom, il quale però non sembrava dello stesso umore pacifico.
«Che storia è questa? Io voglio andare a casa!».
«Scusami caro, ma mi è appena tornato in mente che devo parlare assolutamente con Molly a quattr’occhi; è questione di un minuto», e gli posò un bacetto sulle labbra, tenendogli il viso fra le mani.
«Caro?! Mi stai prendendo per il culo?!», strillò lui, fissandola sbalordito, non capendo più niente.
Lei rise piano e lo baciò ancora e ancora, nonostante lui tentasse di divincolarsi e volesse delle spiegazioni. Alla fine fu costretto a cedere ai baci di Grace, che lo calmarono più della morfina.

 
Arrivarono a casa di Molly e Tom riprese a brontolare, dicendo che era stanco, che essendo ancora convalescente aveva bisogno di calma e di riposo, che non poteva portarselo dietro come se fosse un cagnolino…
Grace si abituò alla sua voce petulante nell’orecchio e dopo un po’ non vi badò più.
Suonarono al citofono e due telecamere super-tecnologiche poste sopra i piedistalli con tanto di leoni sulla cima, in cui era incassato l’enorme cancello bianco, si mossero fino ad inquadrarli; poi una voce maschile, pacata e monotona, gli chiese chi fossero.
«Grace Schneider».
«La signorina l’aspettava con ansia. Prego, entri pure con l’auto».
La comunicazione terminò e il cancello si aprì maestosamente di fronte a loro.
I due si guardarono, stupefatti, e poi Tom disse: «Dici che quello al citofono era il maggiordomo?».
Grace sgranò gli occhi, non avendone la più pallida idea ma sospettandolo fortemente.
Dall’esterno, salvo l’immenso giardino stile Versailles, la villa della famiglia Delafield era proprio la tipica villa hollywoodiana, vagamente somigliante alla Casa Bianca grazie alle sue forme bombate e al colore.
L’autista parcheggiò l’auto nel grande garage all’aperto in cui scintillavano in bella mostra parecchie auto d’epoca.
Grace e Tom scesero e intravidero subito l’uomo alto e risoluto, vestito con la classica divisa da maggiordomo, uscire dalle grandi porte vetrate a quadretti che si aprivano sulla facciata bombata della casa, fare il giro della piscinetta di fronte all’entrata ed andargli incontro.
Non si presentò, li condusse con modi gentili all’interno della magnifica villa e attraversarono, stupefatti, un grande quadriportico interno, col pavimento in ciottolato, molti fiori dalle tonalità sgargianti e alcuni alberi.
Già attraversando quel cortile interno Tom e Grace si sentirono parecchio disorientati: le sembianze di villa hollywoodiana si erano già del tutto perse, sembrava di essere in un altro luogo.
Quella loro idea non poté che rinforzarsi e divenire definitiva quando giunsero finalmente in un sontuoso salone, illuminato da ben quattro porte finestre che davano sull’altra, enorme, piscina nel giardino, e dai colori tenui che predominavano: il bianco della pelle dei divanetti posti intorno ad un tavolino basso dalle gambe intagliate finemente, il giallo canarino delle tende, il verde chiarissimo delle piante che adornavano gli angoli del salone, e l’oro con cui era rifinito tutto il mobilio della stanza, compreso l’antico arazzo appeso alla parete e il lampadario a gocce di cristallo che pendeva nel bel mezzo di un soffitto completamente affrescato con una serie di…
«Si chiamano Vedute siciliane».
Grace e Tom, entrambi a bocca aperta e col naso all’insù per vedere gli affreschi, abbassarono gli occhi contemporaneamente e videro Molly seduta su una poltroncina dalle imbottiture blu e dorate accanto ad una delle porte vetrate. Addosso aveva una vestaglia leopardata, ma l’investigatrice era certa che fosse rigorosamente di seta; i capelli biondi erano sciolti sulle spalle e acconciati in morbidi boccoli; era truccata con mascara e matita nera intorno agli occhi chiari e un velo di lucidalabbra rosato sulla bocca.
«Vi piacciono?», gli chiese con un sorriso tenue, alzandosi e spostandosi su uno dei divanetti attorno al tavolino.
Intanto che aspettava la loro risposta li invitò ad accomodarsi e chiese al maggiordomo, rimasto immobile accanto alle porte del salone senza che i due se ne accorgessero, di portare tre bicchieroni di Coca Cola.
Quando furono soli, Molly sorrise più apertamente e si svaccò sul divanetto, lasciando che un piedino nudo toccasse il tappeto prezioso e l’altro penzolasse giù dal bracciolo. Sembrava una piccola Venere in posa per un famoso e privilegiato pittore. 

«Mio padre  e mia madre sono andati in luna di miele in Sicilia e si sono innamorati così tanto di quella terra che se ne sono portati un po’ a casa», spiegò stendendo il braccio e ruotandolo intorno a sé, ad indicare tutto ciò che vedevano.
«È meraviglioso», soffiò l’investigatrice, dando ancora un’occhiata estasiata a ciò che la circondava.
«Sai, l’avevo intuito», esclamò invece Tom, picchiettandosi il pugno nel palmo della mano. «Io e Bill siamo stati a Catania una volta e abbiamo fatto un…».
«Set fotografico per L’Uomo Vogue in un palazzo del diciottesimo secolo», gli tolse le parole di bocca la ragazzina, sorridendo furbescamente.
Lui ricambiò, arricciando le labbra. Poi, spinto dalla curiosità, disse: «Allora, che cosa avete di tanto urgente da dirvi tu e Grace?».
«Oh sì, certo», disse sbadigliando, come se nulla fosse. «In realtà avrei bisogno di parlare con Grace da sola, se non ti dispiace».
«Ah, beh, io…», balbettò Tom, lanciando un’occhiata di fuoco alla detective che l’aveva portato lì, contro la sua volontà, per niente.
L’avrebbe detto anche ad alta voce e si sarebbe sfogato per bene, se solo il maggiordomo non avesse bussato delicatamente alla porta di legno massiccio color noce con un vassoio d’argento fra le mani, sul quale c’erano i tre bicchieri con la Coca Cola e delle ciotoline con stuzzichini e patatine. Lo posò sul tavolino con grazia e chiese a Molly: «Le serve altro, signorina?».
«No, grazie, puoi andare», gli rispose distrattamente, con una mano già protesa verso le patatine. Poi all’improvviso qualcosa la fece tornare indietro e chiese ancora al maggiordomo: «Sai dove sono mamma e papà?».
Si era sforzata di mantenere lo stesso tono distratto ed indifferente, ma Grace si era subito resa conto di quanta fatica le fosse costato e di come fossero stati scarsi i risultati: gliela si leggeva negli occhi, quella tristezza profonda che l’assaliva quando si parlava dei suoi assenti genitori. Perché lei poteva avere e aveva tutto, ma le mancava proprio la cosa più importante: un po’ d’amore da parte di coloro che l’avevano data alla luce.
«Sì, signorina: il signor Delafield è ancora nel suo studio; la signora Delafield invece è uscita poco fa, ma non so dove sia andata. Probabilmente la governante lo sa, vuole che glielo chieda?».
«No, no, non importa», sospirò con un gesto vago della mano. «Ora vai pure, grazie».
Il maggiordomo abbassò il capo in un mezzo inchino e fece per uscire dal salone, quando Molly lo richiamò per la terza volta: «Anzi no, aspetta! Mi è venuta un’idea», accennò un sorriso, guardando Tom negli occhi. «Mentre io e Grace parliamo, perché non fai vedere il resto della villa al signor Kaulitz?».
«Con molto piacere», rispose il maggiordomo, mettendosi da parte per far uscire prima il “signor Kaulitz”, il quale si alzò e gettò un’occhiata alle due ragazze prima di lasciarle sole.
Grace non esitò un attimo e le fu seduta accanto, con una mano fra i suoi capelli e la guancia posata sulla sua fronte, a mo’ di conforto.
«Ehi, che c’è?», le domandò la ragazzina, anche se con poca voce e gli occhi cerulei colmi di fragilità.
«Molly, quand’è che vedi i tuoi genitori di solito?».
«Io… a cena, se va bene…», sospirò nuovamente, quella volta lasciando che tutto ciò che si era tenuta dentro uscisse fuori, rendendola più leggera. «Ormai però ci sono abituata e non siamo qui per parlare di questo».
«Ma…!», tentò di ribattere la detective, ma Molly glielo impedì parlandole sopra:
«La madre e il patrigno di Bill e Tom non sono ancora atterrati a Los Angeles, c’è stato un problema all’aeroporto di Amburgo e sono partiti un po’ in ritardo. È questo l’imprevisto per il quale dobbiamo guadagnare tempo prima di portare Tom a casa. Io ve l’avevo detto, dicevo a mio padre di mandare uno dei suoi jet privati a prenderli, ma voi non mi avete voluto ascoltare e questi sono i risultati!».
Grace sollevò le spalle, come a scrollarsi di dosso l’amarezza provocatale dal fatto che Molly non avrebbe più parlato dei suoi genitori, inutile insistere. La guardò e sorrise dolcemente, dicendo: «Quindi tu sei corsa qui, ti sei infilata la vestaglia sopra il vestito che ti eri messa e…».
«Ah, come hai fatto! Sono stata attenta a non far vedere nulla!», piagnucolò, alzandosi e togliendosi la vestaglia.
«Intuito. Però una persona in vestaglia non dovrebbe essere truccata, ecco».
Molly sbuffò col naso e una volta abbandonata sul divanetto la vestaglia, fece un giro su se stessa, mostrando all’investigatrice il vestitino lilla che si era messa per la festa che lei e Bill, soprattutto, avevano organizzato con tanto impegno, visto che Grace si era rivelata una vera schiappa, eccetto nel gonfiare i palloncini.
«Come mi sta?», le domandò, posando le mani sui fianchi.
«Benissimo. Avevi dubbi?».
Si sorrisero e pensarono al povero Tom in balia del maggiordomo, in giro per quell’enorme casa quasi del tutto disabitata. Per non pensarci più si misero a bere Coca Cola e a mangiare patatine e stuzzichini.

 

***

 

«Bene, tutto si è momentaneamente sistemato», disse Bill fra sé. «A Tom ci stanno pensando Grace e Molly, mamma e Gordon dovrebbero arrivare tra poco e qui è tutto pronto».
A quell’ultima affermazione si guardò intorno, circospetto: sembrava che nel salotto si sarebbe svolta una festa per bambini dell’asilo: c’erano palloncini colorati ovunque, un tavolo su cui avevano sistemato tutte le bibite e le cibarie per il buffet – le scorte di alcool erano nascoste nella dispensa e ancora a raffreddarsi in frigo – e striscioni e bandierine pendevano da una parte all’altra del soppalco, sopra le loro teste. Nel giardino sul retro, per fare un paragone, si sarebbe svolta la parte della festa riservata ai soli adulti: Gustav e Georg avevano trovato un piccolo gazebo in garage, lo avevano montato e sotto di esso si trovava un altro tavolino per un piccolo aperitivo all’aperto. Inoltre, sempre loro due, contavano di poter fare un bel barbecue, visto che le temperature miti della California, lo Stato del sole, lo consentivano. Bill non era stato molto d’accordo, essendo lui e suo fratello vegetariani ormai da parecchi anni, ma non poteva di certo costringere tutti a non mangiare carne solo per la sua scelta. Allora aveva acconsentito, dicendo però che la carne avrebbero dovuto comprarsela loro e loro avrebbero dovuto cuocersela.
Molly, invece, la sua collaboratrice numero uno, aveva organizzato nell’altra parte del giardino e sotto il porticato una zona living all’aperto con tappeti, cuscini e puff di tutti i generi. Poi, per rendere l’atmosfera più romantica al calar della sera – parole sue – aveva fatto appendere dall’autista della sua limousine diverse file di piccole luminarie che a cielo aperto sarebbero sembrate tante lucciole.
Si torturò il labbro inferiore, chiedendosi se non avesse dimenticato qualcosa, e in quel momento entrarono in salotto Gustav e Georg, di ritorno dal supermercato con una scorta di carne che avrebbe sfamato un intero branco di lupi per diversi giorni.
Bill trattenne il senso di nausea che gli salì alla gola e chiese agli amici: «Ho dimenticato qualcosa?».
I due si fissarono, poi posarono gli sguardi su di lui e il più coraggioso, Gustav, innescò la bomba a mano: «Per caso ti devi cambiare, prima che arrivi Tom, o resti in tuta?».
Bill, inorridito, abbassò gli occhi sul suo abbigliamento casalingo e bianco cadaverico corse su in camera sua a cambiarsi e a truccarsi.
Ecco cosa aveva dimenticato!

 
Bill era rintanato in camera sua da più di mezz’ora, quando Gustav e Georg, impegnati a salare la carne che avevano comprato per il barbecue, sentirono suonare il citofono della seconda entrata, quella del giardino sul retro.
Si guardarono, chiedendosi chi fosse, e per un breve attimo gli passò per la testa l’idea che Tom avesse fatto così tante storie da costringere le due a portarlo a casa senza dargli il tempo di avvisare. Poi decretarono la cosa impossibile: Grace e Molly non l’avrebbero mai permesso! Allora chi era? Che fossero arrivati la madre e il patrigno dei gemelli? Perché entrare dal retro?
«Senti, Georg, vai a vedere», disse Gustav. «Io finisco qui».
Il bassista si affacciò da una delle porte finestre e oltre il piccolo cancello vide parcheggiata un’auto della polizia e quello che molto probabilmente era un agente in borghese.
Sbiancò e corse di nuovo dentro, strillando a bassa voce al batterista: «Un poliziotto! Ma la festa non è ancora iniziata, non può dirci che disturbiamo la quiete pubblica!».
«Che cosa sta succedendo qui?», chiese Bill, entrando in cucina.
Indossava una camicia a quadretti blu e neri, le maniche lunghe arrotolate sulle braccia, sotto una maglietta nera e un paio di jeans chiari, stretti; ai piedi un paio di scarpe da tennis, giusto perché non aveva voglia di indossare i tacchi. Nella tasca posteriore dei jeans, in più, aveva un cappellino grigio semplice, da indossare appena si fosse alzata quella brezza leggera che con l’arrivo della sera lo avrebbe fatto rabbrividire.
«C’è un poliziotto in borghese, fuori; ha citofonato», gli spiegò Georg, ancora scosso.
Il frontman prima aggrottò le sopracciglia, confuso, poi il suo viso perse colore e i suoi occhi castani, contornati da ombretto e matita neri, si spalancarono fino all’inverosimile.
Ecco, ecco perché aveva sgridato Grace quando gli aveva confessato di aver invitato Dylan alla festa per suo fratello: perché non voleva trovarselo tra capo e collo all’improvviso. Ma, purtroppo per lui, quella sgridata non aveva cambiato le cose e Dylan, all’improvviso, gli era piombato tra capo e collo.

 
Intanto Dylan, ancora fuori dal cancello, provò a citofonare di nuovo, appoggiandosi con un braccio ad uno dei due pilastri che reggevano la tettoia, inglobata totalmente dalla siepe che circondava il giardino sul retro assieme alla rete metallica.
Lo sapeva, ne era certo, che avrebbe fatto meglio a non cogliere la provocazione di Oswin e a non presentarsi, ma lì per lì non aveva riflettuto e ora il suo orgoglio l’aveva portato fino a lì, con il cuore improvvisamente di piombo, ad ammettere che l’affetto che nutriva per Grace non era più amore (ma ne era comunque geloso come lo sarebbe stato un fratello nei confronti della sorellina più piccola) e che ciò che realmente lo preoccupava in quella casa non era il confronto con Tom, bensì con il suo gemello.
Non voleva vederlo, decisamente no, meglio rimandare ancora la questione. Diceva sempre così, ad un passo dal loro chiarimento su quella famosa serata trascorsa insieme e sulle loro parole dette in macchina. Una volta a casa, però, diceva sempre il contrario, ossia che doveva vederlo, che dovevano chiarirsi il più presto possibile. Gli mancava il coraggio, ecco cosa! E come avrebbe spiegato tutto quanto ad Oswin, il quale sicuramente, il giorno dopo, avrebbe voluto un resoconto dettagliato della festa?
Gettò un’occhiata verso le porte vetrate del salotto e vide che ancora nessuno dava segni di volergli aprire. Allora fece retrofront e stava per salire sulla sua auto d’ordinanza, escogitando un imprevisto che non gli aveva permesso di andare alla festa, quando sentì il cancelletto schiudersi dopo una scossa elettrica. Sollevò il capo e vide Bill attraversare il giardino con gli occhi bassi e le mani nelle tasche dei jeans.
«Ehi», lo salutò sorpreso, ma anche ansioso.
Bill accennò una risata soffiando l’aria dal naso e sollevò il viso da terra per incontrare gli occhi scuri di Dylan, che lo trapassarono da parte a parte.
«Ciao», lo salutò. «Grace mi aveva detto che ti aveva invitato, ma non pensavo che saresti venuto».
«Beh… nemmeno io», gli confessò e dopo un attimo di pausa si sorrisero, avviandosi entrambi verso il salotto.

 

***

 
Quando Tom tornò dal suo giro turistico non evitò di lamentarsi con Molly e Grace, che l’avevano lasciato solo con quel maggiordomo inquietante. (Perché un po’ inquietante lo era, secondo il suo parere).
«Non ti è piaciuta?», gli chiese Molly, chiudendosi ancora meglio la vestaglia sul petto.
«Oh no, la tua casa è bellissima, anche se non è definibile una casa: è una reggia! Solo che, ecco, sareste potute venire anche voi!», si lagnò imbarazzato.
«La prossima volta, allora», gli promise.
Quindi si alzò dal divano e Grace la imitò, prendendo il chitarrista sotto braccio.
«Beh, grazie mille Molly, sei stata gentilissima a ritagliarmi un po’ del tuo tempo oggi. Sai, era una questione un po’ spinosa e seguirò sicuramente i tuoi consigli. Grazie ancora», recitò divinamente Grace, come se davvero avessero fatto un discorso del genere.
«Non c’è problema Grace, sai che su di me puoi sempre contare», le sorrise e si scambiarono un frettoloso abbraccio. Poi il maggiordomo, ricomparso magicamente, li fece uscire dal salone e li accompagnò verso la loro auto.
L’autista, che li aveva aspettati a bordo piscina, con un cocktail fra le mani, appena li vide tornare si sistemò il nodo della cravatta e tornò al suo posto di guida, dispiaciuto che la loro visita fosse durata così poco: non aveva fatto in tempo ad abbronzarsi.
«A casa?», gli domandò, mettendo in moto e percorrendo al contrario il sentiero che li aveva portati fin lì.
Grace, consapevole grazie a Molly che finalmente i genitori di Bill e Tom erano arrivati, annuì stringendo la mano di Tom, il quale la guardò con un’espressione strana sul volto, senza trovare la forza di chiederle il perché di quel sorriso sereno e così bello.
Le chiese però della “questione spinosa” di cui avevano parlato lei e Molly in sua assenza e Grace lo liquidò in fretta, dicendo che avevano ufficialmente stabilito che il loro contratto era concluso.
«Solo di questo?», domandò stupito.
Lei ribatté: «E di cos’altro?».
«Sembrava una cosa più importante», borbottò e lasciò perdere, deluso.
Dopo quasi venti minuti di viaggio finalmente arrivarono a casa Kaulitz e Grace si sentì tutta un brivido, eccitata come una bambina il giorno di Natale, e non poté impedirsi di sorridere in modo fin troppo solare. Tom se ne accorse, come se n’era accorto la prima volta, ma quella volta la fermò ad un passo dalla porta d’ingresso e la guardò intensamente negli occhi per capire che cosa stesse tramando.
«Che c’è?», gli domandò lei, sul chi vive.
«Che cosa mi stai nascondendo?».
«Nulla, Tom, nulla», mormorò prendendogli il viso fra le mani e posandogli un dolce bacio a stampo sulle labbra, ad occhi socchiusi. «Sono solo contenta che tu sia tornato a casa, che tu stia bene».
Tom si rasserenò e intenerito le concesse ancora qualche effusione, poi tirò fuori dalla tasca dei pantaloni le chiavi di casa e aprì.
Grace trattenne il respiro, lasciandolo andare per primo, e quando Tom fece un passo dentro il salotto venne travolto da un urlo che lo fece sobbalzare: «Bentornato a casa, Tom!».
Disorientato guardò i coriandoli che dopo un piccolo scoppio erano volati dappertutto nel salotto, poi sentì gli applausi e i fischi ed iniziò a focalizzare tutte le persone presenti: Bill, Georg, Gustav, Molly, persino Dylan! Ma la sorpresa più bella la ebbe quando vide sua madre con gli occhi lucidi fare un passo fuori dal gruppo compatto e corrergli incontro con le braccia aperte per stringerlo, incapace di contenere la sua gioia.
«Mamma!», gridò meravigliato, ricambiando il suo abbraccio. Non poteva crederci.
«Gordon, ci sei anche tu! Oh, Dio, è…», si arrestò e si voltò di scatto verso Grace, la quale si accingeva a chiudere la porta solo in quel momento. Quando ebbe i suoi magnifici occhi verdi a disposizione, li fissò con un amore infinito, tanto che Grace sentì un tuffo al cuore, ed esclamò: «È opera tua! È per questo che oggi mi avete sballottato di qua e di là, era tutto per…».
Sciolse l’abbraccio con sua madre per andare da lei, ma Grace portò le mani avanti, arrossendo sulle guance: «Non è opera mia, è opera nostra», disse, indicando anche tutti gli altri presenti. «Soprattutto di Bill e Molly, vai a ringraziare loro».
Tom la guardò ancora con quell’amore negli occhi, fino a quando il suo sguardo non si fece malizioso e fu come se le avesse detto: “Tanto a te ci penso io dopo”. Alla fine di quello scambio silenzioso si voltò e con sua madre ancora stretta al fianco raggiunse tutti gli altri, in primis suo fratello, il quale lo stritolò in un abbraccio.
Grace rimase ad osservare la famiglia di Tom e per un attimo la malinconia l’assalì, colpendola dritta allo stomaco.
Ad un certo punto però incontrò gli occhi di Dylan, lo stesso Dylan che aveva giurato che non sarebbe mai venuto perché non voleva trovarsi solo con Bill. Le sorrise dolcemente e alzò il pollice della mano destra.
Poteva ritenersi soddisfatta.

 
Nella confusione generale – manco ci fossero stati duecento invitati – Tom e Grace si ritrovarono da soli solo dopo un paio d’ore, quando il sole tramontava e il cielo era una tela di pennellate calde e sgargianti: arancioni, rosse, rosa.
Molly aveva detto di iniziare ad accendere le luci appese nel giardino sul retro e Gustav e Georg avevano deciso che era arrivato il momento giusto per mettere su un po’ di carne.
Tom uscì fuori per prendere una boccata d’aria, non perché dentro si sentisse soffocare da tutte quelle attenzioni, ma perché era così felice che credeva che se non avesse sbollito un po’ tutta quella contentezza sarebbe esploso. La trovò seduta su uno dei puff sistemati sotto il porticato, che osservava il cielo con aria pensierosa, i palmi delle mani sotto il mento.
«Ehi», sussurrò sedendosi al suo fianco e posandole un lieve bacio sulla tempia. «Mi chiedevo proprio dove fossi finita».
Grace si lasciò abbracciare e sorrise furbescamente. «Dici davvero? Io invece scommetto che non ti eri nemmeno accorto della mia assenza».
«E va bene, hai vinto», sbuffò e le passò una mano sulla schiena, come a volerla riscaldare. «Il fatto è che… Dio, non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa del genere. Mia madre… avete fatto venire qui mia madre! La persona più importante del mondo dopo Bill…».
Vedendo i suoi occhi adombrarsi si ammutolì e ripercorse le parole che aveva detto, trovandoci, forse, qualcosa che aveva potuto farle del male.
«Scusami», mormorò prendendole il mento fra le dita per immergere di nuovo lo sguardo nel suo, fuggito per un breve attimo, ma vi trovò soltanto un leggero stupore. «Non dovevo, visto che tua madre…».
Lei capì ciò che intendeva e gli sorrise rassicurante, accarezzandogli una guancia. «Non ti preoccupare, Tom. Non devi nemmeno pensarci. Sono contenta che tu sia felice, contentissima; è quello che volevo. Sai, l’idea di portare qui tua madre è stata di Bill… dopo che Molly aveva ipotizzato di farti una piccola festicciola. Insomma, io ho fatto ben poco, ma tutto quello che potevo l’ho fatto con piacere e sono davvero contenta che ti sia piaciuta la sorpresa».
«Siete stati grandi, tutti quanti. Devo confessarti che all’inizio mi veniva da piangere, mi sono commosso!», le sussurrò, prima di ridere sommessamente con lei e di baciarla sulle labbra.
Si scostarono, nonostante non fossero del tutto sazi l’uno dell’altra, quando Dylan uscì dalle porte vetrate del salotto con una bottiglia di vodka in una mano e alcuni bicchieri di carta nell’altra.
«Eccovi qui», esclamò e si sedette nel puff di fronte a loro, a gambe divaricate.
Posò la bottiglia di vetro per terra e distribuì i bicchieri. Grace, quando ricevette il suo, lo guardò con disapprovazione e il poliziotto ghignò, prevenendola: «Lo so che è quasi un sacrilegio bere la vodka in questi bicchieracci, Grace, ma Bill non si ricordava dove fossero quelli adatti e non avevo neanche voglia di tirar fuori quelli di vetro. Fai uno sforzo per questa volta».
Detto questo, iniziò a versare nei bicchieri il liquido trasparente.
«Vacci piano con lui, Dylan», lo ammonì l’investigatrice, indicando il bicchiere di Tom.
«Oh, dai Grace!», replicò Tom, punto da quel suo atteggiamento da mammina.
«L’hai detto anche tu, oggi: sei ancora convalescente, l’alcool non lo dovresti nemmeno vedere. Anzi, sai cosa? Avevi detto anche che avevi bisogno di riposo, quindi perché non te ne vai in camera a riposare?», lo stuzzicò, sorridendo maliziosamente.
E Dylan resse il suo gioco: «Sì, mi sembra un’ottima idea! Così noi inizieremo a spassarcela sul serio! Non è vero, Grace?».
«Assolutamente sì».
Fecero scontrare i loro bicchieri e mentre Tom minacciava, innervosito da quella scenetta: «Smettetela voi due», l’investigatrice e il poliziotto bevvero tutto d’un fiato, per poi guardarsi e strizzare gli occhi con una risata che gli fremeva sulle labbra.
Grace, vedendo che il chitarrista aveva messo il broncio, gli diede una spallata delicata e posò il viso contro suo collo. Questo parve calmarlo e tornò a sorridere e a chiacchierare più o meno amabilmente con Dylan, facendogli anche notare che non lo aveva mai visto senza indosso la divisa della polizia stradale. Portava un paio di pantaloni neri e un maglioncino grigio a V che gli metteva in evidenza i muscoli delle spalle possenti e dei pettorali, senza contare il suo collo taurino che a vederlo da dietro faceva una certa impressione. 
Tom stava proprio per chiedergli in quale palestra andasse, quando tutti e tre si voltarono verso una voce dolce, nonostante la presenza molto forte dell’accento tedesco nell’inglese parlato.
«Signora Kaulitz, si sieda!», esclamò Dylan indicando accanto a sé con fare amichevole.
La donna gli sorrise calorosamente, anche se poi non resistette negli dirgli che preferiva essere chiamata Signora Träumper o, se preferiva, semplicemente Simone. Il poliziotto si scusò per la figuraccia e la sua carnagione caffellatte si colorò tanto da sembrare rosea.
La mamma di Bill e Tom sorrise candidamente a suo figlio, come se non fosse successo nulla, e poi si concentrò sulla ragazza seduta al suo fianco.
«Allora… lei è la tua ragazza, eh Tom?», gli domandò, tenendo fissi gli occhi su di lei, che arrossì ed impallidì a distanza di pochi attimi, percependo che anche Tom si era irrigidito grazie alla sua mano che le teneva possessivamente un fianco.
«È… è la mia ragazza?», balbettò il chitarrista, guardando prima Grace e poi di nuovo sua madre. Osservò anche Dylan, per una frazione di secondo soltanto, ma la ragazza se ne accorse e sentì il sudore bagnarle la schiena.
«Sei la mia ragazza, Grace? Sì, lo è. Vero?», le domandò all’improvviso e lei trasalì, tanto che nella foga di non farlo notare ebbe la sensazione di essersi inghiottita la lingua. Così accennò un timido cenno d’assenso muovendo il capo su e giù, sentendo poi l’impellente bisogno di scappare via.
«Scusatemi un minuto, devo… devo vedere una cosa», mormorò, ritrovando un filo della propria voce.
Si alzò e si rifugiò in salotto, dove trovò Bill, Molly e il padre acquisito dei gemelli, Gordon, seduti sui divani di pelle bianca, che discutevano di musica. In quel momento la ragazzina milionaria stava raccontando la lunga storia dell’antico pianoforte di suo padre, custodito gelosamente in chissà quale delle tantissime camere della sua villa.
Bill fu il primo ad accorgersi della detective e si scusò con Molly e Gordon per andare da lei. La scortò in cucina e per farla rinvenire – sembrava che avesse appena visto un fantasma – le versò un po’ di Coca Cola in un bicchiere.
«Ma che è successo?», le chiese, preoccupato.
«Tua madre… Tom… Dylan… io…», balbettò e tracannò l’intero bicchiere di Coca Cola.
Gli zuccheri la fecero tornare in sé e pensò che in quel momento non era abbastanza lucida per riflettere sull’accaduto: aveva bisogno di un po’ di tempo per pensarci e poi avrebbe saputo valutare il tutto razionalmente.
«Niente, Bill, niente», lo liquidò allora e lui provò a ribattere, ma lo sguardo che gli rivolse gli fece chiudere la bocca con un’espressione insoddisfatta sul viso.
«Piuttosto, tu come stai?», gli domandò poco dopo, per distrarsi e curiosa di sapere. «Alla fine Dylan è venuto».
Bill abbassò gli occhi. «Già…».
«È successo qualcosa, prima che noi arrivassimo?».
«No, noi… non abbiamo parlato molto, in verità. E se è capitato abbiamo discusso del più e del meno».
Sospirò abbattuto e continuò: «Grace, io ci provo con tutte le mie forze, ma… appena mi decido a parlarne, il mio cervello va nel pallone e non riesco a spiccicare una parola. Come devo fare, secondo te?».
Lei strinse le labbra e guardò il soffitto, poi gli sorrise tornando a fissare i suoi occhi nocciola. «Vedrai che quando sarà il momento riuscirai a parlare e tutto si sistemerà».
La faceva facile lei, uscendosene con una frase così poco personale, ma la ringraziò comunque per lo sforzo.
«Spero davvero che tutto finisca per il meglio, anche se sinceramente non so quale sia, il lato positivo di tutta questa faccenda. Insomma… metti caso che – ipotesi eh! – che Dylan e io… No, è assolutamente impossibile! Non siamo per niente compatibili! Lui… lui è…».
Grace trattenne a stento un sorrisino. Si stava arrampicando sugli specchi in modo talmente tenero e buffo che non poteva davvero non volergli bene e stare dalla sua parte.
«Lui è… cosa, Bill?», lo spronò a continuare.
«Lui è… non è vegetariano, ecco!», esclamò, sicuro che avesse avuto un’intuizione geniale, ma Grace lo fece ricredere subito.
«E allora? Anche io non sono vegetariana, eppure Tom non si è fatto tutti questi problemi».
Bill si prese la testa fra le mani, guardandola implorante. Lei gli rivolse un altro sorriso confortante e gli chiese, con voce pacata e sporgendosi verso di lui per fondere i colori delle loro iridi: «Lui ti piace?».
Bill boccheggiò, proprio come la prima volta che gliel’aveva chiesto. Il suo cuore iniziò a correre all’impazzata e qualcosa si smussò dentro di lui, sentì un’eco nella sua testa e la risposta gli salì alle labbra, ma non ebbe la forza di sputarla fuori.
«E va bene», intervenne Grace, dandogli un colpetto sul braccio. «Vorrà dire che avrai le idee chiare quando sarà il momento».
Bill ingoiò con forza le parole che gli erano affiorate alle labbra ed annuì impacciato. In quel momento sentirono Gustav e Georg imprecare e litigare e girandosi videro un sacco di fumo alzarsi dal barbecue. Uscirono in fretta e capirono che non avevano mai fatto un barbecue in vita loro.
L’investigatrice gettò uno sguardo a Tom, preoccupata che quel fumo potesse fargli male, ma appena incrociò i suoi occhi si ricordò di poco prima e li evitò. Poi si rivolse a Dylan, il quale si alzò dopo un cenno d’assenso e andò a divedere i due, dicendogli che ci avrebbe pensato lui.
«Sai, è un peccato che tu sia vegetariano», disse Grace a Bill, che tossiva col pugno chiuso di fronte alla bocca e gli occhi piccoli.
«Perché?», le domandò incuriosito.
«L’unica cosa che sa fare Dylan, in fatto di cucina, è proprio il barbecue!», accennò una risata, mentre Bill la guardava con una smorfia sul viso.
Si voltò per andare ad aiutare il suo amico poliziotto, nonostante non ne avesse bisogno, ma venne fermata da Simone, la quale le prese una mano e la invitò a sedersi, visto che prima era scappata via. Disse proprio “scappata via”, anche se la detective aveva fatto di tutto per non farla sembrare una fuga.
Quella volta fu Grace a guardare Bill in modo implorante, ma lui sogghignò e la salutò con una mano prima di ritornare da Molly, la sua nuova compagna di giochi. Così si ritrovò di nuovo seduta accanto a Tom, il quale non si era minimamente accorto del suo disagio.
«Sai Grace, ci rimango sempre male quando è Bill a dirmi che il mio Tom si è innamorato. Mai una volta che me lo dicesse spontaneamente!», Simone guardò suo figlio con occhio severo, per poi tornare a sorridere. «Nonostante la parlantina di Bill, non so molto su di te!».
«Ahm… vuole sapere qualcosa di me?», domandò innervosita, gettando un’occhiata d’aiuto a Tom, che non la colse. Eppure sapeva quanto fosse restia a parlare di sé! Con lui ci aveva messo un bel po’ ad aprirsi, come poteva pensare che quella volta lo avrebbe fatto in quattro e quattr’otto? Con sua madre, per giunta!
La donna annuì sorridente, unendo le mani sulle gambe e protendendosi in avanti, in ascolto.
Grace si schiarì la voce, senza sapere da dove cominciare. Incrociò per caso lo sguardo di Dylan che dalla sua postazione al barbecue, non molto lontana, riusciva a sentire tutto – senza capire. Le rivolse comunque un’occhiata di conforto, scuotendo il capo posando gli occhi su Tom, che se solo avesse saputo lo avrebbe definito come “l’imbecille che non era arrivato a capire su quale sedia spinosa fosse stata costretta a sedersi la sua ‘amata ragazza’”.
Simone, il cui sorriso si era lentamente spento al silenzio di Grace, la guardò allarmata, incitandola a raccontarle qualsiasi cosa della sua vita. «Per esempio quanti anni hai, che lavoro fai…». Sembrava stranita e questo non fece altro che innervosire ancora di più la ragazza.
«Beh, ho venticinque anni», rispose alla prima domanda, la più facile.
«Oh, lo sapevo, ero sicura che fossi più grande di lui!», esclamò la donna. «Sai, si vede subito dai tuoi occhi che sei più adulta e responsabile…».
«Responsabile», ripeté Grace rabbrividendo, pensando a tutti i casini e alle situazioni pericolose in cui si era ficcata nella sua carriera.
«Sì, si vede proprio… Chi ti ha insegnato a parlare tedesco? Hai una pronuncia perfetta!».
«Mio padre; lui era tedesco», rispose senza intonazione nella voce.
«Oh, capisco», mormorò Simone, capendo che non doveva esserci più. «E tua madre, tua madre invece è di qui?».
Grace trasse un lungo respiro prima di parlare di sua madre, ancora in ospedale poiché non si era ancora ripresa dallo shock tremendo che aveva subìto. Simone intuì che anche quel tasto era dolente e stava per cambiare discorso, come Tom tra l’altro, ma la detective li anticipò di mezzo secondo: «In realtà lei è nata a Londra, ma c’è stata poco, perché suo padre era americano».
«Wow», soffiò Simone, nascondendo l’agitazione: pian piano quella conversazione l’aveva resa anche più tesa di Grace. «Hai un bel po’ di culture dentro di te, allora».
«Sì, penso di sì», accennò un sorriso, il primo e piuttosto debole.
«E… che lavoro fai?».
La ragazza scosse il capo tristemente. «In questo momento nessuno, sto…».
«Fa l’investigatrice privata», si mise in mezzo Tom, brusco.
Dylan si voltò di scatto a guardarlo: non sapeva che cosa avesse detto, ma dalla sua irruenza capì che avrebbe fatto meglio a stare zitto, come suo solito. L’espressione sconvolta di Grace, inoltre, gli confermò i suoi sospetti.
«Sì, ma non sono certa di voler continuare a…», provò ad aggiungere Grace, ma Tom la interruppe ancora una volta.
«Quando c’è stata quella sparatoria lei c’era e probabilmente se non ci fosse stata io sarei morto. Le devo la vita».
«Non dire sciocchezze, Tom», lo rimproverò severamente, fulminandolo con lo sguardo.
«È la verità, Grace, e non vedo perché tu te ne vergogni. Tu hai difeso me e Bill. Quello mi ha sparato e tu l’hai fatto fuori. Che c’è di più lodevole?».
«E credi che mi sia sentita felice, nel farlo fuori? Non hai idea di che cosa significhi spegnere di propria iniziativa una vita umana!».
«Ma lui era dei cattivi! L’hai fatto per salvare me!».
«Basta!», strillò Simone, con gli occhi spalancati e il fiato grosso.
Entrambi si voltarono verso di lei e la videro annaspare, spaventata da tutto ciò che aveva udito.
«Basta», disse di nuovo, a bassa voce. Con gli occhi lucidi si alzò e si rifugiò in salotto.
«Bravo, complimenti», sibilò Grace, alzandosi anche lei, furiosa.
«Tanto prima o poi lo avrebbe saputo», rispose a tono Tom.
«Sì, ma non volevo che lo sapesse così! L’hai traumatizzata, ora crede che io vada in giro ad uccidere la gente!».
Il chitarrista si alzò, sull’orlo di perdere le staffe. «Non dire stronzate!».
«Ehi, Tom», lo chiamò tranquillamente Dylan, come se non si fosse accorto del loro litigio. «Dì ai tuoi amici che la carne qui è pronta, di portarne dell’altra, e i piatti e tutto il necessario. Finalmente si mangia!».
Tom grugnì infastidito e fece come aveva detto Dylan, ma solo perché non voleva vedere Grace per un po’.
Avrebbe voluto dire a tutti che era stanco e rifugiarsi nella sua stanza, ma era la sua festa e non aveva intenzione di rovinarla ulteriormente agli altri, anche se il danno ormai era fatto e per lui era già terminata.

 
Fino alla fine della festa, verso le dieci e mezza di sera, si era sempre preoccupata di tenersi ben lontana da Tom e da sua madre.
Si era fatta in quattro per rendersi il più occupata possibile: aveva distribuito da mangiare a destra e manca; aveva aiutato Dylan al barbecue e in quell’occasione gli aveva proibito di parlare dell’accaduto, anche se lui aveva accettato solo a patto che lei gli raccontasse che fine avessero fatto i due marines suoi amici. Lo aveva accontentato,  dicendogli che se n’erano andati da Los Angeles per evitare che Loro li cercassero in tutta tranquillità, ora che lei aveva deciso di lasciare le indagini.


«Dove andrete?», mormorò Grace con voce flebile, nel corridoio deserto dell’ospedale.
Era molto tardi, notte fonda, e sembrava che anche i medici e le infermiere fossero andati a dormire. Il silenzio regnava sovrano.
«Un po’ di qua, un po’ di là», rispose Bryant, scrollando le spalle. Quella vita per lui non era nuova.
«È meglio così, bambina», disse Lionel, avvolgendole un braccio fra le spalle ed attirandola al suo petto roccioso per posarle un bacio sulla fronte. «Non possiamo dargliela vinta un’altra volta».
«Sparirete», continuò la ragazza, iniziando a stringersi a lui come una bambina incapace di lasciar andare suo padre. «Non ci sentiremo più. Come farò a stare tranquilla? Come farò…?».
«Shhh». L’ex-marine le posò delicatamente le mani sulle spalle e guardò i suoi occhi lucidi. «Ci rivedremo, te lo prometto. Ti voglio bene, bambina. Mi mancherai».
«Anche io te ne voglio e… mi mancherai anche tu».
Contemporaneamente sciolsero l’abbraccio e lui e Bryant si diressero verso l’uscita dell’ospedale.
Stavano per svoltare l’angolo, quando Grace chiamò Lionel a gran voce, infischiandosene del fatto che avrebbe potuto svegliare qualcuno. Lui si voltò e la guardò con espressione stanca e triste, serrando le labbra.
«Sei come un padre per me», ammise finalmente Grace, più a se stessa che a lui. «Non mi abbandonare anche tu».
Lionel sorrise amaro e scosse il capo lentamente. Era una promessa.


Quando era giunto il momento di sbaraccare aveva aiutato a ripulire tutto, sia il salotto che il giardino sul retro, occupandosi dell’uno quando Tom e Simone non erano lì e viceversa.
Alla fine però li incrociò per forza, al momento degli «Arrivederci» e dei «Buona notte».
Simone e Gordon dissero che sarebbero partiti per tornare in Germania non il giorno seguente, ma quello dopo ancora, e la donna si era fortemente opposta quando Bill aveva proposto loro di stare lì a dormire, invece di andare in hotel. Tom non ci provò nemmeno a trattenerla lì e solo successivamente Grace ne avrebbe capito il motivo.
Una volta andati via loro, gli altri decisero di rimanere insieme ancora un po’.
«Molly, sei sicura che puoi restare?», chiese Bill premuroso. «Non è che poi i tuoi genitori…?».
La ragazzina sventolò una mano, facendo una pernacchia. «È già tanto se si ricordano che sono qui».
Quindi rimase anche lei e provò a far parlare Grace, per capire meglio ciò che era successo con Tom, ma non ottenne nulla.
Pian piano tutti si fecero più silenziosi, sotto quelle finte lucciole nel giardino sul retro, e una strana calma si impossessò di loro, tanto che Gustav e Georg fecero pace e Molly si addormentò.
Grace si rese conto di essere stanca e che l’unica cosa che la teneva sveglia era la bottiglia mezza vuota di vodka che aveva in una mano e quell’orribile bicchiere di carta nell’altra. Così si alzò da uno dei puff sotto il porticato e all’inizio barcollò, poi si scrollò di dosso il sonno e l’alcool come un cane bagnato si scrolla di dosso l’acqua e la schiuma.
«Ragazzi, io vado a casa», annunciò, gettando distrattamente il bicchiere in uno dei sacchetti di plastica che avevano usato per pulire.
«A casa? Non rimani qui?», domandò Bill, stupito.
«No, vado a casa mia».
A quell’affermazione ripetuta Tom capì che faceva sul serio e si alzò faticosamente dal suo puff per andarle incontro.
«Perché?», le chiese con tono stanco e ancora un po’ rancoroso.
«Perché mi va così».
«Grace… dai», sbuffò prendendole la mano e chiudendo gli occhi, davvero stanco e stufo di quel gioco.
La detective però si liberò dalla sua stretta e salutò tutti con un mezzo sorriso, tranne lui. Per fortuna Dylan non aveva proposto di accompagnarla, o sarebbe davvero esploso dalla rabbia.
Quando Grace se ne fu andata col suo fuoristrada, il silenzio si fece più carico di tensione.
Bill e Dylan, fissando il chitarrista, pensarono che avrebbe iniziato urlare e a prendere a calci e pugni qualsiasi cosa si fosse trovato sotto il naso. Ne erano talmente sicuri che la sua improvvisa calma li preoccupò ancora di più.
«Vado a dormire, allora. Grazie mille per la festa ragazzi, è stata uno spasso fino ad un certo punto», disse senza alcuna punta di ironia nella voce, prima di ritirarsi nella sua camera da letto.
Dylan e Bill rimasero soli nel giardino sul retro. Molly, che dormiva beatamente su vari cuscini e su uno dei tappeti persiani che aveva procurato lei, non era da contare. Seduti l’uno accanto all’altro su due puff diversi, guardavano il cielo scuro e le lucine che penzolavano, intrecciandosi, sopra le loro teste.
«Non era il finale che mi aspettavo», esordì Bill, rompendo il silenzio.
«Se devo dirti la verità, nemmeno io».
«Cioè… Grace e Tom non si sono rivolti la parola per tutta la sera! Pagherei oro per tornare indietro nel tempo ed essere presente nel momento in cui tutto si è rivoltato. Tu c’eri, vero?».
«Sissignore», annuì e si versò un po’ della vodka avanzata da Grace nel suo bicchiere. Ci pensò due volte prima di berla, visti i precedenti con Bill, ed infatti poi abbandonò il bicchiere sul pavimento.
«Peccato che non abbia capito un accidenti di ciò che si sono detti: parlavano in tedesco», concluse.
«Ah. Che peccato».
«Di sicuro non per Tom: se avessi capito sono certo che gli sarei saltato addosso e l’avrei fatto a pezzi».
«Beh, allora sono contento che tu non abbia capito», disse Bill sorridente. «Dopotutto è mio fratello e non mi sarebbe piaciuto vederlo di nuovo in ospedale».
Dylan rimase in silenzio per un po’, meditabondo. Quando si decise a parlare di nuovo aveva una voce diversa, più calma, apprensiva, quasi preoccupata, e gli occhi velati da un’antica tristezza.
«Tu sai quali intenzioni abbia con Grace? Nel senso, è una cosa seria?».
«Sarebbe un cretino, se non facesse sul serio con lei», borbottò, incrociando le braccia al petto. «Tom è pazzo di lei, è cotto come una pera! Ancora non lo ha ammesso, ma so che si getterebbe nel fuoco per lei, perché dentro di sé lo sa che è innamorato».
«Spero che sia davvero così», sospirò. «E se dovesse farle del male, non ti sorprendere se lo vedi tornare a casa con un occhi nero e qualche osso rotto».
Bill sorrise, dicendo di aver capito perfettamente.
«Ma tu… tu sei ancora innamorato di lei?», domandò poi, imbarazzato e anche un tantino spaventato dalla sua risposta.
«Io… No, credo di no. Ci tengo tantissimo a lei, è come una sorella, ma… non è più amore, no. E poi ho così tante altre cose per la testa che l’amore è l’ultima cosa che voglio trovarmi tra i piedi».
Il cantante abbassò il capo, rosso come un peperone e dispiaciuto per quell’affermazione. All’improvviso sentì la mano di Dylan posarsi sotto il suo mento e sollevarlo.
«Bill?», lo chiamò dolcemente, piantando gli occhi nei suoi. Il frontman trasalì. «Che è successo quella sera?».
Gli ci era voluto tantissimo impegno, ma ora che gliel’aveva chiesto si sentiva già molto più leggero, a prescindere dalla sua risposta.
«Io… io non lo so, Dylan», balbettò, sentendosi pungolare il cuore. «So solo che da quella sera tutto è cambiato… io ti… ti guardo in modo diverso», confessò e tutto d’un tratto si sentì esausto, per questo si liberò dalla stretta di Dylan e tornò a fissare le sue scarpe.
«Okay», disse il poliziotto, respirando profondamente. «Non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione del genere e… la verità è che non so come comportarmi».
Bill stava per dire che nemmeno lui, che era la prima che si sentiva attratto così potentemente da un ragazzo, ma non ne ebbe il tempo.
«Vedi, io non voglio ferirti e so che in qualche modo lo farò e ti chiedo scusa già adesso, perché non vorrei davvero… tu sei così… insomma, Bill, come posso dirtelo?».
«Non c’è problema, Dylan. Io, in fondo… lo sapevo, ecco».
«Sapevi che cosa?».
Lo sguardo di Dylan gli bruciò la parte di viso che stava scrutando. «Sapevo che tu… che non ci sarebbero state speranze».
«Bill…».
«No, davvero. Lo sapevo, ero pronto ad affrontare tutto questo», disse con decisione, tanto da non ammettere repliche. «Va benissimo così, credimi».
«Davvero? Sei sicuro?».
«Sì, sì certo», accennò un sorriso malfermo e mosse energicamente il capo su e giù, fin troppo.
«Bene», sfiatò Dylan, ma non si sentì per nulla sollevato, anzi. Si alzò dal puff, con la sensazione che si sarebbe schiantato presto contro la dura realtà. «Allora… amici come prima?».
«Certo. Amici come prima», ripeté Bill, non convinto, e gli strinse mollemente la mano che gli aveva teso.
In quel momento Tom uscì fuori a passo spedito e sia Bill che Dylan sobbalzarono, lasciandosi subito la mano. Tom li fissò per pochi istanti, ma necessari a fargli intuire tutto e a sconvolgerlo. Forse fu per questo che si avventò ancora più malamente su Molly per svegliarla. Lei si svegliò dopo pochi secondi e sembrò piuttosto lucida per una che si era appena svegliata, ma Tom, nel suo momento di irrazionalità, non se ne accorse minimamente.
«Vieni, ti porto a casa», le disse e se la trascinò dietro, tirandola bruscamente per un braccio.
«Dopo vai da Grace?», gli chiese tranquillamente Bill e l’occhiataccia che ricevette in risposta la interpretò come un sì forte e chiaro.
Tom se ne andò con Molly, sbattendo con violenza la porta principale. Dylan e Bill tornarono a guardarsi negli occhi e subito si pentirono di averlo fatto; fuggirono l’uno dall’altro, ma faticavano a lasciarsi andare veramente.
Alla fine il poliziotto, rassegnato e con un sorriso dolente sulle labbra, disse sottovoce: «Buona notte, Bill», per poi dirigersi verso il cancelletto con le mani nelle tasche e le spalle contratte per il vento freddo.
Bill si sentì morire ad ogni suo passo. Avrebbe voluto fermarlo, dirgli di restare, ma con che coraggio? Lui non lo voleva, non lo avrebbe mai voluto, non aveva senso aggrapparsi a delle pure illusioni.
«Buona notte anche a te», mormorò quando ormai Dylan era salito in auto e aveva acceso il motore per andarsene.
Il frontman dei Tokio Hotel si lasciò cadere sul puff alle sue spalle e strinse le labbra per trattenere i singhiozzi che gli assalivano la gola, mentre le lacrime gli offuscavano la vista.
Solo in quel momento riuscì ad ammettere a se stesso che Dylan gli piaceva, eccome, e che era stato uno schifoso bugiardo a dire che era pronto ad affrontare tutto quello. Se lo fosse stato davvero non avrebbe sofferto così tanto, solo in quel silenzio, sotto quel cielo senza luna, illuminato soltanto dalle finte lucciole che penzolavano sulla sua testa.

 

***

 

«Grace non sarà contenta di sapere che mi hai costretta a dirti dove abita», disse Molly appoggiandosi al finestrino con la tempia, gli occhi socchiusi.
«Non ti ho costretta affatto», rispose il chitarrista, teso come una corda di violino.
Continuava a dirsi di pensare alla strada, oppure di prepararsi tutto ciò che doveva dire a Grace, ma non riusciva proprio a cancellare ciò che gli era balenato alla mente come un fulmine a ciel sereno vedendo Bill e Dylan.
Appena li aveva visti insieme, solo loro due, il suo stomaco si era chiuso di colpo. Le rotelline della sua testa avevano iniziato a girare all’impazzata e aveva avuto la certezza di aver capito la causa della stranezza del suo gemello: era innamorato. Di Dylan?!
Faceva di tutto pur di dirsi che si sbagliava, che aveva interpretato male tutto quanto, ma era tutto così chiaro, ora! No, non aveva sbagliato. E questo lo terrorizzava. Un po’ perché Bill quando si innamorava diventava un’anima in pena, un po’ perché avrebbe dovuto abituarsi a sentirlo parlare ventiquattr’ore su ventiquattro di un ragazzo, un po’ perché quel ragazzo, diamine, era Dylan, una specie di ex per Grace!
In quel momento capì che era proprio per tutti i problemi che si stava facendo che forse Bill aveva fatto in modo di non farglielo sapere: non voleva farglielo pesare e chissà, chissà se Grace sapeva tutto quanto? Magari era stato Dylan a parlarne con lei e Dylan… ah, chissà che cosa le aveva detto circa il suo fratellino!
Strinse con forza il volante e il piede gli scivolò sull’acceleratore, facendolo sbandare un pochino.
«Che cosa ti prende, Tom?!», strillò Molly, del tutto sveglia. «Non ti conviene andare da Grace in queste condizioni, sai? Ti devo ricordare che ha una pistola e che potrebbe spararti per autodifesa?!».
«Piantala, Molly!», la rimproverò.
«Accosta. Accosta ti ho detto!».
Tom sbuffò sonoramente e mise le quattro frecce, fermando la sua Audi sul ciglio della strada.
La ragazzina aprì la portiera con fare brusco e scese, fece per due volte avanti e indietro costeggiando la fiancata dell’auto e poi si appoggiò al guard-rail, portandosi le mani sul viso.
Anche Tom scese, sentendosi in colpa, e la raggiunse in tempo per sentirla mugugnare: «Volevo soltanto fare una festa per le tue dimissioni dall’ospedale, volevo che tutti fossero felici… e guarda, guarda cos’è successo! È andato tutto a rotoli, tutto!».
«Molly… Non fare così, dai», cercò di confortarla, sollevandole il mento per guardarla negli occhi. «Non è andato tutto a rotoli e anche se fosse la colpa non è tua. Mi hai organizzato una festa stupenda e non ti ho nemmeno ringraziata come si deve».
«Mi dispiace Tom, mi dispiace tanto», biascicò, stringendosi a lui.
Il chitarrista guardò il cielo, apprensivo. «Non è colpa tua, te l’ho già detto. E adesso torna in macchina, stai tremando; non vorrei che ti prendessi qualcosa».
Molly obbedì e Tom riprese il suo posto di guida, diretto verso la villa dei Delafield.
Furono lì dopo altri dieci minuti di strada e Molly lo pregò di accompagnarla fino all’entrata, perché quell’enorme giardino di notte l’aveva sempre spaventata a morte. Tom l’accontentò e la accompagnò fino alle porte vetrate dell’ingresso, la salutò con un altro abbraccio e le augurò la buona notte, poi si voltò per tornare alla sua auto, quando la ragazzina disse: «Appena torni a casa, stai vicino a Bill».
Il chitarrista la osservò e il suo cuore perse un battito, mentre il suo stomaco si chiudeva un’altra volta. Annuì con un cenno del capo e se ne andò.

 

***

 

Era appena uscita dalla doccia e si era appena infilata nell’accappatoio, quando sentì bussare forte alla porta. Con uno sgradevole presentimento ciabattò fino all’ingresso, mentre si frizionava i capelli con un asciugamano, e sbirciò dallo spioncino. Sobbalzò nel vedere Tom, ma subito dopo la rabbia tornò a circolarle nelle vene e decise di ignorarlo, fecendogli credere di non essere in casa.
Fece per tornare in bagno come se nulla fosse, ma le parole di Tom la raggiunsero come un’eco.
«Grace, lo so che sei in casa. Non me ne andrò fin quando non mi avrai aperto».
L’investigatrice ritornò alla porta e vi si appoggiò con le spalle. Trasse un respiro profondo e disse stancamente: «Che cosa vuoi?».
«Voglio parlare con te».
«Non ho voglia di parlare in questo momento».
«Io sì. Mi fai entrare?».
Grace sollevò gli occhi al soffitto, poi si guardò intorno. Far entrare in casa sua Tom sarebbe stato l’ultimo passo per rendere la loro relazione una cosa più che ufficiale. Nessun ragazzo era mai entrato in casa sua senza prima aver ottenuto la sua fiducia, il suo rispetto e il suo affetto. Era pronta ad offrire tutto questo a Tom? Era pronta a darsi totalmente a lui? Era pronta a dire a se stessa che lo amava?
Posò una mano sul chiavistello e l’altra la fece scivolare senza guardare sulla maniglia della porta. La socchiuse e rimase dietro di essa, quasi nascosta, aspettando che lui entrasse e distruggesse col suo consenso l’ultima sua barriera fisica.
Tom entrò nell’appartamento di Grace e si guardò intorno con un misto di curiosità e di sorpresa sul volto. Aveva immaginato tante e tante volte la casa di Grace e niente era come nella proiezione nella sua testa, eccetto il fatto che non ci fossero fotografie con i suoi genitori, o comunque con la sua famiglia. Tutto era anonimo, nulla di ciò che vedeva gli avrebbe fatto pensare che quella fosse casa sua se non lo avesse saputo e se non avesse conosciuto il profumo inconfondibile di Grace.
«Che cosa mi devi dire?».
Tom si voltò e la vide appoggiata con la schiena alla porta, i suoi occhi verdi lo fissavano, impenetrabili. Lei aspettò con pazienza che parlasse, ma le parole gli erano sfuggite e riacchiapparle non sarebbe stato facile.
Così Grace si staccò dalla porta spingendosi in avanti con le braccia e a capo chino raggiunse il bagno, passando per il corridoio che doveva portare anche alla sua camera da letto. Tom la seguì e la guardò mentre si pettinava i capelli corti, ancora bagnati, e poi se li asciugava distrattamente usando il phon. Quando ebbe finito, lo guardò e gli andò incontro, lo spinse dolcemente fuori dal bagno e chiuse la porta. Tom respinse l’impulso di prenderla a calci e finalmente le parole gli tornarono. Chissà, forse parlare attraverso una porta era l’unico modo per farlo, quella sera.
«Che cos’è successo oggi, Grace?», le domandò.
Qualche secondo dopo, la detective aprì la porta con indosso una larga canottiera grigia e lo fulminò con lo sguardo: «Lo chiedi a me? Dovresti saperlo tu, perché tu ne hai combinata una dietro l’altra con tua madre ed ora è già tanto se non mi odia».
Spense la luce del bagno, colpendo l’interruttore con un pugno, e si diresse a passo svelto verso la sua stanza. Tom la seguì ancora una volta, senza proferir parola. La osservò mentre prendeva un pacchetto di sigarette da sopra il comodino, ne tirava fuori una e andava alla finestra per fumare. Il fuoco dell’accendino illuminò di un riflesso ramato la pelle chiara del suo viso punteggiato di efelidi e Tom la trovò bellissima.
Grace fece qualche nervosa tirata, dandogli le spalle, poi si voltò di tre quarti e lo fissò con la coda dell’occhio, esordendo: «Possibile che tu non mi conosca ancora, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme?».
Sembravano passati anni dal giorno in cui si erano conosciuti, eppure erano solo pochi mesi, tanto intensi da trarre in inganno persino lei.
«Mi hai lanciato in pasto a tua madre senza darmi il minimo aiuto, pur sapendo quanto per me sia difficile aprirmi con qualcuno. Volevo fare bella figura con lei, te lo giuro, ci ho provato ad aprirmi, ma non mi è facile, Tom. Per come sono fatta, per tutte le pugnalate che mi sono presa alla schiena in questo lavoro di merda… Ormai sono diventata questa, mi sono creata una barriera per difendermi, non è che voglio mantenere il segreto su chi sono o cosa faccio: la mia è paura. Paura di non andare bene, di far male, di non essere accettata per ciò che sono e ciò che faccio. E tu non l’hai capito, non mi hai aiutata nonostante si vedesse lontano un miglio che…», si arrestò ed abbassò gli occhi, aspirando una boccata di fumo e soffiandolo nel cielo scuro.
«Hai peggiorato la situazione quando le hai raccontato del mio lavoro e di quella maledetta sparatoria. Tu… non so, forse per te che mi conosci da tanto e che ci sei dentro in prima persona, è facile da accettare e riflettendoci ho capito ciò che volevi comunicare a tua madre: mi volevi mostrare come una specie di eroina», si lasciò scappare un sorriso amaro, «ma sai, lei è tua madre e cosa credi che abbia pensato, quando le hai detto che faccio l’investigatrice privata, che vi ho salvati in quella sparatoria e che ho ucciso quello che ti ha sparato? Non avrà visto nulla di positivo in tutto questo, nonostante qualcosa ci sia; no, la sua mente si sarà automaticamente concentrata sul fatto che il mio è un lavoro pericoloso, che sparo alla gente, che rischio la vita ogni giorno e che metto in pericolo anche le persone al mio fianco – che è verissimo. Sono certa che avrà anche pensato: “Quindi è colpa sua se hanno sparato al mio Tom, lei l’ha trascinato lì e si è preso una pallottola!”». Fece un’altra pausa per finire la sigaretta e in quei minuti di silenzio Tom non aprì bocca, nonostante avesse già molte cose da dirle. Preferì farla finire di sfogarsi. Infatti, quando spiaccicò la sigaretta nel portacenere posato sul davanzale, concluse: «Lei mi ha visto come un pericolo per te e Dio mi corregga se non ha ragione».
Dopodiché si spostò dalla finestra, che chiuse, e si mise seduta sul suo letto, con le spalle alla testata e un cuscino stretto al petto. Alzò gli occhi su Tom e con un lieve cenno del capo lo invitò a sedersi al suo fianco. Il chitarrista lo fece e si preparò: era arrivato il suo turno.
«Mi dispiace di non aver colto il tuo SOS», incominciò, guardandola nella penombra della stanza. «La verità è che anche io volevo che facessi bella figura con mamma, lo volevo così tanto che ho finito per rovinare tutto. Tutto ciò che hai detto è giusto, ci hai proprio azzeccato: ha pensato tutto quello che supponevi e ad un certo punto mi ha tirato in disparte per dirmelo. Ma non gliel’ho data vinta».
Il suo sorriso enigmatico preoccupò Grace, tanto che gli chiese: «Che cosa vuoi dire?».
«Abbiamo litigato, come non facevamo da quando avevo sedici anni. Oltre a dire che eri soltanto un pericolo per me, eccetera, ha avuto persino il coraggio di dirmi che preferiva Ria. Non ci ho visto davvero più, Grace. Non si è mai visto che mia madre decida con che ragazza devo stare e le ho detto che se tu non le stavi bene non me ne fregava niente, che sei tu quella che voglio».
Grace aveva il capo chino, torturava il bordo della canottiera con le dita e le ombre della notte le danzavano sulla pelle, rendendola bellissima ai suoi occhi.
«Perché… perché allora hai esitato tanto nel rispondere se ero la tua ragazza, quando tua madre te l’ha chiesto?», gli domandò con poca voce.
Tom sorrise dolcemente e si avvicinò a lei, le accarezzò una guancia col dorso delle dita e le sistemò una ciocca di capelli profumati e ancora umidi dietro l’orecchio, come d’abitudine. Quindi incrociò i suoi occhi stupendi e le disse di non ridere, perché avrebbe detto una cosa davvero sciocca.
«Volevo vedere la tua reazione, volevo essere sicuro di essere anch’io l’unico che tu volevi al tuo fianco».
«Quindi non volevi far ingelosire Dylan? Ho notato che l’hai guardato…».
Tom si passò una mano sul collo e ridacchiò, avvicinando la bocca al suo orecchio. «Okay, mi hai beccato. Forse un pochino anche per quello».
Grace accennò un sorriso e si spostò per guardarlo negli occhi. «Quindi avevamo ragione tutti e due?».
L’espressione accigliata del chitarrista la fece continuare: «Tu avevi ragione a dire che prima o poi tua madre avrebbe scoperto il lato pericoloso della mia vita e io avevo ragione a dire che potevamo dirglielo in modo diverso, con più cautela».
«Sì, esatto. E invece di arrivarci subito ci siamo scannati», trasse le fila Tom.
«Forse però non dovevi litigare in quel modo con tua madre», gli disse un po’ allarmata, pensando a sua madre e al fatto che lei avrebbe fatto la stessa scenata, se i ruoli si fossero invertiti. «Lei voleva soltanto difenderti. Dicendoti quelle cose agiva in buona fede».
Tom chiuse gli occhi e sorrise, posando la fronte contro la sua. «Difendermi dalla ragazza di cui mi sono innamorato? Che follia».
A quella dichiarazione il cuore di Grace iniziò a battere come se volesse aprirsi un varco nel petto e fuggire via, ma non fece in tempo a rendersene conto perché Tom la baciò, stringendola fra le sue braccia.
«Non permetterò a nessuno di mettersi fra di noi», le sussurrò mentre la faceva salire sulle sue gambe e la spogliava della canottiera per baciarle il seno e il collo, con le mani fra i suoi capelli freschi. «Dovranno passare sul mio cadavere».
«E sul mio», esalò Grace, prima di avventarsi con foga sulle sue labbra, stringendolo contro la testata del letto. «Dove lo trovo un altro irresponsabile come te?».
«È il tuo modo di dirmi che sono l’unico che vuoi?».
«Una cosa del genere».
Fecero l’amore appassionatamente, dimenticandosi entrambi che Tom era ancora convalescente e aveva bisogno di riposo.


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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

 

Quella notte era stata proprio la seconda notte in cui avevano dormito insieme.
Era passata solo una settimana dalla prima, anche se sembrava che fosse passato un mese intero, ed erano successe così tante cose nel frattempo che non era stato come fare l’amore con una persona diversa, ma quasi. Il loro rapporto si era parecchio rinforzato da allora e Grace si era lasciata andare completamente, ora che con lui non aveva quasi più segreti. Anche Tom però si era comportato in maniera diversa, proprio perché sapeva con chi aveva a che fare e voleva fare di tutto perché stesse bene pure lei.
Appena svegliato, era a questo che Tom pensava, con la testa di Grace appoggiata sullo sterno e gran parte del suo corpo addosso. Quella notte doveva essersi mosso parecchio, tanto da farle seguire il suo consiglio.
Sorrise addolcito e le passò una mano fra i capelli, scostandoglieli dall’orecchio.
Prima che si svegliasse pensò anche ad altre due cose: ai suoi sospetti su Bill e Dylan e alla domanda che non aveva ancora posto a Grace, ossia per quale motivo quell’indagine fosse di così vitale importanza per lei, tanto da trascinarsela dietro fino allo stremo delle forze per poi abbandonarla a malincuore, nonostante tutto.
Non riuscì a trovare delle risposte a tutte le domande che gli affollavano la mente e contava sul fatto di poter chiedere direttamente a lei, anche se non voleva rompere l’atmosfera di pace e serenità che si era creata in quella lunga notte e che ancora persisteva, alle prime luci del mattino.
Quando sentì Grace muoversi fra le sue braccia, segno che stava per svegliarsi, avrebbe voluto cullarla come una bimba per farla riaddormentare, ma la curiosità e la preoccupazione per Bill furono altrettanto forti.
La prima cosa che Grace fece appena capì dove si trovava e con chi, sollevò il viso ancora gonfio di sonno e fissò gli occhi di Tom, chiedendogli con voce roca: «Ti fanno ancora male i punti?».
Il chitarrista sorrise e scosse il capo in silenzio.
Quella notte avevano anche avuto delle difficoltà, ma era stato bello come si erano presi cura l’uno dell’altro. Persino il dolore che aveva provato ai punti vicino all’ascella, lì dove il proiettile l’aveva colpito, che l’aveva fatto accasciare per un momento su di lei mentre facevano l’amore, aveva avuto il suo lato dolce.
«Bene», mugugnò allargando un sorriso.
Si rotolò nella parte di letto vuota, ancora fresca, e diede qualche debole pugno al cuscino per gonfiarlo a suo piacimento sotto la testa.
La luce del mattino iniziava ad entrare nella stanza e ad illuminarla riflettendo sul pavimento di piastrelle bianche.
Tom aderì alla sua schiena, prese la forma del suo corpo e le avvolse un braccio intorno alla vita, sporgendosi con le labbra sul suo orecchio per poterle parlare a bassa voce.
«Tu come stai?».
«Alla grande», sospirò rasserenata. «Anche se, se fosse per me, starei qui a poltrire tutto il giorno».
«Fallo. D’altronde sei in vacanza, no?».
Grace si voltò e lo guardò in viso, qualche centimetro più in alto del suo.
«Devo andare da mia madre», mormorò, accarezzandogli il petto con le dita, gli occhi spenti. «E poi sarà il caso di parlare anche con la tua, per dirle almeno che i miei casi non richiedono sempre l’uso della pistola e magari per… scusarmi…».
«Non hai niente di cui scusarti», le rispose, accarezzandole i capelli. «E se non vuoi non sei costretta a parlarle. In fondo lei non deve approvare nulla, giusto?».
«L’hai detto anche tu che volevi che io facessi bella figura con lei. Questo vuol dire che ci tieni ad avere la sua approvazione».
«Okay, è vero. Ma metti caso che non approvi? Credi che ti lascerei solo per questo? No».
Il suo sguardo era sincero, avrebbe persino potuto vedere tutti i suoi segreti più intimi riflessi in quegli occhi.
«È una cosa che può essere benissimo rimandata, se non te la senti e devi stare con tua madre. Mi hai capito?».
Grace annuì, accucciandosi sotto il suo mento. «Grazie».
Tom la strinse a sé, chiudendo gli occhi ed appisolandosi ancora per un momento. Li riaprì di scatto nel sentire il cellulare di Grace fare bip bip. La ragazza, che evidentemente si era riaddormentata come lui, non diede cenni di voler guardare chi fosse e Tom pensò che poteva trattarsi di Dylan. In circostanze normali non l’avrebbe mai fatto, ma quella volta era diverso, visto che c’era in ballo suo fratello; per questo incitò Grace a guardare chi fosse.
Lei borbottò, ma poi allungò la mano sul comodino ed afferrò il suo cellulare. Se lo portò vicino agli occhi e vide chi era, poi lo comunicò a Tom, così ansioso di sapere. Era proprio Dylan.
«Ora sei soddisfatto?», gli chiese, pronta a tornare a dormire.
«Non leggi che cosa ti ha scritto?».
A quell’altra insolita richiesta aprì gli occhi del tutto e si mise seduta sul letto, le spalle contro la testata e il lenzuolo tenuto sotto le ascelle.
Guardò Tom, steso al suo fianco, con aria investigativa e alla fine sbottò: «Che è successo?».
Tom, certo che non sarebbe riuscito a scamparla, confessò: «Ieri ho visto Bill e Dylan che si davano la mano e… non so come spiegarlo, ho semplicemente fatto due più due, ad istinto».
«Non ti seguo», disse la detective, con finta aria confusa.
«Bill si è preso una cotta per Dylan, non è così? È per questo che si è comportato in maniera così strana in questi ultimi giorni. Sbaglio?».
Grace trasse un respiro profondo e sollevò le spalle. «Non sbagli».
«Quindi tu… tu lo sapevi!».
«Ovviamente», socchiuse gli occhi e se li strofinò con cura. «Prima Dylan e poi Bill sono venuti a confidarsi con me, più o meno spontaneamente, ed entrambi hanno voluto che io tenessi il segreto. Non dovevo parlarne nemmeno con te».
«Ma-ma perché? Perché Bill non me l’ha detto?». Era pressoché sconvolto.
«Questo lo devi chiedere a lui. Io so solo che fino a ieri sera, quando me ne sono andata, non si erano ancora chiariti. Forse è questo che mi ha scritto Dylan, che l’hanno fatto. Chissà con che esiti?».
Tom ricordò le parole di Molly: «Appena torni a casa, stai vicino a Bill». Non promettevano nulla di buono.
Volle sapere l’intera storia, dall’inizio alla fine, e Grace lo accontentò: gli fece un riassunto piuttosto dettagliato dei fatti, con quel suo linguaggio acquisito dalle collaborazioni con la polizia, tenendosi per sé le confidenze che le avevano fatto Bill e Dylan.
Quando finì, Tom era più sbigottito di prima e rimase in silenzio un momento per incamerare e riordinare tutti i fatti nella sua testa.
Grace sbuffò dal naso e ricadde sdraiata sul letto, la testa fra due cuscini e le mani dietro la nuca.
«Che cos’hai intenzione di fare, ora?», gli domandò con tono pacato.
«Devo andare da Bill e parlarne con lui».
La ragazza annuì, concorde. «Cerca soltanto di non essere troppo duro con lui. Un motivo per cui non te l’avrà detto ci sarà».
«Va bene». Si chinò su di lei e le posò un fugace bacio sulle labbra, poi le accarezzò dolcemente i capelli, guardandola negli occhi, e disse: «Tu vieni con me?».
«È meglio se ne parlate voi due da soli. Io mi sono già immischiata fin troppo in questa faccenda».
«Quando si tratta di affari di cuore la mitica detective Grace Schneider si tira indietro così presto?», ridacchiò e per quella sua battutina si beccò una tallonata sul sedere.
«Vai, muoviti», lo esortò Grace, spostandoselo di dosso, seppur col sorriso sulle labbra.
Tom le rivolse uno sguardo affilato. «Mi stai cacciando?».
«Mmm… no».
«Sarà meglio per te!». La baciò di nuovo, quella volta con più trasporto.
Quando si scostò, le chiese con tono carezzevole: «Ci vediamo dopo?».
«Sì. Ti chiamo appena esco dall’ospedale».
«Okay».
Grace guardò Tom mentre si rivestiva, puntando l’attenzione sul grosso cerotto bianco che aveva vicino all’ascella sinistra. Tolti i punti gli sarebbero rimaste delle cicatrici, davvero minuscole, ma ne avrebbe sofferto ogni volta le avesse viste e sfiorate con le dita.
Si alzò dal letto anche lei, dopo essersi infilata la larga canottiera grigia che avrebbe dovuto usare come pigiama, e gli andò incontro prima che si infilasse il maglioncino marrone. Posò una mano sul cerotto, con gli occhi vacui, e aprì la bocca per parlare, anche se per qualche secondo le parole le rimasero incastrate nella gola. Quando riuscì a liberarle, suonarono tanto flebili che non riconobbe la propria voce.
«Tu non… non ti sei mai accorto della mia cicatrice?».
«Quella che hai in mezzo alle scapole?».
Stupita, sollevò gli occhi nei suoi, sorridenti.
«Certo che me ne sono accorto», continuò. «Come te la sei procurata?».
Grace scrollò il capo, sedendosi sul bordo del letto alle sue spalle. Sulle labbra aveva un sorriso rammaricato e Tom colse la tristezza nel suo sguardo.
«Era uno dei miei primi casi, nulla di complicato all’apparenza: dovevo sorvegliare i capannoni di un’azienda per scoprire chi si introduceva di notte per distruggerne i macchinari. Tutti sospettavano di una banda di ragazzetti del quartiere, incazzati perché da poco l’azienda aveva deciso di fare dei tagli sul personale e alcuni dei loro padri ci avevano rimesso».
«Ed era così?», domandò Tom, mentre si sedeva al suo fianco, tutto preso dal suo racconto.
«Sì. Appena li ho visti entrare ho chiamato la polizia perché mandassero una pattuglia e per evitare che distruggessero qualcosa li ho raggiunti in uno dei capannoni. Ero ancora una principiante e non volevo che si facesse male nessuno, così avevo tolto il caricatore alla pistola. Sono entrata e gli ho puntato la pistola per fargli paura, dicendogli che era inutile che continuassero, perché ormai erano stati beccati… Sono stata davvero una sciocca, sai? Loro erano cinque, io ero ancora sola. Uno di loro non si è fatto intimidire dall’arma che gli puntavo addosso, è corso verso di me con la furia di un toro e all’improvviso ha tirato fuori un coltellino… l’ho visto e ho provato a scansarmi, ma mi ha preso comunque, di striscio. Poi sono corsa via, capendo che non avrei avuto speranze con quei ragazzi pieni d’odio. Mentre correvo verso il mio fuoristrada ho caricato la pistola e senza nemmeno pensarci ho sparato un colpo in aria. Quella volta il tentativo di spaventarli ha funzionato, perché si sono tutti fermati, anche il ragazzo che aveva tentato di accoltellarmi, e si sono sdraiati a terra con le mani unite sopra la testa senza che io dicessi niente; sembrava un film». Si lasciò scappare un sospiro, gli occhi rivolti al passato e un’ombra di sorriso sul volto. «Ero ancora così ingenua… Ho davvero rischiato grosso».
Tom le posò una mano sulla schiena, laddove sapeva ci fosse quella cicatrice, e le posò un bacio sulla tempia, sussurrando: «Ma alla fine ce l’hai fatta. È questo quello che conta».
«Già…». Si osservò i piedi e tacque.
Tom pensò che sarebbe stato il momento adatto per chiederle del perché l’indagine che aveva abbandonato fosse così importante per lei, ma venne sorpreso da un suo sorriso affettuoso che gli fece abbandonare quel proposito.
«Ora vai, ti ho trattenuto qui fin troppo», gli disse.
Tom corrugò la fronte, per poi scoppiare a ridere fragorosamente. Si alzò dal letto e raggiunse la porta della camera, si appoggiò con una mano allo stipite e voltando il capo le scoccò un sorriso.
«Mi ha fatto piacere ascoltare questa storia, fa parte di te ed è un altro modo per conoscerti meglio. La prossima volta, in cambio, ti racconterò qualcosa dei miei tour con i Tokio Hotel».
Allora anche Grace rise, incrociando le gambe sul letto. «Non vedo l’ora».

 
Tom arrivò a casa e tutta la pace e la serenità che lo avevano invaso stando quella notte con Grace svanirono nel nulla, da dove erano venute. Non dovette nemmeno trovarsi di fronte a Bill per capire che stava male: lo sentiva nelle viscere.
Entrò dalla porta principale e salì al piano superiore, credendo di trovare il gemello nella sua stanza, ma il suo letto non era disfatto e tutto era in perfetto ordine. Tornò in salotto e allarmato lo cercò persino nel bagno, poi uscì nel giardino sul retro e finalmente lo trovò.
Era seduto sul puff vicino al quale l’aveva visto l’ultima volta in compagnia di Dylan, e ai suoi piedi c’era un bicchiere di carta contenente vari mozziconi di sigarette e una bottiglia di vodka vuota. Aveva profonde occhiaie violacee a contornargli gli occhi, linee di trucco nero sulle guance e il suo sguardo era vitreo, inespressivo. Doveva essere rimasto lì per tutta la notte, mentre lui era da Grace.
Il rimorso di averlo lasciato da solo gli divorò lo stomaco e temette di sentirsi davvero male, ma resistette e si mise seduto sul puff accanto al suo, senza interrompere il suo grido muto di sofferenza.
Avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo fra le braccia e cullarlo come faceva quando erano piccoli, ma non ne ebbe la forza necessaria. Si sentiva un idiota integrale e al solo pensiero che Bill era stato male per così tanto tempo senza che lui lo confortasse gli veniva il voltastomaco.
«Mi dispiace, avrei dovuto parlartene subito», mormorò Bill ad un tratto, con la voce roca a causa del freddo, delle sigarette e dell’alcool. Nascose il viso nell’incavo della spalla del fratello e si strinse a lui, mentre iniziava a piangere silenziosamente. «Mi dispiace tanto».
Tom gli avvolse la schiena con le braccia e posò il mento sulla nuca di Bill, sentendolo tremare impercettibilmente contro di lui.
Non era Bill a dovergli delle scuse, affatto; l’unico da rimproverare era lui, che era stato un pessimo fratello gemello nel non accorgersi dei suoi sentimenti e nell’averlo lasciato da solo in quella lunga, lunghissima notte.

 
Grace, intanto, si era diretta in ospedale per far visita a sua madre.
Quel giorno sembrava che si sentisse meglio e il suo timido sorriso ne era la prova.
Come ogni giorno aveva accolto la figlia che non vedeva da anni con un po’ di timore, poi però si era lasciata andare e le aveva dato un assaggio di quello che aveva passato da quando lei e suo padre avevano deciso di separarsi e soprattutto da quando Grace aveva deciso di raggiungerlo.
Era stato un duro colpo per Melanie, la quale aveva preso la sofferta decisione di lasciare il marito che amava solo ed esclusivamente per proteggere la sua bambina dal suo lavoro. Per questo era caduta in un profondo stato di depressione che era riuscita a curare soltanto grazie alla musica, nonostante tutti i farmaci consigliati da fior di medici. Aveva trovato conforto soltanto nel suonare il pianoforte, la sua passione da quando era una bimba, e aveva persino deciso di tornare ad insegnare, cosa che aveva fatto per qualche anno a Londra, nella sua città natale.
Dopo averle raccontato i retroscena e i ricordi peggiori e migliori di quel periodo, con gli occhi già stanchi l’aveva pregata di leggerle ad alta voce un passaggio dell’ultimo romanzo che aveva comprato e che non aveva ancora finito. Grace l’aveva accontentata e le aveva letto un pezzo della storia di quell’amore struggente mettendocela tutta per dare un po’ di sentimento alla propria voce, ma non era proprio il suo genere. (I primi libri che lei aveva letto, subito dopo aver imparato a leggere a scuola, erano stati quelli che narravano le avventure di Sherlock Holmes, personaggio nato dall’ingegno del suo scrittore preferito, Arthur Conan Doyle). Sua madre però non sembrava mai accorgersene e pian piano si addormentava, cullata dalle ultime parole che aveva udito.
Grace osservò il suo volto inespressivo nel sonno ed accennò un sorriso accarezzandole la mano, poi uscì dalla stanza e passeggiò avanti e indietro nel corridoio per sgranchirsi un po’ le gambe.
Ripensò a quella notte trascorsa con Tom, a tutto ciò che si erano detti, alle loro confidenze, ai magici momenti che avevano passato insieme mentre facevano l’amore. Si passò le mani sul collo e tirò indietro la testa, scacciando per un momento tutte le altre preoccupazioni e rilassandosi grazie a quei ricordi ancora freschi e vividi.
La vibrazione del suo cellulare fu l’unica cosa che la riportò alla realtà.
Lo tirò fuori dalla tasca e se lo portò all’orecchio, sorpresa di scoprire che Molly fosse così mattiniera. Glielo disse a mo’ di battutina e la ragazzina fece finta di ridere, dicendo: «Ero preoccupata! Quando mi sono svegliata stamattina non sono più riuscita a dormire!».
«Preoccupata? E per che cosa?», domandò Grace, sbigottita.
«Beh, sono successe un sacco di cose ieri! Tu e Tom avete litigato… Bill e Dylan…».
«Ehi, ehi, frena! Per quanto riguarda me e Tom, ci siamo chiariti e abbiamo fatto pace».
«Sì, l’avevo intuito: dalla voce sembri felice», ridacchiò maliziosamente. «Dev’essere bello fare pace con Tom!».
«Farò finta di non aver sentito, okay?», replicò con tono serio, anche se tratteneva a stento un sorriso divertito. «Per quanto riguarda Bill e Dylan tu che cosa sai?».
La ragazzina le raccontò tutto ciò a cui aveva assistito, quando si era svegliata e aveva capito che avrebbe fatto meglio a fingere ancora per un po’. Espresse anche il suo parere personale, ossia che Dylan doveva essere proprio cieco e stupido per non capire che Bill mentiva ed ogni parola era come una pugnalata in pieno petto.
«Gli parlerò io. Ora Tom è con Bill, chissà come sta andando…», disse Grace, in pensiero.
«Sicuramente non bene! Dev’essersi sentito davvero uno straccio, poverino».
La detective sospirò, afflitta. E pensare che lei e Tom quella notte, mentre lui soffriva, avevano fatto la pace – e che pace.
All’improvviso si ricordò delle parole del chitarrista, anzi di un particolare ben preciso che necessitava assolutamente di una spiegazione. Molly era sicuramente la persona più adatta con cui parlarne.
«Molly, posso farti una domanda? Chi è Ria?».
La ragazzina rimase per qualche secondo in silenzio, raggelata da quella domanda. «E tu… Perché vuoi saperlo?», balbettò.
«Non aver paura, Molly. Tom non corre alcun pericolo se mi parli di lei, è solo che… insomma, ieri lui ha accennato al fatto che sua madre gli ha detto che preferiva questa Ria, così volevo sapere chi fosse».
«Ah, capisco». Le rassicurazioni di Grace però non la tranquillizzarono affatto, la sua voce era ancora incerta e quasi meccanica.
«Beh, lei è… è stata l’ultima ragazza di Tom, sono stati insieme per un bel po’… sono certa che almeno per un anno si siano, come dire…».
«Sì, ho capito ciò che intendi». Si appoggiò con le spalle al muro e si passò una mano fra i capelli, per tirarli via dalla fronte. «Vai avanti».
«Che posso dirti? So che è una modella, una bellezza filippina che ha vinto anche qualche premio… Non so altro».
«Okay. Grazie mille, Molly».
«Aspetta! Non riattaccare! Hai intenzione di indagare su di lei?! Grace! Grace, per favore…!».
L’investigatrice chiuse la chiamata e si infilò il cellulare nella tasca dei jeans. Si voltò e vide sua madre ancora addormentata, allora si incamminò lungo il corridoio.


***

 

Si avviò verso la propria scrivania senza sollevare lo sguardo da terra e quando vi giunse notò Oswin seduto sulla sua poltrona, con le mani dietro la nuca, i piedi su un angolo del tavolo e un sorriso quasi malefico stampato sul viso.
«Allora, com’è andata l’Operazione Riconquista?».
Dylan fece finta di non averlo sentito e si appoggiò con un fianco alla scrivania del partner, sorseggiando il suo caffè superforte dal bicchiere di carta col logo verde di Starbucks.
Poi chiese, come se nulla fosse: «Non dobbiamo fare il giro di ricognizione stamattina?».
Oswin tirò giù i piedi e si portò le mani sulle ginocchia, sospirando.
«E va bene, è stato un disastro. Quel Kaulitz te le ha suonate moralmente, eh?».
Il poliziotto ricambiò mestamente il suo sguardo e fece un cenno d’assenso col capo, perché in un certo senso il suo amico ci aveva preso.

 

***

 

«Non voglio uscire di casa, Tom».
Il chitarrista si girò verso il suo gemello, comparso all’improvviso sull’uscio della sua camera da letto. I suoi occhi, di solito luminosi, lo ferirono come una grossa spina nel cuore. Era certo che se avesse avuto lì Dylan lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
«Nemmeno io», ammise, sospirando afflitto. «Ma vediamo mamma così poco che non possiamo darle buca. Domani partiranno e… Fatti forza, Bill».
Il cantante mugugnò e chinò il capo, mentre tornava nella sua stanza per prepararsi.
Tom finì di cambiarsi e si mise seduto sul letto, con la testa fra le mani. Sentiva le tempie pulsargli dalla rabbia e al contempo percepiva un’enorme tristezza scavargli l’anima lentamente. Lo trovò un buon momento per chiamare Grace ed informarla di ciò che aveva trovato a casa.
Si portò il suo nuovo cellulare all’orecchio e dopo due squilli sentì la sua voce, che fu subito in grado di calmarlo almeno un po’.
«Dove sei?», le domandò.
«In giro. Mia madre si è addormentata e così ne ho approfittato per fare qualche commissione. Tu sei a casa?».
«Sì», sospirò. «E le cose non vanno per niente bene. Bill è distrutto e ti giuro che Dylan farà la stessa fine se lo becco che gli ronza ancora attorno. Tu ci hai parlato per caso?».
«No, ancora no. Ma so per filo e per segno quello che è successo ieri sera: Molly faceva solo finta di dormire».
«Quella ragazzina è una peste», disse trattenendo un sorrisino e ricordandosi delle sue parole di raccomandazione. In effetti quando l’aveva scrollata per portarla a casa l’aveva trovata fin troppo lucida…
«Bill non mi ha detto molto, si è chiuso a riccio e… mi sento così in colpa».
«Anche io».
«Ma in fondo, noi… come facevamo a saperlo?».
Il silenzio cadde fra loro e dal rumore del motore e della strada il chitarrista dedusse che Grace doveva essere nel suo fuoristrada.
Si schiarì la voce e disse: «Adesso andiamo da mamma, in hotel. Tu che fai?».
Sentì il rumore di una portiera che veniva sbattuta e del vociare. «Grace, mi senti?».
«Sì, ti sento. Ci vediamo lì tra poco, allora».
Grace si comportava in modo più strano del solito, tanto da fargli venire il sospetto che stesse lavorando. Ma il suo ufficio era chiuso, aveva deciso di prendersi una vacanza, era impossibile. E poi, perché gli aveva detto che si sarebbero visti lì con tanta sicurezza, vista la situazione con sua madre?
Stava per chiederle che cosa non andasse, ma lei non gliene lasciò il tempo e concluse la chiamata.

 
Grace si infilò il cellulare in tasca e vide Ria Sommerfeld (ventott’anni, metà asiatica, nata ad Amburgo e trasferitasi a Los Angeles per lavorare come modella, presentatrice ed attrice) scendere dalla sua auto, affidarne le chiavi ad un parcheggiatore e salire i gradini tappezzati di rosso dell’hotel a cinque stelle in cui pernottavano proprio Gordon e Simone, la madre di Bill e Tom. Coincidenza? Quell’ipotesi non era nemmeno da prendere in considerazione.
La seguì, come stava facendo da quasi un’ora tra una ricerca e l’altra sul suo laptop, e una volta all’interno scorse il bar, proprio adiacente alla lussuosa hall. Si mise seduta al bancone ed ordinò un semplice succo d’arancia, mentre con la coda dell’occhio spiava Ria.
Stava attendendo qualcuno, appoggiata con una mano al bancone mentre con l’altra reggeva sulla spalla una costosissima borsa che doveva aver sfoggiato al massimo due volte.
Finalmente la persona che aspettava si fece viva e Grace nascose un sorriso amaro nel bicchiere di vetro del suo succo d’arancia.

 

***

 

Tom posò una mano sulla spalla del fratello e la strinse, un gesto con cui aveva il desiderio di trasmettergli la sua vicinanza e il suo appoggio. Bill lo ringraziò con un minuscolo sorriso nascosto agli angoli delle labbra e lo stesso rivolse a sua madre quando la vide seduta ad uno dei tavolini all’aperto del bar, sotto una bella tettoia.
Bill si fermò all’improvviso e Tom non gli andò addosso per un soffio.
«Che c’è?», gli domandò sbigottito e quando posò lo sguardo sulla terza persona al tavolino impallidì. «Ri-Ria. Che ci fai tu qui?».
«Non sei contento di vedermi?», gli chiese sfarfallando le ciglia, per poi sciogliersi in una risata.
«Già Tom, non sei contento?», ripeté sua madre, gli occhi che le brillavano. «È stata una vera fortuna incontrarci qui nello stesso hotel, non trovi? È tanto che non vi vedevate, giusto?».
Tom, che ormai aveva quasi dimenticato la rabbia che aveva nutrito nei suoi confronti la sera precedente, ascoltando le sue critiche su Grace, divenne ancora più rancoroso e le lanciò uno sguardo glaciale.
Stava per aggredirla pubblicamente, perché era palese che non si fossero incontrate lì per caso e che era tutta opera sua per fargli cambiare idea su Grace, ma proprio il pensiero che Grace l’avrebbe raggiunto di lì a poco lo fece boccheggiare come un pesce fuor d’acqua.
«Questo non me lo dovevi fare, questo…», digrignò fra i denti appena ne ebbe di nuovo la possibilità. Ad un tratto però si interruppe e fu costretto ad ingoiare altre parole avvelenate perché un cameriere si era avvicinato al tavolo scortando qualcuno.
Tom si girò e con immenso sollievo vide Grace che sorrideva angelicamente. Gli bastò incontrare il suo sguardo caldo per sentirsi meglio e rivalutò l’opzione del suo arrivo: uniti erano più forti e avrebbero sconfitto il nemico comune, in quello strano caso incarnatosi in sua madre.
«Oh cara, che bella sorpresa che ci hai fatto. Non pensavo venissi», esclamò Simone contrariata, dato che appena l’aveva vista aveva assottigliato gli occhi, guardandola in cagnesco.
Poi con tono soddisfatto le presentò la sua ospite: «Lei è Ria, una carissima amica di famiglia nonché…».
«Piacere, io sono Grace», si presentò, interrompendo la donna, la quale però non si arrese.
«È stata eletta reginetta di bellezza per Miss Filippine, sai?».
«No, non lo sapevo. Non mi interesso a questo genere di cose, solitamente».
Simone grugnì e bevve un po’ del suo succo. Mentre non li guardava, Tom e Grace si scambiarono uno sguardo e si sorrisero fugacemente, stringendosi forte la mano dietro le loro schiene.
«Allora, che facciamo?», domandò Gordon, il quale non pareva essersi accorto di tutta la tensione che si era creata. «Facciamo un salto in spiaggia?».
«Sì, perché no?», rispose Ria, scambiando uno sguardo di sfida con Grace, che ricambiò per nulla impaurita.

 
Il sole era caldo sulla pelle, ma non abbastanza da mettersi in costume, perciò la sua rivale non poté mostrare al mondo le sue curve perfette. Grace non avrebbe mai retto il confronto, ma di certo non si sarebbe spaventata e sarebbe rimasta seduta sorridente accanto a Tom, proprio come in quel momento.
«Questa situazione è imbarazzante», sussurrò lui a denti stretti, chinandosi verso il suo orecchio.
«Lo so bene», rispose lei allo stesso modo.
«Eppure mi sembri tranquillissima».
«Come si dice, le apparenze ingannano. Se solo ci fosse un modo per farle capire che…».
«Cosa?», la spronò a continuare, mentre un sorriso si allargava sempre di più sul suo volto.
Grace chinò il capo, arrossendo. «Che non permetterò che ti facciano del male di nuovo a causa mia, che io ci tengo davvero a te…».
«Sei adorabile», mormorò.
«E tu sei un idiota», ribatté asciutta, più che imbarazzata.
«Ci compensiamo allora».
Le sfiorò la guancia con le dita e si protese verso le sue labbra per baciarla, ma proprio in quel momento sua madre lo prese per un braccio e lo attirò bruscamente verso di sé.
«Tesoro, mi andresti a prendere qualcosa da bere a quel chiosco laggiù? Fa davvero caldissimo!».
Tom sbuffò, ma fu costretto ad annuire. Ciò che non si aspettava fu che Ria lo seguisse, dicendo che anche lei sentiva la gola piuttosto secca.
Simone sorrise raggiante vedendoli andare via insieme e poi scoccò uno sguardo vittorioso a Grace, la quale senza nemmeno badarci si alzò dalla sabbia e raggiunse Bill, seduto da solo all’ombra di un ombrellone.
«Ehi», gli sussurrò passandogli una mano fra i capelli. «Vuoi che ti presti la mia pistola per freddarlo?».
Bill si lasciò scappare un sorrisino e si beò delle sue coccole, posando il capo sul suo grembo.
«No, grazie. Credo che peggiorerei soltanto le cose».
«Mmh, forse hai ragione. E allora, che cosa vuoi fare?».
«Per ora niente», mormorò.
«Saggia decisione. Intanto goditi lo spettacolo: è davvero uno spasso, non trovi?».
Si riferiva ovviamente a Simone e a Tom e Ria, uno di fianco all’altro al chiosco poco distante.
«Scusala», disse Bill gettando un’occhiata indispettita a sua madre. «Non si è mai comportata così… Dev’essere davvero spaventata».
«Faccio così paura?».
Bill sorrise. «Non sei tu, è il tuo lavoro».
«Chissà se un giorno ci sarà qualcuno in grado di accettarmi per ciò che sono e ciò che faccio».
«Oh, ma quel qualcuno c’è già», mormorò, posando lo sguardo su suo fratello.

 
«Una bottiglia d’acqua naturale», disse Tom all’uomo sorridente dietro al bancone, mentre tirava fuori dalla tasca dei pantaloni il suo portafoglio.
«Due», aggiunse Ria, già con i soldi in mano. Girandosi verso di lui con un sorriso, disse: «È tanto che non ci vediamo, lascia che offra io».
Tom sbuffò, per niente a suo agio nella parte cucitagli addosso da sua madre. Guardò Ria pagare e poi dargli la bottiglietta d’acqua. Il chitarrista fece per prenderla, ma lei non mollò la presa e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«Che cosa c’è?», le domandò secco.
«Lei è davvero la tua ragazza?».
«Sì, perché?».
Ria si tolse gli occhiali da sole dal volto per aumentare l’effetto del suo sguardo magnetico. «Che cos’ha lei che io non ho?».
«Sei stata tu a scaricarmi», si difese alzando le mani all’altezza del petto. «E so a che gioco state giocando tu e mia madre; con me non attacca».
Le strappò la bottiglietta dalle mani e si allontanò affondando i piedi nella sabbia, quando si sentì prendere per mano e trascinare indietro. Guardò spazientito la modella, ma quella volta nel suo sguardo trovò qualcosa di diverso: una risata inespressa.
«Ti giuro, sono davvero curiosa di sapere che cosa ti piace di lei».
Tom si girò per osservare la sua Grace e la vide sorridere al sole, mentre con una mano accarezzava dolcemente i capelli di suo fratello, sdraiato con la testa sulle sue gambe. Sorrise senza nemmeno accorgersene e tornò a fissare gli occhi a mandorla di Ria, la quale aveva assunto un’espressione piuttosto sconcertata.
«Tutto», rispose stringendosi nelle spalle. «Ma, d’altronde, ai tempi mi piaceva tutto anche di te, quindi… non saprei. So solo che Grace è unica nel suo genere».
Che con quella risposta l’avesse soddisfatta o meno non gliene importò, tanto che tornò dagli altri senza aspettarla.
Diede la bottiglietta d’acqua a sua madre, la quale gli chiese subito che cosa si fossero detti; lui però non la calcolò e gattonò sulla sabbia fino a Grace, per poi assalirla alle spalle.
«Bill, lei è la mia ragazza se non te ne sei reso conto!», rimproverò il fratello, mentre la riempiva di baci sul collo e lei si dimenava per liberarsi, non impedendosi di ridere fino alle lacrime.
Simone, intanto, posò gli occhi su Ria come a dirle: «Fai qualcosa!». La ragazza sollevò le mani, muovendo il capo con fare rassegnato.

 
«Ria, posso parlarti un attimo?».
La modella tedesco-filippina sollevò gli occhi dall’acqua che le stava bagnando i piedi sulla riva e li posò su quella ragazza che in qualche modo doveva essere speciale, visto l’affetto che Tom nutriva nei suoi confronti. O forse era stato proprio il suo affetto a rendere così Tom.
«Sì, certo», le rispose. «Facciamo due passi».
La detective camminò di fianco a lei e già dopo pochi passi attaccò: «Perché stai facendo tutto questo? So che Tom non ti interessa più, quindi dì la verità».
Ria rise e scrollò le spalle. «Okay, lo sto facendo perché me l’ha chiesto Simone».
«E per quale motivo? Ti senti in debito con lei?».
«No, perché è sempre stata carina con me e mi ha chiesto di aiutarla».
«Ti ha chiesto di metterti fra me e Tom, di rovinare tutto. Dimmi, se tu fossi al mio posto come la prenderesti?».
Ria si fermò e la guardò negli occhi tirandosi sulla fronte gli occhiali da sole firmati. Rimase in silenzio e quella fu l’occasione perfetta per un altro affondo di Grace.
«Sai dove potresti essere a quest’ora? A casa, oppure in un carinissimo bar, col tuo fidanzato. Miguel, vero?», le scoccò un sorriso.
«Ma tu… tu chi sei? Che cosa diavolo vuoi da me?», gracchiò Ria, sgomenta.
«Voglio che la smetti con questo teatrino, che Simone mi affronti faccia a faccia, perché se c’è una cosa che in questo momento difenderei a costo della mia stessa vita è proprio Tom».
Il suo sguardo era glaciale, nemmeno il sole caldo di quel pomeriggio sarebbe stato in grado di scioglierlo.
La modella la fissò taciturna per un paio di minuti, poi l’ombra di un sorriso le illuminò il volto e sospirando disse: «Credo che anche se la madre di Tom continuerà ad odiarti, dovrà per forza accettarti».
«Che cosa intendi dire?».
«Intendo dire che non l’ho mai visto così felice e… fedele, sì. Prima hai detto che tu lo difenderesti a costo della tua stessa vita; beh, penso che lui si getterebbe nel fuoco per te».
Grace sorrise, ricordando le parole che Tom le aveva detto quella notte: il significato era più o meno lo stesso.
«Va bene, sarà ora che torni a casa sul serio», esclamò Ria, posandole una mano sulla spalla come se fossero vecchie amiche. «Sai», le sussurrò all’orecchio, «io e Miguel avremo presto un bambino».
«Congratulazioni», disse Grace e le strinse la mano, profondamente riconoscente.
«Grazie. Mi raccomando, prenditi cura di Tom e… chiedi scusa a Simone da parte mia».
«Lo farò, non ti preoccupare. Sii felice».
«Anche tu».

Ci puoi contare.

 
Simone, incredula, colpì Gordon con un manrovescio sul petto e il poveretto si svegliò di soprassalto, chiedendo che cosa fosse successo.
«Guarda!», indicò Ria e Grace che si stringevano la mano e poi si separavano scambiandosi uno sguardo che trasudava gratitudine reciproca.
«E allora?», le domandò, calandosi di più il cappellino sul viso per tornare alla sua pennichella.
«E allora? È un disastro!», strillò la donna, furibonda, alzandosi in piedi e creando un gran polverone. «Ria! Ria, dove stai andando?!».
«Sta tornando a casa, dal suo fidanzato», rispose con tono pacato Grace, giunta vicino a lei.
Tom le fu accanto in un attimo. «Il suo fidanzato?».
Grace annuì, sorridente. «Si chiama Miguel e presto diventeranno genitori». Poi si voltò verso Simone e con lo sguardo più serio che riuscì a tirar fuori disse: «Sono davvero dispiaciuta per ieri, abbiamo decisamente iniziato col piede sbagliato. Ma io sono pronta a ricominciare da capo, se lei vuole. Capisco bene la sua paura, so che il mio è un lavoro alquanto rischioso, ma sarei disposta a lasciarlo se fosse l’unico modo per stare con Tom con la sua approvazione. Io… io voglio davvero bene a suo figlio e sono mortificata per ciò che gli è successo, ma le giuro sulla mia vita che non permetterò a nessuno di fargli altro male».
«Bel discorso, signorina», si complimentò Simone, anche se non sembrava molto rassicurata. «Il fatto è che lui è uno zuccone, finirà per farsi del male da solo!».
«Sta dicendo che sarò io a fargliene?».
«Forse», borbottò incrociando le braccia al petto e guardando altrove.
«Allora ho scelto di che morte morire!», esclamò Tom sorridendo, non trovando l’approvazione né di Grace né di sua madre.
«Ne riparliamo a cena», concluse lapidaria Simone, agitandole un dito di fronte al viso prima di allontanarsi. Ma Grace avrebbe giurato di aver visto un minuscolo sorriso incresparle le labbra.
«Ti ha invitato a cena! È già un enorme passo avanti!», disse felice Tom.
«Trovi anche tu?», gli domandò, anche se non gli diede modo di rispondere, tappandogli la bocca con un bacio.

 
Simone e Gordon si erano allontanati per fare una passeggiata sulla riva proprio come una coppietta di fidanzatini. Grace, Tom e Bill, quindi, erano rimasti soli e si domandavano che cosa potessero fare per non starsene lì come lucertole al sole.
«Allo stesso chiosco in cui vendono le bibite affittano delle moto d’acqua. Possiamo prenderne una», propose Tom, gli occhi luminosi come quelli di un bambino al pensiero di un giocattolo nuovo.
«Ne hai mai guidata una?», gli domandò Grace, scettica.
«Certo! Alle Maldive! Vero, Bill?».
Il cantante annuì. «Però di solito guido io!».
«Non dire scemate!», lo rimproverò il gemello, paonazzo.
Sia Grace che Bill ridacchiarono sotto i baffi.
«Tu sei sicuro di star bene? Il dottore ha detto di non fare sport né di sforzarti, potrebbero saltarti i punti…», disse Grace apprensiva e Tom roteò gli occhi, nauseato dalle sue attenzioni da mammina.
«Sto benissimo!».
«E va bene», si lasciò convincere alla fine. «Ne prendiamo due, così…».
«Io e Grace su una e Bill sull’altra», le tolse le parole di bocca, anche se la detective la vedeva in maniera differente.
Infatti, replicò: «Io stavo per dire che voi due ne usate una e io un’altra».
«Ma no, scusa, tu stai con me!», esclamò ancora il chitarrista.
«Ma guido io!».
«Perché, ne sei capace?».
«Sicuro! Anche meglio di te!».
«Vuoi fare una gara?».
«Ti umilierei!».
Si guardarono con occhi ardenti di sfida e solo la suoneria del cellulare di Grace interruppe la loro faida. L’investigatrice lesse il nome sul display illuminato e si rivolse ai gemelli: «Devo rispondere. Voi andate avanti, vi raggiungo fra un attimo».
Tom e Bill si alzarono e si avviarono verso il chiosco, mentre Grace si portava il cellulare all’orecchio.
«Dylan, in che guaio vi siete cacciati tu e Bill?», gli chiese subito, a bassa voce nonostante il frontman fosse già lontano.
«Come sta?». La sua voce era dura e ferma, segno che stava facendo di tutto pur di non cedere ai propri sentimenti.
Grace sospirò e si passò una mano fra i capelli, poi guardò Bill con la coda dell’occhio e sobbalzò scoprendolo voltato verso di lei, gli occhi tristi ed imploranti.
«Vuoi la verità? Male».
«Beh, allora siamo in due. Ho fatto una cazzata».
«Credo che non tutto sia perduto, fai ancora in tempo a rimediare», disse, non del tutto certa di ciò che diceva. Chissà come avrebbe reagito Tom se avesse udito quelle parole d’incoraggiamento!
«No, non posso».
«Non puoi o non vuoi?».
L’improvvisa freddezza nella voce di Grace fece tacere per qualche secondo il poliziotto e la detective rincarò la dose: «Di che cosa hai paura, Dylan?».
«Non ho paura di niente, di niente!», urlò con tutto il fiato che aveva in gola. «È solo che io non sono gay, capisci?!».
«Se è questo il problema capisco benissimo: la divisa è troppo stretta per un gay, vero? Il tuo è fottuto orgoglio, amico».
«Vaffanculo, Grace», sibilò.
«Con piacere».
Terminò bruscamente la chiamata e gettò il cellulare nella borsa, per poi infilarsi le mani fra i capelli nervosamente. Rifletté su quella maledetta situazione che si era creata e nel frattempo si rifece la coda con gesti rapidi, visto che a furia di toccarsi i capelli li aveva tutti scompigliati.
Si alzò dalla sabbia e raggiunse Bill e Tom al chiosco, dove però non avevano trovato nessuno a servirli. Quindi si erano messi a discutere sul modo in cui Grace aveva convinto Ria ad abbandonare la commedia organizzata da Simone.
«Ma dimmi una cosa, Grace», disse il chitarrista, appoggiato con un gomito al bancone.
In quel momento il bambino seduto su una piccola seggiola sotto uno degli ombrelloni del chiosco alzò la testa verso di loro, tenendo gli occhi chiusi. Aveva i capelli neri, lunghi fino al mento, il corpicino esile e fra le mani teneva tanti cubetti dalle forme più varie.
Grace si disse che l’aveva già visto da qualche parte, ma non ebbe modo di appurarlo perché Tom riprese: «Quando ti ho chiamata non eri a fare delle commissioni, vero? Eri ad indagare su Ria».
La detective si strinse nelle spalle, accennando un sorriso. «Beh, mi avevi incuriosito ieri e volevo sapere perché Simone la ritenesse migliore di me».
«Quindi non eri nemmeno un po’ gelosa?».
All’espressione incredula disegnata sul volto di Tom sia Bill che Grace ridacchiarono.
«Io, gelosa? Questa è proprio…». Non riuscì a concludere la frase perché due manine le avevano preso la mano destra e la stavano esaminando accuratamente con movimenti veloci ed esperti delle dita. Era lo stesso bambino che aveva visto seduto sotto quell’ombrellone.
«Chi è, lo conosci?», mormorò Tom alla ragazza, rimasta senza fiato quando il bimbo aveva aperto gli occhi di un azzurro opaco e l’aveva fissata con le sue pupille lattiginose.
«Grace, sei proprio tu?», le domandò con una vocina fine.
«Dio mio, Jeremy», balbettò l’investigatrice, inginocchiandosi sulla sabbia di fronte a lui.
Il bambino, Jeremy, accennò un sorriso e le posò le manine sul viso per esplorarlo e rammentarlo in tutti i suoi particolari.
«Ti vado a chiamare mio padre», le sussurrò prima allontanarsi affiancando la parete del chiosco, fino a sparire sul retro.
Grace non si alzò subito da terra, rimase lì con lo sguardo fisso, come se le manine di Jeremy stessero ancora sfiorando il suo volto.
Tom, a disagio, bisbigliò: «Grace, ma quel bambino è…».
«Cieco, sì», rispose e levò lo sguardo verso di lui. Tese una mano e Tom l’afferrò per aiutarla a tirarsi su.
«Come fai a conoscerlo?», le domandò invece Bill, evidentemente scosso.
Grace finì di pulirsi le ginocchia e sorrise. «È una lunga storia e, ah, saranno passati già tre anni! Com’è cresciuto…».
«Grace! Grace, oh mio Dio!», gridò un uomo sulla trentina, uscendo di corsa dal retro con il piccolo Jeremy in braccio. Era lo stesso uomo che qualche tempo prima aveva servito Tom e Ria.
«È passato così tanto tempo!», urlò ancora e la travolse in un goffo abbraccio, non appena Jeremy fu coi piedi per terra.
«Sono così contenta di vedervi», rispose la detective, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla. «Non sapevo che lavorassi qui».
«In realtà questo chiosco era del padre di mia moglie, ce l’ha affidato. Oh mio Dio, sarà così contenta di sapere che ti abbiamo rivista!».
«Perché, non è con voi?».
«No, purtroppo è rimasta a casa a badare alla piccolina», disse e un sorriso colmo d’amore gli illuminò il volto. «Jeremy ha avuto una sorellina da poco».
«Wow, ma è fantastico», esclamò passando una mano fra i capelli lunghi del bimbo. Solo allora si rese conto di aver trascurato Bill e Tom, impalati come due stoccafissi.
«Oh, scusatemi. Bill, Tom, lui è Javier; Javier, loro sono Bill e Tom Kaulitz».
«Molto piacere di conoscervi! La vostra non è una faccia nuova, ci siamo già visti da qualche parte?».
I gemelli si scambiarono uno sguardo imbarazzato e Bill si prese l’incarico di rispondere: «Siamo il cantante e il chitarrista dei Tokio Hotel».
«Oh, ma certo!», urlò dandosi una manata sulla fronte. «Ora è tutto chiaro! Il piccolo Jeremy è un vostro fan!».
Il bambino si nascose dietro le gambe del padre e chiuse i suoi occhi vacui, forse timoroso di mostrare la sua cecità di fronte ai suoi idoli.
Tom però non si lasciò intimorire e si chinò di fianco a lui, gli accarezzò i capelli con una mano e con l’altra prese quella di Jeremy.
«Molto piacere, Jeremy. Io sono Tom».
Il bambino rimase in silenzio, il capo rivolto verso il basso, anche se non riuscì a resistere e le sue dita si mossero su quella mano grande.
«Quanti calli», mormorò sorridendo.
«Puoi toccargli anche la faccia, se vuoi», lo rassicurò Grace. «Stai attento però a non pungerti: non si è ancora fatto la barba, nonostante lo abbia implorato».
«Che cos’hai contro la mia barba?».
«Mi dà fastidio e non mi piace!».
Il padre di Jeremy scoppiò a ridere al loro battibecco e mentre suo figlio posava timidamente le mani sul volto di Tom per conoscerlo meglio, raccontò ai due di quando aveva conosciuto la detective e ciò che aveva fatto per salvarlo.
«Perché mi ha davvero salvato la vita», ci tenne a precisare e poi incominciò: «All’epoca io facevo parte di una delle gang più temute di tutta Los Angeles e dopo aver conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie avevo provato ad uscirne, ma sapete com’è: quando si entra nelle gang non si può più uscire se non pagando con la propria vita; così sono stato costretto a rimanere. Intanto era nato Jeremy e io ero davvero disperato, perché temevo per la mia famiglia e non potevo cercarmi un lavoro normale, dovendo essere sempre a disposizione del boss. Fu in quel periodo che conobbi Grace: non so come era riuscita a farsi amico il boss, ad ottenere la sua fiducia, e appena è venuta a sapere che io avevo tentato già una volta di uscire dalla gang è venuta da me per ricevere altre informazioni. Io le ho confidato tutto, sentivo che potevo fidarmi e non mi sbagliavo», si scambiarono un sorriso. «Mi ha detto che lei era un’investigatrice privata e che poteva aiutarmi se io aiutavo lei: in pratica mi ha chiesto di collaborare con la polizia per impedire al boss di innevare tutta Los Angeles».
«E poi com’è finita?», chiese in trepidazione Tom, alzandosi in piedi sentendo le gambe intorpidite.
Jeremy aveva finito di esaminarlo e ora si era avviato a tentoni verso Bill, il quale si era lasciato toccare prima con un po’ di diffidenza, poi con un sorriso dolce sul viso.
«È finita che la polizia con una sola retata ha sequestrato chili e chili di droga, io inspiegabilmente ho ottenuto ancora più stima da parte del boss», Doc Mahkah, «perché non aveva mai visto una ragazza con più coglioni dei suoi tirapiedi – parole sue – e sono riuscita a trattare per la “liberazione” di Javier», concluse sinteticamente Grace.
«È stata incredibile», disse l’uomo, commosso. «Mi ha ridato la vita, la mia famiglia, tutto».
La ragazza scrollò le spalle, nonostante fosse arrossita. «Ho solo restituito un marito a sua moglie e un padre a suo figlio, l’avrebbe fatto chiunque».
«Dovresti essere un po’ più orgogliosa di te stessa», le disse Tom, stringendole un braccio fra le spalle. «Credo che persino mamma si convincerebbe della tua bravura se le raccontassi questa storia».
Lei lo fulminò con lo sguardo. «Non ci pensare nemmeno».
Javier sospirò, cacciando in un angolo lontano il passato, e sorrise raggiante. «In che cosa posso esservi utile, ragazzi? Vi serviva qualcosa?».
«In effetti sì», rispose Grace. «Volevamo affittare delle moto d’acqua per un’oretta».
«Due: una per me e Grace e una per Bill», disse Tom, ma Grace lo tirò per la maglietta strillando: «Non ci pensare nemmeno!».
Ripresero il loro vecchio battibecco e Javier non poté fare a meno di ridere, per poi dire: «Mi dispiace ragazzi, ma ne ho solo una disponibile in questo momento. Se volete aspettare che qualcuno finisca…».
«No, lascia stare», rispose Bill scuotendo il capo. La sua affermazione fece azzittire anche i due litiganti. «Io non ho molta voglia, quindi possono prenderne solo una e andare in due. Faranno a turni per guidare. Vero?», li guardò inarcando le sopracciglia ed affilando lo sguardo e i due non poterono che accettare le sue condizioni.
«Tu che cosa farai?», gli chiese il gemello.
«Io rimarrò qui con Jeremy, sempre se a lui non dispiace».
Il bimbo fece un largo sorriso e scosse il capo, scortando il cantante fino ai suoi giochi, quei cubetti di legno di varie forme. Jeremy gli fece chiudere gli occhi e gli diede uno dei cubetti per fargli indovinare che forma fosse.
«Bene, allora siamo d’accordo per una moto d’acqua?», ricapitolò Javier, andando a prendere le mute - contro il freddo - e i giubbotti di salvataggio da fargli indossare.
«Sì», rispose Grace. «Quant’è?».
Javier la guardò con un sorriso sornione. «Vi aiuto a metterla in acqua».
Nei bagni entrambi si tolsero i vestiti per indossare le mute, poi Grace aiutò Tom ad allacciarsi il giubbotto sulla schiena e una volta raggiunto Javier portarono la moto d'acqua fino a riva. L’investigatrice, approfittando di un momento di distrazione del chitarrista, si mise subito al posto di guida con un ghigno di soddisfazione sulle labbra.
«Okay, ma quando te lo dico facciamo cambio!», la intimò Tom, facendole ben poca paura.
«Grazie Javier, sei davvero gentilissimo», disse Grace e l’uomo sventolò una mano come a voler scacciare una mosca fastidiosa.
«Divertitevi!».
Grace accese il motore e dopo una partenza lenta, visto che c’erano un paio di surfisti, iniziò ad accelerare mostrando la sua abilità anche in quel campo. Tom pensò che non avrebbe mai smesso di scoprirla: aveva una risorsa inesauribile di sorprese!
«Sai a che cosa pensavo stamattina?», le domandò all’improvviso, urlando per farsi sentire sopra il rumore del motore e dell’acqua che li sfregiava.
«A che cosa?».
«Che la mia relazione con te è la più strana che io abbia mai avuto!».
Grace sorrise e lo guardò con la coda dell’occhio mentre curvava pericolosamente. Non perse nemmeno per un attimo il controllo della moto, ma Tom si aggrappò ancora più saldamente a lei. Era riuscita nel suo intento.
«Insomma», aggiunse ancora lui, «è la relazione meno fisica che io abbia mai avuto!».
La detective ebbe improvvisamente voglia di buttarlo giù a calci, ma poi rise: che poteva farci, era fatto così, il suo Tom.
«Sono successe tante cose e quando abbiamo iniziato ad avvicinarci tutto è accaduto così in fretta che secondo me non abbiamo ancora capito quello che ci sta succedendo. E poi sei stato in ospedale… Non ti preoccupare, recupereremo!», gli rispose.
Tom posò il mento sulla sua spalla ed annuì con la testa, baciandola sul collo.
«Non ho detto che dobbiamo recuperare adesso!», gridò Grace, divincolandosi.
«Allora lasciami guidare!».
«Sporco ricattatore!».
Il chitarrista sorrise soddisfatto e la vide rallentare fino a far fermare la moto d’acqua in uno specchio d’acqua cristallina, nonostante il fondale fosse almeno trenta metri sotto di loro. Grace si voltò verso un lato e con la grazia di una ballerina si tuffò in mare. Riapparve in superficie qualche momento dopo e gli sorrise, spostandosi i capelli dalla fronte.
«Com’è l’acqua?», le domandò mentre le tendeva una mano per aiutarla a risalire sulla moto.
«Un po’ freddina, ma tutto sommato bella!».
«Bene, allora preparati al bis». Detto fatto: Tom partì in quarta e Grace dovette stringersi a lui più che poté per non volare via. Era un pazzo, decisamente.
«E così sono venuto a sapere di due tuoi vecchi casi in un solo giorno!», riprese a parlare ancora Tom.
«Sto migliorando, vedi?».
«Eccome! Ho capito che ne hai passate davvero tante, che hai rischiato grosso in un bel po’ di occasioni…».
«È vero. Molte volte ho pensato che fosse arrivata la mia ora, che tutto stesse per finire».
«Ma sei arrivata fino a qui, più o meno illesa».
«Già. Devo avere un angelo custode davvero efficiente».
«No, semplicemente non potevi morire: dovevi ancora incontrare me».
Grace si ammutolì e lo fissò in silenzio per un po’, soffermandosi sui suoi occhi luminosi e sul mezzo sorriso che gli creava una fossetta sulla guancia. Poi sorrise dolcemente e posò la guancia contro la sua spalla, avvolgendo ancora più saldamente le braccia intorno alla sua vita.

 
Grace guardò l’ora sul suo cellulare e si lasciò scappare un sorrisino nervoso, alzandosi dalla sedia su cui era seduta. Tom, Bill, Simone e Gordon, allo stesso tavolino e con i loro aperitivi in mano, la fissarono confusi.
«Dove vai?», le domandò la donna. «Pensavo che restassi qui a cena».
«Ci sarò, glielo prometto. Solo che… prima dovrei andare a trovare una persona. Le avevo detto che ci saremmo viste e…».
Il chitarrista intervenne in suo aiuto, sorridendole ed alzandosi a sua volta. «Ti accompagno».
«Non è necessario», balbettò, ma Tom la prese per mano e salutò la sua famiglia con un gesto del capo e la promessa che si sarebbero visti tra un’oretta a cena.
Raggiunsero ancora mano nella mano l’Audi del chitarrista, anche se Grace avrebbe voluto prendere il suo fuoristrada.
«Non mi va di usare quel catorcio», disse Tom sorridente, sapendo di scatenare le sue ire.
«Non è un catorcio!». Si fermò ad un passo dall’Audi, con le mani sui fianchi e uno sguardo furioso.
«Dai Grace, scherzavo…».
Non riuscì a farsi perdonare facilmente e per vederla sorridere di nuovo dovette fare una cosa che non aveva mai fatto: lasciare che una donna guidasse la sua auto.
«Ti prego, stai attenta», la supplicò con voce strozzata, dandole le chiavi.
«Stai tranquillo, la tratterò come tratto il mio fuoristrada!».
«Oh, bene».
Appena fu al volante Grace ebbe la sensazione di non aver mai guidato in vita sua, con quella strana emozione che la punzecchiava sottopelle. Ma presto si rilassò e percepì le fusa del motore, le gomme che sembravano scivolare sull’asfalto e la comodità dei sedili in pelle. Era come inglobata nell’auto e la sua guida divenne sciolta e sicura, tanto che Tom rimase di stucco per l’ennesima volta in quella giornata.
Quando arrivarono di fronte all’ospedale, Grace non spense il motore e si sporse verso di lui per sfiorargli le labbra con un bacio.
«Grazie», gli sussurrò. «Farò il prima possibile».
Tom annuì frettolosamente, in modo quasi automatico, dimenticandosi per un attimo di ciò che gli era venuto in mente di fare. Le prese il volto fra le mani e la travolse in un bacio appassionato, che terminò solo quando lei si spostò ridendo sommessamente e scese dall’auto.
La osservò entrare nella struttura ospedaliera e scosse il capo, tornando pienamente in sé. Allora scese anche lui, chiuse l’Audi con il piccolo telecomando e fece lo stesso tragitto che aveva visto fare da Grace.
Raggiunse la stanza della signora Moore e vide l’investigatrice in piedi accanto a lei, che le stringeva docilmente la mano e le raccontava qualcosa. Allora bussò ed entrò. Quella volta fu lui a sorprendere Grace, perché lo guardò presentarsi a bocca aperta ed incredula alle proprie orecchie.
«Buonasera, signora Moore. Mi chiamo Tom Kaulitz e sono il ragazzo di sua figlia. È un vero piacere conoscerla».
Melanie guardò sua figlia di sottecchi, imbarazzata, e le sussurrò: «Grace, non era il caso di farmelo conoscere adesso: sono impresentabile».
Tom sorrise e le prese una mano fra le sue, affiancando la detective. «Io invece la trovo in ottima forma e ora capisco da chi Grace abbia preso il suo bel sorriso».
A sentirlo parlare così, chiunque avrebbe pensato che avesse imparato quelle parole a memoria e fosse così disinvolto a furia di conoscere le madri delle sue ragazze, ma Grace sapeva che non aveva mai fatto una cosa del genere e glielo leggeva negli occhi e negli angoli tremanti del suo sorriso che era teso come una corda di violino. Si chiese perché stesse facendo tutto quello, visto che non gliel’aveva chiesto, e capì che stava cercando di ripagarla per gli sforzi che aveva fatto con sua madre.
Commossa, accennò un sorriso impacciato e gli strinse forte la mano nella sua.

 

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Buonasera! ;)
Oggi non starò a dire molte cose, lascio a voi la più totale libertà, sempre se vorrete lasciarmi due righe per sapere che cosa ne pensate di questo capitolo ancora "senza indagini". Si sono scoperti però alcuni casi a cui ha lavorato Grace e soprattutto è stato il capitolo delle mamme xD Ve l'aspettavate così, la dolce Simone? Ha fatto bene o male ad invitare Ria? E Tom, che si è presentato alla madre di Grace? Che carino *-*
Per quanto riguarda Bill e Dylan so già che mi odierete e che odierete ancora di più Dylan ora che sta facendo soffrire Bill, ma nemmeno lui sta proprio bene e infatti lui e Grace si sono presi a male parole... Staremo a vedere ù.ù
Ringrazio di cuore chi ha commentato lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate e chi legge! Vi adoro! :)
A domenica prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

 

«Sono allibito, ormai anche i bambini spacciano in questa città del cazzo!», borbottò indignato Oswin, mettendosi al volante della Crown Victoria. Era così frustrato che avrebbe voluto accendere la sirena solo per evitare il traffico, ma Dylan riuscì a dissuaderlo, anche se si beccò il nomignolo “Moscio Perbenista”.
Una volta domato il partner, Dylan posò il capo sul finestrino e guardò la strada scorrere sotto le ruote dell’auto, immergendosi nei suoi pensieri. Lo faceva spesso da quando era successo il casino con Bill e aveva litigato con Grace, quella stupida che non riusciva a capire come si sentisse. Ma in fondo era lui il primo stupido, visto che nemmeno lui sapeva dare un nome alla tempesta nata dentro di lui da quando aveva chiarito – parola grossa – con il cantante dei Tokio Hotel.
All’improvviso l’autoradio gracchiò e Dylan si mise le mani nei capelli, perché non dormiva da circa quarantott’ore e voleva andare a casa.
«Pattuglia 114ES», rispose stizzito con la radiolina alla bocca.
«Rientrate, il capo vi vuole alla centrale. Subito».
I due poliziotti accartocciarono contemporaneamente le labbra in una smorfia. Quella di Oswin era la più inquietante, perché somigliava ad un sorriso perverso.
Proprio lui, disse: «Che bella notizia, ci voleva proprio!».
Quella volta neppure Dylan ebbe la forza per impedirgli di accendere la sirena: dopotutto il capo della polizia stradale del distretto dell’Eastside li voleva lì subito, non potevano di certo farlo aspettare.
Appena arrivati in centrale, si avviarono verso l’ufficio del capo sotto gli sguardi curiosi e diffidenti dei colleghi.
«Hai combinato qualche guaio?», chiese sottovoce Oswin.
«No», rispose Dylan. «Tu?».
«Non che io sappia».
Attraverso le veneziane dell’ufficio del capo notarono un uomo seduto su una delle poltrone in pelle di fronte alla scrivania.
Dylan bussò lievemente sul vetro della porta e il capo li fece entrare. L’uomo, rimasto seduto fino ad allora, si alzò e si stirò la cravatta del suo completo elegante.
Il capo stava per presentarlo, ma l’uomo lo precedette e fece da sé: «Agente Michael Crawford, FBI».
I due poliziotti sgranarono gli occhi e deglutirono una quantità smisurata di saliva, pur sentendo la bocca secca.
Che avevano fatto di male, tanto da attirare l’attenzione dell’FBI?

 

***

 

Tom trovò Grace in cucina, intenta a preparare un bricco di caffè. Le avvolse la vita con le braccia e le baciò la tempia, sussurrandole il buongiorno.
«Oggi tua madre viene dimessa, vero?», le domandò, sedendosi al tavolo e rubando un biscotto dal contenitore di latta.
La detective annuì con un cenno del capo. «Prima che arrivi devo sistemare tutto e dare una lavata ai pavimenti…».
Ci mancò poco perché Tom si strozzasse coi biscotti di cui, uno dopo l’altro, si stava rimpinzando con nonchalance.
«Viene a stare qui da te?».
«Non è il caso di farla tornare a casa sua, dove è stata aggredita e dove rimarrebbe sola. È meglio che stia qui con me, si sentirà più tranquilla».
«E ti sentirai più tranquilla anche tu».
Grace sospirò e portò il bricco pieno di caffè a tavola, ne versò un po’ in due tazze e poi si sedette, coprendosi il viso con le mani.
«Ho avuto davvero paura di perdere anche lei», mormorò, ma subito dopo si ricompose, facendo scoppiare la confezione di plastica di una brioche.
Tom ebbe come la sensazione che Grace, rendendosi conto di quello che aveva lasciato trapelare dalle sue parole, si stesse comportando come se nulla fosse per distrarlo. Visto che la metteva così, fece tacere la propria curiosità e decise di assecondarla; anzi, di distrarla a sua volta.
«Quindi da quando tua madre verrà qui noi non avremo più un rifugio dove poter recuperare il tempo perso. Fantastico», borbottò, versando nel proprio caffè ben quattro cucchiaini di zucchero.
Grace lo guardò con un’espressione contrariata, anche se un sorriso lottava per affiorare sulle sue labbra. «Il problema principale è questo, ovviamente». Pucciò la sua brioche nel caffè, attendendo la replica di Tom, che non arrivò. Allora continuò: «La settimana scorsa hai detto che questa era la relazione meno fisica che tu avessi mai avuto. Ripensandoci, mi sono chiesta se per noi fosse tanto necessario, il sesso. Capisco con le oche senza cervello con cui sei stato, non avevi nulla di meglio da fare, ma con me…».
Grace sollevò la testa di scatto sentendo la sedia di Tom strisciare sul pavimento e se lo trovò ad un centimetro dal proprio viso, occhi negli occhi.
«No, per noi non è tanto necessario», sussurrò. «Ma è bello fare sesso con te».
Le loro labbra si sfioravano.
L’investigatrice chiuse gli occhi ed accennò un sorriso. «Stai dicendo che io sono più brava di tutte le altre?».
«Sto dicendo che è bello perché sono innamorato di te».
Il cuore di Grace perse un battito. Senza nemmeno accorgersene posò le mani sul volto di Tom e lo baciò togliendo il fiato ad entrambi.

 

***

 

«Il capo della squadra della sezione omicidi che si è occupata del caso di Melanie Moore – aggredita in casa sua, picchiata selvaggiamente in un furgone e poi abbandonata seminuda in un vicolo nella periferia dell’Eastside – mi ha detto di rivolgermi a Dylan Marìn, dato che ha collaborato e conosce sia la vittima che sua figlia».
«Sì, sono io», rispose Dylan, mentre i battiti del suo cuore aumentavano.
«Ho letto tutti i dossier inerenti al caso, mi sono informato e a quanto pare non sono ancora stati trovati i colpevoli».
«È vero, in questo momento le indagini sono in stallo, ma dove vuole arrivare, agente Crawford? E io in che modo posso esserle utile?».
Era inquieto e teneva la mascella contratta. Oswin, temendo che reagisse in malo modo, posò una mano sulla sua spalla e la strinse, suggerendogli di calmarsi al più presto: non era per nulla conveniente farsi un nemico nell’FBI.
Michael sorrise sornione ed incrociò le braccia al petto. «Coincidenza vuole che durante una perquisizione i miei uomini abbiano sbagliato hangar e siano state rinvenute parecchie armi automatiche e un furgone».
«Voi avete sbagliato hangar? Ma come diamine…».
Dylan colpì Oswin con un manrovescio e rilassò i muscoli, sbalordito, balbettando: «Lei pensa che quel furgone…?».
«Non lo penso, ne sono certo. L’avevano pulito da cima a fondo, da veri professionisti, ma i miei agenti della scientifica sono riusciti a trovare comunque delle tracce che indicano che Melanie Moore è stata in quel furgone».
«Lei come… come ha potuto fare il confronto, se l’indagine è ancora della polizia locale?».
«Il capo della sezione omicidi ha dato il suo consenso perché potessimo attingere ai campioni e in laboratorio è già stato tutto confermato». L’agente Crawford sorrise di nuovo. «Inoltre non ha avuto nulla da obiettare, quando l’FBI ha deciso di occuparsi di questo caso».
Dylan si morse l’interno della guancia, pensando a Grace e a cosa avrebbe detto quando avrebbe scoperto che l’FBI aveva già in mano il suo caso. Solo successivamente si ricordò che la detective l’aveva abbandonato, che si era fatta da parte, e visto che loro in quel momento non avevano proprio nulla in mano forse non era una cattiva idea: l’FBI aveva più risorse, più accesso ai file top secret… in poche parole, più possibilità di fare qualche passo avanti.
«A me sta bene», disse, guardandolo fisso negli occhi. «Però devo chiederle di non estromettermi dalle indagini: lei non immagina neanche quanto io desideri risolvere questo caso».
«Le do’ la mia parola», promise Crawford, ma subito dopo aggiunse: «Ad una condizione: che mi racconti tutto ciò che sa, perché sono certo di essere all’oscuro di molte cose».
Dylan rilassò le spalle, socchiudendo per un attimo gli occhi e traendo un respiro profondo.
«Andiamo nella sala interrogatori», disse, facendo strada all’agente.
Michael Crawford non smise mai di guardarlo di sottecchi lungo il tragitto, pensando che dietro a quella torbida storia ci fosse molto più di quanto potesse minimamente sospettare.

 

***

 

«È tardissimo», disse Grace col fiatone, mentre si abbottonava i jeans e si infilava le scarpe ai piedi.
«Ci siamo dilungati un po’ troppo, dici?».
Lo guardò sorridere beato, nudo ed arrotolato nelle lenzuola del suo letto, e gli tirò un cuscino addosso, trattenendo a stento una risata.
Si sentiva euforica, a causa delle parole di Tom o forse del sesso mattutino, ma ancora non era a conoscenza di ciò che l’aspettava.
«Muoviti a rivestirti e a tornare a casa, devo pulire e poi andare a prendere mia madre. A proposito, devo ricordarmi di darle il doppione delle chiavi di casa, ma dove l’avrò messo?».
Il chitarrista la osservò girare per la stanza con una mano fra i capelli e sorrise, trovandola buffa quanto adorabile.

 
«Non avrai intenzione di andarla a prendere con il tuo catorcio, vero?», le domandò Tom, inorridito.
Grace si fermò a metà strada e guardò da lontano il suo fuoristrada, poi posò lo sguardo sull’Audi luccicante di Tom, che lui indicava con lo stesso sorriso persuasivo dei venditori. Sbuffò e per quella volta decise di abbandonare il suo fidato veicolo per cadere nella trappola del lusso.
Tom le aprì la portiera e la fece salire, poi fece il giro dell’auto e si mise al volante. Avviò il motore e notò che la detective lo fissava con espressione assorta, allora sorrise e scrollò la testa, chiedendole perché lo guardasse in quel modo. Grace rispose che era semplicemente andata in fissa, ma al contempo, voltandosi con un mezzo sorriso verso il finestrino, lo ringraziò mentalmente, perché mettere in ballo l’inadeguatezza del suo fuoristrada era stato il suo modo per dirle che le sarebbe stato vicino anche quella volta.

 

***

 

Michael Crawford si passò le mani sul viso e guardò il taccuino su cui aveva preso appunti sull’intricato caso appena raccontatogli da Dylan, seduti l’uno di fronte all’altro al tavolo rettangolare nella spoglia sala degli interrogatori, illuminati soltanto dalla lampada al neon sopra le loro teste.
Dylan sospirò e si dondolò sulla sedia, tenendosi al tavolo con entrambe le mani.
«Le avevo detto che non ci avrebbe capito nulla», esclamò affranto.
«Io ho capito tutto, invece», sibilò Michael, guardandolo storto. «Mi chiedo solo come abbiate potuto essere così stupidi tu e la tua amichetta da non avvertire autorità superiori alle vostre!».
Il poliziotto si alzò bruscamente dalla sedia, che cadde dietro di lui, e sbatté le mani sul tavolo, sporgendosi verso l’agente dell’FBI.
«E sentiamo, che cosa avremmo dovuto dire a queste autorità superiori?! A quanto mi risulta l’omicidio di Mitch Schneider non è mai stato risolto per mancanza di prove, quello del marine di nome Carter è stato del tutto insabbiato, tanto che non se n’è parlato nemmeno una volta. Forse l’unica cosa che potevamo dire era: “Scusate, ma hanno rubato il cellulare a Tom Kaulitz e chiamando il suo numero una voce criptata ha detto a Grace Schneider di abbandonare l’indagine su cui lavorava! Ve ne occupate voi?”. Le nostre sono tutte ipotesi, anche se sono esatte. Le autorità superiori le classificherebbero come tali oppure non si degnerebbero neppure di ragionarci su. Lei mi vuole accusare di non averne parlato con queste autorità, ma io non ci metto nulla a dire che sono proprio loro ad aver abbandonato ed insabbiato tutto per prime!».
Dylan e Crawford si fronteggiarono in silenzio, occhi negli occhi, per diversi istanti. Poi il federale disse, in tono pacato: «Lei rischia il posto con queste accuse».
«Che mi licenzino pure! Non me ne starò qui a guardare mentre altri innocenti in cerca della verità vengono ammazzati per gli scheletri nell’armadio di qualcuno ai piani alti!».
Staccò le mani dal tavolo, diede le spalle a Crawford col volto in fiamme e fece per andarsene, ma si arrestò con la mano sulla maniglia della porta quando l’agente dell’FBI disse: «Sono con lei».
Dylan si voltò lentamente e lo fissò sconcertato. «Scusi?».
«Ho detto che sono con lei. Potremmo andare contro molte persone importanti, potremmo perdere il lavoro, ma non importa: risolveremo questo caso».
Si guardarono negli occhi per qualche secondo interminabile e con un cenno del capo suggellarono la loro unione contro il nemico comune, qualunque esso fosse.
«Com’è andata?», chiese Oswin, appena vide il partner uscire dalla sala interrogatori.
«Quel Crawford dopotutto non è tanto male», gli rispose e se ne andò, diretto allo Starbucks vicino alla centrale.

 

***

 

Il sorriso impacciato con cui Melanie li aveva accolti nella sua ormai ex-stanza d’ospedale aveva lasciato trapelare chiaramente l’imbarazzo che provava per il suo timore di tornare in quella casa e di dover essere quindi ospitata da sua figlia.
In quella settimana all’ospedale, le ferite e le contusioni della madre di Grace erano parecchio migliorate, anche se non del tutto guarite. I lividi si stavano riassorbendo e la sua pelle stava tornando pallida come la luna e punteggiata di efelidi simili a quelle della figlia sul naso e gli zigomi, in forte contrasto con i capelli rossi che le accarezzavano le spalle. I tagli alle labbra sottili si erano quasi del tutto cicatrizzati e aveva un cerotto sul sopracciglio sinistro, rotto e anch’esso in via di guarigione.
Indossava un maglioncino lilla e dei semplici jeans le avvolgevano le gambe affusolate.
Solo in quel momento Tom riuscì realmente a concretizzare quanto Melanie e Grace fossero simili: nei lineamenti del viso, dolci e forti allo stesso tempo, nella corporatura atletica, nei loro sorrisi appena accennati e persino nel modo in cui si stringevano le braccia al petto, come per difendersi e consolarsi. Erano entrambe bellissime e avrebbe pagato oro per vedere una foto del padre di Grace, dal quale doveva aver preso il colore dei capelli e quello degli occhi, verdi come prati in primavera, agli antipodi rispetto a quelli scuri della madre.
«Siete in anticipo», disse Melanie a voce bassa, come se l’aggressione che aveva subìto avesse tolto forza anche alla sua voce.
Grace scrollò le spalle e le andò vicino, prendendola delicatamente sotto braccio. «Non sei contenta di uscire di qui un po’ prima?».
La donna sorrise, ma né alla detective né a Tom sfuggì l’espressione fragile nei suoi occhi.
Il chitarrista prese la borsa di Melanie e insieme si diressero verso la reception dell’ospedale, dove Grace e sua madre firmarono i moduli delle dimissioni. Poi uscirono.
Il sole di quella mattina di fine gennaio colpì i capelli di Melanie, che brillarono di diverse tonalità di rosso.
Rimase per qualche secondo a godersi l’aria aperta, alzando il volto verso il cielo ad occhi chiusi e respirando a pieni polmoni, e Grace la fissò come se si trattasse di una dea, rammentando le giornate assolate della sua infanzia, quando suo padre era alle prese di un caso e lei e sua madre andavano al parco a fare insoliti pic-nic, portando con loro solo una tovaglia, dei succhi di frutta e la torta di mele di cui da piccola andava ghiotta. Era proprio in quelle occasioni che vedeva sua madre come la donna più bella del mondo, rilassata e con il suo stupendo sorriso sul volto, i capelli che le ricadevano sciolti sulle spalle che brillavano come di luce propria ai raggi del sole.
«Che fine ha fatto il tuo amato fuoristrada?», le domandò Melanie.
Grace rinvenne e vide che Tom si era già avviato verso l’Audi, aveva aperto il bagagliaio e vi aveva depositato la borsa di sua madre.
«Non dirmi che si è guastato qualcosa».
«Oh, no», rispose la detective. «È solo che Tom mi ha accompagnata qui e ha voluto usare la sua auto».
«Davvero molto bella», apprezzò a mezza voce. «Anche se devo ammettere che il tuo fuoristrada mi piace di più».
Grace sorrise ed accompagnò sua madre fino all’Audi, la fece salire sui sedili posteriori e si sistemò al suo fianco.
Prima di avviare il motore Tom si voltò verso di loro sorridendo, ma non disse niente. L’investigatrice si domandò il perché di quel sorriso e dopo pochi secondi decise che non le importava, perché dopotutto i sorrisi più belli non hanno motivazioni.
Erano quasi giunti a destinazione, quando Tom si accorse che dietro la sua auto ce n’era una della polizia stradale che conosceva bene.
«Ehi Grace, guarda chi è venuto a trovarti», disse con una risata falsa sulla punta della lingua.
Al suo cenno, la detective si voltò e attraverso il parabrezza posteriore vide Dylan alla guida della sua auto di servizio.
«Proprio adesso?», mugugnò lamentosamente, pensando all’ultima volta in cui si erano parlati, ossia quando avevano litigato a causa della situazione creatasi fra lui e Bill. «Non sono proprio dell’umore giusto».
«Nemmeno io», rispose Tom, cercando di mantenere inutilmente la calma. «Ti chiedo già scusa per qualsiasi cosa farò».
«Non devi; non sarò di certo io a fermarti».
Melanie, non capendo a che cosa si riferissero, non intervenne – fece soltanto da spettatrice silenziosa.
Tom continuò dritto per la sua strada, stringendo sempre più forte il volante fra le mani. Alla fine parcheggiò di fronte al palazzo in cui si trovava l’appartamento dell’investigatrice. Sia lui che Grace scesero in fretta dall’auto, il primo per correre da Dylan e soddisfare la sua voglia di prenderlo a pugni, la seconda per inseguirlo e limitare i danni. Ciò che non si sarebbero mai aspettati fu l’intervento di un uomo che aveva parcheggiato l’auto proprio dietro quella di Dylan: appena vide il pugno di Tom librarsi verso il setto nasale del poliziotto, lo fermò e con una rapida mossa gli portò il braccio dietro la schiena, storcendoglielo fino a farlo gridare dal dolore.
«Che cazzo…», balbettò Grace e fu sul punto di tirar fuori la sua Glock dalla fodera nascosta dietro la schiena, ma Dylan fermò l’uomo e liberò Tom dalla sua stretta micidiale.
Quando si trovarono in cerchio, ci fu un momento di ansimante silenzio, poi iniziarono a parlare tutti insieme, gridando sempre più forte per prevalere l’uno sull’altro. Sarebbero andati avanti così per ore, ma Melanie, confusa e spaventata, uscì dall’Audi di Tom e chiese con voce flebile che cosa stesse succedendo. Allora l’uomo, Dylan, Grace e Tom si azzittirono contemporaneamente e si voltarono verso di lei, poi tornarono a fissarsi in modo truce tra di loro.
«Chi è lei?», domandò ad un tratto Grace, rivolta verso l’uomo sconosciuto, intento a sistemarsi la cravatta.
«Agente Michael Crawford, FBI», si presentò stizzito, mostrando il distintivo. «Lei per quale motivo stava per colpire un poliziotto?».
Tom sobbalzò e diventò pallido, ma Grace accorse subito in suo aiuto dicendo: «Non vanno molto d’accordo, tra loro è sempre così; non c’entra nulla la divisa, glielo assicuro». Parve rabbonirlo e Dylan trovò il momento adatto per porre la sua domanda, fissando Tom negli occhi: «Perché avresti dovuto colpirmi, sentiamo?!».
«Per quello che hai fatto a mio fratello, cazzone!», gridò e sarebbe tornato alla carica, se Grace non gli avesse stretto le braccia intorno al torace.
«Calmati, Tom, non è il momento adatto», gli sussurrò all’orecchio e Tom si rilassò, così la detective mollò lentamente la presa e si girò verso il federale e il poliziotto. «Che cosa ci fa qui un’agente dell’FBI?».
«Devo parlarle, signorina Schneider», disse risoluto Crawford. «Possiamo entrare?».
«Sì, certo», rispose, anche se con un po’ di preoccupazione. Di che cosa dovevano parlare? Gettò un’occhiata a sua madre e sospirò, indicandogli la strada e trattenendo Tom per un braccio fino al suo appartamento.
«No, senti, io me ne vado», sbottò ad un tratto, fermandosi sul pianerottolo, mentre Dylan, Crawford e Melanie erano già entrati.
«Per favore, Tom, si tratta solo di…».
«Non ce la faccio! Non ce la faccio a stare di fianco a quello! Mi prudono le mani!».
Grace chinò il capo e si strinse le braccia intorno al petto. «Va bene, vai. Grazie di tutto».
Tom le baciò la nuca, con le mani sulle sue spalle, poi scese giù dalle scale più veloce che poté.
La detective si fece carico del peso che improvvisamente le era piombato sulle spalle quando lui gliele aveva cinte ed entrò in salotto, dove trovò sua madre seduta sulla poltrona e Dylan e Crawford sul divano.
«Posso offrirvi qualcosa?», domandò stancamente, indicando con un dito la cucina.
I due agenti negarono con un cenno del capo e il federale invitò Grace a sedersi. Fu proprio quest’ultimo a rivelare senza preamboli il motivo della loro visita.
«L’FBI d’ora in avanti si occuperà del suo caso, signorina Schneider, anche se persisterà la collaborazione dell’agente Marìn». Si fermò per una pausa e Grace rimase in silenzio, poiché non aveva spiegato ancora nulla.
«Abbiamo rinvenuto per caso il furgone in cui la signora Moore…», si interruppe vedendo la donna alzarsi con rapidità dalla poltrona e correre via, nel corridoio semibuio, per poi rinchiudersi in una delle stanze.
Grace la guardò andare via e anche quando si udì il tonfo della porta chiusa, continuò a fissare il corridoio come se la scia lasciata dal suo passaggio si potesse vedere.
«Mi dispiace molto, signorina Schneider. Forse non avrei dovuto…».
«Mi chiami Grace, per favore», gli disse e si appoggiò al bracciolo della sua parte di divano ad L.
«Va bene, ma allora lei mi chiami Michael». La detective annuì mestamente e lo invitò a proseguire.
«Come dicevo, abbiamo rinvenuto per caso il furgone in cui la signora Moore è stata malmenata, in uno degli hangar in affitto nella zona aeroportuale. Insieme al furgone, abbiamo sequestrato anche diverse armi automatiche e parecchie munizioni, troppe per le sole armi presenti, quindi suppongo che da qualche parte, in un altro covo, ce ne siano delle altre».
«Ho capito», disse Grace, mostrando una tranquillità quasi surreale che colpì molto Dylan. «Ho solo una domanda da farle, Michael: vi siete disturbati a venire fino a qui solo per dirmi questo?».
«No, Grace, noi... io volevo parlare con lei a proposito degli sviluppi dell’indag–».
«Mi rincresce deluderla, ma io non mi occupo più questo caso. Mi sorprende che Dylan non l’abbia avvisata: avreste risparmiato benzina».
Crawford si voltò verso l’agente di polizia, il quale abbassò il capo e si strinse le mani per scrocchiarsi le nocche. Poi tornò a guardare la detective.
«Allora facciamo in modo di non aver sprecato questa benzina: mi racconti la sua versione dei fatti, dall’inizio alla fine, senza risparmiarsi le sue ipotesi e le sue sensazioni più intime».
Grace lo guardò impassibile, ma dentro di sé si scatenò un putiferio causato da emozioni contrastanti.
Non voleva ripescare quel caso, ci aveva messo tutta la sua buona volontà per non pensarci ed ora un agente dell’FBI le chiedeva di riportare tutto a galla? Era certa che se l’avesse fatto non sarebbe più riuscita ad abbandonarlo un’altra volta e non voleva proprio ritrovarselo fra le mani, non dopo tutta quella fatica e quel periodo di pace apparente che aveva vissuto da ragazza normale, una ragazza innamorata che era persino riuscita a farsi piacere un po’ di più dalla madre del suo ragazzo.
Allo stesso tempo, però, all’idea di riprendere quel caso, di farlo di nuovo suo, sentiva lo stomaco tremare di una gioia profonda, nascosta nelle viscere. Perché, nel bene e nel male, quel caso era stata la ragione della sua vita per un sacco di tempo e l’aveva abbandonato a malincuore, anche se non se n’era mai pentita fino in fondo. Riprenderlo avrebbe significato riprendersi un pezzo della sua anima, della sua essenza, ed incastrare gli assassini di suo padre, gli aggressori di sua madre, coloro che avevano tentato di strapparle via Tom… le avrebbe dato finalmente la pace tanto agognata.
«Signorina Grace?», la richiamò alla realtà l’agente Crawford, piegandosi un po’ per guardarla negli occhi. «È disposta a raccontarmi la sua versione dei fatti?».
«Sì», mormorò la detective e senza nemmeno accorgersene si immerse nuovamente nel vortice dal quale aveva tanto faticato per uscirne.

 
Quando Grace finì, Dylan guardò l’orologio che aveva al polso: aveva parlato per un quarto d’ora. Crawford, invece, finì di scrivere confusamente sul suo taccuino.
La detective si scusò e andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua. Una volta tornata da loro, si rannicchiò sulla poltrona sulla quale era stata seduta sua madre tempo prima, colpita dal rimorso e dalla paura di aver fatto un’enorme cazzata riportando tutto a galla.
«Grazie mille», disse Michael appena ebbe finito di scrivere e di esaminare i suoi schemi da lontano, come un astigmatico sprovvisto di occhiali. «Ora vorrei che rispondesse alle mie domande: ci sono alcuni punti che non mi sono chiari».
«Dica pure».
«Qual era di preciso il caso su cui stava lavorando suo padre e chi lo aveva ingaggiato?».
Grace scrollò il capo. «Io ho solo degli appunti parziali e non ho mai ben capito quale fosse il caso, anche se ho sempre pensato che si trattasse di corruzione».
«Nella marina militare? Mi ha raccontato che suo padre ha fatto delle domande ad alcuni ex-marines, Lionel Reed e Kyle Bryant, suoi amici, che ora si danno alla macchia per non essere uccisi».
«Già. Potrebbe essere. Per quanto riguarda la persona che l’aveva ingaggiato, non so minimamente chi sia. Non si è fatto vivo nessuno dopo la morte di mio padre. Forse… forse è un caso che aveva preso in mano di sua iniziativa. A volte lo faceva».
«Uhm, capisco. Un’altra cosa che non mi è chiara è il suo coinvolgimento nella retata all’Halo, dove poi è avvenuta una sanguinosa sparatoria».
Quella volta Dylan parlò per lei: «Un suo informatore fidato ha chiamato alla centrale per fare una soffiata e ha richiesto esplicitamente la sua presenza».
«Perché non ha chiamato direttamente Grace, se era un suo informatore?».
La detective e il poliziotto si fissarono, impietriti. Come mai non ci avevano pensato prima?
«Insomma», riprese Crawford, «è così che si dovrebbe fare, no? E poi, Grace, mi ha detto che sia lei che Dylan sospettate che in quella sparatoria siano coinvolti anche Loro, poiché hanno costretto un componente di una delle gang a sparare a Tom Kaulitz, facendolo rientrare nonostante sapesse che il locale fosse gremito di poliziotti. Non è così? E allora, mi chiedo, è plausibile che il loro intento fosse fin dal principio quello di assicurarsi la sua presenza?».
«È chiaro: quello rivolto a Tom era un altro attacco a Grace, per intimarle ancora una volta di abbandonare il caso», disse Dylan.
«Già. Ma se si sono infiltrati persino nella gang in cui ci sono dei suoi informatori, solo per farla partecipare alla sparatoria, vuol dire che molto probabilmente si sono fatti vedere da qualcuno».
«Ed ecco il perché della sparatoria», mormorò Grace, gli occhi vacui, proiettati in quel momento. «Essendosi fatti vedere dai membri delle gang hanno dovuto per forza scatenare la sparatoria, era già nei loro piani sin dall’inizio, perché non potevano rischiare che i pivellini catturati dalla polizia li descrivessero».
«E quindi, quelli che sono riusciti a sfuggire…», cercò di tirare le fila Dylan.
«I boss».
«Hanno comprato il loro silenzio?».
«O hanno intenzione di riutilizzarli in futuro», disse Crawford. «E poi quando non saranno più di alcuna utilità, li faranno fuori».
«È improbabile», intervenne Grace. «I boss delle gang controllano giri illeciti che nemmeno ci immaginiamo e se crollano loro, ci sono lotte continue per le successioni, che creano scompigli su scompigli che darebbero fastidio anche a Loro. Quindi credo che si siano comprati il loro silenzio, anche perché sono muti come tombe già di per sé».
Il silenzio calò su di loro come un telo e un grosso peso si depositò sulle loro spalle, che si incurvarono pian piano, fino a quando l’agente dell’FBI non ebbe un’illuminazione.
«Il boss di una delle gang è suo amico, vero Grace?».
«Una specie», rispose la ragazza, ma, capito dove voleva andare a parare, aggiunse: «Non abbastanza da rischiare la propria vita solo per rivelarmi il nome o l’identikit di qualcuno di quell’organizzazione di criminali. Anzi, mi farebbe fuori lui stesso».
«Non è possibile, merda», digrignò fra i denti, stringendo i pugni sulle ginocchia. «È l’unico filo che potrebbe condurci a Loro!».
«Lo so», mormorò. «E poi non voglio rientrare nelle indagini, è troppo rischioso e ormai ho fatto una promessa: non posso permettere che qualcuno a cui tengo venga ferito di nuovo».
«Allora lo farò io, andrò io a parlare con Doc Mahkah», si offrì Dylan, determinato.
«Tu con lui non hai la stessa confidenza che ho io, anzi ti ritiene soltanto uno sbirro. Non ti direbbe niente», decretò lapidaria.
«Ci proverò lo stesso! L’hai sentito, no? È l’unico filo che potrebbe condurci a Loro!».
Grace scosse lentamente il capo, avvilita. Non poteva permetterlo, perché anche lui faceva parte della cerchia di persone a cui teneva.
Del tutto all’improvviso, anche lei ebbe un’illuminazione: «Ma dell’affittuario dell’hangar si sa qualcosa?».
«Abbiamo chiesto al locatore e abbiamo scoperto che il nome usato per affittarlo era falso, come i documenti che ha mostrato a questo punto. Stanno ancora creando l’identikit, appena lo avremo glielo farò vedere».
Grace sospirò e si portò una mano alla fronte. «Diamoci del tu, per favore».
Crawford si limitò a sorridere.

 
Tom vide l’agente dell’FBI uscire dal portone del palazzo, ma dietro di lui non scorse Dylan.
Peccato fosse appena riuscito a farsi sbollire un po’ di rabbia, perché questa tornò ancora più violenta pensando che quell’essere si era fermato con la sua Grace, nel suo appartamento… Tremò dal nervosismo e strinse i pugni lungo i fianchi, tanto da farsi sbiancare le nocche, digrignando rabbiosamente i denti.
«Arrivederci», lo salutò l’agente, con una mano sollevata e uno sguardo scettico.
Tom rispose stizzito, poi si fiondò all’interno del palazzo e fece le scale di corsa, sentendosi nel pieno di un film d’azione: le uniche cose che gli mancavano erano un kalashnikov e un giubbotto antiproiettile per far irruzione nell’appartamento e disintegrare Dylan.
Ebbe davvero l’impulso di sfondare la porta a calci, ma poi ci rinunciò ed entrò di soppiatto, nascondendosi nell’ingresso, dietro l’appendiabiti, da dove poteva sentire ed osservare tutto ciò che accadeva nel salotto, dove si trovavano appunto Grace e Dylan, seduti sul divano ad L, agli antipodi. Entrambi guardavano il pavimento, assorti nei loro pensieri.
«Non hai proprio intenzione di riprendere in mano il caso?», domandò ad un certo punto Dylan, con un fil di voce e senza sollevare il capo.
Grace si portò un braccio sugli occhi e scosse lentamente il capo.
Dylan sospirò, affranto e frustrato. «Non ti riconosco più, Grace… Non posso credere che per Tom tu sia arrivata a questo, ad abbandonare il caso della tua vita e ad immaginare di abbandonare le investigazioni».
Quell’affermazione, per quanto lieve fosse stata, colpì duramente il cuore di Grace, tanto che si alzò di scatto dalla poltrona e guardò il poliziotto con sguardo infuocato, nonostante le lacrime che premevano per scivolarle sulle guance.
«Qualche settimana fa mi hai supplicato di rinunciare a questo caso perché era troppo pericoloso; ora che finalmente l’ho fatto, mi dici che dovrei riprenderlo in mano e che è colpa di Tom – gliene stai dando la colpa, è così – se sto mettendo tutta la mia vita in discussione?».
Dylan appoggiò le mani sulle ginocchia e si alzò lentamente, la fronteggiò e i loro sguardi si incatenarono con una tale intensità che Tom, ancora nascosto, percepì delle scosse elettriche corrergli sulle braccia.
«Ora è diverso, Grace. Allora non avevi nulla in mano, aspettavi soltanto che quelli si facessero vivi e ti minacciassero, gli hai dato praticamente in pasto sia Tom che tua madre. Adesso è diverso, adesso abbiamo qualcosa che potrebbe collegarci a loro, siamo noi ora a dargli la caccia e tu sei l’unica in grado di ottenere altre informazioni, perché l’hai detto anche tu che solo tu hai una certa confidenza con Doc Mahkah».
«Quindi stai dicendo che se allora gli ho dato in pasto sia Tom che mia madre, adesso il loro sacrificio sarebbe per una nobile causa? Mi dispiace Dylan, ma non ci sto», sentenziò, voltandogli le spalle.
Tom ebbe come la sensazione di essere osservato e si appiattì ancora di più contro i cappotti, trattenendo il respiro e continuando ad ascoltare.
«Nobile causa… Sì, sarebbe proprio per una nobile causa: metteresti finalmente in cella i bastardi che hanno ammazzato tuo padre».
Grace si voltò bruscamente verso di lui e lo schiaffeggiò.
Tom a quel rumore secco, che riecheggiò nell’aria per diversi istanti, chiuse gli occhi e si immaginò il bruciore che stava provando Dylan. Non resistette e sbirciò in salotto: Grace e Dylan erano vicinissimi, i loro corpi si sfioravano così come i loro volti; Grace era furiosa e Dylan teneva gli occhi chiusi, mordendosi le labbra per non lamentarsi dello schiaffo appena ricevuto.
«Non osare mai più nominare mio padre», sibilò la detective ad un centimetro dalle sue labbra. «Tu non hai la minima idea di quello che ho passato e darei di tutto per uccidere con le mie mani quei bastardi che me l’hanno portato via, ma non ne vale la pena se rischio di farmi portare via anche le altre persone che amo. Non parlo solo di Tom e di mia madre, ma anche di te, di Bill, di Molly… Tutti quelli che mi sono vicini sono dei bersagli e se mi immischio ancora in questa storia rischio di perdervi. Preferisco andare alla tomba di mio padre e piangere tutti i giorni per la giustizia che non sono riuscita a dargli, piuttosto che tornare a casa la sera e non trovare nessuno che mi aspetta e che mi ama».
Dylan le posò le mani sulle braccia e deviò il suo sguardo, chinando il capo, poi si allontanò da lei e si diresse verso l’ingresso.
Tom, impietrito, trattenne il fiato e socchiuse gli occhi pregando perché non lo vedesse. Per un attimo gli parve che qualcuno l’avesse ascoltato, ma quando Dylan aprì la porta voltò il viso nella sua direzione e lo guardò severamente con la coda dell’occhio. Tom aprì la bocca per difendersi, ma il poliziotto si girò di nuovo, senza fiatare, e si chiuse la porta alle spalle.
Di nuovo solo nella semioscurità dell’ingresso, ascoltò l’assordante rumore del silenzio e all’improvviso sentì dei singhiozzi soffocati perforare l’aria. Gettò un’occhiata nel salotto e vide la stoica Grace seduta a terra, che prendeva a pugni il tappeto mentre calde lacrime le tracciavano il viso chiaro.
Tom, colpito dal suo pianto disperato, fece un passo indietro. Non l’aveva mai vista in quello stato e mai avrebbe immaginato che dietro l’indagine più importante della sua vita ci fossero l’assassinio di suo padre e un dolore così grande.
Avrebbe voluto raggiungerla, ma invece di andare avanti i suoi piedi continuavano ad arretrare, spingendolo verso la porta da cui era appena uscito Dylan. Non avrebbe voluto lasciarla sola e forse, se nessuno fosse intervenuto, non se ne sarebbe andato a gambe levate, ma per sua sfortuna arrivò Melanie, che gli permise di compiere quel vile atto: fuggire dal dolore di Grace.
La donna, infatti, uscì dalla camera in cui si era rifugiata e raggiunse di corsa la figlia, sempre più accasciata sul tappeto. Si inginocchiò al suo fianco e le fece posare il capo sul suo grembo, si chinò su di lei e le sussurrò parole di conforto all’orecchio, massaggiandole con una mano la schiena che tremava ed accarezzandole i capelli con l’altra.
Ad un tratto alzò gli occhi e vide Tom nei pressi della porta, con gli occhi sgranati e pallido come un cencio.
Scoperto, Tom scappò più veloce che poté anche da quegli occhi.

 

***

 

Dylan ci mise un po’ a capire che quello che gli ci voleva era un amico con cui confidarsi e poter sfogare tutta la propria frustrazione. Era un periodo pessimo, forse il peggiore della sua vita, e Grace con il suo comportamento – più che comprensibile – non lo stava proprio aiutando.
Mentre vagava per i quartieri e i sobborghi di Los Angeles, nella sua mente era alla ricerca di un amico. Pensò ad Oswin, ma poi lo scartò (insieme a tutti i suoi amici della centrale): lui non sapeva di Bill e avrebbe voluto parlare anche di quell’argomento. L’unica che sapeva tutto era Grace, ovviamente da evitare per le prossime quarantotto ore. L’unico che gli rimaneva, strano ma vero, era lo stesso Bill. Ma con che faccia tosta sarebbe andato da lui a sfogarsi, sapendo che anche lui non se la passava bene, inoltre a causa sua?
Sbuffò ed ebbe un’impellente voglia di piangere, ma ricacciò in fondo alla gola il magone e svoltò bruscamente a destra, inserendo la sirena. Nei pressi della villa dei Kaulitz la spense e fece l’intero giro della proprietà, capendo che Bill non era in casa.
Non gli rimase che fare dietrofront e andare a casa, dove il suo letto e Morfeo lo aspettavano.

 

***

 

Tom chiuse la propria Audi con un tasto del piccolo telecomando e si diresse verso l’ingresso, dove c’era già il maggiordomo di Villa Delafield ad aspettarlo.
«Buon giorno, signor Kaulitz», lo salutò cortesemente, invitandolo ad entrare. «La signorina si trova nella taverna con suo fratello. Vuole che l’accompagni?».
«No, grazie, so arrivarci da solo», gli rivolse un breve sorriso e si avviò verso la taverna. Sapeva davvero arrivarci da solo, grazie al giro turistico che Grace e Molly l’avevano costretto a fare quella volta.
Attraversò il quadriportico all’aperto dal pavimento ciottoloso e raggiunse una porticina nel lato ovest, scese le strette scale di pietra antica, facendo scivolare le mani sulle pareti di mattoni a vista, fino a quando non arrivò nella cantina in cui erano custodite le bottiglie della collezione di vini del padre di Molly, provenienti da ogni parte del mondo. Fece il giro dell’isola di legno che faceva da bancone di degustazione, poi finalmente sbucò, qualche gradino più in alto, in una taverna spaziosa, con tappeti preziosi, divani di pelle bordeaux e una vastissima libreria che occupava tutta una parete, con le ante a vetro e una scala scorrevole per raggiungere i volumi sui piani più alti.
Molly e suo fratello erano in piedi di fronte ad uno schermo al plasma da almeno cinquanta pollici, che sculettavano alle note di Last Friday night di Katy Perry, con i loro telecomandi Wii fucsia in mano.
Sorrise intenerito, osservando suo fratello ridere e divertirsi. Era da un po’ che non lo vedeva sereno ed era felice che Molly fosse riuscita a farlo uscire un po’ dal guscio in cui si era rifugiato da quando Dylan gli aveva dato quella batosta.
«Ho vinto ancora io, ho vinto ancora io!», urlò di vittoria Molly, iniziando a saltellare su se stessa e ad inscenare un altro balletto. Quando fu rivolta verso la direzione di Tom, lo vide e diventò rossa come un peperone, pietrificandosi sul posto.
«T-Tom», balbettò, alzando una mano a mezz’aria in segno di saluto. «Da quanto tempo sei lì?».
«Abbastanza», rispose ridacchiando e si lasciò sprofondare in uno dei divani di pelle.
«Come mai qui?», gli domandò Bill, sedendosi al suo fianco e versandosi un po’ di Coca Cola in un bicchiere.
«Ti cercavo. Devo parlarti».
«A proposito di cosa?».
«Grace. E… Dylan».   
A quel nome le labbra del frontman si strinsero automaticamente, mentre i suoi occhi si oscuravano e sul suo viso compariva una smorfia.
«Vi lascio soli, okay», sussurrò Molly, spegnendo la Wii e dirigendosi verso la cantina.
«Allora? Parla», lo incitò duramente Bill, addossandosi allo schienale del divano con le braccia incrociate al petto.
Tom sbuffò e disse tra i denti: «L’ho quasi preso a pugni, quello stronzo».
«Tu che cosa?!», gracchiò, sobbalzando.
«L’avrei fatto, se solo quell’agente dell’FBI non si fosse messo in mezzo e non mi avesse quasi staccato il braccio. Pensa che non sono voluto stare con Grace solo perché c’era lui nella stessa stanza e mi prudevano le mani. Perché, Bill… io non ce la faccio a vederti così, mi fa male il cuore ogni volta che leggo nei tuoi occhi il dolore che quel figlio di puttana ti sta facendo…».
Bill sorrise commosso e posò una mano sulla spalla del gemello. «Tom, non è necessario che tu sia così in pena per me. Io… io sto bene, è solo che devo ancora farci l’abitudine, ecco. E poi non è certo colpa di Dylan».
«Non è colpa sua? Ma come cazzo fai a dire che –!».
«No, non è colpa sua», sospirò scrollando il capo. «Quante volte non sono stato ricambiato dalle ragazze, da ragazzino? Tu non andavi di certo a pestarle… Dylan è sì un maschio, ma che colpa ne ha lui se non gli piaccio?».
Tom, rendendosi conto che il suo fratellino era stato più intelligente e razionale di lui ancora una volta, tacque.
Bill però lo sorprese con un piccolo sorriso e gli diede un pugnetto sulla spalla per fargli sollevare il viso.
«Ora mi spieghi che cos’è successo con Grace? E perché con Dylan c’era un agente dell’FBI?».
Il chitarrista gli raccontò tutto ciò che sapeva, ossia ben poco perché si era deciso a tornare da lei solo quando ormai avevano finito di parlare del caso con il federale. Gli raccontò della discussione di Grace e Dylan e della scoperta che aveva fatto: dietro l’indagine più importante della vita di Grace c’era l’omicidio di suo padre.
«Cavolo, ora si capiscono molte cose», esclamò Bill, meditabondo. «Non dev’essere stato facile per lei abbandonare questo caso». Sollevò il capo con un sorriso solare sul volto e Tom lo guardò con espressione interrogativa. «Ma l’ha fatto, per te».
«Non solo per me», lo corresse subito, nonostante il rossore che si era impadronito del suo viso e delle sue orecchie, in fiamme.
«Ma anche per te. Ascolta, Tom», si fece più vicino a lui e lo guardò dritto negli occhi. «Lei ha fatto uno sforzo enorme per proteggere le persone a cui voleva bene, ora tocca a noi fare uno sforzo e ripagarla».
«Hai in mente un piano?».
Una scintilla balenò negli occhi del cantante. «Può darsi».

 
Tom corse su per le scale del palazzo di Grace per la seconda volta in quella giornata e suonò il campanello più volte, impaziente. Venne ad aprirgli sua madre, Melanie.
«Salve», la salutò impacciato. «Grace è in casa?».
La donna lo scrutò severamente. «Perché sei scappato, prima?».
Tom chinò il capo. «Io… io non lo so perché. Venendo qui speravo di scusarmi e di parlare con lei: ho tante cose da dirle».
I tratti del viso di Melanie si addolcirono e un piccolo sorriso si fece spazio sulle sue labbra. «È nel suo ufficio».

 
Tom raggiunse il palazzo in cui si trovava l’ufficio di investigazioni di Grace e chiese al portiere a che piano fosse, poi prese le scale e corse fino alla sua porta. Lesse il nome scritto sul vetro smerigliato – Mitch Schneider – e rabbrividì, infine si decise a bussare delicatamente. Entrò dopo aver udito un debole «Avanti» ed appoggiò le spalle contro la porta, guardando Grace seduta dietro la scrivania.
Stava lubrificando la sua pistola: su un vecchio asciugamano erano posati tutti i pezzi ancora smontati, accanto ad esso c’era un solvente, poi uno spazzolino, altri stracci e una boccetta d’olio. Rimase ipnotizzato a guardarla mentre con cura maniacale passava uno degli stracci oleosi all’interno e all’esterno della pistola e poi la rimontava pezzo per pezzo, con movimenti veloci e senza sbagliare mai. Alla fine infilò il caricatore, che scattò con un rumore silenzioso, tirò indietro la sicura con un gesto deciso ed infilò il dito nel grilletto, per poi puntare l’arma proprio verso di lui e chiudere un occhio per prendere la mira. Tom non ebbe il tempo di spaventarsi a sufficienza, tanto da sentire il cuore smettere di battere per un istante, perché la detective abbassò subito la sua Glock e reinserì la sicura.
«Che ci fai qui?», gli domandò con voce pacata, infilando la pistola nella fodera e cacciandola in uno dei cassetti della scrivania.
Lui però le rispose con un altro quesito, pronunciato a mezza voce: «Non vuoi più vedermi?».
«La domanda giusta è se tu vuoi ancora vedere me, dopo quello che hai visto e sentito stamattina».
«Te l’ha detto tua madre che ero lì?».
Grace gli diede le spalle e sbirciò fuori dalla finestra, allargando con due dita una fessura tra le veneziane. Un debole fascio di luce illuminò la scrivania e il pavimento, fino a toccare la punta delle scarpe del chitarrista.
«No, ti avevo già visto. Rispondimi, Tom».
«Cosa ti fa pensare che io non voglia più vederti?».
«Immagina le nostre vite separate, sarebbe tutto più semplice: tu andresti per la tua strada, non vivresti più nel pericolo, ti troveresti una bella ragazza la cui principale preoccupazione è la manicure. Io andrei per la mia strada e in un paio d’anni  questo lavoro assorbirà tutta la mia linfa vitale, fino ad uccidermi, a meno che qualcun altro non ci pensi prima. Sarebbe perfetto così, no?».
«No, affatto. Stai tirando fuori per l’ennesima volta quel discorso: pensavo che ormai l’avessimo chiuso!». Tom si avvicinò a lei col passo pesante e la voltò bruscamente verso di sé per fissarla negli occhi. «Non voglio una bella ragazza la cui principale preoccupazione è la manicure, voglio te, compresi i pericoli della tua vita. Puoi darmi del folle, del sadico e del suicida, ma voglio che tu riprenda in mano questo caso, perché si vede lontano un miglio che ti manca, e voglio che torni a fare il tuo lavoro, perché fa parte di te».
Grace scosse il capo e provò a liberarsi i polsi, ma lui aumentò la stretta ed avvicinò il viso al suo, fiato contro fiato.
«Quello che tu ti sei imposta di fare per la mia incolumità è rinunciare alla cosa a cui tieni di più al mondo. È come se tu mi chiedessi inconsciamente di abbandonare i Tokio Hotel, la mia musica. Per questo, voglio che tu riprenda in mano questo caso, il tuo».
«È troppo rischioso, Tom!», strillò con gli occhi grandi di nuovo colmi di lacrime.
Il chitarrista si avvicinò alle sue labbra e ad occhi socchiusi le sfiorò, liberandole un polso per posare una mano sulla sua schiena. «Il tuo compito è cancellare dalla faccia della Terra quest’organizzazione di criminali, devi impedirgli di mettersi fra noi e fra te e tutte le altre persone a cui vuoi bene. Perché amarti sta diventando una specie di crimine, Grace, e non puoi permetterlo».
La detective ricambiò il bacio con cui Tom l’aveva travolta appena la sua voce soave aveva terminato quel discorso tanto bello quanto doloroso.
«Tra poco noi partiremo per la promozione del nuovo album», le sussurrò ansimando, mentre la sollevava da terra prendendola per le gambe ed arretrava verso una delle poltrone in pelle oltre la scrivania. «Staremo via per parecchio tempo e non torneremo più a Los Angeles per un po’, visto che andremo anche in tour. Potremmo portare tua madre in Germania, dalla nostra, così anche lei sarebbe al sicuro…».
Grace si allontanò dalle sue labbra fameliche e lo guardò intensamente negli occhi. «In pratica, voi andrete via mentre io sto qui ad indagare».
«L’idea sarebbe quella. Non va bene?».
«No, va benissimo», mormorò e Tom, purtroppo, non si rese conto della tristezza che aveva invaso i suoi occhi chiari.
«Nel secondo cassetto c’è il doppione della chiave dell’appartamento qua affianco», gli disse ancora.
«Cos’è, il nostro nuovo rifugio per recuperare il tempo perso?», le domandò sorridendo maliziosamente, mentre le afferrava senza lasciarla andare.
Grace gli strinse forte le braccia intorno al collo e lo baciò sulla nuca, bisbigliando: «L’idea sarebbe quella», mentre una lacrima silenziosa le scivolava sulla guancia.

 
Quando finirono di fare l’amore, Tom cadde sdraiato sul materasso coperto da uno strato di cellophane. Non era stato entusiasta di sapere che dovevano accontentarsi di quello, non avendo a portata di mano delle lenzuola, e probabilmente nemmeno Grace, visto che entrambi si erano spogliati il meno possibile.
Appena i suoi occhi fissarono il soffitto bianco e la nuda lampadina che pendeva da un filo, lì dove una volta doveva esserci stato un lampadario, si rese conto che non si erano rivolti la parola, ma questo non gli dispiaceva più di tanto; il fatto grave era che non si erano minimamente interessati l’uno all’altra, anzi Grace l’aveva pure spinto a saltare i preliminari, cosa che non era mai accaduta fra loro.
Lentamente si voltò a guardarla e la trovò rannicchiata al suo fianco, che gli dava le spalle. Capì subito che qualcosa non andava e se avesse potuto si sarebbe sputato in un occhio, perché non era riuscito ad accorgersene prima, troppo impegnato a soddisfare i suoi istinti animali.
Le si fece più vicino, le cinse la vita con un braccio, posò le labbra fra i suoi capelli scompigliati, in corrispondenza del suo orecchio, e sussurrò con voce dolce: «Ehi, Brooklyn».
Grace serrò le labbra e le mancò il fiato a sentire quel soprannome. Erano settimane che non la chiamava così, come quando ancora non sapeva il suo vero nome. E farlo tornare a galla proprio in quel momento fu la cosa più stupida che potesse fare, perché tutto ciò che avevano passato insieme, sin dagli inizi della loro tumultuosa storia, le tornò alla mente con una crudeltà spietata, tanto che non poté fare nulla per impedire ad alcune lacrime di scivolarle sul profilo del naso e sulla tempia.
«Sei un coglione, Tom», biascicò, liberandosi con una gomitata dalla sua debole stretta e stendendosi a pancia in giù, il viso nascosto fra le braccia incrociate.
«Ma… Che ho fatto? È per il soprannome? Scusami, io…».
«No, no», interruppe bruscamente il susseguirsi delle sue stupide ipotesi, alzando il volto. «Perché non mi hai detto subito che dovevate partire e che avevo campo libero per mettermi nei guai senza provocarvi alcun danno, invece di riempirmi la testa di tutte quelle stronzate?».
Tom fissò gli occhi colmi d’ira e di frustrazione di Grace e il suo viso si colorì all’improvviso, mentre tentava di mantenere un tono di voce normale: «Lo sai che non te l’avrei mai dipinta in questo modo, che non intendevo…».
«Ma è questo che farete. Puoi spiegarmi la teoria in mille modi sdolcinati e melodrammatici, ma la pratica è sempre quella: voi ve ne andrete per lavoro, sì, ma sarà anche un modo per pararvi il culo ed uscire da tutta questa merda. Poi, visto che ti facevo pena, hai pensato bene di mettere in mezzo anche mia madre, dicendo che l’avreste portata dalla vostra. Non si conoscono nemmeno, Cristo!».
Tom sentì il bisogno impellente di prenderla a schiaffi, perché stava esagerando e non sopportava più tutte le cazzate che stava dicendo. Fu davvero a tanto così da lasciarle una cinquina stampata sulla guancia, ma appena Grace vide la sua mano sollevarsi si ammutolì e lo guardò negli occhi con i suoi colmi di lacrime che ad ogni battito di ciglia le cadevano sulle guance o sulle mani. In quegli stessi occhi acquosi Tom vide un sentimento diverso rispetto a quello che li aveva illuminati fino ad allora, anzi opposto: l’amore.
Tom socchiuse le labbra ed abbassò la mano, lasciandola scivolare sulla sua guancia; posò la fronte contro la sua e ad occhi chiusi accennò una risata fiacca, con un piccolo sorriso agli angoli delle labbra.
«Anche tu mi mancherai da morire, Grace», sussurrò con la poca voce che gli rimaneva, siccome nel frattempo un nodo grosso come una casa aveva messo le fondamenta nella sua gola e gli occhi avevano iniziato a pizzicargli tremendamente, come il naso. «E non riuscirò a chiudere occhio nemmeno una notte, sarò preoccupato per te ventiquattr’ore su ventiquattro, vorrò sentirti ogni cinque minuti e diventerò intrattabile con tutti quanti fino a quando non sarò tornato qui da te. Una settimana in tourbus con me in queste condizioni farà tornare la voglia a tutti di tornare indietro, anche a costo di rischiare la pelle».
Tom aprì gli occhi e trovò quelli di Grace a fissarlo, immobili come li aveva visti cinque minuti prima. Poi all’improvviso sentì le sue braccia stringergli fortissimo il collo e il suo viso premere contro la sua nuca.

Menomale che hai capito, pensò Grace, mentre tirava su col naso e si lasciava stringere la vita, pregando perché Tom non la lasciasse mai andare.

 
Scesero le scale fianco a fianco e circa a metà i loro cellulari si misero a squillare contemporaneamente. Si guardarono negli occhi, sbalorditi, e li tirarono fuori dalle tasche dei jeans.
«Bill», disse Tom.
«Mia madre», disse invece Grace.
Insieme risposero alle rispettive chiamate, girandosi quel poco che bastava per nascondere il viso all’altro.
«Bill, che cosa c’è? Oh sì, sì… tutto a posto, sì».
«Mamma, non ti pare di fare domande un po’ troppo personali? Sono grande ormai, ho la mia privacy!».
Tom si voltò verso di lei, pronto a prenderla in giro con una smorfia per la sua ultima affermazione, ma incontrò gli occhi espressivi di Grace che lo fissavano intensamente, mentre la voce che usciva dall’apparecchio che teneva ancora incollato all’orecchio le ripeté la domanda che le aveva fatto poco prima.
«Sì», ammise la detective, con un tono quasi solenne.
Tom si sentì mancare, avvertendo dei brividi scorrergli sulla schiena, e fuggì al suo sguardo. Bill lo stava chiamando, un po’ spazientito.
«Che cos’hai detto? Scusa, mi ero distratto».
Anche Grace tornò a concentrarsi sulla conversazione con sua madre: «Io non so se è il caso… Sei sicura? Te la senti?». Pausa. «Uhm, okay, allora… glielo chiederò».
«Devi chiedermi qualcosa?», le domandò Tom, girando il viso di tre quarti. Suo fratello stava sbraitando – odiava quando non gli si prestavano le giuste attenzioni – ma non era colpa sua se era più interessato a Grace che a lui.
«Ahm… mia madre mi ha chiesto se questa sera vuoi venire a cena da noi». Tom arrossì e lo stesso fu per Grace, che fino ad allora ce l’aveva messa tutta per trattenersi e non balbettare. Tutta fatica sprecata. «O-Ovviamente anche Bill può venire e-e chiederò anche a Molly se ne ha voglia».
«Beh, io credo che… sì, si può fare. Con molto piacere».
Grace quella volta gli diede completamente le spalle, a causa dell’imbarazzo e forse anche per nascondere la gioia insensata che le illuminava il volto. «Ha detto che vengono. Adesso chiamo Molly… Sì, va bene, vado io prima di tornare a casa». Poi, coprendosi la bocca con la mano, sussurrò: «Grazie mamma».
Quando la detective si voltò, anche Tom aveva appena terminato la chiamata con suo fratello.
«Allora?», gli chiese con un cenno del capo.
«Era ancora a casa di Molly – quei due stanno legando parecchio – e ha subito informato anche lei».
«Viene?».
Tom annuì. «A quanto pare tua madre dovrà darsi un bel da fare». Improvvisamente si accigliò: «Lei lo sa che io e Bill siamo vegetariani?».
Grace ridacchiò. «Non c’è problema, anche lei lo è».
«Davvero? Non lo sapevo! Quindi niente carne nemmeno per te, ora che abitate insieme».
«A quanto pare…».
«Peccato», esclamò Tom con un sorrisetto sul volto, mentre incominciavano a scendere di nuovo giù per le scale. «Pensavo che questa sarebbe stata la volta buona perché tu mettessi su un po’ di carne su quelle ossa».
«Stai dicendo che sono troppo magra?», domandò stupita Grace. Era la prima volta che non apprezzava qualcosa del suo fisico e venirne a conoscenza fu più fastidioso di quanto pensava.
«Giusto qualche chilo in più, non chiedo tanto!», si difese Tom, tendendo le mani avanti.
«Vuol dire che così non ti piaccio», affermò lei, stizzita.
«Questo non è vero», sussurrò malizioso il chitarrista, spingendola verso il muro e tendendo un braccio accanto alla sua testa. «Tu mi piaci tanto». La baciò e le posò una mano sul sedere, tenendola stretta a sé.
«Tieni giù le mani, scemo», borbottò Grace, seppure col sorriso sulle labbra, liberandosi e terminando la rampa di scale.
Guardò verso la portineria e per la seconda volta si sorprese di trovare uno sconosciuto al posto del vecchio portiere a cui si era abituata e che, puntualmente, non salutava.
Quando era arrivata, qualche ora prima, era stata una vera sorpresa vedere dietro il bancone quel ragazzo giovane, con un sorriso troppo largo e fin troppa ingenuità nello sguardo. Gli aveva chiesto chi fosse e dove fosse il vecchio portiere e lui, molto educatamente, si era presentato e le aveva spiegato che aveva preso il posto dell’altro portiere, andato momentaneamente in vacanza. Allora, ancora turbata com’era, non ci aveva fatto troppo caso ed era corsa nel suo ufficio, ma adesso che ci faceva più attenzione… Il vecchio portiere era andato “momentaneamente in vacanza” proprio nel suo stesso periodo. Che fosse una semplice coincidenza? Quell’uomo a pelle non le era mai piaciuto, forse era per quello che stava ingigantendo le cose. Ma il suo istinto le diceva che c’era qualcosa di molto, molto strano, e il ricordo del loro ultimo scambio di sguardi rinvigorì il suo presentimento.
«Buona serata, signorina Schneider», la salutò il portiere, con un cenno della mano e il suo sorriso da sempliciotto.
«Buona serata anche a lei», borbottò ed uscì dal palazzo con passo spedito.
Una volta fuori, Tom la prese per il braccio e la guardò negli occhi con la fronte corrugata.
«Perché ti sei comportata in quel modo?», le domandò.
«C’è qualcosa che non mi convince a proposito del vecchio portiere. È andato in vacanza proprio quando io ho annunciato che mi prendevo un periodo di pausa e poi se devo essere sincera non mi è mai piaciuto».
«Hai mai investigato su di lui?».
Grace si voltò verso di lui e lo fissò con sguardo perso. «No… non l’ho mai fatto…».
«Strano», disse Tom, ridacchiando. Poi, come se nulla fosse, si girò verso i loro veicoli. «Io vado a casa, così mi faccio una doccia e mi cambio. Tu dove vai? …Grace?».
La detective si riprese dal suo stato di trance, in cui cadeva specialmente quando si immergeva nei meandri di un caso, ed accennò un sorriso per non farlo preoccupare.
«Devo passare al supermercato per fare un po’ di spesa: mia madre dice che nella mia cucina ci sono solo cibi spazzatura».
Tom rise. «Buon divertimento, allora».
«Ti divertirai tantissimo anche tu con tuo fratello che ti chiederà mille e duecento volte “Come mi sta questo? E questo?”».
Il chitarrista si morse la lingua per non imprecare, ma poi trattenne una risata e salì sulla sua Audi, mentre Grace saliva sul suo fidato fuoristrada.

 

***

 

C’era un profumino delizioso in tutta la casa, tanto che Grace e il suo stomaco brontolante si chiesero se sua madre stesse davvero cucinando vegetariano. Due secondi dopo, però, la sua attenzione tornò a focalizzarsi sul laptop che aveva davanti al viso.
Aveva cercato negli archivi elettronici della Marina Militare degli Stati Uniti, in quelli di tutti i dipartimenti di polizia da lei conosciuti e alla fine si era infiltrata persino in quelli dell’anagrafe, ma non aveva trovato assolutamente nulla sul vecchio portiere che le aveva sempre fatto storcere il naso: non esisteva. Dunque, il suo nome era falso e chissà cos’aveva da nascondere, se c’entrasse lei in qualche modo… Un lampo le attraversò la mente, ma non riuscì ad acciuffare l’illuminazione che l’aveva travolta perché sua madre le picchiettò due dita sulla spalla facendola trasalire.
«Grace, basta lavorare. Stasera non voglio nemmeno sentir parlare di indagini o simili. Ci siamo capite?».
La detective fu costretta a cedere. Chiuse il suo PC e si alzò per accendere la TV, che sintonizzò su MTV, poi aiutò sua madre ad apparecchiare la tavola per i tre ospiti che avrebbero avuto a cena. Ancora arrossiva pensando a come aveva invitato Tom e a come lui aveva accettato: erano tutti e due così imbarazzati!
Quando ormai era tutto pronto e mancavano solo le pietanze secondarie, il campanello trillò. Grace sentì chiaramente i battiti del suo cuore aumentare a dismisura e si tirò un pugno sul petto, come a volerlo azzittire.
Una volta con la mano sulla maniglia della porta, guardò i pantacollant e il largo maglione grigio a collo alto che sua madre l’aveva costretta ad indossare, rimproverandola: «Non vorrai metterti i soliti jeans e una maglietta qualsiasi! Dovresti curare un po’ di più il tuo aspetto, sai? Sei una ragazza così bella!». Doveva ammettere che quando si era vista allo specchio si era detta che non stava poi così male, ma si era rifiutata categoricamente quando sua madre l’aveva incitata a truccarsi un po’. Era l’unica cosa che si era rifiutata di fare ed era orgogliosa del suo viso pulito come al solito.
Respirò profondamente e poi aprì la porta con il sorriso migliore che riuscì a fare. Incontrò subito gli occhi di Tom, che si sgranarono quando si accorse del suo insolito abbigliamento.
«Ciao Grace, sei stupenda!», esclamò Molly, gettandole le braccia al collo e baciandole una guancia. «Grazie per aver invitato anche a me, non so cosa farei se non ci fossi tu!».
«Non c’è di ché», disse, ma la sua voce fu soppressa da quella della ragazzina, che gridò: «C’è Lady Gaga su MTV!», prima di schizzare in salotto.
Così Grace si trovò di nuovo di fronte agli occhi di Tom: non era ancora riuscito a spiccicare una parola e sembrava avesse trattenuto il fiato fino ad allora.
«Okay», mormorò Bill, conscio che suo fratello avrebbe avuto bisogno ancora di qualche minuto per riprendersi da quello shock. Allora si avvicinò a Grace e le sfiorò le guance con le sue, posando le mani sulle sue braccia. All’orecchio, senza farsi notare, le sussurrò: «L’hai fulminato». Le fece l’occhiolino, ridacchiando divertito, poi si diresse verso la cucina per iniziare a presentarsi alla madre di Grace.
Venuta a conoscenza di ciò che aveva provocato al chitarrista, lo guardò boccheggiando, mentre le sue gote prendevano colore.
«Sto… sto bene davvero?».
Tom piantò i suoi fottutissimi occhi in quelli di Grace e, finalmente in sé, sorrise furbescamente, avvicinandosi a lei tanto da sfiorarle il petto con il suo. «Dire che stai bene è riduttivo».
L’investigatrice ricambiò con un sorriso seducente e si abbandonò alle sue braccia, facendo sfiorare i loro nasi. Fece scivolare le mani sui suoi fianchi, poi dietro la schiena e giù, giù…
«Non ti credo affatto», gli soffiò sulle labbra.
«Fai benissimo. Stasera sprigioni sesso da tutti i pori, che cos’hai fatto?».
Grace chiuse gli occhi, trattenendo una risata fra le labbra sottili. Ho ripreso ad investigare.
Qualcuno dietro di loro si schiarì la voce e Grace si voltò di scatto e si allontanò da Tom. Melanie era sulla soglia della porta della cucina, con un mestolo in mano e l’altra mano sul fianco, e li guardava con fare inquisitorio.
«Buonasera, Tom».
«Buonasera, signora. Scusi, mi sono intrattenuto un attimo con…».
«Ho capito», gli lanciò un’occhiata eloquente. «Ma sarà meglio che ti sbrighi, la cena è già pronta in tavola».
Detto questo scomparì in cucina, seguita da un Bill piuttosto divertito e una Molly dello stesso parere. Tom, ancora dietro Grace, si chinò verso il suo orecchio sinistro e parlando glielo sfiorò con le labbra, riempiendola di brividi.
«Ne parliamo dopo. Ho una fame da lupo».
«Ma come», Grace si voltò verso di lui, «l’antipasto non lo vuoi?».
Non gli diede il tempo di capire cosa intendesse e lo baciò.

 
«Molly, ne vuoi ancora un po’?», domandò Melanie, ridacchiando. Aveva spazzolato il suo piatto in due minuti, se non di meno.
«Oh, no, io…».
«Non ti preoccupare tesoro, ce n’è ancora!». Si alzò senza aspettare la sua risposta e andò a tagliarle altre due fettine di polpettone di bietole, una delle sue tante specialità, condendolo con un po’ carote à la julienne.
«Ecco qua», le mise il piatto davanti al naso e le accarezzò i capelli con una mano affettuosa prima di tornare a sedersi al suo posto a capo tavola.
Molly guardò il suo piatto e all’improvviso gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Ehi, Molly, va tutto bene?», le domandò Grace, seduta di fronte a lei, preoccupata.
«Sì, sì… è tutto a posto», la rassicurò sforzandosi di fare un sorriso. Poi si voltò verso Melanie, la quale le stava rivolgendo uno sguardo apprensivo. «Grazie mille signora, è davvero squisito. Lei è stata l’unica al mondo che sia riuscita a farmi mangiare delle verdure e pensare che la governante ne ha cambiati di chef!».
La madre di Grace sorrise impacciata, ringraziandola per il complimento. A quel punto anche Bill e Tom la lodarono, incoraggiati dal primo passo di Molly. Ma Grace non stette troppo a sentire, ancora impegnata ad osservare con cipiglio perplesso la sua piccola amica: che cosa le era successo?
All’improvviso la suoneria del cellulare di Grace interruppe le chiacchiere, qualunque esse fossero.
«Grace, dammi il telefonino».
La detective sbarrò gli occhi vedendo la mano di sua madre porgersi verso di lei. «Mamma, dici davvero? Questo lo facevi sempre quando ero una ragazzina, non vorrai…».
«Signorina, stiamo cenando e non è carino. Forza, dammelo».
Grace non guardò nemmeno chi fosse, per non sentirsi troppo male se per caso avesse ignorato la chiamata dell’agente Crawford che finalmente aveva ricevuto l’identikit dell’uomo che aveva affittato l’hangar dove avevano ritrovato il famoso furgone, e consegnò il cellulare a sua madre, la quale guardò anche i due ragazzi accanto a lei e aggiunse: «Spero che voi li abbiate spenti, oppure dovrete consegnarmeli».
«Oh mio Dio, sembra una professoressa», ridacchiò Tom, consegnandole il suo. Bill fece lo stesso e persino Molly, per non sentirsi esclusa dal gruppo.
«E come credi che abbia preso questo viziaccio?», domandò sarcastica Grace, rivolgendole poi un sorriso affettuoso.
«Era davvero una professoressa?», chiese incuriosito Bill, mentre si portava alla bocca un quadratino di polpettone vegetariano. «Di cosa?».
«Pianoforte», rispose Melanie con un piccolo sorriso.
«Sul serio? Anche io suono il pianoforte!», esclamò Tom, eccitato.
«Oddio, dire che lo suona è un azzardo», precisò il frontman, ridacchiando al broncio del gemello. «Se la cavicchia…».
«Tom, credevo suonassi la chitarra», disse Melanie.
«Da qualche anno ho iniziato anche a suonare il piano e le tastiere. Non dico di essere come Mozart, ma sono bravo, vero Molly?».
Grace scoppiò a ridere. «Ti sei rivolto a lei perché è una vostra fan, non vale!». Si girò verso sua madre e disse: «Potresti dargli delle lezioni private».
«Male non gli farebbe», concordò Bill, ma la donna non sembrava convinta.
«Dai mamma, ammettilo che ti manca insegnare. Ti piace, sei felice quando trasmetti a qualcuno il tuo amore per il piano. Perché no?».
«Ecco, io… va bene», cedette con un sospiro ed un mezzo sorriso.
«Oh, fantastico! Ci vuole un brindisi!». Grace si alzò in piedi e versò un po’ di vino in tutti i bicchieri, tranne in quello di Molly. «A Tom, che non potrà far altro che migliorare…».
Il chitarrista fece una smorfia. «Simpatica».
«…e per la mia mamma», concluse Grace, rivolgendole un’occhiata dolcissima, tanto che Melanie si portò una mano sul cuore e fu sul punto di commuoversi.
Le due si abbracciarono e Tom applaudì festosamente, contagiando anche Bill e Molly. Quest’ultima non ci mise molto impegno perché lo stesso sguardo triste e malinconico di poco prima riprese il sopravvento, ma nessuno ci fece molto caso e ad aiutarla ci fu anche il trillo del campanello.
«Aspetti qualcuno, Grace?», domandò Melanie, sorpresa.
«No, io…». Le tornò alla mente la chiamata a cui non aveva risposto e si domandò se Crawford oppure Dylan non si fossero preoccupati, sempre se fossero stati loro a cercarla.
Andò alla porta, l’aprì e si trovò di fronte l’autista della limousine di Molly, con una grossa scatola bianca con un marchio dorato fra le mani.
«Buonasera, signorina Schneider. Spero sia di vostro gradimento. Da parte della signorina Delafield». Le diede la scatola – pesava tantissimo! – e se ne andò rivolgendole un sorriso cordiale.
Chiuse la porta con un piede, impacciata, e camminò a tentoni verso la cucina, fino a quando Tom non si accorse della sua difficoltà e l’aiutò a portarla a tavola. Solo allora la detective poté tornare a respirare normalmente e lanciò uno sguardo fulminante a Molly, pronta a rimproverarla, ma le esclamazioni di stupore e meraviglia la distrassero e fu costretta a rivolgere la sua attenzione alla magnifica torta a piani dentro la scatola.
«Cristo», soffiò.
«Tesoro, è opera tua?», domandò Melanie alla ragazzina, che annuì con le mani dietro la schiena, ruotando di centottanta gradi, accompagnata dalla gonna del suo vestito blu notte.
«Oddio, ti ringrazio di cuore, è bellissima». L’abbracciò e Molly improvvisamente si irrigidì.
Grace la osservò attentamente e finalmente capì il motivo del suo strano comportamento. Si promise che ne avrebbe parlato con lei al più presto, dopo aver assaggiato quella bomba calorica che la invitava con così tanta insistenza!
«Sei sicuro che tu mi voglia con qualche chilo in più?», domandò sottovoce a Tom, sporgendosi verso il suo orecchio. «Perché penso di stare già ingrassando solo guardandola».
Tom scosse il capo. Ancora un po’ e avrebbe avuto la bavetta all’angolo della bocca. «Chissene frega, non si può resistere ad una cosa del genere».
«L’hai detto tu! Vado a prendere i piatti!».

 
«Oddio, sento che potrei scoppiare da un momento all’altro», disse Grace lasciandosi cadere sdraiata sul suo letto.
Tom, che l’aveva seguita dicendo di dover andare in bagno, sorrise malizioso e salì sul letto gattonando, fino a sovrastarla.
«Conosco un ottimo modo per bruciare calorie», sussurrò suadente.
«Credo di conoscerlo anch’io… E mi piace». Soffocò una risata contro le sue labbra, una mano sulla sua nuca.
Tom le accarezzò un fianco sotto al maglione. La sua pelle era calda e più saliva più sembrava bruciare sulle dita. Si accorse che non indossava il reggiseno e la sua eccitazione aumentò, ma Grace smise di baciarlo e lo guardò negli occhi intensamente, accarezzandogli una guancia con movimenti concentrici del pollice.
«Che c’è?», domandò Tom.
«Penso che non sia carino lasciare gli altri miei ospiti in balia di mia madre».
«Ma io sono il tuo ospite d’onore, dovrò pure avere qualche privilegio!», piagnucolò.
«Il mio affetto smisurato non ti basta?».
Tom chinò il capo, poi le sorrise. «Per questa volta me lo farò bastare».
«Bravo bambino». Si tirò su e si sistemò addosso il maglione, che le ricadde sulle cosce fasciate dai pantacollant. «Devo parlare con Molly».
«In effetti è stata un po’ strana stasera. Tu hai capito che cos’ha?».
«Penso di sì. Ora vai in bagno, è meglio».
Tom seguì il suo consiglio e mentre andava incontrò Molly che, guarda caso, cercava proprio Grace.

Le donne hanno dei poteri soprannaturali, ormai è appurato, pensò e le disse che era in camera sua.
Molly si avvicinò lentamente alla porta della camera della ragazza, l’aprì e la vide intenta a specchiarsi, insicura sul suo aspetto.
«Ciao», la salutò a bassa voce, entrando a piccoli passi.
«Ciao Molly, dovevo proprio parlare con te. Vieni qui». Le indicò di sedersi sul letto, al suo fianco, e Molly obbedì.
«Di cosa devi parlarmi?».
«Del tuo comportamento di stasera».
«Oh, ma non è niente…», chinò il capo e si torturò la gonna del vestito.
«Ah no? Io penso che invece sia importante». Le prese il mento tra le dita e la costrinse a guardarla negli occhi. «Molly…».
«Tua madre è davvero una donna fantastica», la interruppe, ma la sua voce era già incrinata. «È in un certo senso colpa sua se… Mia mamma non mi ha quasi mai guardato come ha fatto Melanie, con così tanta dolcezza e affetto… Non ha mai il tempo di accarezzarmi i capelli… ogni tanto lo fa la mia governante, ma non è di certo la stessa cosa. Melanie sembrava così interessata a me a cena e dopo, quando l’ho aiutata a sparecchiare, mi ha chiesto mille cose… tra cui che scuola frequentassi. Io non sono mai andata a scuola in tutta la mia vita! Ho sempre avuto maestri privati a casa! Non so nemmeno cosa voglia dire svegliarsi presto alla mattina, prendere un autobus e seguire le lezioni. Non so cosa voglia dire essere una ragazza normale! Le ho mentito e mi sono sentita così male… eppure con i miei l’ho fatto milioni di volte!
«Ora io non so come fosse tuo padre, ma credo fortemente che anche lui sia stato un padre esemplare con te, che ti riempiva d’amore, mentre il mio… è già tanto se lo vedo a cena». Le puntò addosso gli occhi colmi di lacrime e singhiozzando concluse: «Grace, io ti invidio da morire».
«Oh, Molly…». L’abbracciò e le accarezzò i capelli, lasciandola sfogare sulla sua spalla.
Tom entrò in camera e Grace lo guardò con gli occhi spalancati, intimandogli di andarsene subito. Lui annuì frettolosamente e richiuse la porta senza fare il minimo rumore.

 
«Buona notte, tesoro. Grazie ancora per la torta, era deliziosa», disse Melanie, avvolgendo delicatamente le spalle di Molly.
«Sì, ne avremo fino a Natale dell’anno prossimo», ridacchiò Grace.
«Sei la benvenuta qui, torna quando vuoi».
Molly guardò la donna con lo sguardo che trasudava gratitudine, poi salutò ed incominciò ad avviarsi.
«È stata una serata magnifica e lei è un’ottima cuoca. Mi sognerò il suo polpettone per diverse notti», disse Bill, baciandole le guance.
«Grazie Bill, troppo buono».
Quando fu il turno di Tom, lui esitò a lasciare la mano di Grace. Melanie se ne accorse e con un sorriso furbetto si portò le braccia strette al petto.
«Tu puoi restare, se vuoi».
Il chitarrista arrossì, come la stessa Grace. «Oh no, non vorrei disturbare ancora…».
«Non ti preoccupare, io ho il sonno pesante», lo rassicurò con una risatina e si diresse verso il corridoio che portava alle camere da letto.
«Beh…», mormorò Grace, riprendendogli la mano nella sua. «Il suo è stato un invito esplicito».
Le sfiorò le labbra in un bacio. «Allora credo di non poter rifiutare».
Salutarono Molly e Bill, dandogli la buona notte, e poi si chiusero la porta alle spalle.
Andarono in camera di Grace e si spogliarono a vicenda, poi si infilarono sotto le coperte ancora fredde. Si strinsero l’uno all’altra e si fecero un po’ di coccole, parlando a bassa voce della giornata appena trascorsa, nella penombra della stanza.
Entrambi si erano dimenticati dei loro cellulari spenti sequestrati da Melanie durante la cena.
Ad un certo punto Tom la osservò in silenzio, continuando ad accarezzarle i capelli sulla testa, e quando lei si accorse del suo sguardo puntò il mento sul suo petto e i colori dei loro occhi si fusero in uno.
«Hai mai provato a contarle?», le chiese, sfiorandole le efelidi sullo zigomo.
«No, non ho mai provato», ridacchiò. «Credo sia impossibile».
Si girò con uno scatto felino e lei cadde con la testa sul cuscino; le labbra di Tom, pochi centimetri sopra le sue, si incurvarono fino a mostrare un sorriso beffardo.
«Vuoi scommettere che ci riesco?», la sfidò.
«Ma dai, Tom, non dire fesserie…».
«No, davvero! Dico davvero, io le conto! Una, due, tre, quattro…».
Grace lo guardò incredula, ma non ostacolò la comparsa di un sorriso sereno sul suo volto, mentre chiudeva gli occhi.
Quando si addormentò, Tom stava ancora contando.

 

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Capitolo bello lungo, non è vero? Spero di avervi saziate! (Per questa settimana, ovviamente u.u)
Sono successe anche un sacco di cose, ma da notare sono: uno, l'entrata in scena dell'agente Michael Crawford dell'FBI - che ne pensate? A me piace molto come personaggio e avrete sicuramente modo di farvene un'idea più precisa andando avanti con la lettura ;) 
Due, Tom ha scoperto cosa c'è dietro il caso di Grace e abbiamo visto qual è stata la sua reazione e quella di Grace... Siamo sempre in bilico con loro, ma quando fanno la pace - e non... vedi ultima scena - sono sempre tenerissimi *o*
Tre, il fatto che Grace ha come dire... ripreso ad investigare! xD Alla fine, forse anche grazie alle parole di Tom, è tornata all'attacco cercando informazioni su questo misterioso portiere... Sarei curiosa di sapere le ipotesi che vi siete fatti su di lui xD
Quattro, questo Dylan è proprio complicato! Ma vorrei vedere voi in una situazione così, poverino D:
Cinque (e poi basta xD) la situazione familiare di Molly, che è sempre quella che è. Secondo voi cambierà mai qualcosa?
Bene, dopo 'sto papiro che nemmeno Dante poteva fare, non mi resta che ringraziare chi legge, chi ha commentato lo scorso capitolo (love u) e chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Thank u all! :D
A lunedì prossimo! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Buonasera! :)
E' in arrivo un altro capitolo bello tosto, sia per la lunghezza che per i contenuti (tra l'altro mi chiedo se non abbia sbagliato a mettere questa storia "arancione", perchè in alcuni punti sembrerebbe da rosso... bah, lascio a voi giudicare e semmai cambierò!). 
Quindi, conoscendo il mio serio problema nel non scrivere dei veri e propri poemi alla fine della lettura, preferisco evitare, per la vostra sanità mentale xD 
Dico solo che questo capitolo fa parte della mia Top 10 u.u Spero che sia così anche per voi e che mi comunichiate le vostre considerazioni in una piccola recensione ;)
Ah, ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e ovviamente chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate! 
Inoltre ne approffitto per augurarvi buone vacanze e un felicissimo Natale, con chiunque e dovunque voi siate ;) (Per gli auguri di buon anno nuovo ne parliamo domenica prossima!)
E ora... Buona lettura! :D

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Capitolo 15

 

“My back’s against the wall, there's nowhere else to go
And I can't hear you calling, who's gonna catch me when I fall?
(Who’s gonna) catch me when I fall?
And I'm forever falling
Who's gonna catch me when I fall?”

(Forever falling – Professor Green)

 

Qualcuno bussò alla porta e Grace alzò gli occhi dal suo laptop, la matita tra le labbra.
«Tom, che ci fai qui?», gli domandò sorpresa, ma felice di vederlo.
Era stata una settimana molto intensa per entrambi e si erano visti poco, ognuno alle prese col proprio lavoro.
Tom era stato la maggior parte del tempo nello studio di registrazione per discutere con il team dei Tokio Hotel: ormai era tutto pronto e il lancio del nuovo album, preceduto dal nuovo videoclip, stava per prendere il via. Grace, invece, aveva lavorato molto al caso, seppure stando seduta alla scrivania del suo ufficio. C’erano stati un paio di passi in avanti e ogni giorno Michael Crawford la informava delle novità e degli ultimi rapporti, dandole da fare piccole ricerche grazie ai suoi contatti.
Sotto le pressioni dell’agente dell’FBI, che aveva dotato lei, sua madre e persino Tom di due agenti in borghese con lo scopo di proteggerli, aveva persino provato a mettersi in contatto con Doc Mahkah, il boss di una delle gang più influenti di Los Angeles e con cui aveva un rapporto più o meno di amicizia. Fino ad allora il boss non aveva accettato la sua proposta di incontrarsi e Grace, nel profondo, era contenta così. Non si sentiva ancora pronta ad uscire allo scoperto e quando lo aveva realizzato aveva capito finalmente quello che Dylan le aveva detto a proposito del fatto che non la riconoscesse più. Era davvero cambiata, per amore.
Tom si avvicinò a lei sorridendo e la baciò, infilandole una mano fra i capelli.
«Non ne posso più di riunioni», le sussurrò a pochi centimetri dalle sue labbra avide di baci. «Mi manchi tantissimo».
Grace capì al volo cosa intendeva e sorrise, facendo scivolare una mano sul suo petto, sugli addominali, sulla cintura… Lui però la fermò e le alzò il viso per immergere gli occhi nei suoi e dire con tono sicuro: «Stasera usciamo. Non accetto rifiuti».
La detective balbettò: «Noi due non siamo mai usciti insieme… nel senso… come un appuntamento».
«Proprio per questo prima di partire dobbiamo farlo, o i paparazzi si deprimeranno!», replicò ridendo.
Grace roteò gli occhi al cielo. «Oh, certo, i poveri paparazzi depressi. Come ho fatto a dimenticarmene?».
«E poi», riprese Tom con voce suadente, «farci fotografare mentre magari entriamo ed usciamo da un ristorante, mano nella mano, sarà la prova definitiva che la nostra è una storia seria: le mie fans in tutto il mondo si metteranno l’anima in pace, come i tuoi innumerevoli ex». Si guardarono negli occhi in silenzio, poi scoppiarono a ridere contemporaneamente.
«Va bene, avviserò l’agente Crawford, così i suoi uomini si prepareranno a dovere per la serata».
«Che palle, ci liberiamo dei bodyguards e arrivano gli agenti di protezione dell’FBI. Non so cosa sia peggio», si lamentò Tom, che da una settimana a quella parte si era continuamente sentito spiato; l’unica consolazione era che erano dei buoni a farlo, per proteggerlo.
«Che ci vuoi fare», commentò Grace, scrollando le spalle. Quindi corrugò la fronte. «In che ristorante hai detto che vuoi andare?».
«Non l’ho detto», ghignò. «Ti piace il sushi?».
Grace parve rifletterci su, poi accennò un sorriso. «Sì, mi piace».
«Bene. Allora ti passo a prendere a casa, uhm, facciamo alle otto?».
«Okay», rispose annuendo col capo.
Tom, con un piano ben preciso in mente, si appoggiò alla scrivania, accanto alla poltrona girevole su cui era seduta lei, ed incrociò le braccia al petto. Doveva prendere tempo e l’unica cosa che gli venne in mente fu di chiederle: «Dylan è ancora arrabbiato con te?».
Grace sospirò e fece un mezzo giro sulla sedia, poi si alzò e andò alla finestra, dandogli le spalle.
«Non ci rivolgiamo quasi più la parola, secondo te? Anche l’agente Crawford comunque ha avuto da ridire, anzi mi ha proprio fatto una lavata di capo: siamo stati degli idioti a dimenticarci che mia madre ci aveva sequestrato e spento i cellulari; credevano ci fosse successo qualcosa».
«Già, ricordo», ridacchiò Tom. «La mattina presto sono arrivati a casa tua e quasi sfondavano la porta! Dylan era nero dalla rabbia».
Grace si voltò verso di lui con un sorriso mesto sulle labbra. «Non è solo per questo che non ci parliamo. Ci sono tante cose di cui dobbiamo discutere, ma sinceramente non me la sento e non penso di essere io quella che deve fare il primo passo. Tu che dici?».
Tom scrollò le spalle e si allontanò dalla scrivania. «Io sono ancora dell’idea che sia un coglione, quindi fai quello che ti senti». Le prese il volto fra le mani e la baciò una, due, tre volte. «Vado, che devo ancora preparare le valige. Rimaniamo d’accordo così: alle otto a casa tua».
Grace annuì. «Dov’è che andate a registrare il video, che non mi ricordo più?».
«Dovevamo registrarlo nell’ospedale in cui sono stato ricoverato, sembrava a tutti più appropriato», sorrise, «ma l’ospedale non ci ha dato l’autorizzazione, così ci accontenteremo di un ospedale di New York che in questo momento è in via di ristrutturazione».
«Ci sarà un po’ più di atmosfera in un ospedale che cade a pezzi, vedila così», disse Grace, posandogli un altro bacio sulle labbra. «Starete via per quattro o cinque giorni, vero?».
«Sì. Partiamo domani mattina».
L’investigatrice gli avvolse il collo con le braccia e si mise in punta di piedi per guardarlo meglio negli occhi. «Allora ti do’ ragione: serve proprio questo appuntamento». E lo baciò.

 
Quando Tom se ne andò, tornò a sedersi alla scrivania e stava giusto per chiamare l’agente Crawford per avvisarlo dell’uscita di quella sera, come aveva detto che avrebbe fatto, ma la suoneria del suo cellulare glielo impedì. Lasciò giù la cornetta del cordless e si portò all’orecchio il cellulare.
«Grace, Grace, Grace!», gridò con voce acuta Molly, senza nemmeno darle il tempo di salutarla. «Mio padre mi ha appena detto che dalla settimana prossima inizierò ad andare a scuola!».
La detective aspettava quella chiamata da una settimana.
Era riuscita, dopo duro lavoro e tantissime discussioni con la sua segretaria, ad ottenere un appuntamento con Mr. Delafield, nel suo lussuoso ufficio all’ultimo piano di uno dei più imponenti grattacieli nel centro di Los Angeles, e nella mezz’ora a lei concessa tra un impegno e l’altro avevano discusso molto.
Mr. Delafield si era rivelato una persona disponibile e desideroso di accontentare la sua unica figlia in tutti i modi possibili. Grace l’aveva sempre immaginato come una persona fredda, incapace di comunicare i propri sentimenti, ma si era sbagliata. Il lavoro lo costringeva a stare lontano da casa molto tempo e quando Grace gli aveva fatto notare che Molly aveva bisogno della vicinanza dei suoi genitori, i suoi occhi si erano riempiti di dispiacere e le aveva chiesto che cosa poteva fare.
«Prendersi una vacanza, per esempio, per stare un po’ con sua figlia e sua moglie», gli aveva suggerito. Quella proposta non gli era dispiaciuta, anche se gli impegni improrogabili erano davvero molti.
«Mi deve informare di qualcos’altro?», le aveva domandato alla fine, leggermente distaccato.
Grace aveva capito subito che non era infastidito dal fatto che fosse lei a dovergli dare dei consigli su come mantenere in piedi l’equilibrio della sua famiglia, ma dal fatto che lui da solo non sarebbe stato in grado di cogliere tutto ciò. Era arrabbiato con se stesso, non con lei, ed infatti alla fine del loro colloquio glielo aveva anche confessato.
«Beh, Molly recentemente mi ha espresso il suo desiderio di voler andare a scuola, di vivere una vita da ragazza normale, con degli amici normali e degli insegnanti normali».
Mr. Delafield l’aveva guardata quasi scioccato. «Davvero vuole questo, la mia bimba?».
Grace aveva scrollato le spalle, annuendo. «Perché si stupisce tanto?».
Lui aveva accennato un sorrisetto amaro. «Presuppongo che lei sia andata a scuola, signorina Schneider. In una scuola pubblica».
«Sì. E con questo?».
«Anche io ho sempre frequentato scuole pubbliche, al contrario di ciò che si potrebbe immaginare. Allora, sappiamo entrambi quali siano le difficoltà derivanti dalla scuola. Per non parlare poi dei classici bulletti presenti sia nelle scuole pubbliche che in quelle private. La mia bimba vuole tutto questo?».
Tutto ciò che aveva detto era giusto e veritiero, ma Grace sapeva che non c’era solo questo, a scuola.
«Molly vuole semplicemente sentirsi una ragazzina normale, spostarsi da casa per studiare ed affrontare tutto ciò che ne consegue. È vero, a scuola la maggior parte delle volte non si ha una vita facile, ma è anche questo un modo per crescere, nel bene e nel male. Crede che tenendola chiusa in casa, con insegnanti pagati profumatamente, al sicuro da ogni bulletto, possa crescere adeguatamente? Prima o poi dovrà pure farsi una sua vita e come si troverà, senza tutta la protezione di cui lei l’ha sempre circondata?».
Mr. Delafield le aveva semplicemente risposto che ci avrebbe pensato sopra. Poi l’aveva salutata, ringraziandola. Prima che uscisse dal suo ufficio luminoso, però, le aveva detto: «Preferirei che comunque lei continuasse a stare vicina a mia figlia, sa… per aiutarla semmai dovesse averne bisogno. Posso anche pagarla, se vuole».
Grace aveva sorriso candidamente. «Mr. Delafield, Molly è una mia amica, mi sono affezionata a lei, e non ci penso nemmeno ad accettare dei soldi da parte sua. Starò accanto a Molly con molto piacere, come ho sempre fatto».
A quel punto, il sorriso di quel padre impacciato le aveva scaldato il cuore, ricordandole un po’ quello del suo di padre.
«Farò in modo di ricambiare il favore, comunque», le aveva detto e l’aveva lasciata andare.
Si appoggiò allo schienale della sua poltroncina girevole e si morse un sorrisetto, felice che Mr. Delafield avesse preso la decisione giusta.
«Davvero?», esclamò cercando di simulare la sorpresa. «Ma è fantastico! Dove andrai?». Era proprio curiosa di saperlo: suo padre aveva scelto per lei una scuola privata o una pubblica?
«Alla Notre Dame High School», rispose Molly, eccitata.

Me lo sarei dovuto aspettare, pensò Grace. È una scuola privata, sì, ma non è una delle più prestigiose. Mr. Delafield ha scelto una via di mezzo. Molto saggio.
La ragazzina aggiunse: «Pensavo che papà mi avrebbe mandata alla Marymount! Quella specie di convento di suore, senza nemmeno la presenza di un ragazzo. Sarei morta là dentro, stanne certa!».
Grace ridacchiò. «Sono contenta per te, Molly, davvero».
«Oh, ma non è tutto! Ha anche detto che d’ora in avanti tornerà sempre a casa per cena e che cercherà di tenersi libero almeno un week-end al mese per stare con me e mamma! Dev’essere per forza un miracolo, non ci sono altre spiegazioni!».
«Già, non ce ne sono…». Si girò intorno al dito una ciocca di capelli e si voltò verso la finestra alle sue spalle. «Adesso devo proprio andare Molly, scusami. Ci sentiamo presto, va bene? Così mi racconti tutto con calma. Ciao!».
Pose fine alla telefonata e si portò entrambe le mani sulla nuca, sorridendo serena. Ma fu solo per un attimo, perché pensieri più urgenti tornarono ad occuparle la mente. Si sporse sul telefono fisso per chiamare l’agente Crawford, ma proprio questo squillò facendola sobbalzare.
«Schneider Investigations», rispose con tono professionale.
«Grace, sono io».
«Ciao mamma», rispose sorpresa. «Che c’è? È successo qualcosa?».
«No, stai tranquilla. È solo che… hai letto il giornale di oggi?».
«No, io di solito non leggo i giornali, vedo le notizie su Internet. Questa mattina l’ho comprato solo per te».
«Oh, grazie. Comunque non mi avevi detto che avevi ripreso a fare pubblicità alla tua attività…».
Grace sbarrò gli occhi. «Pubblicità…? Ma di che cosa stai parlando?».
«Nelle pagine degli annunci c’è il logo della tua agenzia, con scritto che sei una delle migliori investigatrici della California… Ma non l’hai fatto mettere tu?».
«E come potrei? In questo periodo non sto guadagnando niente!».
«Allora chi…?».
Il silenzio scese fra loro e Grace si portò due dita alle labbra, meditabonda.

«Farò in modo di ricambiare il favore, comunque».
Si voltò bruscamente e fece una ricerca in Internet. Aveva sempre desiderato creare un sito Web che pubblicizzasse la sua attività e mettere avvisi ovunque fosse possibile sul Web, ma non era mai riuscita a farlo per il poco tempo disponibile e la scarsa disponibilità di liquidi che si trovava fra le mani.
Quando digitò su Google “Schneider Investigations”, il motore di ricerca le mostrò i risultati più vari, tra cui, il primo della lista, un sito ufficiale. Vi cliccò sopra ed osservò meravigliata la homepage: i colori chiari, tendenti al beige, e le scritte in verde scuro; le descrizioni del modo in cui il suo lavoro veniva svolto, con la maggiore riservatezza e rapidità possibile; il numero di telefono, il fax con cui poterla contattare, e c’era persino uno spazio riservato alle richieste via e-mail! Era il sito in grado di pubblicizzarla a dovere, quello che aveva sempre sognato, ed era quasi certa di sapere chi doveva ringraziare per quel lavoro stupendo e per le sue tasche irrealizzabile.
«Scusami mamma, mi è appena venuta in mente una cosa e devo scappare. Ti richiamo dopo». Tenendo la cornetta accostata all’orecchio, mise giù la chiamata con sua madre e digitò il numero che ormai sapeva a memoria.
«Salve, sono Grace Schneider, vorrei parlare con…».
La segretaria però la interruppe: «Signorina Schneider, Mr. Delafield mi ha detto di comunicarle che non c’è bisogno che lo ringrazi: è stato il suo modo per ricambiare il favore».

 
Finalmente, riuscì a chiamare l’agente Crawford.
«Oh, Grace. Hai qualche novità per me?», le domandò senza troppi convenevoli.
«Solo una: stasera Tom mi porta fuori a cena».
«Uhm… devo mettervi alle calcagna i miei uomini migliori, allora», ridacchiò. «Vista la tua imprevedibilità, è giusto così».
«Okay, questa me la merito. Spero che questi tuoi due uomini migliori non siano degli impiccioni, perché mi danno davvero sui nervi».
«Non ti preoccupare, quando parlo dei migliori intendo proprio i migliori», la rassicurò.
Grace, soddisfatta, passò all’argomento successivo: «Qualche novità sul nostro Uomo Invisibile?».
«No, ancora nessuna. È impossibile rintracciarlo».
«E pensare che ce l’ho sempre avuto sotto al naso! Se avessi dato retta al mio istinto, a quest’ora magari…».
La sera della cena, quando Melanie aveva sequestrato i loro cellulari, l’agente Crawford aveva provato a chiamare varie volte Grace per dirle che avevano l’identikit dell’affittuario dell’hangar in cui avevano trovato il furgone dell’aggressione. Per colpa, o per fortuna, di quella circostanza Grace aveva scoperto lo sconvolgente risultato solo la mattina successiva, quando lui e Dylan, preoccupati che potesse esserle successo qualcosa, avevano deciso di andare al suo appartamento. L’uomo che aveva affittato l’hangar era il portiere del palazzo in cui si trovava il suo ufficio di investigazioni e, come se non bastasse, era già scomparso da un pezzo, agevolato anche dal fatto che tutti i documenti da lui utilizzati fossero falsi, ma contraffatti così bene da passare per autentici. Non a caso per loro era l’Uomo Invisibile.
«È inutile fare questi ragionamenti, credimi», le disse Crawford, col suo tono serio.
«Hai ragione. Ah, comunque è tutto confermato: Tom e suo fratello Bill partiranno per New York domani mattina e staranno via quattro o cinque giorni».
«Bene. Speriamo soltanto che Doc Mahkah si faccia vivo in questo arco di tempo».
Grace, nel suo piccolo, sperava che il boss non si facesse proprio sentire, ma il desiderio di scovare quell’organizzazione criminale era altrettanto forte.
«Adesso scusami Grace, ma ho molto lavoro da sbrigare. Chiamami per qualsiasi cosa, okay?», disse l’agente dell’FBI, estrapolandola dai propri pensieri.
«Sì, certo. Grazie, Michael. Fai altrettanto».
Interruppe la comunicazione e si appoggiò allo schienale della poltroncina girevole serrando le braccia al petto, corrucciata.
Stava pensando alle nuove inaspettate pieghe che quel caso aveva preso, quando la sua mente le fece il brutto scherzo di suonarle un campanello d’allarme che le fece venire i sudori freddi, per quanto fosse ridicolo ed assolutamente non da lei: che cosa si sarebbe messa quella sera per uscire con Tom?
Chiuse gli occhi e si posò una mano sulla fronte, vergognandosi come non mai. Quindi si sporse di nuovo verso il cordless e si portò la cornetta all’orecchio, tamburellando nervosamente le dita sulla scrivania.
«Bill, ciao. Ascolta, avrei bisogno di una tua consulenza…».

 
Non credeva che sarebbe mai arrivata a tanto, eppure si trovava nella limousine di Molly, lussuosissima come quella della madre ma con gli interni fucsia, seduta di fronte a lei e a Bill, che confabulavano su ciò che potevano proporle di indossare, proprio come due stilisti in carriera.
Per quanto si vergognasse – ogni due per tre, ossia quando sentiva ipotesi di mini-vestitini aderenti e cose del genere – voleva davvero essere bella agli occhi di Tom, voleva che quella serata fosse perfetta e che la ricordasse per il resto della sua vita e non solo per quei cinque giorni in cui non si sarebbero visti.
«Ma dove la porta? Anche il contesto è importante!», esclamò Molly a bassa voce, ma Grace la sentì comunque e deglutì rumorosamente, incontrando per un attimo lo sguardo di Bill, il quale era già a conoscenza di tutto ciò che aveva in mente il suo gemello, compresi i dettagli.
Infatti si sporse verso l’orecchio di Molly, avvolgendoglielo con le mani, e le sussurrò il posto in cui l’avrebbe portata a cena.
«Ah, quello! Uhm, non mi piace granché», disse la ragazzina con sufficienza.
Bill sgranò gli occhi. «Ma come?! È bellissimo!».
«Sì, su questo non ci sono dubbi. Il fatto è che per quanto sia alla moda e trendy, il cibo non è di qualità».
«Io ho sempre mangiato bene», replicò Bill, incrociando le braccia al petto e lasciando che gli occhi da sole Chanel gli cadessero sul naso, coprendogli gli occhi.
«Son gusti», disse ancora Molly, scrollando le spalle.
Grace doveva avere un’espressione davvero sconcertata, provando ad immaginare in quale diavolo di posto Tom voleva portarla per il loro primo appuntamento ufficiale, tanto che la ragazzina si voltò verso di lei e le rivolse un sorriso candido, posandole una mano su un ginocchio.
«Non ti preoccupare, ci penseremo noi a te. Tom stenterà a riconoscerti».

E questo dovrebbe tranquillizzarmi? si domandò Grace, più agitata di prima, maledicendosi di aver avuto quella folle idea di chiedere una consulenza a Bill e Molly.
Portò lo sguardo fuori dal finestrino oscurato della limousine e per poco non si tagliò coi denti il labbro che si stava mordicchiando nervosamente. Non poteva sbagliare, la via verso la quale si stavano dirigendo era Rodeo Drive, la via dello shopping di lusso a Beverly Hills e, inoltre, una delle più care al mondo. Iniziò a sudare freddo.
«Molly, io non penso… non posso permettermi nemmeno di usare il bagno di uno di questi negozi!», balbettò, arrossendo a chiazze sul collo e sul viso.
Bill e Molly si guardarono sollevando le sopracciglia, poi le sorrisero tranquillamente.
«Non è un problema di cui ti devi occupare tu, okay?», disse Bill, facendole ben intendere che non aveva alcun diritto di replica.
Si accasciò sul sedile, umiliata e già priva di forze, e aspettò che giungessero alla loro destinazione. Si sentì come una condannata a morte diretta verso il patibolo.
Quando li fecero scendere, Molly andò a passo spedito verso una delle tantissime vie adorne di cespugli in fiore e piccoli alberi disposti ai lati delle numerose panchine e senza nemmeno un mozzicone di sigaretta per terra, invitandoli a seguirla. Sembrava che la ragazzina conoscesse ogni angolo di quelle vie, che ci fosse cresciuta. Il bodyguard di Molly, l’agente di scorta di Grace e quello di Bill non poterono far altro che seguire il gruppo a loro volta, per quanto avviliti.
Grace fu trascinata in tutti i negozi delle griffe più famose, partendo da Armani, proseguendo con Gucci, Chanel, Luis Vuitton e Prada. Ma nulla era stato di suo gradimento, un po’ perché non erano proprio nel suo stile e un po’ perché ogni volta che guardava il prezzo di un abito il suo cervello andava in tilt e si inventava mille scuse pur di non comprarlo, anche se i soldi non erano suoi, soprattutto perché non erano suoi.
«Che gusti, signorina», disse Bill ad un tratto, mentre si incamminavano verso il negozio successivo.
«Uhm, mi sa che ci metteremo più del previsto», concordò Molly. «O forse no. Il prossimo stilista è il mio preferito, sono sicura che lì ti troveremo qualcosa!».
Grace seguì la direzione indicata dal dito affusolato di Molly ed alzò gli occhi per ammirare l’edificio a due piani che le si stagliava di fronte. Somigliava alla facciata di un tempio greco, con i capitelli a due volute laterali che reggevano la trabeazione e il tetto, su cui doveva esserci un giardino, e le candide colonne scanalate che si infilavano nella terrazza che sporgeva a forma arcuata dal piano superiore. Sull’architrave si leggeva a grandi lettere argentate: Versace.
Grace ebbe come la sensazione di svenire, ma Molly la prese per un braccio e la trascinò nel negozio.
La commessa non si comportò in modo diverso rispetto a tutte le sue colleghe che avevano incontrato fin’ora: squadrò Grace da capo a piedi, facendola sentire una nullità, ma non appena riconobbe Bill e sentì le richieste esagerate di Molly chinò il capo in silenzio e con una specie di timore reverenziale eseguì tutte le loro richieste, portando loro tutti i migliori capi disponibili.
La detective fu infilata nell’ennesimo camerino, enorme come tutti quelli in cui era stata da due ore a quella parte, e dovette provare tutti i vestiti che Bill e Molly le ordinavano. Ne provò una mezza dozzina, se non di più, e nessuno l’aveva colpita tanto da farci un pensiero: erano tutti troppo articolati e la maggior parte delle volte troppo assurdi anche solo da indossare.
Quando uscì, con addosso i suoi comodi jeans e la sua felpa, aveva il viso spento e demoralizzato, come Bill e Molly, i quali non riuscivano a capacitarsi di come potesse essere successo. Che cosa avevano sbagliato? Senza farsi sentire dalla commessa, giunsero alla conclusione che tutto il personale che avevano incontrato era incompetente e nascondeva loro le perle dei loro magazzini.
Stavano per uscire, quando lo sguardo di Grace fu attirato da un manichino dall’altra parte del negozio, un po’ nascosto.
«Aspettate un attimo», disse, con la voce che le tremava per l’emozione.
Bill e Molly si guardarono estasiati, unendo le mani a mo’ di preghiera mentre la seguivano.
Quando si fermò di fronte al vestito che l’aveva tanto colpita nonostante la sua semplicità, entrambi rimasero a fissarlo con aria sufficiente, ma alla vista dell’espressione meravigliata di Grace non persero tempo e glielo fecero provare seduta stante.
Era un corto tubino nero ed aderente, che abbracciava docilmente ogni sua curva, con due squarci posizionati ad hoc: uno sopra il seno e uno sul fianco destro.
La detective rimase parecchio tempo nel camerino, a mirarsi e rimirarsi allo specchio, sentendosi, forse per la prima volta in vita sua, veramente bella. Quando si decise ad uscire, Bill e Molly la osservarono in lungo e in largo e pian piano sui loro volti si dipinse un’espressione di gioia e stupore mista a commozione.
«Allora è vero quello che si dice», soffiò Molly con una mano sul petto. «Il vestito in sé non conta niente, sono le persone che lo indossano a renderlo unico».
«Puoi dirlo forte», convenne Bill, per poi guardare Grace negli occhi e sorridere dolcemente. «Sei stupenda, non scherzo».
«Oh, ti credo», rispose l’investigatrice, fremendo.
«Hai guardato quanto costa?», le chiese Molly, avvicinandosi e cercando il tagliando.
Grace scosse il capo. «Avevo paura di farmi prendere dai sensi di colpa e non voglio, questo vestito è troppo bello».
Molly trovò ciò che cercava e sorrise, soffiando un po’ d’aria dalla bocca. «Una bazzecola. Ma su di te è l’ottava meraviglia del mondo».
Si voltò verso la commessa, ferma impalata dietro di loro: «Lo prendiamo».

 
«Fammi vedere, fammi vedere che cosa hai comprato», disse eccitata Melanie, cercando di sbirciare dentro il sacchetto firmato Versace.
Molly si mise in mezzo e lo strappò dalle mani di Grace, brandendo un sorrisino sfrontato. «Quando sarà il momento!». Poi si voltò verso Bill e disse: «Dobbiamo consigliarle un paio di scarpe decenti e dirle come truccarsi, la cosa più difficile».
Infatti Grace stava per ribattere, ma Bill le posò una mano sulla bocca e scosse il capo. «Hai un viso stupendo Grace, faremo in modo di non cancellarne la bellezza naturale, okay?». Le toccò anche i capelli e, gettando un’occhiata a Molly, aggiunse: «Forse dovremo mettere mano anche a questi».
«Probabile», rispose la ragazzina, scrollando le spalle. «Forza, andiamo!».
La trascinarono verso la sua camera e Bill la fece sedere sul letto, mentre Molly andava in bagno a svaligiarlo di qualsiasi cosa potesse tornargli utile. Quando tornò, aveva le mani piene di trucchi, così tanti che Grace stentò a credere che fossero tutti suoi, visto che non li usava mai.
«Ecco a te, Bill», disse, gettandoli sul letto. «Mentre io vado a rovistare fra le scarpe e a cercare una borsa adatta, tu prova alcune combinazioni di trucco».
«Okay».
La fase due della trasformazione di Grace stava per avvenire.

 
Quando ebbero in testa l’esatto modo in cui l’avrebbero truccata e le avrebbero fatto i capelli, dopo aver provato su di lei ogni soluzione possibile, facendola sentire una povera cavia da laboratorio, la gettarono sotto la doccia, finalmente libera.
Nel frattempo Molly decise di fare un salto a casa per prendere in prestito da sua madre dei prodotti più professionali e qualche accessorio che Grace non aveva, secondo lei fondamentali.
Bill rimase con Grace tutto il tempo, anche mentre faceva la doccia, seduto sull’asse del cesso, tranne quando Melanie lo invitò a prendere il tè con lei. Quello fu l’unico momento in cui Grace riuscì a stare un po’ da sola con i propri pensieri.
Sotto l’acqua calda della doccia, percepì i muscoli tesi sotto la pelle e quella specie di frenesia scorrerle nelle vene, quell’emozione che riconobbe come quella del primo appuntamento. Si sentì una stupida ragazzina alla prima cotta, ma non se ne vergognò, anzi sorrise a quel pensiero. Allo stesso tempo, però, avvertiva anche un senso di angoscia comprimerle il cuore: aveva un brutto presentimento e non sapeva proprio a cosa associarlo, tanto che presto se lo dimenticò, distratta da Bill.
Se l’era presa comoda sotto la doccia e Bill iniziò a pensare che non ce l’avrebbero fatta a renderla una meraviglia, ma quando Molly tornò si rilassò e si misero subito al lavoro.
Le fecero indossare il suo nuovo abito, poi Molly pensò ai suoi capelli, asciugandoli e stirandoli alla perfezione, tanto che riuscì a dargli qualche centimetro in più. Inoltre, glieli pettinò in modo tale da creare una specie di frangia laterale. Nel complesso, il fatto che Grace avesse fatto un gran pasticcio tagliandosi i capelli da sola non si notò neppure: il suo sembrava proprio un taglio corto, sfilato e scalato fatto apposta.
Bill, intanto, si era occupato del trucco, la sfida più ardua che in realtà si era rivelata la più semplice, perché la pelle di Grace, ricoperta di efelidi, non aveva bisogno di alcun fondotinta né di colore. Aveva così optato per un trucco semplice ed essenziale, puntando l’attenzione sui suoi occhi verdi e sulle labbra. Le aveva disegnato sulle palpebre una linea sottile di eye-liner, rendendola più spessa alla coda dell’occhio, poi le aveva pettinato le ciglia con un po’ di mascara. Sulle labbra, invece, le aveva messo un rossetto rosa perla, che le rendeva ancora più invitanti e sexy. Era stato molto combattuto nella scelta fra quello e quello rosso, ma alla fine aveva pensato a suo fratello e si era subito reso conto che lui avrebbe preferito un colore più soft, che non sconvolgesse troppo la sua bellezza naturale.
Quando entrambi furono soddisfatti del proprio operato, le fecero indossare le scarpe, un paio di decolté alte di pelle nera scamosciata, e la accompagnarono allo specchio, dove rimase a fissarsi per minuti interminabili, sfiorandosi il vestito, il viso e i capelli.
«Sono veramente io?», soffiò ad un tratto, del tutto incredula.
«Oh sì, eccome se lo sei», rispose Molly orgogliosa, per poi andare a chiamare Melanie per mostrarle il risultato finale del loro duro lavoro.
Grace continuò a fissarsi in silenzio anche quando rimase sola con Bill, fino a quando non sentì la suoneria del cellulare del cantante.
«Ciao Tomi», rispose dopo averlo tirato fuori dalla tasca dei pantaloni, ammiccando verso la detective, rossa come un peperone. «Sì, sono ancora da Grace, ma abbiamo finito. Tu sei a posto? Oh, perfetto! Sì, ciao, ciao».
«Che ti ha detto?», gli domandò nervosamente, appena ebbe rimesso a posto il telefono.
Lui le sorrise. «Sta arrivando».
Grace si portò le mani sul viso per non urlare e proprio in quel momento sua madre entrò nella stanza accompagnata da Molly, che la indicava teatralmente.
Melanie trattenne il respiro per un attimo, per poi gridare con voce stridula: «Tesoro! Sei così bella! E così sexy… Allora sei tu che provochi quel ragazzo!».
Tutti scoppiarono a ridere e anche Grace si lasciò andare, nonostante si sentisse andare a fuoco.
Tom stava arrivando, era giunto il grande momento.

 
«Andrò tutto bene, rilassati», la rassicurò Bill, seduto accanto a lei sul divano, mentre le stringeva le mani nelle sue e la guardava negli occhi. Sembrava una bambina sperduta e gli venne da ridere.
Quella sua reazione riuscì a far rivenire la detective, che arricciò il naso. «Perché ridi?».
«Sei così buffa, Grace. Non ti spaventa nulla, ma uscire con Tom sì?».
«In effetti è divertente», disse Molly, seduta alla sua destra. «Ma devo ammettere che se io fossi al tuo posto mi comporterei esattamente come te. Insomma, Tom è così… oh…».
Grace si schiarì la voce, guardandola malissimo. Molly scosse il capo ed arrossì, stringendosi le braccia al petto.
«Scusa, mi sono lasciata andare».
Ma la detective si sciolse in un sorriso e le avvolse un braccio intorno alle spalle. «Per tutto quello che hai fatto per me oggi dovrei fare uscire te con lui, come minimo. Sei stata incredibile, non so come avrei fatto senza di te», le posò un bacio sulla fronte. «E senza Bill, ovviamente», aggiunse, stringendo a sé anche lui. «Siete stati fantastici tutti e due, non so davvero come ringraziarvi».
«Fatti fare delle foto bellissime, voglio che tu sia su tutti i giornali e i programmi di gossip!», esclamò Molly, con gli occhi brillanti.
«Oh, Dio», sospirò Grace con un sorriso, appoggiandosi allo schienale del divano. «È assurdo che una detective venga fotografata per i giornali di gossip. Io dovrei essere più che riservata, quasi un’ombra…».
«Magari ti farai un po’ di pubblicità così», ipotizzò Bill.
«O magari nessuno mi prenderà più sul serio», sbuffò. Un lampo le attraversò la mente e si rizzò sul divano.

Magari nemmeno i cattivi mi prenderanno più sul serio, vedendomi uscire così allo scoperto. Magari potrei sfruttare i paparazzi come copertura per agire indisturbata e continuare ad investigare… Non era una cattiva idea, ma i criminali a cui dava la caccia non erano così sprovveduti da cadere in un tranello sciocco come quello.
Né Molly né Bill avevano notato il suo mutamento d’espressione e avevano tranquillamente continuato a parlare della vita sotto i riflettori, dei pro e dei contro.
Finalmente, il campanello trillò. Tutti e tre si ammutolirono, poi la ragazzina e il frontman cominciarono a stringere convulsamente le mani di Grace, intorpidendogliele.
«Vai tu ad aprire o devo andare io?», domandò Melanie alla figlia, guardandola con cipiglio perplesso.
Grace non ebbe nemmeno il tempo di rispondere ché Molly e Bill la spinsero ad alzarsi e ad andare alla porta.
L’eco dei suoi tacchi scandì il tempo e i battiti del suo cuore e quando si fermò e posò la mano sulla maniglia ebbe come la sensazione che tutto quanto si fosse veramente fermato. Respirò brevemente, poi tirò la porta verso di sé. Appena incontrò lo sguardo di Tom sorrise impacciata, mentre osservava comparire sul suo viso un’espressione sconvolta e dolce al tempo stesso. Quindi sollevò gli occhi nei suoi le rivolse un sorriso seducente, ma ricco di eleganza.
«Ahm, scusi signorina… cercavo Grace Schneider, lei sa se è in casa? È una sua amica?», le domandò inumidendosi le labbra con la lingua.
Grace diventò rossa e, senza nemmeno sapere come, trattenne una fragorosa risata per recitare la sua parte, appoggiando una spalla allo stipite della porta e ricambiando il suo sguardo. «Dipende quale Grace Schneider cerca».
«Oh… Lei crede che la Grace che cerco si arrabbierebbe se per stanotte scegliessi quella che mi sta di fronte?».
Lei scrollò le spalle, poi scoppiò definitivamente a ridere e gli prese le mani per poi alzarsi sulle punte e baciarlo sulle labbra. Tom non si accontentò di un solo bacio e le premette il naso sulla guancia per non farla spostare, cercando le sue labbra e trovandole, pronte a soddisfarlo.
«Che ti hanno fatto?», sussurrò ad un tratto Tom, scostandosi per soffermarsi ancora a guardarla. Le sollevò una mano e Grace fece un giro su se stessa, sentendosi una principessa. Non si era mai sentita così bella e felice, era al settimo cielo.
«Sei bellissima».
A quelle parole a malapena udibili Grace socchiuse gli occhi e respirò profondamente, dicendosi che la sua reputazione e il trucco si sarebbero rovinati se non fosse riuscita a controllare le emozioni.
«Grazie. Anche tu».
L’aveva detto in automatico, ma lo pensava davvero: ormai era arrivata ad amare ogni singola cosa di Tom, anche i suoi nei, e lo avrebbe trovato bello anche con degli stracci addosso. Quella sera indossava una semplice maglietta nera, una felpa nera a righe bianche sottili e un paio di jeans scuri. Si era anche rasato!
Tom scosse il capo, accarezzandole una guancia. «Non reggo il confronto. Anzi, penso che vestita così dovrei portarti come minimo alla Notte degli Oscar».
«Scemo», rispose ridacchiando ed abbassando il capo.
«Allora ragazzi, avete finito con i convenevoli o ci vuole ancora molto?», domandò dall’interno Melanie.
Tom e Grace allora entrarono e furono accecati da un flash improvviso. Strizzarono insieme gli occhi e dopo essersi ripresi capirono quello che era successo: la madre di Grace gli aveva fatto una foto a sorpresa.
«Mamma, ti sembra il caso?!», strillò Grace, mentre il suo viso andava a fuoco per l’ennesima volta.
«Oh sì», rispose tranquillamente Melanie. «Mi sono persa il tuo ballo scolastico, devi lasciarmelo fare adesso!».
La detective guardò con aria sperduta il chitarrista, il quale sollevò le spalle e le sorrise avvolgendole la vita con le braccia, mettendosi in posa per l’obbiettivo. Grace trattenne il fiato e in un gesto del tutto spontaneo nascose il viso contro il suo collo, immergendosi nel suo profumo. Sorrise.
«Un’altra! E dai, Grace, fatti vedere! Sei così bella questa sera!».
Grace obbedì a sua madre, ora in pace con se stessa, e posò la fronte contro le labbra di Tom, sorridendo beata all’obbiettivo.
«Oh, siete così teneri», disse Molly con una mano sulla bocca e gli occhi lucidi.
Grace rise e sua madre non perse l’occasione per farle un’altra foto. Stava recuperando interi anni di lontananza.
Quando finalmente riuscirono a farla smettere, Tom decise che era arrivato il momento di buttarsi in pasto ad altri flash, quelli dei paparazzi. Salutarono Bill e Molly, che sarebbero usciti dopo di loro per non creare troppo scompiglio, poi uscirono dall’appartamento e dal condominio mano nella mano. Un solo paparazzo prevenuto, che aveva seguito Tom fino a lì, li fotografò mentre dal portone del palazzo si dirigevano all’Audi R8 GT del chitarrista. Contemporaneamente, i due agenti di scorta mandati di Crawford salirono sulla loro auto per iniziare a lavorare.
«Quanto siamo controllati oggi», canticchiò Tom, accelerando un po’ e dando un’occhiata all’auto che li seguiva attraverso lo specchietto retrovisore.
«Oh su, non rendergli ancora più difficile il lavoro. Nemmeno loro si divertono a farci da balie», replicò Grace, accarezzandogli un braccio.
«Uhm, forse hai ragione», disse, ma subito dopo sorrise birichino ed accelerò ancora, facendola ridere.
Grace guardò fuori dal finestrino per la maggior parte del tempo, provando ad indovinare la strada che avrebbe fatto e dunque il posto in cui l’avrebbe portata a cena. Da quello che aveva tratto dalla conversazione di Bill e Molly in proposito, doveva essere un posto di tendenza, frequentato più che altro da celebrità, ma che in qualità culinarie non era chissà che. Provò a ricordare tutti i ristoranti del genere a Los Angeles, ma ce n’erano a decine!
Ad un certo punto distolse lo sguardo dalle luci delle insegne al neon, dei semafori e dei fanali delle altre auto che bucavano l’oscurità della notte e riconobbe la via che stavano percorrendo: la Hollywood Boulevard.
«Ti prego Tom, parcheggia qui», lo supplicò.
Il chitarrista, anche se incerto, l’accontentò e parcheggiò l’auto sul ciglio della strada. «Che cosa intendi fare?».
«Facciamo una passeggiata, è più bello. Tanto è in questa via, no?».
«Sì, però non è un’idea geniale… insomma, i paparazzi ci staranno addosso per tutta la via e non voglio tornare a casa cieco».
Si girò verso di lei, ma il sedile del passeggero era vuoto: era già scesa dall’auto e stava muovendo dei passi incerti sul marciapiede ricoperto dalle famose piastrelle di marmo nero, su cui spiccavano le stelle rosa con i nomi dorati di tantissime celebrità: la Walk of Fame. Teneva le braccia stese nel vuoto, come un’equilibrista, e il piccolo sorriso che aveva dipinto sulle labbra lo incantò a tal punto che gli ci vollero una dozzina di secondi per scendere dall’auto e raggiungerla.
«Ma che stai facendo?», le domandò a bassa voce, affiancandola e gettandosi un’occhiata alle spalle: anche i due agenti avevano parcheggiato l’auto, confusi, e avevano iniziato a seguirli.
«Era da tanto che non passavo da queste parti», rispose Grace, senza scollare gli occhi da quelle mattonelle famose in tutto il mondo, cercando la sua mano per stringerla forte. «Mi ricordo che una volta io e mio padre abbiamo fatto una passeggiata come questa, proprio come sto facendo ora con te. Io gli tenevo forte la mano… e avrei voluto che questa via non finisse mai, perché era bello stare con lui, anche in silenzio. Io gli chiedevo se riconosceva i nomi delle celebrità, ma lui rispondeva sempre di no e rideva…». A quei ricordi rise anche lei, tirando su col naso e cacciando indietro le lacrime.
«Scusa, se vuoi possiamo anche andare in auto», gli disse, fermandosi improvvisamente e guardandolo negli occhi.
Lui ricambiò lo sguardo e sorrise, avvolgendole con un braccio le spalle coperte da una giacca di pelle nera.
«No. È bello passeggiare così con te».
Fu una vera sorpresa per i paparazzi vederli arrivare a piedi, ma non ci pensarono due volte prima di corrergli incontro e di camminare all’indietro come gamberi per poterli fotografare fino al loro ingresso al Katsuya Restaurant, uno dei più noti ristoranti giapponesi a Hollywood. Furono inondati da così tanti flash che per un bel po’ Grace, sprovvista di occhiali da sole a differenza di Tom, vide pallini gialli e blu ballonzolarle di fronte alle palpebre.
Gli arredamenti e il posto in generale erano molto carini, davano un senso di intimità e non c’era il grande baccano tipico dei ristoranti giapponesi a cui era abituata. Il sushi era davvero buono e ripensò con disappunto al giudizio non proprio positivo di Molly, ma poi si disse che una come lei doveva aver provato davvero il meglio del meglio.
Fu una cena molto tranquilla, trascorsa a chiacchierare e a ridere, e Grace si sentì davvero felice.
Non fu come se l’era aspettata, perché tutto il nervosismo che aveva accumulato era scomparso magicamente appena si era vista Tom davanti. Era stato tutto talmente naturale quella sera che si chiese se stesse sognando.
Quel pensiero svanì quando dovettero attraversare di nuovo il nugolo di paparazzi che li avevano aspettati fino ad allora fuori dal ristorante, e realizzò anche come la sua vita d’anonimato sarebbe stata spazzata via se fosse rimasta al fianco di Tom.
Raggiunsero l’Audi R8 GT del chitarrista con un paio di tenaci paparazzi al seguito e Grace accarezzò con un dito il cofano prima di raggiungere la portiera. Tom la notò e dall’altra parte della vettura le sorrise, illuminato da altri flash; poi si mise dietro al volante.
Tom accese il motore dell’Audi e lo fece ruggire per intimare ai paparazzi con le fotocamere allungate verso il parabrezza di spostarsi, solo allora ebbero campo libero e poterono allontanarsi senza investire nessuno.
«Oddio, ce l’abbiamo fatta», sospirò Grace, anche se divertita.
«Sì, e tutto grazie alla mia piccolina. Mi mancherà molto, sai?», accarezzò il volante e il cruscotto, facendola sorridere.
«È solo un’auto, Tom…», commentò la detective, ma si pentì subito delle sue parole, perché lei era legata al suo fuoristrada esattamente, o forse di più, come Tom era legato alla sua R8.
«No, è la mia piccolina, il mio gioiellino», ribatté. «560 cavalli, trazione integrale, motore di una Lamborghini Gallardo e cambio di serie R tronic con doppia frizione. Lo sai che ce ne sono solo…».
«…333 esemplari e che è il pezzo più pregiato della Casa di Ingolstadt. Sì, lo so».
Grace sorrise smagliante e Tom ricambiò, accarezzandole la testa.
«Come ti ho addestrata bene, sono quasi commosso!».
La detective rise. Portando lo sguardo fuori dal finestrino si accorse di essere nella zona del suo ufficio. Con la coda dell’occhio osservò Tom e lo trovò sorridente. Aveva sicuramente in mente qualcosa e forse quella stessa idea sfiorò anche la sua mente.
Il suo sospetto prese consistenza quando Tom parcheggiò l’auto proprio sotto il condominio in cui c’era il suo ufficio e scese dall’auto per andare ad aprirle la portiera, da vero cavaliere. Le avvolse un braccio intorno alla vita, posando la mano sul fianco scoperto dallo squarcio del vestito, e insieme entrarono nell’edificio. Il nuovo portiere li salutò e sorrise malizioso vedendoli salire le scale.
Una volta giunti di fronte alla porta dell’appartamento vuoto di fianco al suo ufficio, Grace si avvicinò al suo viso e gli sfiorò le labbra dicendo con tono suadente: «Vado a prendere le chiavi».
Tom però la strinse un po’ più forte e sorrise. «Ce le ho già».
Le tirò fuori dalla tasca dei jeans, le infilò nella toppa senza mai schiodare gli occhi da quelli sorpresi di Grace, la quale si domandava quando le avesse prese, ed aprì la porta.
«Andiamo», mormorò e la baciò sulle labbra, spingendola all’interno.
Chiuse la porta con un piede e Grace lo spinse contro di essa senza smettere di baciarlo con trasporto per sistemare il chiavistello. Dopodiché Tom la condusse fino alla camera da letto, in cui Grace rimase senza fiato: c’erano rose rosse ovunque e sui pochi mobili presenti e sul pavimento erano state sistemate diverse candele profumate che aspettavano soltanto di essere accese. Sul letto c’erano delle lenzuola scarlatte, così lucide da sembrare di seta.
Grace, a bocca aperta, guardò Tom negli occhi e realizzò che non solo lei aveva fatto di tutto perché quella serata fosse indimenticabile per lui, ma anche lui si era adoperato per fargliela ricordare per sempre.
Stava per dirgli qualcosa, ma lui la precedette, domandandole all’orecchio: «Devo accenderle per forza le candele? L’unica cosa che voglio accendere stasera sei tu».
La detective, invasa dai brividi, si aggrappò alla sua nuca e sollevò una gamba per avvolgergliela intorno alla vita. «Non capisco che cosa tu stia aspettando».
Tom non se lo fece ripetere due volte, la spinse verso il letto e mentre la baciava ebbe voglia di strapparle il vestito di dosso, letteralmente. Invece le percorse le cosce con le mani e glielo sollevò fino ai fianchi, scoprendo l’unico pezzo di lingerie che aveva addosso. Grace gli tirò via la felpa e la maglietta, lasciandole cadere entrambe a terra, e si lasciò baciare ed accarezzare da Tom guidandolo con i suoi gemiti.
Quando finalmente il chitarrista riuscì a toglierle il vestito e fu a sua volta in boxer, prese una rosa da terra, ne ruppe il lungo stelo ed accarezzò la sua pelle con i petali vellutati del fiore, dal seno fino alla vita. La vide tirare indietro la testa e mordersi le labbra, invasa dal piacere, e la spinse sotto le lenzuola.
Sentì le sue unghie penetrargli la pelle fra le scapole quando la penetrò e la sua bocca famelica cercò quella di Tom, mentre lui immergeva le mani fra i suoi capelli per tirarglieli dolcemente.
Erano una cosa sola, non erano mai stati tanto in simbiosi, e più andavano avanti più ne volevano ancora, più si stringevano e si bramavano, chiamandosi a mezza voce, tra gemiti e sospiri.
Ad un tratto il cellulare di Grace iniziò a suonare, ma entrambi lo ignorarono.
La persona che la cercava doveva aver proprio bisogno di sentirla, vista la sua insistenza, e Grace, con un briciolo di lucidità, pensò che doveva essere Crawford. Con una smorfia di insofferenza allungò il braccio e raggiunse la sua giacca di pelle nella quale c’era il cellulare che continuava a suonare. Quando riuscì a prenderlo, Tom la guardò con occhi macchiati di sorpresa mista a rabbia.
Grace lesse il numero che lampeggiava sul display e sgranò gli occhi: quello era il numero che di solito usava Doc Mahkah come suo informatore. Posò una mano sul petto di Tom, pregandolo di fermarsi, e il chitarrista grugnì, scostandosi bruscamente. La detective, ferita dal suo sguardo e dal suo stesso comportamento, si portò il cellulare all’orecchio.
«Pronto?».
«Ci vediamo tra due ore al porto, niente sbirri. Ti darò più informazioni via SMS. Sii puntuale».
Grace aveva subito riconosciuto la voce di Doc Mahkah con un tuffo al cuore, ma non aveva avuto modo di rispondergli perché lui aveva fatto terminare subito la comunicazione. Se doveva dirle solo quello, perché non le aveva mandato un messaggio? Forse perché voleva essere sicuro che si presentasse, forse perché non la credesse un’imboscata. Il suo tentativo, comunque, era fallito miseramente, perché Grace iniziò a sudare, presa dal panico.
Si voltò verso Tom, seduto sul bordo del letto, con le spalle ricurve in avanti e una sigaretta fra le dita, che fumava nervosamente, con gesti brevi e meccanici.
In qualche modo il chitarrista percepì i suoi occhi bruciargli addosso e disse, con la voce roca: «Era tutto perfetto… Perché hai voluto rovinare tutto?».
Grace trattenne in gola un singhiozzo e fece di tutto per non piangere, nonostante ne sentisse davvero il bisogno fisico. «Mi dispiace, Tom. Te lo giuro, anche io volevo che…».
Lui però agitò una mano come a voler scacciare una mosca e la fece azzittire. «Chi era?».
«Doc Mahkah. Vuole vedermi tra due ore al porto, da sola».
Tom allora si girò verso di lei: era pallido, con gli occhi velati da un sottile strado di lacrime, e più che preoccupato. Provò a nasconderlo, ma Grace avvertì la sua ansia come una coltellata nel petto. Doc Mahkah aveva scelto la serata peggiore per decidersi a parlare e Grace lo odiò con tutte le sue forze.
«Ti porto a casa, allora», mormorò lui, alzandosi visibilmente scioccato ed incominciando a rivestirsi.

 
Durante il viaggio aveva avvisato l’agente Crawford, il quale aveva sicuramente chiamato Dylan, oltre che organizzare una squadra. Il federale era stato talmente in gamba che dieci minuti dopo essere arrivati a casa di Grace, se lo trovarono alla porta con il capitano della squadra e Dylan al seguito.
Tutti ascoltarono con estrema attenzione l’agente dell’FBI mentre spiegava il loro piano d’azione, persino Melanie, la quale era stata svegliata da tutta quell’agitazione e si era presentata in salotto in vestaglia.
«Ancora non sappiamo in che luogo avverrà l’incontro, il porto è estremamente grande e non possiamo controllarlo tutto con i pochi uomini che abbiamo. Ho chiesto ai miei superiori per l’utilizzo di un elicottero, ma spaventerebbe troppo il boss, quindi…».
«Siamo al buio», concluse Grace per lui, che aveva già messo in conto tutto quanto. «Il motivo per cui mi vuole informare solo all’ultimo forse è perché non vuole farsi scoprire ed individuare facilmente da Loro».
«O forse sono Loro che controllano tutto ed è solo un bluff», aggiunse Dylan, con le braccia incrociate al petto e il viso basso.
Crawford incontrò lo sguardo della detective e sospirò.
«Tu te la senti, Grace?».
Lei gettò a sua volta un’occhiata verso Tom, che non le aveva più rivolto la parola e non si girò per incrociate il suo sguardo.
«Ormai sono qui, non posso tirarmi indietro».
«È molto rischioso, lo sai», intervenne ancora Crawford.
«In questo momento il mio morale è così a terra che mi farei sparare due colpi più che volentieri», disse con una certa nota di rassegnazione nella voce, prima di voltarsi e di andarsi a cambiare per l’operazione. Se non altro, quella volta era riuscita ad attirare l’attenzione di Tom su di sé.

 
Si stava infilando una tuta, quando Dylan entrò nella sua camera dopo aver bussato lievemente alla porta. Non si impressionò vedendola mezza nuda, né lei gli disse qualcosa, troppo immersa nei suoi pensieri e nelle sue preoccupazioni per badare a quella piccolezza.
«Brutta serata?», le domandò sottovoce, infilandosi le mani nelle tasche per non torturarsele.
«Sarebbe stata perfetta, se Doc Mahkah non si fosse fatto vivo. Ma dovrei aver imparato già da un pezzo che le cose belle finiscono sempre troppo in fretta».
«Mi dispiace, Grace».
Finì di infilarsi i pantaloni della tuta e spostò le scarpe a decolté con un piede per raggiungere le sue amate sneakers. Poi gli rivolse un sorriso amaro e disse: «Grazie, ma è inutile cercare di consolarmi».
Posò gli occhi sulle cose che aveva fra le mani e Dylan le passò in silenzio il giubbotto antiproiettile che doveva infilarsi sotto la felpa.
«Vogliono metterti degli auricolari e anche una piccola telecamera per vedere in tempo reale ciò che succede», la informò, passandole anche diversi caricatori per la sua Glock.
La detective si limitò ad annuire e lo seguì fuori dalla stanza, sentendosi di nuovo sua complice dopo tanto tempo travagliato dai contrasti.
In salotto, intanto, sua madre si era seduta sulla poltrona, con una tazza di tè fumante fra le mani. C’era una tazza anche per Tom, ma lui l’aveva abbandonata sul tavolino. Per l’ennesima volta Grace cercò il suo sguardo, bisognosa di conforto e di alleggerire un po’ quel peso che si era schiantato sul suo cuore quando gli aveva detto di fermarsi, ma non lo trovò. Demoralizzata, si lasciò infilare l’auricolare per le varie istruzioni e la minuscola telecamera, che riuscirono ad incastonare come un diamante nel ciondolo della collana che Molly le aveva prestato per la serata.
«I nostri tecnici hanno anche creato un collegamento con il tuo cellulare, in modo tale da visualizzare immediatamente tutti i messaggi e le chiamate in arrivo e saperci regolare sui tuoi spostamenti». Crawford le posò le mani sulle spalle e la guardò intensamente negli occhi: «Saremo sempre dietro di te, non permetteremo a nessuno di farti del male».
Grace chinò il capo e sospirò, annuendo brevemente.
«Allora siamo pronti?», domandò il capo della squadra, scambiando uno sguardo con Dylan, il quale rispose affermativamente con un cenno del capo.
Anche lui avrebbe partecipato all’operazione, anzi sarebbe stato un uomo fondamentale, quello più vicino a Grace, il primo ad intervenire in caso le fosse successo qualcosa. Non aveva alcun tipo di preparazione a riguardo, ma Crawford aveva convinto tutti delle sue capacità.
«Stai attenta, tesoro», mormorò Melanie, stringendo la figlia in un abbraccio stretto, gli occhi lucidi.
«Ci vediamo dopo, mamma», la rassicurò con un sorriso appena accennato e quando si girò si trovò di fronte Tom, che la guardava con un’espressione seria e rigida, come se si fosse pietrificato il viso per non far trapelare le sue vere emozioni. Ma Grace lesse tutto nei suoi occhi grandi color nocciola e gli avvolse timidamente le braccia intorno al collo, respirando irregolarmente contro la sua pelle.
Non voleva farlo sembrare un addio, ma aveva davvero paura di non vederlo mai più. La sensazione che provava era orribile e per la prima volta riuscì a capire il vero motivo per cui aveva sempre rifiutato legami stabili: pensare di lasciarlo per sempre era già come morire.
Non si sarebbe mai staccata dal suo corpo se non fosse stato proprio lui ad allontanarla per dire con voce monocorde: «Vengo anche io». Grace si sentì rincuorata da quelle parole, almeno un poco, e gli strinse forte la mano mentre uscivano dall’appartamento e scendevano le scale.
Due furgoni blindati dell’FBI li aspettavano parcheggiati di fronte al condominio. Tom salì su uno di essi dopo Grace e si sentì come il protagonista di una fiction poliziesca: un’intera fiancata del furgone era occupata da schermi, computer e altri aggeggi elettronici che non seppe identificare, davanti ai quali stava seduto un tecnico con delle grosse cuffie sulle orecchie. Nel furgone dietro di loro, molto probabilmente, si trovavano gli altri membri della squadra che doveva svolgere l’operazione.
Crawford posò una mano sulla spalla del tecnico, che si fece scivolare le cuffie intorno al collo.
«Tutto a posto. Ho sotto controllo anche il sistema GPS degli apparecchi dei nostri uomini, vede», indicò su una mappa elettronica i puntini rossi luminosi che si muovevano dietro altri due, senza mai raggiungerli.
«Quei due davanti sono i nostri, vero?», domandò Dylan, riferendosi al GPS del suo cellulare e di quello di Grace.
Il tecnico annuì. «Sarà più facile controllarvi».
«Bene», commentò Crawford. Poi posò lo sguardo sulla detective. «Quando pensi che si farà vivo? Le due ore sono quasi terminate».
«Non lo so», rispose Grace, controllando lo schermo del suo cellulare, in apprensione.
Non vedeva l’ora e allo stesso tempo non voleva che le dicesse il posto esatto in cui si sarebbero incontrati e man mano che i minuti scorrevano si convinceva sempre di più che quella a cui andava incontro ad occhi chiusi era un’imboscata.
«Hai paura?».
Grace sobbalzò e girò il viso verso quello di Tom, seduto accanto a lei in un angolino, che la osservava con un po’ di tristezza celata negli occhi.
«Mi stai stritolando una mano», aggiunse a mo’ di spiegazione, facendole accennare un sorriso ed allentare la presa mentre annuiva.
«Mi dispiace per la piega che ha preso la serata», sussurrò Grace, appoggiandosi a lui con una spalla. «Ci tenevo davvero tanto, volevo che fosse perfetta… e alla fine ho rovinato tutto, come al solito».
Tom le prese il mento fra le dita ed immerse gli occhi nei suoi. «Non è stata colpa tua, lo so che se fosse stato per te non avresti mai lasciato le cose a metà», accennò un sorrisetto malizioso che le fece arricciare le labbra in un mezzo sorriso. «Non avrei dovuto dirti quelle cose, né dimostrarmi così arrabbiato con te. Perdonami».
«Avrei potuto ignorare la chiamata…».
«Se l’avessi fatto, magari avresti perso l’occasione che aspettavate da tempo per avere nuove informazione su quell’organizzazione di criminali».
«Oppure avremmo concluso in bellezza questa serata stupenda, ci saremmo addormentati come due bambini e ora non starei per rischiare la vita. Ora come ora, non sapendo come andrà a finire questa storia, avrei preferito ignorare la chiamata».
Tom le sorrise con amarezza e le accarezzò i capelli sulle orecchie a piene mani, facendole scivolare fino al suo collo candido. Si avvicinò e la baciò a stampo sulle labbra. Quindi la guardò negli occhi, passandole le dita sulle guance.
«Vedi di tornare tutta intera, perché nemmeno a me piace lasciare le cose a metà».
Grace si lasciò scappare una mezza risata e solo allora si accorse dello sguardo di Dylan, che le fuggì non appena si accorse che l’aveva colto in flagrante.
Improvvisamente un bip bip la fece trasalire, mentre su uno degli schermi di fronte a loro appariva il testo del messaggio che le era appena arrivato.
«È lui», mormorò, leggendolo sul display del suo cellulare. «Di fronte al Marina Hotel, vicino alla barca Santarosa».
Crawford andò subito ad avvisare l’autista del furgone blindato, che prese velocità, e con una piccola radiolina avvertì il comandante della squadra d’azione che una volta raggiunto il Marina Hotel avrebbero dovuto perquisire tutte le stanze con le finestre che davano sul molo. Le controllarono un’altra volta il funzionamento degli auricolari e della telecamerina, poi per scrupolo personale Grace controllò che la sua arma fosse pronta all’uso.
«Dovrai fare un pezzo a piedi, non possiamo permetterci di dare nell’occhio con i furgoni dell’FBI», le disse Crawford, dandole una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
«Andrà tutto bene», le sussurrò ancora prima di spingerla delicatamente giù dal mezzo dalla parte delle porte posteriori.
Grace scambiò un ultimo sguardo con Tom, sentendosi mancare il fiato per un attimo, credendo che sarebbe finalmente riuscita a dirgli a chiare lettere ciò che provava per lui, ma Dylan le diede un’altra spintarella verso gli altri agenti dell’FBI in giubbotti antiproiettile e carichi di armi. Si scambiarono qualche parola, poi Grace si allontanò da sola verso il Marina Hotel, seguita dai loro sguardi attenti.

 
Il vento freddo che arrivava dall'oceano la fece rabbrividire e chiuse un attimo gli occhi, stringendosi le braccia intorno al petto.
Immagini della serata da sogno appena trascorsa con Tom e stroncata sul più bello le invasero la mente, saturandogliela. Scosse con violenza il capo per mandarle via e concentrarsi.
L’adrenalina iniziò a scorrerle nelle vene al pensiero del pericolo che si prestava ad affrontare e si sorprese rendendosi conto di quanto quella sensazione le fosse mancata, dopotutto.
Fece il giro dell’hotel fino a giungere sul lato sud, quello che si affacciava al molo in cui erano ormeggiate diverse barche a vela. Non c’era anima viva e tutto, persino l’oceano, era immerso in un silenzio surreale. Provò a leggere i nomi delle diverse barche da lì, protetta dietro un angolo dell’edificio, ma era un’impresa impossibile a causa del buio. Doveva per forza esporsi.

«Stai vicina al muro», le suggerì la voce gracchiante di Crawford attraverso l’auricolare che aveva all’orecchio.
Grace seguì il suo consiglio ed iniziò a percorrere la lunghezza della facciata dell’hotel, cercando di avvistare nel molo la Santarosa. Quando la vide, si portò istintivamente una mano al calcio della pistola. Nello stesso istante una figura scura si scostò dall’ombra della barca e sollevò una mano in segno di saluto. Grace riconobbe Doc Mahkah e si diresse verso di lui sentendo soltanto i battiti del suo cuore rimbombarle nelle orecchie.
«Pensavo non venissi», mormorò con un sorriso triste sulle labbra, ma anche sollevato.
Grace capì subito ciò che intendeva dire: il boss sperava, per il suo bene, che non si facesse viva, ma aveva sperato anche che si presentasse all’incontro perché altrimenti ci sarebbe andata di mezzo la sua stessa vita.
«L’unica cosa che devi fare adesso è venire con me, nessuno si farà male Doc», provò a persuaderlo.
«Ah no?», una risatina gli scivolò fra le labbra. «Non saranno quattro sbirri a fermarli, loro sono… Grace, ti sei immischiata in un qualcosa più grande di te: è una battaglia già persa in partenza».
«Chi sono? Dammi un nome, Doc».
Lui, con gli occhi lucidi, scosse il capo. «Sono dei mercenari, dei killer professionisti. Sto rischiando il tutto e per tutto dicendoti queste cose; sappi che se ne usciremo vivi dovrai essermi debitrice a vita».
Con la coda dell’occhio vide diversi spostamenti dietro le tende delle stanze del primo piano dell’hotel: gli agenti stavano perquisendo ogni camera, come ordinato da Crawford. Poco più in basso, nascosto nello stesso angolo in cui si era protetta lei poco prima, notò Dylan, pronto ad intervenire in suo soccorso.
«Per chi lavorano?», gli domandò freneticamente, come se il tempo a loro disposizione fosse già scaduto.
«Io questo non lo so, ma devono sicuramente essere personalità influenti, ai piani alti di questo fottuto Paese. Grace, lascia stare, è meglio per tutti».
La detective lo prese per un braccio e lo fissò intensamente negli occhi: «Ho bisogno di qualcosa di più, Doc. A questo ci eravamo già arrivati tutti. Voglio dei nomi».
«’Fanculo i nomi, tesoro; io voglio soltanto continuare a vivere. Non si fermano davanti a niente, sono dappertutto e io… io devo andarmene subito».
Fece per andarsene, ma Grace lo fermò ancora una volta, trattenendolo per un braccio.
«Aspetta, Doc, per favore. Non ci credo che tu mi abbia fatto venire fino a qui per dirmi solo questo, a meno che tu non sia dalla loro parte e voglia farmi ammazzare».
«No!», gridò con gli occhi pieni di terrore.
«Allora dimmi ciò per cui abbiamo rischiato così tanto».
Doc Mahkah la guardò intensamente e si chinò verso il suo viso per sussurrare in tono concitato: «So che loro si sono intrufolati nelle bande che dovevano smistarsi quel grosso giro di coca e che hanno fatto partire la sparatoria. Ho parlato con uno di loro, mi ha detto che ti conosceva e che gli sei sempre piaciuta, che sei come tuo padre. Ha detto anche che era molto dispiaciuto quando ha saputo che avevi ceduto, ma era sicuro che saresti tornata presto sulla scena. Non so a che cosa si riferisse, te lo giuro».
L’espressione di Grace era un misto di paura e sconcerto, ma riuscì a non perdere la lucidità. «Quindi sai che aspetto ha. Ho bisogno che tu –».
«Devo andare, Grace, a quest’ora avranno già scoperto che ti ho detto queste cose, rischio davvero di finire ammazzato!».
«Se vieni con me ti proteggeranno, sarai un testimone!», gridò sottovoce, ma era troppo tardi: Doc Mahkah aveva preso la sua decisione inequivocabile e le puntò contro la pistola, con la mano tremante.
«Basta, tesoro. Lasciami andare».
«Okay, okay», mormorò alzando le mani.
In quel momento Grace vide con la coda dell’occhio una finestra che si apriva al secondo piano, proprio sopra la bandiera americana infissa sopra la seconda entrata, e la canna di un fucile da cecchino brillare ai raggi della luna.
«A terra!», gridò.
Doc Mahkah si gettò in mare per ripararsi dai proiettili che tuonavano nel buio, mentre Grace con un’abile capriola si nascose nell’angolo più nascosto della Santarosa.
«Cecchino nella sesta camera del secondo piano, sopra la bandiera!», gridò un paio di volte rivolta alla telecamera, fino a quando alcuni proiettili non ammaccarono il metallo poco sopra la sua testa e decise di seguire l’esempio del boss, tuffandosi dietro la poppa della barca a vela, dove sicuramente i proiettili non potevano arrivare.
Mentre era sott’acqua sentì in modo attutito i boati degli ultimi spari, come se avesse avuto l’ovatta nelle orecchie, e quando tornò in superficie non sentì più niente oltre al proprio respiro affannoso e ai battiti veloci del suo cuore.
«Doc Mahkah!», urlò, provando a sbirciare sotto la piccola passerella in legno che li divideva. Non ottenne alcuna risposta dal boss.
«Dylan!», gridò allora con tutta la voce che aveva, spaventata come una bambina.
«Grace! Grace, sono qui!».
Dylan arrivò di corsa, con il fiatone, ed infilò la sua pistola nel fodero prima di stendere entrambe le braccia verso di lei per aiutarla a risalire sulla passerella. Quando fu seduta, la ragazza venne colpita da un attacco acuto di terrore, che la costrinse a gettargli le braccia al collo e ad abbracciarlo fortissimo.
«È tutto finito, è tutto finito», le sussurrò l’amico, accarezzandole i capelli bagnati e massaggiandole la schiena per riscaldarla.
«Dov’è Doc Mahkah?», gli domandò dopo qualche minuto di silenzio.
Dylan trattenne la risposta fra le labbra e dopo averla guardata negli occhi, li posò oltre la passerella. Grace allungò il collo e scorse il corpo del boss galleggiare nell’acqua intrisa di rosso a causa dei tre fori che aveva sulla schiena.
«Oh, Dio», biascicò. «L’avete preso, almeno?».
Dylan scosse il capo. «Quando hanno fatto irruzione nella camera se n’era già andato».
Grace sospirò affranta e nascose il viso contro la sua spalla.

 
Le luci delle auto della polizia locale e quelle dell’ambulanza illuminavano i fianchi delle barche e la facciata sud dell’hotel.
Dylan la tenne stretta a sé, come a volerla sorreggere, nonostante non ne avesse bisogno, durante tutto il tragitto fino all’ambulanza. Aumentò la stretta intorno alla sua vita quando due paramedici fecero scorrere di fianco a loro la barella su cui era stato steso il corpo di Doc Mahkah, avvolto in un sacco nero. Grace chiuse gli occhi, rivolgendo il viso altrove, e si strinse le braccia al petto, scostandosi da Dylan. Un paramedico le offrì subito delle coperte per riscaldarsi e un poliziotto le portò un bicchiere di carta con del tè fumante.
Rimasero parecchio tempo in silenzio, mentre gli agenti della scientifica ed alcuni poliziotti esaminavano la scena del crimine, camminando avanti e indietro intorno a loro, parlando tra loro e discutendo come se fosse un caso qualunque, facendo come se loro non ci fossero. In effetti Grace, seduta a bordo dell’ambulanza, con le gambe a penzoloni e le coperte avvolte intorno al corpo, si sentiva estranea a tutto quello e non si definiva parte integrante di ciò che stava accadendo intorno a lei: era solamente la vittima che aveva perso un amico, per quanto strano e poco raccomandabile potesse essere.
Dylan, dal canto suo, sentì una fitta al cuore vedendola ridotta in quello stato: i suoi capelli, fino a poco prima ancora perfetti, erano bagnati e la piega rovinata; il trucco che le avevano messo intorno agli occhi era tutto sbavato, tanto che sembrava avesse delle profonde occhiaie; la tuta che indossava era completamente zuppa e le si appiccicava alle gambe; tremava, nonostante il tè caldo e le coperte, e aveva lo sguardo fisso perso nel vuoto. Non ce la faceva proprio a vederla in quelle condizioni, così le fece un buffetto sulla guancia, distrattamente, e andò a vedere dove fosse andato a cacciarsi Tom. O meglio, dove l’avevano costretto a restare, fregandosene di ogni sua protesta e delle sue imprecazioni.
«Oswin».
Il suo partner e il collega che erano stati incaricati alla sicurezza in quella zona si voltarono e Tom provò ad approfittarne per sgusciare sotto il nastro giallo e correre da Grace, ma il poliziotto lo placcò e lo fece tornare indietro, sotto gli occhi di Oswin e Dylan. Il chitarrista rincominciò a gridare, ma quella volta, davvero furioso e disperato, lo fece in tedesco. Quella lingua dura ed ostile sembrava ancora più aggressiva ed offensiva di quanto non fosse.
«Che cosa cazzo sta dicendo?», domandò esasperato il poliziotto, che a stento riusciva a tenerlo indietro.
Oswin si lasciò scappare un sorrisino. «Sicuramente non ci sta invitando a bere una birra insieme».
«Lasciatelo passare», disse Dylan, scrollando il capo.
«Come, scusa?», domandò l’altro poliziotto, allentando la presa. Tom però non sfruttò l’occasione e rimase in ascolto, a bocca aperta. «Il capo ci ha detto di non far entrare nessuno».
«Lo so e me ne prenderò io tutta la responsabilità. Lascialo passare, Grace ha bisogno di lui».
«Pensavo che tu e Grace foste amici», commentò sprezzante il poliziotto.
Lo sguardo di Dylan avrebbe incenerito persino un grattacielo. Ripeté per la terza volta, digrignando i denti: «Lascialo passare».
Il poliziotto grugnì e lo lasciò andare, riservando comunque un’occhiata ostile ad entrambi. Tom raggiunse Dylan e camminò di fianco a lui in silenzio per qualche secondo, poi sputò fuori un «Grazie» che suonò molto strano alle orecchie dell’agente, ma anche molto dolce.
«Non scherzavo, quando dicevo che ha bisogno di te», gli rispose, indicando con il dito il punto in cui era seduta, avvolta nelle coperte.
Tom trasalì e percorse la distanza che li divideva di corsa, poi la stritolò in un abbraccio. Grace si aggrappò a lui e i suoi occhi tornarono vividi, riempiendosi di lacrime.
Dylan li guardò per qualche secondo, accennando un sorriso. Pensò a Bill, come gli accadeva spesso, ma quella volta fu un pensiero confortante: quella sera era stato fortunato, non aveva tirato le cuoia come Doc Mahkah, e non era ancora giunto il momento di dirgli addio.
Solo pensare alla remota possibilità di poterlo rivedere, magari per caso o senza che lui se ne accorgesse, lo rasserenò.

 

***

 

Villa Kaulitz era immersa nell’oscurità e nel più assoluto silenzio.
Tom accompagnò Grace fino alla sua camera da letto, la spogliò dolcemente dei vestiti ancora bagnati e li fece cadere a terra. La spinse verso il letto, la fece stendere sotto le coperte e si tolse la maglietta per utilizzarla come asciugamano sul suo corpo freddo che gli faceva venire i brividi solo a sfiorarlo.
Guardandola negli occhi le accarezzò i capelli umidi facendoseli passare fra le dita.
«Hai freddo?», le sussurrò ad un soffio dalle sue labbra che tendevano ad un colore bluastro.
Grace mosse lievemente il capo in segno d’assenso e lo fece sdraiare completamente su di sé, avvolgendogli le braccia e le gambe intorno alla schiena e stringendolo fortissimo. Tom rabbrividì a contatto con la sua pelle nuda e fredda, ma non si scostò: nascose il viso fra i suoi capelli, all’altezza dell’orecchio, e vi posò sopra teneri baci.
Fece scivolare le mani sul suo seno, sui fianchi e sulle ossa del bacino, per poi tornare su e ripetere il movimento da capo. Lentamente sentì sotto le sue dita i muscoli di Grace rilassarsi, mentre la sua pelle si intiepidiva. Allora scese con la testa sul suo petto e lo riempì di baci umidi, fino ad arrivare al ventre. La sentì tremare di piacere e si sollevò a quattro zampe per sussurrarle all’orecchio di girarsi. Si avventurò lungo la leggera infossatura creata dalla linea della spina dorsale e quando la percorse tutta si abbandonò delicatamente su di lei, adagiando le labbra sulla sua nuca.
«Va meglio?», mormorò e Grace annuì. «Okay».
Respirò profondamente fra i suoi capelli e chiuse gli occhi, portando il peso sul fianco sinistro per non schiacciarla, tenendola stretta a sé. La detective si girò fra le sue braccia, facendo aderire il petto al suo, e lo fissò fino a quando non riaprì gli occhi e ricambiò il suo sguardo intenso.
«Mia madre amava tantissimo mio padre», esordì Grace, sottovoce. «Nonostante questo non poteva più vivere nell’ansia di non vederlo tornare a casa la sera. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, viveva nella paura che gli succedesse qualcosa a causa del suo lavoro e non potesse più dirgli quanto lo amava. Stava per impazzire. Per questo e per la mia incolumità se n’è allontanata e ha chiesto la separazione. Ma questo non è bastato a farla guarire, anzi… non vivendo più con lui la sua ansia è aumentata ancora e la mia decisione di seguire le sue orme e di trasferirmi da lui le ha dato il colpo di grazia. Ovviamente non mi sono mai accorta del dolore che le avevo provocato».
Tom ascoltò il silenzio derivato da una sua pausa e le accarezzò una guancia, avvicinandosi ancora di più al suo viso, tanto da sfiorarle le labbra. «Cosa stai cercando di dirmi, Grace?», le domandò sottovoce.
L’investigatrice distolse lo sguardo e tirò su col naso. «Per quanto tempo ancora potrò vivere con la paura di non riuscire a tornare a casa da te alla sera, di non riuscire a dirti per l’ultima volta quanto ti amo?».
Tom rimase per qualche secondo in silenzio a guardare le lacrime che le scivolavano sulle guance e che grazie alla luce della luna sembravano diamanti. Ne sentì qualcuna scivolargli tra le dita, fino a quando Grace non gli prese la mano e se la portò alle labbra, strizzando con forza gli occhi per fermare quel fiume in piena.
«Brooklyn», sussurrò con gli occhi ridenti che celavano una profonda malinconia. «Se le cose stanno così, tu avrai un fottuto motivo in più per tornare da me alla sera. E credo fortemente che tra un po’ di tempo avrai paura proprio di questo, impazzirai perché ti sei innamorata di uno come me».
Grace, ancora impegnata nella lotta contro le sue lacrime, non riuscì a trattenere un sorrisino per le cazzate che dopotutto Tom non riusciva proprio a non dire. «Sei sempre il solito deficiente».
«Scusami, ma il discorso iniziava a farsi troppo pesante e non volevo rischiare che anche io scoppiassi a piangere».
Si guardarono negli occhi per qualche istante, il silenzio che li abbracciava come una coperta, poi Tom abbassò gli occhi accennando un sorriso.
«Ti amo anche io, Grace».
La detective lo baciò e gli strinse le braccia al collo.
Cullata da quelle dolci parole che continuarono a risuonarle nella testa, si addormentò profondamente.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

 

«Carina questa!», esclamò Bill, indicando una fotografia nel giornale di gossip che stava sfogliando. Lo girò verso Tom e Grace, seduti proprio di fronte a lui al tavolo della cucina, intenti a fare una specie di colazione.
Entrambi sembravano stanchi, i segni intorno ai loro occhi e i loro gesti lenti ne erano la prova, ma nel contempo qualcosa gli illuminava le pupille e i volti. Capì subito che doveva essere successo qualcosa quella notte, ma non riuscì a farsi alcuna idea, anche perché le loro espressioni ambigue, a tratti felici, a tratti malinconiche, gli rendevano il lavoro di giovane detective ancora più difficile.
«Uhm, è vero», disse Tom, masticando un pezzo della sua brioche ed indicando una foto. «In quella sei venuta bene».
«Non mi si vede nemmeno la faccia», ribatté Grace senza energie, sforzandosi persino per far sorgere un sorriso incerto sulle sue labbra.
Tom la guardò divertito e fece scontrare lievemente le loro spalle, poi le prese il viso fra le mani e le stampò un bacio sulla tempia.
«Forse non è il caso che ci accompagni all’aeroporto», le disse abbassando la voce, segno che stava parlando seriamente, ma senza abbandonare il sorriso, per quanto fosse tenue. «Non vorrei che i paparazzi ti beccassero e queste foto stupende finissero subito in secondo piano».
Grace girò il viso verso di lui e fece un altro sforzo per sorridere e ricambiare i suoi tentativi di alleggerire l’atmosfera e di non far notare troppo a Bill che non era al massimo della forma. Visto però come la guardava, era certa che il cantante avesse già fiutato qualcosa e che stesse soltanto aspettando il momento giusto per attaccare con le sue domande.
«Grazie», mormorò, accarezzando la guancia di Tom e posandogli un lieve bacio sulle labbra. Poi si voltò verso Bill: «E scusatemi, ma mi sento davvero poco bene».
«Ieri l’ho distrutta, sai», sussurrò Tom al gemello, ammiccando, e Bill accennò un sorrisino, per poi stringersi le braccia al petto e guardarli con aria indagatrice.
Grace si abbandonò ad una leggera risata, dandogli un colpetto sul braccio, poi si alzò e fece il giro del tavolo per andare a salutare il frontman. «Fate buon viaggio e spaccateli tutti: voglio che sia il vostro video più bello», disse e lo baciò sulla guancia. «Grazie anche per i vestiti, te li restituirò appena saranno lavati e stirati».
«Figurati», rispose Bill. «Riguardati, mi raccomando».
La detective annuì e raggiunse Tom che, con addosso un’anonima tuta grigia e una maglietta bianca, giocherellava con le chiavi dell’auto e l’aspettava già alla porta. Il chitarrista alzò una mano in segno di saluto verso il fratello, il quale ricambiò allo stesso modo e tenne gli occhi fissi su di loro fino a quando non si chiusero la porta alle spalle. Quindi si alzò e corse su per le scale, lasciando sul tavolo il giornale di gossip aperto sulle foto che li immortalavano mano per la mano e sorridenti.

 
Grace aprì un po’ il finestrino, giusto lo spazio necessario a far uscire la mano e lasciarla aperta per sentire il vento sorreggerne il peso e correre fra le sue dita.
Tom, seduto al volante, la osservò attentamente con la coda dell’occhio. Ad un tratto, la detective si accorse del suo sguardo silenzioso e ricambiò offrendogli un’espressione ricca di dolcezza, mentre abbandonava il capo al poggiatesta e tirava dentro la mano ormai fresca. Con quella stessa mano, nonostante non fosse la più vicina, prese quella che Tom aveva sul cambio e la strinse, socchiudendo gli occhi. Il chitarrista rabbrividì e fu come se il suo corpo nudo e gelido fosse ancora sotto al suo.
«Mettiamola così: ricorderemo per sempre il nostro primo appuntamento comunque, anche se non nel modo in cui avrei voluto», disse Grace.
Tom sorrise e strinse appena più forte la sua mano. «Sto iniziando a credere che è così che devono andare le cose tra di noi: in modo inaspettato ed imprevedibile. Altrimenti non ci sembrerebbero così belle».
Una volta arrivati al condominio di Grace, l’accompagnò fino al suo appartamento e rimase nell’ingresso ad osservare madre e figlia che si abbracciavano dopo una notte di apprensione, anche se Grace l’aveva avvisata che stava bene e sarebbe stata a dormire dai Kaulitz.
Quando Melanie riuscì a staccarsi dal suo tesoro, guardò Tom e regalò un abbraccio stretto anche a lui, perché si era preso cura di lei in sua assenza.
«Hai già fatto colazione?», gli domandò con tono premuroso, accarezzandogli una spalla.
«Sì, una specie», ridacchiò passandosi una mano dietro la nuca. «Devo scappare, comunque. Abbiamo l’aereo che parte tra un’ora neanche, quindi…».
«Quindi vi lascio soli, va bene», concluse la donna per conto suo, gettando un’occhiata ad entrambi, specialmente a sua figlia, la quale la ringraziò con uno sguardo.
Tom prese Grace per mano e l’attirò a sé per abbracciarla ed affondare il viso fra i suoi capelli che profumavano vagamente di salsedine.
«Mi raccomando, stai attenta. Voglio trovarti tutta intera quando torno», sussurrò al suo orecchio. «Ti chiamerò sempre quando avrò dei momenti liberi, te lo prometto».
«Certo Tom, ne sono sicura», rispose, dandogli delle pacchette sulla schiena. «Non concederti troppo alle tue fan, credo che potrei diventare gelosa».
«Povere loro», ridacchiò.
«Ah, Tom!», esclamò Melanie, uscendo di gran carriera dalla cucina con una mano stesa verso di lui: sul palmo aveva una piccola chiavetta USB, che gli porse sorridendo. «Appena avrai dei momenti liberi e non starai parlando con Grace, dai un’occhiata a questa».
Tom prese la chiavetta dalla sua mano e le sorrise. «Va bene, grazie».
«Mi raccomando, non perderla».
Il suo tono severo lo colpì, ma subito dopo se ne dimenticò perché la donna gli rivolse un sorriso affettuoso.
«Fai buon viaggio, allora», gli augurò e dopo che l’ebbe ringraziata tornò in cucina, canticchiando a mezza voce.
Posò gli occhi in quelli di Grace e, riprendendo da dove si erano lasciati, le sistemò i capelli dietro le orecchie. Era da un po’ che non lo faceva e Grace sorrise commossa.
«Oddio, se facciamo tutte queste scene per cinque giorni, pensa quando dovrò partire per un tour di tre mesi…», la prese in giro, ma Grace invece di controbattere con una frecciatina gli prese il volto fra le mani e mettendosi in punta di piedi lo baciò sulle labbra.
«Adesso vai», gli disse quando si scostò, guardandolo negli occhi con la fronte posata sulla sua.
«Non mi dici che mi ami?», le domandò con un sorrisetto birichino sulle labbra, chinandosi per strapparle un altro bacio a fior di labbra.
Grace scrollò le spalle. «Lo sai».
«Bene, anche tu lo sai allora», replicò, un po’ offeso.
Si scostarono l’uno dall’altra e Grace aprì la porta, indicandogli di uscire. Tom provò ad andarsene senza lasciar trapelare nulla, ma non resistette: si voltò a bocca aperta e un’espressione da cane abbandonato sul viso. Non ci fu nemmeno bisogno di parlare, perché la detective sapeva che si sarebbe comportato così e aveva preparato il suo sorriso più dolce per sussurrargli: «Ti amo».
Il viso di Tom si illuminò e fece un passo indietro per darle un ultimo, forte e passionale bacio, che le tolse il fiato. Poi si allontanò, lasciandole sulle labbra il sapore zuccheroso delle parole che non le aveva detto, ma che le aveva trasmesso come se un filo avesse collegato direttamente i loro cuori alle loro bocche.

 
Quando Tom tornò a casa, la trovò fin troppo silenziosa.
«Bill?», chiamò, sentendosi nel bel mezzo di un film dell’orrore. «Bill, dove sei?».
Salì le scale che portavano al piano superiore facendo due scalini per volta e cercò nella camera del gemello, quindi andò nella propria. Lo trovò seduto per terra, con la tuta ancora umida di Grace tra le mani.
«Credevo che Grace mi avesse chiesto di prestarle dei vestiti perché non voleva uscire con il vestito di ieri sera», disse Bill con tono pacato, per poi sollevare il capo e cercare i suoi occhi. «Che cos’è successo, Tom?».

 

***

 

Dylan sbuffò, stufo di aspettare, e per l’ennesima volta cambiò posizione su quella scomoda poltroncina blu nella sala d’aspetto dell’aeroporto. Guardò il tabellone elettronico sopra la sua testa e vide che il numero dell’aereo su cui c’era sua sorella minore era sempre lì, fermo, in mostruoso ritardo, come la maggior parte degli altri voli. Aveva proprio scelto il giorno perfetto per venire a trovarlo.
Spostò lo sguardo sulle persone che aveva intorno: c’era chi si sedeva ad aspettare come lui, chi si alzava per andare ai bagni o al bar, chi rispondeva alle chiamate o agli SMS sorridendo fra sé o con irritazione, chi sfogliava le pagine dei quotidiani o dei giornali di gossip… A quel punto la sua attenzione venne totalmente catturata dalla copertina patinata del giornalino che la ragazza di quindici o sedici anni seduta di fronte a lui teneva fra le mani. Si abbassò per vedere meglio la fotografia che ritraeva Tom e Grace abbracciati e sorridenti che camminavano lungo la Walk of Fame e riuscì a leggere il titolo sotto la foto solo di sfuggita, perché la ragazzina si accorse del suo sguardo e, rossa d’imbarazzo, chiuse il giornale e lo lasciò sulla poltroncina vuota accanto alla sua.
Dylan si alzò con nonchalance e sorrise alla ragazzina, che aveva sgranato gli occhi e seguito con attenzione ogni suo movimento.
«Posso?», le domandò indicando sia la poltroncina vuota che il giornalino su di essa. La ragazzina annuì col capo e una ciocca di capelli le scivolò sugli occhi, ma la scostò subito con un gesto automatico.
Dylan prese il giornalino e sospirò sedendosi sulla poltroncina, poi fissò ancora per un minuto la foto sulla copertina patinata. Aveva creduto che quella fosse la migliore, ma fu costretto a ricredersi, anche perché rischiò di collassare quando vide le altre stampate sulle pagine interne, accompagnate da un misero articolo scritto a caratteri microscopici che spiegava l’uscita paparazzata di Tom Kaulitz, il chitarrista dei Tokio Hotel nonché il conquistatore numero uno della band, e quella che si presupponeva fosse la sua nuova ragazza.
Dylan si morse le labbra vedendo la sua Grace trasformata in quel modo e buttata in pasto ai paparazzi, ma era anche così bella – e sexy – e felice… non l’aveva mai vista così.
Per un attimo si odiò perché non era riuscito a farla innamorare di lui, odiò Tom perché gliel’aveva rubata – e aveva tutto quel ben di Dio tutto per sé – e odiò Grace perché aveva scelto il chitarrista al posto suo. Fu solo un attimo, perché poi si disse che non era colpa sua se Grace non provava quel tipo di amore nei suoi confronti, non era colpa di Tom se era innamorato di lei, né di Grace se si era innamorata del chitarrista ed era felice con lui. Per quanto gli sarebbe piaciuto poterla rendere felice e si sentisse frustrato per non esserci mai riuscito, doveva ammettere che ne valeva la pena, se il risultato era vedere quel sorriso sul suo viso e quella luce nei suoi occhi.
Si girò verso la ragazzina al suo fianco e trovò i suoi occhi intenti a scrutarlo con aria sospetta.
«Carini, no?», le domandò tirando un sorriso.
La ragazzina assottigliò gli occhi e bofonchiò: «Sì, certo».
«Sei una fan dei Tokio Hotel?». Lei annuì e Dylan ridacchiò. «Immaginavo».
«Che cosa ci trovi di tanto divertente?», berciò. «Quella è una puttana, lo si vede lontano un miglio. Non è degna di stare accanto a Tomi».
Dylan, scioccato, strabuzzò gli occhi. Si disse che doveva controllarsi, per il bene di Tom e Grace che ancora godevano di un certo silenzio, ma non riuscì proprio a trattenersi nel dire: «E chi sarebbe degna di stare accanto a Tomi?».
La ragazzina sollevò le sopracciglia e fece schioccare la lingua contro il palato, accavallando le gambe.
«Non capisco perché tu, e presuppongo altre fan che avranno già visto queste foto, debba darle della puttana: non la conosci nemmeno!».
«Non mi serve affatto conoscerla per capirlo, basta guardarla! Non è neppure tanto bella!», strillò, strappandogli il giornalino dalle mani ed iniziando a stracciare le pagine incriminate.
«Tu sei pazza», mormorò incredulo, alzandosi e lasciandola alla sua follia.
Si allontanò dalla sala d’aspetto e si avvicinò ai gate, controllando a che punto era l’aereo proveniente da Washington, D.C.: era atterrato.
Il pensiero di riabbracciare la sua cara sorellina cancellò momentaneamente lo shock provocatogli da quell’incontro spiacevole con una fan pazza dei Tokio Hotel, di cui fino ad allora aveva dubitato l’esistenza. Ebbene, non erano solo leggende metropolitane.
All’improvviso sentì uno strillo acuto e vide la stessa fan pazza correre dall’altra parte della sala con il cellulare fra le mani. Non fece in tempo a raggiungere il proprio obiettivo che un armadio grande e grosso la bloccò, la sollevò di peso e la portò via, chissà dove. Solo allora Dylan ebbe il tempo materiale per riconoscere i due ragazzi incappucciati e con gli occhiali da sole che avevano creato tanto scompiglio negli ormoni di quell’adolescente: Bill e Tom dei Tokio Hotel.
Si ricordò della loro partenza per New York e lì per lì non seppe se ringraziare o maledire il ritardo del volo di sua sorella.
«Non ne vedevo una così da un po’ di tempo», disse Bill con l’accenno di un sorriso, mentre lui, suo fratello e il loro stuolo di bodyguards gli passavano accanto senza nemmeno accorgersi di lui. O almeno così parve all’inizio, perché dopo qualche secondo Tom si voltò e lo guardò, realizzando che sì, quello era veramente Dylan.
«Cazzo, anche qui ci incontriamo?», gli domandò, trattenendo una risata fra le labbra. «Che ci fai a quest’ora all’aeroporto?».
«Sto aspettando mia sorella; è venuta a trovarmi da Washington, D.C.», rispose e controllò la reazione di Bill al loro incontro: sembrava assorto nei propri pensieri, non sorrideva. Non fu molto incoraggiante, ma Dylan si fece forza e gli sorrise, sollevando una mano. «Ciao, Bill».
«Ciao», ricambiò incerto il saluto.
Dylan avrebbe pagato oro per vedere i suoi occhi oltre le lenti scure degli occhiali, per vedere che cosa nascondeva e cosa pensava.
«Io inizio ad andare», aggiunse il frontman guardando il gemello, quando si accorse dello sguardo insistente e dell’espressione rammaricata di Dylan.
Tom annuì e lo guardò allontanarsi e passare oltre i metal detector, poi sospirò voltandosi verso Dylan, a cui lanciò un’occhiata fulminante mentre incrociava le braccia al petto.
«Prima provi a fottermi la ragazza, poi rendi un inferno la vita di mio fratello. Dimmelo che vuoi farti odiare da me».
Il poliziotto avrebbe voluto ribattere dicendo che era stato lui a fottergli la ragazza per primo, ma alla fine scosse il capo, sconsolato, e sussurrò: «Mi dispiace».
Allora Tom, a disagio e in pena per lui, gli diede una pacca sulla spalla. «O forse sei solo masochista, buttandoti fra le braccia della persona sbagliata e rifiutando quelle che potrebbero darti tutto».
«Mi stai dicendo di provarci con tuo fratello?», disse a mezza voce, impappinandosi un paio di volte, incredulo.
Tom diventò paonazzo e scosse il capo con frenesia. «Non intendevo dire… insomma, era solo… Ah, lasciamo perdere», sbuffò.
Una massa di persone si avvicinò ai gate d’uscita e Dylan individuò quasi subito sua sorella minore, la quale gli rivolse un enorme sorriso e lo salutò agitando entrambe le braccia appena incrociò il suo sguardo. Era ancora una bambina, nonostante avessero solo tre anni di differenza.
«Sta arrivando mia sorella, forse è meglio che tu…».
«Oh sì, certo, vado. Bill mi starà aspettando…».
«Già».
«Okay, allora…».
«Ah, come sta Grace?», gli domandò all’improvviso Dylan, accigliandosi.
Tom si lasciò scappare un sorriso malinconico. «Era ancora un po’ scossa e probabilmente ha preso freddo… ma si riprenderà».
«Non ti dispiace se la vado a trovare, vero? Abbiamo tante cose di cui parlare e su cui chiarirci…».
«No, non dovrebbe dispiacermi», rispose arricciando il naso. «Ma se vengo a sapere che tu…».
Dylan scoppiò in una risatina piuttosto nervosa. «Mi è arrivato il messaggio. Ora vai, o l’aereo partirà senza di te».
Il chitarrista inarcò le sopracciglia e lo salutò con un gesto della mano. Girandosi vide di sfuggita una bella ragazza dai capelli neri, gli occhi e i tratti del viso simili a quelli di Dylan: sua sorella. Le diede un’occhiata di sfuggita mentre si gettava fra le braccia del poliziotto chiamandolo «fratellone» e sogghignò incrociando lo sguardo geloso e protettivo di Dylan. Quindi si voltò e superò il metal detector.

 

***

 

Grace, interamente vestita sotto le coperte, osservava un punto indefinito sul pavimento inondato dalla luce mattutina, con gli occhi socchiusi che le dolevano e le bruciavano.
Aveva sonno, ma non riusciva ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo a causa di tutti i pensieri e le immagini che le turbinavano nella testa. A partire da quella del corpo senza di vita di Doc Mahkah, prima galleggiante nell’acqua chiazzata del rosso del suo stesso sangue, poi trasportato su una barella, avvolto in un sacco nero. Se lo immaginò persino steso su un tavolo metallico, in un obitorio freddo e sterile, mentre il coroner si apprestava a fargli l’autopsia. All’improvviso aprì i suoi occhi scuri e con la voce grave e gracchiante che aveva sentito l’unica volta che era riuscita a mettersi direttamente in contatto con quelli dell’organizzazione, le disse: «È colpa tua se sono qui».
Grace sobbalzò nel letto e riprese a tremare come la notte precedente, soltanto che quella volta non c’era Tom a riscaldarla e a farla calmare. Strinse i denti, girandosi sotto il copriletto, e lottò contro le lacrime. Non sarebbe mai riuscita a vincerle, se non fosse stato per sua madre che, bussando alla porta della sua stanza, la distrasse da quel dolore.
La donna non aspettò una sua risposta prima di entrare. Il suo volto esprimeva tutta la dolcezza e la comprensione del mondo, i suoi occhi attenti erano tristi, ma si sforzò comunque di sorriderle per infondere alla figlia un po’ di forza.
«Ti ho portato del tè», le disse sollevando di un poco la tazza fumante che aveva tra le mani, mentre si avvicinava al bordo del suo letto.
Grace si tirò su a sedere, con le ginocchia strette al petto, e Melanie le passò la tazza con cautela, poi si sedette di fronte a lei. La guardò per una ventina di secondi in silenzio, spostando lo sguardo dal sul suo viso stanco e pallido ai suoi occhi spenti, alle sue mani che stringevano nervosamente la ceramica della tazza, nonostante scottasse ancora.
«Hai fatto quello che hai potuto, tesoro. Non è colpa tua».
Ma la ragazza non reagì nemmeno a quelle parole di conforto che, al contrario, la fecero allontanare ancora di più.
La donna capì che era il caso di lasciarla sola e si alzò dal letto con un grande peso sul cuore.
Si era appena lasciata la camera alle spalle e stava percorrendo il corridoio per tornare in cucina, quando sentì la porta sbattere e i passi leggeri di Grace dietro di sé. Si voltò per capire cosa stesse succedendo, ma la ragazza l’aveva già superata, lasciandola di stucco, e si stava infilando la giacca di pelle marrone.
Non le disse dove stava andando: si aggrappò con forza alla maniglia della porta di casa, l’aprì ed uscì di corsa.

 

***

 

Era stato strano vedere Dylan, anche se strano non era proprio il termine giusto per esprimere ciò che aveva provato mentre il suo stomaco si accartocciava come una pallina di carta straccia.
Ci aveva provato in ogni modo a cancellarlo dalla sua testa, ma da quando, quella fottuta sera, l’aveva invitato a bere qualcosa con lui e avevano trascorso insieme tutto quel tempo a parlare, qualche rotellina nel suo cranio si era inceppata solo come un registratore in palla poteva fare, mostrandogli sempre la stessa immagine ogni volta che chiudeva gli occhi e provava a rilassarsi: la sua.
Vederlo e sentire di nuovo la sua voce salutarlo era stato come una pugnalata in pieno petto e nello stesso momento in cui l’aveva percepita si era odiato, perché per quanto ci provasse a dimenticare ciò che provava per lui, era tutto inutile. E Dylan non gli rendeva di certo il lavoro meno arduo. Il modo in cui l’aveva guardato, con quel sorriso tenue e lo sguardo malinconico… che cosa stavano a significare? Che provava pena per lui? Beh, non aveva bisogno di essere compatito da nessuno, tantomeno da lui, che lo aveva rifiutato e gli era bastato un «Amici come prima?» per uscirne in bellezza. O forse era qualcos’altro? Ma che altro poteva essere, Bill non riusciva proprio a capirlo, andava oltre ogni sua fantasia mentale.
«Ehi, va tutto bene?».
La voce del suo gemello, seduto accanto a lui, lo sbalzò fuori da quegli arrovellati pensieri e fu quasi un sollievo, perché gli stava venendo mal di testa e con un video da girare non era proprio ciò che ci voleva.
«Oh sì, scusami». Da quando era salito sul loro jet privato, poco dopo rispetto a lui, non l’aveva minimamente calcolato. «Ero sovrappensiero».
Tom sospirò e affondò ancora un po’ nel sedile di pelle, chiudendo gli occhi con le mani unite sopra lo stomaco.
«A cosa pensavi?».
Bill esitò a rispondere e quella fu la prova che confermò la teoria del chitarrista, che continuò: «Ho capito. Vuoi sapere cosa mi ha detto?».
«Non voglio sapere un bel niente», disse Bill stringendo i denti, mentre il suo viso si arrossava. «E tu hai cannato in pieno».
Tom accennò un sorriso. Certo, come no.
«Stavo pensando a quello che mi hai raccontato prima», aggiunse ancora il frontman, posando lo sguardo fuori dall’oblò: stavano attraversando un banco di nuvole.
Quando Tom era tornato a casa, dopo aver accompagnato Grace, aveva trovato suo fratello nella sua camera, che come un bravo investigatore aveva trovato la prova delle loro menzogne – la tuta ancora umida di Grace – e aveva costretto Tom a confessare. Gli aveva raccontato che cos’era successo quella sera, di come dal Paradiso fossero stati catapultati nell’Inferno; dalla sensazione di felicità assoluta che aveva provato mentre mangiava sushi con Grace oppure mentre facevano l’amore, alla più totale disperazione e alla paura accecante che si era trovato a vivere quando l’aveva vista allontanarsi da lui con un’intera squadra di agenti dell’FBI al seguito, quando aveva sentito i primi colpi d’arma da fuoco e aveva visto le riprese della telecamerina che aveva fra i vestiti interrompersi; di come si fosse sentito un completo idiota per essersi arrabbiato così tanto con lei e del sospiro di sollievo che gli aveva davvero rinfrancato l’anima quando l’aveva vista bagnata ed infreddolita, ma viva.
Se provava a rievocare quelle orribili sensazioni stava ancora male, tanto da doversi impedire di soffermarvisi troppo a lungo.
«Mi dispiace che la vostra serata sia stata rovinata in questo modo», concluse Bill, davvero rammaricato, stringendogli il braccio.
«Già…», soffiò Tom, sentendosi improvvisamente stanco, come se il peso di tutto ciò che aveva dovuto affrontare nelle ventiquattr’ore precedenti fosse ripiombato sulle sue spalle.
La stretta sul suo braccio divenne una lieve carezza e il maggiore sollevò il capo per incontrare lo sguardo amorevole di Bill, il quale mormorò avvicinandosi al suo orecchio: «Sono molto orgoglioso di te».
«E perché?», chiese piano Tom, aggrottando le sopracciglia.
Bill si lasciò andare ad una risatina. «Perché finalmente stai crescendo; stai capendo che cosa vuol dire amare veramente una persona, in tutte le sue sfaccettature, nonostante tutte le difficoltà che ti si presentano davanti. Perché non stai scappando, ma stai lottando per lei».
Tom sorrise e si allontanò dal gemello per guardarlo negli occhi. «Hai detto bene, per lei. Sono sempre stato così, dovevo solo trovare la persona giusta».
«Pff, sei sempre il solito sbruffone», brontolò Bill, anche se con un sorrisetto divertito sulle labbra.
Il chitarrista guardò suo fratello voltare il capo verso il finestrino ed osservò il suo viso, nonostante lo vedesse di profilo, tornare lentamente serio e concentrato, immerso nei propri pensieri.

 

***

 

«Ma come, vengo a trovarti così poche volte, ti lamenti sempre per questo, e una volta che vengo devi uscire?».
«Mi dispiace, davvero», disse Dylan, arretrando come un gambero mentre cercava una scusa convincente da usare con sua sorella.
«È una questione di vita o di morte?», gli domandò ancora, puntandogli un dito contro. «Se non è così, Felix Carlos Leon –».
Dylan mise le mani avanti e urlò: «Okay, okay, fermati! Sai quanto odio quando mi chiami con tutti i miei nomi!». Sua sorella fece un sorrisetto, mentre lui sospirava e aggiungeva, con più calma: «È davvero importante, si tratta di una mia cara amica e devo…».
«Ah, lo sapevo che c’entrava una ragazza!».
«Posso andare?», la supplicò il poliziotto, stanco.
«Va bene, sei libero», rispose dolcemente la ragazza.
Dylan la ringraziò soffiandole un bacio dalla mano, poi corse fuori di casa con il giubbotto sottobraccio.
Raggiunse la sua auto e guidò più veloce che poté verso il porto, dove era sicuro al novantanove percento di trovarvi Grace.
Parcheggiò l’auto alla bell’e meglio sul ciglio della strada, sperando di non beccarsi una multa, e nel parcheggio dietro il Marina Hotel vide il fuoristrada della detective, cosa che lo fece sospirare di sollievo. Camminò svelto, zigzagando fra le auto della polizia e i laboratori ambulanti della scientifica che si trovavano ancora sul posto dalla notte precedente, mostrò il distintivo agli agenti che lo fermarono ad un passo dall’area circoscritta dal nastro giallo e poi lo oltrepassò passandoci sotto.
La vide all’inizio della passerella in mezzo alle due barche che avevano fatto da sfondo all’assassinio di Doc Mahkah. Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni e con la testa inclinata leggermente verso sinistra guardava un po’ il cielo sereno e un po’ l’oceano di fronte a lei che luccicava ai raggi del sole, persa nei suoi mille ragionamenti.
C’era qualcosa di masochista nel voler tornare nel luogo in cui aveva assistito ad un omicidio dopo così poco tempo, ma, da quello che ne sapeva, Grace aveva sempre fatto così, persino quando l’omicidio era stato quello di suo padre: era tornata subito dopo, quando ormai la scena del crimine era quasi del tutto pulita, e ci era rimasta per un bel po’, in silenzio a pensare. (E non aveva cambiato ufficio quando aveva deciso di continuare la sua attività).
Tornare nel luogo in cui una vita si era spenta era fonte di coraggio per Grace, per quanto potesse sembrare assurdo, e l’aiutava a pensare meglio a come riscattare quella stessa vita, spezzata ingiustamente.
Si avvicinò con calma e una volta al suo fianco seguì la traiettoria del suo sguardo, accennando un sorriso.
«Stai diventando prevedibile».
«Non ho bisogno di nascondermi, in questo momento», rispose Grace con voce pacata. «Mi cercavi?».
«Volevo solo accertarmi che stessi meglio».
La ragazza voltò il viso verso di lui e non ci fu bisogno di parole. Dylan aprì le braccia e Grace vi si rifugiò per un momento, accoccolata con la testa sotto il suo mento.
«Ho visto Tom stamattina, all’aeroporto, e anche le foto che i paparazzi vi hanno scattato ieri sera. Non è tutto però! Pensa che ho avuto persino il piacere di conoscere una fan esagitata che… ah, lasciamo perdere. Comunque le foto erano davvero strepitose. O forse eri soltanto tu ad esserlo».
Grace si scostò dall’abbraccio e lo guardò di sbieco, ringraziandolo. Non le andava di parlare con lui di quello che era successo con Tom quella sera, strano ma vero se ne vergognava, anche se non era proprio quello il sentimento che provava: era una specie di gelosia che la legava a quelle immagini, quelle sensazioni, tanto che avrebbe preferito vivamente celarle dentro di sé per il resto della sua vita.
«Come mai eri all’aeroporto?», gli domandò per cambiare argomento, tornando a fissare l’orizzonte con gli occhi socchiusi a causa del suo bagliore accecante.
«Mi sorella è venuta a trovarmi da Washington, D.C.».
«Dovresti stare con lei, invece di preoccuparti tanto per me».
Dylan sorrise e si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. «È questo che adoro della nostra amicizia: possiamo anche litigare e mandarci all’inferno continuamente, ma alla fine ci saremo sempre l’uno per l’altra».
Fece una breve pausa, che Grace sfruttò per osservare il suo profilo sereno: si era fatto la barba e rifinito il pizzetto, cose che faceva solamente in rari casi, per esempio quando qualcuno fra l’infinità dei suoi parenti gli faceva visita. O quando sapeva che l’avrebbe incontrata. Quel pensiero la fece sorridere.
«A proposito, volevo scusarmi per come mi sono comportato con te per la questione di Bill. Ma ero così confuso, lo sono ancora e…».
«Anche io ti devo delle scuse, Dylan. Quella volta ci sono andata giù un po’ pesante, non avrei dovuto dirti quelle cose sulla divisa e il fatto che fosse stretta per un ga–».
Il poliziotto chiuse gli occhi e sollevò una mano per poi sventolarla. «È acqua passata ormai. Ti chiedo scusa anche per averti trattata così duramente quando Crawford ti ha chiesto di raccontargli tutta la storia del caso che avevi abbandonato. Non sarei dovuto accanirmi in quel modo contro di te e tirare in mezzo tuo padre, mi dispiace tanto». La fissò e la scoprì meditabonda, con la fronte increspata. «Grace?».
«Ma davvero litighiamo così spesso?».
«Vedi? Te l’avevo detto!».
Si concessero una risata e poi si incamminarono verso le loro auto.
«Che hai intenzione di fare ora?», le domandò Dylan una volta raggiunto il suo fuoristrada.
Grace si appoggiò ad una fiancata e tirò fuori una sigaretta dal suo pacchetto malconcio, offrendone una al poliziotto, che rifiutò con un cenno del capo.
«Hai dormito stanotte? Hai una pessima cera, non dovresti fumare».
L’investigatrice scrollò le spalle. «Avrò tempo per dormire, visto che Tom non c’è». Gli rivolse un sorrisino e Dylan schioccò la lingua al palato. Un punto per Grace.
«Comunque penso che andrò a fare un sopralluogo a casa di mamma. Sono anni che non ci vado, ma non posso starmene ancora con le mani in mano. Magari con un po’ di fortuna riuscirò a capire che cosa cercavano».
«Se hai bisogno di una mano…».
«Lo so, grazie».
Neanche a metà sigaretta non ne sentì più il gusto a causa di ciò che l’aspettava quel pomeriggio e fu costretta a gettarla a terra.
«Tu invece, che intenzioni hai?».
«Riguardo a cosa?», domandò Dylan, mentre osservava il mozzicone di sigaretta che la ragazza aveva appena schiacciato con una sneaker.
«Immagino che stamattina all’aeroporto tu non abbia visto soltanto Tom».
Dylan sollevò la testa di scatto e la guardò negli occhi: sembravano… dolci, sì. Comprensivi come quelli di una mamma.
«Te l’ho letto in faccia che l’avevi rivisto e che la cosa non ti ha lasciato indifferente. Dylan, io credo che tu dovresti... provarci. Non solo a dare una chance a Bill, ma anche a te stesso».
Rimase per qualche istante in silenzio, sfuggendo al suo sguardo, e gli tornarono in mente lo sguardo di Bill che non aveva visto a causa degli occhiali da sole firmati che portava sul viso, la sua voce distaccata e le parole di Tom. Tra lui e Grace, non sapeva più chi ce la stesse mettendo tutta per farlo sentire uno stupido. E Bill… oh, Bill… Gli faceva così male saperlo triste come gliel’avevano descritto le parole e gli occhi di Tom!
«Io… ci penserò», rispose infine, seppure ancora incerto. «Ma non so se lui ci sarà ancora».
Grace assottigliò le labbra per non fargli notare quanto fosse a disagio di fronte a quelle sue incertezze; lo attirò in un abbraccio e gli diede delle lievi pacche di conforto sulla schiena.

 

***

 

Rivedere dopo così tanto tempo Georg e Gustav, che li aspettavano già sul set, gli aveva fatto capire quanto in realtà gli fossero mancati. Peccato che il regista non aveva voluto sentire ragioni e, sostenuto da David, li aveva messi subito al lavoro.
«Avrete avuto tutto il tempo per parlare dopo le riprese!», aveva detto, azzittendo qualsiasi loro protesta.
Il set era molto meglio di quanto potesse immaginare e dovette dare ragione a Grace: in quell’ospedale in via di ristrutturazione c’era un bel po’ di atmosfera, con tendoni di cellophane ovunque, muri sventrati, scrostati, e impalcature.
Quel giorno si concentrarono sulle prove, durante le quali girarono un paio di scene per il backstage e alcune per un nuovo episodio della TH TV, e poi su un breve photoshoot.
Le ore erano volate e fra una cosa e l’altra, tra cui anche i post sulla BTK App per tenere sempre aggiornati gli Aliens in fibrillazione per il loro ritorno sulla scena musicale, si era completamente scordato di avvisare Grace del suo arrivo a New York. Una volta in auto, diretti verso l’hotel in cui avrebbero pernottato in quei quattro o cinque giorni, tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e la chiamò.
Uno, due, tre squilli, poi scattò la segreteria telefonica.
«Rispetto a Los Angeles qui siamo tre ore avanti, vero?», domandò Tom meditabondo, volgendosi verso il fratello.
«Esatto», rispose il loro autista, lanciandogli un sorriso attraverso lo specchietto retrovisore.
«Grace non mi risponde».
Bill sbuffò e guardò le luci che scorrevano ipnotiche fuori dal finestrino. «Non avrà sentito il cellulare».
Il gemello aprì la bocca per obbiettare, ma lui lo precedette: «Non è detto che le debba essere per forza successo qualcosa, perciò adesso rilassati».
Il chitarrista annuì, anche se non convinto, e pensò che se era così preoccupato per la sua incolumità in quel momento, non voleva nemmeno immaginare quello che avrebbe provato quando sarebbero partiti per il tour e sarebbero stati lontani da casa per mesi e mesi.
Giunsero al loro hotel a cinque stelle, il Crowne Plaza a Times Square, e decisero che si sarebbero incontrati tutti al bar poco prima di cena, poi ognuno si rintanò nella propria camera.
Tom si lanciò sul letto, le palpebre così pesanti che avrebbe voluto abbandonarsi al sonno. I suoi pensieri viaggiarono di nuovo verso Grace e quando sfiorarono la sua figura all’improvviso schizzò seduto sul materasso, col cellulare fra le mani. Controllò sullo schermo: ancora non aveva ricevuto una sua chiamata.
Rimase un po’ a chiedersi che fine avesse fatto, ma presto si ricordò della chiavetta USB che la madre della ragazza gli aveva dato.
Accese il suo PC portatile e la infilò in una delle varie porte. Ciò che vi trovò dentro lo fece sorridere addolcito: foto di lui e Grace prima del loro appuntamento, scattate da Melanie, ma non solo, c’erano anche foto di Grace da piccolina, immortalata in mille pose e con mille emozioni diverse dipinte sul suo visetto punteggiato di efelidi ed accarezzato dai capelli ancora lunghi fino alla schiena.
Grace che correva felice in un prato, che rideva sull’altalena, che guardava fisso l’obbiettivo con una lacrima che le scorreva su una guancia o che imbronciata gli dava le spalle… Era bellissima già da bambina e scorrendo quelle foto, ammaliato, pensò per la prima volta in vita sua alla possibilità di diventare padre. Arrossì sulle guance a quel pensiero, ma non negò il fatto che avrebbe tanto desiderato creare una bambina con la stessa bellezza della piccola Grace.
L’ultima foto dell’album che Melanie gli aveva affidato fu quella che lo colpì più di tutte. Ancora una volta la protagonista indiscussa era Grace, anche se insieme a lei c’era un uomo che poteva essere soltanto suo padre. Aveva i capelli neri come i suoi, gli occhi dello stesso verde penetrante, anche se erano velati da un sottile strato di malinconia e di fatica, come il suo viso, segnato dal tempo. Restava comunque un uomo di bell’aspetto e tutto sommato giovane, dalle spalle possenti e lo stesso sorriso che poteva definirsi solare quanto fragile. Proprio come quello che si era abituato a vedere sulle labbra di Grace. Tom capì che entrambi nella loro vita avevano sofferto, e tanto.
Si abbandonò completamente allo schienale della poltrona girevole, si portò le mani dietro la nuca e fissò per diversi istanti lo schermo del PC, fino ad imparare ogni minimo particolare di quell’immagine, a partire dall’espressione di pura gioia presente sul viso di quella bambina che ancora non conosceva il significato della parola «sofferenza» e che avvolgeva il collo del suo papà con un affetto visibile da chiunque.
Mentre ripensava alla sua Grace, quella che aveva conosciuto quando sulle spalle aveva già il peso della sofferenza peggiore di tutte – quella della perdita di una persona cara, – un peso che era persino capace di togliere luminosità ai suoi occhi, sentì il proprio cellulare suonare sul letto. Si voltò per prenderlo e senza nemmeno guardare chi fosse accettò la chiamata, rimanendo però in silenzio.
«Pronto? Tom, ci sei?».
«Per te, sempre».
Al silenzio proveniente dall’altra parte il chitarrista capì di averla sorpresa ed accennò un sorriso.
«Beh, a questo punto dovresti dire qualcosa», la incalzò dopo qualche secondo.
«Mi sono innamorata di un idiota».
Tom gettò la testa all’indietro e scoppiò a ridere, contagiandola. «Puoi fare di meglio, ne sono certo».
«Mi hai preso alla sprovvista, tutto qui».
«Spero di riuscire a farlo sempre».
«Che ti succede, Tom? Sei fin troppo sdolcinato».
Il chitarrista posò di nuovo lo sguardo sulla foto ancora aperta sullo schermo del PC e sorrise.
«Niente, mi manchi», rispose, mentre portava la freccetta sulla X rossa nell’angolo a destra.
Con un clic la foto si dissolse.

 

***

 

Era contenta che il set gli fosse piaciuto e che le cose stessero andando bene, anche se iniziava già a mancargli. Quella sera avrebbe proprio avuto bisogno di un suo abbraccio, uno di quelli stretti, capace di farle dimenticare tutto il resto.
«Tesoro…».
Grace sollevò gli occhi dalla tavola che stava apparecchiando per due ed osservò sua madre ai fornelli, girata di spalle.
«Posso sapere dove sei stata oggi? Mi sono davvero preoccupata».
L’investigatrice sospirò e scosse il capo. «Non avresti dovuto, lo sai. So badare a me stessa».
Aprì una delle ante sopra la cucina e tirò fuori una confezione di pane, la aprì e ne tirò fuori una fetta per iniziare a sbocconcellarla.
«Sono andata dove ieri hanno ucciso Doc Mahkah», rispose dopo qualche altro secondo di silenzio. «Ho visto anche la camera dell’hotel in cui era appostato il cecchino, ma non ho trovato nulla di più rispetto a quello che aveva già trovato la scientifica. Poi sono andata a casa tua».
Melanie si immobilizzò sul posto, compresa la mano che teneva il mestolo di legno con cui stava mescolando il sugo in padella.
«Anche lì è stato un buco nell’acqua. Non ti venivo a trovare da anni e non posso sapere se quelli hanno preso qualcosa, puoi farlo solo tu. Prima o poi dovrai tornarci…».
«Prima o poi lo farò», balbettò la madre, con tono nervoso. Aveva ancora troppa paura, Grace lo capì al volo.
Si passò le mani sul viso, i gomiti poggiati bellamente sul tavolo. «Tu sei proprio sicura di non sapere se volevano qualcosa di più da te?».
«Io… io non lo so, Grace, non lo so…».
«Ci deve pur essere un collegamento, non posso credere che ti abbiano aggredita in quel modo con l’unico scopo di mettermi paura. Eppure non vedo nemmeno quale collegamento potrebbe esserci: avrebbero dovuto saperlo che tu e papà siete separati da anni…».
Melanie si irrigidì di nuovo. «Tuo padre…».
Grace sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene, ma si alzò di scatto dalla sedia e raggiunse la madre, afferrandola per un braccio. La donna la guardò con le lacrime agli occhi.
«Qualche settimana prima di morire tuo padre è venuto a trovarmi».
«Che cosa?!», gracchiò, il cuore che le batteva a velocità folle nel petto.
«Credevo lo sapessi, l’avevo detto alla polizia quando mi avevano interrogata. Sono passati così tanti anni, non mi è mai venuto in mente prima d’ora…».
Grace mollò bruscamente la presa sul suo braccio e si portò le mani dietro il collo, ridotto ad un fascio di nervi tesi. Camminò verso il salotto, le gambe rigide e allo stesso tempo vogliose di correre via da tutta quella merda.
Sua madre la raggiunse poco dopo e la guardò con gli occhi grandi e preoccupati.
«Grace, tesoro…».
«Lasciami, lasciami stare», berciò la ragazza, alzando entrambe le mani strette a pugno, con il desiderio di farle schiantare contro qualcosa o qualcuno.
«Mi dispiace, mi dispiace…».
«Mamma, smettila!», strillò, mentre il suo viso si arrossava.
Strappò la giacca di pelle dall’appendiabiti, se la infilò e corse alla porta. Sua madre provò a fermarla, anche trattenendola con un abbraccio da dietro, ma la ragazza si liberò e corse fuori dall’appartamento, per poi fiondarsi giù dalle scale. Entrò nel suo fuoristrada ed avviò il motore, premette sull’acceleratore con rabbia e si allontanò dal suo condominio.
Vagò per diversi isolati, senza una meta, prima di rendersi conto che un’auto di grossa cilindrata la stava seguendo da un pezzo. Strinse più forte il volante tra le mani e sbuffò, al limite di un esaurimento nervoso.

Che giornata di merda.
Provò ad intravedere chi ci fosse alla guida, ma l’interno dell’abitacolo era troppo buio. Sbuffò e pestò il piede sull’acceleratore con più forza, superando una fila di auto in coda ad un semaforo rosso. Svoltò bruscamente a destra, tanto che le gomme stridettero in un modo osceno sull’asfalto, e una volta esaurita la serie di clacson rivolta contro di lei si girò per vedere se la stessero seguendo ancora. Purtroppo dovette riconoscere che il suo inseguitore se la cavava, perché non era riuscita a seminarlo.
Mentre pensava alla prossima mossa da fare per levarselo dai piedi, udì il colpo di uno sparo.
«Merda», biascicò, quando il parabrezza posteriore esplose in mille pezzi di vetro.
«Okay, le cose si stanno mettendo male. Decisamente».
Sfrecciò accanto ad un teatro e sfruttò quell’occasione per guardare il viso del proprio inseguitore alla luce delle insegne al neon. Appena lo riconobbe sbiancò.
Un nuovo colpo di pistola la fece sobbalzare e il cellulare, che aveva estratto dalla tasca dei jeans, rischiò di caderle. Alla fine riuscì a selezionare il numero di Dylan dal registro delle chiamate e premette il tasto verde.
«Rispondi cazzo, rispondi».
Un proiettile si schiantò contro il parabrezza di fronte a lei, crepandolo dall’interno, e Grace si afflosciò sul sedile per proteggersi meglio la testa.
«Pronto?».
«Con calma, eh! Qui mi stanno solo sparando addosso!».
«Cosa?! Grace, che cosa cazzo…».
«C’è il nipote di Doc Mahkah che mi sta inseguendo con l’auto e mi sta sparando addosso! Sono fortunata che è sempre stato una sega con la pistola, però non posso continuare così a lungo! C’è anche la possibilità che qualche civile…».
«Okay, avverto subito la centrale. Dove sei?».
«Lo sto portando dalle tue parti».
«Oh, fantastico. Lo dici tu a mia sorella?».
«Giuro che se ne esco illesa le manderò dei fiori per ringraziarla. Ora muoviti!».
Grace gettò il cellulare sul sedile del passeggero e sterzò a destra aumentando ancora la velocità, sperando che il suo caro fuoristrada non l’abbandonasse proprio in quel momento. Diede il meglio di sé per seminarlo, ma Kenelm, il nipote di Doc Mahkah, conosceva ogni angolo di Los Angeles ed era molto più bravo a guidare che a sparare.
Riuscì ad intrattenerlo ancora per un po’ e a non farsi colpire in punti critici del fuoristrada, come ruote, specchietti e parabrezza, poi per fortuna arrivarono i rinforzi: due volanti della polizia, a sirene spiegate, comparvero dietro l’auto del suo inseguitore e gli intimarono di fermarsi e di arrendersi, ma il nipote di Doc Mahkah non sembrava intenzionato a fare nessuna delle due cose e, anzi, messo alle strette decise di tentare il tutto per tutto, accelerando ed affiancando l’auto di Grace.
L’investigatrice incontrò per un istante il suo sguardo cieco di rabbia, poi vide la canna della pistola, il suo fondo nero come la pece, ed ebbe davvero paura di morire.
Il suo istinto agì prima del suo cervello: premette il piede sul freno e il suo fuoristrada inchiodò così forte che temette di venire sbalzata fuori dall’auto, ma la cintura la tenne stretta al sedile. L’auto del nipote di Doc Mahkah andò avanti ancora per una decina di metri, incapace di reagire a quella sorpresa, e venne subito raggiunta da una volante della polizia, dalla quale un agente sparò un colpo. Grace, irrigidita sul sedile, guardò l’auto del suo inseguitore che sbandava e poi si schiantava in un negozio di fiori che stava per chiudere, infrangendo la vetrina con un rumore sordo.
La detective rimase con lo sguardo fisso sui vasi e il banchetto di fiori rovesciati all’esterno del negozio, sull’acqua che scivolava sul marciapiede fino a sfociare nella strada, poi si tolse la cintura con mani tremanti e scese dal fuoristrada con le gambe rigide come manici di scopa per correre dal nipote di Doc Mahkah.
Raggiunse l’auto accartocciata su se stessa e col parabrezza sfondato e si chinò sul finestrino del guidatore, guardò all’interno e vide un ragazzo di nemmeno vent’anni che grondava sangue dal viso a causa di diversi tagli e in modo più copioso dal collo, dove gli si era conficcato un pezzo di vetro. Avvicinò una mano per fare qualcosa, qualsiasi cosa per bloccare l’emorragia, ma si ricordò in tempo che avrebbe potuto peggiorare soltanto le cose, quindi stringendo i denti si costrinse ad osservarlo e a sperare che l’ambulanza arrivasse presto.
«Andrà tutto bene, andrà tutto bene», gli sussurrò più volte, con una voce che non era la sua, così grave e nervosa.
Il ragazzo la guardò con gli occhi vacui, animati da una piccola luce insita in fondo alle pupille nere, e provò a dire qualcosa, ma gorgogliò come se fosse sul punto di annegare nel suo stesso sangue, di cui un rivolo scarlatto gli scivolò lungo il mento dall’angolo della bocca.
Grace distolse immediatamente lo sguardo, da perfetta vigliacca, e si sollevò quando sentì le sirene dell’ambulanza uggiolare in fondo alla strada. In quel momento notò anche un’auto a lei familiare fermarsi in mezzo alle due volanti della polizia. Si sentì subito sollevata e al contempo priva di forze vedendo Dylan scendere, sbattere la portiera chiudendola e correre verso l’auto infilata nel negozio di fiori.
I loro sguardi si incrociarono e il poliziotto corse più forte, fino a travolgerla in un abbraccio con cui le trasmise tutta la potenza del suo corpo, che le fece male ma che fu l’unica ancora di salvezza che in quel momento aveva a portata di mano, oltre al pensiero di Tom che probabilmente, al sicuro nella sua camera d’albergo a cinque stelle, stava già dormendo.
«Va tutto bene, è tutto finito», le sussurrò con le labbra premute contro il suo orecchio, mentre osservava il negozio distrutto e pensava che non era proprio il caso di regalare a sua sorella un mazzo di fiori.
Grace lo ringraziò mentalmente, con gli occhi lucidi rivolti verso il cielo scuro, perché era esattamente ciò che avrebbe voluto sentirsi dire.

 

***

 

«Vai a casa, non c’è bisogno che tu stia qui». Dylan sospirò e le allontanò le unghie dalla bocca. «Stanno facendo tutto il possibile per lui».
Grace distolse lo sguardo di per sé distratto e si infilò entrambe le mani in tasca.
«Tu perché sei ancora qui?», gli domandò con tono piatto, anche se sapeva già la risposta.
Dylan, per nulla sorpreso, sorrise. «Solo l’affetto smisurato che nutro per una certa persona potrebbe trattenermi per ore in ospedale solo per avere qualche informazione su un ragazzo che, per quanto mi riguarda, avrebbe potuto benissimo…».
«Non dirlo, Dylan. Non dirlo, non lo pensi davvero».
Il poliziotto si appoggiò con aria arrendevole al muro alle sue spalle. «Hai già chiamato Tom?».
Grace scosse lievemente il capo.
«Vuoi che lo faccia io?».
«Lascia stare. A quest’ora starà già dormendo e so che si preoccuperebbe per niente, impedendo a tutti di fare un lavoro decente per il nuovo video. Glielo dirò quando non avrà altre cose più importanti a cui pensare».
«Sei sicura che non si arrabbierà?», le domandò il poliziotto.
Grace scrollò piano le spalle. Dylan non approvava, glielo leggeva negli occhi, ma lei conosceva Tom quel tanto che bastava a convincerla che quella fosse la scelta migliore. Per entrambi.
«Andiamo a casa, Grace», la pregò Dylan, posandosi due dita sulle palpebre pesanti.
«Non riuscirei a dormire, tanto vale…».
«Perché allora non andiamo a bere qualcosa?».
Grace lo guardò per qualche secondo e alla fine cedette. «Okay, ma il primo giro lo offro io».
Anche quella sera aveva dimostrato che ci sarebbe sempre stato per lei, ogni volta che ne avesse avuto bisogno, e in qualche patetico modo doveva pur ricambiare.


 

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Buonasera! :D
Beh, è proprio vero che i guai non si stancano mai di dare la caccia a Grace xD Ma andiamo con ordine u.u
Tom e Bill sono partiti per New York, dove gireranno il loro nuovo video (tra l'altro video che ricorda vagamente quello di "Monster" dei Paramore xD), e... attenzione, attenzione ai pensieri di Tom quando ha guardato le foto all'interno della chiavetta USB che gli ha dato la mamma di Grace! Inoltre ha anche visto il padre della detective, il famoso Mitch Schneider :') 
E adesso odiatemi pure, ma mi sono divertita un casino a scrivere di Dylan e della fan pazza che ha dato della "poco di buono" a Grace xDD La cosa più buffa è che ce ne sono di persone così! E a me piace dipingere le cose in modo realistico u.u (Quindi prendetela con auto-ironia, ragazze ;D) 
A proposito di Dylan! Lui e Bill si sono incontrati di sfuggita all'aeroporto! Voi che cosa ne pensate? Sono proprio curiosa di sapere che cosa frulla nelle vostre testoline *-*
E ora veniamo alla parte più seria: Grace ci è rimasta sotto per la morte di Doc Mahkah, ma questo non bastava, perchè ci si è messo pure suo nipote a darle la caccia. E poi, e poi... Melanie le ha confessato che suo padre era andato a trovarla poche settimane prima di morire! Che sia uno spiraglio di luce tra le tenebre? Staremo a vedere... Dovete solo aspettare domenica prossima ;)
Ringrazio le anime pie che hanno commentato lo scorso capitolo - e a questo proposito mi chiedo, vista la drastica diminuzione di recensioni, se sto sbagliando qualcosa: sono troppo lunghi i capitoli, la storia non vi piace più...? E' importante però che lo si dica, altrimenti come faccio a migliorarmi e a venirvi incontro? ;)
Ringrazio anche chi ha letto soltanto e chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate :)
Vi auguro uno straordinario 2013, ci vediamo il prossimo anno! xD Vostra,

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

 

Molly si guardò per l’ennesima volta allo specchio, chiedendosi se il suo abbigliamento fosse adeguato per il suo primo giorno di scuola.
Sbuffò e si portò le mani nei capelli, coi nervi a fior di pelle.
Come se non bastasse, ci si era messa pure Grace, quando la sera prima le aveva detto che non poteva accompagnarla a scuola perché il suo fuoristrada era ancora dal meccanico, oltre al fatto che quel giorno sarebbero anche tornati Bill e Tom da New York e quindi sarebbe dovuta andare all’aeroporto. E ora con chi avrebbe sfogato tutte le sue ansie, le sue stupide paure?
Qualcuno bussò alla porta con mano leggera.
«Avanti», mugugnò Molly, voltandosi subito verso lo specchio, attraverso il quale vide suo padre affacciarsi alla sua camera e sorriderle.
«Tesoro, sei pronta?».
«Sì, quasi…».
«Bambina, farai tardi se continui a cambiarti i vestiti».
«Non ti preoccupare papà, arriverò in perfetto orario. L’autista è già fuori?».
«In realtà no».
Molly si girò di scatto e lo guardò con gli occhi sgranati. «E dov’è? Non starà mica male, vero? Oh mio Dio, oh mio Dio, sarà un disastro!».
Mr. Delafield si avvicinò. «Tesoro, tesoro calmati». Le prese il viso fra le mani e le rivolse un sorriso rassicurante. «L’autista non c’è perché ti accompagno io a scuola».
«C-Come?».
Il padre ridacchiò e le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Forza, sbrigati».
Molly non se lo fece ripetere due volte: afferrò la borsa con tutti i libri necessari e lo seguì con passo rapido, nonostante quasi non sopportasse il peso che si era caricata sulla spalla destra. Non era decisamente abituata, di solito le cose gliele portavano gli altri, ma quella volta non chiese aiuto a nessuno. Doveva imparare a cavarsela da sola, d’ora in avanti. Era l’unica cosa che aveva iniziato a capire.
Entrò nell’auto elegante di suo padre, seduta sul sedile del passeggero, e sorrise tra sé. Erano così rare le volte in cui stava seduta di fianco al guidatore! Solo allora si rese conto di ciò che si era sempre persa: la strada che scorreva sotto le ruote sembrava essere inghiottita dall’auto, come se non ci fosse nulla di più potente di lei.
«Bambina, lascia che ti dica una cosa», disse suo padre ad un certo punto, senza schiodare gli occhi dal parabrezza. «Mi dispiace non essermi accorto prima di ciò che tu provavi in silenzio, dei tuoi desideri inespressi. La mia è stata un’enorme mancanza, perché dopotutto è quello che un genitore dovrebbe essere in grado di fare. Permettimi di chiederti scusa».
Per quanto sorpresa e commossa dalle sue parole, trovò la forza per dire con tono deciso: «Non ce n’è bisogno papà, davvero».
«Voglio che d’ora in poi ci sia un rapporto migliore fra noi, che la nostra sia una vera famiglia. Quindi… non esitare, se un giorno ti servirà aiuto: io ci sarò per te e farò del mio meglio per darti qualche consiglio».
Molly annuì e guardò fuori dal finestrino, chiedendosi perché suo padre le stesse dicendo tutto questo.
«Sono orgoglioso di te, bambina, e l’unica cosa che posso ancora desiderare e pretendere da te è che tu sia felice, che tu segua i tuoi sogni fino in fondo, senza mai voltarti indietro né rimpiangere le scelte fatte, perché ogni scelta fatta in buona fede non sarà mai sbagliata, te lo assicuro. Sbagliare è umano, bambina, ma non devi mai aver paura di rialzarti e di riparare al tuo errore, devi combattere per ciò in cui credi, per ciò che desideri».
«Papà, ma perché…?».
Mr. Delafield fermò l’auto e si girò verso di lei, con un sorriso dolce sulle labbra. «Un giorno capirai il motivo per cui ti ho detto queste parole, capirai che il tuo vecchio non era ancora impazzito del tutto».
Molly accennò un sorriso divertito e si sporse per baciarlo sulla guancia. Quindi posò la mano sulla maniglia della portiera e rimase a fissare il rosone dai vetri arancioni infossato nel bel mezzo della facciata candida, sotto il nome della sua nuova scuola: Notre Dame High School. Nel pronunciarlo in labiale un brivido le corse su per la schiena.
«Vuoi che ti accompagni dentro?», le chiese suo padre, distraendola.
«No, grazie», si sforzò per sorridergli. «Penso di potercela fare».
«Va bene, allora… buona giornata, tesoro».
«Anche a te, papà. Ciao».
Scese dall’auto e dopo aver scambiato con lui un’ultima occhiata attraverso il finestrino, si avviò verso le grandi porte vetrate.
Passò di fianco a molti altri studenti, che chiacchieravano incuranti, e poté notare brevemente che alcuni indossavano delle magliette con il nome della scuola stampato sopra, una cosa che le fece un po’ ribrezzo. Non sollevò quasi mai lo sguardo, per paura che qualcuno potesse chiederle qualcosa e dunque farle fare brutta figura.
Appena fu dentro le mura scolastiche si sentì un po’ meglio, come se avesse superato il fronte nemico, ma fu solo un attimo: molti ragazzi e ragazze, radunati nello spazio circolare in cui convergevano diversi corridoi stipati di armadietti, puntarono gli occhi su di lei e le fecero desiderare di essersi messa qualsiasi altra cosa presente nel suo armadio.
Rossa come un peperone si orientò verso la segreteria e una volta di fronte al bancone laccato una donna corpulenta, sui cinquant’anni, le rivolse un sorriso affettuoso, simile a quello di sua zia. Molly si ritrovò a ricambiare senza nemmeno accorgersene.
«Posso aiutarti, cara?».
«Sì, mi chiamo Molly Delafield, sono nuova».
«Oh, ma certo! Il preside mi aveva informata, qui da qualche parte dovrei avere il tuo materiale… Aspetta un secondo».
Molly annuì e nell’attesa il suo sguardo spaziò sulle pareti alle sue spalle: sulle bacheche erano appesi diversi volantini con le attività extracurricolari e quelle sportive. Venne così a scoprire che la Notre Dame High School aveva un team di basket, uno di football, uno di baseball e uno di pallavolo. Insomma, avrebbe dovuto abituarsi a vedere un sacco di sportivi e a sentirsi una piccola imbranata a confronto.
C’era anche una banda musicale e appena ne lesse il nome ne rimase sorpresa, perché era davvero una delle bande più famose, tanto da aver fatto la sua comparsa in diverse parate di importanza nazionale: la Irish Knight Marching Band. Peccato che lei non sapesse suonare nemmeno uno strumento.
La sua attenzione fu colpita allora da un altro volantino, intitolato «The Knight» e con due colonne di parole scritte in caratteri minuscoli, tanto che dovette avvicinarsi per capire di che cosa si trattasse. Riuscì a leggere solo le prime righe, perché la signora della segreteria la chiamò, ma furono sufficienti per farle intuire che doveva essere un articolo sul giornalino della scuola, che aveva avuto chissà quale riconoscimento. Non aveva mai avuto l’ambizione di diventare una giornalista, però poteva essere l’unica opportunità per ricevere qualche credito scolastico…
«Ecco qui», disse la donna, porgendole una serie di fogli. «Questa è la piantina della scuola, su cui sono indicate tutte le classi. Dovrebbe servire per non far perdere i nuovi arrivati, ma non so come mai alla fine si perdono sempre».
«Oh, ottimo», disse Molly, stiracchiando un sorriso.
«Non ti preoccupare, cara, troverò qualcuno che ti possa accompagnare», le fece l’occhiolino. «Quest’altro foglio è l’orario delle tue lezioni. Dal prossimo semestre potrai anche decidere di cambiare corsi o di seguirne degli altri».
«Benissimo. Questo invece che cos’è?».
«Su quel foglietto c’è scritto il numero del tuo armadietto e la combinazione numerica per aprirlo. Mi raccomando, non perderla, è molto importante».
«Farò attenzione».
Si scambiarono un sorriso e proprio in quel momento la campanella decretò l’inizio delle lezioni. Gli studenti si affrettarono a raggiungere le loro aule e la signora dall’altra parte del bancone alzò la testa per cercare qualcuno disponibile ad aiutarla. Adocchiò una ragazza, ma appena la riconobbe sospirò e mormorò tra sé: «Speriamo sia di buon umore», poi la chiamò a gran voce. La ragazza si fermò e, anche se un po’ scocciata, si avvicinò.
«Sheila, ti va di farmi un favore?».
La ragazza, dai capelli neri tagliati a caschetto e gli occhi blu, sollevò un sopracciglio. «Ho come la sensazione che dovrò farlo comunque, quindi…».
«Potresti accompagnare Molly in classe?». La donna sbirciò sul foglio che la ragazzina teneva tra le mani. «In prima ora ha… inglese».
«Uhm, d’accordo, anche io ho inglese. Da questa parte».
Sheila si girò e Molly fu costretta a seguirla, perché non le aveva dato nemmeno il tempo di ringraziarla e aveva il presentimento che non le sarebbe importato se fosse rimasta indietro.
«Ahm…», balbettò Molly, nel tentativo di intavolare una specie di dialogo tra loro. «Allora tu ti chiami Sheila, vero? Molto piacere, il mio nome è Molly».
«Piacere», rispose Sheila, stringendole mollemente la mano che le aveva offerto.
La bionda la fissò mentre camminava spedita verso la porta già chiusa di un’aula e ci rimase male quando Sheila quasi si dimenticò della sua presenza una volta entrata nella classe. Molly, rimasta sola, incontrò i visi di quelli che sarebbero stati i suoi nuovi compagni ed arrossì.
«Scusi signorina, ma lei è…?», domandò l’uomo di mezza età seduto alla cattedra. Il professore di inglese.
«Molly. Molly Delafield».
Un improvviso silenzio avvolse l’intera aula, facendola irrigidire sul posto. Aveva detto qualcosa di sbagliato?
Il professore controllò l’elenco sul registro e trovò il suo nome, aggiunto di sbieco su un lato. «Oh sì, eccola qui, signorina Delafield. Si scelga pure un posto».
Molly adocchiò un posto libero accanto ad una ragazza carina e sorridente e fece per andarsi a sedere, sperando che dietro quell’apparente normalità non si celasse una nuova Sheila, quando il prof aggiunse: «Ah, benvenuta alla Notre Dame High School».
Lo ringraziò con un lieve cenno del capo e un sorrisino e finalmente raggiunse il suo banco. Si presentò alla sua vicina, Breanne, trovandola normale come aveva sperato che fosse, e poi ascoltò con attenzione l’appello per iniziare a memorizzare e ad associare i nomi alle facce che da lì in avanti avrebbe visto tutti i giorni.
«Sheila Young?».
Molly si voltò verso la sua accompagnatrice e la vide alzare pigramente la mano.
«Signorina Sheila Young? È assente per caso?».
Molly capì che il professore pretendeva che Sheila dicesse «Presente», perché era certa che l’avesse vista.
Un ragazzo dai riccioli biondi, seduto ad uno degli ultimi banchi dalla parte opposta dell’aula si girò verso Sheila e la guardò con un sogghigno che non piacque per nulla a Molly.
«Moody, Moody devi dire “Presente!”».
Molly si lasciò andare ad una smorfia, anche se la curiosità per quel soprannome le pungolava lo stomaco, e spostò lo sguardo su Sheila, che strinse i pugni e all’ennesimo richiamo del professore sibilò: «Presente».
«Ci voleva tanto, signorina? Un po’ di educazione, per amor del cielo…», e continuò a borbottare tra sé per un po’, fino a quando non riprese a fare l’appello.
Molly incrociò lo sguardo del ragazzo dai riccioli biondi e lui ammiccò. Ancora non sapeva che quello sarebbe stato solo il primo dei tanti tentativi di Nigel Hall di risultarle simpatico, anzi… attraente.

 

***

 

Seduti nell’auto di Dylan, lui e Grace fumavano una sigaretta, la mano che usavano per tenerla tra le dita fuori dai finestrini.
«Non ci posso credere, non gli hai detto nulla per ben cinque giorni. Tu sei matta, matta».
La detective osservò l’amico poliziotto. Si preoccupava più lui di lei e, chissà, forse faceva bene.
«Tu pensa alle tue gatte da pelare, ché delle mie mi occupo io».
«Ti riferisci a Bill?», domandò Dylan, mentre lo stomaco gli si annodava all’altezza del petto.
Grace aspirò una boccata di fumo ed annuì, poi gettò il mozzicone fuori dal finestrino.
«Bill… non è semplicemente una gatta da pelare, è molto di più. Rappresenta una scelta che, anche se non l’ho ancora presa, mi ha già cambiato radicalmente la vita, che io lo voglia oppure no. Ti ho raccontato che non ho mai avuto la forza di confidarmi con Oswin?».
«No».
Dylan posò lo sguardo nel suo e le rivolse un sorriso impacciato. «Sì, è più grave di quello che pensavi, se non sono riuscito a parlarne nemmeno con il mio partner, il mio migliore amico. Sai quante volte ci siamo salvati la pelle a vicenda, no? Quante volte ho avuto paura di perderlo durante una sparatoria… Beh, la volta in cui ho avuto in assoluto più paura è stata quando volevo confidarmi con lui e ho cercato di immaginare la sua reazione. E non ce l’ho fatta».
L’investigatrice sospirò stancamente, gli occhi colmi di solidarietà, e gli passò una mano sulla nuca. Non ci fu bisogno di parole, i loro occhi e i loro gesti parlarono da sé.
«Il loro aereo sta per atterrare», mormorò prima di accennare un sorriso e scendere dall’auto.
Dylan la raggiunse sul marciapiede e camminò al suo fianco sino all’entrata del Los Angeles International Airport, cercando di trovare dentro di sé il coraggio per uscire dalla situazione di stallo in cui si trovava da quel maledetto giorno in cui aveva detto chiaramente a Bill che non avrebbero potuto essere nient’altro che amici.
Enorme, caotico, il più trafficato del mondo, addirittura labirintico per chi non era del posto, ma Grace adorava l’aeroporto di Los Angeles. Le piacevano il Theme Building, la sua forma di disco volante atterrato sulle quattro zampe; le luci colorate che di notte lo rendevano davvero simile ad una navicella spaziale pronta a partire per altre galassie; il ristorante sospeso nel vuoto da cui si poteva godere la vista di tutto l’aeroporto. Ma la cosa che le piaceva più di tutte era osservare i mille visi diversi di tutti i turisti, gli uomini d’affari, le hostess e gli steward che incontrava lungo la sua strada. Era come entrare in un piccolo mondo, in cui vi erano mescolate tutte le etnie e le culture immaginabili.
All’improvviso notò un viso a lei molto familiare, che le fece battere in modo strano il cuore nel petto, mentre un sorriso si allargava sul suo viso, illuminandolo.
Il ragazzo, colpito dalla stessa malattia fulminante, aumentò il passo, quasi si mise a correre per raggiungerla più in fretta, e quando fu a pochi centimetri da lei non seppe come manifestare la sua gioia. Le era mancata così tanto! Si gettò una rapida occhiata intorno e, non vedendo nessuno munito di macchina fotografica, le prese il volto fra le mani e la baciò appassionatamente sulle labbra.
Grace si aggrappò a lui, allacciando le braccia intorno al suo collo, e ricambiò il bacio con impazienza, mossa da una voglia vorace di lui.
Quando si scostarono l’uno dall’altra, dopo un ultimo bacio morbido, si guardarono negli occhi e trattennero una risata.
«Era da cinque giorni che volevo farlo, insieme ad un paio di altre cose…», disse Tom, cingendole la vita.
«Ah sì? Dopo me le spieghi, le altre cose…».
«Mi offenderei, se non me le lasciassi spiegare».
«Mi sei mancato, sai?».
Tom arrossì impercettibilmente sulle guance e per non rimanerci troppo sotto rispose: «Mi pare ovvio!».
Grace gli pizzicò il braccio, anche se aveva letto nei suoi occhi tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dirle. Si voltò verso Bill e lo vide qualche passo indietro, con lo sguardo fisso di fronte a sé, proprio dove c’era… Spostò di poco lo sguardo e vide Dylan nella stessa identica situazione, anche se lui ad un certo punto si morse nervosamente il labbro inferiore ed abbassò il viso.
«Ehi, che ci fai tu qui?», domandò Tom, accorgendosi solo allora della presenza del poliziotto.
«Mi ha accompagnata qui», rispose frettolosamente Grace, per poi andare da Bill a salutarlo a dovere, con un bacio sulla guancia e tutto quello che riuscì a venirle in mente pur di distrarlo. Aveva avuto come la sensazione che se non lo avesse fatto sarebbe crollato, in qualche modo.
«In che senso?», chiese ancora Tom, inarcando le sopracciglia.
La detective prese il cantante per un braccio e il chitarrista per l’altro, rimproverando quest’ultimo mentre si avviavano verso l’uscita: «Quante domande, Tom! Su forza, andiamo».
Giunti all’auto, i gemelli si fermarono un passo indietro rispetto a Grace e Dylan, che avevano già aperto portiera e bagagliaio.
«Che fine ha fatto il tuo fuoristrada?», tornò all’attacco Tom, sempre più sospettoso.
Grace sospirò. «È momentaneamente dal meccanico».
«Te l’avevo detto che era un catorcio, che prima o poi avrebbe ceduto!».
«Già, hai proprio ragione», rispose Grace facendo fatica a stirare un sorriso.
Tom la osservò per qualche secondo, già seduta sul sedile posteriore, poi spostò lo sguardo su Dylan, attirato dal suo comportamento: aveva scosso il capo con fare sconsolato e aveva sospirato.
Lo raggiunse, trascinando la sua valigia, e gli chiese: «Che cos’ha Grace?».
«Assolutamente niente».
«Certo. Mi sta nascondendo qualcosa, non è vero?».
Dylan lo fissò negli occhi, gli rubò il manico della valigia dalla mano e con una rapida mossa, come se lo facesse per mestiere, la infilò nel portabagagli.
«Grazie dell’aiuto, come al solito», bofonchiò il chitarrista, lasciando il posto a suo fratello Bill, silenzioso e più cauto che mai.
Non ci voleva un genio per capire che la presenza di Dylan lo metteva a disagio. Per quale motivo Grace gli aveva fatto questo?
«Lascia, faccio io», disse Dylan con tono gentile, senza però sporgersi per prendere il bagaglio del frontman.
Bill lo tirò su da solo, ignorando il suo aiuto, ma proprio quando stava per farcela il sudore che aveva sulle mani glielo fece scivolare via e Dylan dovette intervenire perché non cadesse a terra. Le loro mani inavvertitamente si sfiorarono ed entrambi arrossirono, anche se non osarono guardarsi in viso.
«Grazie», mormorò Bill, prima di scappare a rintanarsi accanto a Grace, rubando il posto al gemello, che a quel punto si trovò seduto sul sedile del passeggero, accanto a Dylan.
Uno strano silenzio li avvolse per i primi dieci minuti di viaggio, fino a quando Tom non riuscì più a resistere e dopo essersi schiarito la voce si rivolse a Grace: «Cos’hai detto che è successo al tuo fuoristrada?».
«Non l’ho detto», rispose lei.
Il chitarrista si voltò, irritato. «È un segreto di stato o posso saperlo?».
Dylan ebbe paura che Grace potesse tirare fuori la sua Glock e sparargli un colpo in fronte.
«Te lo dico dopo, tanto non c’è fretta. Piuttosto, raccontatemi tutto! Alla fine il video è venuto bene?».
Il poliziotto, sollevato, si lasciò andare un sorriso. Gli interni della sua auto erano salvi.
«Sì, siamo soddisfatti», rispose Bill.
Erano le prime parole che diceva con voce sicura e per questo alzò gli occhi, cercando quelli di Dylan, a conferma dei suoi timori. E, in effetti, erano lì, riflessi sullo specchietto retrovisore, che lo osservavano.

 
Dylan parcheggiò di fronte al giardino sul retro di Villa Kaulitz e scese dall’auto per aiutare i gemelli a scaricare i loro bagagli.
Camminò accanto a Grace fino alla veranda, dove Tom si fermò a cercare le chiavi nelle tasche dei jeans, e in quel breve momento tornò con la mente alla sera della festa in onore del ritorno a casa del chitarrista; a quella stessa veranda illuminata, colma di puff e cuscini, dove lui e Bill avevano parlato.
Il poliziotto sollevò gli occhi sulla figura alta e snella del cantante e scorse nel suo sguardo una luce meno intensa, come se fosse stata affievolita dal velo dei ricordi. Chissà se anche lui stesse pensando proprio a quel ricordo.
Tom finalmente trovò le chiavi e Grace gli concesse un applauso: ancora un po’ e avrebbero fatto la muffa!
Bill entrò in casa dopo il gemello, senza rivolgere nemmeno uno sguardo né a Dylan né a Grace, e i due si guardarono con occhi dispiaciuti. Forse la detective aveva fatto una cosa davvero sbagliata, aveva davvero fatto soffrire Bill chiedendo aiuto a Dylan… Mai, mai avrebbe pensato che la situazione fosse così grave fra loro due: non si erano detti nemmeno una parola!
«Che fate voi due, restate fuori?», domandò Tom, sporgendosi oltre la porta finestra, sul viso un’espressione un po’ incuriosita.
«No… lo stavo salutando», disse Grace, dopo un fugace sguardo d’intesa con il poliziotto.
«Ah. Pensavo ti fermassi qui a pranzo».
Dylan, come la stessa Grace, sgranò un poco gli occhi: Tom era impazzito o che cosa?
«No, io devo… Ho un mucchio di scartoffie sulla scrivania e non vorrei disturbare, ecco. E poi sarete stanchi, vorrete…».
Il chitarrista si lasciò scappare un sorriso sornione. «Quello stanco, a guardarti in faccia, sei tu. E poi non dai alcun disturbo, vero Bill?!».
Il silenzio proveniente dall’interno della villa fece vacillare il chitarrista, che per non mostrare la smorfia che si impadronì della sua bocca si passò una mano sul naso.
«No, certo che no».
La sorpresa di sentire quelle parole, uscite dalle labbra di Bill, fu generale. Tom fu il primo a riprendersi e sorrise radioso, fissando gli occhi in quelli di Dylan e dicendo: «Bene, allora ti sei convinto a restare?».
«O-okay, va bene…».
«Fantastico! Ci sarà da divertirsi!».
Dylan guardò l’investigatrice con un bagliore di preoccupazione negli occhi. Lei stiracchiò un sorriso nervoso, senza sapere che dire per rassicurarlo, ed entrò in casa. Il poliziotto rimase ancora qualche secondo sulla soglia, quindi respirò profondamente e si decise a varcarla e a chiudersi la porta vetrata alle spalle.

 

***

 

Le ore di lezione trascorsero più o meno velocemente, forse perché aveva ascoltato poco o niente di ciò che avevano spiegato i professori, troppo affascinata dal nuovo ambiente che la circondava, compresi i suoi compagni di classe.
Non avrebbe mai immaginato che la scuola sarebbe stata così divertente!
Aveva già fatto amicizia con un paio di ragazze, su cui aveva fatto immediatamente colpo – da quanto avevano detto loro – mentre l’unica persona che avrebbe voluto conoscere un po’ meglio, spinta da un’attrazione irrazionale, continuava a non prestarle attenzione, del tutto indifferente alle persone che le stavano intorno e con quel suo viso teso ed arrabbiato. Forse se l’era presa per il comportamento di Nigel di quella mattina… Lo stesso Nigel che in mensa la invitò a sedersi al suo tavolo.
Molly si guardò intorno, un po’ spaesata con il suo vassoio fra le mani, e vide Sheila seduta da sola ad un tavolo in giardino.
«Allora, vieni o no?!», domandò Nigel con tono impaziente, anche se sul viso aveva stampato il suo solito sorrisino strafottente.
Molly raggiunse il tavolo del ragazzo strisciando un po’ i piedi a terra, non del tutto convinta di ciò che stava facendo: aveva come un peso nel petto, che le impediva di sentirsi a posto con la coscienza.
«Per chi non la conoscesse, lei è Molly Delafield. Questo è il suo primo giorno, quindi vediamo di farla sentire a suo agio!», esclamò lui, per poi farle l’occhiolino.
Dai loro discorsi, e in parte dal loro abbigliamento, si accorse presto che tutti i ragazzi e le ragazze seduti intorno a quel tavolo erano degli sportivi, cosa che non la fece sentire affatto a suo agio. Lei non sarebbe stata buona nemmeno per fare la mascotte!
Ad un certo punto voltò il capo e gettò uno sguardo al tavolo di Sheila, al quale si era seduto un ragazzo dai capelli neri e lunghi, con gli occhiali rotondi che gli cadevano spesso sulla punta del naso. Per un attimo i loro sguardi si incontrarono e Molly, colta in flagrante a fissarli, arrossì e si girò di scatto.
«Ehi Molly, hai impegni questo sabato?», le domandò Nigel, scostandosi dalla fronte dei riccioli ribelli.
Per la prima volta la ragazza ebbe la certezza che ci stesse provando con lei e la cosa la fece vergognare, anche se avrebbe dovuto essere felice di aver attirato l’attenzione di uno dei ragazzi che, pur essendo solo al primo anno, era già nel club dei più popolari della scuola.
«Ehm… no, non penso di averne», rispose titubante.
«Perfetto! Allora verrai sicuramente a vedermi giocare!». Le scoccò un sorriso seducente e si alzò in piedi, tenendo il suo vassoio vuoto fra le mani. «Alle dieci in punto, mi raccomando».
Molly annuì con un cenno del capo e lo guardò rientrare nella struttura scolastica dopo aver abbandonato il vassoio sopra quello di un altro ragazzo del primo anno; questo lo fissò con odio, ma alla fine fece finta di nulla e lo mise a posto assieme al suo.
Quando la pausa pranzo finì e furono tutti costretti a rientrare per le ultime due ore di lezione, Molly controllò sul suo foglio e scoprì che l’aspettavano due ore di matematica. Presa com’era a controllare la cartina per capire dove fosse l’aula in cui doveva andare, andò a sbattere contro il braccio di un ragazzo alto almeno due spanne in più di lei, la pelle dello stesso colore dei chicchi di caffè e gli occhi simili a due pozzi scuri e tristi, dietro i quali si celava però un guizzo di luminosità.
«Scusami, non l’ho fatto apposta», balbettò imbarazzata, ancora impressionata dai muscoli che, nello scontro, aveva sentito sotto la maglietta del ragazzo.
Grazie ad un sorriso, seppur appena accennato, i suoi denti parvero brillare in contrasto con la sua pelle scura. «Non c’è problema».
La biondina lo guardò andare via e, rendendosi conto che non c’era quasi più nessuno in corridoio e rischiava di arrivare davvero in ritardo, urlò: «Ehi!».
Il ragazzo si girò e la guardò con un sopracciglio sollevato. Lentamente, leggendo l’imbarazzo sul suo viso, diventato rosso come un peperone, si sciolse in un sorrisino. La raggiunse con un paio di lunghi passi, sbirciò il foglio che teneva tra le mani e la prese per un gomito, trascinandosela dietro.
«Tu devi essere quella nuova», esordì.
«Da cosa l’hai capito?». Entrambi ridacchiarono.
«Succedono così poche cose interessanti qui che ogni cosa può diventare l’argomento del giorno e fare il giro di tutta la scuola».
«Oh, fantastico».
«È una cosa che odio, questa. Ma penso che ti abituerai presto, nonostante il tuo cognome sia Delafield».
Molly lo fissò e liberò il gomito dalla sua stretta, mettendosi sulla difensiva. «Che cosa vuoi dire? E poi… come fai a sapere il mio cognome?».
Il ragazzo scosse il capo, un sorriso amaro steso sulle labbra. «Te l’ho detto, sei l’argomento del giorno. E poi molti ragazzi qui hanno genitori che lavorano nello stesso ambiente di tuo padre, anzi… direi che ne sono alle dipendenze. Per questo sei un ancora di più sulla bocca di tutti».
La ragazza rimase a riflettere su quelle parole per un po’, mentre ascoltava il riecheggiare dei loro passi sul pavimento lucido del corridoio.
Pensò al silenzio che aveva seguito il suo cognome quella mattina, alle ragazze su cui aveva fatto subito colpo, a Nigel che la invitava al tavolo dei ragazzi popolari… Era tutto a causa di suo padre?
«Mi dispiace avertelo fatto capire in questo modo, ma è così che va da queste parti», disse il ragazzo, sconsolato.
«È successo anche a te con tuo padre?», domandò Molly, guardando dritto di fronte a sé, con le parole del suo caro papà che le riempivano di nuovo la mente.
Il ragazzo esitò qualche secondo, poi mormorò: «Qualcosa del genere».
Molly alzò di scatto il capo, preoccupata di aver detto qualcosa di sbagliato, ma il ragazzo le indicò la porta di fronte a loro.
«Quella è la tua classe. Faresti meglio a sbrigarti, la lezione è già iniziata». Detto questo si girò ed iniziò a percorrere il corridoio in senso inverso, senza nemmeno salutarla.
«Grazie!», esclamò Molly. Lui non si voltò, alzò semplicemente la mano.
Era già con la mano sul pomello, quando cambiò idea e disse ancora: «Comunque io sono Molly!».
Il ragazzo allora si fermò, volse il capo verso la sua direzione ed accennò un sorriso, il più dolce che gli avesse visto fare.
«Aiden», si presentò, dopodiché si voltò definitivamente e scomparve alla sua vista.

Aiden. Se lo ripeté nella testa diverse volte, giungendo alla conclusione che fosse un nome bellissimo.
Molly entrò in classe con un sorriso ebete sulle labbra, chiedendo scusa al professore di matematica per il ritardo. Grazie al fatto che era il suo primo giorno riuscì a scamparla, peccato che i posti fossero già tutti occupati e fu costretta a sedersi lontana dalle ragazze che già conosceva, trovandosi di fianco al ragazzo che aveva visto a mensa con Sheila.
Imbarazzata pensò di ignorarlo, ma ad un certo punto fu costretta a ricambiare il suo sguardo insistente.
Il ragazzo, con un gesto automatico, si tirò su gli occhiali che gli erano scivolati sul naso e gettò uno sguardo al prof voltato di spalle che scriveva un’espressione alla lavagna, poi bisbigliò: «Bentley Simmons, piacere di conoscerti».
Molly tentennò un paio di secondi prima di stringere la mano che le aveva offerto, mentre ripensava a ciò che aveva appena realizzato, ossia che alcune persone si erano avvicinate a lei solo a causa del suo cognome, del conto in banca e dell’importanza di suo padre.
«Molly Delafield, piacere mio».
Il ragazzo, quello che sembrava in tutto e per tutto il tipico nerd della scuola che aveva visto in diverse fiction per adolescenti, le rivolse un sorriso che la costrinse a ricredersi: aveva dei denti perfetti – niente apparecchio – e quando sorrideva il suo viso si illuminava, rendendolo bello e pulito. Molly pensò subito che se si fosse tagliato capelli e si fosse tolto gli occhiali sarebbe stato davvero un ragazzo su cui avrebbe fatto volentieri un pensierino.
«So che è il tuo primo giorno. Come ti sei trovata fino ad adesso? Prima ho visto che eri seduta con Nigel e i suoi amici». Nel pronunciare il nome di Nigel il suo viso si era accartocciato in una smorfia: non doveva nutrire molta simpatia verso di loro.
Molly si strinse un po’ nelle spalle e si afflosciò sulla sedia. «È presto per dirlo. Devo ancora inquadrare le persone che mi stanno attorno e capire di chi fidarmi e di chi no».
«Saggia decisione».
«Grazie, Bentley».
«Chiamami pure Ben».
«Okay».
Passarono alcuni minuti in silenzio, a copiare quelli che secondo Molly non potevano essere altro che geroglifici e che, al contrario, Ben scriveva rapidamente sul suo quaderno. Ad un certo punto proseguì addirittura da solo, senza attendere la spiegazione del professore, facendo rimanere Molly a bocca aperta. Non c’erano dubbi, era proprio portato per quella materia.
Quando finì controllò sul libro che il risultato coincidesse, poi si voltò verso la ragazza e sussurrò: «Stamattina hai conosciuto Sheila, allora».
Un lampo di preoccupazione le illuminò gli occhi azzurri.
«Non ti preoccupare, non voglio sapere che cosa ne pensi di lei; sarebbe anche stupido, perché non la conosci per niente. Però, ecco…», sospirò e scosse il capo, come rassegnato. «Lascia perdere».
«No, continua per favore. Sai, mi piacerebbe conoscerla meglio, ma oggi sembrava di pessimo umore e allora…».
Ben levò di scatto gli occhi castani e leggermente a mandorla su di lei, più luminosi che mai, ed abbassando ancora di più la voce esclamò: «Davvero?».
Molly annuì col capo e contemporaneamente scosse le spalle, ricambiando il sorriso.
«Se davvero vuoi conoscerla meglio devi essere paziente, molto paziente, ma vedrai che ne varrà la pena. Sheila è una ragazza fantastica».
Sorrise, intenerita, e dentro di sé promise che avrebbe seguito il suo consiglio.
«Spero solo che tu non abbia già avuto l’onore di sentire delle brutte voci sul suo conto», disse Ben, mordicchiandosi nervosamente il labbro.
Molly pensò al nomignolo con il quale Nigel si era rivolto a lei quella mattina e sorrise a Bentley: «Anche se fosse, io non bado molto alle voci di corridoio».
Il ragazzo la fissò con gli occhi grandi e il suo sorriso si allargò ancora di più. Posò il gomito sul banco e si tenne il viso con la mano, poi sospirò e disse con voce sognante: «Oh, dove sei stata per tutto questo tempo?».
Molly ricambiò il suo sguardo, senza sapere bene come prendere quelle parole, ma alla fine si sciolsero entrambi in una risatina.

 
Quando finalmente le lezioni finirono, Ben e Molly uscirono dall’aula quasi per ultimi e la ragazza, vedendo Nigel che correva con dei suoi amici verso gli armadietti, si ricordò all’improvviso del suo invito.
«Ben».
Il ragazzo si girò verso di lei e la guardò con cipiglio perplesso. «Qualcosa non va?».
«Nigel mi ha invitato a vederlo giocare, questo sabato. Credo però che abbia dato per scontato che io sappia quale sia lo sport che pratica».
Bentley roteò gli occhi al cielo, sbuffando. «Tipico di lui: crede di essere sempre al centro dell’universo! Comunque gioca nella squadra di baseball della scuola».
«Oh».
«Non ti piace il baseball?».
«Non particolarmente. Vuoi venire con me?».
Ben scoppiò in una fragorosa risata, tirando la testa indietro. «Oh no, tesoro! Io ho di meglio da fare! Comunque potresti chiederlo a Sheila», sorrise, «lei è un’appassionata».
Molly annuì e finalmente uscirono dalla scuola. Alzando lo sguardo sul cielo limpido e il sole che rendeva tutto più brillante si disse che come primo giorno di scuola non era stato malaccio.

 

***

 

Non pensava che invitare Dylan a pranzo avrebbe portato all’imbarazzante silenzio che aveva accompagnato quasi tutto il tempo che avevano passato seduti intorno al piccolo tavolo della cucina – un proseguimento del piano da lavoro. Per non parlare poi della tensione che si poteva tagliare a fette! Ma per quanto riguardava quest’ultima, Tom era certo, se lo sentiva, che fosse causata anche dallo strano comportamento di Grace: gli stava nascondendo qualcosa e non vedeva l’ora di essere solo con lei per metterle un po’ di pressione e farla confessare.
Quello che avrebbe voluto, ciò che aveva sperato facendo rimanere il poliziotto, era che lui e il suo fratellino si chiarissero o almeno tornassero ad avere un rapporto civile. Se n’era accorto benissimo che Bill soffriva a causa sua, che non avrebbe mai voluto allontanarlo da sé così tanto, ma non aveva potuto fare altrimenti: si vergognava per quello che aveva provato nei suoi confronti, del suo comportamento da ragazzino senza difese quando Dylan gli aveva chiesto se sarebbero rimasti amici come prima.

Amici come prima. Certo, come no!
Ogni tanto aveva provato ad intavolare una conversazione, ma l’unica che gli aveva dato retta, che voleva scacciare via quel silenzio, era stata Grace. Dopo un paio di tentativi finiti male però anche lei si era arresa ed era stata taciturna come Bill e Dylan i quali, seduti l’uno di fronte all’altro, non avevano mai aperto bocca né sollevato gli occhi dal loro piatto.
«Okay, credo di aver…», il poliziotto si bloccò bruscamente, trovandosi gli sguardi di Tom e Grace addosso. Non quello di Bill.
«È meglio che me ne vada», concluse stancamente. Sistemò le forchette nel piatto ancora mezzo pieno e si alzò dallo sgabello, facendolo strisciare sul pavimento.
«Grazie ancora per il pranzo», disse lanciando un cenno del capo in direzione del chitarrista, il quale riuscì soltanto a balbettare: «Sei sicuro di…?» prima di essere interrotto da un’espressione afflitta di Dylan. Tom ne fu duramente colpito, sembrava che volesse dirgli di smettere di sparare contro chi si era già arreso.
Lo guardò uscire dalle porte vetrate, diretto verso l’auto parcheggiata oltre il giardino sul retro, e all’improvviso con la coda dell’occhio vide Bill alzarsi e corrergli dietro.
«Ma che…?», biascicò e fece per alzarsi a sua volta, ma Grace lo precedette e gli afferrò la mano, tenendola ferma sul tavolo.
«Lasciali soli. È quello che volevi, no?».
Tom la fissò negli occhi intensamente e vi lesse che per nessuna ragione al mondo lo avrebbe lasciato andare a disturbarli, non proprio ora che Bill sembrava deciso a chiudere, in un modo o nell’altro, quella storia. Ovviamente non ci sarebbe andato, ma decise di sfruttare quell’occasione per ottenere ciò che desiderava sapere.
«Solo se tu mi dici che cosa diavolo mi stai nascondendo».
Grace lo guardò come se fosse un pericoloso pregiudicato e Tom deglutì, tentando di nascondere la sensazione di essere appena stato scoperto a bluffare.
«Sei un pessimo ricattatore, lasciatelo dire», disse la detective, lasciandosi andare ad un sorrisino. Si alzò dallo sgabello e si sistemò la maglietta lungo i fianchi, poi indicò il salotto con un rapido cenno della testa. «Ma ti accontenterò, visto che ci tieni tanto».
Tom annuì e sospirò lievemente, seguendola e non potendo fare a meno di guardarle il sedere.
Si sedettero su uno dei divanetti in pelle nera a due posti nel secondo salotto, quello sotto il soppalco nonché quello più appartato.
Grace posò i piedi, avvolti dalle calze grigie, sul tavolino basso e rimase in silenzio per qualche secondo, giusto il tempo di riordinare le idee; poi iniziò: «Il mio fuoristrada ha rischiato di finire da uno sfasciacarrozze, ma per fortuna Dylan ha chiamato un suo amico meccanico che mi ha proposto un prezzo ragionevole per cambiare il parabrezza anteriore e quello posteriore, crepati o addirittura infranti, il fanalino posteriore rotto e sistemare la fiancata sinistra sverniciata ed ammaccata…».
«Mio Dio, ma che cosa diavolo gli è successo?». Aveva gli occhi sgranati, increduli. «No, non dirmelo: hai fatto un incidente e non mi hai detto niente! Come hai potuto?!».
Grace si morse un sorrisino e scosse il capo, fissandosi le dita dei piedi. «Non ho fatto un incidente, Tom. Ti ricordi di Doc Mahkah, vero? Beh, suo nipote ha cercato di farmi fuori».
Approfittando del suo silenzio, provocato dallo shock e dalla rabbia che lentamente gli stava bruciando le vene fino a raggiungergli il cervello, gli raccontò che era successo la sera dello stesso giorno in cui lui era partito, poco dopo la loro chiacchierata a telefono; che era uscita di casa per sbollire il nervosismo provocato dalla scoperta tardiva che suo padre aveva visto sua madre poco prima di morire e che appena si era messa al volante si era accorta dell’auto che la inseguiva, fino a scoprire che c’era proprio Kenelm alla guida, desideroso di vendicare la morte di suo zio. Gli disse anche che alla fine l’aveva scampata e che il ragazzo era finito in ospedale dopo essersi schiantato contro la vetrina di un negozio di fiori, rischiando di morire dissanguato.
Stava per concludere dicendo che le sue condizioni si erano stabilizzate, ma Tom, rosso in viso, non glielo permise, urlando: «Ma che cosa cazzo ti è passato per la testa?! Perché non mi hai chiamato subito, hai rischiato la vita!».
Grace lo osservò e con estrema calma nella voce rispose: «Sì, è vero, ma non è successo».
«Che cazzo vuol dire?! Questo non ti autorizzava a non informarmi!». Tom digrignò i denti e si alzò di scatto dal divano, si strinse le braccia al petto, i pugni serrati e le nocche bianche.
«Non volevo che ti preoccupassi per niente e che ti rovinassi la visita di New York, è una città davvero fantastica. Inoltre questo avrebbe influito negativamente sul tuo lavoro: non avresti dato il massimo e il video non sarebbe venuto bene come mi hai raccontato, entusiasta».
Il chitarrista rimase in silenzio e non diede segno di volerla degnare di uno sguardo.
Grace si alzò e si mise alle sue spalle, posandogli delicatamente le mani sui fianchi ed adagiando le labbra sulla sua scapola. Quindi mormorò: «Sbaglio, Tom?».
Lui aprì la bocca per risponderle, ma in quel momento Bill entrò trafelato nel soggiorno, facendo scorrere la porta vetrata solo quel tanto che bastava per farlo passare. Fugacemente incontrò gli sguardi del fratello gemello e della detective, ma senza dare loro il tempo di dire nulla corse su per le scale e sparì oltre il soppalco.
Tom si liberò della debole stretta di Grace e lo seguì, privandola di una risposta e lasciandola sola in salotto, dal quale si spostò quasi subito per andare in veranda, bisognosa di una sigaretta.
Vide Dylan correre verso la sua auto, entrarvi e sgommare sull’acciottolato, alzando un gran polverone.
Aspirò avidamente le prime boccate di fumo, mentre un pensiero le faceva storcere le labbra in un sorrisino: sembrava che quel giorno tutti preferissero scappare, invece di affrontare i problemi. Lei compresa.

 

***

 

Con le spalle contro la porta della sua camera da letto, sentì i passi pesanti di suo fratello Tom sulle scale. Probabilmente lo stava raggiungendo per chiedergli che cosa fosse successo e non voleva, non voleva proprio parlarne, anche perché… Dio, come glielo avrebbe detto? «Non è successo niente, Tom, Dylan mi ha soltanto baciato». Così, glielo avrebbe detto così?
Lo sentì avvicinarsi, poi i suoi passi si arrestarono proprio fuori dalla sua porta.
Bill si lasciò cadere sulla poltroncina lì accanto e chiuse gli occhi, posandosi una mano sulla fronte. Gli scivolò sul profilo del naso, arrivò alle labbra e le sfiorò con le dita, sentendo su di esse ancora quelle del poliziotto, il loro sapore inqualificabile.
 

«Dylan, aspetta!».
Il poliziotto si voltò con un’espressione stupita dipinta sul viso. Bill avrebbe voluto concedersi un sorriso, perché era davvero dolce così frastornato. Peccato che non ci sarebbe riuscito, sapendo che in parte era colpa sua, del suo comportamento distaccato.
Non sapeva perché non aveva fatto storie quando Tom aveva proposto a Dylan di restare a pranzo, ma lentamente ci era arrivato, durante il silenzio che li aveva avvolti mentre mangiavano: non poteva impedirsi di essere ancora attratto da lui e in qualche modo aveva concesso al suo cuore un piccolo sollievo, dando il suo consenso.
Il perché invece gli fosse corso dietro quando l’aveva visto alzarsi in quel modo da tavola, consapevole che ancora una volta fosse sua la colpa, gli era ancora un po’ sfocato nella mente, ma non doveva allontanarsi molto dalle precedenti supposizioni.
«Bill, non ce n’è bisogno, davvero. Ho capito benissimo», disse Dylan ad un tratto, con un sorriso affranto.
«Cosa, cosa hai capito?».
Il poliziotto scrollò lievemente le spalle. «Sarebbe meglio che non ci trovassimo più negli stessi posti, lo vedi che cosa succede ogni volta».
Il cantante ridacchiò e scosse il capo. «Non hai capito proprio niente, come immaginavo». Fissò gli occhi castani nei suoi più scuri e disse: «Volevo dirti che mi dispiace».
«Scusa, che hai detto?».
«Mi dispiace per come mi sono comportato le ultime volte in cui ci siamo visti e per prima. Sono stato proprio come un bambino, così infantile… Ma il fatto è che non ce la faccio, non riesco a comportarmi da amico con te, come se non fosse successo nulla. E poi… non posso mentire a me stesso, dirmi che tu non mi piaci, perché… perché tu mi piaci, Dylan, e adesso mi troverai così cocciuto ed egocentrico, ma non riesco ad accettare che tu mi abbia liquidato con una frase così stupida e che io ti abbia pure dato retta! Insomma, sapevo benissimo che non sarebbe stato possibile per me, per come sono fatto, ma… non so cosa pensavo di fare, se volevo dimostrare a me stesso di essere forte, di riuscire a passarci sopra e a dimenticarti… Il fatto è che non lo sono, non lo sarò mai…».
Nel suo campo visivo, all’improvviso, comparvero anche le scarpe di Dylan e alzò di scatto il capo, rendendosi conto che il poliziotto si era avvicinato e in quel momento gli stava davanti e gli sorrideva debolmente, gli occhi più luminosi del solito. Li aveva visti brillare in quel modo solo per Grace e questo lo fece arrossire, senza contare la pochissima distanza che c’era fra i loro visi.
«La finisci di parlare?», gli sussurrò.
Bill annuì rapidamente con la testa e il sorriso di Dylan si addolcì. Si avvicinò e, anche se un po’ titubante, posò le labbra sulle sue, sfiorandogli la mandibola con il pollice.
Fu un semplice bacio a stampo, ma non affatto innocuo; non per le terminazioni nervose e il cuore di Bill, almeno, che impazzirono e lo fecero sentire come se qualcuno gli avesse appena appiccato un fuoco dall’interno.
Del tutto istintivamente si scostò ed incrociò gli occhi di Dylan, sorpreso e scombussolato quanto lui.
Il poliziotto boccheggiò, forse alla ricerca di qualche parola che non trovò; Bill fece un passo indietro e si voltò per rifugiarsi all’interno del salotto. Incontrò subito gli sguardi di suo fratello gemello e di Grace e capì che doveva essere successo qualcosa anche tra loro, vista l’espressione cupa di Tom; ciononostante non si fermò ad indagare molto, corse verso le scale e salì al piano superiore.

 
«Maledizione», biascicò Tom oltre la sua porta, facendolo tornare in sé.
Bill si alzò dalla poltrona e posò l’orecchio sul legno per capire cosa stesse facendo, poi aprì piano la porta e sbirciò in corridoio: aveva già raggiunto la sua camera e si apprestava a chiudercisi dentro con un tonfo sordo.
Si chiese se non fosse il caso di andare da lui a confortarlo, ma alla fine scosse il capo e si sdraiò sul letto, gli occhi puntati sul soffitto. Era troppo agitato anche solo per pensare di occuparsi di problemi non suoi. Con un sorrisino sulle labbra pensò che probabilmente Tom era giunto alla stessa conclusione.

 

***

 

«Tesoro, torni a casa per cena?».
Grace sospirò e continuò a fare zapping, il cellulare incastrato tra l’orecchio e la spalla.
«Non lo so proprio, mamma. Il problema è che non saprei come tornare: Dylan è andato via, Bill è chiuso in camera sua ed è meglio non disturbarlo…».
«Perché non lo chiedi a Tom? Mi piacerebbe molto averlo a cena stasera! Così mi racconta com’è andata a New York!».
«Mmm… meglio di no, non è serata».
«Avete litigato, non è così?».
Nonostante gli anni che avevano passato lontane, sua madre riusciva sempre a capire cosa le passasse per la testa, cosa la preoccupasse o cosa la rendesse felice. Si domandò se quello fosse un superpotere di tutte le mamme del mondo oppure un’esclusiva che possedeva solo la sua.
Il giorno dopo che il nipote di Doc Mahkah l’aveva quasi fatta fuori, si era svegliata e l’aveva trovata seduta al suo fianco, che le accarezzava dolcemente i capelli. Si erano chieste scusa a vicenda per ciò che era successo e tutto si era risolto, senza ulteriori complicazioni – anche perché Grace non le avrebbe sopportate, non ancora, non altre.
«Per favore, tesoro, fate pace».
La detective si lasciò scappare una risata: si preoccupava più sua madre di lei, sicura che il tempo di sbollire la rabbia e Tom ci avrebbe messo una pietra sopra.
«Rilassati, mamma. Non è nulla di grave».
«Se lo dici tu… Allora io cucino lo stesso anche per te e ti lascio tutto nel microonde, così almeno se torni…».
«Va bene, grazie».
Una volta chiusa la chiamata, pensò di chiamare Dylan, ma poi ci rinunciò: quando avrebbe voluto parlarne lo avrebbe fatto, era inutile mettergli pressione, soprattutto se il suo comportamento era legato a Bill, un argomento così delicato.
Allora le venne in mente Molly, a cui aveva scritto la sera precedente per avvisarla che non l’avrebbe accompagnata a scuola. Il suo primo giorno di scuola superiore, in una scuola vera! Oh, doveva assolutamente sapere come se l’era cavata.
Dopo due soli squilli, la ragazzina milionaria che le aveva fatto conoscere Bill e Tom rispose: «Pronto?».
«Ehi Molly, sono io».
«Oh, Grace, ciao! Distratta com’ero, non ho guardato chi fosse sul display. Tutto bene?».
«Diciamo di sì».
«Hai litigato con Tom? Accidenti, è appena tornato!».
Grace sgranò un po’ gli occhi, stupefatta. Forse non era sua madre ad avere i superpoteri, erano lei e Tom quelli fin troppo prevedibili.
«Beh… Parlami di te, piuttosto! Ho chiamato per sapere com’era andato il tuo primo giorno di scuola!».
Molly rimase in silenzio per qualche secondo, come se ci stesse pensando su. «Molto… travolgente, credo sia l’aggettivo giusto».
«In che senso?».
«La scuola è bella, anche se è quasi un labirinto. I professori mi sono sembrati piuttosto accettabili, noiosi come me li immaginavo. Ho già conosciuto un paio di ragazzi e di ragazze, ma non mi sbottono troppo: li conosco troppo poco per dare loro delle valutazioni».
«Molly, ma alle persone non si danno le valutazioni… non si smette mai di conoscere chi ti sta attorno».
«A proposito di questo, tu che sei del mestiere, se volessi trovare rapidamente delle informazioni su alcuni miei compagni di classe dove dovrei andare secondo te?».
Grace, spiazzata, boccheggiò per qualche istante. Poi disse: «Molly, non credo che…».
«Oh su, non voglio sapere vita, morte e miracoli! Pensavo di andare a cercare sul sito della scuola, è una buona idea?».
«Ahm… sì, certo».
«Perfetto, grazie Grace. Adesso devo scappare, ci sentiamo presto!», schioccò un bacio all’apparecchio e la comunicazione si interruppe bruscamente, lasciando la detective con un palmo di naso.
Guardò il proprio cellulare nella mano e scosse lentamente il capo, incredula. Lentamente però un sorriso le incurvò le labbra all’insù: anche lei alla sua età si era divertita ad indagare sulle vite dei suoi compagni, almeno fino a quando suo padre non l’aveva scoperta e le aveva spiegato che si traeva più soddisfazione dallo scegliere i propri amici imparando a conoscerli col tempo.
«A cosa stai pensando?».
Grace si passò una mano sulla guancia e la posò sulla bocca, appoggiandosi allo schienale del divano con il gomito. I suoi occhi ridenti e lucidi bastavano, non era necessario che vedesse quel sorriso incerto e tremante che le compariva ogni volta che pensava a suo padre.
Bill finì di scendere le scale e si sedette pigramente accanto a lei, rubandole il telecomando di mano.
«Ho chiamato Molly», rispose infine, quando sul suo viso non vi fu più alcuna traccia di malinconia. «Le ho chiesto del suo primo giorno di scuola».
«Oh, giusto! Com’è andata, cos’ha detto?».
«In realtà non mi ha raccontato molto, ma credo che si sia già ambientata piuttosto bene».
«Sono contento per lei». Accennò un sorriso e scrollò le spalle. «Io ho sempre odiato andare a scuola».
Grace fissò il suo profilo e le parve sereno, fin troppo. Capì che era solo una facciata, costruita solo come il cantante nonché leader dei Tokio Hotel sapeva fare.
La voglia di sapere che cosa fosse successo tra lui e Dylan era tanta, ma quello che l’aveva fermata prima di chiamare il suo amico poliziotto la fermò anche quella volta: non voleva che pensasse che lo stesse forzando a parlare.
Gli posò una mano sulla spalla e sorrise incoraggiante, lasciandolo un po’ sbigottito. Quindi si alzò dal divano e si stiracchiò la schiena, tirando le braccia sopra la testa.
«Tom ha intenzione di rimanere chiuso in camera sua ancora per molto?».
Bill alzò le mani, come se davvero non sapesse come funzionava la testa del suo gemello. Grace lasciò perdere e salì le scale lentamente, senza fretta. Camminò lungo il corridoio e raggiunse la porta della camera del chitarrista, alla quale bussò con le nocche.
«Tom, lo so che sei lì dentro, rispondimi». Non ricevette alcuna risposta e si appoggiò con la spalla allo stipite, sbuffando leggermente.
«Sei così tanto arrabbiato con me, tanto da non rivolgermi nemmeno la parola? Vuoi che ti chieda scusa? Pensavo solo di fare la cosa migliore per te, non volevo che qualcosa ti turbasse e ti rovinasse il soggiorno newyorkese. Insomma, l’ho fatto per te e se ho fatto male okay, posso anche dire che mi dispiace, ma… Tom, per favore, è inutile che ti comporti in questo modo».
Stanca di parlare con una porta, prese la maniglia ed abbassandola si rese conto che era aperta. Sbirciò all’interno e vide Tom steso a pancia in giù sul letto, con le braccia sotto il cuscino e la schiena nuda.
Roteò gli occhi al cielo e si portò una mano alla fronte, dicendosi che aveva parlato da sola – si era pure scusata! – per niente. Allo stesso modo però sorrise addolcita e salì sul letto a quattro zampe. Si accoccolò al suo fianco e gli accarezzò il viso con la punta delle dita.
Tom provò in tutti i modi a reprimere il sorrisino beffardo che gli si disegnò sulle labbra, ma non ci riuscì e Grace gli tirò uno schiaffetto sulla spalla.
«Sei un idiota, ecco cosa sei!».
La intrappolò in un abbraccio, impedendole di saltare giù dal letto com’era sua intenzione, ed aspettò che si calmasse un po’ e tornasse a sdraiarsi sul letto prima di sussurrarle all’orecchio: «Come mai ci hai messo così tanto?».
«Come? Pensavo che volessi stare un po’ solo a sbollire la rabbia».
«Okay, ma due ore sono un po’ troppe per sbollire la rabbia! Già dopo una non sapevo più cosa fare!».
Grace lo fissò con sguardo tagliente. «Aspettavi che venissi io, che ti facessi le mie scuse?! Sei davvero…».
«Cosa?», mormorò suadente, accarezzandole le labbra.
«Ne parliamo dopo», soffiò la ragazza prima di cingergli il collo con le braccia e baciarlo con trasporto.

 

_______________________________

 

Buonasera gente! :)
Allora, questo è il primo vero capitolo in cui vediamo Molly in azione! E' emozionante :') Il suo primo giorno di scuola è stato davvero "travolgente" e chissà che cos'ha in mente di fare, dicendo che vuole sapere qualcosa di più dei suoi compagni... Intanto abbiamo conosciuto un po' Sheila, Ben, Nigel e dulcis in fundo Aiden. Che ve ne pare?
Nel frattempo, Bill e Tom sono tornati a Los Angeles e ad aspettarli non c'era solo Grace, ma anche Dylan! Rimasto a pranzo dai Kaulitz e... avete capito bene, ragazze *^* Ebbene sì, lui e Bill si sono baciati. E ora che succederà? Sono dannatamente curiosa di sapere che ne pensate xD
E per quanto riguarda Grace e Tom? Lei gli ha finalmente confessato ciò che le è capitato con Kenelm e lui non l'ha presa benissimo... almeno fino ad un certo punto! xD Che ci possiamo fare, il mio Tom immaginario è fatto così u.u
Aspetto di leggere le vostre recensioni, se ce ne saranno, e ringrazio di cuore coloro che ne hanno scritta una allo scorso capitolo! Grazie mille :3
Un grazie va anche a chi ha letto soltanto e messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate!
A domenica prossima, un bacio! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - Parte 1 ***


Capitolo 18 – Parte 1

 

“I wanna break down
You don't understand the damage you've done now
Let me remind you that boys don't cry
Isn't it clear that I need treatment?”

(Treatment – Labrinth)

 

Entrò nella centrale di polizia con un bicchiere di caffè super forte fra le mani, pronto a trascorrere sveglio l’ennesima nottata.
Odiava i turni di notte, ma quella volta era contento di mettersi a lavorare, nonostante gli toccassero un bel po’ di scartoffie: almeno non si sarebbe girato e rigirato nel letto senza riuscire a prendere sonno e non avrebbe pensato alla cazzata che non era proprio riuscito a non fare. Perché sì, era stato più forte di lui, un istinto che aveva schiacciato quella poca razionalità presente nella sua testa, che da ore continuava ad urlargli contro improperi orribili, facendolo sentire addirittura più merda di quanto non si sentisse già di suo.
Era arrivato presto, tanto che quando Oswin spalancò la doppia porta e lo vide esclamò: «Cristo, Dylan! L’unica volta che sei arrivato in anticipo al lavoro è stata quando sei stato a letto con Grace, quindi devo presumere che sia successo qualcosa della stessa importanza!».
Si lasciò cadere sulla sua sedia girevole e posò i piedi incrociati sull’angolo della scrivania, posando lo sguardo su di lui, in attesa che si confidasse.
«Dopo andiamo ad allenarci un po’?».
La richiesta spiazzò Oswin, il quale tirò giù i piedi con un tonfo e scivolò accanto al partner con la sedia.
«Tu vuoi andare in palestra a notte fonda? Dio mio, che ti è capitato?».
Dylan evitò il suo sguardo e continuò a stendere il verbale che aveva iniziato, proprio come se non l’avesse sentito.
«Okay, è più grave di quello che pensavo», disse Oswin, più a se stesso che al partner.
Si allontanò e, di nuovo alla sua scrivania, posò le braccia sul ripiano, indeciso se imitarlo o meno a sfoltire un po’ il plico di scartoffie che aveva nel proprio portadocumenti. Alla fine non resistette e si voltò di nuovo verso l’amico.
«Ci hai provato con Grace, il suo ragazzo ha assistito e ve le siete date di santa ragione? Però tu non hai neanche un segno, vuol dire che ci hai messo poco a metterlo al –».
«Grace non c’entra un cazzo», lo interruppe bruscamente, lasciandolo di stucco. Fece cadere la penna sulla scrivania e fissò gli occhi scuri ed arrossati in quelli di Oswin. «Non ho mai voluto riconquistarla, non sono più innamorato di lei da un pezzo. Il motivo vero per cui mi comporto in modo strano da un paio di settimane a questa parte è che Bill, il fratello gemello di Tom, che è il fidanzato di Grace, mi ha detto di essere attratto da me. Tutto normale, diresti, se la cosa si chiudesse qui! Ma no, no! Il fatto è che anche io mi sono accorto di essere attratto da lui! E oggi sai cos’è successo? L’ho baciato! Meraviglioso, no?».
Oswin, scioccato, boccheggiò. Poi, senza dire nemmeno una parola, iniziò a lavorare alle sue scartoffie, il viso fin troppo vicino ai fogli su cui scriveva con tratti nervosi.
Dylan, ancora un po’ affannato per tutte le parole che aveva lasciato traboccare in modo incontrollato, sentì un sorrisino maligno impadronirsi del suo viso.

Sì, è così che ci si comporta. Bravo, Oswin.
Avrebbe sputato a terra schifato, se solo avesse potuto. Allora tornò al suo verbale, ma prima sollevò lo sguardo sugli altri suoi colleghi, seduti alle scrivanie, che avevano sentito tutto. Li guardò negli occhi uno per uno, senza tirarsi indietro, e provò una malsana soddisfazione quando si accorse che tutti, nessuno escluso, abbassavano la testa per primi.

 

***

 

Il tramonto era già passato da un po’, la tipica sfumatura rosea aveva lasciato spazio ad un violetto che preannunciava l’arrivo della luna in cielo, e nella stanza era calata una piacevole oscurità.
Seduto a gambe incrociate sul letto, accarezzò con la punta delle dita la schiena nuda di Grace, disegnando cerchi immaginari sulla sua pelle che in pochi attimi si ricoprì di brividi. Le lenzuola le si erano arrotolate intorno alla vita, lasciandola in gran parte scoperta.
«Abbiamo lasciato Bill giù da solo», disse la detective, sospirando.
Tom fece l’ultimo tiro e poi spense la sigaretta nel portacenere sul suo comodino, lasciando il mozzicone accartocciato su se stesso. Soffiò la boccata di fumo verso il soffitto e disse: «Anche se gli fossimo rimasti accanto non avrebbe parlato comunque di quello che è successo con Dylan».
Grace si sistemò meglio il cuscino sotto la testa e lasciò che Tom le spostasse una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
«Secondo te cos’è successo?», gli chiese abbassando di un tono la voce.
Il chitarrista si strinse un po’ nelle spalle. «Non riesco nemmeno ad immaginarlo. Mi fa ancora uno strano effetto pensare a Bill… con un ragazzo, ecco».
La detective si tirò su seduta al suo fianco, portandosi le lenzuola fin sotto le ascelle, e posò il mento sulla sua spalla per accarezzargli la guancia con alcuni bacetti.
«Spero solo che le cose si risolvano una volta per tutte: è da troppo tempo che non vedo Bill sorridere veramente».
«Sì, l’ho notato anche io. E posso assicurarti, che tu ci creda o no, che per Dylan è la stessa cosa. Sono settimane che è inquieto, sempre in conflitto con se stesso… immagina il suo shock quando ha capito di ricambiare i sentimenti di Bill, lui che è sempre stato attratto dalle belle ragazze…».
Tom voltò il viso verso il suo, a pochissimi centimetri di distanza. «Ti stai vantando di essere una bella ragazza?».
Grace ricambiò il suo sguardo e lentamente un sorriso malizioso si fece spazio sulle sue labbra, subito catturate da quelle di Tom, che le baciarono e le stuzzicarono con piccoli morsi.
«Non lo sono, per caso?».
«Oh sì, lo sei eccome», mormorò, infilandole anche una mano fra i capelli.
«Allora Dylan ha buon gusto. E bisogna essere davvero ciechi, per non accorgersi che anche lui è davvero un –».
«Shhh, non osare dire queste cose nel mio letto».
La detective ridacchiò e salì sulle sue gambe, le mani di Tom strette saldamente sui suoi fianchi. Gli accarezzò la bocca con un dito e bisbigliò: «Cos’è, dubiti delle tue capacità?».
«Perché, diresti davvero che Dylan è più bravo di me a letto?».
«Beh, obiettivamente…», cantilenò Grace con gli occhi rivolti verso il soffitto, ma lui la interruppe.
«Sai come mi chiamavano, ai tempi d’oro? Lo sai, come?».
«Sexgott, sì, lo so, ma l’hai detto anche tu, ai tempi d’oro… io ancora non c’ero», gli sussurrò all’orecchio.
«Ah è così? Se facessi uscire il diciassettenne che è in me una volta finito non riusciresti nemmeno ad alzarti».
Grace rise di cuore, avvolgendogli le braccia intorno al collo. Quindi posò la fronte contro la sua, occhi negli occhi.
«Peccato per Dylan, ma mi sono innamorata proprio di te e, ahimè, l’amore è cieco…».
«Adesso mi hai stancato!». La fece cadere sul letto e Grace, che non ebbe tempo di difendersi, scoppiò a ridere.
«No, ti prego, il solletico no, Tom!».
«Così impari a prendermi in giro!».
Dopo molte risate, caddero entrambi sul letto, stremati e col fiatone, i volti arrossati.
«Quanto sei idiota», esalò Grace, tirandogli un manrovescio sul petto ed asciugandosi gli occhi con l’altra mano.
Sentirono il rumore di un motorino che si avvicinava e dopo qualche minuto il suono del campanello al piano di sotto.
«Fantastico, Bill ha ordinato la pizza!», esultò Tom, alzandosi in piedi di scatto ed iniziando a rivestirsi.
Grace rimase ad osservarlo, poi scosse il capo e sorrise. Ah, uomini!
Una volta vestita anche lei, scesero insieme al piano inferiore e videro Bill pagare il ragazzo della pizzeria. Tom andò subito in cucina a sbirciare dentro ogni cartone.
«È inutile, Tom. Sono tutte uguali!», disse Bill quando ebbe chiuso la porta di casa.
«Come sono?», domandò incuriosita Grace, mentre con rapidi movimenti delle mani si rifaceva la coda sulla nuca.
«Alle verdure grigliate», rispose Tom.
Grace sorrise. «Uhm, poteva andare peggio». Affamata com’era poi, avrebbe mangiato davvero di tutto!
Si piazzarono tutti e tre sul divano, davanti allo schermo piatto della televisione. Trovarono un film carino, anche se già iniziato, ed esso fu la scusa perfetta per non intavolare nessuna conversazione, anche se i motivi erano ben altri: Bill non era particolarmente loquace a causa di quello che era accaduto con Dylan, Grace avrebbe tanto voluto chiedergli di confidarsi ma non osava, e Tom semplicemente sapeva come stavano le cose, conosceva fin troppo bene il suo gemello ed accettava il silenzio di buon grado, concentrato sulla sua pizza.
Praticamente trascorsero tutta la serata in quel modo, dato che dopo aver finito di cenare e di guardare il film si salutarono ed ognuno si rintanò nella sua camera. L’unico momento in cui si poteva dire che avessero avuto modo di parlare normalmente fu quando Tom si ricordò del nuovo caso a cui Grace gli aveva detto di star lavorando.
«Hai un nuovo caso?», domandò Bill, incuriosito. «Spero non si tratti di qualcosa di pericoloso».
Grace guardò Tom di sfuggita e rispose: «No, non dovrebbe essere pericoloso. Un uomo mi ha semplicemente chiesto di tenergli d’occhio la moglie – crede che lo stia tradendo – e nel caso di portargli qualche prova».
«Oh, che cosa triste ingaggiare un detective privato per cose come queste…».
«Già».

 
«Odio, odio non avere il mio fuoristrada», bofonchiò Grace, sfilandosi la maglietta e prendendo al volo quella che Tom le lanciò. Era enorme, una di quelle che Tom si era sempre messo fino a qualche anno prima, e su di lei aveva lo stesso aspetto di una camicia da notte.
Quando anche Tom finì di cambiarsi (ovvero di indossare solo un paio di pantaloncini), la raggiunse sul letto e la strinse in un abbraccio, facendole posare il capo sulla sua spalla.
«Mi dispiace per quello che è successo, devi esserti spaventata», le disse e le accarezzò la fronte con le labbra.
Grace nascose il collo fra le spalle. «Il bello è che io volevo bene a Doc Mahkah, eravamo amici, e mi ha davvero fatto male vedere con quanto impegno Kenelm voleva vendicarlo, dando a me tutta la colpa. Ma forse ha ragione, se io non l’avessi quasi costretto ad incontrarmi probabilmente sarebbe ancora vivo…».
«Shhh», le posò un dito sulle labbra e la guardò negli occhi. «Tu non hai nessuna colpa, Grace, nessuna. E non hai diritto di replica».
Grace si morse un debole sorriso e strinse un po’ di più Tom a sé, mentre sentiva il sonno sotto le palpebre allungarsi come un’ombra su tutto il suo corpo.
«Adesso come sta il ragazzo?».
«Sono andata a trovarlo un paio di giorni fa e le sue condizioni erano stabili, anche se ha rischiato parecchio: quando ha fatto l’incidente un vetro gli ha quasi reciso la carotide».
«E gli hai parlato?».
«No, ancora no… non penso ci sia molto da dire, comunque. Aveva i suoi motivi e lo rispetto».
«Ti ha quasi ucciso e lo rispetti?!».
Grace lo guardò negli occhi, seriamente. «Forse il modo in cui voleva ottenere giustizia per suo zio non è corretto, ma sai… non è facile. A volte mi chiedo che cosa farei io se mi trovassi di fronte alla persona che ha ucciso a sangue freddo mio padre e… non lo so, non lo so se la ripagherei con la stessa moneta oppure lascerei la giustizia alla legge. Non ne ho idea».
Tom rimase a fissare il soffitto, in silenzio, e dopo qualche minuto le posò un bacio sulla fronte. «Sono certo che faresti la cosa giusta. Ora però è meglio se andiamo a dormire, che ne dici?».
«Uhm, okay», annuì e si lasciò andare ad uno sbadiglio, stiracchiandosi mentre Tom raggiungeva l’abat-jour sul comodino e la spegneva, facendo piombare la stanza nell’oscurità in cui era avvolta anche il resto della villa.
«Buona notte, Grace».
«Buona notte, Tom». Gli posò un delicato bacio sulla bocca e sospirò, infilando una mano sotto il cuscino e chiudendo gli occhi.
Stava per assopirsi, o forse si era semplicemente risvegliata grazie al suo sonno leggero, quando sentì il rumore di una vibrazione sul comodino del chitarrista. Aprì gli occhi e vide un fascio di luce azzurrognola provenire dal suo cellulare ed illuminare la parete bianca.
«Tom», lo chiamò con voce gracchiante, posandogli una mano sulla spalla. «Tom, c’è la tua amante che ti cerca».
«Amante? Che amante?», bofonchiò lui.
«Se non ce l’hai, allora chi potrebbe scriverti a quest’ora?».
Il chitarrista finalmente si voltò e tastò il comodino con la mano, raggiunse il cellulare e per poter leggere sul display strizzò gli occhi, infastiditi dalla luce.
«Un SMS», la informò. Lo aprì e lo lesse ad alta voce: «Ciao Tom, sono Dylan. Domani mattina alle otto e mezza ti passo a prendere e ti porto nella palestra dove mi alleno, ti va?».
Entrambi confusi, non parlarono per un po’. Tom rilesse il messaggio diverse volte e infine sbottò: «Come fa Dylan ad avere il mio numero?».
«Ahm…». Grace accartocciò il viso ed inspirò tenendo i denti serrati, un occhio semiaperto. «Gliel’avevo dato io qualche tempo fa, così se fosse successo qualcosa avrebbe potuto contattarti… Mi sono dimenticata di dirtelo».
Tom ci passò sopra senza fare ulteriori storie e pensò a come interpretare il contenuto dell’SMS.
«Perché Dylan vuole che vada con lui in palestra? E poi alle otto e mezza! Non può dormire come tutte le persone normali?».
Grace gli posò una mano sulla guancia e gli girò il viso verso il suo, in modo che la potesse guardare negli occhi.
«Ti dice niente Dylan-Bill-tu-fratelli gemelli…?».
«Tu pensi davvero che Dylan voglia parlare di quello che è successo con Bill con me? Perché proprio io, non capisco. Non può essere soltanto perché sono il fratello gemello di Bill, sarebbe anche stupido da parte sua: se prova a dire solo qualcosa di brutto su di lui giuro che è la volta buona che…».
«Ho afferrato il concetto», lo interruppe. «Forse vuole parlarne con un suo simile, un maschio che può capire il suo sconvolgimento… Ma che ne so», sbuffò e ficcò la testa sotto il cuscino. «Metti via e torniamo a dormire, ci penseremo domani mattina».
«Buona idea», rispose Tom nel bel mezzo di uno sbadiglio.
Lasciò il cellulare sul comodino e si accoccolò al suo fianco, avvolgendole le braccia intorno alla vita, pronto a tornare nel mondo dei sogni, quando si rese conto di non avergli risposto. Ormai animato dalla curiosità di sapere che cosa volesse veramente Dylan da lui, prese il cellulare e scrisse un lapidario «OK», poi premette invio.

 

***

 

Bill, immerso nel silenzio della sua camera da letto, non riusciva a dormire e per questo guardava il soffitto, pensando ininterrottamente a quello che era successo quella mattina con Dylan.
L’aveva baciato… Dio, ancora non ci credeva.
Più ci pensava, meno riusciva a trovare un motivo plausibile per cui il poliziotto avrebbe dovuto baciarlo. Che cos’era cambiato nel corso di quelle settimane? Che quei sorrisi e quegli sguardi malinconici che da un po’ di tempo gli rivolgeva e che lui aveva interpretato come pietosi, fossero in realtà di scuse e di pentimento? Era possibile che Dylan avesse cambiato idea, che volesse provarci?
A quell’ipotesi Bill sentì il proprio viso andare in fiamme, mentre il suo stomaco tremava piacevolmente.
Si girò su un fianco sotto le lenzuola, verso le finestre. Guardò il cielo scuro illuminato dalla luce della luna e dopo qualche secondo percepì un altro sentimento venire a galla, afferrandogli la gola: Dylan non poteva cambiare idea quando e come voleva, non poteva decidere anche per lui, giocare con i suoi sentimenti, né poteva prima rifiutarlo e poi pretenderlo a sua disposizione. Anche per quel motivo si era allontanato dal suo bacio, perché lui aveva messo le sue carte in tavola, gli aveva spiegato com’era la sua situazione, ma Dylan… Dylan non l’aveva fatto, non aveva spiegato né come né perché avesse cambiato idea. L’aveva solo baciato.

Baciato. Dylan l’aveva baciato e non ne aveva fatto parola con Tom, suo fratello gemello. Non voleva fare lo stesso errore che aveva fatto la prima volta, non dicendogli nulla dei suoi sentimenti, però non ce l’aveva proprio fatta. Quel bacio era qualcosa di ancora troppo vivido dentro di lui, ogni volta che ci ripensava un fuoco gli esplodeva nelle membra, e allo stesso tempo era troppo criptico ed irrazionale, perché immotivato da parte di Dylan.
Forse il poliziotto aveva sperato che con quel bacio capisse quello che voleva comunicargli, non potendolo fare a parole, ma forse lo aveva giudicato fin troppo intuitivo, dato che non aveva la minima idea di come interpretarlo.
E ora, come si sarebbe comportato quando l’avrebbe rivisto? Ogni volta che lo incontrava il suo cervello andava nel pallone, non riusciva a concretizzare nulla di ciò su cui poteva aver riflettuto per ore ed ore; tutto perdeva consistenza, c’era solo Dylan, i suoi occhi scuri e il suo sorriso.
Sognava il grande amore e lo osannava da chissà quanti anni – ormai aveva perso il conto – ma ogni volta si era dimenticato di quanto in realtà fosse complicato e doloroso. Non bastava soltanto trovarlo, bisognava farlo nascere.

 

***

 

Bzzzz. Bzzzz. Bzzzz.
Grace aprì gli occhi e sollevò un po’ la testa dal cuscino per guardare in direzione del comodino di Tom. Ci aveva visto giusto: ancora una volta era il suo cellulare che vibrava.
Borbottò parole senza senso, infastidita, e si voltò dall’altra parte. Con un occhio semiaperto notò il cielo terso e luminoso, ancora avvolto dai chiarori dell’alba, e si chiese chi potesse chiamarlo a quell’ora di mattina.
«Merda, Dylan», biascicò e radunando le poche forze che il brusco risveglio non le aveva prosciugato, rotolò sopra il corpo di Tom, che reagì con una smorfia ed uno sbuffo. Afferrò il cellulare allungando il braccio e riconobbe il numero sul display, allora se lo portò all’orecchio.
«’giorno», mugugnò, mentre con una mano si massaggiava un occhio.
«Oh, buongiorno Grace. Hai per caso notizie del tuo fidanzato?».
Grace guardò il viso di Tom sotto al suo e scosse lievemente il capo. «Non posso credere che tu l’abbia chiamato il mio fidanzato».
«E come dovrei chiamarlo?».
«Lascia perdere, d’altronde a momenti non riesco nemmeno io a credere che io stia con uno come lui». Si lasciò scappare un sorrisino, posando un bacetto sul naso del bell’addormentato. «Comunque è qui sotto di me, probabilmente gli sto schiacciando la cassa toracica e tra poco si sveglierà perché non riesce a respirare correttamente».
«Fantastico. Io sono qua sotto già da un po’».
«Okay, ti vengo ad aprire».
Dylan provò a dire qualcosa, ma lei non gliene diede il tempo materiale e pose fine alla chiamata. Lasciò il cellulare tra le lenzuola e posò la testa nell’incavo della spalla di Tom, accarezzandogli il collo con la punta delle dita.
«Tom. Tom, svegliati. Credo che tu debba andare in palestra ad allenare questo tuo bel fisico».
Il chitarrista mugugnò e fece per girarsi, ma si trovò bloccato sotto il peso di Grace.
«Devo proprio?», chiese, le corde vocali ancora addormentate.
«Avresti dovuto pensarci prima di accettare la proposta di Dylan».
«E tu come…?». Tom sbuffò con un mezzo sorriso sulle labbra. «Lasciamo stare».
«Ecco, meglio non mettersi contro un’investigatrice privata». Lo baciò sulla guancia, poi sull’angolo della bocca e infine sulle labbra, posando le mani ai lati del suo viso.
«Forza, muoviti. Ti sta aspettando», lo esortò quando si staccò da lui e si sollevò per scendere dal letto ed andare ad aprire a Dylan.
Raggiunse la porta e prima di uscire in corridoio si voltò un’ultima volta ad osservarlo: aveva richiuso gli occhi e sembrava che si fosse riaddormentato. Grace trattenne una risata fra le labbra e gli concesse ancora qualche minuto. Nel frattempo sarebbe andata a controllare Bill nella sua camera.
Camminò lungo il corridoio e una volta di fronte alla stanza del cantante si accostò alla porta con l’orecchio ed ascoltò se vi fossero rumori provenienti dall’interno, ma l’unica cosa che sentì fu il silenzio profondo e piacevole della mattina presto, ancora soffuso in tutta la casa. Così abbassò lentamente la maniglia ed aprì la porta quel tanto che bastava per poter sbirciare all’interno: Bill dormiva ancora, sdraiato sul fianco sinistro, e il suo viso sembrava sereno, come se nessuna preoccupazione lo attraversasse.
Grace sorrise rincuorata. Almeno nei sogni ha un po’ di pace.
Chiuse delicatamente la porta alle sue spalle e si ricordò di Dylan. Attraversò il soppalco in fretta e corse giù dalle scale, aprì il cancello che permetteva l’accesso al giardino sul retro e grazie alle porte vetrate, di cui aveva arrotolato le veneziane, riuscì a scorgere il poliziotto uscire dall’auto di servizio e percorrere il vialetto nella sua direzione.
Gli aprì e lui la salutò con un sorriso affettuoso, ma debole. Aveva occhiaie più scure del solito, segno che non dormiva una notte intera da tempo, e un accenno di barba sulle guance e sul mento. Per finire, indossava ancora l’uniforme. Grace capì subito che finito il turno in centrale non era nemmeno passato da casa.
Sospirò e si fece da parte per farlo entrare in salotto, fissandolo con sguardo apprensivo.
«Che c’è?», domandò lui con un sorrisino nervoso sulle labbra.
«Hai un aspetto orribile, Dylan».
«Lo devo prendere come un complimento?».
«Non scherzare, sono seria».
I suoi occhi si adombrarono improvvisamente, facendo notare ancora di più la stanchezza che vi giaceva sul fondo.
«Se la metti così, allora ti dico di non preoccuparti per me e che una madre ce l’ho già».
Grace gli tirò un pugnetto contro la spalla e si voltò per preparare un po’ di caffè. Ne avevano tutti bisogno.

 

***

 

Bill si svegliò, ma non aprì gli occhi, ancora troppo pesanti ed assonnati, il corpo e i sensi intorpiditi. Ciononostante, riuscì subito a capire che c’era qualcuno nella sua camera, o almeno che qualcuno lo stava osservando.
Sollevò lentamente una palpebra, l’occhio gli bruciò e gli lacrimò un poco, ma riuscì a distinguere fra le ciglia la porta socchiusa e il viso di Grace, che lo osservava con un sorriso morbido e sereno sulle labbra. Per un attimo rivide sua madre che ogni sera si affacciava nella loro stanza e controllava se lui e Tom stessero veramente dormendo. Ogni volta sorrideva in quel modo e gli sussurrava dolcemente la buona notte.
Sentì la porta richiudersi piano e allora si girò supino, espirò lentamente l’aria che aveva trattenuto fino ad allora nei polmoni e si strofinò gli occhi, poi guardò il soffitto.
Quanto tempo era passato, da quando sua madre vegliava persino sul loro sonno… Ora vivevano da soli, dall’altra parte del mondo, la vedevano pochissimo e anche se l’avessero vista tutti i giorni tra loro non ci sarebbe stato lo stesso rapporto che avevano quando erano ancora bambini.
La malinconia lo invase e si sentì la persona più sola dell’universo, ma bastò poco per spazzare via tutto quanto; precisamente, bastò una voce maschile che associò a Dylan.
Coi sensi improvvisamente vigili prestò più attenzione, ma non sentì più nulla.

Sono un idiota, si disse immergendo la faccia nel cuscino, convinto che fosse stato solo uno scherzo di cattivo gusto della sua mente.

 

***

 

Mentre riempiva una tazza per sé ed una per Dylan, Tom si affacciò dal parapetto e li chiamò. Entrambi si affacciarono nel salotto, con le labbra già umide di caffè, e lo guardarono con fare interrogativo.
Il chitarrista sorrise furbetto. «Hai un aspetto orribile, sai?».
«Sì, me l’ha già fatto notare», rispose il poliziotto, indicando la detective con un cenno del capo e rivolgendole poi uno sguardo dolce.
«Hai preso tutto?», gli domandò poi.
Tom sollevò la borsa che aveva appoggiato accanto ai suoi piedi.
«Il costume ce l’hai?».
«Che costume?», chiese strabuzzando gli occhi. Grace se la ridacchiò sotto i baffi.
«Io di solito dopo l’allenamento faccio un po’ di idromassaggio, ma se vuoi possiamo anche…».
«Oh, io e Bill adoriamo l’idromassaggio!», esclamò felice come un bambino, per poi pentirsene subito: perché aveva nominato suo fratello? Gli occhi del poliziotto si erano immediatamente velati, come se all’improvviso avesse perso la vista.
Tutto sommato però si riprese presto e disse: «Ti aspetto qui».
Tom annuì e scomparve in corridoio. Dylan abbassò gli occhi su Grace ed aprì la bocca, ma lei non lo lasciò parlare e, appoggiandosi allo stipite della porta con una spalla, gli indicò un punto oltre l’ampio salotto: «Giri l’angolo e la prima porta sulla destra è il bagno».
Bevve un sorso di caffè e gli strizzò l’occhio, al quale Dylan ricambiò con un sorriso complice.

 

***

 

Aprì gli occhi di scatto, si levò le coperte di dosso e corse alla porta. L’aprì pian piano e sbirciando in corridoio vide suo fratello appoggiato alla ringhiera del soppalco che dava sul salotto, mentre esclamava: «Oh, io e Bill adoriamo l’idromassaggio!».
Si irrigidì al pesante silenzio che seguì quella frase e riuscì a sentire solo il proprio cuore correre, i battiti che gli pulsavano nelle orecchie.
«Ti aspetto qui», rispose la stessa voce che aveva udito prima di assopirsi di nuovo. Quella volta non poteva sbagliarsi e dire che fosse frutto della sua mente: era proprio la voce di Dylan.
Vide Tom annuire ed incamminarsi velocemente verso la sua direzione. Si appiattì contro la porta e per paura di essere scoperto ad origliare trattenne persino il fiato, i battiti del suo cuore che continuavano ad aumentare velocità.
Sentì i passi di suo fratello arrestarsi improvvisamente, ma fu solo un attimo. Quando percepì la porta sbattuta della camera accanto si affrettò ad uscire e corse nel corridoio, si accostò al muro e gettò una rapida occhiata al salotto sottostante: Grace era appoggiata allo stipite della porta della cucina e di fronte a lei c’era Dylan, che la osservava con un’espressione indecifrabile sul viso stanco e sciupato.
La detective mosse piano la testa, come ad indicare qualcosa alle spalle del poliziotto, e disse: «Giri l’angolo e la prima porta sulla destra è il bagno». Dopodiché si avvicinò alle labbra la tazza che teneva fra le mani e bevve un sorso di quello che, grazie al profumo che aleggiava nell’aria, identificò come caffè. Gli fece anche l’occhiolino, ma purtroppo Bill non seppe come ricambiò Dylan, visto che gli dava le spalle.
Sentì un rumore provenire dalla camera in fondo al corridoio, quella di suo fratello, e si affrettò a tornare nella sua, nella quale si chiuse senza fare alcun rumore. Quindi si appoggiò al legno chiaro della porta con le spalle e respirò profondamente, abbassando le palpebre su quelle lacrime che gli bruciavano negli occhi.

 

***

 

Tom scese in salotto e trovò Grace appollaiata sulla chaise-longue in pelle nera di solito usata da Bill, con la sua tazza di caffè ormai vuota fra le ginocchia.
Le passò una mano tra i capelli e dopo aver incrociato il suo sguardo un po’ assente le posò un bacio sulle labbra.
«A che cosa stai pensando?».
L’investigatrice si riscosse e gli regalò un breve sorriso. «Pensavo al mio nuovo caso, quello di cui abbiamo parlato ieri con Bill».
«Quello del tradimento?».
«Esatto. Il mio cliente vuole che il lavoro sia svolto in fretta perché non può più vivere con l’ansia di essere tradito e di non esserne certo, ma io non ho ancora il fuoristrada e non so proprio come fare».
Tom scrollò le spalle. «Chiedi a Bill se ti presta la sua auto, tanto io e lui andiamo sempre in giro insieme e c’è la mia».
Grace lo fissò con tanto d’occhi e posò la tazza sul tavolino poco distante. «Perché non posso usare la tua? Hai paura che te la rovini?».
«Col lavoro che fai… hai più probabilità di una donna qualsiasi di distruggermela, no?».
«Sei proprio uno stronzo», mugugnò tirandogli dei pugnetti sulla spalla, per poi scoppiare a ridere quando lui la travolse in un abbraccio e provò a baciarla, trovando solo le sue guance, il suo mento e il suo collo.
«Dylan dov’è?», domandò il chitarrista mentre, sporto con il busto su di lei, le scostava i capelli dal viso.
«In bagno. A proposito…», abbassò un po’ il volume della voce, «Devo dire qualcosa a Bill?».
«Di me e Dylan che andiamo insieme in palestra?». Tom sbuffò meditabondo e si risollevò per guardare fuori dalle porte vetrate. «Qualcosa già sa, credo abbia origliato quando mi sono affacciato dal soppalco».
«Come fai a saperlo?».
Tom sogghignò e la guardò con gli occhi luminosi. «Beh, ho notato che quando sono passato accanto alla sua camera la porta era chiusa, poi quando sono tornato indietro per prendere il costume l’ho vista socchiusa».
Grace, sinceramente colpita dalla sua attenzione per i particolari, sorrise con una punta di orgoglio. Lo raggiunse e gli avvolse le braccia intorno alla vita, alzandosi in punta di piedi per poterlo baciare sul naso. «Potresti farmi da assistente detective, ormai».
«Mi piacerebbe, ma… sto bene così».
«Comunque l’ho notato anche io», disse ancora Grace, voltandosi e tornando alla chaise-longue.
Tom strabuzzò gli occhi. «Come?».
«Quando tu sei andato in camera per prendere il costume, appunto, l’ho visto lassù, nascosto dietro la parete, che osservava ed ascoltava me e Dylan».
«Non è mai stato bravo a nascondersi», commentò il gemello, abbassando gli occhi, improvvisamente velati da una strana malinconia.
«Bill è così goffo quando si tratta delle persone a cui vuole bene o a cui tiene… Cieco quando c’è da scorgerne i difetti, sordo quando bisbigliano cose cattive alle sue spalle, silenzioso e chiuso in se stesso quando soffre. Non voglio che stia male, è una cosa che non ho mai tollerato. E se andare con Dylan in palestra servirà a capire che intenzioni ha con il mio fratellino, beh… sono pronto».
Grace, presa la sua tazza, gli posò una mano sul braccio, in segno di conforto e sostegno. Gli sorrise incoraggiante e gli accarezzò una guancia, teneramente. «Magari avessi avuto un fratellone come te».
Un sorriso appena accennato aprì uno spiraglio sul volto ancora un po’ scuro di Tom, il quale le posò le mani sul collo e la baciò sulle labbra. Sapevano di caffè e allo stesso tempo erano dolci, le più dolci e morbide che avesse mai assaggiato, perché erano della ragazza di cui si era innamorato. Non che non si fosse mai innamorato prima, ma Grace… sentiva che lei era quella giusta, quella con cui passare il resto della vita. Non l’aveva capito subito, né l’aveva mai pienamente realizzato come in quel preciso momento. L’improvvisa sicurezza con cui aveva sfiorato quel pensiero gli fece tremare il cuore, ma in modo piacevole.
«Ti amo», le sussurrò a pochi centimetri dalla sua bocca, gli occhi ancora chiusi.
Grace stava per rispondere, quando sentirono qualcuno alle loro spalle schiarirsi la voce. Dylan.
«Scusate…», disse, parecchio imbarazzato. Indicò il giardino, senza osare guardarli negli occhi. «Aspetto in auto».
«Ciao Dylan», lo salutò Grace, con un sorriso idiota sulle labbra.
Il poliziotto ne rimase parecchio colpito, ma non disse nulla e si avviò lungo il vialetto.
«Mi raccomando, lo voglio ancora tutto intero!».
Alzò il pollice nella sua direzione e le sorrise, poi fece il giro dell’auto ed entrò nell’abitacolo.
«Credo di dover andare», disse Tom sospirando.
«Allora… dico la verità a Bill».
Il chitarrista annuì e la guardò negli occhi intensamente. «Lo lascio nelle tue mani».
«Stai tranquillo, me ne occupo io».
«Se vai al lavoro… stai attenta. Magari la moglie è una psicopatica e…».
Grace gli tappò la bocca, ridendo. «Smettila di dire fesserie e vai, o non arriverete più!».
Le rubò un ultimo bacio, poi uscì e con una piccola corsetta attraversò il giardino, chiuse il cancello alle sue spalle ed entrò nell’auto di servizio di Dylan.
Grace li guardò andare via sollevando un po’ di polvere sullo sterrato. Quindi fece per andare in cucina a sistemare le tazze che avevano usato per bere il caffè, ma il rumore di una porta sbattuta la fece sobbalzare. Si avvicinò alla rampa di scale che portavano al soppalco e sentì una serie di passi pesanti lungo il corridoio, come se qualcuno stesse correndo verso di lei.
«Bill?», domandò salendo i primi due gradini.
Il cantante comparve all’improvviso, facendola spaventare. Si aggrappò con forza alla ringhiera che dava sul salotto e fissò gli occhi gonfi ed arrossati in quelli della detective, la quale percepì un brivido attraversarle la schiena.
Aveva un aspetto orribile, non l’aveva mai visto così prima d’ora: così sconvolto, così arrabbiato.
«A che gioco sta giocando?», urlò Bill. La sua voce era decisamente furiosa, ma era anche sofferente, come se qualcuno lo avesse appena attaccato alla gola. «Dimmelo, Grace! A che cazzo di gioco sta giocando Dylan?!».
L’investigatrice provò a calmarlo, senza alcun risultato. Sembrava sull’orlo di una crisi isterica, si muoveva nervosamente e stringeva la ringhiera con tanta forza da farsi male alle dita. Allora salì velocemente le scale e lo travolse in un abbraccio. Si gettò addosso a lui più forte che poté, come se volesse immobilizzare un animale feroce e ferito – ciò che era in quel momento. 
Bill vacillò,
tanta era stata la potenza di Grace, e fece qualche passo indietro, completamente spiazzato. Poi si stabilizzò, capì quello che era successo e le lacrime gli solcarono le guance, inarrestabili, mentre violenti singhiozzi gli squassavano la schiena.
La detective lo strinse forte a sé e lo cullò, accarezzandogli la nuca e i capelli ancora un po’ arruffati.
«Shhh, va tutto bene, si sistemerà tutto», mormorò ed entrambi si aggrapparono disperatamente a quelle parole. Per ora non avevano altro.

 

***

 

Non ci avevano messo molto ad arrivare alla palestra in cui si allenava Dylan. Si trovava in periferia, nelle vicinanze della stazione di polizia in cui lavorava.
Durante il tragitto si erano scambiati poche parole, entrambi a disagio per la situazione in cui si trovavano. Come d’abitudine in quel tipo di frangente, avevano discusso del tempo atmosferico. Avevano sentito che sarebbe venuto a piovere nei prossimi giorni e si erano lamentati della malinconia e della noia che il tempo uggioso portava, per non parlare poi del traffico!
«È l’unica cosa che odio di Los Angeles, il traffico», aveva detto Tom, mentre erano fermi ad un semaforo.
«In Germania com’è?».
«Ce n’è molto ma molto di meno… Pensa che una volta qui siamo rimasti in coda per tre ore e abbiamo dovuto rimandare l’appuntamento dal tatuatore! Cose così in Germania capitano solo se cade un metro di neve».
Dylan aveva ridacchiato e Tom l’aveva guardato di sbieco, chiedendo: «Che cos’è che ti fa tanto ridere?».
«La neve… Io non l’ho mai vista. Com’è?».
«È neve, come vuoi che sia? Bianca, fredda, ci fai i pupazzi di neve o le palle da lanciare addosso agli amici… cose così».
Dylan aveva sorriso, annuendo, e aveva pensato che un giorno, costi quel che costi, avrebbe tirato una palla di neve addosso a qualcuno.
Lasciarono l’auto nel parcheggio sotterraneo e una volta prese le borse salirono le scale e raggiunsero l’entrata della palestra.
Dylan lo guardò negli occhi e gli sussurrò alla svelta di lasciar parlare lui, poi lo precedette ed appoggiò le braccia al bancone dietro il quale stava una ragazza carina, ma col viso un po’ squadrato e fin troppo muscolosa.
«Ehi, ciao bellezza», disse Dylan e Tom capì che lui non avrebbe dovuto essere lì. A confermarglielo, fu la stessa ragazza che gli gettò una rapida occhiata e poi si chinò un po’ verso Dylan, masticando una grossa gomma rosa.
«Lo Stato ti fa già un grande favore non facendoti pagare l’iscrizione a questa palestra perché sei uno sbirro, non pensare che tu possa portare qui i tuoi amici come e quando vuoi ad usufruire del tuo status».
«Ma dai, bellezza, lo sai che io…».
Si tirò indietro un boccolo biondo ossigenato, interrompendolo: «Ti ho già detto di non chiamarmi bellezza».
Dylan sospirò, poi all’improvviso un angolo della sua bocca si sollevò e le disse sottovoce di farsi più vicina. La ragazza, anche se sbuffando, gli porse l’orecchio. Tom notò come la sua pelle cambiasse colore man mano che Dylan le parlava: dal terra del fondotinta passò al rosso fuoco causato dall’imbarazzo.
«Allora, come la mettiamo?», le domandò il poliziotto alla fine, aggrottando la fronte con fare vittorioso.
«E va bene», acconsentì digrignando i denti.
Dylan si voltò verso Tom e lo prese per un gomito, accompagnandolo verso gli spogliatoi.
«Ma questa è l’ultima volta, stanne certo!», concluse la ragazza, urlandogli dietro.
«Grazie, bellezza!», urlò lui di rimando, alzando una mano.
Tom non ebbe l’occasione di chiedergli che cosa le avesse detto per farla cedere, perché solo durante il tragitto per raggiungere gli spogliatoi avevano incontrato parecchi colleghi di Dylan che l’avevano salutato, seppure con qualche tentennamento – o almeno così parve a lui. Ci fu un solo “temerario” che lo fermò per chiedergli come stesse e in che quartiere dell’Eastside stesse lavorando in quel periodo.
Tom si appuntò mentalmente di chiedergli anche il motivo di tutta quella paura nel rivolgergli la parola.
Dylan lanciò la propria borsa su una panchina libera ed iniziò a togliersi la camicia dell’uniforme, slacciando velocemente i bottoni. Tom, che era già in tuta e nella borsa aveva il cambio per dopo, si sedette poco distante da lui e lo osservò. Il suo viso si era improvvisamente oscurato, i suoi occhi velati e diverse rughe d’espressione gli solcavano la fronte.
«Spero tu non ti sia creato dei problemi solo per farmi venire qui gratis», disse allora, per smorzare la tensione e distrarlo da ciò che sembrava turbarlo tanto.
«Uhm? Oh no, nessun problema», rispose Dylan, mentre apriva un armadietto numerato e ci metteva dentro il cellulare, il portafoglio, le chiavi dell’auto e quelle di casa.
«Tu puoi usare questo qui di fianco se ti serve», gli disse aprendoglielo.
Tom allora lo imitò, ma non abbandonò l’argomento. «Che cosa le hai detto per convincerla?».
Dylan accennò un sorriso e si infilò una maglietta grigia e piuttosto aderente. «Le ho semplicemente detto che sarei andato a dire a tutti che si fa di steroidi».
Tom strabuzzò gli occhi. «Cioè, l’hai minacciata?!».
«Non essere così tragico! Non l’avrei mai fatto. Comunque lei tiene molto al suo fisico, se qualcuno scoprisse che si fa di steroidi…», corrugò la fronte e finì di cambiarsi, infilandosi un paio di pantaloncini.
Tom vide passare davanti a loro, oltre le due file di armadietti che li costeggiavano, due uomini, forse anche loro colleghi di Dylan, che li guardarono e subito si misero a parlottare fra loro, sorpresi quanto indignati.
Quando li perse di vista, il chitarrista aprì la bocca per chiedere al poliziotto che cos’avessero tutti contro di lui, ma proprio Dylan disse: «Bene, io sono pronto. Andiamo?».
Tom lo fissò, domandandosi se lui si fosse accorto degli sguardi che tutti gli rivolgevano, poi annuì con un sorriso mesto sulle labbra.
Entrarono nella sala con le macchine, una delle più grandi che Tom avesse mai visto, e per un attimo rimase ad osservare tutti gli omoni muscolosi che si stavano allenando ai pesi, piuttosto che con altre strane attrezzature di cui non immaginava nemmeno l’esistenza.
«Vuoi startene lì impalato ancora per molto?», gli domandò Dylan divertito, facendolo tornare alla realtà.
Tom arrossì e provò a nasconderlo masticando un insulto, poi lo raggiunse e discussero sulla scelta delle macchine con cui allenarsi. Alla fine non riuscirono a giungere ad un compromesso: ognuno avrebbe fatto quelle che riteneva più congeniali a se stesso.
Iniziarono ad allenarsi, tenendo come ritmo due minuti per macchina – semmai ci sarebbero tornati su più avanti – e Tom lo osservò più o meno per tutto il tempo, notando con quanta forza e determinazione si allenasse, senza badare a nient’altro. Non era solo forza quella che ci metteva, a suo avviso, ma anche una certa dose di rabbia e frustrazione. Era certo che se Dylan avesse avuto a disposizione un sacco da boxe – al momento tutti occupati – l’avrebbe distrutto.
Ad un certo punto si rese conto che Dylan si era voltato a guardarlo. I loro sguardi si incatenarono e il poliziotto, con fare arrendevole, si avvicinò a lui, apparentemente per fare degli esercizi con i pesi, in realtà per iniziare la conversazione che temeva tanto quanto ne aveva bisogno. D’altronde era il motivo per il quale aveva chiesto a Tom di andare con lui in palestra, per parlare.
«Bill ti ha già detto quello che è successo?», gli domandò all’improvviso e con tono distratto, anche se pronunciare quella frase gli era costata molta fatica e tutt’ora sentiva il sudore bagnargli la schiena. Aumentò il ritmo con i pesi.
Tom, seduto comodamente sulla leg-press, in pausa, guardò il soffitto illuminato da strisce di luci al neon con espressione meditabonda, poi si voltò verso di lui ed accennò un sorrisino più amaro di quello che avrebbe voluto.
«Non ho ancora avuto l’onore di esserne informato, no».
Dylan posò i pesi e si sollevò la maglietta per asciugarsi il viso imperlato di sudore. Tom poté vedere la tartaruga scolpita sul suo ventre e gli tornarono alla mente le parole che Grace scherzosamente aveva detto adulando l’aspetto fisico del poliziotto. Col viso arrossato, un po’ di gelosia e un po’ di imbarazzo, tolse la sicura ed iniziò a spingere su e giù coi piedi la pressa caricata con venti chili.
«Vuoi prima la sua versione dei fatti?».
«Non penso che faccia molta differenza», rispose il chitarrista, un po’ affaticato. «Però più che raccontarmelo, sembra che tu voglia confessarti e sappi che io non sono proprio la persona adatta. Ci sono i preti per questo tipo di cose».
Il poliziotto respirò profondamente ed abbassò gli occhi, giusto il tempo di trovare la determinazione che lo aveva sempre contraddistinto sul lavoro. «Non penso di aver fatto alcun peccato, se questo è quello che credi. Piuttosto, vorrei soltanto parlarne con qualcuno, qualcuno che non sia Grace, e la prima persona che mi è venuta in mente sei stato tu».
Tom si fermò di colpo e mise velocemente la sicura, con la paura che la pressa potesse cadergli addosso e schiacciargli le ginocchia contro il torace. Si tirò su, coi muscoli dei polpacci ancora un po’ tremanti per lo sforzo, e guardò Dylan negli occhi, più serio che mai.
«Io?», si indicò, scettico. «Io sarei la prima persona che ti è venuta in mente dopo Grace? Scommetto che hai fior di amici nella polizia! Per esempio, come si chiamava il tuo partner? Aspetta…».
«Oswin», gli suggerì.
«Ecco, lui! Perché non ne hai parlato con lui?».
Il sorrisino teso ed intriso di malinconia del poliziotto lo colpì, tanto che per un attimo si maledì per aver pronunciato quelle parole in modo così brutale.
Dylan appoggiò i pesi al loro posto, si asciugò ancora una volta il viso e si sedette sulla macchina accanto a quella su cui era seduto Tom. Si guardò intorno e appena incrociò gli occhi di un suo collega, questo li spostò immediatamente.
«Hai notato come tutti quelli che mi vedono evitano di guardarmi in faccia?».
Tom, che aveva seguito il suo sguardo per tutto il tempo, annuì lentamente, mentre qualcosa gli mordeva lo stomaco. Eccome, eccome se se n’era accorto!
Il poliziotto appoggiò i gomiti alle ginocchia e si chinò un po’ in avanti per potergli parlare a bassa voce.
«Stanotte, era appena iniziato il mio turno alla centrale, ho detto ad Oswin quello che era successo quel pomeriggio con Bill. Ho fatto una specie di scenata a dir la verità e parecchi dei miei colleghi mi hanno sentito. A quanto vedi, le notizie si diffondono velocemente. Se poi si tratta di un poliziotto gay, la cosa è ancora più rapida».
«Ma tu non sei…», provò a ribattere il chitarrista, ma si interruppe. Come poteva dire che Dylan non fosse gay, se provava qualcosa per suo fratello? La loro situazione era complicata e lui conosceva Dylan abbastanza da dire che era stato un cambiamento repentino e scioccante, ma per chi invece era estraneo a tutto? Si mise nei panni dei suoi colleghi e si disse che avrebbe pensato subito che era gay.
«Vedi, è matematico», disse Dylan con un sorrisetto strafottente. «E Oswin non si è comportato diversamente».
Tom levò lo sguardo, stupefatto. «Cosa? Non ci credo».
«È la verità. Si è rifiutato di guardarmi per tutta la durata del turno». Si alzò e si diresse verso la panca addominali. «Dire che da lui non me lo sarei mai aspettato è dir poco».
Il chitarrista restò muto per un po’, con lo sguardo fisso su Dylan che si sollevava con le mani dietro la nuca e che con i gomiti si toccava le ginocchia.
Alla fine si alzò e lo raggiunse, si appoggiò al muro con una spalla, le braccia incrociate al petto, e disse: «Cosa hai visto nei suoi occhi?».
Dylan lo guardò confuso, rimanendo stupito dalla luce che come una fiamma gli brillava nello sguardo. Sul viso aveva un’espressione che incuteva un po’ di soggezione, c’era qualcosa di perverso e di sofferente nell’angolo destro della sua bocca, sollevato all’insù come se fosse un mezzo sorriso mal riuscito.
«Io… ho letto vergogna e forse anche una punta di disprezzo, non ne sono sicuro. Ma la prima cosa che ho pensato è che mi stesse giudicando come un “finocchio di merda”, senza offesa».
Tom parve soddisfatto della risposta e il suo sorriso si allargò in modo naturale. «Strano che tu abbia usato proprio quest’espressione: è quella che io e Bill ci sentivamo dire in continuazione quando avevamo undici anni. E non perché lo eravamo o avevamo fatto qualcosa che potesse farlo credere – e che, anche se fosse, non sarebbe stato sbagliato in ogni caso. Solo perché eravamo diversi e ci distinguevamo dalla massa».
Dylan, scioccato, si mise a sedere e guardò quel ragazzo duro ed orgoglioso di sé ora quasi sull’orlo delle lacrime, con gli occhi rivolti verso la finestra. Ancora una volta, riuscì a colpirlo profondamente.
«Ogni giorno non potevamo passare in mezzo ai nostri compagni in corridoio senza essere insultati da qualcuno, senza essere guardati in modo sprezzante. Quante volte, fuori dalla scuola, ci siamo messi a correre sotto la pioggia o sotto la neve per non venir picchiati dai bulli, solo perché dicevano che eravamo strani e ci chiamavano “finocchi di merda”? Quante volte… quante volte sono tornato a casa sporco di terra e di sangue, con i lividi sulle braccia e sulla schiena per le botte che avevo preso anche per Bill, per difenderlo? E noi ci chiedevamo che cosa avessimo fatto di male per meritarci tutto quello… E ogni volta la risposta era: niente».
Dylan aprì la bocca per dire qualcosa, ma non uscì alcun suono. Non sapeva nemmeno che cosa dire! Non conosceva nulla, in effetti, del vero passato di quei due gemelli esuberanti che erano entrati nella sua vita come un tornado a causa di Grace. Non ne sapeva nulla e non avrebbe mai immaginato una storia così tormentata alle loro spalle. E quello che più lo sconvolgeva era la sensazione che quella che gli aveva appena raccontato Tom fosse solo una piccola parte di tutto ciò che avevano dovuto passare prima di arrivare fino a dove erano adesso.
«Nonostante questo», riprese senza più lacrime negli occhi, «io e Bill abbiamo sempre saputo chi eravamo e abbiamo sempre affrontato tutto a testa alta. A volte abbiamo sbagliato, abbiamo reagito in modi completamente diversi… Sai a quanti anni ho perso la verginità?».
Dylan arrossì per la domanda e non era sicuro di volerlo sapere, di volersi imbattere in qualcosa di più grande di lui, ma alla fine scosse il capo con serietà.
«Oh, ero solo un ragazzino. Tredici anni? Sì, credo tredici. Con una ragazza più grande, una un po’ spostata credo. Quando l’ho raccontato a Bill, lui mi ha dato del pazzo. E sai che cosa gli ho risposto io?».
Dylan scosse ancora il capo e Tom contorse di nuovo la bocca in quel mezzo sorriso maligno.
«Magari i nostri compagni adesso la smetteranno di dire che sono un finocchio. Gli ho detto proprio così, me lo ricordo nitidamente». Tom si sedette accanto a lui con uno scatto rapido, che lo fece quasi sussultare. «Capisci? Mi sono fottuto la mia prima volta con una che… solo perché volevo che i nostri compagni smettessero di chiamarci in quel modo. Questa cosa… mi ha segnato così tanto che quando siamo diventati famosi con i Tokio Hotel e abbiamo iniziato a fare concerti, a girare per la Germania e poi per l’Europa… io ho continuato. E dentro di me, ogni volta che mi fermavo a riflettere e non riuscivo più a contare tutte le ragazze che mi ero scopato e che non valevano nulla per me, dicevo: Adesso che cosa direbbero quei pezzi di merda?».
Il poliziotto lo fissò in silenzio, poi sentì se stesso dire piano: «Ma adesso tu non sei così». Non aveva nemmeno pensato di dire quelle parole.
«No, grazie a Dio!», disse e si passò una mano sul viso, ridacchiando. «Bill, come avrai capito, non ha mai approvato il mio comportamento. Il fatto è che lui è sempre stato più forte, sempre, e io non me ne sono mai accorto. Essere forti non significa prendersi anche le botte che sarebbero spettate a tuo fratello ed uscirne piuttosto bene, l’ho capito solo col passare del tempo. Me n’è servito fin troppo, se devo essere sincero… Ho capito me stesso solo qualche anno fa, finalmente ho capito chi ero veramente».
Dylan, le spalle ricurve come se un po’ del peso che Tom si era sempre tenuto da solo sulle spalle fosse caduto su di lui, guardò il pavimento e rifletté su tutto ciò che gli aveva raccontato, in via del tutto spontanea.
«Perché?».
«Uhm?». Tom sollevò il capo e lo fissò.
«Perché mi hai detto tutte queste cose?».
«Mi sono lasciato un po’ andare, dici? Erano anni che non ne parlavo con qualcuno. Forse avevo bisogno anch’io di sfogarmi un po’. Forse volevo solo dirti che non devi ascoltare quello che dicono gli altri, ma te stesso. Però non vorrei filosofeggiare troppo, non è decisamente il mio mestiere».
Si alzò dalla panca tenendo le mani sulle ginocchia e si guardò intorno, alla ricerca della prossima macchina con cui allenarsi.
«Che cosa mi consigli, qualcosa per i pettorali?», si tastò il petto, all’altezza dei capezzoli. «Sarebbe un incubo se da vecchio mi trovassi con le tette flosce».
Dylan lo guardò e non riuscì a trattenere una risata, a cui si unì anche il chitarrista.

 
Seduto alla Lat machine, quella per i muscoli dorsali, Dylan gli raccontò tutto quello che era successo con Bill e poi con Oswin, con tutti i dettagli che riuscì ad inserire nella propria narrazione. Quando finì si sentì svuotato, più leggero, e per questo accennò un sorriso a Tom, che in silenzio non aveva mai distolto lo sguardo da lui. O era davvero un ottimo ascoltatore quando voleva oppure aveva dovuto concentrarsi per forza, altrimenti non avrebbe capito niente dato che il suo inglese-americano ogni tanto si mescolava alla sua lingua madre, lo spagnolo.
«Quindi vi siete baciati, tutto qui», esclamò alla fine il chitarrista, le braccia incrociate al petto.
«Beh, dici niente», borbottò il poliziotto, portando con più forza la sbarra di fronte al petto.
«Sto cercando di immaginare un motivo per cui Bill si sia spostato, perché ormai mi è chiaro che gli piaci ed aspettava solo che tu ti facessi avanti, ma non riesco… A meno che…».
«Che cosa?».
«Non so, magari è una cavolata…».
Dylan gli disse qualcosa, «Dimmelo comunque» o una cosa del genere, ma Tom non gli prestò molta attenzione perché Oswin, proprio quell’Oswin, il partner sul lavoro di Dylan, era appena entrato nella sala e li aveva già avvistati. Il chitarrista notò subito la sua espressione stupefatta e gli venne voglia di rispondere con una smorfia di disgusto per come Dylan gli aveva detto che aveva reagito quando si era confidato con lui, ma alla fine lasciò perdere e disse semplicemente al poliziotto: «Abbiamo compagnia».
Dylan, colpito dalla severità del suo sguardo, si voltò e vide Oswin che si avvicinava a loro.
«Oh perfetto», bofonchiò e si alzò dalla macchina, asciugandosi le mani sudate sui pantaloncini.
Oswin li raggiunse e rivolse un breve sorriso ad entrambi. «Ciao Dylan, ciao… Tom, giusto?».
«Sì», disse il chitarrista, stringendogli la mano.
«Piacere, io sono Oswin, il…».
«Sì, sa chi sei», lo interruppe Dylan e il compagno gli rivolse uno sguardo duro, quasi di rimprovero per la sua maleducazione.
Tom decise che non era proprio il caso di restarsene lì e disse, rivolgendosi a Dylan: «Vado a cambiarmi. Tanto abbiamo finito, vero?».
«Sì, vai pure. Ci vediamo nell’idromassaggio».
Gettò uno sguardo di saluto ad Oswin, il quale ricambiò con un cenno del capo, poi si allontanò.
Una volta negli spogliatoi, aprì l’armadietto in cui aveva lasciato la borsa e i suoi effetti personali. Prese l’asciugamano e se lo passò sul viso e sul collo, quindi prese il cellulare e controllò di non aver ricevuto chiamate.
Stava per chiamare Grace e sapere se avesse già avuto modo di parlare con Bill, quando un uomo che aveva visto poco prima allenarsi alle macchine aprì un armadietto non lontano dal suo e gli rivolse la parola, incuriosito: «Tu sei un amico di Dylan?».
«Sì, e allora?», domandò Tom, arricciando il naso come se avesse già sentito le battute seguenti.
«Io starei attento, se fossi al tuo posto: gira voce che sia diventato gay!».
Tom digrignò i denti e ricacciò l’asciugamano nella borsa, respirando profondamente.
«E dove sta il problema?», domandò nel modo più tranquillo possibile.
«Oh, scusa amico, non credevo che anche tu…».
«Io non sono gay, ma non capisco comunque dove stia il problema nell’esserlo!», gridò e si girò, il viso arrossato e le vene gonfie sul collo.
«Ehi, datti una calmata», rispose bruscamente l’uomo, rivolgendogli uno sguardo truce.
«Mike, è tutto a posto?», chiese un altro uomo comparso all’improvviso oltre le due file di armadietti, guardando prima l’amico e poi lui.
Per un attimo Tom ebbe paura che quel Mike rispondesse di no e, insieme all’amico, gliele suonassero di santa ragione, ma l’uomo respirò a fondo e disse: «Sì, tutto a posto. Adesso arrivo». Dopodiché si voltò, prese la sua borsa dall’armadietto, che chiuse sbattendone l’anta di metallo, e raggiunse l’amico.
Tom attese che voltasse l’angolo, poi si lasciò andare ad un respiro di sollievo e si sedette sulla panchina dietro di lui, i gomiti sulle ginocchia e l’asciugamano intorno al collo.

Idiota, che ti è preso?
si disse e chiuse gli occhi, ma rivide soltanto i suoi vecchi compagni di scuola che prendevano in giro sia lui che Bill, insinuando proprio che fossero gay.
Scosse il capo con vigore per mandar via quelle immagini che gli avevano affollato la mente e tornò al suo proposito iniziale: chiamare Grace.

 

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Buongiorno! :D
Come avete intuito, questo capitolo era tanto lungo da costringermi a dividerlo in due parti. Che ve ne pare della prima? ;)
Abbiamo visto un Tom diverso, a tratti più maturo (e ci tengo a precisare ancora una volta che tutto quello che scrivo sui Tokio Hotel, sui gemelli, ecc. è solo frutto della mia fantasia e non intendo dare loro caratteristiche che nella realtà magari nemmeno hanno; quindi, anche la storia della loro infanzia, della prima volta... tutta roba mia, una specie di teoria che mi sono fatta u_u). Ma un Tom anche protettivo nei confronti del suo gemello, sempre più convinto dell'amore che prova per Grace e soprattutto si è anche dimostrato un buon amico per Dylan - chi l'avrebbe mai detto? xD - al contrario di Oswin.
Per quanto riguarda Dylan, per lui è tutto complicato e confuso... spero di aver reso bene l'idea del suo sconvolgimento interiore, anche se mi rendo conto che ne so ben poco in merito. Penso comunque che sia davvero una cosa, capire di essere "diversi" (tra virgolette perchè essere chiamati gay, lesbiche, bisex, etero, per me non fa alcuna differenza: l'amore è amore!) da come si pensava di essere, sbatterci la testa contro come ha fatto Dylan, non deve essere sicuramente facile e si deve essere fragili.... Beh, detto questo (mia opinione personale, spero di non aver fatto strafalcioni) anche Bill non se la passa benissimo e tra una settimana vedremo come Grace si è occupata di lui! :)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, anche questo è nella mia Top 10 dei preferiti, e ringrazio coloro che hanno sempre tempo di lasciare una recensione! Grazie di esserci sempre, è importante avere i vostri pareri :) Ringrazio tuttavia anche chi legge soltanto e chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate.
(Bene, ho scritto un poema. Chiedo perdono ._.) A domenica prossima, un bacione! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 20
*** Capitolo 18 - Parte 2 ***


Capitolo 18 – Parte 2

 

Grace, col suo laptop sulle gambe, ascoltò il rumore del risucchio che Bill stava facendo. Lo guardò con la coda dell’occhio e lo vide sforzarsi con la cannuccia fra le labbra per catturare sino all’ultima goccia del suo caffè alla cannella.
«Ti do’ fastidio?», domandò il cantante, accorgendosi del suo sguardo.
«No. Speravo soltanto che prima o poi capissi da solo che è finito».
Bill ridacchiò ed incastrò il bicchiere di carta vicino al cambio, dove c’era già quello di Grace.
«Dobbiamo stare qui ancora per molto?», le domandò dopo qualche secondo di silenzio.
Grace sorrise. «Te l’avevo detto che ti saresti annoiato».
«È vero, ma non pensavo che fosse così noioso pedinare qualcuno!».
«Che cosa ti aspettavi, precisamente?».
«Che ne so… qualche inseguimento spericolato, qualche cosa di più movimentato, insomma!».
«Beh, mi dispiace molto di aver deluso le tue aspettative. Però almeno hai avuto la possibilità di sperimentare che cosa provavo io quando ero pagata per seguirvi ovunque andavate».
«Io sarei morto di noia, credo».
Si scambiarono uno sguardo e non poterono fare a meno di ridere.
Grace era felice di averlo portato con sé al lavoro: sembrava stare meglio, che si fosse ripreso dal crollo di nervi che aveva avuto quella mattina.


«Calmati Bill, per favore».
Il cantante, ancora squassato dai singhiozzi che non ne volevano sapere di lasciarlo respirare correttamente, si lasciò condurre fino al divano letto del soppalco, su cui Grace lo fece sedere con delicatezza, ancora tenendolo stretto a sé.
«Ehi, la vuoi smettere di piangere? Non serve a nulla…».
«Lo so», mugugnò Bill, stropicciandosi il viso e tirando su col naso proprio come un bambino. «Ma è l’unico modo che ho per sfogarmi».
«Okay, allora sfogati una volta per tutte, perché non ho intenzione di vederti ridotto in questo stato un’altra volta. Mi hai fatto così spaventare…».
«Scusa, non volevo».
Grace gli rivolse un sorriso dolce e gli passò una mano fra i capelli. «Adesso va un po’ meglio?».
Lui annuì con un cenno del capo.
«Ti va di raccontarmi che ti è preso?».
«Io… sono stanco, nervoso, in subbuglio… voglio che le cose con Dylan si stabilizzino, in un modo o in un altro, perché così non posso più andare avanti».
Dopo un po’ di silenzio, giusto il tempo di soffiarsi il naso con un fazzoletto e riordinare le idee, il frontman iniziò a raccontare le cose dall’inizio, partendo cioè da quello che era successo il giorno prima: il loro bacio. Le raccontò della sua reazione, dei suoi successivi ragionamenti, della sua felicità in contrasto con la frustrazione di sentirsi un po’ il suo pupazzo, con cui giocare solo quando voleva lui… Quando finì, si sentì svuotato e si lasciò andare ad un sospiro, accucciandosi con la testa sulla spalla della detective, che prese ad accarezzargli i capelli su una tempia.
«Ora capisco molte cose», mormorò lei, un sorriso mesto sulle labbra. «Dovete parlarne, è l’unica cosa che potete fare. Lui deve trovare la forza per spiegarti i suoi sentimenti, provare a fare chiarezza dentro di sé…».
«Ecco», approvò con un mugugno.
«E tu, invece, devi cacciare sotto le scarpe questo tuo fare da dodicenne alla prima cotta ed agire in modo razionale, senza fare scenate e senza  vuoti di memoria improvvisi. Hai capito? Nemmeno tu puoi più permetterti di giocare, è una cosa seria».
«Ma è lui, è lui che mi mette nel pallone e non ci capisco più niente!».
Grace lo guardò negli occhi e gli soffiò un po’ d’aria in faccia, facendogli chiudere gli occhi. «Devi iniziare a tenere a bada i tuoi ormoni impazziti, allora».
«Fosse facile…».
«Oh, so che ce la farai benissimo. D’altronde sei il fratello di Tom, devi pur somigliargli in qualche modo!».
«Perché, lui tiene a bada i suoi ormoni impazziti?».
Grace si morse le labbra. «Okay, forse non nel senso che pensi tu, ma… Insomma Bill, devi tirar fuori l’uomo che è in te ed affrontare la questione una volta per tutte, senza scappare o dimenticarti persino come ti chiami».
«Va bene, ci proverò. Ma ora mi spieghi che cosa significa che Tom e Dylan sono andati in palestra insieme?!».


«Comunque ancora un po’ di pazienza e se le informazioni che il signor Phillips mi ha dato sono corrette, sua moglie dovrebbe iniziare la pausa pranzo tra dieci minuti», spiegò la detective.
«E noi che cosa dovremmo fare, guardarla mentre mangia?».
Grace si voltò verso il cantante e per un attimo adorò l’espressione ingenua che gli si era dipinta sul viso, rendendolo anche un po’ buffo. Poi disse, trattenendo a stento una risata: «Oh insomma, Bill, non sai proprio niente sui tradimenti? È stato dimostrato statisticamente che
almeno un adulterio su tre viene consumato fra mezzogiorno e mezzo e le due e mezzo del pomeriggio, cioè l’ora in cui si stacca dal lavoro per andare a pranzare».
«Veramente? È assurdo! E non si mangia?».
Grace sgranò gli occhi, incredula: la sua unica preoccupazione era davvero la rinuncia del pranzo? Scoppiò a ridere di gusto, passandogli una mano fra i capelli e poi sulla guancia.
«Sei adorabile, Bill».
Il cellulare dell’investigatrice iniziò a vibrare sul cruscotto, producendo un rumore secco e fastidioso. Bill glielo passò e Grace sorrise dopo aver letto il nome di Tom sul display. «È tuo fratello», disse, poi rispose: «Ehi».
Bill si avvicinò al suo orecchio per sentire la conversazione, cosa che fece sorridere la detective.
«Ciao Grace, tutto bene?».
«Sì, tutto okay. Tu, hai già finito di allenarti o ci hai rinunciato?».
«Ah-ah, spiritosa… Mi sono preso una pausa, anzi è stato Oswin ad interromperci a dire la verità… è una lunga storia, ti racconterò meglio a casa».
«Uhm, va bene. Ma…», gettò un’occhiata al frontman, che chiuse gli occhi ed annuì mestamente, dandole il suo consenso di parlare di Dylan. «Lui come sta?».
«Eh… è un po’ complicata la situazione, in realtà. Non se la sta passando affatto bene, questo è certo. Non solo per Bill, ma anche per un’altra cosa che è successa al lavoro da lui che ti racconterò…».
«Niente di grave, mi auguro».
«Non so per cosa intendi tu per grave, però… pff, appena arrivo a casa ti racconto tutto, davvero».
«Non so se sto a pranzo da voi, ho preso l’auto di Bill e ho già iniziato il pedinamento, quindi… Però stasera mamma vi vuole a cena, non potete rifiutare».
«E va bene, ci saremo… Ma allora sei già per strada? Stamattina hai parlato con Bill, come stava?».
«Sì, io…».
«Ciao Tomi!», lo salutò il frontman, avvicinando la bocca al microfono del cellulare.
Il silenzio che ne susseguì fece gelare il sangue nelle vene di Grace, la quale guardò il cantante con un misto di rimprovero e di paura negli occhi.
«Grace, tu hai portato Bill a fare un pedinamento?», domandò Tom con voce pacata, fin troppo pacata.
«Ehm… sì. Ma me l’ha chiesto lui, non voleva restare a casa da solo! E poi non c’è di che preoccuparsi, non gli succederà niente, hai la mia parola!».
«Passamelo», sussurrò Bill stendendo una mano verso di lei. Grace gli passò volentieri il cellulare e si strofinò le mani sui jeans, lo sguardo fisso di fronte a sé.
«Ciao Tom», disse Bill non appena ebbe il cellulare premuto contro l’orecchio. «Grazie. Grazie mille».
Grace provò ad ascoltare quello che gli rispose Tom, ma non ci capì molto e allora si occupò del laptop che aveva ancora sulle gambe, dove aveva aperto il documento Word del caso Phillips. Rilesse ancora una volta le informazioni principali, facendo mente locale dei prossimi possibili spostamenti della signora Phillips, quando finalmente Bill rispose: «Davvero Tom, non ti preoccupare troppo per me, non mi capiterà niente con Grace, te lo posso assicurare: mi sto annoiando a morte!». Entrambi ridacchiarono. «Ah, mi dispiace non averti detto subito quello che era successo con Dylan, ma… prometto che dopo ti racconterò tutto. Sì. Va bene, ciao Tomi. Ciao». Pose fine alla chiamata e passò il cellulare a Grace. «Ti saluta», le disse sorridendo.
«Era arrabbiato con me?».
«No, stai tranquilla».
Bill portò lo sguardo oltre il parabrezza e vide una donna dai lunghi capelli castani, raccolti in una coda alta, uscire dall’edificio in cui si trovavano gli uffici dell’impresa per cui lavorava come impiegata.
«Ehi, ma quella non è la donna che stiamo pedinando?».
Grace si voltò di scatto, seguì la traiettoria del suo sguardo e le bastò un’occhiata per rispondere in maniera affermativa. Chiuse il laptop e lo passò a Bill per prendere la macchina fotografica che aveva a portata di mano e fare qualche scatto, giusto per eventualmente ricostruire il percorso della signora Phillips. Quindi fece manovra per uscire dal parcheggio e mantenendo una distanza di sicurezza seguì l’auto della donna.
«Dove credi stia andando?», domandò Bill dopo un po’, sempre più incuriosito.
Grace scosse il capo, tamburellando le dita sul volante di pelle. «Troppo lontano per trascorrere una normale pausa pranzo».
«Magari il suo ristorante preferito è dall’altra parte della città», provò a difenderla il cantante, nonostante sentisse di star camminando su un terreno molto friabile.
Ancora una volta, il suo atteggiamento fece sorridere la detective. Magari fosse stato davvero così! Purtroppo la signora Phillips lasciò l’auto nel parcheggio di un hotel, anche se un hotel a quattro stelle molto rinomato, ed entrambi persero le speranze che fosse innocente.
Grace fece il giro dell’isolato per non dare sospetti e alla fine parcheggiò l’Audi all’incrocio della via in cui si trovava l’hotel.
«Allora», esordì voltandosi verso il cantante e guardandolo negli occhi.
«Me ne sto qui buono, ho capito», la precedette lui, annuendo mestamente col capo.
Grace sorrise e gli accarezzò una guancia. «Bravo. Non dovrebbe succedere nulla di particolare, ma se per caso dovessi notare qualcosa di strano non esitare a mandarmi un SMS. Lo stesso farò io se mi capitasse qualche imprevisto. Siamo intesi?».
«Intesi».
«Okay».
Grace scese dall’auto, lasciando le chiavi al cantante, e risalì la strada con le mani nelle tasche, guardandosi intorno. Si fermò di fronte l’entrata dell’hotel e notò che il palazzo di fronte aveva molte finestre che davano sulla strada e da cui, quindi, si sarebbe potuto, con le attrezzature giuste, guardare proprio all’interno delle camere dell’hotel.
Finalmente entrò nella hall dell’albergo e si guardò intorno, ammirando gli arredi e il tipo di persone che lo frequentavano. Sicuramente non le stesse che avrebbe trovato in un motel, ma nemmeno quelle che appartenevano alla cerchia sociale della signora Phillips: lei era una semplice impiegata e suo marito non guadagnava di certo così tanto da potersi permettere il lusso di pagare una camera in un hotel a quattro stelle chissà quante volte a settimana a sua moglie. Ciò che ne dedusse fu che probabilmente era il suo amante a pagare per lei.
«Buongiorno signorina, posso aiutarla?».
Grace si voltò verso il receptionist dietro il bancone, ricambiò il suo sorriso cordiale e si avvicinò.
«Salve, è lei il capo ricevimento?».
«Sì, proprio io», rispose lisciandosi la cravatta sul petto.
«Oh, dev’essere il mio giorno fortunato! Volevo chiederle qualche informazione su questo hotel, se non le dispiace. Sa, ho visto il vostro sito Web e mi è stato consigliato da molti amici, lodato per l’eleganza e per l’ottima ospitalità, ma io non vado mai in un posto senza prima essermi accertata che tutto corrisponda alla realtà… come dire, se non vedo non credo».
L’uomo si gonfiò il petto di tutti quei complimenti e persino le sue gote si fecero più rosse, manco fossero stati rivolti a lui.
«Sarò ben felice di rispondere a qualsiasi sua domanda, signorina».
Grace lo tempestò davvero di domande, chiedendogli tutto ciò che le veniva in mente e lasciandosi trasportare tranquillamente in quella conversazione che serviva solo per farle guadagnare tempo e qualche simpatia. Arrivò persino ad un certo punto chiedendosi per quanto avrebbe ancora potuto reggere quella commedia, in attesa che la signora Phillips le desse una chance di sapere in che stanza fosse senza chiedere direttamente al capo ricevimento, cosa che l’avrebbe messa in antipatia perché erano informazioni riservate.
Non ne poteva proprio più, quando il telefono dietro il bancone squillò e l’uomo rispose. Fu una conversazione breve, durante la quale lui aveva detto pressoché un paio di parole e l’aveva sempre guardata sorridendo. Una volta terminata, si scusò ancora e chiamò un numero interno.
«La signora Phillips mi ha chiamato perché non è ancora arrivato il servizio in camera, è successo qualcosa?».
Grace, nonostante fosse estremamente più attenta, prese una brochure dell’hotel e la sfogliò svogliatamente.
«Uhm, fate in fretta. Sì, camera 409! Sono mesi che viene qui, ancora non l’hai imparato? Va bene, ciao, ciao». Posò la cornetta e le rivolse l’ennesimo sorriso, dicendo: «Mi scusi signorina, sono cose che capitano però».
«Ma certo, si figuri… Senta, non ho proprio potuto fare a meno di ascoltare e…», fece finta di guardarsi intorno, allarmata, poi si avvicinò all’uomo sporgendosi sul bancone. «Lei ha detto che questa signora Phillips viene qui da mesi, mi pare un po’ strano… non è che in questo hotel ci sono servizi, sa cosa intendo, per adulti…».
«Oh! Oh no, no assolutamente signorina! Il nostro è un hotel molto prestigioso, non permetteremmo mai che vi fossero cose del genere…».
«No, perché sa, adesso anche questi servizi costano e sono veramente molto discrete le signorine che…».
«No, le assicuro al cento per cento che il nostro albergo non si è mai macchiato di questa fama».
«Questo mi rincuora», gli sorrise. «Allora grazie infinite, davvero. Riceverà sicuramente una mia prenotazione, mi ha proprio conquistata. L’albergo, ovviamente».
«Non avevo dubbi, signorina! Grazie a lei e buona giornata!».
Uscì dall’hotel sbattendosi la piccola brochure sul palmo aperto della mano, un sorriso soddisfatto sulle labbra.
Tornò a passo svelto alla macchina e trovò Bill che stava ascoltando annoiato delle canzoni alla radio. Non appena la vide sobbalzò e le rivolse uno sguardo assassino.
«Quanto diavolo ci hai messo?! Stavo iniziando a temere che ti fosse successo qualcosa!».
«Scusami, mi ci è voluto un po’», rispose chiudendo la portiera e sistemandosi il laptop sulle gambe.
Aprì il motore di ricerca, cercò il sito dell’hotel e confrontò la piccola planimetria dell’albergo stampata sulla brochure con quella ingrandita sul PC.
«Che cosa stai guardando?», domandò Bill, sporgendosi.
«Con un po’ di fortuna, magari…», biascicò lei in risposta, per poi rivolgergli uno sguardo luminoso. «La stanza della signora Phillips si trova al quarto piano e ha una finestra che dà proprio sulla strada. Hai capito cosa vuol dire?».
«Uhm… no».
Grace sbuffò lievemente, poi gli spiegò: «Di fronte all’hotel c’è un condominio, non troppo alto, da cui posso sperare di poter fare qualche foto all’interno della camera!».
Bill si sistemò meglio sul sedile, guardando l’auto parcheggiata di fronte alla loro in silenzio.
«Grace, ma sei sicura che fare l’investigatrice privata sia legale?».
La detective accennò una risata. Girò le chiavi nel cruscotto e il motore dell’Audi prese vita con un dolce ruggito. Quell’auto era davvero bella, ma quanto le mancava il suo fuoristrada!
Raggiunse il retro dell’edificio di fronte all’hotel, scese dall’auto e prese dai sedili posteriori la borsa con tutta la sua attrezzatura.
«Bene. E adesso io che cosa dovrei fare?», chiese il cantante, sceso a sua volta dall’auto per sgranchirsi un po’ le gambe.
«Vai a casa, ovvio».
Bill strabuzzò gli occhi. «Come? Ti dovrei lasciare qui da sola?».
«Devo solo fare delle foto, ti annoieresti da morire e mi annoierei anche io nel sentire le tue lamentele».
Gli accarezzò affettuosamente una guancia, passandogli accanto per raggiungere la scala antincendio che portava fino al tetto piatto dell’edificio.
«Come farai per il ritorno?».
«Oh, un modo lo troverò, non ti preoccupare. Ora vai».
Ancora un po’ indeciso sul da farsi, la guardò salire la prima rampa di scale fino a quando Grace non gli sorrise e mosse la mano per incitarlo ad andare. Allora Bill sbuffò, salì in macchina ed uscì dal vicolo.
Grace, più tranquilla, salì sul tetto e si sedette di fronte al parapetto, contò le finestre e localizzò quelle del quarto piano, poi prese la macchina fotografica che aveva ancora al collo e con un po’ di zoom riuscì a localizzare quella della stanza della signora Phillips, la quale, sdraiata sul letto in solo completo intimo, aveva un braccio steso verso il proprio amante.
Grace scattò qualche foto, cercando di essere il più precisa possibile nel prendere il viso della signora Phillips, e nel farlo si accorse del bel sorriso che aveva stampato sulle labbra. Sembrava davvero felice.
«E dai, fatti vedere», disse ad un certo punto, aspettando che l’amante facesse la sua comparsa nell’inquadratura per poterlo immortalare.
Quando finalmente comparve, Grace rimase un po’ sbigottita. Una ragazza. Una bella ragazza, con i capelli tinti di un biondo così chiaro da sembrare bianchi e la pelle caffellatte. La signora Phillips tradiva il marito con una ragazza.

 

***

 

Se le bolle dell’idromassaggio avevano rilassato tutti i suoi muscoli, quelle nel suo cervello, in ebollizione dopo la chiacchierata con Oswin, non avevano intenzione di dargli tregua.
Continuava a ripensare a quello che si erano detti, alle sue patetiche scuse, alle sue espressioni che nonostante stesse cercando il suo perdono manifestavano comunque l’imbarazzo che provava quando qualcuno che entrambi conoscevano passava e li vedeva intenti a discutere. Durante la loro breve chiacchierata si era così incazzato che aveva capito all’istante che la sua giornata, già pessima, era stata irrimediabilmente rovinata, tanto che l’unica cosa che poteva sperare ancora di fare era gettarsi sul letto e dormire fino all’inizio del suo turno.
«Posso mettere la sirena? Ti prego, solo due minuti!».
Dylan sbuffò per l’ennesima volta, ma gli scappò anche una risatina. Tom lo stava facendo apposta, ne era sicuro, e avrebbe voluto ringraziarlo per il tentativo, ma il suo umore era così a terra che nulla sarebbe stato in grado di risollevarlo.
«A meno che tu non voglia rischiare di trascorrere la serata in centrale, te lo sconsiglio vivamente».
Tom scosse il capo, sospirando. «Solo perché questa sera devo andare a cena dalla madre di Grace, altrimenti…».
Gli tornò alla mente la scena che aveva visto quella mattina: loro due in salotto, abbracciati, Tom che sussurrava qualcosa all’orecchio di Grace e lei che sorrideva sognante… Ed arrossì, rendendosi anche conto che non aveva mai parlato di lei col suo ragazzo. Insomma, era uno dei suoi migliori amici, avrebbe dovuto… sì, dirgli qualcosa del tipo: “Trattala bene o ti uccido”, ma non ne aveva mai avuto l’occasione, visto che il suo rapporto con Tom era sempre stato di tipo conflittuale fino a qualche tempo prima. Che fosse il momento di affrontare l’argomento?
«Allora… è una cosa seria, eh?», disse, interrompendo bruscamente il monologo di Tom a proposito dei paparazzi che sarebbero andati matti vedendolo guidare l’auto di servizio di un poliziotto.
«Cosa intendi per seria? Se il tuo scopo finale è quello di chiedermi quando le chiederò di sposarmi, sappi che…».
«Ehi, quanta fretta!».
Dylan si lasciò andare ad una risata, notando il suo nervosismo. Era così atipico in lui… Forse perché aveva visto parte del vero Tom solo quella mattina, ma era una visione davvero insolita.
«Davvero hai pensato che ti avrei chiesto una cosa del genere?».
«Beh, si sa come siete voi messicani... legati alle tradizioni».
Dylan lo guardò con le sopracciglia sollevate. Si stava palesemente arrampicando sugli specchi, ma dirglielo non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione e non era il caso. Quindi, esclamò: «Sai, era da tempo che non vedevo Grace così felice. Credo che derivi dal fatto che abbia trovato dei punti fermi nella sua vita, cosa che da quando suo padre… Insomma, prima di conoscerti era a dir poco sregolata: lavorava quasi sempre (quando aveva dei casi), perciò era sempre fuori casa, mangiava dove capitava, dormiva solo quando ne sentiva la necessità… Anche io la sentivo a malapena, a causa dei suoi ritmi. Adesso è diversa, è come se avesse cambiato priorità ecco. La sua vita gira intorno ad un altro asse, un altro sole, e ho la sensazione che se venisse a mancare… crollerebbe di nuovo».
«Che… che cosa stai tentando di dirmi, Dylan? Che io sono il suo sole, adesso? Ho dovuto sudare sette camicie prima di riuscire ad entrare nella sua vita come volevo io, per far sì che la nostra fosse una storia normale per quanto le nostre vite ce lo permettessero… E adesso tu mi dici che sarei fondamentale per la sua felicità? Certo, anche io ci starei parecchio male se di botto mi lasciasse, però…».
«Però tu non hai alle spalle ciò che ha passato lei».
«Anche io ho perso mio padre», ribatté subito Tom, stringendo il volante tra le mani.
«È stato assassinato? Sei andato nel suo ufficio come ogni pomeriggio, ignaro di tutto, e l’hai trovato in una pozza di sangue con una pallottola conficcata nel cranio? Ti sei macchiato la maglietta del suo sangue mentre ti costringevi a non vomitare? Hai tenuto fra le braccia la persona che amavi di più al mondo, l’unico punto fisso della tua vita, fino a quando non è arrivata la polizia?». Dylan lo guardò apprensivo. «Mi dispiace per tuo padre, Tom, ma non penso proprio che tu possa fare paragoni».
Il chitarrista era pallido e allo stesso tempo delle gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Non avrebbe mai voluto che Dylan gli raccontasse come il padre di Grace fosse stato ucciso e come lei, sua figlia, l’avesse trovato, ma l’aveva fatto e, ci avrebbe scommesso, non sarebbe riuscito a dormire quella notte.
Il suo silenzio scioccato valse più di mille parole, infatti Dylan capì di aver esagerato ed appoggiò la tempia contro il finestrino, dicendo: «Mi dispiace di averti detto queste cose, probabilmente non ne avevo nemmeno il diritto. Quello che volevo fare era soltanto dirti di non farla soffrire, ma il mio tentativo è stato pessimo».
Il volto di Tom si accartocciò e prese colore. «L’ultima cosa che vorrei è farla soffrire, non c’era bisogno che tu…».
«Lo so, lo so. Ho visto come la guardi».
Tom annuì, anche se non pienamente sicuro di aver afferrato il significato nascosto di quelle parole.
«Per quello che mi hai detto su suo padre…».
«Dimenticatelo».
«Oh credimi, se potessi l’avrei già fatto. Comunque credo che prima o poi avrei dovuto saperlo, tanto vale che tu me l’abbia anticipato, almeno saprò come affrontare il dolore di Grace quando e se me lo vorrà raccontare».
Dylan accennò un sorriso, contento che l’avesse presa dal verso giusto. Poi cercò il suo sguardo. «Pronto?».
«Pronto per cosa?», domandò Tom, confuso.
Dylan accese la sirena.

 

***

 

Grace, approfittando della bella giornata di sole, decise di non prendere un taxi e di farsi invece una camminata fiancheggiando le vie dello shopping, come al solito gremite di gente e di turisti.
La borsa a tracolla contenente il laptop e la macchina fotografica le sbatteva continuamente sul fianco e quando ripensava alla reazione che aveva avuto quando aveva scoperto che la signora Phillips tradiva il marito con una ragazza, di pura sorpresa e sbigottimento, la sentiva sempre più pesante sulla spalla. Era vero, non se lo sarebbe mai aspettato dall’anonima signora Phillips, una donna come tante altre con una bella casa, un figlio sedicenne e un lavoro normalissimo, ma non era quello il motivo che la faceva sentire così a disagio. Continuava a pensare a come avrebbe fatto a dirlo a suo marito, un uomo tutt’altro che gay e che, per quel poco che lo conosceva e per ciò che le diceva il suo istinto, non avrebbe preso affatto bene un’umiliazione del genere. Sua moglie non lo aveva solo tradito… l’aveva tradito con una donna!
Avrebbe dovuto chiamare il signor Phillips per aggiornarlo sul lavoro che aveva svolto fin’ora, ma sentiva di aver bisogno di pensarci, di un altro po’ di tempo per autoconvincersi che il suo compito era solo quello di fare ciò per cui l’aveva pagata, ossia scoprire se sua moglie lo tradisse, e che quello che sarebbe successo dopo non era un problema suo.

Posso sempre dire al signor Phillips che non ho ancora l’auto, oppure che sua moglie per ora non ha fatto nulla di male…
Stava ancora rimuginando sulla questione, quando si accorse di essere arrivata a destinazione. Respirò profondamente per farsi coraggio e poi entrò nell’ospedale.
C’era stata così tante volte nell’ultimo periodo che non ebbe nemmeno bisogno di chiedere alle infermiere in che reparto fosse la persona che cercava, andò a passo sicuro e raggiunse la sua stanza condivisa in poco tempo.
Quella volta non era solo, al suo fianco c’era quella che molto probabilmente doveva essere sua madre, anche se era una signora piuttosto anziana, con i capelli grigi. Grace rimase a guardarlo da lontano per un attimo, fino a quando sia lui che sua madre non si accorsero di lei.
La donna si alzò in fretta, riconoscendola, e baciò la mano del figlio diverse volte, poi strinse fra le mani il piccolo crocifisso d’oro che portava al collo e si allontanò, anche se prima le rivolse uno sguardo dolce ma infinitamente stanco. La detective ebbe come la sensazione che dimostrasse più anni di quanti ne avesse realmente, come se tutto ciò che aveva vissuto avesse velocizzato l’arrivo della vecchiaia. Ricambiò il sorriso con un po’ d’incertezza, poi si decise a raggiungere il letto di Kenelm.
Aveva ancora un grosso cerotto sulla gola, dove gli si era conficcato un pezzo di vetro quando si era schiantato contro quel negozio di fiori, e altri sparsi sul viso.
Lo sguardo di Grace si posò sul suo polso ammanettato alla sbarra del letto e le nacque un sorriso desolato sul viso, mentre il nipote di Doc Mahkah la guardava impassibile.
«Sono passata solo per vedere come stavi», gli disse dopo qualche altro secondo di silenzio. «E per dirti che mi dispiace per quello che è ti è successo».
Kenelm a quell’affermazione sgranò un po’ gli occhi, incredulo. «Come?», gracchiò a fatica.
Grace sospirò e si sedette dove fino a poco prima era stata seduta la madre del ragazzo. «Mi dispiace soprattutto che tu abbia creduto che sia stata io a provocare la morte di tuo zio. Sai, io… tenevo a Doc, per quanto possa sembrare assurdo. Diciamo che ci aiutavamo a vicenda».
Si strinse nelle spalle ed incrociò lo sguardo spaesato e lucido di Kenelm. Grace accennò un sorriso.
«Volevi vendicare la sua morte e ti capisco benissimo, puoi credermi. Ma hai sbagliato persona: io ero davvero l’ultima che potesse volere la sua morte. Mi sarebbe piaciuto venire al suo funerale… ma non importa».
Si alzò dalla sedia e si infilò le mani nelle tasche, sentendosi all’improvviso più leggera. Gli rivolse un altro fugace sorriso, dicendo: «Sarà meglio che vada, ora. Spero che tu ti riprenda presto».
Stava per uscire in corridoio ed incamminarsi verso le scale, quando da dentro la stanza sentì Kenelm dire più forte che poteva: «Chi l’ha ucciso, allora?».
Grace si fermò e le parve che anche il suo cuore si fosse fermato un attimo, il tempo di un’illuminazione. Tornò dentro e posò le mani sulla sbarra del letto, chinandosi sul viso di Kenelm.
«Le stesse persone che hanno ucciso mio padre», rispose frettolosamente. «Kenelm, so che tuo zio aveva cercato di tenerti il più lontano possibile dalla sua vita, voleva che tu frequentassi il college, ma… tu ogni tanto stavi con lui, sapevi quello che succedeva nella sua gang, vero?».
Il ragazzo annuì, anche se disorientato.
«Anche in quest’ultimo periodo? Il grande scambio di droga tra le due gang concorrenti di Doc che doveva avvenire all’Halo. Tu ne sapevi niente?».
«Zio… sì, zio mi aveva raccontato qualcosa, ma non aveva… voluto che andassi. Troppo pericoloso».
«Ho bisogno di sapere tutto quello che sai».
Kenelm la guardò assottigliando gli occhi, soppesando se fidarsi o meno, quando Grace posò le dita sulle manette che portava e, accartocciando il viso, disse: «Tutto quello che sai. In cambio ti farò avere uno sconto di pena».
Aspettò che annuisse, più intimidito che realmente convinto della validità della sua proposta, poi uscì dalla stanza e percorse in fretta il corridoio.

 

***

 

«Mamma, sono a casa!».
«Finalmente!», gridò lei dalla cucina, mentre altre voci si univano alla sua.
Grace entrò in salotto e con tanto d’occhi guardò Bill, Tom e persino Molly seduti sul divano di casa sua, che guardavano tranquillamente la TV.
«Com’è possibile, sono davvero l’ultima?».
«A quanto pare», ridacchiò Tom, stiracchiandosi.
Aveva un sorriso sereno sulle labbra, lo stesso che aveva anche Bill: Grace intuì che dovevano aver fatto una lunga chiacchierata, una volta a casa.
«Scusate, mi sono trattenuta in ufficio più tempo del previsto. Vado a cambiarmi e arrivo subito, faccio in un attimo».
Grace si chiuse la porta della camera alle spalle e si immerse ad ascoltare il silenzio con gli occhi chiusi. E lei che aveva sperato di rilassarsi sotto il getto caldo della doccia prima che arrivassero gli ospiti di sua madre! Ne avrebbe avuto davvero bisogno, quella giornata era risultata più stancante del previsto, soprattutto a causa del suo incontro con Kenelm, il quale le aveva dato una nuova speranza di fare un passo avanti nel caso più importante di tutti, ma anche tante preoccupazioni che tornavano ad affollarle la mente. Poi pensò che gli ospiti di sua madre erano Bill, Tom e Molly, suoi amici, persone che l’avrebbero capita al volo e non avrebbero fatto troppe domande, e allora si rilassò.
Si cambiò in fretta, infilandosi i pantaloni di una tuta e una maglietta un po’ scolorita che indossava sempre in casa, poi passò in bagno a rinfrescarsi il viso e raggiunse gli altri, già pronti per andare a tavola.
Sua madre come al solito aveva esagerato, tanto che avrebbero mangiato avanzi per almeno una settimana, però era felice di vederla sorridente e così incline alle chiacchiere: doveva sentirsi così sola quando lei stava fuori tutto il giorno per lavoro oppure non tornava a cena per stare con Tom… Grace si appuntò mentalmente di passare un po’ più di tempo con lei, d’ora in avanti.
«Ah, tesoro, come sta andando a scuola? Ti trovi bene?», domandò Melanie a Molly, servendole nel piatto ancora un po’ di verdure alla griglia.
«Oh sì, anche io sono molto curioso!», si aggregò Bill, puntando gli occhi su di lei.
«Beh… bene, direi. Devo ancora abituarmi ai compiti a casa, davvero odiosi, ma per il resto va tutto bene!».
«I tuoi compagni, come sono? Ci sono dei ragazzi carini?».
«Mamma!», la rimproverò Grace, mentre Molly arrossiva, non facendo altro che aumentare la curiosità di Melanie, che la punzecchiò ancora un po’.
«Sì, devo dire che ci sono molti ragazzi carini, ma li conosco solo di vista…», rispose la ragazzina, in evidente imbarazzo. All’improvviso però corrugò la fronte ed aggiunse: «A parte un ragazzo di nome Nigel che credo ci stia provando con me: mi ha invitato a vederlo giocare a baseball, domani mattina».
«Non ne sembri entusiasta», fece notare Tom, ridacchiando.
«Uhm, il baseball non mi piace granché…».
«E nemmeno Nigel, dì la verità», disse Grace, prendendo il bicchiere d’acqua.
Molly la guardò a bocca aperta, la sua espressione parlava da sé: “Come hai fatto a capirlo?”.
«Ti conosco troppo bene, ormai», le sorrise. «Piuttosto, qual è il motivo per cui vai alla partita?».
Molly si imbronciò. «Non verrò mai al cinema con te, capisci sempre tutto in anticipo».
Tutti scoppiarono a ridere, contagiando anche la stessa Molly, la quale, dopo qualche tentativo di cambiare discorso, fu costretta a confessare: «In realtà Nigel non mi ha dato molta scelta, però ci vado perché voglio fare amicizia con Sheila, una mia compagna. Le ho chiesto se poteva venire con me e ha accettato, anche perché deve fare delle foto per il giornalino della scuola».
«Nient’altro?», domandò ancora Grace, fissando tranquillamente il piatto di fronte a lei. Molly scosse il capo, facendo la stessa cosa. «E le ricerche di cui mi avevi parlato, hanno portato a qualcosa?».
«Quali ricerche?», domandò Bill.
«Voleva fare la piccola detective e scoprire alcune cose sui suoi compagni di classe», spiegò brevemente Grace, ridacchiando e facendo arrossire Molly. «Allora, come sono andate?».
«Non ho scoperto molto», rispose la ragazzina stizzita. «Solo che Sheila collabora al giornalino della scuola come fotografa, mentre Ben si occupa della grafica, gioca a basket e si è già iscritto alle gare di matematica; Nigel è il capitano della squadra di baseball e nelle classifiche di popolarità ha un posto invidiabile… Ah, ho anche scoperto suo padre è alle dipendenze di mio padre, ma non è l’unico caso». Si guardò intorno, rendendosi conto dell’innaturale silenzio che si era creato, ed accennò un sorriso. «Nient’altro».
In realtà aveva anche scoperto che Aiden giocava nella stessa squadra di baseball di Nigel, ma non voleva parlare di lui: Grace, avendo già intuito che stava celando qualcosa, avrebbe sicuramente capito che l’altro motivo per cui andava alla partita era proprio per vedere lui e sarebbe venuta a galla la cotta colossale che si era presa per quel ragazzo che a malapena conosceva.
«Bene, tesoro, sono proprio contenta che tu ti stia ambientando», disse la signora Moore, accarezzandole un braccio. Quindi posò gli occhi sulla figlia. «Grace, la tua giornata com’è andata invece?».
La detective si strinse il collo nelle spalle. «Sono andata avanti con il caso del signor Phillips, ho pedinato un po’ sua moglie, fatto qualche foto… nulla di interessante».
Bill spalancò gli occhi. «Come sarebbe a dire, non hai capito chi è l’amante?».
Grace provò a distogliere lo sguardo, ma intercettò quello di Tom, al quale bastò un secondo per capire che Grace avrebbe voluto cambiare argomento.
«Anche se l’avesse capito, a te che te ne importa? Non lo conosci nemmeno», disse il chitarrista, proprio col fine di aiutare Grace. Poi chiese, per essere sicuro che Bill non vi tornasse più sopra: «Come mai sei dovuta rimanere così tanto in ufficio?».
La detective lo ringraziò con lo sguardo, pulendosi la bocca con il tovagliolo. «Mi sono messa a sviluppare le foto e…».
«In ufficio hai una camera oscura?», domandò Molly, sorpresa. «Non lo sapevo!».
«Non è una vera e propria camera oscura, è il bagno», rispose Grace, ridendo. «Dicevo, sono anche andata in ospedale da Kenelm, il nipote di Doc Mahkah».
«Oh, come sta?», domandò Melanie, alzandosi ed iniziando ad impilare i piatti vuoti.
«Bene, si sta riprendendo in fretta».
«Menomale».
Tom la osservò sorridere rincuorata e si disse che doveva pensarla proprio come la sua Grace: nonostante quel ragazzo avesse tentato di farle del male, erano felici che stesse meglio.
«Bill e Tom hanno portato il gelato, chi lo vuole?», esclamò Melanie all’improvviso, con tono gioioso.
Bill e Molly alzarono subito la mano e Tom ridacchiò definendoli due bambini, ma si ammutolì non appena vide Grace con le mani a reggerle il viso e gli occhi spenti, immersi nell’acqua che aveva nel bicchiere. Si convinse del tutto che doveva esserle successo qualcosa e non vedeva l’ora di stare da solo con lei per scoprire di cosa si trattasse.


«Resti qui a dormire, stanotte?».
Tom voltò il capo verso di lei e la guardò attentamente, soffermandosi sulla sua espressione neutra e sui suoi occhi in cui si intravedeva il riflesso della televisione di fronte a loro.
L’aveva detto sottovoce, con il viso posato sulla sua spalla, ma le sue guance presero colore comunque e si voltò a vedere se Melanie avesse reagito in qualche modo. Grace se ne accorse e soffocò una risata. Perlomeno l’aveva fatta sorridere.
«Fino a prova contraria questa è casa mia, decido io chi deve stare a dormire», disse ancora a bassa voce, posandogli un bacio sulla gola.
«Cos’è che confabulate voi due?», domandò Bill, mentre Molly al suo fianco sbadigliava vistosamente.
«Niente, niente», si affrettò a rispondere Tom, impacciato. Il cantante gettò uno sguardo a Grace, la quale ricambiò sollevando gli occhi al cielo.
«Forse è meglio che me ne torni a casa, domani mattina ho appuntamento dal parrucchiere», disse Molly, distogliendo l’attenzione di Bill dal fratello gemello.
«Devi andare dal parrucchiere per la partita di baseball?».
Doveva dire la verità: Grace si divertiva un mondo a punzecchiarla, soprattutto quando sapeva per certo che le stava nascondendo qualcosa.
Molly arrossì e si alzò in piedi con fare nervoso. «No, non ci vado per la partita! È l’appuntamento mensile di mia madre, io l’accompagno».
Grace continuò a ridere sotto i baffi. «Ah, ho capito…».
«Okay, allora dovremmo tornare a casa anche noi», disse Bill cercando il consenso del fratello, che non arrivò. Grace allora prese la parola e disse a voce alta, in modo tale che anche sua madre, in cucina a prepararsi una tisana, sentisse: «Tom resta qui a dormire».
«Oh. Va bene», rispose Bill, anche lui preso in contropiede.
Melanie uscì proprio in quel momento dalla cucina e con un sorrisino malizioso diede la buona notte a tutti, gettando uno sguardo particolarmente esplicito a Tom, il quale, per sua sfortuna, provò una vampata di calore sul viso.
Poco dopo Molly e Bill uscirono di casa e i due “piccioncini” rimasero soli. Grace spense la TV e condusse il chitarrista in camera sua.
«Grace…».
Gli diede le spalle e si fece scivolare giù dai fianchi i pantaloni della tuta, rispondendo distrattamente: «Sì?».
Tom provò a concentrarsi, ma per un momento gli parve di aver dimenticato ciò che voleva dirle. Quando riuscì a ricordarlo, uscendo da quella specie di ipnosi, si avvicinò al letto e disse: «C’è qualcosa che non va? È successo qualcosa?».
Grace levò lo sguardo, con le mani sui bordi della maglietta, e cedette, sospirando. Gli raccontò tutto quello che le frullava nella testa, a partire dall’amante della signora Phillips e la sua decisione di tirare un po’ alla lunga la questione con il suo cliente, fino a giungere al suo incontro con Kenelm, alla loro chiacchierata e al fatto che forse si stava aprendo una porta per una possibile svolta nel caso in cui non era coinvolto solo suo padre, ma tutti loro. Tutto dipendeva da Kenelm, da ciò che sapeva della sparatoria all’Halo, delle persone che l’avevano provocata e di quelle stesse persone che quasi sicuramente avevano avuto rapporti con Doc Mahkah per giungere a lei.
Tom, che aveva ascoltato tutto il suo sfogo in silenzio, quando la vide svuotata e stanca, oltre che di nuovo preoccupata, la strinse fra le braccia e la fece stendere al suo fianco sul letto, avvolti dal buio della notte.
«Dimmi qualcosa Tom, dimmi che tutto si sistemerà presto. Sto iniziando a sperare solo che finisca il prima possibile, senza curarmi del come. Questo mi spaventa, perché voglio più di qualsiasi altra cosa dare giustizia a mio padre, ma mi spaventa di più pensare di vivere ancora per molto con la paura che accada qualcosa alle persone che amo».
Le parole di Dylan riecheggiarono nella mente di Tom e fu certo del fatto che fossero vere: le priorità di Grace erano davvero cambiate, tanto da mettere in secondo piano il desiderio di giustizia per suo padre. Con un brivido di freddo lungo la schiena ricordò anche il racconto di come lei l’aveva trovato morto, ma lo scacciò più in fretta che poté.
«Sono certo che li prenderai presto, che tuo padre avrà la giustizia che merita e che noi vivremo…».
«…tutti felici e contenti?». Grace accennò un sorriso, nonostante avesse gli occhi umidi di lacrime.
Tom le accarezzò i capelli, sistemandoglieli dietro l’orecchio. «Esatto. Ne sono più che sicuro».
La detective gli accarezzò una guancia e gli posò un bacio sulle labbra, assaporandone il sapore e soffermandosi soprattutto sul suo labbro inferiore, sul suo piercing.
Tom ad un certo punto la interruppe per esclamare: «Ma davvero la moglie del tuo cliente è lesbica?».
Grace lo guardò per capire se stesse dicendo sul serio e rise quando lo vide divertito come se gli avesse appena raccontato una barzelletta.
«Io, se scoprissi che mia moglie mi tradisce per una donna, credo che mi incazzerei di brutto».
«Già, penso che anche il signor Phillips reagirà così non appena lo verrà a sapere», rimuginò la detective. «È per questo che voglio far passare un po’ di tempo, per essere sicura che non sia una cosa occasionale ciò che ho visto oggi. La ragazza con cui era, era davvero giovane… magari…».
«Credi che la signora Phillips si sia rivolta a qualche agenzia di questo tipo e che lei non sia la sua amante fissa?».
Grace lo guardò stupita. «E tu che ne sai dell’esistenza di certe agenzie? Ne hai…?».
«No!», la interruppe subito. «Guardo anche io C.S.I. ogni tanto! E poi ti pare che io, Tom Kaulitz, abbia bisogno di rivolgermi a queste agenzie?».
La detective sollevò il sopracciglio e si trattene a stento dallo scoppiargli a ridere in faccia. Era così divertente, quando si credeva l’uomo più bello del mondo con milioni di ragazze ai suoi piedi, pronte a soddisfare ogni suo desiderio!
«Allora, credi davvero che io…?».
«No, Tom, no», lo rassicurò dandogli un bacetto sulle labbra. «Sai a cosa stavo pensando, a cena? Che è stata una vera fortuna che io abbia mandato via Bill prima di fare le foto all’amante della signora Phillips… Pensa che situazione imbarazzante!».
«Perché?».
«Beh… non credo che avrebbe fatto piacere a Bill tornare sulla questione… sessualità, ecco. Ah, ma con Dylan? Raccontami tutto».
Tom le raccontò della loro sessione in palestra, dove aveva avuto modo di vedere con i suoi occhi ciò che Dylan avrebbe dovuto subire da quel giorno in avanti a causa della scenata che aveva fatto con Oswin, il suo partner, di cui si fidava e che, in poche parole, gli aveva voltato le spalle proprio in un momento così delicato, per colpa di stupidi pregiudizi. Le raccontò dunque quello che era successo tra Dylan e Oswin, cosa che aveva fatto molto soffrire il poliziotto, come se la situazione complicata che si era creata con Bill non bastasse.
Omise di raccontarle, invece, la parte in cui era stato lui a sfogarsi con Dylan, offrendogli una chiara visione della sua adolescenza, il periodo peggiore che avesse vissuto dopo la separazione dei suoi genitori, e la parte in cui il poliziotto gli aveva detto di non far soffrire Grace, o almeno ci aveva provato, aggiungendo a quella specie di predica la spiegazione dettagliata di come lei avesse trovato suo padre morto nel suo ufficio.
«Tom? Ehi, Tom, ci sei?».
Il chitarrista scosse il capo per togliersi dalla mente l’immagine di Grace china sul corpo senza vita di suo padre, il viso e le mani macchiate di sangue, e fissò i suoi occhi verdi luminosi. «Hai detto qualcosa?».
«Sì, ti ho chiesto se davvero Dylan ti ha fatto guidare la sua auto e ha messo pure la sirena».
«Ah, sì…», si accinse a rispondere, ma Grace lo interruppe, non più interessata all’argomento, e gli chiese: «A cosa stavi pensando? Eri così assorto!».
«A niente… ero andato in fissa».
«Sì, certo… Secondo me stavi ancora pensando alle signorine delle agenzie di quel tipo. Ho ragione?».
«No, no che non hai ragione».
«Dai Tom, ammettilo! Giuro che non mi arrabbio!».
«Ma ti dico che non è vero! E poi l’unica signorina che mi interessa non la posso trovare in nessuna di quelle agenzie, quindi…».
«Oh…», Grace sorrise maliziosa e gli prese il volto fra le mani, baciandolo con passione. Pian piano quella stessa passione la travolse, portandola a sdraiarsi cavalcioni su di lui e a togliergli la maglietta.
«Ehi, ehi», mugugnò Tom sulle sue labbra, prendendole le mani nelle sue. «C’è tua madre di là!».
«E allora? Siamo grandi e vaccinati, è anche normale che…».
«Sarà anche così, ma non mi va’ che… Hai capito».
Grace, scioccata, rotolò nella sua parte di letto e guardò il soffitto con le mani intrecciate sullo stomaco.
«Sicuro che sia per questo motivo? Nel senso, non ti facevo così… però posso anche accettarlo. Basta che tu non stia usando mia madre come scusa, altrimenti…».
«Per quale altro motivo non dovrei fare l’amore con te?», le sussurrò suadente all’orecchio, o almeno ci provò, perché l’immagine di Grace macchiata del sangue di suo padre, quella che non gli aveva permesso di lasciarsi andare, era ancora lì davanti ai suoi occhi.
«Non lo so, dimmelo tu».
Tom le avvolse un braccio intorno alla vita e le baciò il collo, respirando profondamente.
Lei gli diede le spalle, senza però liberarsi dal suo abbraccio, e mormorò: «Buonanotte, Tom».
Il chitarrista rispose con un po’ di dispiacere nella voce, poi chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi.

 
Una Grace diciassettenne, a qualche metro da lui, si voltò e gli sorrise, invitandolo a seguirla. Si soffermò a guardarla con attenzione, notando che le sue forme da donna erano in pieno sviluppo, che aveva qualche chilo di troppo, specialmente sulle cosce, e che il suo viso aveva ancora un che di adolescenziale, incorniciato dai capelli portati più lunghi, anche se sempre raccolti in una coda fatta distrattamente sulla nuca.
Tom si decise finalmente a seguirla e solo quando si fermò di fronte ad un edificio lo riconobbe come il condominio in cui si trovava il suo ufficio. Il cuore iniziò a corrergli più velocemente nel petto mentre saliva le scale dietro di lei e gli sembrò di perdere un battito quando lesse la scritta «Schneider Investigations» sul vetro zigrinato della porta.
La Grace diciassettenne gli rivolse uno sguardo intenso prima di aprire la porta e di entrare. Quasi immediatamente la sentì urlare, così forte che Tom si dovette portare le mani sopra le orecchie mentre le lacrime gli salivano agli occhi, già consapevole di ciò che avrebbe trovato dentro l’ufficio: Mitch Schneider, suo padre, morto assassinato.
Grace smise improvvisamente di gridare e al posto delle urla Tom sentì solo i suoi singhiozzi e i suoi gemiti, che lo fecero soffrire ancora di più, se possibile. Per questo entrò nell’ufficio e si pietrificò di fronte alla scena che si trovò di fronte: Grace, inginocchiata nel bel mezzo della pozza di sangue, teneva stretto fra le braccia il corpo inerte di suo padre, il quale aveva un foro di proiettile nel bel mezzo della fronte e gli occhi verdi vitrei che sembravano fissarlo. La Grace diciassettenne sollevò di scatto il capo e lo fissò in lacrime, il mento macchiato di sangue e l’espressione più fragile e smarrita che avesse mai visto nello sguardo di qualcuno.
«Tom», lo chiamò, ma senza muovere le labbra. Il chitarrista non seppe cosa fare, se fare un passo avanti ed aiutarla oppure andare via, scappare da quel dolore più grande di lui, impossibile da sanare.
«Tom», lo chiamò ancora e ancora, fino a quando non si coprì le orecchie con le mani e chiuse gli occhi con forza.
Quando li riaprì, quasi di scatto, vide sopra di sé il volto di Grace, la sua Grace, illuminato dalla debole luce della luna, che lo chiamava scrollandogli leggermente le spalle.
«Grace», esclamò e si tirò su di scatto, stringendola in un abbraccio. «Grace, Grace, stai bene».
«Certo che sto bene. Tu come stai? Continuavi ad agitarti, hai fatto un incubo?».
Tom annuì, tentando di non far riaffiorare le immagini di quel brutto sogno e cacciando indietro le lacrime che gli gonfiarono gli occhi. Grace gli massaggiò la schiena con entrambe le mani e gli posò un lieve bacio sulla guancia.
«Va tutto bene adesso, è passato».
Ci volle ancora un po’ perché Tom ne fosse pienamente convinto e si tranquillizzasse, e quando riuscì a liberarsi dalla sua morsa d’acciaio Grace andò in cucina a prendergli un bicchiere d’acqua. Tornata in camera, vide che aveva il cellulare tra le mani, il cui display gli illuminava il viso in modo quasi spettrale.
«Che cosa stai guardando?», gli domandò con tono carezzevole, anche se era un po’ preoccupata dal suo strano comportamento.
Tom voltò il cellulare e glielo mise sotto gli occhi, permettendole di vedere la foto che era andato subito a cercare per scacciare le tormentate immagini dell’incubo.
Grace si portò una mano alla bocca, trattenendo il respiro. Come faceva Tom ad avere quella foto? Perché gliel’aveva fatta vedere, aprendo una cicatrice nel suo cuore?
Il chitarrista le levò di mano il bicchiere d’acqua, che stava stringendo fin troppo forte, e lo posò sul comodino, poi le accarezzò una guancia, chinandosi per baciarle la tempia.
«Tua madre mi ha dato alcune foto di te da piccola prima che partissi per New York, tra cui anche questa. È la mia preferita, per questo motivo ce l’ho sul cellulare. L’incubo che ho fatto… riguardava voi due», indicò padre e figlia nella foto. «Ho sognato il momento in cui l’hai trovato… assassinato nel suo ufficio».
Grace si lasciò scappare un singhiozzo dalle labbra e non riuscì più a trattenere le lacrime, che le scivolarono sulle guance e si depositarono sotto il suo mento. Una di esse cadde persino sullo schermo ancora illuminato del cellulare, rendendo acquoso il viso di suo padre.
Non volle sapere perché sua madre gli avesse dato quelle foto, non volle sapere come Tom avesse scoperto come aveva trovato suo padre.
Non volle sapere semplicemente nient’altro che non c’entrasse con le sue braccia strette intorno alla schiena, tanto forte da non farla nemmeno respirare, e con l’incavo della sua spalla che accoglieva così volentieri tutte le sue lacrime.

 

_______________________________

 

Buongiorno! :)
Allora, che ve ne pare di questa seconda parte? Spero che non abbia deluso le aspettative!
La parte migliore, secondo me, è proprio l'ultima scena, anche se ci sono diverse cose da sottolineare, tra cui la reazione di Bill all'uscita di Tom con Dylan, il tradimento accertato della signora Phillips - con una donna - e il modo in cui Tom ha scoperto come Grace abbia trovato morto suo padre. Un bel po' di cose, insomma! Ma tutte più o meno legate al mondo dell'investigazione. Per il romanticismo, ci sarà tempo ;)
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, ancora una volta, e chi ha letto soltanto. Inoltre, un saluto anche a chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate, per mia immensa gioia :)
Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 21
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

“So tell me your secrets and ask me your questions
Oh, let’s go back to the start. […]
Nobody said it was easy, it's such a shame for us to part
Nobody said it was easy, no-one ever said it would be so hard
Oh, take me back to the start”

(Scientist – Coldplay)

Uscite dal parrucchiere, Molly e sua madre salirono sulla limousine che le stava attendendo fuori dal salone. Si sedettero una di fronte all’altra e mentre la signora Delafield si controllava e ricontrollava i colpi di sole appena fatti, Molly guardò l’ora sull’orologio d’argento e placcato di piccoli Swarovski – il più modesto che aveva – che portava al polso, poi posò lo sguardo fuori dal finestrino, sperando che sua madre si fosse dimenticata dell’impegno che aveva preso con Nigel.
Sarebbe andato tutto bene se fosse stata in grado di autocontrollarsi, ma purtroppo il suo nervosismo la tradì.
«Tesoro, credi davvero che stia bene? A me sembra che alcuni non siano venuti…».
«Vanno benissimo, mamma, non ti preoccupare».
La signora Delafield la guardò con cipiglio perplesso, fino a quando la figlia non se ne accorse e la guardò negli occhi, specchio dei suoi.
«Molly, va tutto bene? Continui a morderti le labbra, lo sai che poi ti si screpolano?».
«Sì, sì… va tutto bene».
La donna chiuse di scatto lo specchietto che aveva in mano e lo infilò nella borsetta di Louis Vuitton, direzionando tutta la propria attenzione verso la figlia.
«Invece sono convinta del contrario. Sembri agitata, ma non capisco per quale motivo. Oh, forse è per la partita di baseball a cui sei stata invitata? A che ora è, a proposito?».
Molly sospirò e portò di nuovo gli occhi sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. «Alle dieci».
«Oh, ma è tra poco!».
«Non è vero, manca ancora mezz’ora…».
«Autista!».
La ragazzina sgranò gli occhi e sobbalzò all’urlo di sua madre, capendo ciò che voleva fare. Provò a dissuaderla, ma mai nessuno era riuscito a dissuadere la signora Delafield, nemmeno suo padre, quindi al primo tentativo fallito si arrese.
«Prima di tornare a casa potremmo accompagnare la mia piccola Molly alla sua scuola? Grazie». Sua madre si voltò verso di lei, raggiante. «Visto? Così non devi tornare a casa per poi riuscire!».
La sua idea iniziale, in realtà, era proprio quella di tornare a casa per indossare qualcosa di un po’ più alla mano, ma soprattutto per cambiare l’auto che l’avrebbe lasciata scendere proprio di fronte alla scuola; ora però non le restava altro da fare che pregare che si bucassero tutte e quattro le gomme della limousine.
Una decina di minuti più tardi, Molly scorse in lontananza la facciata con il rosone colorato della Notre Dame High School e sentì un groppo formarsi nella sua gola. La situazione diventò ancora più critica quando vide tutti quei ragazzi presenti sul piazzale della scuola, i quali aspettavano di raggiungere insieme il campo da baseball, e in mezzo a loro c’era anche Sheila.
Era appena scesa dall’auto di suo padre, una Mercedes-Benz più che dignitosa ma che a confronto della limousine della signora Delafield sembrava un catorcio, e lo stava salutando, quando il suo sguardo fu catturato proprio dalla lunghissima limo bianca che aveva appena parcheggiato sull’altro lato della strada.
Molly incrociò gli occhi di Sheila e vi fuggì subito, vergognandosi come non mai della sua esagerata ricchezza. Solo dopo qualche secondo si ricordò che i finestrini erano tutti oscurati.
«Tesoro? Ti senti bene?».
Molly alzò il viso verso sua madre e, rendendosene conto solo successivamente, le lanciò uno sguardo fulminante. La signora Delafield spalancò la bocca, scioccata, ma non fece in tempo a dire nulla alla figlia perché, senza aspettare l’autista, aveva aperto da sé la portiera ed era scesa, sbattendosela poi alle spalle. Attraversò la strada di corsa, la borsa appesa ad un braccio e il viso rivolto verso terra, dove avrebbe voluto stendersi per farsi investire piuttosto che avere tutti quegli sguardi sbalorditi addosso.
Quando raggiunse Sheila, sollevò gli occhi timidamente ed accennò un sorriso. «Sono in ritardo?», chiese.
Sheila negò col capo, gli occhi ancora sgranati. «B-Bella macchina».
Molly fece finta di non aver sentito ed ampliò il proprio sorriso, ottenendo però l’effetto opposto: invece di sembrare rilassata, infatti, manifestò tutta l’agitazione e il disagio che stava provando.
«Andiamo?».
La sua compagna annuì e salutò suo padre un’ultima volta, poi insieme si avviarono verso i campi sportivi che si estendevano a perdita d’occhio dietro l’edificio scolastico.
Arrivarono al diamante d’erba e terra rossa e videro i giocatori delle due squadre avversarie effettuare il riscaldamento.
I Notre Dame Knights, in divisa bianca a strisce fini blu con rifiniture in giallo e con i cappellini blu scuro, avevano un nutrito pubblico, essendo in casa, e Sheila e Molly faticarono molto a trovare dei posti liberi sugli spalti, ma alla fine, grazie al suo ruolo di fotografa, Sheila riuscì a risolvere il problema, ottenendo dei posti quasi in prima fila, vicini alle panchine dei giocatori.
Non ci poteva essere posto peggiore per Molly, la quale avrebbe voluto stare il più lontano possibile da Nigel. In compenso, però, avrebbe goduto anche della visione di Aiden.
Lo vide riscaldarsi insieme a tutti gli altri suoi compagni e per un attimo che parve eterno i loro sguardi si incrociarono, facendo mancare un battito alla ragazza. Quella linea invisibile che li aveva uniti si spezzò bruscamente quando un altro ragazzo entrò nel campo visivo di Molly, la quale alzò lo sguardo irritata e dovette mordersi la lingua e sforzarsi di sorridere.
«Ehi, sei venuta! Mi fa davvero molto piacere».
«Anche a me, Nigel». Sollevò il palmo della mano, con fare incerto. «Vinci per noi!».
Il ragazzo ridacchiò e invece di batterle il cinque si chinò su di lei e le stampò un bacio sulla guancia, facendola arrossire da capo a piedi e provocando l’irritazione di qualche ragazza smorfiosa dietro di loro.
«Fai il tifo per me», le sussurrò all’orecchio prima di scostarsi e di correre di nuovo in campo al fischio del suo allenatore.
Sheila fischiò fra i denti e Molly si voltò verso di lei, ancora rossa d’imbarazzo. «Prima la limousine, ora questo… vuoi proprio sconvolgermi oggi».
Molly aprì la bocca per dire che lei non c’entrava niente, che non gli aveva mai dato tutta quella confidenza, che lui se l’era semplicemente presa, ma per qualche motivo non riuscì ad emettere alcun suono. Anzi no, un motivo c’era: Aiden la stava guardando, probabilmente aveva visto anche la scena precedente, e questo la fece pietrificare sul posto.
«Non sei di molte parole oggi, eh? Vado a fare qualche foto».
Sheila si alzò dagli spalti e si allontanò lungo i bordi del campo per scattare foto da diverse angolazioni.

***

Tom si svegliò e spostò subito la mano sul letto, alla ricerca di Grace. Dopo un po’ di tentativi andati a vuoto si decise ad aprire gli occhi e constatò che lei non c’era.
Sbuffò, portandosi il suo cuscino sul viso e respirandone tutto il profumo, quindi si alzò ed aprì la porta della camera per sporgersi con la testa in corridoio. Non sentì alcun rumore, tantomeno vide qualcuno, ma non essendo a casa sua non voleva fare figuracce, così prese almeno i jeans e se li infilò prima di uscire dalla camera.
Ciabattò fino al bagno, dove si sciacquò la faccia con un po’ d’acqua fresca. Riflettendoci, capì che odiava svegliarsi senza Grace accanto.
Camminò piano lungo il corridoio, continuando a sbuffare e a pensare ai possibili motivi che l’avevano portata ad alzarsi prima di lui, convincendosi sempre di più che non era un buon segno e di sicuro non l’avrebbe trovata in cucina intenta a preparargli la colazione, con un enorme sorriso sulle labbra.
Arrivato nel salotto deserto, fece il giro del divano per sbirciare in cucina e vide Melanie seduta al tavolo, che stringeva fra le mani una tazza di ceramica, lo sguardo fisso su un punto del tavolo.
La osservò attentamente, sapendo di non essere visto, e ancora una volta vide molto della sua Grace in lei: la stessa espressione smarrita di quando si immergeva nei suoi pensieri, lo stesso modo di stringere le dita intorno agli oggetti per il nervosismo, le spalle incurvate che sembravano sorreggere un peso insostenibile.
La sua mente gli fece il brutto scherzo di immaginarsi il padre di Grace seduto di fronte a Melanie, che le accarezzava il dorso di una mano sorridendole mestamente, nel suo completo da marine pulito e stirato. E vide anche una piccola Grace, di cinque o sei anni, seduta a capotavola, che li guardava entrambi avvertendo che qualcosa non andava. Cercava di parlare, di chiedergli direttamente che cosa, ma non ne trovava mai il coraggio. La visione continuò fino a quando Melanie non si portò le mani sul viso bagnato di lacrime, la schiena squassata da violenti singhiozzi. Allora sia la figura di Mitch Schneider che quella della piccola Grace svanirono e Tom capì che quella era la realtà: Melanie stava davvero piangendo.
Non sapeva proprio cosa fare, ma gli venne spontaneo avvicinarsi per capire se poteva aiutarla. Si schiarì la voce, a disagio, e la donna sobbalzò, colta di sorpresa.
«Oh Tom, sei tu…». Tirò su col naso e si passò le mani sotto gli occhi, asciugandosi le lacrime alla bell’e meglio. «Credevo dormissi».
«Mi sono svegliato poco fa».
Melanie annuì con un cenno del capo e si alzò con la tazza fra le mani tremanti. Tom le andò incontro e posò le mani sulle sue, senza nemmeno riflettere. La donna sollevò gli occhi ancora umidi ed arrossati a causa del pianto e lui provò a sfuggire al suo sguardo, ma non ci riuscì. Non provò nemmeno a mettersi nei suoi panni per capire tutto il dolore e le difficoltà che aveva dovuto affrontare, non serviva: ce le aveva davanti, proprio nei suoi occhi scuri.
«Io ho… Mi sono rovinata la vita con le mie stesse mani», mormorò con la voce spezzata da flebili singhiozzi.
Tom riuscì a toglierle la tazza dalle mani e la posò sul tavolo, poi le avvolse delicatamente le braccia intorno alla schiena. Melania si appoggiò con la guancia alla sua spalla, trattenendo a stento le lacrime.
«Pensavo di fare la cosa più giusta per Grace, di donarle un futuro migliore, senza pericoli, quando chiesi a Mitch la separazione, invece… è stata la nostra fine. Tutto è andato a rotoli da quel giorno e io… non me lo perdonerò mai, mai… Mi manca così tanto…».
Tom sospirò e le massaggiò delicatamente la schiena con una mano, poi si scostò per guardarla in viso e chiederle: «Ora Grace dov’è?».
«Non me l’ha detto».
«Faccio un paio di telefonate, vedo se la trovo».
Tom sciolse l’abbraccio e si avviò verso il salotto, sentendo il profumo di Melanie abbandonarlo.
«Ti preparo del caffè?».
Il chitarrista le rivolse un breve sorriso, annuendo.
«Un’ultima cosa, Tom…».
Si girò e fu catturato dagli occhi di Melanie, la quale lo guardò intensamente dicendo: «Grazie».
Tom scrollò il capo e le diede le spalle senza rispondere. Si sedette sul divano e scorse la rubrica del cellulare: prima chiamò lei, ma come sospettava non gli rispose. Allora chiamò Bill, chiedendogli se magari era andata a confidarsi da lui. Purtroppo però Bill si era appena svegliato, quindi non l’aveva vista. Tentò con Dylan, ma nemmeno lui seppe dargli una buona notizia; anzi, fu lui a fargli mille domande, preoccupato. Non riuscendo ad aggirare il discorso, gli chiuse il telefono in faccia, passando all’ultimo tentativo che gli restava da fare: Molly.
Dopo tre squilli, la ragazzina milionaria rispose a bassa voce: «Pronto, Tom?».
«Sì, ciao Molly. Scusa se ti disturbo, ma…».
«Nessun disturbo, te lo posso assicurare! Anzi, grazie mille, senza la tua chiamata… Lascia stare. Dicevi?».
«Hai per caso visto Grace? Io non riesco a trovarla, non mi risponde al cellulare».
«No, mi dispiace».
«Non è che potresti… provare a chiamarla? Chissà, magari a te risponde».
«Uhm, okay. Se scopro qualcosa ti chiamo».
«Grazie mille, Molly».
«Figurati! Ma è successo qualcosa?».
Tom sospirò, massaggiandosi gli occhi con le dita. «È una lunga storia…».
«Oh, più mi tieni al telefono meglio è, ma… forse non ti va neanche di raccontarla, vero?».
«Vero. Ci sentiamo più tardi Molly, grazie ancora».
«Di niente Tom, ciao».
«Ciao, ciao».
Lanciò il cellulare sul tavolo e si appoggiò allo schienale del divano portandosi le mani dietro la nuca, gli occhi socchiusi. Sentì dei passi leggeri alle sue spalle e si voltò, soffermandosi a guardare Melanie che si avvicinava con una tazza di caffè fumante fra le mani. Gliela diede con un sorriso incerto sulle labbra, poi si sedette al suo fianco stringendosi nel suo stesso abbraccio.
«L’hai trovata?», gli domandò dopo qualche secondo di silenzio.
«No, nessuno sa dove possa essere».
«Io un’idea ce l’avrei».
Tom, più attento che mai, la fissò in attesa che continuasse.
«Ma se fosse così… vorrebbe restare sola».

***

Uscì dal cimitero con gli occhi bassi, gonfi di pianto e coperti da un paio di grossi occhiali scuri. Si massaggiò il naso e sollevò il viso verso il cielo limpido, lasciando che il calore del sole le baciasse la pelle e il vento profumato di salsedine le riempisse piacevolmente i polmoni.
Si diresse verso il suo amato fuoristrada, ritirato dal meccanico proprio quella mattina, ed accennò un sorriso quando posò una mano sopra il cofano, accarezzandolo con lo stesso amore che aveva provato quando suo padre glielo aveva regalato per i suoi sedici anni. Anche per questo non avrebbe mai potuto rinunciarvi, come Tom le aveva consigliato più e più volte di fare: vi era troppo legata.

Tom… Chissà che cosa starà facendo. Sospirò pensando a lui, a quello che era successo quella notte, alla sua codardia.
Si sedette al posto di guida ed aprì il portaoggetti, scorgendo la sua Glock e il suo cellulare che vibrava. Lo tirò fuori e lesse proprio il nome di Tom sul display. Non era ancora pronta ad affrontarlo, a parlargli di suo padre, del suo dolore più grande, quindi aspettò che il cellulare smettesse di vibrare nella sua mano, poi lo lasciò sul sedile e mise in moto.
Non voleva tornare a casa, sia perché probabilmente Tom era ancora là, sia perché dopo la chiacchierata di quella mattina con sua madre preferiva di gran lunga starsene fuori, guidare fino a finire la benzina, senza meta, come si sentiva in quel momento, oltre che sola. Ma, d’altra parte, non voleva parlare con nessuno.
Con la radio accesa e il vento fra i capelli, guidò fino a raggiungere la spiaggia.
Era una bella giornata, i valori sulla colonnina di mercurio erano più alti del solito, ma erano pochi coloro che avevano avuto la sua stessa idea: c’erano due ragazze coi loro cani che stavano facendo jogging, un anziano signore seduto su una panchina sul lungomare che si godeva la vista dell’oceano e una mamma ed un papà con un bambino piccolo, il quale non faceva altro che correre con le sue gambette corte per acciuffare dei gabbiani.
Grace si sedette sulla sabbia e guardò la famigliola per parecchio tempo, fino a quando non la superarono e il padre prese il bimbo sulle spalle, facendolo ridere con le braccia alzate verso il cielo, ora così vicino.
La detective non poté non pensare che una volta anche lei, sua madre e suo padre erano stati una famiglia felice e spensierata e, ancora, ripercorse con la mente ciò che si erano dette lei e sua madre poco meno di un’ora prima.


«Tesoro, sei già sveglia?».
Grace non si girò, continuò a guardare fuori dalla finestra il sole che batteva sui tetti degli altri edifici e si rifletteva sui vetri a specchio dei grattacieli di Los Angeles.
«Grace, va tutto bene?».
Quella volta non poté ignorare sua madre e si voltò un po’ con il busto, quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. La vide irrigidirsi, forse a causa della sua espressione seria e al contempo arrendevole, stanca.
«Perché hai dato quelle foto a Tom?».
Melanie si riempì una tazza di ceramica di caffè e ci mise qualche secondo per elaborare la risposta da dare alla figlia.
«Credi che non mi sia accorta del tuo dolore? Tu, proprio come me, non l’hai ancora superato e pensavo che avresti potuto parlarne con lui… Prima o poi avresti dovuto farlo comunque».
«Certamente, ma avrei voluto decidere io il momento opportuno per parlargliene. Come ti sei permessa di decidere per me?».
«L’ho fatto per il tuo bene, amore… Quand’è stata l’ultima volta in cui ne hai parlato con qualcuno, in cui hai dato sfogo a tutta la tua sofferenza? Tenerla dentro…».
«Non è una cosa che ti riguarda!», sbottò Grace, sbattendo la sua tazza vuota sul tavolo. «E tra tutti, non penso proprio che tu sia la persona adatta a farmi questo discorso! Tu hai anestetizzato il dolore con psicofarmaci per anni, anni! Hai mandato a puttane la tua vita, hai mandato a puttane anche la mia di vita, non avendo più un modello femminile da seguire, e adesso che ci siamo ritrovate fai queste stronzate? Io… non ero pronta, non ero pronta ad affrontare tutto questo schifo con Tom!».
Grace guardò negli occhi sua madre, quando lei li alzò, e li trovò lucidi di lacrime, ma non provò nemmeno un minimo di compassione, non in quel momento.
«Pensavo di fare la cosa giusta per te…», mormorò con voce spezzata Melanie.
«Quante volte ho sentito questa frase…», rise piano, una risata piena di amarezza e rammarico. «Pensavi di fare la cosa giusta per me anche chiedendo la separazione, allontanando papà e il suo lavoro dalla mia vita perché lo credevi pericoloso, quando hai capito che mai lui lo avrebbe lasciato. E lo sai perché? Lo sai, mamma? Finalmente l’ho capito, dopo che anche io sono stata messa di fronte alla possibilità di mollare tutto: questo lavoro o lo si lascia di propria volontà, oppure lo si fa fino alla morte».
Melanie si portò una mano alla bocca e si appoggiò allo schienale di una sedia, le gambe che stavano per cederle, ma Grace concluse senza pietà: «Sono orgogliosa di mio padre, perché ha messo in gioco la sua vita per il suo desiderio di giustizia ed ha accettato che tu ti allontanassi con me, perché ci amava. Il fatto è che lui stesso ci avrebbe allontanate, se avesse avvertito dei pericoli per noi, invece tu… l’hai lasciato solo perché avevi paura, la paura ha sovrastato il tuo amore per lui e… non lo capirò mai, mai».
Sua madre ebbe la forza di spostare la sedia a cui si era appoggiata e di sedersi, evitando di svenire. Si coprì il viso con entrambe le mani, scostando i capelli, e rimase in silenzio, un silenzio così pesante che sembrò soffocare Grace. Perché non diceva niente, perché non ribatteva indicandole le sue ragioni, perché almeno non ci tentava?
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso e Grace, pur consapevole di essere stata molto dura, si sentì invadere da una rabbia cieca, una rabbia che a malapena riuscì a controllare, dirigendosi con passo pesante verso l’ingresso ed uscendo dall’appartamento sbattendosi la porta alle spalle.


Il cellulare che iniziò a vibrarle nella tasca dei jeans la fece tornare alla realtà, alla sabbia sotto i palmi delle mani, al sole che le scaldava il petto sotto la maglietta nera, al vento fresco che le scompigliava i capelli corti.

Guardò il display illuminato e lesse il nome di Molly. Si domandò se non fosse stato Tom ad avvertirla e a chiederle di provare a chiamarla, ma preferì non farsi troppe domande e rispose.
«Pronto?».

«Grace! Ehi, va tutto bene?».

Si portò gli occhiali da sole sulla testa e lasciò che il sole l’accecasse, mentre si strofinava il viso con il dorso di una mano.

«Alla grande. Tu, com’è andata alla partita?».

«Oh, sapessi!», rispose, un tantino esasperata.

«Si tratta di quel ragazzo… Nigel?».

«Ora non posso parlartene, sono con lui», le confessò a bassa voce e Grace riuscì a sorridere, stupefatta. «Ti racconterò tutto più tardi, okay?».

«Certo, non vedo l’ora».

Ci furono dei secondi di silenzio, nei quali la detective sentì più forte la sensazione che Tom c’entrasse qualcosa anche con la telefonata di Molly. Infatti, quando la ragazzina ruppe il silenzio, la sua voce aveva assunto una sfumatura preoccupata: «Grace…».

«Ascolta, Molly, dì a Tom di non preoccuparsi, che lui non c’entra niente, che sono io il problema. Ho solo bisogno di un po’ di tempo, digli così. E che mi dispiace per essere sparita in quel modo».

«D’accordo», sospirò. «Mi raccomando però, non fare cavolate».

Grace accennò un sorriso. «Hai la mia parola».

Terminò la chiamata e fece un respiro profondo riponendo il cellulare nella tasca dei jeans. Poi si lasciò cadere all’indietro, incrociando le braccia dietro la nuca, e chiuse gli occhi concentrandosi solo sul calore della sabbia sotto la maglietta e quello del sole sul viso, stuzzicato anche dal vento profumato alla salsedine.

Sarebbe rimasta lì così per ore, a non pensare a niente, ma ad un tratto delle risate le fecero aprire gli occhi e voltare il viso verso la sua sinistra. Non si sarebbe mai aspettata di incontrarla così, per caso, ma pensandoci l’hotel in cui la signora Phillips tradiva il marito non era tanto distante da quella spiaggia. Probabilmente la sua giovane e bella amante, che in quel momento correva in riva al mare trascinandosela dietro, l’aveva convinta ad uscire un po’ all’aria aperta per godersi il sole e la brezza dell’oceano.

Guardandole ed accorgendosi della felicità che illuminava i loro volti ed ampliava i loro sorrisi, Grace si chiese se fosse la cosa giusta prendere il cellulare e fotografarle per procurarsi ulteriori prove sulla relazione extra-coniugale della signora Phillips, da mostrare poi a suo marito. La risposta era sì, perché era il suo lavoro e non poteva nemmeno aggrapparsi alla scusa dell’essere in servizio o meno, perché non aveva orari, ma decise di non farlo: erano così felici, stavano vivendo forse uno dei momenti più belli della loro vita, ed immortalarlo per usarlo come prova, in quel particolare momento, attraversata da tutti i sentimenti del caso, le sembrava un sacrilegio.

Così si limitò a guardarle di nascosto, sperando per loro che quello non fosse l’ultimo dei bei momenti passati insieme, ma che potessero viverne molti altri anche dopo che il signor Phillips avesse staccato un assegno intestato a Grace Schneider.

***

Molly, terminata la breve conversazione con Grace, voltò il capo verso il tavolino della gelateria a cui era seduto Nigel ed incrociò il suo sguardo. Sorridendo imbarazzata, alzò un dito come a voler dire: «Ancora un minuto». Lui ricambiò, stringendosi il collo fra le spalle, e tornò a leccare il suo cono al fiordilatte. La ragazzina sospirò ed inviò velocemente un messaggio a Tom, scrivendogli esattamente quello che Grace le aveva detto di dirgli. Quindi tornò a passo incerto da Nigel e dalla sua coppetta alla fragola.
«Tutto a posto?», le domandò, sembrando veramente interessato.
Lei annuì distrattamente con un cenno del capo. «Tu, invece? Ti fa ancora male?».
Nigel si tolse il ghiaccio istantaneo dallo zigomo destro e girò il viso per farle vedere meglio il livido.
Molly lo osservò per qualche secondo ed accennò un sorriso: «Si sta già sgonfiando. Mi spieghi esattamente come te lo sei procurato?».
Il ragazzo si dipinse un sorriso affascinante sulle labbra, ma non poté nascondere il rossore che si impadronì delle sue guance dicendo: «Hai presente Aiden? Quello che il coach ha fatto entrare quando io mi sono distratto al terzo strike e sono stato eliminato? Ecco, diciamo che negli spogliatoi, a partita finita, c’è stato uno scambio di battute, quel bastardo ha reagito male e mi ha tirato un pugno». Una smorfia rabbiosa gli accartocciò il viso in un modo che fece paura alla ragazza, ma Nigel la cancellò presto e tornò a sorridere, concludendo: «Per sua sfortuna il coach è intervenuto e non giocherà alla prossima partita».
Il cuore di Molly aveva iniziato a battere furiosamente appena Nigel aveva pronunciato il nome di Aiden e ancora di più quando le aveva raccontato che gli aveva tirato un pugno. Nonostante avesse la prova di fronte ai suoi occhi, Molly aveva pensato per prima cosa ad Aiden, certa che la versione di Nigel non fosse del tutto compatibile con la realtà dei fatti. Quel ragazzo a pelle non le era mai piaciuto e per qualche motivo continuava a non piacerle.
Perciò, quando il suo cuore tornò ad avere delle pulsazioni più o meno regolari, gli chiese: «Ma che cosa vi siete detti, di preciso?».
Nigel le rivolse il suo solito sorriso sfrontato e sensuale, avvicinandosi un po’ di più al suo viso. Molly impallidì, chiedendosi se non volesse provare a baciarla di nuovo: quella volta probabilmente non ci sarebbe stata la suoneria del suo cellulare a salvarla in corner!
Ma lui rispose semplicemente alla sua domanda, a bassa voce: «Io gli ho detto che non doveva montarsi troppo la testa, anche se era riuscito a portare il team alla vittoria, perché se io non mi fossi distratto a causa tua, dolcezza, rapito dalla tua bellezza…», le sfiorò il collo con un dito e Molly arrossì, deglutendo rumorosamente. «Sarei riuscito benissimo a fare un fuori campo e lui non avrebbe nemmeno giocato».
«E lui… lui ti ha tirato un pugno per questo?», balbettò, ancora sconvolta a causa del suo gesto.
Nigel ridacchiò e si allontanò, addossandosi allo schienale della sedia di metallo e portandosi un braccio dietro la testa.
«Davvero, per così poco! Ah, l’invidia…».
Non ci credeva, non ci credeva nemmeno un po’. Non ce lo vedeva proprio Aiden picchiare Nigel per un motivo così banale, mettendosi nei guai con le sue stesse mani e in modo così stupido. Doveva esserci dell’altro, oppure la versione che Nigel le stava dando era alterata dal suo punto di vista.
«Toh guarda, eccolo là!», gridò ridendo il ragazzo, passandosi una mano tra i riccioli biondi ed indicando Aiden dall’altro lato della strada, in sella alla sua bicicletta nera.
Molly si girò, nonostante fosse imbarazzata fino all’inverosimile, ed incrociò per caso lo sguardo di Aiden, profondo e penetrante. In quei due pozzi scuri lesse rabbia, ma anche uno strano dispiacere che non riuscì a spiegarsi e che le lasciò un macigno sul petto.
«Adesso non fai più lo sbruffone, stronzo!», gridò ancora Nigel, pronto ad alzarsi dalla sedia, ma Molly gli prese subito il braccio e lo trattenne seduto al suo fianco.
«Basta, per favore, smettila».
Il ragazzo la guardò stupefatto, ma poi le sorrise compiaciuto. «Solo perché me lo chiedi tu, Molly. Non esistono più ragazze come te!». L’aveva detto ad alta voce, in modo tale che anche Aiden, fermo al semaforo, potesse sentire.
All’improvviso Nigel si chinò su di lei, portando una mano fra i capelli sulla sua nuca, e la baciò sulle labbra con prepotenza. Molly infatti rimase immobile, con gli occhi spalancati, e oltre la spalla di Nigel vide Aiden sgranare un po’ gli occhi e sbuffare con un sorrisetto amaro sulle labbra, poi il semaforo divenne finalmente verde e poté sfrecciare via senza guardarsi più indietro.
Allora Molly parve risvegliarsi da un incantesimo e riuscì ad allontanare Nigel da sé, spingendolo via con le mani sul suo petto. Il ragazzo la guardò spaesato e Molly fuggì subito dal suo sguardo, abbassando il viso verso i pugni stretti sulle ginocchia, per non mostrargli gli occhi lucidi di lacrime. Voleva solo andarsene da lì, andarsene e non vederlo mai più. E fu proprio quello che fece: si alzò di scatto dalla sua sedia e in silenzio si incamminò verso il marciapiede.
«Molly, dove vai? Molly!». Nigel la rincorse e la prese per un polso, facendola voltare bruscamente verso di lui.
«Lasciami andare», mugugnò senza guardarlo negli occhi.
«Molly, ma che cosa ti prende?».
La ragazza si divincolò, dicendo più forte: «Ho detto di lasciarmi andare, lasciami!».
Un’Audi bianca si accostò ai due sul marciapiede di fronte alla gelateria e quando il finestrino del passeggero si abbassò Molly ebbe un tuffo al cuore, sentendosi la ragazza più fortunata dell’universo.
«Ehi, c’è qualche problema?», disse Bill con la voce e l’espressione più dure che potesse fare nel tentativo di intimidire Nigel: il cantante non avrebbe potuto far del male nemmeno ad una mosca, ma il suo aspetto – in particolare i muscoli sulle braccia e i tatuaggi – poteva trarre in inganno in quel senso.
«No, nessun problema», rispose Nigel stizzito.
«Allora lasciala andare e tornatene a casa dalla mamma. Ora».
Con un grugnito Nigel lasciò andare il polso di Molly, già arrossato, e la ragazzina si fiondò subito contro la portiera che Bill le aveva preventivamente aperto dall’interno. Una volta dentro l’abitacolo, al sicuro, Bill fece ruggire il motore dell’Audi e si allontanò più in fretta possibile.
Avevano distanziato la gelateria di qualche isolato, quando il cantante le posò una mano sul ginocchio, mormorando carezzevole: «Va tutto bene?».
Molly scosse il capo, non riuscendo ad impedire che alcune lacrime le scivolassero ardenti sulle guance.
Bill sospirò, stringendo con più forza il volante fra le mani, e disse ancora piano: «Ti porto a casa».


Il frontman dei Tokio Hotel parcheggiò l’auto accanto ai garage in cui erano custodite diverse d’auto d’epoca di Mr. Delafield, poi si voltò verso Molly, la quale lo stava guardando con gli occhi arrossati e ancora umidi di lacrime.
«Ti dispiace rimanere un po’ con me? Io…».
Bill le sorrise teneramente, passando una mano fra i suoi capelli biondi, quel giorno acconciati in morbidi boccoli. «Ma certo. Mi devi ancora la rivincita a Just dance».
Riuscì a strapparle un sorriso, ma la ragazzina milionaria gli gettò comunque le braccia al collo con una stretta quasi soffocante.
«Menomale che sei arrivato tu, che sei passato di lì proprio in quel momento…».
«Non ti sarebbe capitato nulla di male, Molly».
La ragazza annuì, sciogliendo l’abbraccio e lasciandosi accarezzare una guancia.
«Forza, entriamo».
Uscirono dall’auto e Molly trasse un respiro profondo, cercando di cancellare dal viso ogni segno lasciato dalle lacrime: non voleva che il maggiordomo o la governante si preoccupassero e andassero ad avvisare i suoi genitori, non avrebbe saputo cosa dirgli.
Come previsto, il maggiordomo li accolse subito all’ingresso, ma Molly lo liquidò in fretta, dicendogli che non voleva essere disturbata, quindi prese Bill per il braccio e se lo trascinò dietro fino alla taverna, dove si sedettero su un divano di pelle bordeaux, quello di fronte alla TV al plasma.
«Vuoi parlare di quello che è successo?», domandò Bill ad un certo punto, con tatto.
Molly sospirò e scosse lievemente il capo. «Non ti offendere, Bill, ma l’unica persona con cui vorrei parlare in questo momento è Grace».
«No che non mi offendo», rispose sorridendo. «Vuoi che la chiami e le dica di venire qui?».
«No… la chiamo io».
«D’accordo. Allora io chiamo Tom e lo avviso che sono qui, ci metto solo due minuti».
Molly annuì e lo guardò mentre si alzava e si dirigeva verso la cantina dei vini per poter parlare col gemello. Nel frattempo, lei tirò fuori il cellulare dalla borsa e chiamò Grace, incrociando le dita perché rispondesse.
Nonostante le avesse voltato il capo dall’altra parte nel momento meno opportuno, anche quella volta la dea della fortuna fu dalla sua parte.
«Pronto?».

***

«Ah, quindi non così… ma così. Ho capito, ho capito».
«Allora riprova, dai».
Tom si stava accingendo a riprovare il pezzo che Melanie aveva perfezionato con una semplice e piccola aggiunta, quando sentì il proprio cellulare suonare alle sue spalle.
La voce gracchiante di David, dall’altra parte del vetro, intonò: «Tom, quante volte ti ho detto…».
«Lo so, lo so, ma non potevo spegnerlo!». Poi il chitarrista – in quel momento anche pianista – si rivolse a Melanie, sussurrando: «Un attimo solo, è mio fratello».
Uscì dalla stanza insonorizzata e si portò il cellulare all’orecchio, rispondendo trafelato.
«Finalmente! Ce ne hai messo di tempo!».
«Scusa, ero in studio di registrazione».
«In studio di registrazione? A fare che cosa, scusa?».
«Ci sono venuto con Melanie, sai per quelle lezioni di piano…?».
«Ah, sì, mi ricordo!».
«Uhm. Perché hai chiamato? Notizie di Grace?».
«In realtà no. Volevo solo avvisarti che sono a casa di Molly, è successo un mezzo casino e…».
«Che casino? Spiegati meglio».
«In pratica stavo andando a prendermi qualcosa da mangiare, quando l’ho vista con un ragazzo che la stava tenendo con forza per un polso e sono intervenuto. Era ed è a dir poco sconvolta e mi ha chiesto di restare un po’ con lei. Ah, ha detto che chiamava Grace, vuole parlarne solo con lei».
«Quindi… quindi è probabile che venga lì?».
«Può darsi, non ne ho idea…».
«Okay, allora… ci vediamo tra poco».
Non gli lasciò nemmeno il tempo di rispondere e chiuse la chiamata, tornando in studio di registrazione per avvisare David e Melanie del cambio di programma. Il manager all’inizio protestò, ma alla fine lo lasciò andare.
«La riporto a casa, va bene?», domandò Tom mentre si metteva al volante della sua Audi.
«Sì. Tu vai da Grace?».
Tom mise la retro e portò un braccio dietro il poggiatesta del passeggero per fare manovra, rispondendo: «No, ma spero di incontrarla dove sto andando».
«Ne ero sicura».
Il chitarrista osservò Melanie e notò il sorriso candido che le aleggiava sulle labbra. La donna, accorgendosi del suo sguardo perplesso, si portò una mano di fronte alla bocca per reprimere una risatina.
«Hai gli occhi che ti brillano quando si tratta di lei».
Tom in risposta si concentrò sulla strada, meditabondo.
Fu distratto ancora una volta dal sussurro dalla madre della ragazza che amava, con il viso rivolto verso il finestrino.
«È la stessa cosa che succede a lei quando pensa a te».

***

«Grace… per favore, vieni subito, ho bisogno di te».
Continuava a sentire quelle parole infilzarle il cranio come coltelli affilati e più il dolore aumentava più premeva sull’acceleratore, col vento che entrava dai finestrini che le frustava i capelli scompigliati sul viso. Ma non vi badò e continuò a guidare il più veloce che poté per raggiungere Molly nel minor tempo possibile, chiedendosi cosa mai potesse essere successo di così grave per sconvolgerla così tanto. Quando l’aveva sentita al cellulare sembrava che il mondo le fosse crollato addosso ed era grave, molto grave, se a provare quella sensazione era una ragazzina milionaria di nemmeno quindici anni.
Suonò il clacson ancora prima di parcheggiare malamente il fuoristrada di fronte all’enorme cancello all’entrata del giardino della villa, ma nessuno capì il suo intento e dovette scendere per citofonare e farsi aprire. Dopodiché schizzò all’interno della proprietà privata. Appena arrivò nel vialetto, però, vide due Audi di sua conoscenza parcheggiate l’una accanto all’altra ed istintivamente inchiodò, sgommando sul ciottolato.
Si domandò se Molly non avesse recitato una parte sotto richiesta del suo idolo, ma il pensiero la fece rabbrividire, oltre che vergognare un po’: Molly non avrebbe mai fatto una cosa del genere e poi era davvero troppo scossa per fingere solamente. Quindi, dedusse che l’unico motivo per cui anche Tom si trovava lì era perché suo fratello l’aveva avvisato dell’accaduto e lui lo aveva raggiunto. Se poi aveva un doppio fine, oltre all’interessamento per Molly… Grace evitò semplicemente di vagliare quella possibilità.
Ad accoglierla sulla soglia quella volta c’era la governante, una donna sui quarant’anni, dai tratti somatici ispanici e un’espressione cordiale. La detective si fece dire dove poteva trovare Molly, spiegando che sarebbe andata da sola, senza che lei l’accompagnasse, e la governante, anche se un po’ titubante, la lasciò fare.
Grace ricordò la strada che portava fino alla taverna e già quando attraversò la cantina dei vini sentì le voci di Bill e Tom che discutevano su quello che il minore aveva visto quando era intervenuto. Quindi non era un piano architettato da Tom per incontrarla… Ne aveva dubitato solo un attimo, ma trasse comunque un sospiro di sollievo.
«Ehi, Molly».
La ragazzina e i due gemelli si voltarono di scatto verso la direzione da cui proveniva la sua voce e Grace incontrò immediatamente lo sguardo di Tom, ma altrettanto velocemente lo evitò.
«Menomale che sei arrivata», mormorò Molly correndo verso di lei e gettandole le braccia al collo.
«Tranquilla, va tutto bene». Le accarezzò la schiena e la guardò in viso prendendole le spalle fra le mani. «Raccontami tutto».
Molly annuì con un cenno del capo. «Andiamo in camera mia».
La prese per mano e dopo aver gettato uno sguardo a Bill e Tom alle sue spalle, come fece di sfuggita anche Grace, si diressero insieme verso le scale che portavano al piano superiore.


Quella di Molly era la stanza più raffinata e lussuosa che avesse mai visto. Il soffitto, come tutti quelli della villa, era adornato da preziosi affreschi, al centro dei quali pendeva un lampadario di cristalli rosa. Il letto sontuoso, a baldacchino e dalle coperte di velluto, occupava buona parte della stanza, talmente era grande, e il suo lato destro dava su una parete formata interamente da vetrate e sul balcone, in quella che, vista da fuori, era la forma centrale e bombata della facciata della villa.
Di fronte al letto poi c’era un piccolo salottino formato da un set di poltrone pregiate e puff ricamati – c’era persino un divano in stile triclinio romano! – tutti disposti intorno ad un piccolo camino d’abbellimento.
Ovviamente non potevano mancare il bagno privato e la stanza adibita a guardaroba, che Grace identificò subito con le porte chiuse ai lati del letto.
Molly si sedette a gambe incrociate sul materasso alto ed invitò Grace a fare lo stesso, la quale si tolse le scarpe per non sporcare.
Una volta l’una di fronte all’altra, però, Molly rimase a lungo col viso abbassato, come se si vergognasse di qualcosa, e Grace fu costretta a portarle una mano sotto il mento per farglielo sollevare.
«Ehi, mi vuoi spiegare che cos’è successo?», le domandò con voce pacata, carezzevole.
Le lacrime tornarono a pungerle gli occhi e balbettò: «Io… Nigel… Mi sento così stupida, è normale?».
«Non posso risponderti, se non mi spieghi».
«Temo… temo di non averti detto tutto, l’ultima volta che ci siamo viste, a proposito dei miei primi giorni di scuola».
Grace socchiuse gli occhi ed annuì lentamente col capo.
«Lo avevi già capito, ecco», mormorò la ragazzina, ridacchiando amaramente. «Mi dispiace, non so perché l’ho fatto, io…».
«Lui chi è?».
Molly levò lo sguardo e ad attenderla trovò il sorriso dolce di Grace, quello che le dava un infinito senso di materno.
Le raccontò così di Aiden, quel ragazzo dalla pelle scura, il sorriso brillante e gli occhi profondi come pozzi, e del loro primo incontro, quando lui l’aveva accompagnata alla sua classe prima che arrivasse in ritardo alla lezione di matematica e le aveva consigliato di guardarsi bene le spalle, di scegliere accuratamente le persone di cui poteva fidarsi, perché il suo cognome faceva gola a molti e molti erano intenzionati a sfruttare la sua amicizia proprio per l’importanza e i soldi di suo padre.
Ovviamente Molly non era rimasta indifferente ad un ragazzo del genere, infatti si era presa subito un enorme cotta per lui, tanto che aveva trovato nella partita di baseball a cui Nigel l’aveva invitata l’occasione perfetta per vederlo. Purtroppo però, le cose si erano evolute in maniera diversa, con un’azzuffata tra Nigel e Aiden negli spogliatoi e il primo che le aveva proposto di andare a prendere un gelato insieme.
Molly spiegò a Grace perché aveva accettato l’invito: un po’ perché aveva ceduto alle sue avances e un po’ perché era curiosa di capire che cosa gli fosse successo; inoltre, voleva sfruttare l’opportunità per chiedere a Nigel qualcosa su Aiden, ma non aveva fatto in tempo né aveva potuto farlo perché le aveva detto che era stato proprio lui a fargli quel livido sul viso, tirandogli un pugno.
Espose i fatti come l’aveva fatto Nigel, aggiungendovi però le sue personali considerazioni, poi terminò il suo sfogo con ciò che era successo poco prima che Bill intervenisse: il bacio di Nigel, Aiden in bicicletta che aveva visto tutto, la sua tentata fuga.
Quando il silenzio tornò sovrano nella stanza, Molly sentì il cuore batterle furiosamente nel petto e si sentì svuotata, sfinita, ma anche appesantita da una grande malinconia. Si portò le mani al viso e si piegò in avanti, trovando la spalla di Grace a sorreggerla.
«Perché sei così triste, piccola?», le sussurrò all’orecchio la detective, accarezzandole i capelli sulla schiena.
«Perché ho dato il mio primo bacio a Nigel, un ragazzo che non mi piace… e Aiden, lui… lui ha visto tutto e il modo in cui mi ha guardata… È stato orribile».
Grace sospirò e posò il mento sulla sua testolina bionda. «Prima cosa, tu non hai dato il tuo primo bacio: Nigel te lo ha rubato». Le sollevò delicatamente il viso per poterla guardare negli occhi e sorriderle. «Seconda cosa, dovresti parlare con Aiden».
A quell’affermazione l’espressione di Molly divenne quella di un cadavere: pallida e vuota. Poi il panico prese il sopravvento, facendola strillare: «Cosa?! No, no, no! Non potrò mai più parlare con lui, non dopo quello che è successo!».
«Molly, calmati… Spiegami di che cos’hai paura».
«Di cos’ho paura?! Di… di tutto!».
«Ma dovrai pur parlare con lui per sapere che cos’è successo veramente tra lui e Nigel in quegli spogliatoi… L’hai detto anche tu che non credi alla versione di Nigel».
«È vero, ma non posso chiederlo ad Aiden! Come posso…?».
Grace aprì la bocca per parlare, ma Molly quella volta la interruppe sul nascere e con un’aggressività che la detective non si sarebbe mai aspettata.
«Tu alla mia età saresti andata a parlare con il ragazzo che ti piaceva, dopo che il suo peggior nemico ti aveva baciata? Non penso proprio! Tu hai problemi di dialogo persino con il ragazzo che ami e che ricambia i tuoi sentimenti!».
Nonostante fosse profondamente scossa a causa di quelle parole, il suo viso continuò ad essere una maschera inespressiva. Ma Grace sapeva che presto si sarebbe crepata, mostrando tutti i sentimenti contrastanti che le si erano scatenati dentro come una tempesta. Per questo si alzò dal letto e lentamente raggiunse il balcone che dava sullo sterminato e fiorente giardino della villa.
Tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne prese una direttamente con le labbra, lasciando che penzolasse mentre recuperava l’accendino. Poi si voltò e guardò Molly, ancora sul letto. Si accorse subito che era mortificata, consapevole di quello che aveva detto, ma non le risparmiò – non ne sarebbe stata in grado – la voce priva di emozioni con cui le domandò: «Ai tuoi non disturba, se fumo qui?».
Molly scrollò il capo, abbassando lo sguardo. «Perdonami, Grace».
L’investigatrice privata si fece cadere sul naso gli occhiali da sole che aveva sulla testa, infastidita dal sole, e fece in tutta calma un paio di tiri, poi si appoggiò con la schiena al cornicione e si rivolse alla ragazzina all’interno della stanza.
«Sono io quella da perdonare, Molly. Non ho mai saputo cosa volesse dire essere un’adolescente normale. Il mio primo bacio l’ho dato a sedici anni, ma il lavoro di mio padre mi ha impedito di viverlo come avrei voluto. A volte penso che abbia contaminato come un veleno la mia vita, a volte lo penso davvero.
«Un anno dopo è morto, o meglio l’hanno assassinato, e diciamo che quando ti capita una cosa del genere l’amore adolescenziale è l’ultimo dei tuoi problemi».
Molly, con le lacrime agli occhi, si fiondò fra le sue braccia e la strinse forte a sé. «Scusami, scusami».
La detective sollevò la mano con cui teneva la sigaretta, per non bruciarla, e ricambiò l’abbraccio, posandole le labbra sui capelli.
«Non fa niente, tranquilla. Volevo solo essere d’aiuto, ma come al solito ho guardato la situazione dall’unico punto di vista che conosco, quello della detective».
«Non è vero», ribatté, immergendo gli occhi fieri e determinati nei suoi. «Non sei solo una detective. Sei un’amica, la migliore che io possa desiderare, e una compagna perfetta, come saprebbe spiegare Tom».
Grace ridacchiò, alzando il viso verso il sole. «Tom… Tom potrebbe avere tutte le ragazze del mondo, molto più perfette di me, credimi».
«Ma per lui lo sei, sei perfetta, perché ti ama».
La detective tornò a guardare gli occhi cerulei della biondina e le venne quasi voglia di piangere di nuovo, scoprendosi così fragile per l’ennesima volta. Ma si fece forza e riuscì a sorriderle di cuore, sfiorandole la fronte con le dita per sistemarle i capelli biondi.
«Ti voglio bene, Molly».
Il suo viso si illuminò come i suoi denti bianchi fecero la loro comparsa. «È a questo che servono le amiche, no? A sostenersi nel momento del bisogno. Questa volta sono io a non essere preparata, lo sai».
«Sì, lo so», sorrise. «E potrebbe anche non essere così, ma per quanto mi riguarda sono totalmente d’accordo con te».

***

«Dove si saranno cacciate quelle due?», borbottò Tom, stringendo nervosamente il telecomando Wii tra le mani e guardandosi alle spalle ancora una volta, sperando di vederle scendere dalle scale che collegavano la taverna al piano superiore.
«A raccontarsi tutti i loro problemi e a darsi consigli, come fanno tutte le amiche normali», rispose Bill, il quale però aggiunse subito dopo: «Anche se loro non sono propriamente normali, come amiche. Insomma, non le trovi anche tu una strana coppia? Da un lato una ragazzina milionaria che ha sempre vissuto isolata in questa villa, frequentando solo limousine e negozi griffati, con l’unica compagnia del maggiordomo e della governante; dall’altro un’investigatrice privata con un tormentato e doloroso passato alle spalle, abituata a mille pericoli, al sangue e alle ingiustizie. Sono così diverse! Eppure entrambe non hanno mai avuto un’adolescenza normale».
«Chi, tra noi, l’ha avuta?», disse Tom sarcastico, ma con la voce graffiata da un antico dolore: anche la loro giovinezza era stata strappata via dal mondo in cui si erano trovati catapultati all’improvviso.
«Già, hai ragione».
Bill abbandonò il suo telecomando Wii sul divano, stiracchiandosi come un gatto con le braccia dietro la testa. Tom imitò il fratello, solo con fare più burbero, ed appoggiò i gomiti sulle ginocchia, prendendosi il viso fra le mani.
Nessuno dei due aveva più voglia di giocare a Formula 1, decisamente.
«Pensandoci, anche tu e Grace siete piuttosto diversi. Ovviamente io l’avevo capito subito che sarebbe nato qualcosa tra voi, ma mai avrei immaginato che questo qualcosa sarebbe stato tanto forte e così duraturo. Vi siete proprio trovati, completati l’un l’altro… Non so come spiegarlo con altre parole».
Tom biascicò qualcosa dietro le mani che gli coprivano il viso, risultando incomprensibile al gemello, il quale si sporse verso di lui chiedendogli di ripetere.
Il chitarrista si sollevò di scatto, visibilmente stanco. «Ho detto che però è tremendamente difficile».
Sconvolto, Bill sgranò gli occhi. «C-Come?».
«Cosa credi, che l’amore sia tutto rose e fiori? Bill, a volte… a volte mi sveglio alla mattina, quando per esempio non la trovo al mio fianco o quando so che la sera prima abbiamo litigato, e rimpiango le ragazze facili per cui non provavo niente e che non mi davano alcun problema».
«Tu non puoi… Stai dicendo sul serio?».
Lo sguardo che gli rivolse lo fece morire: possibile che suo fratello provasse quei sentimenti, nonostante il suo amore per Grace fosse quello più vero e forte che avesse mai nutrito per una ragazza? Davvero amare una persona, amare veramente, era così complicato?
«Sì, ogni tanto lo penso e mi dico: “Basta, sono stanco dei problemi, non ne voglio più”. Ma poi…», un piccolo sorriso, ma dolcissimo, gli si dipinse sulle labbra. «Poi basta un bacio, un sguardo, un sorriso di Grace e penso che non vorrei nessun’altra al mondo, che mi annoierei a morte senza i problemi che ci caratterizzano, senza i nostri ricordi che ci tormentano. Senza di lei sarei inghiottito da quei ricordi, è questa la verità. E per lei li combatto, per noi».
Bill, commosso, non si rese nemmeno conto delle voci sempre più vicine di Grace e Molly, provenienti dalle scale. Se ne accorse soltanto quando vide suo fratello alzare il capo in quella direzione, ancora con quel sorriso sul volto. Solo allora si girò anche lui e vide Grace con le mani posate sulle spalle di Molly. Sorridevano, ma i loro non erano sorrisi colmi di divertimento, piuttosto sorrisi sollevati, come se le loro anime avessero appena smesso di piangere e avessero trovato finalmente conforto.
«Ehi, ce l’avete fatta!», esclamò il frontman. «Stavo iniziando ad annoiarmi, battendo Tom in continuazione!».
«Non dire stronzate, eravamo pari!», rispose a tono il gemello, per poi lasciarsi andare ad un sorrisino.
Tom incrociò quasi per caso lo sguardo di Grace e sentì il cuore tremare, incontrando i suoi occhi verdi di nuovo limpidi, sereni come il cielo dopo la peggiore delle tempeste.
La detective quella volta non si sottrasse al suo sguardo, anzi lo ricambiò con un lieve sorriso sulle labbra, fino a quando non socchiuse gli occhi in un segnale segreto che solo lui poteva interpretare, per poi rivolgersi a Molly, scherzando sulla sua quasi inesistente capacità di sintesi.
Tom dentro di sé trasse un sospiro di sollievo, certo che presto tutto tra lui e Grace si sarebbe sistemato.

***

Parcheggiò il fuoristrada di fronte al giardino sul retro della villa dei Kaulitz ed aspettò che Tom e Bill parcheggiassero le loro Audi nel garage e poi che il maggiore la raggiungesse con una corsetta.
Lo guardò entrare e sedersi sul sedile del passeggero. Quando chiuse la porta con un tonfo Tom sorrise e Grace ricambiò dolcemente ancor prima che dicesse: «Devo dire che mi è mancato, questo vecchio catorcio».
Si voltò verso Grace, socchiudendo gli occhi vedendo la sua mano alzata pronto a colpirlo sul braccio, ma si trovò a chiuderli del tutto, con un’infinita pace nel cuore, ricevendo una carezza sulla guancia. Portò la mano su quella di Grace e la tenne ferma lì sul lato sinistro del suo viso per un bel po’, godendosi quel silenzio ricco di tranquillità e il calore che provava in mezzo al petto.
«Ti ricordi… ti ricordi quando passavamo le ore a parlare qui dentro?», sussurrò la detective, le labbra arricciate a trattenere un sorrisino divertito.
«Certo che mi ricordo. L’ultima volta che l’abbiamo fatto tu per me eri ancora Helen».
«È vero. Uno dei ricordi più belli che ho è quando abbiamo dormito insieme, l’uno accanto all’altra».
«Sì, a parte il mal di schiena».
I loro sguardi si incontrarono e scoppiarono a ridere insieme, una risata lieve, lontana, ma intrisa di tenerezza.
«È per questo che non vuoi lasciare in garage questo catorcio? Per i ricordi?», le chiese Tom, passandole una mano fra i capelli e sistemandoglieli dietro l’orecchio.
Grace abbassò gli occhi ed annuì con un gesto del capo. Poi fece un respiro profondo per farsi coraggio e senza guardarlo negli occhi disse: «Mentirei, se ti dicessi che avrei voluto parlartene io, della morte di mio padre. A dire il vero non credo di essere ancora pronta per affrontare questo discorso, però… non c’è molto altro da dire, solo se… se hai qualche domanda, magari potrei provare a…».
Tom l’attirò a sé e le posò le labbra sulla fronte.
Per un primo momento il suo gesto la lasciò di stucco, ma Grace ci mise poco a rifugiarsi nel suo petto, avvolgendogli le braccia intorno alla schiena, sentendosi nel luogo più sicuro del mondo.
«Voglio che tu me ne parli soltanto quando sarai pronta, okay? Non devi sentirti costretta, non è quello che voglio. Tutti hanno i propri demoni e ci vuole tempo, per sconfiggerli. A patto che ci si riesca».
Grace chiuse gli occhi e sospirò rincuorata, stringendosi un po’ di più a lui. «Tom?».
«Uhm?».
«Possiamo rivivere il momento in cui ho iniziato ad innamorarmi di te?».
Il chitarrista si scostò per guardarla negli occhi, tenendole il viso fra le mani, e le sfiorò le labbra in un bacio. Grace gli accarezzò il collo e contribuì, socchiudendo le labbra per lasciare che le loro lingue si incontrassero e dessero il via alla loro danza.
Lentamente Tom lasciò scivolare una mano lungo il corpo snello e sinuoso della ragazza, raggiungendo il fianco e poi la coscia. Allora la spinse a salirgli sopra le gambe, a cavalcioni. Tirò giù la maniglia ed abbassò bruscamente il sedile, stringendo forte Grace al petto.
Si allontanò dolcemente dalle sue labbra e fissò gli occhi nocciola in quelli verdi di lei, accennando un sorriso. «Questo non c’era, nel momento in cui hai iniziato ad innamorarti di me. Perché hai iniziato a farlo quando abbiamo dormito qui dentro, vero?».
«Come facevi a saperlo?», balbettò Grace, stupita.
«Oltre al fatto che me l’hai fatto capire prima… Credo che sia successa la stessa cosa a me, quella volta».
La detective ridacchiò e lo baciò ancora, strusciandosi con calma sopra di lui.
«Che sarà mai, possiamo pure farla qualche modifica…».
Tom sorrise e le sfilò la maglietta.


La vibrazione del suo cellulare la svegliò all’improvviso, facendole alzare il capo così in fretta che per un momento vide girare tutto intorno a sé. Quando si riprese, vide il cellulare spostarsi sui tappetini dei sedili posteriori. Lo afferrò sporgendosi con il busto in avanti, stando attenta a non svegliare Tom sdraiato sotto di lei, e lesse il nome di sua madre sul display.
«Pronto?», rispose con voce roca, ancora assonnata. Se la schiarì tossendo un paio di volte, con l’unico risultato di non sentire quella flebile di Melanie dall’altra parte.
«Mamma, non ho sentito. Che hai detto?». Ma la comunicazione si interruppe all’improvviso.
Grace rimase ad ascoltare il tu-tu-tu-tu per qualche secondo, poi lanciò il cellulare sui sedili posteriori e fissò Tom ad un palmo dal suo viso.
«Tom? Ehi… Mi dispiace svegliarti, ma c’è un’emergenza».
Il chitarrista strinse gli occhi, accartocciando anche il resto del viso in una smorfia, e le infilò una mano fra i capelli.
«Mi stai perforando la milza, credo».
Grace sollevò subito il gomito, scusandosi, ed afferrò la maglietta, se la gettò addosso per coprire il reggiseno e si spostò sul sedile del conducente per infilarsela e rifarsi la coda sulla nuca.
«Hai detto che c’è un’emergenza? Quale?», chiese Tom, con tutta l’intenzione di riappisolarsi.
«Mi ha chiamata mia madre, ma non sono riuscita a capire nulla e ho paura che le sia successo qualcosa. Era a casa l’ultima volta che l’hai vista?».
«Sì, io… l’ho portata a casa prima di andare da Molly».
Grace si voltò verso di lui e lo scrutò con fare indagatore. «Mi stai dicendo che prima siete stati da qualche altra parte? Da soli?».
Tom aprì gli occhi e ricambiò lo sguardo, capendo quasi subito che Grace aveva interpretato male il significato delle sue parole o ne stava cogliendo il senso sbagliato.
«Non è come pensi! Siamo solo andati in studio di registrazione! Sai, per quelle lezioni di piano che tu l’avevi spinta a darmi… Stamattina era parecchio giù di corda, dopo la discussione con te, quindi l’ho portata da David per distrarsi un po’. Tutto qua».
«Perfetto, ora sei diventato il consolatore di mia madre», borbottò la detective. «Comunque che hai intenzione di fare, vuoi stare lì mezzo nudo ancora per molto?».
«Non vuoi che venga con te?», chiese, stupito e anche un po’ preoccupato.
«No, è meglio di no».
«Sei arrabbiata perché io e tua madre…».
«No, idiota», gli sorrise e si sporse su di lui per posargli un bacio sulle labbra. «Voglio solamente andare da sola. Sfrutteremo l’occasione anche per chiarirci, va bene?».
Tom annuì con un gesto del capo e indossò il suo maglioncino grigio, poi si tirò su e le prese il volto tra le mani per baciarla un’ultima volta.
«Chiamami dopo».
Uscì dal fuoristrada accorgendosi che la sera aveva già preso il sopravvento sul giorno. Il cielo, tuttavia, aveva ancora la sfumatura rossastra tipica del tramonto.
Entrò nel giardino sul retro e, raggiunto il porticato, la guardò mentre accendeva i fari e percorreva il vialetto in retromarcia, alzando un bel po’ di polvere. Quando si allontanò e scomparve alla sua vista, entrò in casa con l’animo sereno, convinto di amarla come non aveva mai amato nessun’altra.

***

Aveva fatto le scale di corsa, per questo entrò nel suo appartamento con il fiatone. Si gettò una rapida occhiata intorno e, dato il silenzio, apprese che sua madre non c’era. Ma dove poteva essere andata?
Si portò una mano sulla fronte, appoggiandosi al bracciolo del divano, e ripensò velocemente alla loro discussione di quella mattina, sentendosi infinitamente in colpa.
Con un sospiro tornò in piedi per andare a bere un bicchier d’acqua in cucina. Aprì l’acqua del rubinetto e la lasciò scorrere per qualche secondo, quando si accorse degli articoli di giornale sparpagliati sul tavolo. Si avvicinò per esaminarli e senza nemmeno toccarli capì che trattavano tutti dello stesso avvenimento: un brutale pestaggio nella periferia di Los Angeles, probabilmente un furto andato male. Già, quella era la versione che la polizia aveva dato alla stampa. La realtà era ben diversa e Grace la conosceva bene.
Abbassò la leva del rubinetto con un pugno e schizzò fuori dall’appartamento, quella volta sapendo perfettamente dove trovare sua madre.


Parcheggiò il fuoristrada a ridosso del marciapiede, nonostante il rischio di prendersi una bella multa.
Percorse il vialetto a passo svelto e vide il nastro che gli agenti della scientifica avevano applicato alla porta strappato. Qualcuno era entrato nella casa, ora più che mai silenziosa.
Fece un respiro profondo, portando una mano al calcio della sua Glock dietro la schiena, ed entrò di soppiatto.
La gran parte delle luci erano spente e il buio che era iniziato a calare fuori dalle finestre non aiutava di certo la vista, senza contare il fatto che c’era ancora la baraonda lasciata dagli aggressori di sua madre.

Perché sei venuta qui da sola, mamma, perché? si domandò la detective affranta, odiandosi ancora una volta per la scenata che le aveva fatto quella stessa mattina.
Strisciò lungo il muro del corridoio e cambiò lato per poter avere una visuale migliore del salotto, illuminato solo dalla piccola lampada da lettura posata sul tavolino accanto al divano.
Sua madre era china a terra, che cercava tenacemente di levare il sangue secco dal pavimento – il suo stesso sangue – armata soltanto di una spugna e di una bacinella d’acqua.
Grace abbassò la pistola e la infilò alla cintura, sotto la giacca di pelle, e lentamente fece qualche passo all’interno del salotto, stando attenta a non pestare i fogli scritti a mano, i vecchi spartiti musicali e i libri sparpagliati sul pavimento.
Raggiunse sua madre, la quale non la degnò nemmeno di uno sguardo, ossessionata da quella chiazza di sangue che non voleva saperne di sparire, e quando le fu di fronte si inginocchiò e posò le mani sulle sue braccia, fermando i suoi movimenti meccanici. Melanie sollevò di scatto il viso stanco e contratto in una smorfia di dolore ed immerse gli occhi in quelli della figlia. Grace fu colpita duramente dalla loro espressione fragile e allo stesso tempo un po’ folle, dovuta sicuramente allo shock che doveva aver provato rientrando, per di più da sola, nella casa dove era stata aggredita.
«Mamma…».
La donna accennò un sorriso, mentre le lacrime le scavavano le guance. «Hai visto? Alla fine ce l’ho fatta: sono tornata a casa».
Grace distolse lo sguardo per un attimo, poi l’aiutò ad alzarsi, levandole di mano la spugna bagnata, e la condusse in cucina, dove la costrinse a sedersi.
Mentre aspettava che l’acqua del tè bollisse, la detective andò in bagno ed aprì tutte le ante dei mobili fino a quando non trovò ciò che cercava. Quando tornò in cucina, vide sua madre ai fornelli che versava l’acqua calda e profumata in due tazze, che poi portò al tavolo.
Aspettò che sua madre tornasse a sedersi, poi si accostò a lei e si versò due pillole bianche sul palmo della mano, avvicinandogliele alla bocca. Melanie le osservò a lungo, poi annuì con un cenno del capo, asciugandosi il viso e tirando su col naso. Le prese tremando e se le posò sulla lingua, inghiottendole con un po’ di tè caldo.
«Vieni, dai», sussurrò carezzevole la detective, prendendola sotto braccio.
L’accompagnò fino alla sua camera da letto, la più intatta tra le stanze della casa, e l’aiutò a stendersi sul materasso, rimboccandole il lenzuolo sotto al mento. Melanie chiuse gli occhi, già intontita dai sonniferi, ma cercò la mano della figlia per stringerla forte. Grace non si tirò indietro e ricambiò la stretta, accarezzandone il dorso con l’altra mano.
«Scusami per quello che ti ho detto oggi, per tutto quello che ti ho fatto, per tutta la sofferenza che ti ho provocato. Ti voglio bene, mamma».
Melanie si era già addormentata, ma Grace ebbe comunque l’impressione che quello dipinto sulle sue labbra fosse un sorriso più o meno sereno.
Si alzò dal letto e socchiuse delicatamente la porta, poi tornò in salotto a finire il lavoro iniziato da sua madre.
Strofinò il pavimento a più non posso, usando così tanti prodotti da rischiare un’intossicazione, fino a quando non riuscì a togliere il sangue incrostato dal pavimento. Quando finì si sedette al centro del salotto, sul tappeto, ed osservò quella serie infinita di libri capovolti, sventrati e lacerati volati giù dalla libreria. Avevano cercato davvero dappertutto. Ma che cosa, che cosa?
Ricordò la sera in cui sua madre le aveva rivelato che appena due settimane prima di essere assassinato suo padre era andato a trovarla e si domandò se in quell’occasione lui non avesse lasciato qualche indizio per la polizia… o per lei.
Animata da quella speranza, seppure flebile, gattonò fino a raggiungere il primo mucchio di libri. Li controllò uno per uno, soffermandosi ad osservare le copertine, i titoli, e cercando di ricordare qualche possibile collegamento.
Le ore trascorsero velocemente e quando si fermò per una piccola pausa aveva sistemato la gran parte dei libri, quelli già controllati, nella libreria. Si strofinò gli occhi, stanchi ed arrossati per il sonno e lo sforzo della lettura, e solo in quel momento si ricordò di Tom: gli aveva promesso che lo avrebbe chiamato più tardi… Tirò fuori il cellulare e vide che le aveva scritto tre messaggi e non aveva risposto a molte sue chiamate. Stava per inoltrare la chiamata, quando le cadde l’occhio sull’ora: era notte fonda, probabilmente stava dormendo e non voleva svegliarlo. Gli avrebbe spiegato la situazione la mattina dopo, avrebbe capito di certo.
Fece qualche passo per sgranchire le gambe e la sua attenzione fu catturata da una fotografia posta sul mobile accanto alla libreria. Suo padre l’aveva scattata al mare, quando lei e sua madre erano riuscite finalmente a far volare il loro aquilone nel cielo terso.
La sollevò con un sorriso dolce fra le labbra, ma prendendo la cornice fra le mani si accorse di un angolo bianco che usciva fuori dal retro del portafoto. Incuriosita, l’aprì e trovò ciò che non avrebbe mai immaginato di trovare: una polaroid, dove però quella volta i soggetti in posa erano sua madre e suo padre, nel pieno della loro giovinezza, tutti imbacuccati sotto la neve. Guardandola ancora meglio, notò sullo sfondo un monumento che riconobbe subito: la Porta di Brandeburgo.


Toc toc.

Suo padre aprì la porta e mise la testa dentro la sua camera. «Tesoro, posso entrare?».
«Ormai è come se fossi già dentro», rispose Grace, scrollando le spalle con un sorriso sulle labbra, allontanandosi dalla scrivania sulla sua poltrona girevole.
Mitch si sedette sul letto della figlia ed appoggiò i gomiti sulle ginocchia, unendo le mani di fronte a sé.
«Va tutto bene?», gli domandò la ragazza, notandolo un po’ strano.
In effetti era da un po’ di tempo, da quando lavorava a quel caso che sembrava tanto importante, che il suo comportamento sfiorava spesso l’incomprensibile.
«Nella norma. Senti, tesoro… Devo andare via per un po’».
Grace si voltò di scatto, improvvisamente attenta, e lo fissò con gli occhi sbarrati. «E dove vai?».
Mitch le sorrise e le accarezzò il mento con un dito. «È un viaggio di lavoro, starò via solo una settimana».
«È pericoloso o posso accompagnarti?», gli chiese con una smorfia, già a conoscenza della sua risposta. Ma suo padre la sorprese.
«Ti prometto che quando questo caso sarà chiuso e mi prenderò una vacanza partiremo, solo io e te. E torneremo alle nostre origini».
Grace corrugò la fronte, stranita. «Le nostre… origini?».
Mitch sorrise raggiante, alzandosi e andando alla porta.
«Sì. È molto importante ricordare chi si è, tornare nei posti in cui si è nati… È confortante. Soprattutto nei momenti difficili».


Il cuore le batteva all’impazzata nel petto e dovette sedersi sul divano per non vacillare di fronte a quel ricordo così chiaro e vivido, tornato a galla all’improvviso dal profondo della sua memoria.
Possibile che tutte quelle ricerche, sia da parte degli aggressori di sua madre sia da parte sua, fossero state vane? Possibile che la risposta a tutte le sue domande stesse proprio in quella vecchia fotografia, nascosta all’ombra di un’altra? Possibile che per risolvere il caso di suo padre e dargli giustizia dovesse tornare davvero alle sue origini?
Tornò a guardare la polaroid che teneva ancora fra le mani e ne osservò lo sfondo con attenzione, chiedendosi se il discorso che suo padre le aveva fatto a diciassette anni e quella foto fossero collegate, se quest’ultima fosse l’indizio che le aveva lasciato per concludere il suo lavoro.
Davvero Berlino era la soluzione dell’enigma?

_______________________________

Ta-da-da-dààààn!
Allora, buongiorno :) Come state? Spero bene! Io un po' stanca, ma tutto sommato okay.
Questo capitolo è decisivo, come avrete notato... Dopo quello che è successo tra Tom e Grace in quello precedente, abbiamo avuto la "soluzione" e... che ne pensate? Dal mio punto di vista sono dannatamente teneri e Grace è così fragile, nonostante tutta la forza che tira fuori nei momenti più impensabili... Menomale che c'è Tom ;)
Lui è stato d'aiuto anche a Melanie, da cui Grace ha preso questa fragilità, e abbiamo avuto ancora una volta una visione del suo passato... E' riuscita anche a tornare a casa sua, a suo rischio e pericolo e permettendo a Grace di trovare quella polaroid... Chissà se Berlino sarà davvero la soluzione!
Per quanto riguarda la nostra Molly, invece... si prospetta il triangolo con Aiden e Nigel? xD Che ne pensate di loro due? Sono curiosa! :P
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate e chi ha letto soltanto!
E... vi aspetto e noi ci vediamo la settimana prossima (oltre che sulla mia pagina facebook _Pulse_ EFP )! ;D
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 22
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20

«Deve essere proprio un’occasione più unica che rara, quella che vi vede intenti a cucinare qualcosa, vero?».
Tom si voltò verso Grace e ridacchiò, la bocca piena di spaghetti di soia. Bill invece si lasciò andare liberamente, mentre si alzava da tavola per prendere una nuova bottiglia di birra.
«Ma a me piace cucinare!», disse il chitarrista, una volta inghiottito.
«Ah, peccato che non lo fai mai…».
«Senti chi parla», sbuffò lui, sventolando una mano.
Gli tirò un manrovescio sul petto, lasciando le bacchette dentro la sua scatola di spaghetti ai gamberetti. «Ehi, io sono un’ottima cuoca! Cucinavo sempre… prima».
L’atmosfera divenne all’improvviso pesante, carica di imbarazzo e disagio per l’ennesimo ricordo legato al padre di Grace venuto a galla, e Bill si appoggiò al lavello per bere direttamente dal collo della bottiglia ghiacciata.
«Beh, sai cosa ti dico? Accetto la sfida», esordì l’impavido Tom all’improvviso, rompendo il silenzio.
La detective sgranò un po’ gli occhi, confusa. «Tu… tu cosa?».
«Sì, facciamo una gara! Qualcuno farà da giudice e deciderà chi è più bravo in cucina!».
Bill sorrise divertito di fronte all’espressione elettrizzata, tipica di un bambino, dipinta sul volto di suo fratello. «Sei pazzo, Tom».
«Sì, perché vai incontro ad una sconfitta certa!», ribatté Grace, incrociando le braccia al petto, certa delle proprie capacità culinarie.
«Credi di avere già la vittoria in tasca, eh? Vedrai, ti farò pentire di avermi sottovalutato!».
Le avvolse un braccio intorno al collo e con una mano le scompigliò i capelli, facendola urlare indispettita mentre lui se la rideva di gusto.
Quel momento di gioia spensierata fu interrotto dallo squillo del cellulare del chitarrista, che lo costrinse ad alzarsi per rispondere.
«È David», spiegò sottovoce, per poi spostarsi in salotto per parlare più tranquillamente col management.
La detective finì di sistemarsi la coda, sfatta per colpa di Tom, poi si alzò ed iniziò a sparecchiare la tavola, schiacciando le scatolette di alluminio vuote e spezzando le bacchette non più utilizzabili.
Prese due nuvole di drago tra quelle avanzate: una la sgranocchiò lei, l’altra la portò a Bill e sorridendo lo imboccò come un neonato. In compenso però gli rubò la bottiglia di birra che teneva in mano e bevve un sorso appoggiandosi all’isola della cucina, vicino a lui. L’occhio le cadde inavvertitamente sulla profonda scollatura della canottiera che indossava, la quale gli lasciava i fianchi completamente scoperti: su quello sinistro Bill aveva il tatuaggio forse più grande tra tutti quelli che aveva, formato da due frasi scritte con un carattere elaborato ed intrecciate tra loro.
«Non smettiamo mai di gridare. Torniamo all’origine», sussurrò tra sé la detective, ma Bill la udì comunque e si voltò incuriosito verso di lei.
«Ti piace?», le domandò sorridente.
Grace annuì con fare distratto, avendo come la sensazione che la seconda frase potesse tatuarsi all’improvviso sulla sua fronte.
Ebbene, non aveva ancora fatto parola con nessuno del passo avanti – se poteva essere davvero chiamato così – che aveva fatto nelle indagini, trovando quella vecchia polaroid nascosta nella cornice di un’altra fotografia a casa di sua madre. Nemmeno con Tom. Prima o poi avrebbe dovuto farlo e a quel punto sperava decisamente prima che poi, perché aveva notato che non riusciva più a tenergli nascosto nulla, soprattutto se si trattava di una cosa di tale importanza: ogni volta che lo faceva si sentiva sporca e i sensi di colpa la divoravano.
«Ehi, Grace, va tutto bene?».
La detective levò di scatto lo sguardo e trovò subito quello di Bill, premuroso e gentile, ad accoglierla. Provò a rivolgergli un sorriso e in qualche modo ci riuscì.
«Sì, mi ero solo incantata».
A quel punto Tom rientrò in cucina con il cellulare stretto in mano, un’espressione che la diceva lunga sul tipo di conversazione che doveva aver intrattenuto con David.
«Domani mattina riunione», comunicò lapidario, dirigendosi al tavolo per mangiare anche lui una nuvola di drago.
«Avete parlato per dieci minuti e vi siete detti solo questo?», chiese Bill, con il suo adorabile sopracciglio sollevato.
Tom annuì e scrollò le spalle contemporaneamente. Poi incrociò lo sguardo di Grace e il suo viso si distese un poco, anche grazie alla comparsa di un piccolo sorriso.
«Ti va di andare a fare una passeggiata?».
Grace e Bill si scambiarono un’occhiata, entrambi sconvolti dalla richiesta insolita di Tom, e alla fine il frontman alzò le braccia al cielo e le lasciò subito cadere lungo i fianchi.
«Prima la gara di cucina, adesso la passeggiata al chiaro di luna! Va bene che è San Valentino, però…». Bill si interruppe bruscamente notando l’espressione sconvolta di Grace, ma ben presto un sorriso divertito gli si dipinse sul viso. «A volte mi chiedo dove vivi, Grace. Oggi è la festa degli innamorati, sì! E tu te ne sei dimenticata».
Grace, ancora a bocca aperta, si voltò verso Tom, il quale non aveva accennato a nulla del genere per tutto il giorno. Quindi arricciò le labbra per trattenere una risata e lui fece lo stesso, prendendola per mano e trascinandosela dietro.

Non conosceva quel posto, doveva ringraziare Tom per averglielo fatto scoprire in tutta la sua naturale bellezza: un sentiero a ridosso della costa, dal quale si poteva vedere l’oceano e raggiungere comodamente la spiaggia. Molto suggestivo per le coppiette innamorate e utile per chi, come Bill e Tom, aveva dei cani da portare frequentemente a spasso.
Grace si portò le mani dietro la nuca e trasse un lungo respiro profondo, chiudendo gli occhi mentre il profumo di salsedine le entrava nei polmoni.
«Stai ancora pensando al fatto che oggi è San Valentino?», le domandò Tom, il quale passeggiava tranquillo al suo fianco, nonostante il suo cane volesse raggiungere un gruppo di cespugli, attirato forse da qualche animaletto.
«Personalmente è una festa che odio. Che senso ha? Le persone innamorate non dovrebbero avere un giorno segnato sul calendario per farsi dei regali».
«Sono d’accordo con te. Tanto che me n’ero di nuovo dimenticata».
Il chitarrista ridacchiò. «Allora a che pensavi?».
«A troppe cose», confessò Grace. «Non c’è un modo per mettere il cervello in stand-by? Mi sto rovinando il momento romantico con il mio fidanzato!». Si aggrappò al suo braccio, sfarfallando le ciglia, e Tom scoppiò a ridere, sollevato che il buio della notte impedisse alla detective di constatare che era arrossito.
«Magari ci fosse… servirebbe tanto anche a me», replicò il chitarrista.
«Sei in pensiero per la riunione di domani?».
«Non per la riunione in sé, ma per ciò che verrà dopo. Vedi, l’argomento del giorno sarà la promozione del nuovo album e fare promozione vuol dire viaggiare e viaggiare comporta che io e te non…».
Grace si allontanò da lui e si sedette su una panchina, gli occhi rivolti verso l’oceano sulla cui superficie increspata si rifletteva la luce della luna, facendolo sembrare ricoperto di scaglie argentate.
«È il tuo lavoro, dovresti esserci abituato ormai», gli disse accennando un sorriso.
Tom si abbandonò al suo fianco, avvolgendole le spalle con un braccio e facendo accucciare il cane ai suoi piedi.
«Sì, ma non sono abituato a stare lontano da te. E solo il pensiero che ti possa accadere qualcosa mentre io sono via…». Le accarezzò una guancia col pollice, gli occhi fissi nei suoi.
«Non posso prometterti che mi terrò fuori dai guai, ma ci proverò», gli sussurrò, per poi stampargli un bacio sulle labbra. «Io posso stare tranquilla, invece? Niente scappatelle con qualche tua fan?».
«Ma che, scherzi?!».
Grace scoppiò a ridere, contagiandolo, e si appoggiò alla sua spalla con la testa, stringendosi a lui e lasciando che le accarezzasse i capelli.
«Vuoi sapere, invece, che cosa farò io domani?». Tom annuì e Grace proseguì: «Per prima cosa andrò dal signor Phillips per chiudere il suo caso: non posso più farlo aspettare».
«Finalmente ti sei decisa?».
«Già… Ormai è chiaro che quella ragazza non è un’amante occasionale della signora Phillips. Anzi, sembrano proprio innamorate».
«Ti preoccupa ancora la reazione di suo marito, non è così?».
«Esatto. Ho la sensazione che non reagirà affatto bene e raramente il mio istinto fallisce».
«Che cos’hai intenzione di fare, di pedinarlo?».
Grace sospirò stancamente e tirò fuori dalla tasca della giacca il suo pacchetto di sigarette. «Non lo so… Ho il terrore che possa fare qualcosa di folle, ma non posso controllarlo per il resto della mia vita!».
«Appunto. Lo so che è brutto da dire, ma forse… forse dovresti fregartene, ecco. Tu hai fatto quello che ti ha chiesto, il resto non è più un problema tuo».
La detective si accese la sigaretta fra le labbra, proteggendo la fiamma dal vento con una mano, poi accese anche quella che nel frattempo aveva offerto a Tom.
«Forse hai ragione», disse, anche se incerta.
Tom le sorrise e soffiò una boccata di fumo verso l’alto. «Poi hai altri programmi per la giornata?».
«In realtà sì», ammise Grace, annuendo lentamente col capo. Era arrivato il momento. «Avevo intenzione di… di andare a parlare con Dylan e l’agente Crawford».
«A proposito di cosa?».
Tom, non ottenendo subito una risposta, si irrigidì e tolse il braccio dalle spalle della detective, guardandola con un misto di preoccupazione ed irritazione negli occhi. «Grace, mi hai tenuto all’oscuro di qualcosa?».
«È… è solo un’ipotesi, ma forse…», balbettò fino ad interrompersi del tutto, portandosi una mano sulla fronte.
«Guardami negli occhi e dimmi che cos’hai scoperto», le disse con un tono di voce pacato, prendendole il mento fra le dita per far incrociare i loro sguardi.
«Berlino», si limitò a dire la detective.
Tom corrugò la fronte, confuso. «Berlino? Che c’entra Berlino?».
«Mio padre è nato a Berlino e l’altro giorno, quando mia madre è andata a casa sua e io l’ho raggiunta, ho trovato una vecchia polaroid nascosta dietro un’altra foto incorniciata».
«Continuo a non capire».
Grace socchiuse gli occhi e sospirò.


Si svegliò lentamente, le narici punzecchiate dall’odore intenso del caffè, e vide sua madre seduta sulla poltrona di fronte al divano su cui si era sdraiata all’alba di quella mattina, distrutta. Tra le mani aveva la polaroid che aveva trovato e la stava osservando con gli occhi umidi di lacrime.
Quando si accorse dello sguardo della figlia, Melanie si portò la fotografia al petto e disse con la voce spezzata dal pianto: «Tuo padre non se ne separava mai. Dove l’hai trovata?».
Grace, all’improvviso lucida, si chiese se fosse il caso mentirle. Alla fine optò per dirle la verità.
La donna si alzò lentamente e raggiunse la fotografia incorniciata sul mobile accanto alla libreria. L’accarezzò con le dita ed accennò un sorriso dolente.
«Quella sera», disse, «quando tuo padre venne a trovarmi, prese in mano questa stessa fotografia e disse che gli sarebbe piaciuto averla. Io gli ho detto di no perché era una delle poche cose che ancora avevo di te».
Grace si alzò dal divano e raggiunse la madre per abbracciarla delicatamente, lasciando che scoppiasse a piangere contro la sua spalla. Osservò la fotografia che le aveva preso dalle mani ed ebbe come la sensazione che un altro tassello del puzzle avesse trovato finalmente il suo posto: suo padre aveva nascosto la polaroid in quella foto con la speranza che un giorno lei la trovasse e continuasse a seguire la sua pista.


Tom voltò la polaroid verso la luce della luna per poterla vedere meglio, poi la ridiede a Grace, che la nascose subito nella tasca interna della giacca.
«Quindi… quindi pensi che un viaggio a Berlino possa condurti a qualche risposta sul caso?».
«È quello che spero».
«E se non trovassi niente?».
Grace sorrise. «Avrò visitato la città natale di mio padre come una normalissima turista».
«E ci andresti da sola?».
Osservò Tom e per l’ennesima volta colse nella sua espressione corrucciata la preoccupazione che potesse capitarle qualcosa di male.
Grace si accucciò ancora contro il suo petto e gli posò un bacio sulla mano del braccio che le avvolgeva il collo.
«Sarebbe bello se, per una fortunata coincidenza, voi iniziaste a promuovere il vostro nuovo album proprio dalla Germania, non trovi?».

***

Entrò nello studio del signor Phillips e l’uomo chiuse la porta, poi si diresse dietro la sua scrivania, invitandola ad accomodarsi su una delle due poltrone di fronte ad essa.
Grace si sedette, nonostante il disagio e il nervosismo, e girandosi per sistemare la borsa a tracolla sullo schienale vide una teca di cristallo in cui erano collezionate una serie di pistole, partendo da pezzi rari ed antichi fino ad arrivare a modelli invece più recenti ed estremamente curati. Deglutì, lo stomaco ancora più contratto in quella fastidiosissima morsa, e il contenuto della sua borsa parve aumentare di qualche tonnellata.
«Allora, non ha niente per me?», le domandò l’uomo, piantandole i suoi irritanti occhi azzurri addosso.
Grace sospirò e socchiudendo gli occhi infilò una mano nella borsa per tirar fuori il pacco destinato al suo cliente. Lo sbatté con poca delicatezza sul piano della scrivania e il senso di pesantezza che le aveva schiacciato il petto fino a quel momento svanì, immediatamente rimpiazzato però da un lieve senso di colpa che la fece sentire una specie di traditrice.
Il signor Phillips aprì la busta marrone ed osservò una per una le foto che ritraevano sua moglie con la sua giovane amante, sotto lo sguardo attento di Grace che non perse nemmeno un mutamento d’espressione dell’uomo, il quale contro ogni aspettativa si rivelò più calmo del previsto. Forse si sbagliava, forse si era sempre sbagliata, e non doveva temere che potesse far del male a sua moglie per il suo tradimento. Eppure il suo istinto di rado falliva… Decise di provocarlo un po’ per vedere la sua reazione.
«Aveva ragione lei: sua moglie la tradisce. E da un po’, direi. Ma chi se lo sarebbe mai immaginato che la tradisse con una donna! Stentavo a credere ai miei occhi quando le ho viste insieme nella camera d’albergo. Mi tolga una curiosità: lei non si è mai accorto di questa… tendenza di sua moglie? Uhm?».
«No, mai».
Il signor Phillips la incenerì con lo sguardo, ma fu l’unica reazione d’irritazione e rabbia che manifestò. Così Grace lasciò perdere la sua commedia e sospirò, dicendo: «Oltre alle foto, troverà un foglio in cui ho segnato i luoghi e le fasce orarie in cui sua moglie e la sua amante si sono incontrate durante la settimana. È molto probabile che rimangano le stesse anche per il futuro, nel caso…».
«Ho capito, grazie», la interruppe, aprendo bruscamente un cassetto della scrivania, da cui tirò fuori un blocchetto d’assegni. Prese una penna, compilò velocemente un foglietto e lo strappò, porgendoglielo.
«Ecco a lei».
«Signor Phillips…».
«C’è qualcosa che non va? Non era quella la cifra che avevamo pattuito?».
«No, la cifra è giusta», accennò un sorriso sollevando l’assegno. «Solo… conosco degli specialisti che saprebbero aiutare lei e sua moglie a superare questo momento e…».
Non la fece finire nemmeno quella volta, ribattendo con tono di voce aspro e un’espressione contrariata, ma nel limite dell’educazione.
«Lei è molto gentile, ma quello che passeremo io e mia moglie da qui in avanti non è più affar suo».
«Sì, lo immaginavo», mormorò Grace alzandosi dalla poltrona e sistemandosi la borsa a tracolla sulla spalla.
«L’accompagno alla porta».
«Non ce n'è bisogno, conosco la strada». Detto questo uscì dallo studio senza guardarsi indietro e una volta sul vialetto si strinse il collo fra le spalle, arrendendosi al fatto che non poteva fare più niente per aggrapparsi al suo istinto ed agire di conseguenza.
«E dai, merda, no!».
Grace corrugò la fronte udendo quelle imprecazioni soffocate e, incuriosita, si appostò all’angolo della facciata della villetta: sotto una finestra c’era un ragazzo di quindici, sedici anni al massimo, con una sigaretta fra le labbra, che provava e riprovava a far funzionare il suo accendino, senza successo.
La detective si avvicinò a lui sorridendo, ma il ragazzo si spaventò comunque e cadde culo a terra sull’erba. Grace ridacchiò e gli porse il suo accendino.
«Oh. Grazie».
Il ragazzo si accese la sigaretta e si rilassò, lasciando pure che la detective si sedesse al suo fianco, imitandolo.
«Tuo padre non sa che fumi, eh?».
«Assolutamente no», rispose il ragazzo, con un sorrisino sulle labbra. «Se lo scopre mi scortica vivo».
Il ricordo del giorno in cui aveva fatto il suo primo tiro le pungolò il cuore: lei, al contrario di quell’adolescente, era subito stata scoperta da suo padre, a causa della quantità esagerata di profumo che una sua compagna di scuola le aveva spruzzato addosso per coprire la puzza di fumo. Era entrata nel suo ufficio ed era bastato uno sguardo per farle capire che non l’avrebbe mai e poi mai fregato, che non approvava e che la trovava buffa nel suo voler essere grande a tutti i costi.
«Uhm, non male come metafora», disse quando riuscì a tornare alla realtà. «Manterrò il segreto».
«Tu sei l’investigatrice privata che ha ingaggiato per scoprire se mamma lo tradisce, vero?».
Grace lo osservò e le bastò uno sguardo per capire che sapeva già tutto. «Sì. Il mio lavoro è finito oggi, però. Tu sapevi che tua madre tradisce tuo padre?».
Il ragazzo annuì, facendo un avido tiro alla sigaretta. «Se fossi in lei, farei la stessa cosa. Mio padre è una specie di tiranno e se mamma è felice con un’altra persona, sono felice per lei».
Grace spense la sigaretta, ma tenne il mozzicone in mano in attesa che anche il ragazzo terminasse la sua. Prese anche il suo e fece per andarsene, sorridendogli, quando si voltò di nuovo e cercò nella tasca della giacca uno dei suoi biglietti da visita. Li usava così raramente che non sapeva nemmeno dove fossero! Quando li trovò, ne porse uno al ragazzo ancora accucciato sotto la finestra.
«Per qualsiasi cosa… qui c’è il mio numero di cellulare».
Il ragazzo annuì debolmente e la ringraziò, sia per l’accendino che per il biglietto da visita, poi la guardò andare via e gettare i due mozziconi di sigaretta in una grata al lato del marciapiede.

***

Molly sollevò il capo per spingere con forza la porta vetrata e non appena fu dentro l’atrio della scuola si sentì più che osservata. Imbarazzata, si guardò fugacemente intorno e vide alcune ragazze parlottare, indicando una delle pagine del giornalino scolastico.
Molly, decisa a non arrivare in ritardo alla lezioni – o forse solo desiderosa di stare sola, senza mille occhi addosso – si affrettò a raggiungere il suo armadietto, camminando a testa bassa. In corridoio però afferrò una copia del Knight e si irrigidì del tutto quando, sfogliandolo velocemente, si imbatté in una foto che immortalava Nigel Hall, capitano del team di baseball della Notre Dame, che la salutava con un sorriso ammiccante ed un occhiolino. Il titolo, più che provocatorio, come tutto il resto dell’articolo, vaneggiava su come la nuova arrivata avesse già conquistato il cuore di uno dei ragazzi più popolari. Erano persino quotati ad essere la coppia più popolare dell’anno, con i cognomi importanti che si trovavano.
Le lacrime le punsero gli occhi, ma grazie alla rabbia che iniziò a circolarle nelle vene riuscì a trattenersi, ficcando malamente la copia del giornalino nella borsa.
Aprì il suo armadietto e si trovò davanti un mazzo di rose che fece mormorare d’invidia un paio di ragazze che stavano camminando dietro di lei. Lo tirò fuori e trovò il bigliettino che le accompagnava:


Mi dispiace per quello che è successo sabato, ho rovinato tutto.
Mi dai un’altra chance?

Nigel

Trattenne un urlo frustrato e gettò biglietto e mazzo di rose direttamente nel cestino, suscitando scalpore in tutti quelli che avevano assistito alla scena, tra cui anche un paio di compagni di squadra di Nigel. Molly se ne fregò altamente e si diresse a passo spedito verso la sua aula, che trovò vuota. O quasi.
Al tonfo della porta, il ragazzo rivolto verso le grandi finestre che davano sul giardino interno all’edificio scolastico, quello adibito a parco e a mensa all’aperto, si voltò sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Buongiorno, Molly».
La ragazzina sbuffò col naso, lasciando cadere la borsa a tracolla accanto al suo banco. «Ben».
Il ragazzo si avvicinò a lei, dato che nel frattempo si era seduta nascondendo la testa fra le braccia in attesa del suono della campanella, e notò un angolo del Knight uscire fuori dalla sua borsa.
«Quindi… l’hai visto. Mi dispiace, Molly, davvero…».
«E io che volevo diventare sua amica. Perché ha fatto una cosa del genere, perché?!», gli urlò contro, gli occhi umidi di lacrime. Tirò fuori la pagina di giornale che la interessava in prima persona e la sbatté sul banco. «Che bisogno c’era di pubblicare una foto del genere?».
«Sheila non c’entra niente, io e lei abbiamo tentato di…».
Ma Molly non volle sentire ragioni e lo interruppe, gridando: «Adesso sanno tutti di me e Nigel e io… io odio questa scuola, odio tutti qui dentro!».
Incrociò gli occhi castani di Ben, che la scrutavano inespressivi, e si sentì morire lentamente. Era una bugia, una bella e buona: non odiava Ben, non odiava Aiden. E Sheila… lei era ancora un’incognita.
Il trillo della campanella ruppe la prigionia a cui lo sguardo di Ben l’aveva costretta, perché il ragazzo si sedette al suo fianco facendo esattamente come se lei non esistesse e tirò fuori il suo quaderno di matematica.
Molly si affrettò a nascondere la copia del giornalino scolastico e lo imitò, mentre i loro compagni più puntuali entravano in classe per sistemarsi ai loro posti.
Andava a scuola da quanto? Una settimana? E si trovava già sommersa da problemi che mai nessuno l’aveva preparata ad affrontare.

***

Dylan, seduto alla sua scrivania, notò con la coda dell’occhio che Oswin lo stava fissando. Strinse nel pugno la matita con cui stava giocando, poi mosse il mouse per mandare via lo screensaver dal desktop del suo computer.
Grace, cazzo, dove sei? si lamentò mentalmente, ripensando alla chiamata della detective: gli aveva detto che sarebbe arrivata lì entro dieci minuti e di contattare anche l’agente dell’FBI perché aveva bisogno di parlargli. Aveva subito intuito che si trattava di qualcosa di importante inerente al caso, ma davvero non riusciva ad immaginare cosa potesse aver…
«Parleremo prima o poi, vero?».
Alla domanda del suo partner, posta con voce stanca, Dylan si voltò e lo guardò intensamente negli occhi, l’espressione del viso indurita dal rancore che da un po’ di tempo a quella parte gli riservava.
«Io non ho niente da dirti», rispose stizzito.
Oswin alzò le mani in segno di resa. «Okay, hai ragione, sono io quello che deve parlare. Allora mi puoi ascoltare? Non possiamo più andare avanti così, hai persino chiesto al capo di cambiare la nostra auto con due moto, mentre noi… siamo una squadra, ci siamo sempre protetti le spalle a vicenda e se tu non ti fidi più di me…».
«Come potrei fidarmi ancora di te, dopo la coltellata alle spalle che mi hai inferto?», urlò a mezza voce, sporgendosi verso di lui tenendosi alla scrivania con una mano. «Mai, mai avrei immaginato che tu potessi farmi una cosa del genere… potessi giudicarmi come tutti gli altri. Pensavo che fossi mio amico e invece…».
«Ma io sono tuo amico, Dylan!».
«Evidentemente abbiamo due idee differenti di “amicizia”, visto che appena ti ho detto che avevo baciato Bill non sei più riuscito a guardarmi negli occhi!».
Oswin abbassò il capo, colpito e affondato, e in quel momento sia Crawford che Grace fecero la loro comparsa. Alla detective bastò scambiare uno sguardo con Dylan per capire che c’era tensione nell’aria e disse subito: «Ho bisogno di un caffè! Mi accompagni alla macchinetta? Non mi ricordo più dov’è».
«Certo», rispose il poliziotto, alzandosi dalla scrivania e raggiungendo i due dopo aver lanciato un ultimo sguardo sprezzante verso Oswin, il quale fece una pallina di carta e la gettò frustrato nel cestino, mancandolo.


«Va tutto bene?», gli chiese la detective quando furono abbastanza lontani, accarezzandogli un braccio.
Dylan annuì, sospirando lentamente. «Che situazione di merda. Vorrei perdonarlo, dico sul serio, ma ogni volta la rabbia mi manda in tilt il cervello e…».
«Beh, credo sia normale. Comunque vedrai che quando sarà il momento giusto ci riuscirai», gli sorrise incoraggiante e gli diede una pacca sulla spalla.
«Scusate, ma di che state parlando?», chiese l’agente Crawford, rimasto tutto il tempo alle loro spalle.
Dylan arrossì involontariamente e Grace accorse in suo aiuto, ridendo: «Oh, niente di grave. Ha qualche problema di… comunicazione con il suo partner in questo periodo».
«Ah, capisco. È anche per questo che preferisco lavorare da solo».
Grace sollevò un sopracciglio, schiarendosi la voce, e l’agente dell’FBI si sciolse in uno dei suoi sorrisi tanto belli quanto rari.
«A parte ovvie eccezioni, chiaro».
«Non vuoi davvero il caffè della macchinetta, vero? Lo sai che è pessimo», disse Dylan schifato quando giunsero nei pressi del vecchio distributore automatico.
Grace sorrise. «No, cercavo soltanto un posto appartato in cui poter fare due chiacchiere».
«Potevamo andare nella sala interrogatori…», disse Michael, la fronte corrugata.
«È lo stesso. Qui non ci viene mai nessuno, proprio perché il caffè è orribile!».
Dylan e l’agente Crawford si scambiarono un’occhiata e poi sorrisero, appoggiandosi al muro accanto alla macchinetta, curiosi di sapere il motivo per cui Grace li aveva voluti vedere.

***

Non aveva mai visto suo fratello fronteggiare David in modo così aperto ed ostinato, sembrava sempre sul punto di alzarsi e scaraventare la sedia a terra dalla rabbia, per poi prenderlo a testate sul naso. E il fatto preoccupante era che il management non era da meno.
«I piani ormai sono questi, non possiamo disdire tutto perché all’improvviso ti manca la tua patria o chessoio!».
Tom sbatté le mani sul tavolo, sporgendosi verso David con il viso paonazzo e le vene del collo in evidenza.
«Non mi manca la mia patria, siamo semplicemente in debito con le nostre fan tedesche, le prime ad averci sostenuto e senza le quali non saremmo dove siamo ora! È da troppo tempo che le trascuriamo, lo sai benissimo, e se la vediamo dal tuo punto di vista tutto questo non ci fa una buona pubblicità. È l’Europa che ci dà da mangiare, negli Stati Uniti non siamo ancora così tanto conosciuti».
«Appunto, proprio per questo iniziare da qui la promozione…», spiegò il management con tono di nuovo pacato, ma venne interrotto dalla voce di Georg, come Gustav in collegamento Skype dalla Germania.
«Secondo me Tom ha ragione, David».
Il chitarrista si voltò verso il pannello elettronico su cui erano proiettate le immagini webcam degli altri due componenti della band e sollevò le braccia.
«Grazie, Georg. Qualcuno dalla mia parte!», disse esasperato, lanciando un’occhiata truce al gemello seduto di fronte a lui, il quale non aveva ancora aperto bocca in suo appoggio.
Bill scosse il capo, arrendevole, e bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta posata sul tavolo.
«Perché, pensi davvero sia un’idea folle la mia?!», ribatté Tom, sempre più innervosito.
«Tom, lascia perdere. È meglio così, credimi».
«Cosa? No! Adesso mi dici per filo e per segno che cosa ti sta frullando nella testa, perché…».
«E va bene». Bill si alzò e posò le mani sul tavolo per poterlo guardare a distanza ravvicinata dritto negli occhi.
David si portò una mano alla fronte e sia Georg che Gustav strinsero un po’ gli occhi, preoccupati che potesse scatenarsi una delle tremende liti fra i gemelli Kaulitz.
«L’unico motivo per cui non ho detto niente è perché tu non stai dando la vera motivazione per cui vuoi che la promozione del nuovo album parta dalla Germania, da Berlino».
«Che cosa…?». Tom capì in un lampo dove Bill sarebbe andato a parare e divenne di nuovo paonazzo. «Oh no, non osare…».
«Sbaglio o sei stato tu ad ordinarmi di dirti quello che mi sta frullando nella testa?», sogghignò e lasciò qualche minuto al fratello per riflettere, fino a quando lesse nei suoi occhi la più totale disperazione. Solo allora scacciò via tutta la perfidia che aveva macchiato il suo viso e tornò a sedersi accavallando le gambe.
Tom si lasciò cadere sulla poltrona alle sue spalle, le labbra serrate e lo sguardo fisso sul tavolo, e David guardò i gemelli in un lento ping-pong. Alla fine focalizzò la propria attenzione sul chitarrista, al quale si rivolse dopo essersi schiarito la voce con un colpo di tosse: «Vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo?».
Tom negò con un breve cenno del capo e non osò sollevare gli occhi.
«Bene, allora siamo d’accordo che si farà come…».
Bill schioccò la lingua contro i denti con disapprovazione, guardandosi le unghie corte della mano tatuata.
«In realtà anche io ho voglia di tornare nella vecchia, cara Repubblica Federale».
«Oh, ti prego, Bill…», piagnucolò David, lasciando cadere sul tavolo il suo palmare.
«Facciamo a votazione?», chiese Gustav, sorridente come Georg e lo stesso Bill, il quale aveva posato gli occhi dolci in quelli stupiti del suo fratellone: mai gli avrebbe voltato le spalle, avrebbe dovuto saperlo ormai!
«Chi è d’accordo a far iniziare questo fottutissimo tour promozionale da Berlino?», domandò il frontman, sollevando subito una mano, imitato da Georg e Gustav, i quali la sventolarono di fronte alla webcam dei loro PC.
Tutti gli occhi si puntarono su Tom, ma fu un gesto puramente formale, perché avevano già raggiunto la maggioranza.
Il volto del chitarrista si illuminò grazie ad un sorriso e alzò entrambe le mani, urlando felice come una pasqua: «Lo sapevo, lo sapevo! Ragazzi, siete grandi!».
David, frustrato, abbandonò ogni altro tentativo di convincimento e dopo aver recuperato il suo palmare contenente tutti i piani già fissati della band che ora andavano inevitabilmente modificati, uscì dalla sala riunioni.
Tom si alzò per andare ad abbracciare frettolosamente il fratello e stampò anche un bacio sul PC portatile al centro del tavolo, poi si scusò e corse fuori anche lui, già con il cellulare in mano.
Quando rimasero soli, Bill e Georg e Gustav via Skype, il bassista domandò: «Ci dici il vero motivo per cui Tom vuole tanto andare a Berlino?».
Il frontman sollevò le mani e rise. «Non ne ho la più pallida idea!».
I due amici lo fissarono con gli occhi sgranati e lui aggiunse, con un sorriso furbo sulle labbra: «Ma scommetto che in quale modo c’entra Grace».

***

«Dovete lasciarmi andare a Berlino. È l’unica pista che possiamo seguire in questo momento, dato che Kenelm non ha saputo dirci niente oltre a quello che già sapevamo sulla sparatoria all’Halo».
«Beh, anche lui ha riconosciuto l’uomo che ha affittato l’hangar grazie all’identikit…».
«Okay, sappiamo con certezza che l’unico uomo visibile dell’organizzazione è l’ex portiere del palazzo dove c’è il mio ufficio, e allora? La verità è che siamo di nuovo ad un punto morto».
L’agente Crawford sospirò, massaggiandosi una tempia. «È tremendamente rischioso, Grace…».
«Me ne rendo conto».
Michael la guardò intensamente negli occhi. «Tu sei certa che tuo padre ti abbia lasciato una traccia da seguire?».
No, non ne era certa al cento percento, ma… «Sì».
«Okay, ma io verrò con te».
A quell’affermazione, che non aveva suscitato alcun effetto su Grace, Dylan spalancò la bocca, incredulo. La sua occasione… probabilmente la sua unica occasione di prendere un aereo e andare in Europa, gli stava sfuggendo dalle mani.
«No!», urlò, parandosi proprio di fronte all’agente dell’FBI. «No, l’accompagno io!».
Sia Grace che Michael lo osservarono sbigottiti. Pian piano però l’espressione della detective si ammorbidì e si lasciò scappare una risatina, cingendogli il collo con un braccio.
«Credo sia una buona idea, Michael. Dylan e io abbiamo lavorato a molti casi insieme, ci conosciamo da una vita e nelle operazioni siamo davvero una bella coppia». Poi si avvicinò all’agente e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, facendo arrossire il poliziotto.
«Ah, ora è tutto chiaro», constatò Crawford, rivolgendogli un mezzo sorriso. «Allora è andata. Fatemi informare i miei superiori, il tuo capo e poi…», i suoi occhi si adombrarono all’improvviso, tanto che sia Grace che Dylan ne rimasero molto colpiti. «Promettetemi che terrete gli occhi ben aperti, vi scongiuro», concluse con un tono di voce quasi addolorato.
I due annuirono solennemente e l’agente dell’FBI tornò il solito federale dagli occhi imperscrutabili, anche se accennò un sorrisino amaro mentre si allontanava lungo il corridoio.
«Non vorrei perdere i miei due nuovi compagni di squadra».
Grace stava ancora sorridendo, addolcita da quelle parole, quando sentì il cellulare vibrarle nella tasca dei jeans. Lo tirò fuori sotto gli occhi di Dylan e si allontanò di qualche passo per rispondere.
«Ehi, finita la riunione?».
«Oh, sì! E indovina che cosa siamo… beh, in realtà è stato Bill… Non importa, indovina!».
«Tom, calmati!». La detective rise, salutando Dylan che, a gesti, le aveva detto che doveva tornare alla sua scrivania. «Che cosa dovrei indovinare?».
«Il tour di promozione parte da Berlino!».
«Non ci credo… Mi stai prendendo in giro?».
«No, te lo giuro! David ci odierà per il resto della nostra vita, ma chissene frega!».
Grace si appoggiò con la spalla al muro accanto ad una finestra e guardò la strada trafficata.
E così lei e Tom sarebbero partiti insieme per Berlino. L’aveva detto quasi scherzando, la sera prima, che le sarebbe piaciuto fare quel viaggio insieme, ma non pensava che potesse accadere veramente. Insomma, la sua missione a Berlino era quella di investigare e portarsi dietro Tom non era un’idea consigliabile, visto che c’era un’ampia possibilità che quelli dell’organizzazione criminale la seguissero…
«Grace, va tutto bene? Dovresti essere felice, invece… Ci stai ripensando?».
«No, sono felice, solo che… ho appena parlato con l’agente Crawford e con Dylan e ci siamo resi conto della pericolosità di questa missione… Non voglio che ti succeda niente di male, Tom. Non me lo perdonerei un’altra volta».
«Non preoccuparti per me, io sarò più che al sicuro! I nostri bodyguard tedeschi sono dei professionisti! Verranno anche degli agenti dell’FBI, per coprirti le spalle?».
«Ahm, in realtà… abbiamo optato per Dylan».
«Nel senso che lui verrà con noi in Germania?».
Grace chiuse gli occhi, pronta ad allontanare subito il cellulare dall’orecchio per evitare che le urla di Tom le perforassero il timpano, ma questo non accadde. O meglio, dovette comunque allontanare un po’ il cellulare per non diventare sorda, ma le sue grida furono di… di gioia, sì.
«Ma è fantastico! In terra tedesca sarà lui quello a parlare strano! E poi ci pensi, lui e Bill potrebbero…», si interruppe bruscamente, ma Grace aveva già colto il significato della sua mezza frase e ridacchiò.
«Mi sa che qualcuno qui sta iniziando a fare il tifo per questa coppia…».
«Non faccio nessun tifo!», ribatté con voce leggermente stridula, segno inconfondibile che stava cercando in tutti i modi di difendersi di fronte ad un fatto ovvio. «Voglio solo il bene di mio fratello e se Bill vuole Dylan… lo avrà!».
«Okay, inizi a farmi paura».
«A partire da stasera!».
«Stasera?».
Tom sbuffò. «La gara di cucina, ti ricordi? Te l’avevo detto che era una cosa seria!».
«Ma… ma davvero?».
«Paura?».
«Assolutamente no!».
«Bene», sghignazzò. «Possiamo decidere un giudice a testa. Io ovviamente scelgo Bill, tu…».
«Dylan, ho capito. Molly la invitiamo?».
«Certo! Se vorrà farà da terzo giudice, quello imparziale».
«Imparziale, certo… sei il suo amore platonico!».
«Che ci vuoi fare, sono i rischi del mestiere!».
Risero insieme e Grace posò un dito sul vetro, disegnandovi sopra un cuore invisibile.
Tom stava facendo davvero di tutto per aiutare suo fratello e lo apprezzava moltissimo, anche perché facendolo stava aiutando anche Dylan, il più incasinato fra i due, nei confronti del quale, sotto sotto, ne era sicura, doveva provare una certa simpatia. Erano molto simili, d’altronde. E per quello si trovava così bene – ovviamente in modi diversi – con entrambi.
«Scusami, devo andare», disse il chitarrista, estrapolandola dai suoi pensieri. «Ci sentiamo più tardi, okay? Così mi racconti anche del signor Phillips».
«Sì, certo. A che ora è stasera la gara? A casa vostra, vero? Avete la cucina è più grande!».
«Sicuro, io devo giocare in casa!».
«Stronzo».
Tom rise e aggiunse: «Alle sette e mezza da noi. Ah, mi raccomando: solo ricette vegetariane che può valutare anche Bill!».
«Uffa, non vale! Pensavo di fare il mio ragù speciale!».
«Non mi nominare il ragù, per piacere! Mi fai tornare voglia di diventare onnivoro! Scappo, ciao, ciao!».
Grace lo salutò e terminò la chiamata, ridendo ancora tra sé. Che idiota, il suo Tom.
Percorse il corridoio fino a raggiungere l’ufficio di Dylan e si sporse all’interno tenendosi allo stipite della porta. Il poliziotto la notò e la raggiunse.
«Che c’è?», le domandò, incuriosito.
Grace sorrise smagliante. «Hai mai fatto il giudice di una gara di cucina?».

***

Aveva passato quasi tutta la mattinata ad evitare l’una o l’altra persona e non ne poteva più, ma non poteva fare altrimenti. Non era affatto giornata e l’unica cosa che voleva era un po’ di solitudine per crogiolarsi nei suoi drammi adolescenziali.
Sheila le aveva fatto quel torto scattandole quella foto incriminante con Nigel ed era arrabbiata con lei, senza contare che quel giorno il suo umore era quello di uno sciame d’api a cui avevano invaso l’alveare.
Quella mattina aveva risposto male a Ben e poteva dire che si stavano evitando a vicenda.
Dopo tutto quello che era successo con Nigel, il suo tentativo di riappacificazione con le rose e il bigliettino, non voleva più avere nulla a che fare con lui, ma chissà come e perché se lo trovava sempre davanti, in classe o nei corridoi.
Aiden… Oh, Aiden era l’unica persona che avrebbe voluto veramente vedere, anche se era sicura che sarebbe fuggita persino da lui se solo l’avesse intravisto. Infatti fino ad allora non era nemmeno riuscita a scorgerlo di sfuggita. Eppure frequentavano le stesse lezioni di storia e di scienze! Magari era semplicemente assente.
Presto arrivò l’ora della mensa, la più critica perché inevitabilmente avrebbe incrociato gli sguardi di tutti quelli che voleva a tutti i costi evitare. E non solo gli sguardi.
«Molly, ehi, Molly!». Nigel si alzò dal suo tavolo di sportivi e popolari e le indicò il posto che le aveva riservato.
La ragazzina fece finta di non vederlo e si diresse dalla parte opposta, ma incrociò gli occhi di Ben dietro le lenti dei suoi occhiali. Di fronte a lui era seduta Sheila, come sempre, e per questo non riuscì a raggiungerlo.
Si sentì afferrare per un gomito e si voltò, trovandosi a pochi centimetri dal viso di Nigel. I suoi occhi azzurri la fissarono quasi imploranti, mentre le sussurrava: «Dobbiamo parlare, non puoi continuare a scappare».
«Io non… adesso no, per favore».
Nigel la lasciò e si guardò le scarpe, poi le rivolse un sorrisino amareggiato. «Ho saputo che hai buttato le rose».
Molly si sentì infinitamente in colpa ricordando la rabbia che ci aveva messo scaraventando l’intero mazzo nel cestino, ma fu solo un momento.
«Mi dispiace», rispose atona. «Adesso posso andare a mangiare?».
«Vieni al nostro tavolo, dai».
«Preferisco stare un po’ da sola, okay?».
«Okay».
Si chinò per baciarle una guancia, ma Molly si allontanò e Nigel riuscì ad accarezzarle soltanto i capelli che, voltandosi, gli erano scivolati sulla mano.
Molly non si guardò alle spalle, camminò fra i tavoli a testa alta, nonostante facesse un’enorme fatica, e raggiunse uno dei tanti alberi del parco. Anche se un po’ restia, si sedette all’ombra delle fronde e posò il vassoio col suo pranzo di fronte a sé.
Molly tirò fuori il suo iPhone e rilesse l’SMS che Tom le aveva inviato quella mattina:


Gara di cucina: Tom vs Grace. Chi vincerà? :-) Stasera a casa nostra, alle 7.30! Sii puntuale, sei il giudice speciale! :-)


Appena l’aveva letto aveva subito pensato che Tom fosse veramente matto, ma d’altro canto era felice di avere amici del genere, capaci di distrarla e di farla sentire bene.
Aveva lo stomaco chiuso, ma si sforzò di dare un morso alla sua mela. Intanto si connesse a Facebook e il primo status che si trovò sotto agli occhi apparteneva a Nigel, il quale due minuti dopo la sua decisione di non andare a sedersi al suo tavolo aveva scritto: “Non so più cosa fare” con tanto di faccina triste. Ovviamente aveva già ricevuto una caterva di “Mi piace” e di commenti, soprattutto da ragazze che gli sbavavano dietro e gli dicevano di tutto e di più su di lei. Ma magari avesse creduto ad una di quelle oche e l’avesse lasciata perdere definitivamente!
Si rese conto che non aveva ancora provato a cercare il profilo di Aiden. Proprio lei che aveva voluto sapere da Grace un modo per conoscerlo meglio! Quale metodo migliore di chiedere l’amicizia su Facebook? Che stupida.
Lo trovò e stava per inviargli la richiesta d’amicizia, quando qualcuno alle sue spalle si schiarì la gola. Si voltò di scatto, spaventata, e percorse con lo sguardo, dal basso verso l’alto, il fisico longilineo e muscoloso di un ragazzo vestito vagamente in stile hip hop, con jeans di una taglia più grande e tenuti a vita bassa, una maglietta a stampe colorate e un cappellino firmato NY sulla testa.
Il cuore stava per scoppiarle nella cassa toracica, assieme ai timpani che sembravano rimbombarne i battiti come gong. Ciononostante riuscì a balbettare: «C-Ciao».
Aiden indicò il punto in cui si era seduta. «Quello è il mio posto, vengo sempre qui a pranzo».
«Oh… s-scusami, io… mi levo subito».
«Non c’è problema, resta pure», la tranquillizzò ridacchiando. Quindi si sedette al suo fianco.
Il suo pranzo consisteva in un tramezzino che si era portato da casa e senza porsi problemi iniziò a mangiare, in silenzio. Come potesse essere così tranquillo Molly non riusciva proprio a capirlo. Ah, già, lui non provava gli stessi sentimenti che le stavano facendo svolazzare mille farfalle nello stomaco.
Lo stava osservando, quando pronunciò una domanda che sorprese anche lei: non aveva nemmeno pensato di aprire bocca, paralizzata com’era!
«Come mai non c’eri alla lezione di storia, oggi?».
«Mi sono svegliato tardi», rispose semplicemente, scrollando le spalle.
«Ah, ho capito». Abbassò lo sguardo sul suo pranzo e bevve un sorso d’acqua per rinfrescarsi la gola secca.
«Certo che tu…», Aiden ridacchiò pulendosi le labbra con un tovagliolo rubato dal vassoio di Molly. «Prima eri sulla bocca di tutti perché eri la nuova arrivata. Adesso lo sei perché sei la nuova fiamma di Nigel. Sembra che tu lo faccia apposta a metterti al centro dell’attenzione!».
«Non è così», mormorò, stringendosi nervosamente le mani. «Se potessi, sparirei».
«Uhm, siamo in due».
«Perché?».
Aiden si strinse nelle spalle, incrociando le braccia sulle ginocchia. «È complicato».
Molly deglutì e, pensando a Grace, al suo coraggio, sperando che riuscisse a trasmetterglielo in qualche modo, gli chiese: «È per quello che è successo dopo la partita di sabato?».
Il ragazzo la fissò, appoggiando il capo contro la corteccia dell’albero. «Nigel che versione ti ha dato?».
«Lo sapevo, lo sapevo che non era la verità», mormorò tra sé, attirando comunque l’attenzione di Aiden.
«Come?».
«Eh? No, no, niente… Ecco, Nigel mi ha solo detto che non voleva che ti montassi la testa perché eri riuscito a far vincere la squadra, perché se lui non fosse uscito tu non saresti entrato, e che tu… non hai reagito bene, diciamo così».
«Ah, immagino che abbia anche fatto il ruolo della vittima per conquistarti!», disse, ridendo fragorosamente.
Molly arrossì e giocò col touchscreen del suo iPhone. «Com’è andata in realtà?».
«È andata che lui era invidioso, invidioso marcio che la squadra avesse vinto senza di lui, anzi… grazie a me. Mi ha insultato, chiamandomi “negro di merda”, ma soprattutto ha insultato mio padre». I suoi occhi scuri e profondi si tinsero d’ira e strinse così forte i pugni che le nocche si schiarirono in modo quasi innaturale. «Così gli ho tirato un pugno».
Oh sì, Molly ci aveva visto più che giusto, non credendo nella versione di Nigel. Quel ragazzo, ora più mai, le risultava antipatico, falso e molti altri aggettivi non carini.
«Dovresti dirlo al Preside. Non è giusto che il coach abbia punito te per colpa sua!», gridò, indignata.
«Ma il coach sa che la colpa è sua», rispose con un sorriso dolente sulle labbra e gli occhi colmi di rassegnazione. «Peccato che il padre di Nigel sia uno dei finanziatori della scuola e una punizione per lui sarebbe inaccettabile».
«Ma… ma non è giusto! Non puoi far venire i tuoi genitori?».
Aiden si irrigidì e deviò il suo sguardo. Molly capì subito di aver toccato un tasto dolente e si maledì, mentre un peso le piombava sul cuore. Che non avesse più i genitori?
«Io me la cavo da solo, non sono come i figli di papà che pullulano in questa scuola».
La ragazzina, sentendosi inglobata appieno in quel gruppo, si strinse le ginocchia al petto. All’improvviso però sentì la mano grande di Aiden posarsi sul suo capo e, osservandolo con la coda dell’occhio e le guance in fiamme, lo vide sorridere dolcemente.
«Con le dovute eccezioni».
Avrebbe voluto sorridergli ed aggrapparsi alle sue spalle forti per baciarlo, ma non riuscì a muovere nemmeno un muscolo fino a quando non lo vide alzarsi e riprendere la borsa a tracolla da terra.
«È stato bello chiacchierare con te, non sei come credevo», le disse, rivolgendole un altro dei suoi sorrisi abbaglianti. «Ah, un consiglio: se Nigel non ti piace levatelo subito di dosso, o te lo ritroverai incollato al…».
«Troppo tardi», rispose ridacchiando. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo.
«Aiden…».
«Sì?».
«Posso chiederti un favore?».
Aiden la guardò incuriosito e la campanella all’interno dell’edificio scolastico alle loro spalle suonò, decretando la fine dell’ora di pranzo.
«Come te la cavi in storia? Tra due settimane c’è la verifica e sono un po’ indietro con il programma, sai…».
Non sapeva come, ma ci era riuscita. Era un enorme passo avanti, tanto che non le sarebbe importato se Aiden avesse risposto in modo negativo. Bugia, le sarebbe importato eccome e sperava ardentemente in un suo «Sì».
Aiden le sorrise ed annuì. «È l’unica materia per cui sono portato. Quando ci vediamo? Che ne dici di giovedì prossimo?».
Sentiva che sarebbe potuta svenire da un momento all’altro, ma l’albero dietro di lei la sorresse e forse le trasmise un po’ di linfa vitale, permettendole di dire: «Sì, certo, è perfetto».
«Okay. Ehm…».
«Oh… Ti direi di venire a casa mia, ma non so se mio padre…».
«Non c’è problema, possiamo andare a casa mia. Ma ti avverto, non ci saranno i domestici!».
Molly rise ed ebbe come la sensazione che non avrebbe più avuto bisogno di nessun domestico al mondo, né di soldi né di vestiti griffati, se poteva contare sul calore e la serenità che le donava il sorriso di quel ragazzo ancora tutto da scoprire.

***

«Grace, mi stai ascoltando?».
La detective sbatté le palpebre per allontanare tutti i pensieri che le riempivano la testa ed osservò sua madre, seduta di fronte a lei al tavolo della cucina di casa sua, con un foglio e una penna in mano.
«Scusami, mi sono distratta».
«Ancora». Melanie accennò un sorriso. «Vuoi parlarne?».
«No, io…». Grace sospirò e ci ripensò, posando il mento sulle braccia incrociate sul tavolo. «A breve andrò a Berlino a fare delle indagini».
La donna sgranò gli occhi, colmi di paura, e la penna le scivolò di mano. «Tesoro, tu… Per quella foto tu non puoi…».
Grace le prese subito le mani fra le sue e ne accarezzò i dorsi con i pollici, rivolgendole un sorriso sereno.
«Stai tranquilla, mamma, non mi succederà niente. Dylan verrà con me. E tu sarai protetta ventiquattr’ore su ventiquattro da un agente dell’FBI».
Melanie non si tranquillizzò affatto, fece solo finta, certa che tanto non sarebbe riuscita a far cambiare idea alla figlia. Così tornò alla ricetta di cucina vegetariana che stava cercando di spiegarle da più o meno mezz’ora, comprese tutte le pause di “distrazione” di Grace.
«A proposito, mamma… Tu ti ricordi se, durante quel periodo in cui tu e papà siete stati a Berlino, lui frequentava dei posti particolari, magari da solo…?».
Melanie fissò il foglio su cui stava scrivendo, gli occhi vacui, persi nei fotogrammi della memoria. Dopo qualche minuto si arrese e scosse il capo, facendo sparire il collo fra le spalle.
«Non fa niente, non ti preoccupare», la rassicurò. «Ma se ti viene in mente qualcosa…».
«Certo, te lo dirò».
Grace sorrise e si alzò, stiracchiandosi le braccia. «Allora, credi che sarò in grado di fare questa ricetta?».
«Oh, di sicuro se continui a pensare ad altro sarà un completo fiasco!».
«La mia attenzione sarà tutta concentrata sui fornelli, te l’assicuro: devo assolutamente vincere contro Tom!».
Si diresse verso il salotto e sulla soglia si aggrappò con una mano allo stipite della porta, gettando la testa all’indietro per guardare sua madre. «Vado a darmi una rinfrescata e poi andiamo, okay?».
«Non sapevo dovessi venire pure io…», balbettò stupita.
«Ma era ovvio!».
Le rivolse un ultimo sorriso, poi uscì definitivamente dalla cucina.


«Hai avuto una bella idea, probabilmente Tom non avrebbe avuto tutti gli ingredienti per la nostra fantastica ricetta».
Melanie ricambiò il sorriso della figlia e si apprestò a scegliere la verdura migliore, infilandosi il guanto di plastica.
Grace si appoggiò con entrambi i gomiti al carrello e si guardò intorno, rendendosi conto che era un sacco di tempo che non entrava in un supermercato da sola e non faceva una spesa decente. D’altronde i suoi orari di lavoro glielo permettevano raramente ed oltre alla passione per la cucina, che doveva aver ereditato per forza da sua madre, non aveva nessun’altra caratteristica della brava casalinga. Non che non volesse, un giorno, avere dei figli, ma c’era anche da dire che non ci si vedeva proprio a fare la mamma.
Manco a farlo apposta, affianco a loro passò una donna sui trent’anni con un bambino seduto nel sedile del carrello, che giocava con un sonaglino. Grace rimase a fissarlo, mentre la madre si fermava di fianco al banco frigo per prendere delle buste d’affettato, e il bambino ricambiò il suo sguardo, aprendo un sorriso divertito e facendo dei versetti mettendosi in bocca il suo giochino.
Un bambino richiedeva amore, sacrifici, responsabilità, ed era troppo prezioso perché lei continuasse a vivere la sua vita. Sicuramente non avrebbe più potuto fare l’investigatrice privata e poi… Arrossì, pensando a lei e Tom nel ruolo di genitori. Erano davvero così lontani, tutti e due, da quella realtà che faticava ad immaginarsi una famiglia con lui. Mentre invece riusciva a vedere benissimo nel futuro di Dylan la vita familiare, con dei bambini. Peccato che se tutto fosse andato come doveva andare non avrebbe potuto averne di “suoi” biologici, almeno non con Bill!
A salvarla dai suoi stessi pensieri, che la stavano davvero mettendo a disagio, fu la suoneria del suo cellulare. Lo estrasse dalla tasca, sicura di leggere sul display proprio il nome di Tom, ma rimase interdetta di fronte ad un numero sconosciuto.
«Pronto, chi parla?».
«Ahm… Grace Schneider? Mi ha dato il suo biglietto da visita stamattina, sono il figlio del signor Phillips».
«Oh, ciao. Qualcosa non va?».
«Credo… credo di sì. Mio padre e mia madre hanno litigato di brutto poco fa, mia mamma doveva uscire e mio padre non voleva assolutamente, ma lei non l’ha ascoltato e…».
«Vai avanti».
«Lei è uscita e mio padre dopo un po’ l’ha seguita. Era furioso e, ecco, io… sono andato nel suo ufficio. Ho visto le foto che lei gli ha dato».
Grace sospirò e mormorò: «Perfetto».
«Ma non sono quelle a preoccuparmi, piuttosto il fatto che manchi una pistola dalla sua collezione».
La detective sgranò gli occhi e ci mancò poco ché le scivolasse il telefono di mano. «Okay, tu… tu stai calmo e lascia fare a me».
«È sicura che io non possa proprio fare niente? Se mia madre è in pericolo…», la sua voce aveva iniziato a tremare, segno che probabilmente era sull’orlo del pianto.
«Sì, c’è una cosa che puoi fare: chiama la polizia, dì tutto quello che hai detto a me e dì anche che hai il sospetto che tuo padre si stia dirigendo all’hotel che trovi indicato nel fascicolo che ho dato a lui. È tutto chiaro?».
«Va-va bene, ho capito».
«Vedrai che si sistemerà tutto», provò ad essere convincente, ci provò sul serio, ma anche lei si stava agitando. Il suo istinto non aveva ciccato nemmeno quella volta!
Fece terminare la conversazione ed incrociò subito lo sguardo di sua madre, appena tornata dalla bilancia con cui aveva pesato la verdura.
«Chi era?», le domandò, notando l’ansia nei suoi occhi.
«Mamma, devo andare».
«Andare? Dove? Grace… Grace!».
Ma la detective era già corsa via, schivando e spostando senza alcun riguardo i carrelli che le intralciavano la strada.
Saltò sul suo fuoristrada e sgommò via, sperando di averci visto giusto sulla possibile destinazione del signor Phillips alla ricerca di sua moglie. Gettò un’occhiata all’orologio sul cruscotto e si morse il labbro: poteva essere, come poteva non essere. Capitava a volte che la signora Phillips e la sua amante si vedessero a quell’ora, ma le aveva pedinate per troppo poco tempo per esserne certa. E se non le avesse trovate e fosse arrivato prima il signor Phillips? Cosa sarebbe successo?
«Oh, merda!», premette ancora di più l’acceleratore e tagliò per tutte le scorciatoie che conosceva per arrivare prima all’hotel.
Quando vi arrivò di fronte ed inchiodò sul bordo del marciapiede, beccandosi anche qualche clacson, riconobbe dall’altro lato della strada l’auto del signor Phillips. A terra, in corrispondenza del finestrino del guidatore, c’erano diversi mozziconi di sigaretta, tra cui una lasciata a metà e ancora un po’ fumante. Doveva averla gettata da poco, il che voleva dire che da poco era entrato nell’albergo.
Sospirò di sollievo e si sporse verso il portaoggetti per recuperare la sua Glock, ma si era illusa di salvare la situazione troppo presto.
Il boato di uno sparo fece allarmare la gente che camminava sul marciapiede e la stessa Grace, che scese di corsa dal fuoristrada ed entrò nell’hotel controcorrente, spintonando la gente che spaventata era uscita dalla hall. Proprio grazie alle persone che stavano tentando di fuggire da quel suono tanto agghiacciante riuscì a capire che tutto era successo nel bar. Vi entrò, anche se con qualche difficoltà, e lo trovò semideserto: erano scappati tutti, tranne una giovane coppia seduta ad un tavolo in un angolo in fondo, una ragazza che era appena uscita dal bagno e si era aggrappata alla porta, i due barman dietro il bancone e ovviamente i coniugi Phillips e l’amante della donna.
Grace incrociò lo sguardo di uno dei barman, il quale era stato ferito in viso dalle schegge di vetro delle bottiglie esplose alle sue spalle a causa del proiettile intimidatorio che il signor Phillips aveva sparato poco prima, e gli disse in labiale di mantenere la calma e che lei era dalla loro parte.
«Lurida troia, ma non ti vergogni?!», gridò l’uomo, paonazzo, che impugnava la pistola, puntandola con mano tremante dritta alla fronte della moglie in lacrime.
«Ti prego, ti posso spiegare…».
«Spiegare? Spiegare cosa, che te la fai con una donna?! Mi fai schifo! Come hai fatto a guardare negli occhi nostro figlio, nostro figlio! Quando lo saprà la sua vita sarà rovinata!».
«L’unico a rovinare la vita di suo figlio sarà lei, se premerà davvero quel grilletto ed ucciderà sua madre».
Il signor Phillips si voltò di scatto, gli occhi azzurri iniettati di sangue, e Grace dovette sforzarsi per non mostrare apertamente il nervosismo.
«Metta giù la pistola, la prego», disse ancora la detective, mentre sentiva il sudore impiastricciarle la mano con la quale impugnava la sua.
«Non ci penso nemmeno», rispose l’uomo, portandosi con uno scatto alle spalle delle due donne e cingendo per il collo l’amante di sua moglie, puntandole l’arma alla tempia.
«Per favore, per favore lasciami andare», singhiozzò la ragazza, scoppiando anche lei in lacrime.
Grace scosse lentamente il capo, senza mai interrompere il contatto visivo. «Non è così che si risolvono le cose, signor Phillips».
«E come, in che altro dovrei risolvere questa questione?! Mia moglie mi ha tradito, oltretutto con una donna! È una fottuta lesbica!».
«No, non è così che…». Grace fece un passo avanti, con cautela, ma il signor Phillips strinse ancora di più la presa intorno al collo della ragazza ed urlò: «Stia indietro, o giuro che…!».
«E va bene, va bene. Perché non abbassa la pistola e ne parliamo da persone civili? Sarà meglio per tutti, mi creda».
«Ormai il danno l’ho fatto, mi arresteranno comunque! Tanto vale andare fino in fondo!».
«No, no!». Grace, sempre più spaventata di perdere il controllo della situazione, deglutì e pensò furiosamente ad una strategia per ammorbidirlo fino all’arrivo della polizia, ma dovette improvvisare.
«Signor Phillips, non posso credere che si macchierà per sempre di un crimine così grave, di un omicidio. È l’errore più grande che un essere umano possa commettere e le posso assicurare che non si cancella, non si può».
«Lei ha mai ucciso qualcuno?».
«Sì. E anche se erano criminali, erano pur sempre persone a cui magari qualcuno voleva bene così com’erano, che io ho portato via per sempre. A volte mi chiedo se fosse veramente necessario che morissero e tutte le volte mi dico che non lo era. Ne vale la pena di uccidere la donna che ama o quella che ha avuto come unica colpa quella di innamorarsi di sua moglie? Lo so che l’hanno fatta soffrire, o perlomeno posso immaginarlo, ma uccidendole non si sentirà meglio, anzi».
Il signor Phillips, le labbra socchiuse e gli occhi colmi di lacrime, lasciò che Grace avanzasse di qualche passo ed allentò un po’ la presa intorno al collo della ragazza, anche se non allontanò di un centimetro la pistola dalla sua tempia.
La detective, acquisita sicurezza e un briciolo di fiducia, gli rivolse un piccolo sorriso di conforto.
«È ancora in tempo per rimediare, non è tutto perduto. Se non vuole farlo per se stesso, almeno lo faccia per suo figlio. È lui che mi ha chiamata, era preoccupato che potesse fare qualche stupidaggine».
Il signor Phillips, più che commosso, si lasciò sfuggire una lacrima dalle ciglia. «Davvero, lui…?».
Grace annuì e stava per togliergli delicatamente la pistola dalla mano, quando due agenti di polizia fecero irruzione nel bar, seguiti da altri, tutti con pistole alla mano, rompendo il silenzio surreale che si era venuto a creare.
«Polizia di Los Angeles, lasci a terra l’arma!».
Il signor Phillips, preso dal panico, si scostò bruscamente dall’amante di sua moglie e Grace riuscì ad intuire la sua prossima mossa appena in tempo: con uno scatto in avanti gli colpì il braccio con un gomito e l’uomo lasciò cadere la pistola giusto un momento prima che potesse portarsela sotto al mento e spararsi. Il signor Phillips, disperato, provò a tirarle un pugno scoordinato, ma lei si scansò facilmente e lo caricò come un toro, facendolo cadere su uno dei tavoli del bar. Quindi intervennero gli agenti di polizia, che lo bloccarono e lo ammanettarono enunciandogli i suoi diritti, mentre altri si occupavano delle due donne ancora sotto shock.
«Grace!».
La detective respirò profondamente, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e si voltò verso quella voce familiare.
Andrew, rimasto fino ad allora sulla porta, sistemò la pistola nella fondina e le corse incontro.
«Ma che ci fai tu qui? Stai bene?».
Grace rimase in silenzio per qualche secondo, poi esplose: «Ma non avete frequentato un fottuto corso di negoziazione, diamine?! Ero riuscita a stabilire un contatto, mi stavo facendo consegnare la pistola, quando siete entrati tutti gasati a fare gli eroi della situazione! E se si fosse sparato un colpo in testa?!».
Andrew la guardò sorridendo come un ebete e all’improvviso le strinse le braccia intorno alla schiena.
«Oh, sono contento che tu sia okay!».

***


«Ma dov’è finita Grace? Sarebbe dovuta arrivare prima, lei!», borbottò Tom, guardando l’orologio e controllando ancora una volta che tutto in cucina – ingredienti, stracci, guanti, grembiuli, mestoli, cucchiai, pentole, padelle… – fosse pronto per la gara. Poi fissò suo fratello, sollevando le sopracciglia.
«Ah, non guardare me! Non ne ho la più pallida idea!».
Tom sbuffò e proprio in quel momento suonarono al citofono del cancelletto.
«Deve essere lei!».
Corse ad aprire, ma rimase deluso non scorgendo il suo fuoristrada.
«Oh, anche io sono felice di vederti!», gridò Molly con un pugno contro il fianco, camminando lungo il vialetto.
«Scusa, è che Grace non è ancora arrivata e…».
La ragazzina ridacchiò. «Si sarà presa paura dello chef, no? A proposito, ho portato il vino!», sollevò la busta che aveva in mano e gli posò un bacio sulla guancia, quindi lo superò per entrare in casa.
Il chitarrista, sbigottito dal suo comportamento sicuro e disinibito, in qualche modo anche attraente, come se fosse cresciuta di cinque anni tutto d’un tratto, la fissò con la fronte corrugata, rimanendo fermo sulla soglia delle porte vetrate fino a quando non sentì il tipico rumore delle ruote sullo sterrato oltre la siepe che recintava il giardino sul retro. Nemmeno quella volta si trattava di Grace, bensì di Dylan. Però si trovò comunque a sorridere, felice che il poliziotto avesse accettato l’invito e, inconsciamente, avesse accettato anche il confronto con il suo fratellino a proposito del famoso bacio di cui non avevano ancora parlato.
«Ehilà!», lo salutò Tom, alzando una mano e sorridendo furbescamente. «E i fiori dove sono?».
Dylan si irrigidì, le braccia ciondolanti lungo i fianchi e gli occhi smarriti. «Quali fiori?».
Il chitarrista ammiccò, facendogli l’occhiolino. «Quelli per la cenetta romantica!».
Dylan sbiancò. Ci aveva pensato, ci aveva pensato sul serio quando Grace gli aveva detto di quell’assurda gara di cucina tra lei e Tom; aveva pensato esattamente: Non è che è una trappola per farmi rimanere solo con Bill?
«Ehi, ehi, riprenditi, stavo scherzando!», lo rassicurò Tom, andandogli incontro e battendogli una mano sulla spalla.
Dylan se lo scostò di dosso, burbero. «Cazzone».
«Oh, non dirmi che non ti sarebbe piaciuto!», rise e si beccò un’altra spinta, anche se il poliziotto, più rilassato, si era lasciato sfuggire un sorrisino.
«Ah, tu sai per caso dove si è cacciata Grace?», gli domandò ancora Tom, mentre entravano insieme in salotto.
Dylan lo fissò, un po’ allarmato. «No. Perché, non è ancora arrivata?».
Tom scosse il capo, schioccando la lingua contro il palato.
«Hai provato a chiamarla al cellulare?».
«Se mi avesse risposto saprei dove si trova e non te l’avrei chiesto».
Dylan si portò le mani al collo, nervoso. Poi disse, cercando di mantenere un tono di voce tranquillo: «Aspettiamo ancora un po’. Se non arriva… avvertiamo Crawford».
Si guardarono negli occhi ed annuirono.

***

«Pff, che giornata», mormorò tra sé Grace, accostando il fuoristrada e citofonando a sua madre, la quale, mentre lei era corsa a salvare un paio di vite, era tornata a casa dal supermercato in taxi.
Quando la vide percorrere il vialetto con una borsa della spesa andò ad aiutarla, nonostante le sue proteste.
«Posso sapere dove sei finita per tutto questo tempo? È tardi, Tom si starà chiedendo dove sei finita, sarà preoccupato! E anche io lo sono stata, sai?».
«Scusa, mamma», cantilenò la detective, per poi rivolgerle un sorriso. «È una storia lunga, la racconterò una volta per tutte a casa di Tom, va bene?».
Melanie acconsentì, anche se non molto convinta, e fece cadere l’argomento. Guardò sua figlia, già così grande e sempre più imprevedibile, e vide tantissimo di Mitch in lei. Anzi, a volte erano così simili, soprattutto nei modi di fare, che sembrava la sua copia femminile e aveva la sensazione che lui non se ne fosse mai andato.
Arrivarono di fronte al giardino sul retro di Villa Kaulitz e Grace spense il motore, poi scese dal fuoristrada.
Melanie la seguì a ruota e disse: «Non ho mai capito perché entri sempre da qui».
La detective prese la sua borsa e quella della spesa dai sedili posteriori e sorrise scrollando le spalle. «Che vuoi che ti dica, è tradizione».
Si sporse di nuovo nell’abitacolo e suonò il clacson: il suo citofono personale. Oltre le portefinestre vide del movimento e poco dopo comparve Bill, il quale le rivolse un ampio sorriso mettendoci tutto se stesso. Ma non abbastanza, perché a Grace bastò un’occhiata per accorgersi del disagio che provava. Dylan doveva essere già arrivato.
«Finalmente ti sei degnata di arrivare!», gridò Tom affiancando il gemello, con un mestolo pulito in mano.
Grace lo fissò sbigottita, poi scoppiò a ridere. «Mio Dio, che cosa ti sei messo?!».
Tom si accarezzò con fare malizioso il grembiule che indossava, raffigurante il corpo nudo di una ragazza, con i capezzoli coperti da due fette di pomodoro e le parti intime da delle foglioline di basilico. «Perché, non ti piace?».
Lo raggiunse con una corsetta e gli prese la nuca con una mano, soffiando sulle sue labbra: «Affatto, non ti ho mai visto così sexy».
Tom ridacchiò e la baciò, poi col mestolo la colpì a tradimento sul fondoschiena. «Sai controllarti o devo tenerti a bada?».
«Penso di potercela fare per un po’», gli rispose con un tocco di malizia negli occhi, pizzicandogli il petto all’altezza di uno dei pomodori sul grembiule.
«Aspetta un momento, ma… questo è odore di soffritto!», esclamò Grace, allontanandosi di scatto. Gli rivolse uno sguardo affilato e gli puntò un dito di fronte al viso. «Hai già iniziato a cucinare!».
«Per forza! Non arrivavi più e la gente qui è affamata!».
«Ah, sei solo uno scorretto! Ma questo vantaggio non ti aiuterà a vincere, sappilo!».
«Uhm, okay», le sorrise e Grace entrò in casa offesa, pronta a conquistare la sua parte di cucina e il titolo di miglior cuoca.


Nel pieno svolgimento della gara, Grace spiegò a tutti cos’era successo, a partire dal colloquio che aveva avuto quella mattina con il signor Phillips e la successiva chiacchierata con suo figlio. Raccontò della chiamata proprio di quest’ultimo, mentre lei e sua madre erano al supermercato per comprare alcuni ingredienti essenziali per la sua ricetta, quindi la sua corsa all’hotel e quella che i due barman che avevano assistito alla scena avevano descritto come la migliore operazione di salvataggio che avessero mai visto, anche rispetto alla TV.
Spiegò anche il motivo del suo ritardo: si era fermata a parlare con la signora Phillips e la sua amante, per sincerarsi che stessero bene, e queste l’avevano ringraziata mille e mille volte, fino a quando degli agenti non le avevano portate in centrale per raccogliere le loro deposizioni e fare la denuncia per tentato omicidio. La signora Phillips non era stata molto d’accordo all’inizio, in fondo non voleva che suo marito finisse in prigione, ma poi aveva guardato la sua compagna e non aveva potuto fare altrimenti, dicendosi che sarebbe potuta anche morire per colpa sua.
Anche Grace ovviamente era dovuta andare in centrale per lasciare la sua deposizione come testimone – ma soprattutto come eroina – e neppure avere Andrew come amico le aveva risparmiato i lunghissimi tempi burocratici del caso. Una volta “rilasciata” era andata a prendere sua madre a casa ed erano andate subito lì per la gara di cucina.
«Oh tesoro, sono così fiera di te», disse Melanie una volta terminato il racconto.
Grace le sorrise, lasciandosi baciare sulla guancia, ma sua madre sfruttò l’occasione anche per sussurrarle all’orecchio un suggerimento per la ricetta, che la detective colse al volo.
«E pensare che io ti avevo detto di stare attenta nel caso la signora Phillips fosse stata una psicopatica!», gridò Tom, ancora preoccupato a causa dei rischi che la sua Grace aveva dovuto correre anche quel giorno.
«Beh, c’eri andato vicino! Era il marito lo psicopatico».
Dylan, seduto al tavolo della giuria (l’isola che faceva da tavolo in cucina) accanto a Bill, sorrise, non solo con la bocca, ma anche con gli occhi. «Alla fine il tuo istinto non ti ha tradita nemmeno questa volta».
«Speriamo non lo faccia mai», replicò la detective, lo sguardo un po’ più spento.
«Ah, ho saputo che verrai anche tu a Berlino! Congratulazioni!», gridò Tom all’improvviso, voltandosi verso il poliziotto con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
Dylan si irrigidì, forzando la mandibola per reprimere la forte tentazione di insultarlo con le peggiori parolacce presenti nel suo vocabolario, ma venne presto distratto da Bill, stupefatto, che gridò a sua volta: «Davvero?».
«L’agente Crawford si era proposto di accompagnare Grace, sai… per proteggerla, nel caso… Ma gli ho detto che sarei andato io con lei».
I loro sguardi si incrociarono e Dylan rimase quasi senza fiato, leggendo negli occhi di Bill una domanda inespressa: «Vieni solo per proteggere Grace o…?».
«Oh, ora siamo tutti più tranquilli sapendo che l’incolumità di Grace è nelle sue mani!», disse Tom, ovviamente per scherzare e punzecchiarlo: si fidava di Dylan, si fidava soprattutto del sincero affetto che provava nei confronti della detective, grazie al quale non avrebbe permesso a nessuno di farle del male.
Grace rise con lui, ma lo colpì con un movimento d’anca. «Dai Tom, sei cattivo! Dylan è molto bravo, mi ha sempre difesa a dovere! Non è così?».
Ma il diretto interessato non li aveva nemmeno sentiti, ancora perso negli occhi del cantante. Solo quando Bill interruppe il contatto visivo, voltandosi, il poliziotto poté tornare alla realtà, scuotendo il capo.
«Allora, quand’è che posso mangiare? Grace mi ha detto di tenermi a digiuno e ho fame!», si lamentò subito dopo, portandosi una mano sulla guancia per sorreggersi il capo.
«Adesso, un attimo!», sbuffò lei.
«Il mio piatto è pronto!», esclamò Tom, orgoglioso, portando di fronte ai visi di Dylan e Bill la sua piccola opera d’arte culinaria.
«Ecco qua», disse, porgendogli due forchette, mentre Melanie cercava i calici per il vino che Molly aveva portato.
«Non sapevo quale sarebbe andato meglio, così ho detto al maggiordomo di prenderne uno rosso e uno bianco», spiegò la ragazzina, posando le bottiglie sull’isola della cucina.
«Generalmente il vino rosso è accoppiato con le carni rosse, i formaggi… Mentre quello bianco sta bene con il pesce e le verdure», disse Melanie, osservando entrambe le etichette. «Direi di aprire quello bianco, trattandosi di due piatti vegetariani».
«Okay, l’esperta sei tu qui», disse Molly, sorridente.
Grace non l’aveva persa di vista un attimo quella sera, notando in lei qualcosa di diverso dal solito, una strana luce negli occhi, ma più che positiva. Sembrava al settimo cielo, ecco, e voleva assolutamente saperne il motivo.
«Allora… assaggiamo?», domandò Bill incerto, sentendo Dylan che si avvicinava a lui perché il piatto era uno solo.
«Sì, attenti a non rovinarvi il palato, o non potrete gustarvi il mio piatto!», disse Grace, divertendosi un mondo di fronte alle reazioni infastidite di Tom.
Bill prese una forchettata, poi spostò il piatto per permettere a Dylan di fare la stessa cosa, anche se la sua vicinanza aveva iniziato a piacergli. Gli trasmetteva calore e sicurezza… Grace sarebbe stata molto fortunata ad averlo come guardia del corpo a Berlino.
Tom, ansioso, li guardò col fiato sospeso, fino a quando non scoppiò: «Allora, com’è?».
«Ah-ah, il giudizio alla fine!», intervenne Grace, portando il suo piatto all’isola.
Porse i bicchieri di vino bianco ai due giudici e disse: «Forza, rinfrescatevi le papille gustative e assaggiate il mio capolavoro. Ah, Molly, tu sei il terzo giudice in caso di parità, quindi devi assaggiare anche tu».
La ragazzina si sedette sullo sgabello accanto ai due e si apprestò ad assaggiare il piatto di Tom, ma all’ultimo momento si soffermò a guardare Bill e Dylan che assaggiavano il piatto di Grace. In effetti era più attirata dal suo che da quello di Tom, sia per gli ingredienti che aveva usato sia per la composizione.
Tom incontrò il suo sguardo e stava per chiederle come mai esitava, ma lei lo precedette con un sorriso impacciato: «Voglio assaggiare prima quello di Grace».
Il chitarrista arrossì e la detective le fece l’occhiolino, versando ancora un po’ di vino nei bicchieri di Bill e Dylan.
«Okay, ora potete votare», decretò Melanie.
Bill fu il primo: «Mi piacciono tutti e due, veramente. Vi siete impegnati entrambi e nonostante siano due ricette semplici, gli avete dato un tocco della vostra personalità».
Tom e Grace erano sconvolti: stava sparando cazzate, sentite guardando Master Chef, oppure lo pensava davvero?
«Però…», Bill posò lo sguardo su suo fratello, il quale rifletté appieno il dispiacere che aveva colto nei suoi occhi. «Hai esagerato come al solito con il tabasco. Voto Grace».
La detective avrebbe voluto esultare e prendere in giro il suo ragazzo, ma si trattenne e ringraziò con un piccolo inchino della testa. Poi posò gli occhi su Dylan, l’ultima speranza di Tom per rientrare in partita.
«Sono d’accordo con tutto quello che ha detto Bill», disse subito il poliziotto. «Tutto, tranne il fatto che ha esagerato con il tabasco. È vero che il mio sangue è messicano, ma ci stava davvero bene e ha dato al suo piatto quel carattere che invece non ho trovato in quello di Grace, troppo delicato e raffinato, tanto che…», gettò uno sguardo a Melanie, la vera autrice di quella ricetta, ma nessuno tranne la detective se ne accorse. Dylan la risparmiò ed accennò un sorriso: «Mi dispiace, io voto per Tom».
«Sì, uh!», gridò a mezza voce il chitarrista, ma anche lui cercò subito di contenersi, per rispetto della sua avversaria.
E poi la gara non era ancora finita, mancava ancora Molly, la quale aveva già assaggiato il piatto di Grace. Si rinfrescò la bocca con un po’ di vino, rifiutando l’acqua con la scusa che ormai a furia di party di lusso a casa sua si era abituata a berlo, poi mise in bocca una forchettata del piatto di Tom. Sgranò subito gli occhi e deglutì a fatica, chiedendo subito dell’acqua. Ora sì che serviva proprio!
«Mio Dio…», soffiò con le lacrime agli occhi, dopo averne bevuto un bicchierone tutto d’un fiato. «A me piace il piccante, nonostante non abbia il sangue messicano… ma qui ne hai messo davvero troppo! Non potrei salvarti nemmeno se volessi, mi dispiace tanto».
«Quindi ha vinto Grace per due a uno?», domandò retoricamente Melanie, attendendo la reazione della figlia.
Quando Grace realizzò che aveva vinto sul serio, si voltò verso Tom e lui alzò le mani, urlando: «Okay, hai vinto, brava! Mi merito tutti gli insulti che vuoi, ero troppo sicuro di vincere e…».
Grace scoppiò a ridere, facendolo ammutolire, e gli gettò le braccia al collo.
Lui ci mise qualche istante prima di ricambiare e, più che sorpreso, le chiese: «Davvero non mi insulti?».
«No, stupido! Siamo stati bravi tutti e due! Anzi, fammi assaggiare, adesso sono curiosa!».
«No, Grace, non farlo, sei pazza?!», urlò Molly, ma non riuscì a fermarla: si era già portata la forchetta alla bocca.
La detective, con tutti gli occhi puntati addosso, si prese il suo tempo per degustare attentamente la pietanza di Tom e quando deglutì si voltò verso di lui con un sorriso raggiante.
«Ma è buonissimo! Okay, ti pizzica un po’ le labbra, ma… wow, mi hai davvero sorpresa!».
«Io non ho detto che non è buono», precisò Bill. «Ho solo detto che ha esagerato. Ma fa parte di lui, no?».
Tom attirò Grace in un abbraccio e sorrise, ma non da sbruffone: fu un sorriso dolce, ricco di gratitudine. «Grazie ragazzi, davvero».
«Però ricordati che ho vinto io», gli sussurrò lei all’orecchio, alzandosi in punta di piedi. Si scostò e si portò una mano alla fronte, formando una L con il pollice e l’indice. «Loser!».
Grace scoppiò a ridere e corse via, inseguita da Tom.


Bill si alzò da tavola e si stiracchiò.
«Chi ha voglia di una sigaretta?», chiese, prendendo il pacchetto e l’accendino da una mensola.
Dylan alzò la mano tranquillamente, ma iniziò a preoccuparsi quando vide che era stato l’unico. Guardò Tom e Grace, disorientato, e il chitarrista sogghignò.
«Magari più tardi, uhm?».

Stronzi, siete due stronzi, pensò Dylan vedendoli scambiarsi un’occhiata soddisfatta mentre lui seguiva il frontman fuori dalla cucina.
Si sedettero su due sedie in veranda e uno dei cani di Bill e Tom si accucciò ai piedi del padrone, desideroso di coccole.
«Allora… anche tu a Berlino, eh?».
Dylan annuì, tirando avidamente la sua sigaretta, ed evitò il suo sguardo.
«Non mi sarei mai perso l’occasione di andare in Europa. Forse per te adesso non sembra nulla di che, ma per me… Io non sono mai uscito dagli Stati Uniti, il mio viaggio più lungo è stato fino a Washington, D.C., un’estate».
«Mi ricordo bene l’emozione che si prova, invece», lo stupì il cantante, lasciando affiorare i ricordi assieme ad un piccolo sorriso. «All’epoca anche uscire dal mio paesino per fare concerti nelle grandi città era fantastico. Vedrai, Berlino ti piacerà».
«Là fa freddo in questo periodo?».
«Vuoi la verità? Sì. Probabilmente ci sarà anche la neve».
«Cosa?! Sul serio?!», gridò entusiasta, incrociando il suo sguardo senza nemmeno rendersene conto.
Bill era sia stupefatto che divertito. «Sì, penso di sì. Siamo a metà febbraio! Perché?».
«Io non ho mai visto la neve, è sempre stato un mio sogno vederla, toccarla!».
Bill si addossò contro lo schienale della sedia e rise più forte. «È così strano! Io odio il freddo e la neve e tu invece sembri adorarla pur non avendola mai vista!».
Dylan sorrise sereno e pensò che era il momento giusto per scusarsi, magari le risate avrebbero attutito il peso del discorso che stavano per fare.
«Ma, d’altronde, le cose più belle sono quelle che non si possono avere», aggiunse il cantante, gli occhi improvvisamente cupi.
«E che cosa vorresti avere, Bill?».
Si girò, colpito dalla serietà e allo stesso tempo dalla dolcezza del suo tono di voce, e si perse nei suoi occhi scuri, conscio del fatto che stavano per esplorare un terreno pieno di mine antiuomo, in cui avrebbe potuto farsi male definitivamente. Oppure arrivare dall’altra parte indenni.
«Un po’ di chiarezza, tutto qui».
«Bene», mormorò il poliziotto, respirando a fondo. «Vuoi sapere perché ti ho baciato? Non te lo so dire con certezza. So solo che ogni volta che vengo a sapere, oppure vedo coi miei occhi, che soffri, io… impazzisco, non riesco a non sentirmi una merda e… Il fatto è che tengo a te, Bill, più di quanto tu creda. Più di quanto io stesso creda! E questa situazione è così strana, io sono così confuso da questi sentimenti che per me sono nuovi, diversi… che combino solo casini. Vorrei solo smetterla di rovinare sempre tutto, smetterla di farti star male, perché non te lo meriti. Ma è una trappola in cui sento di essermi messo da solo, sento che la via di fuga è così vicina eppure qualcosa mi dice che è meglio non uscire allo scoperto. Senza l’aiuto di qualcuno, io non…».
«Vuoi il mio aiuto, Dylan?».
Il poliziotto guardò la mano di Bill alzarsi e raggiungere la sua percorrendogli lievemente il braccio.
«Io…», deglutì e socchiuse gli occhi, mordendosi il labbro. «E se non ci riuscissi? Se sbagliassi?».
Il cantante fece in modo che Dylan lo guardasse negli occhi e ripeté piano: «Lo vuoi il mio aiuto oppure no?».

Sì, sì, sì, fottutamente sì! pensò. Peccato che Dylan, controllato dalla parte più restia di lui, quella etero, riuscì soltanto di annuire con un cenno del capo, gli occhi chiusi, come se avesse appena detto sì alla sua morte e ne avesse paura.
Sentì il respiro di Bill sulle sue labbra e si irrigidì, troppo spaventato per aprire gli occhi, ed ebbe persino il desiderio di scappare, ma le sue mani si artigliarono istintivamente ai manici della sedia.
Quando le loro labbra si incontrarono in un bacio si sentì finalmente libero da ogni catena, dal peso di quella parte di lui che non accettava il fatto che si fosse innamorato di un uomo. Si sentì felice e si lasciò andare. Infilò una mano fra i suoi capelli e li accarezzò dolcemente, accennando un sorriso.
Pensò a Tom e a Grace, che li avevano lasciati andare a fumare da soli, e dovette ricredersi, perché senza la loro spinta ci avrebbero messo molto più tempo e molta più fatica ad arrivare fin lì.

Siete due stronzi, ma siete anche i migliori amici che si possano desiderare.

***

Molly, seduta sul divano accanto a Tom, si voltò verso la detective che le aveva cinto le spalle da dietro.
«Facciamo due chiacchiere?».
La ragazzina non poté dire di no e si lasciò portare in giardino, quello che dava sulla facciata della casa, non in quello sul retro – momentaneamente occupato.
«Devi parlarmi di qualcosa?», chiese, la fronte corrugata.
Grace sorrise maliziosa e si accese una sigaretta, sedendosi sui gradini che portavano alla porta. «No, sei tu che devi raccontarmi che cos’è successo».
«Cosa?». Molly rise e guardò il cielo violaceo che lasciava spazio alla notte. «Non è successo niente».
«Ah no? Eppure mi sembri così felice… Scommetto che c’entra Aiden. Mi sbaglio?».
Molly fissò gli occhi nei suoi e cedette, lasciando finalmente trapelare l’euforia che l’accompagnava da quella mattina.
Si sedette al suo fianco e le raccontò tutto per filo e per segno, a partire dalla foto di lei e Nigel sul giornalino scolastico, scattata da Sheila, e dal mazzo di rose che aveva trovato nell’armadietto, per poi arrivare alla sua chiacchierata con Aiden, seduti sotto quell’albero nel giardino.
«Quindi giovedì andrai a casa sua per studiare storia! Wow, è fantastico!», esclamò Grace, attirandola in un abbraccio. «Sei stata bravissima, dico davvero. Io non ci sarei mai riuscita!».
«Anche io mi sono sorpresa di me stessa! Quando mi sono alzata tremavo da capo a piedi!».
«Immagino! Ah, hai visto che facevi bene a dubitare di Nigel? Quel ragazzo non mi piace affatto».
Molly annuì, stringendosi le braccia intorno alle gambe. «Già, nemmeno a me. Dovrò cambiare la combinazione del mio armadietto, visto che è riuscito a trovarla per mettermi dentro il mazzo di rose… Invece cosa ne pensi di Aiden?».
«Uhm… da quello che mi hai raccontato, sembra che abbia molti segreti», disse Grace soprappensiero, gli occhi rivolti verso il cielo. «A partire dai suoi genitori. Vuoi che faccia qualche ricerca?».
Molly esitò, ma alla fine scosse il capo con un sorriso sulle labbra. «Preferisco conoscerlo pian piano, lasciare che sia lui a confidarsi con me».
«Ottima decisione», le accarezzò i capelli.
La porta dietro di loro si aprì all’improvviso e comparve la madre della detective, sbadigliando.
«Scusate se vi interrompo, ragazze, ma vorrei andare a casa: sono un po’ stanca».
«Certo, adesso ti accompagno», disse subito Grace, alzandosi, ma Molly le posò una mano sul braccio.
«Non ti preoccupare, posso darle benissimo io uno strappo fino a casa! La mia limousine dovrebbe arrivare a momenti».
«Sicura? Guarda che non mi cambia nulla…».
«Ma se devi stare qui è inutile che tu faccia avanti e indietro!».
Grace arrossì al sopracciglio sollevato dell’amica e fu costretta ad acconsentire.
Sua madre e Molly andarono a salutare Tom all’interno e gli raccomandarono di estendere il saluto anche a suo fratello e a Dylan, siccome non volevano disturbarli. Quando tornarono fuori, la limousine di Molly era appena arrivata.
«Arrivo tra un attimo», disse Melanie, indicando alla ragazzina milionaria di avviarsi.
Rimasta sola con la figlia, le accarezzò la guancia e le sorrise dolcemente, nonostante i suoi occhi si fossero velati di malinconia.
«Non so se possa essere d’aiuto, ma la sera io e tuo padre andavamo sempre nello stesso bar a Berlino, gestito da un suo caro amico. Era veramente bello». La strinse in un lieve abbraccio e le augurò la buonanotte, poi raggiunse la limousine e vi salì.
Dopo qualche minuto passato a riflettere, Grace rientrò in casa e trovò il salotto immerso nell’oscurità, rischiarata solo dalla luce proveniente dallo schermo al plasma della TV. Tom era sdraiato sul divano e aveva gli occhi chiusi, in dormiveglia.
La detective sorrise addolcita andandogli vicino e gli accarezzò un braccio, sussurrando: «Bell’addormentato, mi fai un po’ di posto?».
Tom mugugnò assonnato, ma si spostò un po’ e lasciò che Grace si sdraiasse al suo fianco, stretta fra le sue braccia, con la schiena contro il suo petto. Le posò un bacio fra i capelli, respirandone tutto il profumo.
«Chissà Bill e Dylan… Non sono mai stata così curiosa in vita mia. Ma ci pensi? Se diventassero una coppia sarebbe così strano! No?».
Grace lo sentì sospirare e si voltò fra le sue braccia per guardarlo in viso: aveva ancora gli occhi chiusi e un’espressione neutra, come se si fosse addormentato.
«Bill invece pensa che noi siamo una coppia strana», disse alla fine, a bassa voce. «O, almeno, che non potessimo durare così tanto».
«Perché, c’era qualcuno qui che poteva immaginarlo?».
Tom aprì gli occhi ed incontrò quelli lucidi e ridenti della detective. Le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e lì lasciò riposare la mano.
«Mi è successa una cosa, quando sono andato a New York», le confessò, continuando a fissarla intensamente negli occhi. «Stavo guardando le foto che tua madre mi aveva dato e, vedendoti bambina, ho…».
Grace posò una mano sul suo petto e sentì che il cuore di Tom stava correndo dentro la cassa toracica. «Cosa?», mormorò.
«Per la prima volta in vita mia ho pensato all’eventualità di diventare padre. Eri così carina e… forse non è così male fare il genitore».
La detective sentì il naso pizzicarle e delle lacrime di commozione bagnarle gli occhi. Nonostante fosse protetta dal buio, cercò rifugio contro il petto di Tom.
Era imbarazzatissima, ma trovò la forza per dire: «Ho pensato la stessa cosa giusto oggi pomeriggio, al supermercato».
«D-Davvero?», balbettò il chitarrista, accarezzandole i capelli e cercando i suoi occhi.
«Sì, c’era una donna con un bambino e ho pensato… ho pensato che non mi ci vedo proprio a fare la mamma, almeno non adesso. Dovrei abbandonare il mio lavoro e…».
«Anche io dovrei prendermi una pausa dal mio, non potrei stare lontano da mio figlio per la durata di un intero tour».
Grace accennò un sorriso tremante. «Quindi ti piacerebbe sul serio? Avere un bambino, dico».
«Solo… solo se è bello come te».
«Avrei giurato che avresti detto “come me”».
Tom le prese il volto fra le mani e venne contagiato dalla sua risata, posando la fronte contro la sua.
«Ti amo».
«Anche io, tanto».
Lo baciò, poi tornò ad accucciarsi sotto il suo mento, sentendo i battiti ancora rapidi del suo cuore rimbombarle nelle orecchie e un calore inspiegabile depositarsi sul fondo della sua anima.

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Buonasera! :)
Allora, questo capitolo è bello lungo e ci sarebbero tantissime cose da dire... ma sapete che quando inizio non mi fermo più, quindi è meglio per la vostra sanità mentale che io scriva il meno possibile xD
Diciamo che il filo conduttore di tutto il capitolo è la celebre frase: "Tutto è bene quel che finisce bene". Insomma, la sfida di cucina tra Tom e Grace è stata uno spasso; Bill e Dylan si sono chiariti e ci proveranno (teneri cuccioli :3); Molly, nonostante i problemi con Ben e Sheila, è riuscita a parlare con Aiden e si sono accordati per studiare storia insieme; Grace ha salvato la vita alla signora Phillips e alla sua amante e anche quella del signor Phillips; e poi, dulcis in fundo, Tom e Grace andranno insieme a Berlino (con anche Bill e Dylan!) e lei cercherà di trovare un pezzo del puzzle, forse fondamentale, per risolvere l'omicidio e in generale il caso di suo padre. Ah, per la coppia Tomace c'è stato anche una specie di "salto di qualità"... Ve li vedete genitori, questi due? *^*
Bene, basta così per oggi, vi ho stressate abbastanza xD Spero che vi sia piaciuto e niente, ci vediamo domenica prossima con il Capitolo 21, che darà il via alla Parte III di questa FF ;)
Ovviamente ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto, chi ha messo la FF tra le preferite/seguite/ricordate e anche chi segue la mia pagina su FB! Un bacio!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 23
*** Capitolo 21 ***


Allora, buonasera, innanzitutto :)
Con questo capitolo ha ufficialmente inizio la terza ed ultima parte di questa fanfiction e ne sono così orgogliosa! E' la parte sicuramente più intensa dal punto di vista "investigativo" e questo capitolo, che vedrà tutta l'allegra compagnia a Berlino, sarà piuttosto forte, già ve lo dico. Comunque è nella mia Top 10 e spero che piaccia tanto anche a voi :D
Ringrazio tutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto soltanto e che hanno aggiunto questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Vi adoro tutti!
Ci vediamo domenica prossima e buona lettura! ;)
Vostra,

_Pulse_

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PARTE III

 

Capitolo 21

 

“There was a time, I used to look into my father's eyes
In a happy home, I was a king, I had a gold throne
Those days are gone, now the memories are on the wall
I hear the sounds from the places where I was born
[…]
My father said: ‘Don't you worry, don't you worry child
See heaven's got a plan for you…’”

(Don’t you worry child – Swedish House Mafia)

 

Il loro aereo atterrò nell’Aeroporto Berlino-Brandeburgo, appena inaugurato dopo i lavori di ingrandimento che l’avevano reso il più moderno d’Europa, quando sui loro orologi erano quasi le otto del mattino.
Avevano deciso di fare il viaggio di notte, partendo alle sette di sera da Los Angeles, ma quando Grace e Dylan avevano aperto gli occhi dopo tredici ore e poco più di volo, e avevano visto il sole iniziare a tramontare fuori dai loro finestrini si erano resi conto che a causa del fuso orario di nove ore erano ancora le cinque e mezza di pomeriggio.
La detective promise a se stessa che non avrebbe mai più preso in giro Tom a proposito del jetlag.
Il minivan che li avrebbe portati tutti al loro hotel era già fuori dall’aeroporto ad aspettarli, ciononostante avevano avuto dei problemi a causa di un nutrito gruppo di fan e di paparazzi che si erano appostati all’uscita. Grace e Dylan, infatti, erano stati costretti a fare tutt’altro giro per raggiungerlo e non essere fotografati con i gemelli Kaulitz, tornati in patria dopo così tanto tempo di “esilio” negli USA.
Quando furono tutti dentro, protetti dai finestrini scuri, la ragazza si lasciò andare ad un sospiro e si tolse gli occhiali da sole dal viso, mostrando al mondo i suoi stupendi occhi verdi.
«Non sembri tanto stanca», disse Dylan, seduto sul sedile davanti a lei, accanto a Bill, il suo compagno.
Alla fine ce l’avevano fatta! Era ufficiale, Grace e Tom ne erano sicuri, nonostante loro non ne avessero fatto parola con nessuno: persino con i loro migliori amici/fratelli erano stati molto cauti e riservati. Inoltre, Dylan doveva ancora abituarsi alla situazione e preferiva andarci con i piedi di piombo, un passo minuscolo alla volta.
«Non mi rivolgere la parola, approfittatore», disse con tono offeso, guardando fuori dal finestrino.
«Dai, Grace! Sei ancora arrabbiata per la storia dell’aranciata? L’ho bevuta soltanto per proteggerti! Se fosse stata avvelenata sul serio?».
«Non raccontarmi cazzate!», gli tirò uno schiaffo sul braccio e nel farlo le scappò un sorriso, facendo ridere anche il poliziotto.
«Comunque è vero, non sono stanca», disse poi, con una mano sulla guancia.
«Per forza, hai dormito quasi tutto il tempo!», ribatté Tom. «Te l’avevo detto di non farlo, perché il problema sarà domani mattina: stanotte non riuscirai a chiudere occhio. E non per colpa mia!».
Grace picchiò anche lui, quella volta con un manrovescio sul petto. «Ti avevo detto di tenermi sveglia, ma tu non l’hai fatto!».
«Eri così carina addormentata, c’era un silenzio…».
«Stupido!».
«Ahia! Smettila di picchiarmi!».
Si misero a ridere insieme, poi Grace avvolse un braccio intorno al suo e posò la testa nell’incavo della sua spalla.
Era bello, veramente bello, pensare di essere in viaggio con Tom. Peccato che fosse un viaggio finto: il loro scopo non era quello di fare i turisti come una normalissima coppia, ma per uno era partecipare a programmi TV e rilasciare interviste ai giornali per promuovere il nuovo album; e per l’altra era indagare sul caso lasciato irrisolto da suo padre.
«Guarda, te l’avevo detto che c’era ancora la neve!», disse Bill, distraendoli tutti ma in particolare Dylan, il quale si voltò di scatto e quasi si sdraiò su di lui per appiccicarsi al finestrino.
«Non è bella come quella appena caduta, però...».
«È stupenda», sussurrò sognante Dylan, già impaziente di scendere dal minivan per poterla toccare con le sue mani. «Grace, ce lo facciamo un giro per vedere la città, vero?».
«Certo. Ci sono stata solo una volta, da piccola, in visita dai miei nonni, ma penso di potermi orientare in qualche modo».
Tom le sorrise, stringendole forte una mano, e lei ricambiò.
«Cosa vorresti vedere?».
«Non lo so, le cose famose!».
Si sistemò di nuovo in ginocchio sul sedile, per poter guardare meglio Grace e Tom seduti dietro di lui. Bill lo imitò.
«Scusa, ma si vede ancora il muro?», chiese grattandosi il capo, imbarazzato per quella domanda.
«Sì, in alcune zone ne sono rimasti dei pezzi. A scopo commemorativo, ovviamente», rispose il cantante, portandosi una mano sull’avambraccio sinistro.
Dylan gli tirò su con delicatezza la manica del golfino ed osservò il tatuaggio. «Cosa c’è scritto?».
«Freiheit. Significa “libertà”. E ’89 è la data della caduta del Muro, oltre ad essere l’anno della nostra nascita».
«Oh, quindi i vostri genitori hanno vissuto proprio la Guerra Fredda, la divisione delle due Germanie…».
«Sì», rispose Tom. «E la nostra casa allora era nella parte Est, quella controllata dai sovietici. Quando io e Bill siamo nati in realtà il Muro c’era ancora, è caduto due mesi dopo… e mamma ci ha raccontato che aveva annunciato la nostra nascita ai nostri nonni solo via telefono, perché abitavano nella Germania Ovest e non potevano vedersi».
«Accidenti, dev’essere stato orribile», mormorò Dylan, prendendo la mano di Bill nella sua e stringendola forte, in modo del tutto naturale.
Il cantante lo guardò sorridendo, ma lo fece con discrezione, per non farlo arrossire né pentire di aver mostrato apertamente quel gesto d’affetto.
«Per fortuna tutto questo è finito adesso!», esclamò Tom sollevando le braccia per stiracchiarsi, sbadigliando assonnato.
Passarono il resto del viaggio più o meno in silenzio, ascoltando la musica oppure navigando in Internet con il cellulare per informare tutti gli Aliens connessi alla BTK App del loro arrivo nella capitale, mentre Grace e Dylan si godevano quel primo giro turistico tra le strade di Berlino, cercando con gli occhi i monumenti famosi e altri edifici strani.
Grace ripensò alla loro conversazione sul Muro di Berlino e si rese conto che per forza i suoi genitori dovevano essere andati a fare quel viaggio negli anni in cui era ancora in piedi, restando per ovvie ragioni nella parte occidentale, controllata dagli americani. Non vedeva l’ora di visitare i luoghi di cui le aveva parlato sua madre, immaginandosi suo padre fare gli stessi percorsi da bambino, da adolescente e anche da adulto, fino alla sua ultima visita, quella in cui Grace presupponeva le avesse lasciato degli indizi per continuare la sua indagine.
«Prego, voi due, scendete», disse David, il management, voltandosi verso Dylan e Grace.
«Cosa? Ma non siamo ancora arrivati», esclamò indignato Tom, stringendo un po’ più forte la mano della sua ragazza.
«Questo lo so benissimo. Non vorrai mica farti vedere dalle fan con lei, vero?», gli rispose, fulminandolo con lo sguardo prima di rivolgersi ancora ai due benvenuti ospiti. «L’hotel è solo ad una via di distanza, ve la farete a piedi».
La detective ricambiò lo sguardo ostile ed annuì, dicendo a Tom che si sarebbero visti là.
Scese dal minivan con Dylan e rimase ferma ad osservarne i fanali posteriori fino a quando non svoltò l’angolo. Quindi si girò verso il poliziotto e non lo vide più accanto a sé, ma inginocchiato accanto ad un mucchietto di neve al lato del marciapiede.
«Oh, Dylan…», ridacchiò, mentre lui infilava un dito nella neve e sorrideva come uno scemo, prendone un po’ in una mano.
«È gelata, mi sto davvero congelando la mano, ma è una sensazione bellissima! È un vero peccato che in California l’inverno non esista!».
Grace scosse il capo sorridendo e lo afferrò per il gomito, trascinandoselo dietro.


«Mi ha tirato una palla di neve alle spalle, quel vigliacco! Avresti dovuto vederlo, davvero! Un bambino, peggio di un bambino. La gente che passava l’avrà preso per pazzo, come minimo».
Grace corrugò la fronte, accorgendosi della inesistente loquacità di Tom, e voltandosi realizzò che si era addormentato proprio mentre gli raccontava delle stranezze di Dylan quando c’era della neve nei paraggi.
In quel momento capì di avere a che fare con almeno due bambini.
«Sogni d’oro», sussurrò sfiorandogli la guancia in un bacio.
Si alzò per rimboccargli le coperte e spense la TV direttamente col pulsante sul monitor, non sapendo dove avessero lasciato il telecomando. Poi si diresse alla sua valigia, prese il laptop e lo posò sulla scrivania sistemata davanti alle grandi finestre. Lo accese ad aspettò che si avviasse, seduta sulla poltroncina e guardando ancora Tom che dormiva beatamente.
Aveva ragione quando diceva che non sarebbe riuscita a chiudere occhio quella notte: si sentiva sveglia, fin troppo, perché per il suo orologio biologico, non abituato al fuso orario, era pieno giorno. Se solo non avesse dormito così tanto sull’aereo…
Inserì la password ed aprì la cartella in cui aveva riversato tutti i dati del caso di suo padre. Li guardò e riguardò, sperando che qualcosa di nuovo comparisse magicamente, ma non accadde.
Quando i suoi occhi brucianti la pregarono di dargli tregua, ormai a notte fonda, si alzò dalla poltroncina e andò alle finestre, scostando una tenda per vedere la città illuminata.
Di fronte all’hotel si estendeva il Tiergarten, il grande parco di Berlino, al cui centro si ergeva la Colonna della Vittoria, circondata da una trafficata rotonda e famosa per l’omonima Statua di bronzo: una donna alata che rappresentava la dea.
Grace sorrise, osservandola da lontano, e pensò a suo padre.
Aveva sempre amato quel monumento, ma non si era mai appellato a quella dea pagana per avere successo nel suo lavoro. Lui sapeva che c’erano delle volte in cui bisognava saper perdere ed accettare la sconfitta, perché la presunzione di avere sempre la meglio era il rischio peggiore. Ciononostante, era morto.
«Grace?».
Si voltò all’udire la voce roca di Tom e lo vide sollevato sui gomiti, che la fissava con gli occhi piccoli.
«Vieni qui», la invitò, battendo debolmente una mano sul materasso.
Lo raggiunse dopo essersi spogliata, infilandosi sotto le coperte e stringendosi a Tom, il quale aveva già scaldato la sua parte di letto.
Lo stesso Tom che le baciò la fronte prima di ripiombare nel sonno, lasciandola da sola in balia dei suoi pensieri inarrestabili.

 

***

 

Grace si svegliò all’improvviso, a metà di un sogno in cui la Statua della Vittoria si liberava della sua bronzea staticità e volava via sbattendo le sue ali grandi e possenti.
Si portò una mano alla testa, che le vorticava per il brusco risveglio e i postumi del jetlag, e nel frattempo si voltò verso il comodino per vedere che ore fossero. La sveglia a led indicava le dieci e un quarto.
«Oh, merda», sbuffò e si alzò faticosamente dal letto per scostare le pesanti tende scure dalle finestre. La stanza fu subito inondata dalla luce del sole e Grace fu costretta a coprirsi gli occhi con una mano, accecata.
A tentoni raggiunse il bagno per sciacquarsi la faccia e corrugò la fronte quando notò un foglietto di carta sulla mensola dello specchio.

 

Buongiorno!
Spero tu sia riuscita a dormire almeno un po’ :-)
Chiamami quando ti svegli.
Se non rispondo ti richiamo io appena posso.

 
Grace scosse il capo, nonostante un sorriso le incurvasse all’insù le labbra.
Dopo essersi rinfrescata un po’ tornò in camera da letto ed aprì una delle finestre per far cambiare un po’ l’aria, ma se ne pentì subito, investita dal freddo: non era più in California!
Si sedette sul letto, ancora col biglietto di Tom in mano, e lo chiamò al cellulare. Dovette aspettare un paio di squilli, prima che rispondesse tutto pimpante.
«Ehi, hai visto il mio biglietto?», le domandò subito, ridacchiando.
Grace annuì, sbadigliando, come se potesse vederla. «Molto carino. Peccato che avresti dovuto svegliarmi prima! Ho gettato via un’intera mattina che avrei potuto sfruttare per le indagini!».
«Oh, scusa se ho pensato che avessi bisogno di dormire! Credi che saresti riuscita ad usare il cervello in modalità zombie?».
La detective rimase in silenzio per qualche istante, poi sorrise. «Sei proprio tenero quando ti preoccupi per me, sai? Grazie, Tom».
«Pff, adesso l’hai capito che l’ho fatto per te», rispose in tono offeso, ma tornò presto il solito Tom di sempre. «Mi ringrazierai a dovere stasera: sarò talmente stanco che avrò bisogno di un massaggio!».
«Uhm… mi sa che ti stanno chiamando per il trucco! Ciao, ciao!», lo salutò ridendo e pose fine alla telefonata, certa che l’avrebbe presa sul ridere. Oppure no?
Grace sollevò le spalle, sorridente, e gettò uno sguardo fuori dalla finestra per controllare se la Statua della Vittoria fosse ancora sulla sua colonna.

 
Scese nella hall e si diresse verso la sala ristorante, sicura di trovarvi Dylan. Era andata a bussare alla porta della sua stanza e lui, con il sonno leggero che aveva, si sarebbe sicuramente svegliato e le avrebbe aperto se solo ci fosse stato.
Infatti, lo vide seduto ad un tavolino nella zona adibita alla colazione – sì, quell’albergo a cinque stelle aveva due sale apposta, una con tavoli più piccoli e meno eleganti per la colazione, e un’altra più grande con tavoli rotondi, circondati da comode poltroncine bianche e fiori ovunque – che si apprestava a fare colazione con un cappuccino, una brioche alla crema, un’aranciata e una macedonia di frutta.
Lo raggiunse e senza salutarlo si sedette di fronte a lui, proprio perché il sorriso che aveva sulle labbra aveva tutta l’intenzione di sottintendere il buongiorno.
«Guten Morgen!», disse Dylan, levando gli occhi ridenti per incrociare quelli della detective.
«Oh, hai deciso di imparare il tedesco?», chiese Grace, divertita, giusto un momento prima che un cameriere elegante si fermasse al loro tavolo per prendere la sua ordinazione.
«Quello che ha preso lui», disse brevemente la detective, ricambiando il sorriso del cameriere.
Quando se ne fu andato, Dylan alzò le spalle e confessò: «Bill mi ha insegnato qualche parola».
Grace si sciolse in un sorriso. «Allora posso anche perdonartela. Perché, vedi, se vogliamo essere precisi, “Guten Morgen” si usa solo alla mattina presto», si guardò l’orologio al polso e sospirò, «e direi che siamo piuttosto in ritardo sulla tabella di marcia».
Dylan si pulì le labbra con un tovagliolo per togliere i residui di zucchero a velo e la fissò sollevando un sopracciglio. Anche quello gliel’aveva insegnato Bill?
«Non ci corre dietro nessuno, almeno credo».
«In realtà avevo intenzione di stare a Berlino il meno possibile, solo nei giorni in cui resteranno anche Tom e gli altri».
«E perché?».
Stava per rispondere, ma il cameriere ricomparve al loro fianco con la colazione di Grace su un vassoio, che posò delicatamente sul tavolo. La detective ringraziò e versò una bustina di zucchero nel cappuccino, incominciando a girarlo lentamente.
«Ecco, io… preferisco giocare in casa», spiegò alla fine, abbassando di un tono la voce. «Prima torniamo a Los Angeles, meglio è per l’incolumità di tutti».
«Credi davvero che Loro ci abbiano seguiti fino a qui?».
Grace sospirò e si portò la tazza calda alle labbra, lo sguardo perso fuori dalla finestra che dava sul marciapiede.
«Okay, lo prendo per un sì», mormorò Dylan. «Anche se non ne capisco il motivo. Se tuo padre voleva lasciarti una pista qui, nella sua città, perché non l’hanno fermato prima?».
«Mio padre è stato ucciso, ma sapeva fare bene il suo lavoro», rispose con gli occhi di ghiaccio. «Avrà sicuramente mascherato il suo viaggio qui con qualche altra motivazione, ne sono sicura».
Dylan abbassò lo sguardo. «Scusami, non volevo insinuare che…».
«Lo so, non c’è problema». Gli rivolse un breve sorriso e guardò la macedonia che aveva ordinato: «Oh no, ma sono pezzi di kiwi quelli? Io odio i kiwi!».
«E quindi, la vuoi lasciare?», chiese Dylan, dispiaciuto per quello spreco. «Ah, a proposito, ma sei sicura che possiamo permetterci questo hotel?».
«No che non possiamo», rispose tranquillamente, per poi sorridere di nuovo. «Ma finché paga David, non è un problema mio!».
Dylan si coprì la bocca con una mano per non scoppiare a ridere fragorosamente. «Ora capisco perché ci odia tanto!».

 
Visto che ormai la mattinata era andata, avevano deciso di sfruttare quel poco tempo che gli rimaneva prima di pranzo per visitare la città.
A piedi avevano attraversato il lungo viale del Tiergarten che li aveva portati direttamente nel centro del parco, sotto la Colonna della Vittoria. Dylan, improvvisatosi fotografo, aveva scattato decine di foto con il viso rivolto all’insù, poi Grace lo aveva dovuto allontanare con la forza.
Avevano raggiunto la zona del centro, dove avevano potuto vedere il Reichstag – la sede del parlamento tedesco, – un edificio in stile neoclassico, con una grande cupola di vetro al centro e sulla facciata maestose colonne che sostenevano il timpano, decorato con un basso rilievo, e l’architrave su cui era incisa la scritta “Dem Deutschen Volke” (Al popolo tedesco).
Poi, finalmente, si erano trovati di fronte la Porta di Brandeburgo: il monumento più famoso della città, il simbolo dell’unità nazionale. Anch’essa in stile neoclassico, alta circa 26 metri e larga circa 65, con le colonne doriche in pietra che formavano cinque punti di passaggio, era davvero impressionante.
«Mio Dio», sussurrò Dylan osservandola nella sua interezza e magnificenza. «Devo vederla illuminata di notte, per forza».
E riprese a fare foto.
Grace non badò a lui e tirò fuori dalla tasca della giacca la famosa polaroid. La osservò ancora una volta, come se non l’avesse già marchiata a fuoco nella mente, poi si guardò intorno, cercando di capire in quale posizione fossero i suoi genitori quando era stata scattata.
Camminò in cerchio per un po’, calpestando le mattonelle della Pariser Platz, e alla fine si fermò, guardando davanti e dietro a sé: sì, i suoi genitori, felici, giovani ed innamorati, erano stati abbracciati, in posa, esattamente in quel punto.
«Grace, che cosa rappresenta quella statua?».
La detective intascò la polaroid e si voltò verso di Dylan, il quale stava sforzando lo zoom della sua macchina fotografica per inquadrare al meglio la statua posta sulla cima della Porta.
«Si chiama Quadriga e la figura alata che la guida è ancora una volta la dea Vittoria», spiegò.
Dylan sogghignò. «Sbaglio o sono un po’ presuntuosi questi tedeschi? Pensano solo a vincere!».
Grace accennò un sorriso ed infilò un braccio intorno al suo. «Tutto questo camminare non ti ha fatto venire fame? In Germania fanno i migliori döner kebab del mondo, grazie agli immigrati turchi. Ti va?».
«Certo che sì!».
«Sapevo non avresti rifiutato», ridacchiò.

 

***

 

Le porte dell’ascensore si chiusero di fronte a loro e Grace aprì la bocca per chiedergli perché si fosse alzato da tavola per primo, ma Tom la prese per le braccia e la spinse contro una parete dorata, bloccandola col proprio corpo.
«Voglio tanto bene ai miei compagni di band, ma dopo ventiquattr’ore passate con loro… anche tu cercheresti altra compagnia», le sussurrò all’orecchio, stuzzicandole il collo con baci e piccoli morsi, mentre le accarezzava i fianchi sotto la maglietta.
Grace sorrise e gli posò possessivamente una mano sulla nuca, chiudendo gli occhi ed inarcando la schiena per far aderire meglio i loro bacini.
«E quando sarete in tour come farai?».
«Il solito: rischierò d’impazzire».
«Ma tu sei già pazzo».
«Uhm?». La prese in braccio, facendole avvolgere le gambe intorno alla sua vita, e la baciò appassionatamente.
Grace stava quasi per lasciarsi andare, quando vide con la coda dell’occhio che si stavano avvicinando pericolosamente al loro piano. Si divincolò dal suo abbraccio e tornò coi piedi per terra, lasciandolo sbigottito. Qualche secondo dopo un tintinnio avvertì che le porte si stavano per aprire e si trovarono di fronte ad una giovane coppia con una bambina bionda di cinque o sei anni.
Grace le sorrise dolcemente e prese Tom per mano per trascinarlo fuori dall’ascensore, quindi scoppiò a ridere.
«Visto, te l’ho detto che sei pazzo! Pensa se ci avessero colti in flagrante!».
Tom tirò fuori dalla tasca dei jeans la chiave magnetica della loro suite e le sorrise suadente. «Forse sei tu che mi rendi pazzo, no?».
La detective lo spinse dentro alla camera e lo fece cadere di schiena sul letto per mettersi a cavalcioni su di lui.
«Può darsi», mormorò ad un soffio dalle sue labbra, prima di togliersi la maglia e gettarla a terra.

 
«Aspetta un attimo… tu mi hai chiuso il telefono in faccia stamattina!», esclamò Tom, smettendo di accarezzare il braccio di Grace che gli avvolgeva il petto.
La detective ridacchiò. «È un po’ tardi per rendersene conto. Dai, continua, per favore!».
«Ahm… no. E poi eri tu che dovevi fare i massaggi a me, non il contrario!».
Grace brontolò e si allontanò, girandosi dall’altra parte ed avvolgendosi interamente nelle coperte, sottraendole a Tom.
«Ehi!», il chitarrista le strattonò verso di sé e Grace rotolò di nuovo verso di lui, trattenendo a stento le risate. Le prese il viso fra le mani e le stampò un forte bacio sulle labbra, lasciandola poi cadere con la testa sul cuscino.
«Stupida».
Grace alzò una mano e un po’ alla cieca la posò sul suo viso, gli accarezzò una guancia e fece una smorfia. «Non ti sei rasato stamattina. Male».
«È un po’ tardi per rendersene conto», la imitò, sporgendosi sopra di lei col busto ed accarezzandole il collo con la punta del naso.
Grace lo strinse fra le braccia e gli accarezzò la nuca, le spalle e la linea della schiena, per poi tornare su e fare tutto da capo.
«Così va bene?», gli sussurrò all’orecchio.
Lui annuì con la testa. «Mmh… è rilassante. Ah, com’è andata oggi? Non mi hai ancora raccontato niente».
«Bene, è andata bene. Abbiamo visto un po’ il centro stamattina, così ho accontentato Dylan».
«Siete stati anche alla Porta di Brandeburgo?».
«Sì. Ho trovato il punto in cui i miei genitori hanno posato per quella polaroid ed è stato… strano. So poche cose sulla loro storia d’amore».
«Pochi figli si interessano della storia d’amore dei genitori, secondo me. Anche io ne so poco o nulla».
«Eppure siamo nati proprio grazie a…».
«A tuo figlio racconteresti che mi hai conosciuto perché una ragazzina milionaria ti pagava per pedinarmi?», le chiese ridacchiando.
«Beh…». Grace sollevò gli occhi in quelli accesi d’amore di Tom ed arrossì. «Ne stiamo parlando ancora».
A quell’affermazione anche il chitarrista parve realizzarlo all’improvviso, come se non avesse neanche fatto caso al discorso che inconsciamente aveva aperto ancora una volta: la possibilità di avere un bambino.
«Scusa, io non…».
«Non importa», lo interruppe, sorridendogli. «Solo mi incuriosisce questa tua fissa di diventare padre».
Tom sentì il viso andare a fuoco e deviò il suo sguardo, soffermandosi ad accarezzarle i capelli sul cuscino.
In realtà non lo sapeva nemmeno lui per quale motivo continuava a pensarci. Forse era semplicemente Grace la causa di tutto: ce la vedeva troppo bene ad aspettarlo a casa, seduta sul divano e con un bambino tra le braccia, loro figlio.
La detective arricciò le labbra per non ridere e cambiò argomento: «Comunque dopo pranzo io e Dylan siamo anche andati a cercare il bar di cui mi aveva parlato mia madre, quello che lei e papà frequentavano sempre, ma purtroppo era chiuso. Pensavamo di ripassarci questa sera».
«A-Adesso?». Tom la fissò con un guizzo al cuore.
«Tranquillo, non scappo!».
Gli posò un bacio sulle labbra e lasciò che nascondesse il viso contro il suo collo, mentre lei gli accarezzava docilmente i capelli.

 
Tom la guardò mentre prendeva la borsa e controllava se dentro ci fosse tutto, compresa la sua pistola.
Una strana ansia gli pungolò il cuore, tanto che lanciò il telecomando dall’altra parte del letto e la raggiunse gattonando sul materasso, stringendole forte le braccia intorno al petto.
Grace lo osservò con la coda dell’occhio ed accennò un sorriso. «Mi stai diventando troppo sdolcinato, non va bene».
Gli batté una mano sul braccio e fece per alzarsi, ma lui non la lasciò. Allora sospirò e gli posò un bacio sulla guancia.
«Torno presto, te lo prometto».
Tom allentò la presa e lasciò che si allontanasse da lui. La osservò andare fino alla porta e ricambiò lo sguardo che gli rivolse prima di uscire dalla stanza, ma non riuscì proprio a fare lo stesso con il suo sorriso.
Grace scelse di scendere le scale per levarsi di dosso la strana sensazione che aveva provato stando stretta fra le braccia di Tom, come se quello fosse stato uno degli ultimi momenti trascorsi con lui, e quando raggiunse la hall chiese alla reception se il gruppo capitanato da David avesse già finito di cenare. Gettando un’occhiata all’orologio d’oro alle spalle dell’uomo, però, si rispose da sola alla domanda.
«Sì, hanno già lasciato il ristorante», le rispose cortesemente. «Se cerca il signor Kaulitz, so che si è diretto al bar».
Grace seguì il suo consiglio. Andò verso il bar, separato dalla sala ristorante solo da delle tende leggere, e appena ne ebbe una visuale completa vide subito Bill seduto su uno degli sgabelli alti del bancone laccato nero, che beveva un cocktail con il sorriso sulle labbra. E quel sorriso non poteva essere dovuto a nessun altro: Dylan era seduto al suo fianco e gli stava raccontando qualcosa di tanto divertente quanto esplosivo, perché disegnò un ampio gesto con le braccia che a Grace ricordò il ka-boom di una bomba.
Vedendoli così felici di passare un po’ di tempo insieme, indisturbati, senza che nessuno li accusasse di essere “giusti” o “sbagliati”, non se la sentì proprio di mettersi in mezzo e rovinare tutto. Non avrebbe sopportato di vedere i loro sorrisi spegnersi, né gli occhi di Bill intristirsi ed offuscarsi di preoccupazione mentre gli portava via Dylan.
Così si allontanò in fretta, prima che cambiasse di nuovo idea, ed uscì da sola all’aria fredda della sera, alzandosi il colletto della giacca.

 
Entrò nel bar e la prima cosa che fece fu quella di guardarsi intorno per memorizzare possibili vie di fuga: non c’erano finestre, le luci erano soffuse, l’aria era intrisa di puzza di fumo e ai tavolini c’erano pochi clienti, tutti con boccali di birra enormi in mano e concentrati sulla partita di calcio trasmessa al televisore appeso sopra al bancone, dietro al quale non c’era nessuno. Provò ad immaginarselo come uno dei bar più frequentati negli anni ’80, proprio come glielo aveva descritto sua madre, ma i risultati furono deludenti.
Si sedette su uno degli sgabelli al bancone e notò che nessuno badò a lei. Da un lato era sicuramente meglio, ma dall’altro… cosa poteva scoprire, se nessuno sembrava intenzionato ad aiutarla?
In quel momento dal retrobottega uscì un uomo basso e magro, con gli occhi azzurri, il viso ovale e una vistosa piazza fra i capelli biondi, d’età più o meno sui cinquantacinque anni. L’uomo si accorse di lei e si affrettò a tornare dietro il bancone per servire quel nuovo ed improvviso cliente. Mai avrebbe immaginato chi fosse realmente.
«Come posso esserle utile?», sollevò lo sguardo e per la prima volta la osservò con la dovuta attenzione, rendendosi conto che si trattava proprio di lei, della figlia del suo migliore amico. Con gli occhi sbarrati, balbettò: «Grace… Grace, sei davvero tu?».
La detective reagì allo stesso modo, riconoscendo quell’uomo come uno di quelli presenti al funerale di suo padre. Sua madre aveva ragione quando aveva detto che il gestore del bar lei lo aveva già visto, solo che non se lo ricordava.
«Sì, sono io», rispose alla fine, ricomponendosi. «E lei è…?».
«Dwight».
Grace inarcò un sopracciglio. «Come Dwight Eisenhower, generale che comandò lo Sbarco in Normandia e poi Presidente degli Stati Uniti?».
«Esatto», le rivolse un sorriso dolce e si sporse verso di lei per sussurrare: «Io e tuo padre siamo cresciuti praticamente insieme».
Uscì dal bancone e le fece segno di seguirlo nel suo ufficio, in modo che potessero parlare senza essere ascoltati da orecchie indiscrete.
«Allora Mitch aveva proprio ragione…», disse ancora una volta, dopo essersi chiuso la porta alle spalle.
Nel sentire il nome di suo padre, Grace sobbalzò. «Come?».
«Sì, lui…», chinò il capo a quel ricordo doloroso, ma lo rialzò quasi subito. «Qualche tempo prima di morire è venuto da me e mi ha affidato questa». Tirò fuori dal cassetto chiuso a chiave della sua scrivania quella che di primo acchito sembrava proprio un’agenda di pelle nera e la posò sul tavolo. «Mi disse, testuali parole: “Custodiscila fino a quando non sentirai che è il momento giusto di consegnarla a qualcun altro”. Peccato che io lo conoscessi troppo bene, nonostante gli anni che avevamo trascorso lontani da quando aveva deciso di trasferirsi in America. Quando me lo disse gli brillavano gli occhi e, credimi, i suoi occhi brillavano solo per due persone a questo mondo: tua madre e te, Grace».
La detective, seduta sulla poltrona di fronte alla scrivania, non riuscì a staccare gli occhi da quell’agenda: poteva costituire la luce per tutti i punti oscuri del materiale che suo padre aveva tenuto a Los Angeles, oppure potevano essere semplicemente le sue memorie. In ogni caso, voleva averla ad ogni costo.
«Quindi lei… lei pensa che sia giunto quel momento e che la persona a cui la deve consegnare sia io?», domandò con la gola secca.
«Ci sarà pure un motivo per cui sei qui, no?».
Grace provò a rivolgergli un sorriso e con le mani sudate e tremanti, dopo un altro incoraggiamento da parte di Dwight, afferrò l’agenda. Ne accarezzò il dorso e sentì l’eccitazione scorrerle nelle vene, tanto che non poté resistere e chiese: «C’è un bagno, qui?».
«Certo. Fuori dall’ufficio, la porta subito a destra».
Grace lo ringraziò e corse in bagno. Per prima cosa si sciacquò il viso con dell’acqua gelata per riprendersi un po’, se l’asciugò con un paio di fogli di carta ruvida e poi si sedette sull’asse del cesso per sfogliare velocemente le pagine dell’agenda, col cuore che le batteva impazzito nel petto.

 

Grace, tesoro, spero tu stia leggendo queste parole tanto quanto spero tu non lo faccia mai.
Non so se sei entrata in possesso di quest’agenda attraverso Dwight o meno, ma se è così vuol dire che hai seguito l’indizio che ti ho lasciato e stai continuando il mio caso. Sono così orgoglioso di te, eppure vorrei che bruciassi questa agenda e lasciassi perdere tutto. Non voglio che capiti nulla di male, né a te né a tua madre né a nessun altro.

 
Grace chiuse gli occhi alle lacrime. Respirò profondamente e portò di nuovo gli occhi sulle pagine scritte a mano da suo padre, ma quella volta le scorse velocemente, riuscendo a capire che suo padre le aveva lasciato scritto tutto ciò che aveva fatto nei mesi del 2003 subito successivi al ritorno in patria dei tre marines che avevano impedito quell’attacco terroristico a Baghdad, ottenendo una medaglia al valore.
Grace intuì, senza nemmeno arrivare alla fine, che c’era anche la risoluzione del caso, con nomi e cognomi di tutti gli appartenenti all’organizzazione criminale e di quelli dei piani alti che li avevano assoldati. Probabilmente tra questi c’era anche il nome dell’assassino di suo padre. Lei non doveva fare altro che leggere e far pervenire tutto alla polizia.
Si sentì infinitamente sollevata, perché questo voleva dire che ancora poco tempo e tutto sarebbe finito, ma aveva anche una maledetta paura di uscire da quel bagno: doveva portare al sicuro quell’agenda e poi liberarsene consegnandola all’FBI, perché fino a quando sarebbe stata nelle sue mani era in pericolo lei come tutte le persone che le stavano attorno.
Si fece coraggio con un altro respiro profondo ed infilò l’agenda nella borsa, poi uscì dal bagno.
Adocchiò Dwight di nuovo al bancone, che riempiva un boccale di birra ad uno dei suoi clienti abituali, e si avvicinò.
«Grazie, davvero. Mio padre sarebbe fiero di te», gli disse quando lui la raggiunse per stringerla in un abbraccio.
«Lui sapeva che non l’avrei mai tradito. E poi… l’ho fatto con piacere».
La detective rabbrividì sentendo quelle parole. Lui non sapeva del pericolo che aveva corso. Se solo l’organizzazione avesse saputo dell’agenda… probabilmente sarebbe stato ucciso come suo padre e quell’agenda sarebbe scomparsa per sempre.
Ora toccava a lei fare in modo che quell’agenda rimanesse ancora un segreto e limitare i danni, se proprio dovevano essercene.
Uscì dal bar e pensò che le temperature fossero scese sotto lo zero, perché nonostante si stringesse nella giacca aveva sempre più freddo. Avrebbe voluto correre per riscaldarsi ed arrivare più in fretta in una via trafficata, dove sarebbe stata protetta dagli occhi della gente, ma si disse che se avesse fatto così avrebbe insospettito chiunque e non solo le persone che adesso sentiva col fiato sul collo per colpa del peso in più che aveva nella borsa. Non sapeva se quelle persone ci fossero davvero o fossero solo frutto della sua immaginazione, ma aveva paura, paura come non ne aveva mai avuta in tutta la sua vita.
Sentì il suo respiro farsi più affannoso per cercare di seguire i battiti velocissimi del suo cuore, mentre camminava a passo svelto sul marciapiede e provava a pensare a tutte le cose belle che le venivano in mente: Tom, Bill e Dylan che ridevano, sua madre che quando lei era piccola le preparava i biscotti, persino la bambina a cui aveva sorriso quella sera uscendo dall’ascensore.
Alla fine non riuscì più a resistere e le sue gambe iniziarono a correre senza niente che lei potesse fare per fermarle. E ce l’avrebbe pure fatta a raggiungere una delle vie più trafficate di Berlino, mancava davvero tanto così, se una mano grande non l’avesse afferrata da dietro tappandole la bocca.
Subito fu intrappolata da due braccia di ferro e trascinata verso uno dei tanti vicoli bui, tuttavia si dimenò con tutte le sue forze e morse pure la mano del suo aggressore, trovandola fasciata da un guanto di pelle. Niente DNA.
Innervosito, l’uomo la lasciò cadere a terra e Grace batté in malo modo la spalla, ma non vi badò e provò subito a prendere la sua Glock nella borsa, ma lui glielo impedì schiacciandole il braccio con un piede, facendola urlare di dolore. Lo stesso braccio che Tom le aveva accarezzato dopo aver fatto l’amore…
«Shhh», le disse e le tirò un calcio nello stomaco, e poi un altro, e un altro ancora.
Grace tenne gli occhi aperti più che poté, per cercare di trovare qualche segno distintivo in quell’uomo vestito interamente di nero e dal viso coperto da un passamontagna. Persino i suoi occhi sembravano neri, privi di espressione.
La detective sfruttò un attimo di esitazione dell’aggressore per alzarsi rapidamente, nonostante i colpi ricevuti, e lanciarsi su di lui. L’unico effetto che ottenne, fu di essere di nuovo intrappolata nella morsa d’acciaio delle sue braccia. Quindi l’uomo prese qualche passo di rincorsa, senza lasciarla andare, e come un toro si schiantò contro il muro, facendole battere violentemente la schiena e la testa.
Grace, quasi sul punto di perdere i sensi, lottò in tutti i modi per stare sveglia e nella sua mente si chiese se fosse lui l’uomo che aveva assassinato suo padre. No, era pressoché impossibile: suo padre era stato ucciso da un solo colpo di pistola alla testa, un esecuzione troppo fredda per quell’uomo aggressivo e feroce come un animale, un animale che ora non le permetteva di accasciarsi a terra tenendola per il collo.
Alzò un pugno per schiantarglielo in faccia, ma all’improvviso si fermò, come in ascolto di qualcosa. Grace accennò un sorriso, ma l’illuminazione che aveva avuto sparì con esso quando la colpì un’altra volta allo stomaco, facendole sputare sangue.
Quella volta la lasciò andare e Grace cadde sul cemento con un tonfo, pesante come se fosse stata riempita di cemento. All’ennesimo colpo, una pedata sulla schiena, reagì solo con un gemito strozzato, ormai priva di forze. 
Con la coda dell’occhio vide l’uomo inginocchiarsi al suo fianco e tirarle su il mento, mentre infilava una mano nella tasca della giacca. Grace sapeva già di che cosa si trattava e fu scossa da un brivido, talmente forte che l’uomo fece un versetto divertito, una specie di «Mm-mm».
Quando sentì il metallo freddo della canna premerle sulla nuca, rivisse per un istante l’orribile momento che aveva segnato la sua esistenza: il ritrovamento di suo padre. Sarebbe morta anche lei in quel modo, con l’unica differenza che l’avrebbero trovata in uno squallido vicolo? No, non poteva finire così, non poteva, non poteva…
Ancora una volta si aggrappò ai primi pensieri felici che le apparvero in maniera disorganizzata nella testa, come se la pellicola della sua memoria fosse stata aggrovigliata. Pensò al sorriso caldo di suo padre, alla tenerezza di sua madre, al sostegno costante di Dylan, all’unicità di Molly, all’imperscrutabilità degli occhi dell’agente Crawford, alle dolci stranezze di Bill, all’amore del suo Tom. Pensò anche al bambino che non sarebbe mai riuscita a donargli se fosse morta – e in quel modo, poi – e riuscì quasi a vederselo davanti agli occhi: con i capelli biondi, gli occhi dello stesso colore dei suoi.
No, non voleva morire, non voleva perdersi tutto quello, non voleva lasciare nessuna delle persone che amava.
Una lacrima le solcò la guancia e la voce le uscì roca, graffiata come se quell’uomo le avesse lacerato persino le corde vocali: «Ti scongiuro, io… per favore…».
Il suo aggressore emise un altro dei suoi agghiaccianti versetti di godimento, ma proprio in quel momento un’altra voce raggiunse le loro orecchie, distraendoli.
«Non ci credo, Grace Schneider supplicante?».
Grace fece per voltare il capo per vedere a chi appartenesse quella voce, ma il suo aggressore usò il calcio della pistola per impedirglielo, colpendola sulla mandibola. Grace sgranò gli occhi umidi per il dolore e sentì il sapore metallico del sangue nella bocca.
«E tu che ci fai qui?», gridò poi, e le sue furono le prime parole che la detective gli sentì pronunciare.
«Non volevo perdermi il The End!», rispose lo sconosciuto ridacchiando.
Grace capì che si era fermato quando smise di sentire il rumore dei suoi passi echeggiare.
«Vattene», ringhiò ancora il suo aggressore, desideroso di concludere in fretta il lavoro.
Ma lo sconosciuto lo intrattenne ancora e Grace, considerandolo abbastanza distratto, rischiò il tutto per tutto: colpì con un pugno la mano con cui teneva la pistola, prendendolo di sorpresa grazie alla velocità del suo movimento e riuscendo persino a sbilanciarlo un po’. L’uomo però reagì in fretta e le puntò la pistola addosso, premendo il grilletto.
Per una frazione di secondo Grace pensò di essere morta, ma si rese conto di non esserlo quando sentì altri due boati e il suo aggressore le cadde addosso privo di vita. Travolta dall’orrore e dalla sgradevole sensazione di déjà-vu, se lo tolse subito di dosso e scoprì che aveva un foro alla tempia e uno al petto.
Sentì il rumore di passi veloci che si allontanavano e realizzò che quello che il suo aggressore aveva probabilmente considerato un complice fino ad allora… l’aveva salvata.

 

***

 

Tom, inarrestabile, entrò nella camerata del pronto soccorso in cui gli avevano detto che avrebbe trovato Grace e scostò bruscamente le tendine sentendo la sua voce assieme a quella del medico.
«Grace!», urlò disperato, sull’orlo di una crisi isterica.
«Tom, calmo, sto bene», cercò di tranquillizzarlo, ma lui le strinse forte le mani e si soffermò a guardare la fasciatura che le stringeva il braccio, dove un proiettile l’aveva presa di striscio, il livido violaceo che aveva alla mandibola, quelli sul collo, quello sull’avambraccio… e immaginò tutti quelli che doveva avere sotto la canottiera intima che indossava in quel momento.
«Bene?! E tu questo lo chiami star bene?!».
Si portò una mano alla testa e mormorò: «Abbassa la voce, ti prego».
Tom alzò gli occhi al cielo per non scoppiare a piangere e poi spaziò con lo sguardo intorno a sé, incontrando anche gli occhi di un poliziotto tedesco che aspettava di portare Grace in centrale per raccogliere la sua deposizione su ciò che era avvenuto. Osservando la divisa, Tom si ricordò di Dylan e strinse i pugni lungo i fianchi, gli occhi iniettati di sangue e le vene del collo gonfie. Faceva davvero paura.
«Dov’è quel pezzo di merda del tuo amico?», le chiese, guardando in cagnesco anche Bill, il quale aveva riferito a suo fratello quello che era successo a Grace ovviamente dopo averlo saputo da… da Dylan.
«Allora, dove cazzo è?!», gridò ancora, spazientito, del tutto indifferente alle proteste del medico in camice bianco, dell’infermiera e della stessa Grace che aveva un leggero trauma cranico.
«Sono qui».
Alla voce debole di Dylan, sia Bill che Tom si girarono di scatto. Il maggiore gli fu subito addosso, con tanta violenza da farlo arretrare fino al muro. Il medico, l’agente di polizia tedesco e lo stesso Bill lo fermarono prendendolo per le spalle, ma Tom, una specie di furia, riuscì comunque a tirargli un pugno sul viso, facendogli sanguinare un po’ il naso.
«Avevi promesso di proteggerla!», ruggì come un leone ferito, dimenandosi tra le braccia del medico e del poliziotto. «Dove cazzo eri mentre lei rischiava di morire, eh!? Sarebbe morta se non fosse arrivato quell’uomo a salvarla! Tu dove cazzo eri, me lo vuoi dire?!».
Dylan abbassò il viso, tastandosi le narici con una mano per controllare se stesse ancora sanguinando.
Bill si parò di fronte a lui ed aprì le braccia. «Era con me», rispose senza alcuna inflessione nella voce, gli occhi fissi in quelli del gemello.
Tom rimase immobile per qualche secondo, incredulo, poi un sorriso amaro e un po’ disgustato si dipinse sulle sue labbra. Scoppiò a ridere lievemente e si avvicinò a Bill, gli posò le mani sulle spalle e il suo viso si accartocciò in una smorfia, intrisa di quella rabbia che lo istigò a spingerlo via da sé, contro il poliziotto che tanto si ostinava a difendere.
«Lei rischiava di morire mentre voi due ve lo mettevate in culo a vicenda!», gridò scioccando tutti quanti, compresi i due diretti interessati.
«Tom, smettila», rispose a tono Grace, scendendo dal lettino e provando a raggiungerlo, ma i dolori causati dai colpi ricevuti la fecero piegare in due. Ottenne comunque il risultato sperato, perché Tom la raggiunse per sorreggerla e farla sedere di nuovo.
La detective ne approfittò per guardarlo fisso negli occhi e dirgli: «Basta dire stronzate, non devi dare la colpa a nessuno per quello che mi è successo, perché la colpa è solo mia».
Tom, sofferente, strinse gli occhi. «Che cosa…?».
«Ascoltami. Ascoltami, ti prego», sussurrò accarezzandogli una guancia. «Quando sono andata a cercare Dylan, lui era davvero con Bill, ma erano al bar che chiacchieravano tranquillamente. Io l’ho visto, avrei potuto chiamarlo e dirgli di accompagnarmi, come avrei dovuto… ma non l’ho fatto».
«Che cosa?», balbettò il poliziotto, guardandola stupefatto, riemergendo dal fango dei suoi stessi sensi di colpa.
Grace gli rivolse un piccolo sorriso. «Sembravate così felici… non volevo rovinare il momento, ecco. E sono uscita da sola».
Tom, più che interdetto, si portò le mani sugli occhi arrossati per il sonno e lo spavento terribile che aveva avuto. Quindi si lasciò cadere sulla sedia di plastica accanto al lettino, sotto lo sguardo del medico e dell’infermiera, felici che si fosse calmato e avesse smesso di urlare, anche se ormai aveva già svegliato tutti i pazienti del reparto.
Dylan si scostò Bill di dosso e in silenzio uscì dalla stanza, coprendosi la bocca con una mano. Il cantante rimase ad osservare il fratello ancora per un po’, con un enorme peso sul petto che lo stava quasi soffocando, poi seguì il poliziotto.

 
Grace, in quella lunga notte che sembrava non avere fine, fu portata alla centrale di polizia sia per denunciare l’aggressione che aveva subìto sia per essere interrogata come testimone oculare della morte dell’uomo che l’aveva aggredita, ucciso da un altro uomo che purtroppo non aveva potuto identificare perché ne aveva sentita solo la voce.
Solo quando tutte le scartoffie furono state compilate poté tornare in albergo, dove Tom l’aspettava, in ansia e con delle occhiaie davvero spaventose.
«Lo so che me ne pentirò, ma te lo devo dire: hai un aspetto orribile», gli disse accarezzandogli un braccio.
Tom non le rispose, badò soltanto a chiudere bene la porta e a tornare sul letto, dove aveva lasciato il suo PC portatile, che chiuse con cura prima di riportarlo alla scrivania.
La detective lo osservò e sospirò, lasciando cadere la borsa accanto alla sua valigia. Si sorprese quando non sentì il tonfo che avrebbe imputato al peso che aveva sentito fino a quel momento sulla spalla.
«Tom… per quanto tempo ancora hai intenzione di non rivolgermi la parola?». Aspettò invano la sua risposta e quando non la ottenne, distrutta fisicamente quanto psicologicamente, si diresse verso il bagno.
Di fronte allo specchio, rabbrividì notando la gravità dei suoi lividi. E non si era ancora spogliata…
Si sentì sporca, sudicia, come se il male che quell’uomo le aveva fatto le fosse rimasto impresso come un batterio sulla pelle, che andava eliminato prima che provocasse qualche infezione incurabile. Con il braccio fasciato, però, ferito da quel proiettile che per fortuna l’aveva solo sfiorata, non poteva di certo buttarsi sotto la doccia.
Uscì dal bagno e si diresse a passo lento verso la porta. Solo quando ebbe la mano sul pomello, Tom le chiese con una nota di preoccupazione nella voce: «Dove vai?».
«Da Bill. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a lavarmi».
«Credi che io non possa farlo?».
Lo guardò negli occhi, intensamente. «Puoi?».
Tom annuì con un cenno del capo e si alzò, andando ad aprire il rubinetto della vasca. Le preparò il bagno e quando fu pronto, con l’acqua della temperatura giusta, l’aiutò a spogliarsi, chiudendo gli occhi di fronte ai lividi che le vide sull’addome, all’altezza dello stomaco, e sulla schiena, a forma di scarpone.
«Sono tanto brutti?», gli domandò una volta immersa nell’acqua, con il braccio fasciato tenuto ciondolante fuori dalla vasca per non bagnarlo.
«Sì, abbastanza».
Grace sospirò e si fece mettere un po’ di bagnoschiuma sulla spugna.
«Fino a qui ce la faccio anche con una mano sola», gli spiegò.
Tom annuì e a salvarlo dall’imbarazzo e dalla tensione ci pensò il suo cellulare, che iniziò a suonare in modo impaziente. Ebbe l’opportunità così di allontanarsi da lei, anche se non avrebbe voluto avere quel tipo di conversazione con Molly.
«Tom, che cosa sono le foto che stanno girando su Internet? Grace sta bene, cosa le è successo?».
«Molly, sono le due e mezza di notte, so che da te è giorno ma…».
«Tom, rispondimi!».
«Grace sta bene!», urlò, sfinito, anche se si pentì subito di aver detto quella bugia. Con più calma, aggiunse: «Adesso però non ho voglia di parlarne, okay? Sappi solo che quello che dicono i siti di gossip sono tutte cazzate».
«Okay… okay Tom, ci sentiamo, ciao».
Doveva averla sconvolta, poverina, ma doveva anche capire che era lui quello più sconvolto tra i due.
Lasciato giù il cellulare, tornò in bagno e vide Grace intenta a sfregarsi i capelli con lo shampoo con una mano sola, facendo evidentemente fatica.
«Lascia, faccio io», si offrì, temerario. Grace gli rivolse un sorriso stanco e tirò indietro la testa, lasciandosi massaggiare la cute.
Se fosse stato un momento qualsiasi, un momento di tenerezza fra lei e Tom, si sarebbe rilassata tanto da crollare addormentata fra le sue braccia, ma era ancora un fascio di nervi e la stanchezza era solo apparente, perché sapeva che quella notte non sarebbe riuscita a chiudere occhio per paura di poter fare un incubo su quello che aveva vissuto quella sera.
«È troppo calda oppure va bene?», le chiese accennando all’acqua del telefono che doveva usare per sciacquarle i capelli.
«È perfetta».
«Vuoi anche il balsamo dopo?».
Grace aprì un occhio e ridacchiò, incrociando il suo sguardo. «Tu sai dell’esistenza del balsamo? Sono esterrefatta».
Riuscì a strappargli un sorrisino e ne fu molto soddisfatta, per quanto sapesse che nel profondo era arrabbiato con lei.
Che la tirasse fuori anche con lei, quella rabbia! Gli avrebbe fatto solo bene e lei si sarebbe sentita meno colpevole nei confronti di Bill e Dylan, i quali si erano accollati tutte le responsabilità della sua irresponsabilità.
Ma la realtà, ne era sicura, era che Tom non l’avrebbe mai sgridata quanto avrebbe dovuto: anche lei, se i ruoli si fossero invertiti, non sarebbe mai inveita contro di lui, non dopo quello che aveva subìto, non dopo aver visto i suoi lividi.
Quando finì di lavarle i capelli, Grace si alzò e Tom, sempre senza guardarle la schiena segnata, l’aiutò ad avvolgersi in un asciugamano bianco e ad uscire dalla vasca.
«Tom, guardami».
Il chitarrista le posò una mano sul collo e, delicatamente, con il pollice, le accarezzò la pelle, ma non osò ancora alzare gli occhi. Grace lo costrinse a farlo, sollevandogli il mento con due dita.
«Non posso perdonarlo, non posso farlo».
«Non puoi, perché la colpa non è sua, ma mia».
Tom scosse il capo con violenza, ma la detective lo fermò posandogli i palmi delle mani sulle guance, cercando il suo sguardo.
«Invece sì», gli sussurrò. «Devi riconoscere le mie colpe e sistemare le cose con Dylan e Bill, soprattutto con Bill. Lui non si meritava nulla di tutto questo».
Tom la prese per mano e la portò in camera da letto, recuperò il PC che aveva lasciato chiuso sulla scrivania e lo portò di nuovo sul materasso. Lo aprì e voltò lo schermo verso di lei per mostrarle le foto che stavano già circolando in rete: Grace che usciva dall’ospedale con il cappuccio sulla testa, che però non aveva impedito al paparazzo di inquadrare il livido che aveva sulla mandibola; Grace che saliva su un’auto della polizia tedesca e veniva portata via; Tom che usciva poco dopo dallo stesso ospedale e saliva su un’auto con il gemello.
«Credono che sia stato io. Credono che io ti abbia picchiata!», disse con voce tremante e gli occhi lucidi.
Grace lo fissò, stupefatta ed inorridita, e seduta sulle sue gambe gli gettò le braccia al collo, stringendolo fortissimo a sé.
«È che tu sei così stupida, stupida cazzo! Cosa volevi fare, da sola? Sapevi dei pericoli che correvi! E tutto questo per non rovinare la seratina romantica di Bill e Dylan! Volevi farti uccidere, per caso?». Ormai piangeva e singhiozzava, col viso nascosto nell’incavo della sua spalla, le braccia che le avvolgevano la schiena in modo protettivo e delicato, per non farle male.
«E a me non hai pensato? Come avrei fatto senza di te, come? Se fossi morta, io…».
«Scusami, mi dispiace tanto Tom», rispose, rischiando anche lei di scoppiare a piangere.

Se solo sapessi che sei stato uno dei pensieri a cui mi sono aggrappata per non perdere tutte le speranze, quando ho sentito quella pistola sulla nuca… Oppure il nostro bambino. Tom, ho visto il nostro bambino quando stavo per morire!
«Non farlo mai più, ti supplico».
«Mai più», gli promise, baciandogli la guancia diverse volte. «Tu non puoi nemmeno immaginare quanto ti amo».
Il chitarrista si scostò un poco e tirò su col naso, mentre Grace gli sorrideva docilmente e gli spazzava via le lacrime dalle guance.
«Sono tremendamente stanca», gli confidò, socchiudendo le palpebre.
Tom la prese in braccio e la sdraiò sulla sua parte di letto, infilandole la sua camicia da notte per non farle prendere freddo. Poi spense il PC e lo posò a terra per raggiungerla sotto le coperte e stringerla fra le braccia, accarezzandole il viso e i capelli.
In quel momento, riflettendoci, non riuscì a capire chi fosse più bisognoso di sentirsi protetto dalle braccia dell’altro, se lui o lei. Forse entrambi, indistintamente, perché entrambi avevano rischiato di perdere la cosa più preziosa che possedevano: il loro amore.

 


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Capitolo 24
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22

Grace aprì gli occhi di scatto e schizzò seduta sul letto, spaventata.
«Che cos’è successo?», urlò con la voce strozzata, il cuore che le batteva a mille nel petto.
La luce accesa in bagno era l’unica che rischiarava i contorni delle cose nella suite, poiché le pesanti tende erano ancora chiuse sulle finestre, e la detective vide solo la figura di Tom che si stagliava di fronte la porta, voltato verso di lei con una mano sul gomito.
«Ho picchiato contro lo stipite».
Grace sospirò sollevata e si strinse le gambe al petto, cercando di mandare via la paura.
Era stata la notte peggiore di tutta la sua vita e se non avesse avuto Tom accanto sarebbe come minimo impazzita, continuamente in preda a manie di persecuzione create dalla sua mente traumatizzata.
«Scusa, non volevo svegliarti», disse ancora Tom, avvicinandosi e sedendosi sul letto, al suo fianco.
Grace distolse lo sguardo dal suo, voltando il capo verso sinistra. «Tanto… tanto mi sarei svegliata comunque, tra un po’».
«Hai continuato a svegliarti per tutta la notte, vero?». Tom sospirò, afflitto, e le accarezzò i capelli ancora un po’ umidi a causa del bagno di quella notte. «Vorrei poterti aiutare, ma non so…».
«Hai già fatto tantissimo, credimi», gli confidò, rivolgendogli un piccolo sorriso e stringendogli forte la mano. «L’unica cosa che potresti ancora fare per me, tu sai qual è».
Quella volta fu Tom a distogliere lo sguardo. «Sono in ritardo, è meglio che finisca di prepararmi. Non voglio avere altri problemi con David».
Grace lo guardò mentre si alzava e tornava in bagno. Si accucciò di nuovo sotto le coperte e strinse forte il cuscino fra le braccia, provando a riappisolarsi. Incredibilmente, ci riuscì.


Quando riaprì gli occhi, la suite era ancora immersa nell’oscurità. Guardando la sveglia a led sul comodino, si rese conto che aveva dormito solo un altro paio d’ore, che di certo non le erano bastate per recuperare le energie. Ma meglio di niente.
Si alzò dal letto sentendo tutti i muscoli indolenziti e le contusioni farle ancora più male del giorno prima, ma non si abbatté e scostò le tende dalle finestre, lasciando che la luce del giorno illuminasse naturalmente l’ambiente. Purtroppo quella mattina il sole era nascosto dietro un fitto banco di nuvole grigie, cosa che non rallegrò l’umore della detective.
Fece per andare in bagno, ma non molto lontano dalla porta vide un carrello con sopra la sua colazione. Tom doveva aver chiamato il servizio in camera prima di uscire.
Osservò le brioches spolverate di zucchero a velo disposte in modo invitante su un vassoio, ma il suo stomaco ancora un po’ acciaccato non fece i salti di gioia come avrebbe dovuto.
«Magari più tardi», mormorò lasciando perdere.
In bagno si cambiò, infilandosi un paio di jeans neri e un maglione blu scuro a collo alto, poi tornò in camera. Si sedette sul letto portandosi dietro il bicchiere di succo d’arancia della sua colazione e il telecomando, con il quale accese la TV a schermo piatto, giusto per non sentirsi completamente sola in quella stanza.
Il suo sguardo si posò sulla sua borsa, abbandonata accanto alla valigia dalla notte prima.
La Grace investigatrice era impaziente di immergersi nel caso di suo padre attraverso la lettura dell’agenda che le aveva lasciato; al contrario, la Grace aggredita, quella che aveva rischiato di morire, non ne aveva nessuna intenzione, perché farlo avrebbe comportato ricordare per l’ennesima volta tutto ciò che le era successo quella notte.
Quell’agenda era come una tentazione vivente e allo stesso tempo era qualcosa di cui aveva paura, perché c’era gente – e lo aveva provato sulla sua pelle – che era disposta ad uccidere per averla. E lei ora era sola ed indifesa in quella stanza, sola con quella maledetta agenda.
Si sporse sul comodino e digitò il numero di camera di Dylan per effettuare una chiamata interna. Dopo un paio di squilli, rispose con voce assonnata: «Pronto?».
«Guten Morgen. Hast du geschlafen?».
«Grace… Che hai detto?».
La detective ridacchiò. «Vieni a farmi compagnia, dai».
Nell’attesa che arrivasse, spostò il carrello dal corridoio e pensò a liberarsi dell’incubo dell’agenda, tirandola fuori dalla borsa e nascondendola sul fondo della sua valigia, sotto i vestiti.
Ebbe un istante di cedimento, tanto forte era il desiderio di leggere, ma fortunatamente durò poco e riuscì a tener fede alla sua promessa. D’altronde meno ne sapeva, meno pericoli correva, e non aveva decisamente voglia di essere aggredita ancora, per di più lontana da casa. E lo stesso valeva per Tom e Dylan: li avrebbe tenuti del tutto all’oscuro, proprio come se quell’agenda scritta da suo padre non esistesse, fino a quando non fosse stata certa che sarebbero stati al sicuro.
Bussarono alla porta e il cuore di Grace iniziò a correre, nonostante sapesse benissimo che si trattava di Dylan. Ora capiva cosa doveva aver provato sua madre, cosa voleva dire vivere costantemente con la paura di essere ferite di nuovo.
«Ehi, Grace, ci sei?», le chiese da dietro la porta, un po’ preoccupato.
Grace sospirò, sollevata di sentire la sua voce, e gli aprì. Lui entrò e rimase fermo nell’ingresso, all’ombra, di fronte a lei. La detective si barricò di nuovo all’interno della suite e gli rivolse un piccolo sorriso, per poi avvolgergli le braccia intorno al collo.
«Se Tom viene a sapere che sono stato qui mi uccide».
Grace si scostò e lo guardò severamente negli occhi. «Questa è la prima cosa che dovevi dire?».
Il poliziotto sospirò, chinando il capo. «Non saresti dovuta uscire da sola, avresti dovuto…».
«Lo so. Ed è per questo che tu non devi fartene nessuna colpa, né devi avere paura di Tom: lui sa benissimo che la stupida sono stata io, ma non riesce a prendersela con me perché è infinitamente felice che io sia viva, capisci? Allora ha cercato un altro capro espiatorio. Anzi, due: te e Bill».
Dylan si coprì gli occhi arrossati di pianto con le mani, appoggiandosi alla detective. «Bill non c’entrava assolutamente nulla, perché si è comportato così?».
«C’è rimasto molto male, vero?».
Il poliziotto annuì col capo, tirando su col naso. «Sono certo di sì, anche se non ha fatto altro che consolare me. Anche lui aveva bisogno di me e io ho pensato solo ai miei sensi di colpa, non gli sono stato accanto…».
«Si sistemerà tutto, vedrai».
Gli sollevò il viso per far sì che vedesse il suo sorriso incoraggiante e lo prese per il polso, portandolo in camera da letto.
«Hai già fatto colazione? Tom ha ordinato il servizio in camera per un esercito», ridacchiò, accennando al carrello che aveva sistemato ai piedi del letto.
«A dire il vero non ho molta fame», confessò, andandosi a sedere sulla poltroncina di fronte alla scrivania.
Grace lo osservò e il suo sorriso lentamente si spense: se non aveva fame, voleva dire che stava davvero male. Ed era tutta colpa sua.
«Al meteo hanno detto che è probabile che nevichi, questa notte. Sarebbe bello, no?».
Dylan, con lo sguardo perso fuori dalle finestre, annuì col capo, ma Grace non era sicura che l’avesse ascoltata veramente. Infatti, quando si voltò, le disse: «Ieri ho chiamato Michael».
«Era tanto arrabbiato?».
«Di più. Grace…».
La detective, colpita dai suoi occhi quasi imploranti, si sedette sul bordo del letto, alzandosi il collo del maglione fino a coprire la bocca e il livido sulla mandibola.
«Ti scongiuro, dimmi che almeno ne è valsa la pena».
Grace pensò all’agenda nascosta nella sua valigia, si morse le labbra sotto il collo del maglione e socchiudendo gli occhi negò col capo.
Dylan tirò un pugno sulla scrivania, frustrato, ma poi la raggiunse sul letto e la tenne stretta a sé per un tempo che sembrò durare un’infinità.


Alla fine, quando ormai era più ora di pranzo che di colazione, erano riusciti a mangiare qualcosa, spaparanzati entrambi sul letto, mentre raggiungevano i livelli massimi di zapping mai conosciuti.
«Oh, ma adesso dovrebbe iniziare il programma dove sono stati invitati i Tokio Hotel!», esclamò all’improvviso Grace, con la bocca piena di cereali di mais.
Dylan prese il telecomando e cercò il canale suggeritogli da lei: il programma era iniziato solo da qualche minuto e la presentatrice aveva appena iniziato ad introdurre i superospiti di quel giorno.
Il gruppo entrò in scena con Bill in testa, il quale ricambiò il caloroso applauso del pubblico in studio con uno sventolio di mano e il miglior sorriso che riuscì ad offrire.
Dylan lo guardò esterrefatto. «Ma come diavolo ci riesce?», mormorò, ma Grace, assorta nei suoi pensieri e con lo sguardo fisso sullo schermo, non lo sentì.
Quella notte era stata difficile per tutti e Bill non era stato da meno, Dylan ne era certo, soprattutto dopo le parole che il suo gemello gli aveva rivolto. Ciononostante lui era stato in grado di consolarlo ed ora sorrideva di fronte alle telecamere. Il poliziotto non ci sarebbe mai riuscito, ma nemmeno lo invidiava: doveva essere frustrante, far sì che il mondo non vedesse quello che realmente provava, e forse era anche un comportamento – costretto da circostanze esterne, certo – ma pur sempre un po’ autolesionista: trattenere tutto dentro, fare finta che tutto fosse perfetto… forse era la cosa che faceva più male in assoluto.
Grace sbuffò e questo fece tornare Dylan alla realtà.
«Che c’è?», le domandò, vedendo il suo viso accartocciato in una smorfia quasi sofferente.
Lei indicò il televisore con una mano. «Guardalo, non ci riesce. Ci prova a sorridere e a fare le sue stupide battutine, ma è… pessimo. Ed è per causa mia. Sono sicura che in questo momento starà pensando a me: se mi sentirò sola, se starò bene…».
«Chiunque reagirebbe così, Grace», tentò di consolarla, posandole una mano sulla schiena. «E comunque a me non sembra che stia andando tanto male. Magari per te, che lo conosci meglio di me, è evidente che è diverso dal solito, ma forse per i fan è solo un po’ assonnato».
Grace si morsicò l’interno della guancia, nervosa. «Fan che avranno già visto le foto che girano in rete e penseranno che Tom mi abbia picchiata».
Dylan, scioccato, le chiese che storia era quella e Grace gli fece un breve riassunto.
«Ma è assurdo!», urlò, rosso di rabbia. «Come possono pensare che Tom abbia potuto…! No, i veri fan dovrebbero difenderlo, non credere alle cazzate che leggono su Internet!».
«Uhm, speriamo che sia così e che questo non influenzi le vendite del nuovo album…», disse, anche se titubante, portandosi le mani unite a mo’ di preghiera di fronte alle labbra. «Fino ad adesso è andato tutto bene: non gli hanno chiesto niente in proposito. Spero che David abbia fatto una delle sue magie».
«In che senso?».
«Se non ho capito male, ieri appena David ha saputo da Tom quello che era successo, ha chiamato la direzione del programma e li ha costretti a firmare una specie di contratto: loro non avrebbero chiesto niente a Tom e loro si sarebbero presentati come da programma».
«Oh».
Dylan posò gli occhi sullo schermo e seguì per qualche secondo il discorso di Bill, di cui ovviamente non capì una parola. Il tedesco era forse la lingua più difficile che avesse mai sentito – dopo il cinese di China Town – ma quando la parlava Bill aveva un qualcosa di estremamente affascinante.
Un’idea gli balenò alla mente e un sorriso gli incurvò le labbra. La detective si accorse della sua strana espressione ed inarcò il sopracciglio, incuriosita.
Allora il poliziotto disse: «Grace, mi daresti una mano?».
«Che cos’hai in mente?».
«Una cosa da niente…».
Intanto la conduttrice aveva appena lanciato il video del nuovo singolo dei Tokio Hotel.

***

Era stata l’intervista più lunga della sua vita, ad un certo punto aveva addirittura pensato che non sarebbe più finita. Ma per fortuna terminò e poterono tornare da David, il quale, senza nemmeno dargli il tempo di riprendere fiato, li aveva fatti risalire sul minivan, diretti verso un altro studio televisivo, dove avrebbero registrato una puntata di un altro programma. L’unica cosa positiva era che quella volta non sarebbe stato in diretta.
Con lo sguardo perso fuori dal finestrino scuro, pensò inevitabilmente a Grace, la sua Grace. Aveva pensato a lei, preoccupato, per tutta la durata dell’ultima intervista, chiedendosi continuamente se stesse bene, se fosse riuscita a mangiare qualcosa, se si sentisse sola nella loro suite… Stava per chiamarla, perché non poteva più resistere, quando si accorse che Bill, seduto al suo fianco, lo aveva preceduto portandosi il cellulare all’orecchio.
«Ciao… Sì, abbiamo finito adesso», disse a voce bassa, così diversa da quella felice che aveva simulato durante l’intervista; bassa come i suoi occhi, che da quella mattina evitavano in continuazione di incrociare i suoi.
Tom lo guardò stringersi nelle spalle, sfregandosi un ginocchio con la mano tatuata.
«Ci si fa l’abitudine», rispose ad una domanda. «Piuttosto tu, che cosa stai facendo? …Ah. E come sta?». Bill sollevò per un attimo lo sguardo ed incontrò quello di Tom, il quale fu il primo a fuggire quella volta, tornando ad osservare la strada che scorreva sotto le ruote.
«Va bene, salutamela. Ci vediamo dopo, ciao».
Bill terminò la chiamata ed osservò lo schermo del suo cellulare fino a quando non si oscurò. Stava per rimetterlo in borsa, quando sentì il ginocchio del gemello colpire il suo. Si disse che probabilmente non l’aveva fatto apposta e lo ignorò, nonostante questo gli costasse molta fatica e gli provocasse l’ennesima fitta al cuore, ma non poté più farlo quando sentì la sua voce chiamarlo. Allora lo guardò in viso ed ebbe voglia di piangere, leggendo ancora quella nota di rancore nei suoi occhi.
«Parlavi con Dylan?».
Il cantante annuì, chinando il viso e facendo finta di cercare qualcosa di vitale importanza nella borsa.
«Era con Grace?».
«Sì», quella volta rispose, aggiungendo subito dopo: «L’ha chiamato lei».
Tom sospirò e si massaggiò gli occhi stanchi con due dita. «Mi dispiace per quello che ho detto ieri, tu non c’entravi niente».
«Nemmeno Dylan c’entr–!».
«Un passo alla volta», lo interruppe Tom, regalandogli un sorriso che, per quanto piccolo, gli riempì il cuore di gioia, assieme al resto del suo discorso.
«Non le pensavo davvero quelle cose, ero solo molto arrabbiato e spaventato a morte… e dovevo prendermela con qualcuno. Mi perdoni?».
Bill annuì con un sorriso commosso sulle labbra e lo strinse fra le braccia.
Appena Tom posò le mani sulla schiena del fratello un piacevole calore gli avvolse il petto, liberandolo in parte del peso che lo schiacciava da quella notte, e capì che Grace aveva ragione, almeno per quanto riguardava suo fratello. Per Dylan… gli serviva un altro po’ di tempo.


Una serie di lunghissime interviste dopo, finalmente si trovarono di nuovo nel loro caro minivan per tornare in hotel. Ad attenderli, un capannello di fan trepidanti che erano riuscite a scoprire dove pernottavano.
Tom non era affatto in vena di firmare autografi, voleva soltanto correre nella sua stanza e sincerarsi di persona che Grace stesse bene, così scese per primo dal minivan e si limitò a sorridere, passando attraverso lo stretto varco che due bodyguard gli avevano creato.
Una volta nella hall, si fermò a guardarsi indietro e vide Bill imitarlo, con i suoi grossi occhiali da sole a coprirgli metà volto. Quando si accorse del suo sguardo gli sorrise e Tom ricambiò, felice di aver sistemato le cose con suo fratello.
Non sapeva davvero come aveva potuto dire quelle cose, accecato dall’ira e dalla paura, e se ora ci ripensava se ne vergognava da morire.
«Che c’è, perché quella faccia?», gli chiese il frontman, posandogli una mano sulla spalla.
«Io… stavo ripensando al mio comportamento di ieri», confessò, arrossendo. «Non me ne capacito…».
«Ehi, mi hai già chiesto scusa e io ci sono già passato sopra, quindi…».
«No, Bill», lo fermò prendendolo per le spalle e lo guardò intensamente negli occhi, o almeno ci provò cercandoli dietro le lenti scure. Il cantante gli facilitò il compito tirandoseli su, sopra i capelli. «Voglio sapere cos’hai provato esattamente, quando…».
Bill scrollò il capo, un sorriso amaro sulle labbra. «Una parte del mio cervello mi diceva che eri solo sotto shock e non sapevi quello che dicevi».
«E l’altra parte?».
«L’altra parte… ha visto il disgusto nei tuoi occhi e mi ha fatto sentire la persona peggiore del mondo, come se tu ti vergognassi di avere un fratello gay e per questo non fossi degno di essere il tuo gemello».
Tom si guardò ancora una volta alle spalle: le fan oltre le porte vetrate, quelle non impegnate a ricevere autografi o a fotografare Gustav e Georg, li stavano fissando, urlando a squarcia gola i loro nomi. Così prese Bill per un polso e lo portò nella sala ristorante semideserta, dove c’erano solo i camerieri che stavano apparecchiando i tavoli per la cena. Lì gli avvolse le braccia intorno alla schiena, stringendolo forte.
«Mi dispiace, mi dispiace davvero», sussurrò contro la sua spalla. «Io ti voglio bene così come sei, Bill, sei il miglior fratello che si possa desiderare e non ti cambierei per nessun altro al mondo. Non potrei vivere senza di te, dico sul serio».
Bill ricambiò l’abbraccio e tirò su col naso, cercando di trattenere le lacrime che gli avrebbero rovinato il trucco.
«Lo so», soffiò, accarezzandogli la schiena. «E vale lo stesso per me».
Tom, più che imbarazzato, si scostò e lo guardò negli occhi, trovandoli lucidi, ma ridenti. Qualche secondo dopo, infatti, Bill scoppiò a ridere.
«Perché ridi?», gli domandò, anche se già contagiato.
«Perché sono rari i momenti in cui il duro Thomas Kaulitz si scioglie un po’! Se ti avesse visto Molly… sarebbe svenuta, come minimo».
Tom rise e avvolse un braccio attorno alle spalle del gemello, mentre si incamminavano insieme verso la hall.
«Questi momenti sono rari perché sono rare le persone che riescono ad entrarmi davvero nel cuore. E a proposito di Molly… devo richiamarla per raccontarle quello che è successo veramente».
Bill lo osservò dispiaciuto. «Anche lei ha visto le foto?».
«Già. E quando ieri notte mi ha chiamato le ho risposto male».
«Sono sicuro che non avrà creduto a nessuna delle cose che circolano sul Web, stai tranquillo. E anche se lo avesse fatto… ti procurerebbe comunque il miglior avvocato sulla piazza». Bill riuscì a strappargli un sorriso, proprio quando Gustav e Georg li raggiunsero.
«Ci vediamo dopo a cena?», chiese il bassista, sistemandosi i capelli in una coda frettolosa.
Quei movimenti gli fecero pensare a Grace e Tom annuì con un cenno del capo, salutando i compagni ed accennando una corsa per raggiungere l’ascensore le cui porte stavano per chiudersi.
Sceso al suo piano, raggiunse la suite ed aprì la porta con il passepartout. Stava per annunciare il suo ritorno, quando si rese conto che c’era troppo silenzio, anche se le luci in camera da letto erano accese.
Tom camminò lungo il corridoio in silenzio, affiancando una parete, e rimase di sasso quando vide Dylan seduto sulla poltroncina di fronte alla scrivania, rivolto verso il letto, che dormiva con le braccia incrociate al petto e la testa abbandonata all’indietro, la bocca semiaperta in un lieve russare. Doveva essersi addormentato vegliando sul sonno di Grace, completamente vestita e rannicchiata sul letto, con il suo cuscino stretto al petto.
Sospirò, già consapevole della situazione imbarazzante che si sarebbe venuta a creare, e si avvicinò a lui. Appena gli posò una mano sulla spalla per svegliarlo, Dylan aprì gli occhi e gli intrappolò il braccio in una morsa, ruotandoglielo dietro la schiena.
«Fermo, fermo, sono io!», gridò a mezza voce, per non svegliare Grace.
Il poliziotto si accorse dell’errore commesso e lo lasciò andare subito, il viso arrossato. «Scusa, è stato un… riflesso incondizionato».
Tom si massaggiò la spalla dolorante e gli lanciò un’occhiataccia. «Peccato che se fossi entrato con una pistola saresti morto».
Dylan chinò il capo e sollevò le mani in segno di resa. Ce l’aveva ancora con lui per ciò che era successo a Grace, di cui Tom lo riteneva responsabile, e si cacciava in quest’altro guaio… Se andava avanti così non sarebbe mai riuscito a farsi perdonare, decisamente.
«Ahm… te ne occupi tu?», gli chiese, indicandogli la detective.
Tom sollevò le sopracciglia. «Tu che dici?».
«Okay… allora vado».
Dylan si allontanò, diretto verso la porta, e Tom gli guardò le spalle, indeciso se dirlo oppure no. Alla fine chiuse gli occhi, mandando a ‘fanculo il suo orgoglio, e disse: «Grazie».
Il poliziotto, con la mano già sul pomello, si voltò e lo fissò, incredulo.
Tom arrossì e, burbero, chiarì: «Grazie per esserle stato accanto oggi».
«Non… non c’è di che», rispose incerto, per poi uscire dalla camera con uno strano senso di pace nel petto.
Guardò la greca dorata che decorava la parete di fronte a sé e sorrise come un’idiota, prima di allontanarsi dalla suite con passo sicuro, diretto verso quella di Bill.


Tom ascoltò il suono della porta che si chiudeva automaticamente alle spalle del poliziotto, poi posò lo sguardo su Grace e sorrise dolcemente, salendo sul letto e raggiungendola. Le accarezzò il profilo del viso con il dorso delle dita.
«Se tu fossi stato qualcuno che voleva farci del male e avessi tirato fuori una pistola, io ti avrei sentito e saresti morto prima tu».
Tom percorse con gli occhi il braccio che aveva sollevato da sotto il cuscino e quando vide che in mano impugnava la sua Glock deglutì. Però non era tanto la pistola ad averlo spaventato – okay, forse un po’ – piuttosto il fatto che avesse ascoltato tutta la conversazione con Dylan.
«Quindi… non dormivi?».
Grace si girò lentamente, mettendosi in posizione supina sul letto, sotto di lui, ed aprì i suoi magnifici occhi verdi per immergerli in quelli di Tom. Gli sorrise e gli posò un lieve bacio sulle labbra, con una mano che gli accarezzava la guancia.
«Sei stato molto gentile con lui, sono fiera di te».
«Beh…».
Grace gli tappò la bocca con un altro bacio, quella volta più approfondito, e disse ancora: «Abbiamo già prenotato il volo: domani torniamo a Los Angeles, a casa».
«Io… io pensavo che sareste dovuti rimanere…».
«Abbiamo già chiamato la polizia e abbiamo avuto la loro approvazione per lasciare il continente, visto che il mio caso è già risolto e non servo più come testimone».
Tom si morse il labbro ed annuì. «Mi mancherai».
«Anche tu», sussurrò. «La prossima tappa è Monaco, vero?».
«Sì. E poi Zurigo, Parigi, Lione...».
«Voglio un souvenir da tutte le città! Mi basta anche una cartolina! Me lo prometti?».
Tom si avvicinò al suo orecchio e la strinse più forte fra le braccia. «Tu mi prometti che non ti caccerai nei guai?».
«Ci proverò», rispose con un sospiro, massaggiandogli la schiena.

***

«Dylan! Dylan, aspetta!».
«Lasciami solo, per favore».
Bill non lo ascoltò e lo prese per mano, costringendolo a fermarsi nel bel mezzo delle scale antincendio che portavano al giardino interno dell’ospedale.
Lo guardò intensamente negli occhi, nonostante sapesse benissimo di avere anche lui un’espressione addolorata, ma fece del suo meglio per mostrargli con quanta determinazione avrebbe lottato per farlo sentire un po’ meno colpevole di ciò che era successo a Grace, perché era ovvio, ai suoi occhi, che lui non ne era il responsabile, come credeva erroneamente Tom, accecato da chissà quali orribili sentimenti.
Bill non osava nemmeno immaginare lo spavento e il dolore che doveva aver provato sapendo che la sua Grace era stata aggredita e che aveva rischiato di finire ammazzata come suo padre, con un proiettile conficcato nel cranio.
Lo raggiunse sullo stesso scalino e gli prese il viso fra le mani, la fronte contro la sua.
«Non sei stato tu a farle questo, non sei stato tu», gli sussurrò, tentando di tenerlo fermo mentre lui agitava il capo, ormai singhiozzante.
«È come se lo fosse, Bill! L’agente Crawford non l’avrebbe mai permesso, le sarebbe stato incollato addosso anche la notte!».
«Ma tu non sei l’agente Crawford! E hai sentito quello che ha detto Grace, no? È stata una sua scelta, nonostante sia stata totalmente folle, e tu…».
«Io ho perso di vista il senso di questo viaggio», disse con improvvisa calma e la voce pacata, anche se non aveva smesso di piangere. Gli prese a sua volta il viso fra le mani e lo spinse verso il corrimano opposto, mozzandogli il respiro.
«Non so come, ma il mio unico pensiero era quello di vedere Berlino, di fare tante foto da mostrare alla mia famiglia che non è mai uscita dai confini degli Stati Uniti, di toccare la neve con le mie mani e stare con te… Mi sono completamente dimenticato che Grace era venuta qui per investigare sull’assassinio di suo padre, che era probabile che una pericolosa organizzazione criminale ci seguisse e provasse a farle del male, tarpando le ali alla dea Vittoria perché non fosse dalla sua parte».
Bill, con gli occhi sgranati, mormorò: «Stai delirando, Dylan. Non puoi davvero pensare questo, perché se tu avessi saputo quello che sarebbe successo ti saresti fatto uccidere pur di proteggerla!».
«Se avessi saputo… io avrei dovuto già prevederlo e non lasciarla mai da sola!».
«Basta, Dylan. Mi hai capito?
Basta. Fare il pazzo isterico non ti aiuterà, non aiuterà Grace a superare questo momento...».
Il poliziotto sollevò gli occhi arrossati e gonfi di lacrime e fissò i suoi castani e stanchi.
«E cosa dovrei fare?», gli domandò con tono supplichevole e la voce incrinata.
Sembrava un bambino sperduto e senza più nessuno al mondo, tanto che Bill sentì il suo cuore sprofondare, pesante come piombo, e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu quella di sporgersi sul suo viso per far scontrare le loro bocche in un bacio irruento e disperato, soprattutto da parte del poliziotto, il quale si aggrappò a Bill come se fosse il suo unico salvagente, quello che gli avrebbe impedito di affogare, quando invece anche lui stentava a stare a galla.


Espirò una voluta di fumo nell’aria e la guardò svanire lentamente, risucchiata dal buio profondo di quella notte senza luna, nascosta dietro le nuvole che avevano velato il cielo per tutto il giorno.
Bill era stanco, aveva davvero voglia di gettarsi sul letto e dormire profondamente, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito del tutto. Probabilmente anche durante la notte avrebbe dovuto lottare, come aveva fatto durante tutti gli impegni lavorativi, per rilassarsi e al tempo stesso preoccuparsi per Grace e per Dylan. Soprattutto per Dylan, perché non sopportava l’idea che si sentisse così male, anche a causa del suo gemello. Fortunatamente lui e Tom avevano risolto ogni loro problema, cosa che gli aveva levato un grande peso dal petto, ma la questione era un po’ differente sul fronte Tom/Dylan, in quanto suo fratello non sembrava deciso a volerlo perdonare presto.
Stava facendo un altro tiro nervoso alla sua sigaretta, quando sentì bussare alla porta. Andò ad aprire con una corsetta, per evitare che il vento si fumasse il resto, e con grande ed inspiegabile sorpresa – sì, insomma, ormai era il suo compagno, perché ancora si stupiva che lo venisse a cercare? – si trovò di fronte Dylan.
«Ciao, entra. Scusa, ho la sigaretta sul balcone!», urlò un po’ in inglese e un po’ in tedesco, correndo subito fuori per recuperarla e portarsela alle labbra.
Fece per voltarsi e dire a Dylan di raggiungerlo, ma non ce ne fu bisogno. Si sentì stringere da dietro, le braccia possenti di Dylan che formavano una X sul suo petto e le sue mani che gli cingevano le spalle. Un brivido di piacere gli attraversò la spina dorsale quando sentì le sue labbra calde premute sul collo, prima sulla nuca e poi sotto l’orecchio, e chiuse gli occhi mordendosi le labbra.
«Bill...», sussurrò suadente Dylan, il cui respiro caldo sulla pelle gli provocò un altro brivido. «Ma hai freddo?».
Il cantante negò con la testa, anche se si strinse di più a lui, causando anche al poliziotto qualche problema di autocontrollo.
Dylan non avrebbe mai pensato di dirlo, ma col tempo la sua attrazione per Bill era diventata sempre più forte e le sue reazioni ai suoi atteggiamenti sensuali e provocanti… lo eccitavano. Eccome, se lo facevano! Eppure ancora se ne vergognava e cercava di reprimere tutto quanto, dicendosi che era troppo presto e nascondendo il vero motivo per cui si comportava in quel modo: aveva paura. Paura di andare oltre i baci e gli abbracci, di provare qualcosa di totalmente diverso, di godere facendo l’amore con un uomo.
«Beh, allora… okay», si schiarì la voce e provò a riprendere il filo di discorso, ovvero le due frasi in tedesco che Grace gli aveva insegnato. Peccato che non si ricordasse più un accidenti, per colpa di Bill!
«Ahm…», aprì la mano destra, con cui stringeva la spalla sinistra del cantante, e provò a sbirciare, ma aveva le mani così sudate che l’inchiostro si era sbavato e lui… era perduto.
«Merda», mormorò fra sé, ma Bill lo sentì e ridacchiò, prendendogli la mano e portandosela di fronte al viso. Per fortuna era la scrittura di Grace e, anche da sbavata, era sicuramente più comprensibile di quella del poliziotto.
Bill riuscì a leggere quasi subito e, stupito, ripeté a bassa voce: «Es tut mir leid. Ich liebe dich. C’è davvero scritto così?». Si girò fra le sue braccia e Dylan arrossì, trovandosi di fronte ai suoi occhi grandi e luminosi. Questo non c’era nel piano.
«Io, ecco… credo di sì».
Bill guardò ancora una volta il palmo scarabocchiato della sua mano, indeciso e col cuore che batteva velocemente nel petto.
«Fai la traduzione», disse infine, tornando a fissarlo intensamente negli occhi.
Dylan deglutì e portò una mano sulla sua guancia, accarezzandogli piano i capelli e l’osso della mandibola. «C’è scritto che… che mi dispiace. Per come ho reagito ieri sera: sono stato un egoista, ho pensato solo a me, quando in realtà anche tu soffrivi per quello che aveva detto Tom. E poi… poi c’è scritto…», prese un bel respiro, socchiudendo gli occhi, e terminò coraggiosamente: «C’è scritto che ti amo».
«Ed è così?», domandò piano Bill, dopo qualche secondo di infinito silenzio, rotto soltanto dai suoni provenienti dalla strada, svariati piani sotto di loro.
«Ecco, io l’avevo detto a Grace che era troppo presto, ma lei mi ha detto che sarebbe andato bene e…».
«Shhh», gli posò un dito sulle labbra per far terminare la sua parlantina. «Voglio sapere se tu lo pensi davvero, non che cosa ha detto Grace».
Dylan cercò la risposta nel cielo e ciò che ottenne fu un pizzicore gelato sul naso. Confuso se lo toccò e lo scoprì bagnato, fino a rendersi conto con meraviglia che aveva appena iniziato a nevicare.
Bill, anche lui sorpreso dal tempismo della neve, quella neve che piaceva tanto al suo compagno, sentì proprio le sue dita prendergli il mento e fargli abbassare il volto. Posò gli occhi sul suo sorriso colmo di tenerezza, poi nei suoi, caldi e profondi, e il suo cuore mancò un battito.
«Io penso di amarti, Bill», gli rispose semplicemente, ora senza più imbarazzo né vergogna.
Il cantante ebbe come l’impressione che i fiocchi di neve che gli cadevano addosso evaporassero all’istante, tanto alta era la temperatura all’interno del suo corpo, e col cuore ormai in panne gli gettò le braccia al collo, travolgendolo in un bacio appassionato.
Erano rare le volte in cui Dylan si lasciava andare a quel tipo di effusioni, ancora un po’ restio, ma quella volta cacciò in un angolo la sua parte etero e ricambiò il bacio, infilando le mani fra i capelli di Bill e camminando all’indietro per rientrare nella suite, prima di ammalarsi entrambi.
Ad un certo punto però Dylan incontrò il bordo del materasso e vi cadde sdraiato sopra, trascinando con sé Bill, che inevitabilmente gli finì addosso.
I loro visi avvamparono, ma nessuno dei due provò a spostarsi, tanto che Bill, stupito dal comportamento fin troppo accondiscendente di Dylan, lo guardò negli occhi per scovare qualche traccia di paura, il minimo segno che lo avrebbe portato ad alzarsi e a far finta – a malincuore – che non fosse successo nulla.
Non vi trovò niente di tutto ciò e, in più, Dylan gli aveva posato di nuovo una mano fra i capelli, accarezzandoli dolcemente, le labbra dischiuse, come cristallizzate su una domanda inespressa.
Bill allora si avvicinò e posò le labbra sulle sue. Le posò soltanto, in attesa che Dylan facesse qualcosa, qualsiasi cosa: se si fosse scostato allora si sarebbero fermati lì, se invece avesse risposto…
Dylan rispose, accarezzandogli il labbro inferiore con la lingua, e Bill sobbalzò. Aveva sognato quel momento ancor prima che diventassero una coppia ed ora… ora ne era improvvisamente terrorizzato. In fondo non sarebbe stata la prima volta con un uomo solo per Dylan, ma anche per lui. Non sapeva cosa sarebbe successo, come, e ne aveva un po’ paura.
Dylan lasciò scivolare la mano dai capelli sulla sua schiena, di cui ne accarezzò la sinuosa linea della spina dorsale, fino a scendere al fondoschiena, che strinse in modo delicato.
«Vuoi che mi fermi?», gli chiese Dylan a bassa voce, notando che si era irrigidito improvvisamente fra le sue braccia.
Bill scosse il capo con fermezza, anche se con gli occhi chiusi, e si gettò sulle sue labbra, tanto impetuosamente da farlo somigliare ad un vero e proprio assalto, in una battaglia in cui, ora Dylan lo sapeva, stavano combattendo entrambi.
«E va bene», sussurrò, prendendogli il maglioncino e la maglietta dai fianchi e tirandoglieli via insieme, lasciando che cadessero a terra. Quindi lo fece cadere sdraiato sul letto e lo guardò dall’alto prima di chinarsi su di lui per baciargli il collo, le clavicole, il piercing al capezzolo sinistro, e poi giù fino all’ombelico.
Bill, ormai un mucchietto di pelle d’oca, si sollevò e gli levò a sua volta la maglietta per potersi aggrappare alle sue spalle forti e sentire la sua pelle contro la sua.
«Sei bollente», disse, il viso contro il suo collo taurino.
Dylan ridacchiò. «Anche tu non scherzi, anche se hai le mani congelate».
Gli occhi di Bill luccicarono a quell’affermazione e un sorrisetto strano si dipinse sulle sue labbra, tanto che Dylan si domandò cosa volesse fare. Lo scoprì poco dopo, perché sentì una mano di Bill percorrergli il petto, dai pettorali agli addominali, e scendere fino alle ossa a V del bacino. Dylan gli sorrise, perché aveva resistito e non aveva aperto la bocca per lamentarsi, ma l’aprì, sconvolto, quando capì che Bill non voleva fermarsi. Infatti gli slacciò il bottone dei jeans e sfruttò il passaggio per infilarvi la mano e sfiorare il suo membro, improvvisamente stretto nei boxer.
«B-Bill…», balbettò con gli occhi sgranati e il fiato corto.
Sollevò il sopracciglio e fu lui quella volta a domandargli: «Vuoi che mi fermi?».
Dylan pensò velocemente alle possibilità che aveva e capì che, no, non voleva che si fermasse. Ma era anche così difficile, non sapere come comportarsi!
«Lo prendo per un no», disse Bill, aumentando pian piano la presa. Dylan strozzò un gemito e nascose il viso contro il suo collo.
Il cantante gli sfilò i jeans, aiutandosi anche con i piedi quando gli arrivarono alle ginocchia, e gli prese le mani nelle sue per guidarlo e far sì che anche lui lo spogliasse. Dylan, anche se incerto, glieli tolse e rabbrividì sentendo la mano di Bill vagare ora sotto ai suoi boxer, privandolo anche di quelli.
«Dylan, tu dimmi qualcosa e io mi fer–».
Il poliziotto non lo lasciò finire, intrappolandogli le labbra in un bacio.
«O stasera, o mai più», gli sussurrò già col fiato corto.
Così aveva deciso, perché era sicuro che se si fosse fermato non avrebbe più trovato il coraggio per farsi avanti.
Bill glielo prese in mano ed iniziò subito a percorrerlo, su e giù, spezzando il fiato a Dylan, il quale continuava a baciarlo, anche a costo di rimanere senza ossigeno nei polmoni.
Quando venne soffocò l’orgasmo contro la pelle della sua gola e Bill gettò la testa all’indietro sentendo all’improvviso la mano di Dylan posarsi sul suo sesso duro. Il poliziotto gli levò i boxer con delicatezza, anche se lui avrebbe tanto voluto che glieli strappasse via, talmente erano d’impiccio, ed iniziò ad ansimare ricevendo da Dylan lo stesso trattamento che aveva riservato a lui. Solo che Bill non si trattenne e quando raggiunse l’apice del piacere gridò, infilando le unghie fra le scapole del suo compagno.
«Ehi, mi hai quasi rotto un timpano», gli disse dolcemente, baciandogli la guancia diverse volte.
«Scusa, è che…».
«Sono bravo».
Bill ridacchiò. «Sembra di sentir parlare Tom».
«Perché, ti sei fatto fare una sega anche da lui?», gli chiese con tono di voce scandalizzato, ma palesemente finto.
Bill scoppiò a ridere, tirandogli uno schiaffetto sulla guancia, e Dylan si unì a lui, tornando ad accasciarsi sul suo corpo magro, ma anche resistente. Non aveva mai notato la sua vera massa muscolare, forse perché non ci aveva mai fatto davvero caso fino a quel momento. E anche se non aveva alcuna esperienza a riguardo, era il ragazzo più bello che avesse mai visto.
«Dylan…».
«Uhm?».
«Voglio sentirti dentro di me».
Il poliziotto smise improvvisamente di accarezzargli i capelli e si sollevò un poco sui gomiti per guardarlo intensamente negli occhi e capire se stesse scherzando o meno. No, non stava affatto scherzando.
«Ma, ma… io non so come…», balbettò, più che a disagio, e Bill sorrise candidamente.
«Credi che io ne sappia più di te? Prima o poi dovremo pur imparare… tanto vale iniziare».
«Sei sicuro? Possiamo anche fare un’altra volta…».
«Non vuoi fare l’amore con me, Dylan?».
Dylan si diede una rapida occhiata intorno, corrucciato. «Cosa?! No, io…!».
Bill gli sorrise e lo prese per la nuca per farlo avvicinare alle sue labbra e sussurrargli: «Allora smettila di parlare», prima di baciarlo.
Dylan posò istintivamente le mani sui suoi fianchi, ma la cosa non fu così immediata, infatti toccò a Bill fargli notare che probabilmente lui avrebbe dovuto girarsi, prima. Dylan, più che in imbarazzo, restò immobile a fissarlo mentre si posizionava come meglio credeva. Quindi si avvicinò a lui e lo sentì tremare quando lo prese per i fianchi, dopo avergli accarezzato la schiena con entrambe le mani, ed aderì a lui.
«Dimmelo se ti faccio male, okay?», quasi lo supplicò e per colpa della sua più completa ignoranza dell’argomento non gli venne nemmeno in mente di utilizzare il preservativo: lo penetrò e basta, cercando di essere il più delicato possibile.
Ciononostante entrambi trattennero il respiro, totalmente presi alla sprovvista dal dolore misto al piacere che provarono, ma per Bill fu un vero shock, tanto che sentì le lacrime pungergli gli occhi, che chiuse prontamente per non far tirare indietro Dylan, il quale iniziò a muoversi con gentilezza dentro di lui, ansimando e strappandogli diversi gemiti.

«Va tutto bene?», gli chiese ad un certo punto, non del tutto certo che fossero solo di piacere.
Bill si limitò ad un cenno affermativo del capo: sapeva che la sua voce l'avrebbe tradito, nel caso avesse avuto abbastanza fiato per pronunciare almeno qualche sillaba.
In totale non durò molto, ma quando Dylan venne, sprigionando un calore immenso dentro di lui, Bill finse di aver raggiunto anche lui l’orgasmo e sollevato rilassò tutti i muscoli rimasti in tensione fino ad allora, sentendo il cuore battergli furiosamente nella cassa toracica e il suo respiro faticare per stargli dietro.
Dylan si lasciò cadere al suo fianco e guardò il soffitto per qualche secondo, poi si voltò alla ricerca dello sguardo del compagno e vide una lacrima scivolargli lungo la tempia.
«Ehi, ehi…», lo strinse forte fra le braccia, nascondendogli il viso contro il suo petto ed accarezzandogli ancora una volta i capelli, come solo lui sapeva fare. «Oh, Bill… avresti dovuto fermarmi. Ti ho fatto tanto male?».
Il cantante scosse il capo, tirando su col naso, e sollevò il viso verso il suo. «Resta con me questa notte, per favore».
«Certo, certo che resto con te», gli baciò la fronte e lo cullò fra le sue braccia fino a quando non lo sentì abbandonarsi a quelle di Morfeo, che ben presto avvolsero anche lui, trasportandolo in un sonno pacificatore.


La mattina dopo, Bill fu il primo a svegliarsi e si trovò ancora fra le braccia di Dylan, proprio come gli aveva promesso.
Gli sorrise, accarezzandogli lievemente la guancia, ma quando si mosse per scendere dal letto la sua espressione cambiò, tramutandosi in una sofferente.
Era inutile nasconderlo: gli aveva fatto male e il dolore gli aveva impedito di godere pienamente, anche se a tratti aveva provato del piacere.
Si chiese se sarebbe stato sempre così e sorrise divertito, pensando che somigliava tantissimo ad una ragazzina al suo primo rapporto sessuale. Ora capiva cosa provavano quelle povere verginelle! E non era affatto divertente.
«Bill?».
Alla voce roca di Dylan che invocava il suo nome, Bill posò i piedi a terra e voltò il capo verso di lui, che lo guardava dispiaciuto.
«Stai bene?», gli chiese ancora.
Il cantante annuì, ma non riuscì a sostenere a lungo il suo sguardo indagatore – aveva già captato puzza di bugia – e sospirò chinando il viso.
«Mi fa un po’ male, ma passerà. Giusto?».
Dylan si tolse le coperte di dosso e lo raggiunse, cingendogli le spalle da dietro.
«Mi dispiace», gli sussurrò all’orecchio, davvero mortificato.
«Oh no, non ti farai i sensi di colpa anche per questo, spero!», urlò con un sorrisino divertito sulle labbra, prendendogli il viso fra le mani.
Dylan ridacchiò ed abbassò lo sguardo, posando la fronte contro la sua. «Stupido. La prossima volta sarai tu a… hai capito».
Bill sgranò gli occhi, allontanandosi. «Ah, non pensarci nemmeno! Fammi abituare prima a questa posizione, poi…».
«Ma…!».
«Niente ma! Così ho deciso e così sarà!». Si alzò dal letto, impettito, e si diresse verso il bagno, nudo com’era, stringendo i denti e facendo di tutto per non dare a vedere che zoppicava.
«Sono tanto ridicolo?», domandò quando arrivò in bagno, lontano dai suoi occhi.
Sentì i passi di Dylan raggiungerlo e lo vide alle sue spalle, riflesso nello specchio di fronte al lavandino.
Gli rivolse un altro sorriso dolce e gli passò una mano sui capelli, annuendo. «Però sei anche il ridicolo più carino che conosca».
Bill si voltò e gli gettò le braccia intorno al collo, stringendolo forte. «Grazie, Dylan».
«Ahm… com’era? Ich liebe… dich? La pronuncia è giusta?».
Il cantante ridacchiò ed annuì, stampandogli un bacio sulle labbra dopo avergli sussurrato: «Ich liebe dich auch».

***

«Ma tu guarda chi si è degnato di arrivare! Avevi per caso intenzione di farci perdere l’aereo?!», gridò Grace, seduta assieme a Tom ad un tavolino della sala ristorante.
Dylan si portò una mano dietro la nuca, evidentemente a disagio, e cercò lo sguardo complice di Bill, per poi dire: «Scusami, mi sono svegliato tardi».
Grace inarcò le sopracciglia e all’improvviso un sorrisetto malizioso si fece spazio sul suo viso, afferrando ciò che quei due avevano sottinteso scambiandosi quello sguardo e che avrebbero voluto tenere segreto, almeno per un po’.
«E va bene, per questa volta ci passo sopra!», esclamò alzandosi in piedi e stiracchiandosi il braccio sano. Si avvicinò a Dylan, gli puntò il dito contro il petto ed abbassò la voce, ma non troppo: voleva che Tom riuscisse a sentire.
«Ma guai a te, se capiterà un’altra volta». E, voltandosi verso il cantante, gli fece un occhiolino: «Ci siamo capiti, Bill?».
Il cantante arrossì da capo a piedi e come se non bastasse incrociò lo sguardo sperduto di Tom, il quale, come se una vocetta gli avesse appena suggerito all’orecchio ciò a cui Grace aveva voluto alludere, ebbe la stessa reazione, aggravata dal fatto che rischiò di mandare di traverso il caffè che stava bevendo.
«Bene, possiamo andare ora? Siamo già in ritardo!».
«E io non faccio colazione?», chiese Dylan, portandosi una mano sullo stomaco.
Grace sorrise. «Magnifico, ti è tornato l’appetito! Mangerai sull’aereo, okay?».
Il chitarrista, ancora mezzo sconvolto, si alzò e tolse di mano la valigia che Grace aveva cercato di trasportare da sola. Lei lo ringraziò e lui annuì, anche se non aveva smesso un attimo di lanciare occhiate incuriosite al fratello, il quale però non sembrava avere niente di diverso dal solito.
«Speriamo non se ne accorga, speriamo non se ne accorga», mormorò Bill, tremendamente in ansia, accompagnando Dylan nella hall.
Fuori dall’hotel c’era il taxi che li avrebbe portati all’aeroporto e che in realtà li stava aspettando già da una decina di minuti.
«Tranquillo, non si nota quasi più», lo rassicurò il poliziotto.
«Quasi, hai detto bene».
Si fermarono a poca distanza da Tom e Grace, che si stavano salutando abbracciandosi.
Grace, appoggiata alla spalla del chitarrista, li guardò e disse loro in labiale: «Vi ho scoperti».
I due arrossirono e si salutarono con un frettoloso abbraccio prima che Tom si voltasse e li vedesse scambiarsi troppe smancerie.
Una volta che anche Tom ebbe salutato Dylan – con una fredda stretta di mano – e Bill Grace, la detective e il poliziotto uscirono dall’hotel, caricarono le loro valigie sul taxi e vi salirono, salutandoli con una mano per l’ultima volta.
Aspettarono che il taxi scomparisse dalla loro vista, poi si voltarono l’uno verso l’altro, creando altro imbarazzo.
«Allora, io, ehm… torno in camera: devo finire di preparare la valigia e di sistemare… ho lasciato un po’ di casino», disse Tom, e Bill replicò subito: «Sì, anche io in effetti».
Ma invece di separarsi, si trovarono ancora più vicini, stretti nell’ascensore con un altro paio di persone.
«Tutto bene?», gli chiese allora Bill, giusto per spezzare il silenzio.
«Sì, tutto okay. E tu?».
«Alla grande».
«Bene».
Tom alzò gli occhi sui numeri dei piani che si illuminavano uno dopo l’altro e quando non riuscì più a resistere gli chiese a bassa voce: «Sei sicuro che non sia successo niente di cui tu mi voglia…?».
«Sono arrivato! Ci vediamo dopo Tom, ciao!», urlò Bill, schizzando fuori dall’ascensore ed incamminandosi in fretta verso la sua suite.
Si voltò un’ultima volta e vide Tom osservarlo circospetto e anche un po’ preoccupato, mentre infilava la chiave magnetica un paio di porte più in là, sull’altro lato del corridoio.
Aveva appena fatto un’altra figura di merda: si era dimenticato che anche suo fratello aveva la stanza su quel piano.
Deviò il suo sguardo e si sbrigò ad entrare nella suite, appoggiandosi alla porta con le spalle e traendo un profondo respiro una volta al sicuro.
Sapeva che non avrebbe potuto scappare per sempre, ma… come diavolo avrebbe fatto a dirgli che aveva fatto l’amore con Dylan?!

***

Erano partiti da quasi due ore e Dylan non aveva fatto altro che pensare alle parole e agli sguardi che Grace aveva rivolto a lui e a Bill. Non c’erano dubbi che fosse una detective acutissima, ma com’era possibile che fosse riuscita a scoprirli solo guardandoli in faccia?
Prese il bicchiere di succo d’arancia posato sul suo tavolino e ne bevve un sorso, sbirciando in direzione della sua amica con la coda dell’occhio. Stava sfogliando una rivista che aveva comprato in aeroporto per passare le lunghissime ore di viaggio, con gli occhiali da sole sugli occhi, un sorriso furbo dipinto sulle labbra e la borsa stretta fra le gambe.
«Ehi, quella dovresti metterla sotto al sedile, l’hanno detto pri–».
«Sta benissimo lì dov’è», lo interruppe Grace, stringendone con più forza la tracolla, arrotolata intorno al palmo della sua mano.
Dylan sollevò il sopracciglio, insospettito, ma ben presto se ne dimenticò, osservando la giovane hostess che lo aveva già servito portandogli la colazione. Stava percorrendo il corridoio, dispensando sorrisi e chiedendo ai viaggiatori se si sentissero a loro agio o volessero qualcosa da bere o da mangiare.
Dylan non poté non notare le belle gambe, in mostra sotto la gonna lunga fino alle ginocchia, la curva dei fianchi e quella del seno, ma se ne pentì subito, pensando a Bill.
L’assistente di volo si fermò al suo fianco e quando i loro sguardi si incrociarono il suo sorriso si ampliò.
«È tutto a posto qui? Vuole dell’altro succo d’arancia, signore?».
Dylan arrossì e boccheggiò, lottando contro il desiderio di posare gli occhi sul suo seno prosperoso. Per fortuna Grace accorse in suo aiuto, sporgendosi verso di lui e stringendogli forte la mano sul bracciolo che condividevano.
«Lo scusi, signorina, è piuttosto assonnato».
«Oh, se desidera posso portarle un cuscino, oppure…».
Grace strinse le labbra in un sorriso e si batté una mano sulla spalla. «Non ce n’è bisogno, grazie tante. Dai tesoro, riposati un po’». Gli avvolse il braccio attorno al collo e Dylan resse il suo gioco, appoggiando la testa nell’incavo della sua spalla e chiudendo gli occhi.
L’hostess sorrise ancora cortesemente e si allontanò.
«È andata?», sussurrò Dylan poco dopo, aprendo un occhio per sbirciare.
«Sì», rispose la detective, tornando alla sua rivista.
«Oh, grazie a Dio».
Si sentiva davvero sollevato che quella tentazione vivente fosse sparita alla sua vista, ma nonostante questo si sporse sul corridoio e la prima cosa che vide fu il suo sedere ondeggiante. Il cuore gli schizzò in gola, ma non riuscì a distogliere comunque lo sguardo, cosa che costrinse Grace ad intervenire ancora una volta, afferrandolo per un orecchio.
«Ahi, mollami, mi fai male!», si lamentò, tornando seduto composto sul sedile.
Grace lo lasciò e con gli occhi sulle pagine della rivista schioccò la lingua contro al palato. «Non ti vergogni a guardare una donna, dopo quello che è successo con Bill?».
«Tu… tu… Come fai a saperlo?!», gridò a mezza voce, scioccato, mentre si abbassava sul sedile, manco volesse sprofondarci dentro e sparire alla vista di tutti.
«Non ne ero certa, me lo hai detto tu adesso».
Dylan vide il sogghigno disegnato sulle sue labbra ed ebbe quasi voglia di insultarla, ma non lo fece. Si afflosciò ancora di più, come privato di ogni energia, e si portò le mani sulla testa.
«Sono un idiota», mormorò, davvero dispiaciuto.
«Su, occhio non vede cuore non duole», lo confortò, dandogli una pacchetta sulla spalla. «Ma dovrai imparare a controllarti, okay? Non ci sarò sempre io a trattenerti!».
«Hai ragione», le sorrise. «Grazie, Grace».
La detective ricambiò il sorriso, ma presto prese una sfumatura maliziosa e i suoi occhi si accesero di curiosità, mettendo in allerta il poliziotto. Infatti, gli chiese senza alcun indugio: «In cambio di questa perla di saggezza, mi racconteresti tutto quello che è successo?».
«Cosa?! No! Ti sembra per caso che io ti abbia mai chiesto com’è stato andare a letto con Tom?».
Grace si portò una mano sul mento, meditabonda. «No, non mi pare… Ma avresti voluto farlo!».
Dylan sobbalzò e si guardò intorno fugacemente, sempre più in imbarazzo, per assicurarsi che nessuno li stesse ascoltando. Si voltò di nuovo verso la detective e fissò gli occhi nei suoi: «È vero, ma è diverso!».
«E in che cosa sarebbe diverso? Sentiamo».
Si mise a braccia incrociate, la rivista chiusa sopra le borsa, e rimase in silenzio, in attesa. Dylan balbettò cose senza senso per un po’ e alla fine, anche un po’ in pena per lui, decise di lasciar perdere.
«Come non detto», sbuffò agitando una mano. Poi gli rivolse un sorriso dolce, intrecciando ancora le dita delle loro mani. «Almeno dimmi se è stato bello».
Dylan ricambiò lo sguardo intenso e alla fine cedette. Si abbandonò contro il poggiatesta e chiuse gli occhi, accennando un sorriso.
«Sì, è stato bello. Anche se Bill…».
«Sì, ho notato la sua andatura… sbilenca, stamattina», gli risparmiò l’imbarazzo di dover dire che gli aveva fatto male e gli accarezzò la guancia a mo’ di consolazione. «Vedrai che con l’esperienza migliorerete, ne sono sicura».
«Già… Oddio, è troppo strano essere tornati al punto di partenza. Mi sento come se avessi di nuovo sedici anni!».
«Tu hai fatto sesso per la prima volta a sedici anni?», chiese Grace, sorridendo. «Avrei voluto vederti! Intendo da ragazzino, ovviamente».
Dylan chiuse gli occhi in un’espressione che dimostrava tutta la sua soddisfazione al ricordo.
«Ero davvero molto affascinante, proprio come lo sono adesso».
«Oh, non ne dubito… E chi è stata la fortunata?».
«Una che frequentava la mia stessa compagnia, la sorella di un mio amico… mi sono beccato pure un pugno da lui per averla scopata! Il fatto è che aveva fatto lei la prima mossa, io non l’avrei nemmeno…». Lo sguardo tutt’altro che convinto di Grace bastò per fargli cambiare idea, ridendo: «Okay, ci avrei provato comunque. E tu? A quando risale la tua prima esperienza?».
Grace appoggiò meglio la schiena contro il sedile e guardò fuori dal finestrino, immersa nei suoi pensieri, fino a quando non ricordò perfettamente il viso del ragazzo che le aveva tolto la verginità.
«Anche io avevo sedici anni e lui si chiamava Nikolay».
«Russo?», tirò ad indovinare Dylan, sorpreso.
Grace annuì. «Giocava nella squadra di rugby della mia scuola, quindi immaginati un armadio con i capelli biondi e due occhi di ghiaccio. Non potrò mai dimenticarmelo, anche perché io lo odiavo e lui odiava me».
«E allora, come…?».
«Aspetta, lasciami finire. Mio padre, collaborando con la polizia, aveva fatto arrestare suo zio, se non ricordo male, e lui ce l’aveva a morte con tutta la mia famiglia, compresa me. Un giorno però fummo invitati alla stessa festa, a casa di una smorfiosa che entrambi non potevamo nemmeno vedere, così… ci siamo messi a parlare. Alla fine non era tanto male e capii ciò che mi aveva sempre detto mio padre: “Se una mela è marcia, non vuol dire lo sia tutto l’albero”. Se suo zio commerciava armi illegalmente non voleva dire che tutta la famiglia era fatta con lo stampino».
«Vai al sodo, Grace! Come ci sei finita a letto?».
«Parlando avevamo bevuto più del dovuto e ci eravamo messi in testa di fare uno scherzo alla festeggiata, mettendole a soqquadro la camera, ma quando ci arrivammo io inciampai in un orribile peluche, mi aggrappai a lui per non cadere, con l’unico risultato di finire uno sopra l’altro sul letto. Ci siamo guardati negli occhi, ridendo a crepapelle, e… è successo».
«Beh, non proprio una cosa romantica», disse Dylan, divertito. «E te ne sei pentita, la mattina dopo?».
Grace parve pensarci su un attimo, poi scosse il capo sorridendo. «No, era stato bello in fondo. Credo che se potessi tornare indietro, lo rifarei. Si era creata una specie di sintonia… non so come spiegarlo».
Il poliziotto si portò le mani dietro la testa e si rese conto con piacere che era da tanto tempo che non parlavano così tranquillamente di qualcosa che non fosse il caso oppure la sua situazione incasinata con Bill. Gli era mancato da morire.
«Sarei curioso di sapere che cosa direbbe Tom, se sapesse del russo della tua prima volta».
«Probabilmente quello che direi io sentendo la storia della sua prima volta. Ho letto così tanto su di lui e sulle sue one-night stands, quando ancora li pedinavo… Doveva essere un vero pervertito, da ragazzino».
Il sorriso di Dylan si affievolì, ricordando la storia che il chitarrista stesso gli aveva raccontato quando erano andati in palestra insieme.
Tom era cresciuto troppo in fretta, aveva fatto sesso per la prima volta prematuramente e solo per mostrare ai suoi compagni di classe che non era un finocchio, rovinandosi con le sue stesse mani quell’esperienza indimenticabile, e poi aveva continuato anche quando la loro carriera da musicisti aveva preso il via ed avevano iniziato a riscuotere successo, fino a quando non aveva capito che stava sbagliando tutto, che lui non era la persona che aveva dato a vedere e dietro la quale si era nascosto per anni. Tutto questo perché quelle offese ricevute nell’adolescenza l’avevano segnato profondamente.
«Dylan? Ehi, Dylan, va tutto bene?».
Il poliziotto girò il viso verso la detective e le accarezzò il mento, sorridendole lievemente.
«Secondo me ti sorprenderesti, invece. Lo sai benissimo, l’hai provato tu stessa, che i mass-media inventano un sacco di cazzate solo per far aumentare l’audience. Magari… magari Tom non era come ti immagini».
Grace lo osservò in silenzio, davvero colpita dalle sue parole, poi lo imitò: puntò lo sguardo velato dagli occhiali da sole fuori dal finestrino e guardò l’ala dell’aereo tagliare un banco di nuvole.


Quegli stramaledetti fusi orari l’avrebbero resa pazza, pazza! Erano partiti alle nove e mezza da Berlino, erano atterrati al caotico aeroporto di Los Angeles che erano passate le ventidue, ma lì erano già le sette di mattina del giorno dopo.
Era come se avesse perso un prezioso giorno della sua vita, su quell’aereo!
Tesa come una corda di violino, non perse mai d’occhio la borsa a tracolla, che ora stringeva convulsamente sotto il braccio, e a passo svelto raggiunse il bar dove si era accordata di trovarsi con l’agente Crawford e un paio dei suoi uomini migliori.
Dylan, il quale era riuscito a stento a seguirla tra la folla, non ne sapeva niente e ne rimase parecchio sorpreso, ma soprattutto intimorito, perché da quando gli aveva telefonato per avvisarlo di ciò che era successo a Grace ed era stato sgridato pesantemente non si erano più sentiti.
«Oh, Grace», mormorò Michael, stringendola in un abbraccio inusuale per uno tutto d’un pezzo come lui. Ma era stato davvero in pensiero, perché in fondo si era affezionato, e vederla sana e salva era un vero e proprio sollievo.
La detective ricambiò con un sorriso colmo di tenerezza e si spostò per far sì che Dylan si facesse avanti.
Michael si portò i pugni sui fianchi, guardandolo ancora severamente, ma ben presto si sciolse in un sorriso, aprendo le braccia.
«Spararti adesso non servirebbe a niente, quindi… vieni qui, pivello».
Dylan, felice, ricambiò la stretta con qualche pacca sulla schiena e si scusò ancora e ancora, dicendogli che non sarebbe dovuto capitare e tutte le cose che gli aveva ripetuto mille volte quella volta al telefono, fino a quando Michael non aveva chiuso bruscamente la chiamata.
«Okay, ora che abbiamo finito con i convenevoli, possiamo andare?», chiese Grace, sollevando di qualche centimetro la borsa che aveva stretto al petto.
«È tutto il giorno che te la tieni appiccicata addosso, che cosa diamine –?». Dylan si bloccò all’improvviso e guardò la detective, la quale sospirò con occhi dispiaciuti. Michael invece accennò un sorriso, stringendole una spalla con la mano.
«Hai trovato qualcosa, non è così? Sei riuscita a trovare l’indizio che ti ha lasciato tuo padre. Altrimenti non mi avresti chiesto un furgone blindato dell’FBI».
Grace annuì rapidamente col capo, scambiando un’altra occhiata con Dylan. «Vi spiegherò tutto più tardi, ve lo prometto, basta che ce ne andiamo da qui».
L’agente Crawford e i suoi uomini accerchiarono Grace e Dylan, facendogli da scorta mentre uscivano dall’aeroporto e raggiungevano il furgone blindato che li attendeva parcheggiato in una posizione strategica, dove non aveva dato nell’occhio e allo stesso tempo avrebbe potuto offrire una veloce via di fuga in caso di pericolo.
Una volta al suo interno, Grace si rilassò un poco e, intercettando lo sguardo di Michael, disse: «Gli uffici dell’FBI sono più sicuri, andiamo lì».
La detective sospirò e si voltò verso Dylan, seduto al suo fianco nella penombra del furgone blindato, ma con gli occhi fissi di fronte a sé. Gli accarezzò il braccio e vi appoggiò sopra la fronte, spossata e con i nervi ancora tesi, nonostante fossero a casa e mancasse ormai poco perché l’agenda di suo padre fosse al sicuro.
«Mi avevi detto… mi avevi detto che il tuo rischio era stato inutile».
«Mi dispiace», soffiò. «Ho fatto di nuovo di testa mia, tenendotene all’oscuro, ma ho pensato… sì, mi avevano già picchiata e quasi uccisa, tanto valeva che facessero del male solo a me, se davvero volevano ciò che possedevo. Non volevo che tu e Tom correste dei pericoli, perché allora il mio rischio sarebbe stato davvero vano».
Dylan la guardò negli occhi e le strinse forte le braccia intorno al collo, dandole per l’ennesima volta della stupida, ma anche dell’amica migliore del mondo.

___________________________________________

Buongiorno! :)
Non voglio dilungarmi troppo su questo capitolo, perchè ci sono pochi avvenimenti, anche se uno è molto, molto importante, almeno per Bill e Dylan! ;)
Spero semplicemente che vi sia piaciuto e che troviate il tempo necessario a scrivermi due righe così, per dirmi cosa ne pensate, nell'attesa del prossimo capitolo! Nel frattempo io risponderò e farò i miei dovuti ringraziamenti, come al solito. E per quanto riguarda la scorsa volta, ringrazio ancora chi ha recensito e chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Siete fantastici :)
Alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 25
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23

“When I'm falling down, will you pick me up again?
When I'm too far gone
Dead in the eyes of my friends…
Will you take me out of here?”

(Watercolour - Pendulum)

Grace appoggiò entrambe le mani sulla superficie del tavolo di vetro nero su cui erano sparpagliate tutte le cartelle, i documenti e gli appunti raccolti in anni di lavoro al caso. Al centro, illuminata da una lampada da terra, la soluzione di tutti i loro rompicapi: l’agenda di Mitch Schneider.
«Ne ero sicura. Mio padre poteva essere morto solo per un caso di questa gravità».
«Corruzione ai piani alti della Marina Militare degli Stati Uniti», aggiunse Michael, incrociando le braccia al petto. «Peccato che gli uomini con cui abbiamo a che fare non finiranno mai in prigione, senza un testimone vivo che dimostri che tutto ciò che è scritto qui è la verità».
«Stai dicendo sul serio?! Mio padre ha scritto la soluzione del caso, noi abbiamo…».
«Solo parole. E sai benissimo, Grace, che servono le prove in tribunale, specialmente se parliamo della Corte marziale. Quello che è stato commesso, o meglio non commesso, a Baghdad è un crimine molto grave e non possiamo permetterci di puntare il dito contro quei pesci grossi senza avere alcun tipo di prova o testimonianza».
Grace lo fissò per qualche secondo in silenzio, rigida come una statua, poi fece schiantare il pugno contro il tavolo, trattenendo un urlo frustrato.
«Cattureremo quelli dell’organizzazione criminale e li faremo confessare di essere stati ingaggiati da Tizio, Caio e Sempronio; di aver ucciso chiunque sapesse qualcosa, compreso mio padre, di aver aggredito me… di tutto! Anche sotto tortura, se necessario! C’è l’uomo che mi ha salvata! Se riuscissimo a scoprire la sua identità potrebbe aiutarci! E poi… oh, e poi ci sono ancora Lionel e Bryant! Loro non ricordano nulla di strano sull’attentato che hanno sventato, ma se gli raccontiamo quello che ha scoperto mio padre, magari potrebbero…».
L’agente Crawford infilò un braccio intorno alle spalle della detective e la strinse al suo petto, accarezzandole i capelli con l’altra mano.
«Dobbiamo farcela, Michael», disse allora con la voce incrinata, segno che se ne avesse avute le forze, dopo il lungo viaggio, la tensione e le ore che avevano trascorso chiusi in quell’ufficio a leggere tutto ciò che aveva lasciato scritto suo padre e a mettere a posto ogni pezzo del puzzle, avrebbe pianto. «Noi non possiamo arrenderci, non ora, non dopo essere arrivati fino a qui…».
Michael le posò un lieve bacio sulla tempia, sussurrandole: «Ci riusciremo Grace, te lo prometto».
Le prese il viso fra le mani, delicato come se fosse di cristallo e avesse paura di romperlo, ed accennò un sorriso, passando i pollici sotto i suoi occhi stanchi ed arrossati.
«Adesso però abbiamo tutti bisogno di riposare, specialmente tu».
Grace annuì mestamente e si lasciò condurre fino al divanetto accanto alle finestre dalle tende alla veneziana. Si sedette e lo guardò mentre scostava le asticelle di alluminio tirandone la cordicella, in modo che potesse vedere fuori dall’ufficio tutti gli altri agenti dell’FBI, alle loro scrivanie, che lavoravano ad altri casi, forse difficili come il loro.
«Vado a vedere che fine ha fatto Dylan, così ti portiamo a casa. Tua madre sarà in ansia per te», le disse ancora, accarezzandole i capelli sulla fronte. Quindi uscì dall’ufficio, chiudendosi dolcemente la porta alle spalle.
Uscì fuori dall’edificio, sede locale dell’FBI a Los Angeles, e vide Dylan seduto sul prato, con le spalle contro il muro e una sigaretta penzolante fra le labbra, che guardava il cielo punteggiato di piccole stelle e si godeva la brezza fresca della notte. Quella gli era mancata, a Berlino.
«Te la prendi comoda, eh?».
Dylan si voltò e prese il mozzicone col pollice e l’indice, accennando un sorrisetto.
«Non ce la facevo più a stare lì dentro, scusami».
«Ti capisco. È meglio se ce ne andiamo tutti a casa».
«Hai convinto Grace?».
Michael annuì e stese una mano verso Dylan, il quale l’afferrò per aiutarsi ad alzarsi.
Rientrarono e salirono le scale che portavano al soppalco in cui c’era l’ufficio in cui avevano lavorato instancabilmente per un giorno intero, senza mai chiudere occhio e mangiando a malapena. Appena arrivarono di fronte ad esso, però, attraverso le veneziane all’interno delle finestre videro che Grace si era appisolata, rannicchiata sul divano.
Rimasero in silenzio ad osservarla, fino a quando Dylan non disse a bassa voce, senza toglierle gli occhi di dosso: «Tu sapevi che ce l’aveva fatta?».
«Se ti riferisci all’agenda, l’ho sempre sospettato. Mi sembrava impossibile che quelli dell’organizzazione la facessero fuori senza ricavarne qualcosa o, peggio ancora, correndo il rischio di non trovare mai ciò che le aveva lasciato suo padre».
«Quello che non capisco è perché allora l’hanno lasciata in vita. Voglio dire, non riesco a credere che si siano lasciati ingannare e abbiano fatto entrare nell’organizzazione un uomo che probabilmente, anzi sicuramente, è dalla nostra parte. Secondo te lui sapeva dell’agenda?».
L’agente dell’FBI scrollò le spalle. «Non ne ho idea, ma di certo voleva che Grace la portasse via a tutti i costi. Lei non ti ha detto niente su di lui? Non ha qualche sospetto?».
«Mi ha raccontato del suo aggressore: ha sentito la sua voce e pensa che sia stato lui a risponderle quando ha telefonato al cellulare scomparso di Tom. Aveva la voce criptata, ma è quasi certa che fosse lui. E poi mi ha detto anche qualcosa su un auricolare, come se l’uomo eseguisse gli ordini di qualcun altro e avesse evitato per questo motivo di colpirla in viso… O almeno, questo è quello che ho capito».
«Ma del suo angelo custode niente».
Michael sospirò e tornò a guardarla, mentre Dylan scuoteva il capo, arrendevole.
«Può darsi che non ne sappia niente, come può darsi che mi abbia tenuto nascosto anche questo».
«Sei ancora arrabbiato con lei perché non ti ha informato dell’agenda? L’ha fatto per il vostro bene…».
«Rischiando di finire in guai ancora più grossi, da sola», rettificò, stringendosi le braccia al petto.
«Dylan… Quando si fa parte di una squadra non ci dovrebbero essere segreti, ma a volte… a volte si preferisce fare tutto da soli per il bene della squadra, per proteggere le persone che si amano».
Il poliziotto incrociò i suoi occhi imperscrutabili, ma quella volta vi trovò una traccia di malinconia, di rimpianto, di dolore.
«È per questo motivo che preferisci lavorare da solo? Hai perso qualcuno della tua squadra, in passato?».
Crawford fuggì dal suo sguardo ed esitò, quando un movimento improvviso li fece voltare entrambi verso Grace, schizzata seduta sul divanetto con il cellulare premuto contro l’orecchio.
L’agente dell’FBI aprì la porta e si precipitò all’interno dell’ufficio, subito seguito da Dylan.
La detective li fissò terrorizzata, parlando ancora al telefono: «Lionel, Lionel rispondimi… rispondimi, ti prego!».
Crawford le strappò il cellulare di mano e se lo portò all’orecchio: era caduta la linea.
«Ti ha detto dov’era?». Michael la prese per le spalle e la scosse per farla riprendere. Non c’era un minuto da perdere.
«Grace! Ti ha detto dove si trovava?».
«Sì, lui… ha nominato un motel a Tijuana, Motel Paloma».
«Dylan, chiama subito i tuoi colleghi messicani e avvertili, che inviino subito un’ambulanza e delle pattuglie».
Il poliziotto annuì e corse fuori dall’ufficio.
«E noi cosa facciamo?», domandò Grace, che a stento tratteneva le lacrime. «Michael…».
«Noi andiamo a Tijuana».

***

Nel loro camerino, Tom si alzò dalla poltroncina e guardò fuori dalla finestra, mentre Bill stava finendo di farsi sistemare il trucco, seduto di fronte ad un grande specchio.
Ancora non riusciva a credere che Grace gli avesse nascosto di aver trovato un’agenda scritta da suo padre. Glielo aveva confessato quella mattina presto, appena erano riusciti a sentirsi, e ora, come allora, non sapeva se essere felice per lei e per il fatto che non l’avessero quasi uccisa solo per sfizio, oppure se essere arrabbiato perché non glielo aveva detto subito. L’unica cosa che sperava con tutto il cuore era che quel caso venisse chiuso in fretta e che lei non fosse più costretta a correre pericoli.
Sentì i piedi della poltroncina di suo fratello strisciare sul pavimento e si voltò per osservarlo mentre lo raggiungeva e la truccatrice li lasciava soli.
«A che pensi?», gli domandò, portandosi le mani dietro la nuca e stiracchiandosi. «No, aspetta, fammi indovinare! A Grace?».
Tom fece una smorfia. «Ah-ah, divertente. Vorrei vedere te, al mio posto».
«Ehi, Dylan fa il poliziotto, anche lui corre dei pericoli».
«Fa parte della stradale. Il pericolo più grande che potrebbe correre è quello di essere insultato dopo aver dato una multa».
«Non è mica detto. Gli automobilisti di adesso sono quasi tutti psicopatici!».
I gemelli si guardarono e si sorrisero contemporaneamente. Era triste scherzare su chi corresse più pericoli tra le persone che amavano, ma sdrammatizzare era una delle poche cose che li tirava un po’ su di morale.
«Non vedo l’ora che tutto questo finisca», mormorò il chitarrista, spostandosi dalla finestra e gettandosi sul piccolo divanetto al centro della stanza.
«Credi che dopo aver risolto il caso di suo padre Grace lascerà perdere le investigazioni? Ci ha già provato una volta e il risultato non è stato dei migliori…».
Tom sospirò e chiuse gli occhi. «Non lo so, io… voglio che faccia il lavoro che le piace fare, che si senta appagata, ma vorrei anche che il suo lavoro non fosse rischioso. Non potrebbe fare… che ne so, la cassiera in un supermercato?».
«Ho sentito al telegiornale che le rapine a mano armata nei supermercati sono aumentate vertiginosamente negli ultimi due anni». Bill incrociò lo sguardo severo di suo fratello e si ritrasse: «Scusa». Poi si sedette al suo fianco, con le gambe accavallate.
«Non ce la vedo a fare nessun altro lavoro, però».
«Nemmeno io», sbuffò Tom. «La mia vita era già complicata così… dovevo proprio innamorarmi di una detective?».
Bill accennò un sorriso e gli posò una mano sulla spalla. «Pensa se Molly non l’avesse mai pagata per pedinarci: non avresti mai incontrato la tua anima gemella!».
«E tu non avresti mai incontrato Dylan».
«Già».
Tom si mise seduto composto ed appoggiò i gomiti sulle ginocchia, guardando il gemello con la coda dell’occhio.
Non gli aveva più chiesto niente, dopo che Bill gli aveva fatto capire palesemente che non ne voleva parlare, ma voleva a tutti i costi che si confidasse con lui, che gli raccontasse ogni cosa proprio come se Dylan fosse stato una ragazza – e, immaginandolo donna, rabbrividì – soprattutto dopo la loro ultima chiacchierata sull’argomento: voleva davvero dimostrargli che gli voleva bene anche se era gay e aveva… rapporti sessuali… con il suo compagno.
«A proposito di Dylan…», incominciò, stringendosi nervosamente le mani, ma sentì Bill sospirare e si interruppe.
«Okay, Tom, parliamone. Non riesco più ad inventarmi scuse, quindi sarò chiaro e diretto: io e Dylan…». Incrociò il suo sguardo e si sentì avvampare, come se gli avessero appena acceso un fuoco alle spalle.
All’improvviso tutto il suo coraggio scemò e pensò che non sarebbe mai riuscito a dirglielo. Ma di che cosa aveva paura? Che lo guardasse di nuovo come aveva fatto in quel momento di sconvolgimento totale, che lo ripudiasse, che lo prendesse a pugni? Cosa? Era il suo gemello, Cristo, poteva davvero fargli una di quelle cose orribili?!
Tom gli sorrise dolcemente e Bill, fino ad allora pietrificato, si sciolse, abbandonandosi allo schienale del divanetto, con un’espressione afflitta dipinta sul viso.
«Mi dispiace, non ce la faccio», balbettò, fissandosi le ginocchia. Sentì la mano di Tom sulla testa e si morse le labbra, dandosi dell’emerito cretino.
«Fratellino… ti ricordi quando facevo di tutto pur di difenderti dai bulletti della nostra classe?».
Bill lo guardò confuso. «E questo adesso cosa c’entra?».
«Beh, sappi che io non smetterò mai di proteggerti».
«Ma io non ho bisogno di essere protetto! Dylan non mi farebbe mai del male! Ero perfettamente consenziente quando…!». Bill arrossì di nuovo, così violentemente che avrebbe voluto gettarsi sotto un getto d’acqua gelata. Stava per bruciare vivo!
Ma Tom non smise di sorridere e disse: «Quindi avete fatto sesso».
«No! Cioè… Sì». Abbassò il viso, non capendo davvero il motivo del suo comportamento, e fu lo stesso Tom a doverglielo alzare di nuovo.
«Te ne vergogni?», gli domandò, più serio che mai.
«No, è che… questa volta vorrei sapere io che cosa ti sta passando per la testa esattamente».
«Vuoi saperlo davvero? A tuo rischio e pericolo?».
Bill annuì, deglutendo rumorosamente, e Tom scoppiò a ridere.
«Sto pensando a come diavolo abbiate fatto! Insomma, che posizione…? E ti è piaciuto!?».
Il cantante si alzò in piedi e camminò convulsamente intorno al tavolino di fronte al divano, strepitando: «Tom, sei un pervertito!».
«Ti avevo avvertito! Allora, mi racconti o no?».
Bill si fermò di colpo e lo guardò fisso negli occhi. «Mi stai prendendo in giro?».
«Assolutamente no! Voglio solo far parte di questo momento, sempre che tu lo voglia». Batté una mano sul divanetto, sorridendogli. «Forza, vieni qui e spiegami: per una volta sarai tu l’esperto in materia di sesso!».
Bill roteò gli occhi al cielo, sbuffando, ma alla fine raggiunse il gemello sul divanetto e gli raccontò tutto, anche se ogni tanto l’imbarazzo l’aveva frenato ancora. Più che sull’atto in sé, che dopo due frasi aveva già finito di spiegare, Bill focalizzò la sua attenzione su ciò che aveva provato – dolore, soprattutto, ma anche piacere e un senso immenso di protezione, fra le braccia muscolose di Dylan – e ciò che aveva visto nel suo compagno: un ragazzo spaventato come lui, alla sua prima esperienza omosessuale, che si era preoccupato per lui dall’inizio alla fine e si era preso cura di lui.
«Con una ragazza questo non sarebbe mai successo», confessò, non solo a Tom, ma anche a se stesso.
«Ovviamente, perché è l’uomo che si prende cura della donna, o dovrebbe essere così…», disse il chitarrista, per poi fermarsi un attimo a riflettere, con la fronte aggrottata. «Ma quindi… quindi tu saresti la donna della situazione?».
Bill quella volta non riuscì ad impedirselo e gli tirò uno schiaffo sul braccio. «Idiota!».
«Ehi, ho solo fatto la mia supposizione! Tu ti sei fatto penetrare, non il contrario!».
«Ma che vuol dire?!».
«Se fosse stato il contrario, Dylan avrebbe avuto il ruolo della donna!».
«Mah… io non ce lo vedo a fare la donna».
«Infatti, perché sei tu!».
Bill lo picchiò ancora, quella volta con più enfasi, e Tom lo bloccò prendendogli i polsi fra le mani, ridendo a crepapelle.
«Non te la prendere, Bill, non lo dirò più! Basta, basta, o finiremo per…!».
Con un tonfo si ritrovarono tutti e due per terra, sdraiati l’uno sopra l’altro.
«…cadere», concluse il chitarrista, scoppiando di nuovo a ridere nonostante il livido che gli sarebbe sicuramente uscito sul fondoschiena.
«È colpa tua, Tom, te la sei cercata!», gridò Bill, alzandosi impettito.
«Bill?».
«Che c’è, che vuoi ancora?», si voltò verso di lui e rimase incantato di fronte alla sua espressione colma di tenerezza, tanto che gli tornò vicino e gli diede una mano al alzarsi.
Senza lasciargli la mano che gli aveva offerto, Tom fissò gli occhi nei suoi e gli chiese: «Sei felice, con lui?».
«Non credo di essermi mai sentito più felice».
«Allora sono felice anche io». Lo abbracciò, dandogli qualche pacca sulla schiena. «Ma fai fare la donna anche a lui ogni tanto, se lo merita!».
Bill in risposta gli tirò un pugno sulla schiena, mozzandogli il respiro per un attimo. Subito dopo però rise, stringendolo più forte fra le braccia.

***

Michael guardò Grace con la coda dell’occhio ed accennò un sorriso: finalmente aveva smesso di lottare, lasciando che il sonno prendesse il sopravvento.
Stando sempre attento alla strada illuminata dai fanali della sua auto federale, si slacciò la cintura e si tolse la giacca per posargliela delicatamente addosso, a mo’ di coperta.
Quando tornò a fissare il parabrezza di fronte a sé, si rese conto amaramente che si stava affezionando a lei e a Dylan più del dovuto, più di quanto il suo cuore ferito potesse sopportare.

«È per questo motivo che preferisci lavorare da solo? Hai perso qualcuno della tua squadra, in passato?».
Scosse il capo per mandare via le domande che Dylan gli aveva posto poco prima, ma ottenne proprio il risultato contrario, come se quel movimento brusco avesse fatto risalire in superficie i ricordi che aveva seppellito nell’angolo più remoto della sua memoria. Come sabbia essi si risollevarono da quel fondale buio e si ripresentarono di fronte ai suoi occhi umidi, facendogli perdere l’orientamento.

«Crawford, no, non farlo!».
Si voltò, paralizzato dal terrore, e vide i ragazzi della sua squadra, armati e con i giubbotti antiproiettili blu con la scritta FBI sul petto, entrare di corsa nel capannone. Non fece in tempo ad urlargli di andarsene, perché quasi immediatamente una mitragliatrice inarrestabile gli sparò addosso dall’alto.
Erano in quattro: due caddero a terra, uno riuscì a ripararsi dietro una serie di barili e l’ultimo, l’unica ragazza della squadra, quella che aveva urlato all’entrata, fu colpita al ventre, ma ebbe la forza di strisciare verso l’amico dietro i barili, il quale la trasse in salvo da un’altra serie di proiettili.
Crawford era rimasto scioccato, ma appena ne ebbe bisogno i suoi sensi in allerta agirono, permettendogli di salvarsi da una morte certa. Si liberò infatti dell’uomo con cui aveva deciso di contrattare da solo, bloccandogli la mano con cui aveva impugnato la pistola e facendo sì che si sparasse da solo sotto il mento. Uno schizzo di sangue gli colpì il volto, ma non vi badò e si girò subito verso l’uomo con la mitragliatrice, appollaiato sul soppalco di metallo sopra di lui. Il suo compagno di squadra dietro i badili lo stava tenendo distratto, sparandogli contro con cadenza più o meno regolare, quindi Michael poté prendere la mira e colpirlo dritto alla testa, mettendolo fuori combattimento.
Michael controllò che non ci fossero più cecchini, percorrendo il perimetro del soppalco con la pistola in asse con l’occhio destro, poi sentì le urla del suo compagno ed amico e corse nella sua direzione.
«Allison… Allison, stai con me, stai con me!».
«Ally!».
Michael si lasciò cadere bocconi al suo fianco e le accarezzò i capelli biondi, spostandoglieli dalla fronte. «Ally, Dio mio…».
La ragazza storpiò un sorriso, sollevando una mano macchiata del suo stesso sangue per posargliela sul viso. «Michael… avresti dovuto…», tossì e un rivolo di sangue le scivolò sul mento. «Noi siamo una squadra».
«Era troppo pericoloso, io non volevo che voi…». In lacrime, guardò la ferita al ventre di Allison, poi fissò i due uomini stesi a terra, anche loro in un lago di sangue. «È tutta colpa mia, mio Dio, è tutta colpa mia…».
«Allison… Allison, ascoltami, tu… tu ce la farai!», gridò Charles al suo fianco, attirando di nuovo la sua attenzione sulla ragazza ormai esangue.
Michael le accarezzò per un’ultima volta i capelli e lei per un’ultima volta sorrise, prima di chiudere gli occhi.


Il suo sguardo cadde per caso sul tachimetro e questo lo fece tornare alla realtà. Rallentò gradualmente e appena vide un’area di sosta si fermò, spense il motore e si appoggiò al volante nascondendo il viso fra le braccia.
«Izac, Spencer… Allison… mi mancate così tanto…».
Il buio e il silenzio di quell’autostrada nel bel mezzo del deserto gli diede l’orribile sensazione di essere rimasto solo al mondo, ma Grace intervenne per salvarlo da se stesso e da quei ricordi dolorosi.
«Michael… è tutto okay?».
L’agente dell’FBI si tirò su, appoggiandosi allo schienale, ed annuì, anche se stancamente.
Grace guardò la giacca che le aveva sistemato addosso mentre dormiva e disse: «Se vuoi posso darti il cambio».
«No, guido io. Tu continua a dormire».
Detto questo girò le chiavi nel cruscotto e si immise di nuovo nella corsia, senza rivolgerle più uno sguardo. Grace però non seguì il suo consiglio ed alzò un po’ di più il volume della radio, cosa che sicuramente lo avrebbe aiutato a distrarsi se non fosse capitata una canzone del genere, una canzone che Grace definì come una delle più belle mai scritte nella storia e che canticchiò sommessamente, mentre guardava fuori dal finestrino:
«A warning sign… You came back to haunt me and I realised, that you were an island and I passed you by… And you were an island to discover… Come on in… I've gotta tell you what a state I'm in, I've got to tell you in my loudest tone, that I started looking for a warning sign… When the truth is: I miss you… Yeah, the truth is… that I miss you so… And I’m tired, I shouldn’t let you go…».


Arrivarono all’ospedale di Tijuana a notte fonda e dovettero aspettare un po’ prima di ricevere l’OK per vedere Lionel.
Nell’attesa, Grace aveva quasi finito il pacchetto di sigarette che aveva comprato all’aeroporto di Berlino e aveva chiamato Dylan per non sentirsi sola, visto che Crawford aveva continuato a discutere con infermiere e medici nonostante gli avessero già detto mille volte che dovevano aspettare. Alla fine Grace l’aveva intuito che era solo un modo come un altro per stare lontano da lei, ma non era riuscita a capirne il motivo, proprio come non era stata in grado di immaginare chi fossero le persone che gli aveva sentito nominare quando si era svegliata.
Quando finalmente ottennero l’autorizzazione, Michael andò nel parcheggio a chiamarla. Grace si alzò dal panettone giallo su cui si era seduta e lo raggiunse all’interno.
Un’infermiera li accompagnò nella camerata in cui avevano sistemato Lionel e prima di scostare le tende azzurre i due agenti di polizia locale che erano stati messi lì di guardia dagli stessi agenti dell’FBI di Los Angeles gli chiesero di mostrare i loro documenti. Crawford, anche se piuttosto scocciato, esibì il suo distintivo federale.
Grace si fece avanti per prima e rimase senza fiato alla vista di quel Lionel che stentava a riconoscere: emaciato, con orribili ombre violacee intorno agli occhi e la barba lunga dello stesso colore dei suoi capelli, un biondo scolorito sempre più tendente al grigio.
La spessa fasciatura che gli avvolgeva il busto, in obliquo, dalla spalla destra al fianco sinistro, e in orizzontale, intorno all’addome, era macchiata di sangue nei due punti in cui gli avevano sparato.
Le lacrime avrebbero voluto sgorgarle dagli occhi come torrenti, ma miracolosamente riuscì a trattenerle e si sedette accanto al suo letto, lo sguardo fisso sul suo viso pallido e privo di espressione, profondamente addormentato anche grazie agli antidolorifici.
Sentì Michael avvicinarsi a lei e serrò le labbra quando le posò una mano sulla nuca, delicato come solo lui sapeva essere.
«Avremmo dovuto prevederlo», sussurrò Grace, lottando per mantenere un tono di voce fermo. «Si sono vendicati per la morte del loro uomo».
«No, invece. Non avremmo potuto».
La detective alzò il viso e sentì la presa sui suoi capelli aumentare mentre Michael si chinava su di lei e le posava le labbra sulla fronte.
«Si sistemerà tutto, Ally, vedrai».
Grace si irrigidì sulla sedia e Michael se ne accorse, rendendosi conto del suo lapsus. Si scostò ed incrociò i suoi occhi per un attimo, ma la detective non gli chiese nulla e lo lasciò libero di andare, di scappare fino a quando non si sarebbe sentito pronto per affrontare l’argomento.
Rimase lì da sola per molto tempo, forse per ore, il silenzio rotto solo dalle voci delle infermiere al di là delle tende e dai bip prodotti dai macchinari a cui era collegato Lionel e che monitoravano i suoi parametri vitali.
Poi, finalmente, quella logorante monotonia fu interrotta da un rantolo che risvegliò del tutto Grace, fino ad allora con il mento posato contro lo sterno e gli occhi chiusi. Il viso di Lionel si era accartocciato in un’espressione sofferente, mentre si portava la mano con il pulsiossimetro al dito indice al petto. La detective gliela strinse con delicatezza e allora l’ex-marine aprì faticosamente gli occhi azzurri.
«Grace», gracchiò, cercando di ricambiare la stretta con le poche forze che aveva. «Sembri… sembri il vampiro di Twilight a digiuno da un mese».
«Tu conosci Twilight?», gli chiese ridacchiando, lasciando che le lacrime vincessero sulla sua volontà scorrendole sulle guance.
«Alla mia bambina sarebbe piaciuto».
«Lionel, stavi… stavi per morire dissanguato, se non mi avessi chiamato…».
«Ti avevo promesso che non ti avrei abbandonato, ricordi?», le rivolse un tenero sorriso e cercò di sfilarsi i tubicini per l’ossigeno che aveva al naso. Quando ci riuscì, le percorse una guancia con il dorso della mano, indicandole poi di sedersi.
«Chi ti ha fatto tutto questo? Hai visto chi ti ha sparato?», domandò ancora la detective, passandosi le mani sul viso per spazzare via le lacrime.
Lionel chiuse gli occhi, stanco come se fosse appena tornato dalla guerra, e respirò profondamente, provocandosi qualche colpo di tosse e un dolore acuto al petto.
Grace stava per chiamare l’infermiera, quando lui scosse il capo, dicendole che non era necessario.
«Ho visto chi mi ha sparato, l’ho visto benissimo», rispose alla fine, tornando a stringerle la mano.
Grace sgranò gli occhi arrossati. «E chi…?».
«Bryant. Il nostro Bryant».


«Ehi».
«Grace… ma che ora è da te? Le sei di mattina?».
La detective annuì, come se potesse vederla.
«Che ci fai già in piedi?», le chiese ancora Tom, dopo aver rifatto il calcolo per essere sicuro.
«Non ho dormito».
«Come? È successo qualcosa? Non farmi preoccupare!».
Grace fece un altro avido tiro alla sigaretta che si era fatta dare da un’infermiera incontrata fuori dall’ospedale e sollevò gli occhi verso il cielo illuminato dalla luce chiara dell’alba.
«Questa volta io non c’entro niente, stai tranquillo».
Gettò il mozzicone della sigaretta e ripensò alla storia che l’ex-marine le aveva raccontato prima di crollare di nuovo addormentato, sfinito.


«Da un po’ di tempo Bryant mi sembrava strano. Qualche giorno fa, in un autogrill poco lontano da qui, ho lasciato che si allontanasse, poi l’ho seguito e ho origliato una sua conversazione al cellulare. Ho capito subito che si era venduto all’organizzazione e che il suo unico compito era quello di farmi fuori. Bryant diceva che voleva ancora tempo, che non era pronto, e piangeva… ma il “capo” ha insistito tanto e lui alla fine ha dovuto cedere, dicendo che mi avrebbe fatto fuori appena possibile.
«Io… ho provato a fare finta di nulla, ci ho provato con tutte le mie forze – il mio piano era quello di sfruttarlo per giungere all’organizzazione – ma dopo due notti trascorse senza chiudere occhio per paura che potesse spararmi nel sonno, alla fine i miei nervi tesi mi hanno tradito: mi sentivo così arrabbiato, ferito,
tradito… e gli ho urlato in faccia che sapevo tutto. Abbiamo lottato un po’, nella stanza in cui mi avete trovato, e lui ha avuto la meglio. Peccato che non si è fermato a controllare se fossi morto: ha preso in fretta e furia le sue cose ed è scappato, in preda al panico».


Grace non ci aveva messo molto a fare due più due: Bryant era sempre stato un burattino nelle loro mani, aveva fatto in modo di avvicinare lei e Lionel e, sfruttando la scia di sangue lasciata dai suoi “complici”, aveva fatto in modo di separarli. Quando poi un membro dell’organizzazione aveva disertato, uccidendo il suo aggressore a Berlino, gli avevano ordinato di sbarazzarsi subito di Lionel, perché le cose gli stavano sfuggendo di mano e non potevano permettersi che qualcuno sopravvivesse.
Ma per fortuna Bryant aveva fatto un errore, lasciando in vita Lionel, e poteva anche essere che Loro non ne fossero al corrente o che fossero convinti che fosse morto…
«Grace? Grace, mi stai ascoltando?».
La detective sentì la voce di Tom e si ricordò di essere al telefono con lui.
«Scusa, devo andare a cercare Michael, mi è appena venuto in mente… Ci sentiamo più tardi, cioè… chiamami tu quando preferisci». Terminò bruscamente la chiamata e corse all’interno dell’ospedale.
Trovò Michael che parlava con i poliziotti messicani di guardia di fronte al letto di Lionel e, prendendolo per il gomito, lo tirò da parte.
«Che c’è?», chiese l’agente, rimanendo sbalordito di fronte ai suoi occhi stanchi e allo stesso tempo fiammeggianti.
«È il nostro turno, Michael. Grazie a Lionel potremmo provare noi a sfruttare Bryant per arrivare all’organizzazione criminale».
Michael si massaggiò una tempia. «Non ti seguo».
Grace ripeté, provando ad essere un po’ più chiara, e quando riuscirono ad intendersi Michael le strinse le spalle con le mani, anche lui contagiato dalla sua determinazione.
«Chiamo subito la base a Los Angeles. Farò in modo che gli trovino subito una casa sicura dove potersi nascondere e che gli creino un certificato di morte».
«Dobbiamo fare in fretta, non sappiamo con certezza di quali tecnologie dispongono, può darsi che siano in grado di infiltrarsi nei computer dell’ospedale e…».
«Lascia fare a me. Tu intanto avvisa Lionel del piano».
Grace annuì e lo guardò mentre correva lungo il corridoio con il cellulare già all’orecchio.
«Ah!», gridò, chiamandolo di nuovo. L’agente si voltò e Grace fece una corsetta verso di lui per non dover urlare.
«Non devi più far ricercare Bryant, ovviamente. Dobbiamo fargli credere che secondo noi lui è un sopravvissuto all’organizzazione».
«Hai ragione, ma… come pensi di contattarlo?».
«Non lo so», sospirò. «Ci penseremo più avanti».
«Va bene». Le rivolse un breve sorriso, poi svoltò l’angolo, lasciandola sola nel corridoio.
Grace tornò indietro e quando fu di fronte al letto di Lionel scostò di un poco la tenda che proteggeva la privacy del paziente, accorgendosi di Lionel, sveglio e con gli occhi sgranati.
«Ehi, va tutto bene?», gli chiese preoccupata, infilando una mano nella sua.
Lionel la strinse forte e la guardò negli occhi. «Carter…».
«Carter? Che cosa c’entra lui adesso?».
«Grace, pensaci: è stato Bryant a dirci della sua morte. Noi abbiamo provato a cercare notizie in proposito e, non trovando niente, abbiamo creduto alla storia dell’insabbiamento del caso, ma se fosse… se in realtà fosse ancora vivo? Se Bryant ci avesse mentito?».
Grace sentì il proprio cuore mancare un battito e il sangue gelarsi nelle vene, mentre l’ennesimo pezzo del puzzle finiva al suo posto, in un quadro che stava pian piano diventando sempre più nitido, ma anche sempre più agghiacciante.

***

«Signorina, è ora di svegliarsi…».
Molly aprì lentamente gli occhi e vide la governante dirigersi verso le pesanti tende tirate sulle porte vetrate che davano sul balcone.
«No, lascia», gracchiò un momento prima che la donna le aprisse per far entrare la luce del sole che l’avrebbe come minimo accecata. Si tirò seduta sul letto e stirò un sorriso ancora mezzo addormentato. «Faccio io».
La governante la guardò con cipiglio perplesso, ma non le chiese nulla ed uscì, dicendole che la colazione sarebbe stata pronta in qualsiasi momento. Molly annuì e si rannicchiò di nuovo sotto le coperte, sbuffando.
All’improvviso sentì una scossa al cuore al pensiero che aveva atteso quel giorno con tanta trepidazione per una settimana: dopo scuola sarebbe andata a casa di Aiden per studiare con lui storia.
Animata dall’emozione crescente, si alzò in fretta e furia, aprì le tende di scatto e con gli occhi piccoli, infastiditi dalla luce del sole, aprì le porte vetrate per far entrare un po’ d’aria fresca, dolce grazie ai fiori del rigoglioso giardino e salmastra a causa dell’oceano in lontananza. Poi si fiondò nell’armadio, dove rimase un’eternità a scegliere i vestiti da indossare: alla fine optò per un cardigan bianco di cotone leggerissimo e dei jeans celesti, entrambi firmati Armani. Ai piedi indossò un paio di ballerine.
Si truccò pochissimo, pettinando giusto un po’ le ciglia con il mascara, e poi si spazzolò i capelli, decidendo di lasciarli lisci sulla schiena ma infilandosi comunque un elastico al polso.
Quando scese al piano inferiore e raggiunse la sala da pranzo, trovò seduti al lungo tavolo di noce sia sua madre che suo padre, la prima che beveva una tisana e il secondo che si gustava il suo caffè con il Wall Street Journal di fronte al naso.
«Oh, buongiorno tesoro», la salutò sua madre, non appena si accorse della sua presenza.
«’giorno», rispose Molly sedendosi di fronte a lei e alla sinistra di suo padre, il quale posò una mano sulla sua e le sorrise.
«Dormito bene?», le domandò ancora sua madre, unendo le mani sotto al mento.
La governante le mise subito davanti al viso la sua tazza di caffellatte e i suoi cereali preferiti, più delle fette biscottate con la Nutella e la marmellata, delle brioche e un bicchiere di succo d’arancia.
Molly ringraziò, poi rispose: «Sì, molto bene, grazie».
«Oggi cosa ti aspetta a scuola?».
«Niente di particolare… Piuttosto, vi ricordate che vi avevo detto che oggi pomeriggio mi sarei fermata da un mio amico a studiare, vero?».
«Ma certo!», squittì la donna, guardando il marito e pizzicandogli il braccio per stimolarlo a rispondere allo stesso modo.
Mr. Delafield le lanciò un’occhiata ed abbassò il giornale, tornando ad accarezzare la mano della figlia. «Tesoro, come avremmo potuto dimenticarcene? Anche se non capisco per quale motivo tu non l’abbia invitato qui».
«Ah, beh, io…». Molly, rossa d’imbarazzo, abbassò il viso sulla sua tazza di cereali.
«Un giorno ce lo farai conoscere questo tuo amico, vero tesoro?»
La ragazza rischiò di strozzarsi all’udire quelle parole, ma nessuno dei due se ne accorse, perché suo padre aveva subito dolcemente rimproverato la moglie.
«Cara, non metterle pressioni… sono solo amici!».
«E allora? Io voglio conoscere gli amici di mia figlia!».
Molly li guardò scambiarsi ancora un paio di battute del genere, poi finì il suo caffellatte e decise di darsela a gambe, prima che sua madre le chiedesse qualcos’altro.
«Sono in ritardo, è meglio che vada», esclamò, alzandosi in piedi. «Ci vediamo stasera, buona giornata!».
Si diresse a passo spedito verso il salotto, senza voltarsi nemmeno quando i suoi genitori ricambiarono il saluto e sua madre le urlò: «Ricordati che stasera tuo padre deve andare a quel ricevimento e noi dobbiamo accompagnarlo!».
Una volta in camera sua prese la borsa a tracolla e il cellulare, che vibrò proprio mentre ce lo aveva fra le mani. Tolse il blocco dal touchscreen e notò che le era arrivato un messaggio da parte di Grace.
«Scusa Molly, ti chiamo appena posso, te lo prometto», lesse ad alta voce e sbuffò infastidita, fino a quando non notò l’ora a cui gliel’aveva mandato: le quattro di notte.
Dal fastidio di non averla ancora sentita dopo il viaggio a Berlino e tutto ciò che vi era collegato, passò a provare un senso di preoccupazione: doveva essere successo qualcos’altro e non saperlo era la cosa peggiore, perché le sue supposizioni erano una peggio dell’altra.
Per distrarsi si disse di pensare ad altro. Provò a concentrarsi su Aiden, ma non funzionò perché la sua mente le mostrò l’immagine di Tom. Chissà come doveva sentirsi, così lontano dalla ragazza che amava e a cui in quel periodo ne capitavano di tutti i colori…
Guardò l’ora sull’orologio che aveva al polso e si chiese che ora fosse nel centro Europa, fece il calcolo sulle dita delle mani e decise di lasciar perdere: non era il caso di chiamarlo, rischiava ancora una volta di risultare un’impicciona senza delicatezza, proprio come era successo quando erano circolate in rete quelle maledette foto.
Ancora non poteva credere di essersi davvero lasciata travolgere dai pettegolezzi infamatori dei mass-media, che descrivevano Tom – il suo Tom! – come un uomo irascibile capace di picchiare la sua fidanzata, prendendo come esempio quello che era successo
forse tempo prima tra due famose popstar: Chris Brown e Rihanna.
Era anche vero che il giorno dopo il chitarrista l’aveva chiamata e le aveva spiegato bene o male tutto quello che era successo, rassicurandola e scusandosi per la sua sfuriata, ma Molly si era sentita davvero una stupida e non voleva rischiare di cascarci di nuovo, anche se era in pensiero per Grace.
«Signorina, è pronta? L’autista la sta aspettando!», gridò la governante ai piedi delle scale.
«Arrivo!».
Molly fece un respiro profondo ed uscì dalla sua stanza infilando l’iPhone nella borsa.


Scese dall’auto – la più economica che ci fosse nel garage di suo padre – e salutò il suo autista con una mano, poi si diresse verso l’entrata. Ancor prima di raggiungere le porte vetrate, però, qualcuno alle sue spalle le infilò un cappellino sulla testa e le coprì gli occhi con le mani.
Molly si irrigidì e il cuore iniziò a batterle velocemente nella cassa toracica, pensando ai cappellini colorati senza i quali Aiden non andava mai in giro. Con delicatezza portò le mani su quelle che le stavano impedendo di vedere di fronte a sé e le accarezzò. Ad un certo punto toccò la superficie liscia e metallica di un anello e con orrore si disse che non aveva mai visto Aiden portarne.
Strinse quelle mani, senza paura di poterle graffiare con le unghie, e bruscamente se le levò dal viso per potersi voltare. La persona che vide dietro di sé le fece quasi venire il voltastomaco. E pensare che l’aveva pure scambiato, speranzosamente, per Aiden!
«Nigel, ma che fai?!», gridò cercando il più possibile di contenere la sua voce fastidiosamente stridula. Era così che le diventava quando era nervosa.
«Scusa, non pensavo… Volevo solo sapere se venivi alla partita, oggi pomeriggio».
Molly boccheggiò per qualche secondo, poi strinse i pugni lungo i fianchi ed assottigliò gli occhi.
«Mi dispiace, ma oggi pomeriggio ho già un impegno. E adesso devo proprio andare».
Si voltò per entrare nell’edificio scolastico, ma quando fu con la mano su una maniglia delle porte vetrate si ricordò del cappellino della squadra di baseball che Nigel le aveva messo sul capo e glielo riconsegnò. Quindi se lo lasciò definitivamente alle spalle con un sospiro di sollievo, anche se tutte le ragazze che li conoscevano l’avevano guardata male come al solito mentre percorreva i corridoi.
Se lo volevano tanto che se lo prendessero pure, accidenti!
Prese alcuni libri dall’armadietto – per fortuna quel giorno non ci aveva trovato dentro nessun tipo di regalo – e raggiunse il laboratorio di chimica, dove si sarebbe svolta la prima ora.
Da quando aveva avuto quella specie di litigio con Ben e Sheila aveva sempre fatto in modo di non arrivare in anticipo, ma quella mattina se n’era completamente dimenticata dopo l’assalto di Nigel. Per questo non aveva calcolato che avrebbe sicuramente trovato Ben, lo realizzò solo quando ormai era troppo tardi, ossia quando i loro sguardi si incontrarono.
«Ciao», lo salutò piano, chinando subito il capo.
Lui ricambiò con un piccolo cenno che gli fece cadere i capelli sugli occhi e gli occhiali sulla punta sul naso.
«Come mai così presto, questa mattina?», le chiese anche lui a bassa voce, come se non fossero gli unici in quella stanza.
Molly, sempre a testa bassa, fece qualche passo tra le file di banchi pieni di strumenti per studiare gli elementi e fare esperimenti, fino a raggiungere quella che aveva scelto Ben, seduto su uno sgabello alto.
«Sono… sono scappata da Nigel».
Il ragazzo accennò una risatina. «Addirittura scappata?».
Anche Molly riuscì a sorridere, lasciando la borsa accanto allo zaino dell’amico. «Sì, ormai è… è un’ossessione, non so più come fare a levarmelo di dosso».
Sospirò guardando il suo profilo e gli accarezzò un ciuffo di capelli neri, appiattendoglielo contro l’orecchio. «Mi dispiace per come mi sono comportata quella volta, mi dispiace non averti subito chiesto scusa, mi dispiace non averti parlato fino ad adesso…».
Ben si voltò e la guardò negli occhi. «Se solo tu mi avessi lasciato spiegare… Sheila ha consegnato tutte le foto che aveva scattato alla partita, come al solito, ma sono state quelle smorfiose della sezione di gossip che hanno scovato quella foto e hanno deciso di pubblicarla con tanto di articolo. Io e Sheila – soprattutto Sheila – ci siamo opposti».
Molly si sentì una completa idiota e trattenne le lacrime, stendendo le braccia verso di lui e cingendogli il collo.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto…».
«È tutto a posto adesso, dai», la confortò, accarezzandole i capelli sulla schiena.
«E per quanto riguarda Sheila? Tu non potresti…?».
«Ah-ah», l’allontanò cingendole le spalle e la guardò negli occhi con un sorrisino sulle labbra. «Devi chiedere scusa anche a lei. Non fare quella faccia, non ti mangia!».
Molly sbuffò e si sedette al suo fianco, sconfortata, quando suonò la campanella e tutti i loro compagni entrarono nel laboratorio, tra cui anche Nigel, che si sistemò all’ultimo banco, come sempre. Le rivolse uno dei suoi più bei sorrisi, ma a Molly non sortivano più alcun effetto, se non un po’ di giustificato fastidio.
«Oh, Dio, ma fa sempre così?», le domandò Ben all’orecchio, sconvolto.
«Sì», mugugnò lei.
Incrociò il suo sguardo e scoppiarono a ridere a bassa voce, una cosa che riuscì a farla felice dopo tanto tempo.
Quanto gli era mancato, se ne rese conto solo in quel momento.

***

«Fatti una bella dormita, mi raccomando».
Grace sorrise e scese dall’auto federale di Crawford. Chiuse la portiera e subito dopo gli fece abbassare il finestrino, in modo che potesse appoggiarsi ed infilare di nuovo la testa all’interno dell’abitacolo.
Michael la guardò negli occhi e gli bastò soltanto quello per capire. Sospirando, disse: «Prima o poi vi racconterò ogni cosa».
La detective gli rivolse un altro sorriso, lo salutò ed entrò nel suo condominio. Salì le scale sentendo le ginocchia deboli e si stropicciò gli occhi prima di entrare in casa: aveva davvero bisogno del suo letto.
«Grace! Oh, amore mio…».
Sua madre la strinse in un abbraccio quasi soffocante, sia per la forza con cui l’aveva stretta a sé sia perché Grace non si aspettava di vederla. Come non pensava di vedere Dylan seduto sul divano in salotto, con gli occhi lucidi di sonno e la trama del cuscino stampata sulla guancia.
«Ma che ci fate qui?», domandò, spostandosi dal viso i capelli rossi di sua madre e ricambiando l’abbraccio senza energie. «Anzi no, non voglio saperlo», si corresse. «Voglio solo andare a dormire».
Melanie annuì, accarezzandole il viso sciupato, e l’accompagnò nella sua stanza, seguita dal poliziotto.
Grace si spogliò e in maglietta intima e slip si rannicchiò sotto al lenzuolo.
«Ah», mugugnò ad un tratto, quando i due si stavano chiudendo la porta alle spalle per lasciarla riposare. Prese il cellulare dalla borsa e lo lanciò a Dylan, il quale lo prese al volo e lo guardò confuso.
«Se Tom dovesse chiamare, ma non credo, digli che sono andata in letargo», stiracchiò un sorriso, poi nascose la testa sotto al cuscino.
Il poliziotto sorrise a sua volta e chiuse la porta della camera. Tornò in salotto con la madre della ragazza, declinando gentilmente la tazza di tè che gli aveva offerto, e si stese di nuovo sul divano. Con due dita si massaggiò le palpebre pesanti, quindi lasciò il cellulare di Grace sul tavolino lì di fronte e lo fissò fino a quando il sonno non lo prese di nuovo tra le sue grinfie.
Si era addormentato da poco, o così almeno credeva, quando si svegliò all’improvviso a causa delle vibrazioni che lo shakeravano sulla superficie in legno chiaro. Senza pensarci né guardare chi fosse, lo prese in mano e se lo portò all’orecchio.
«Pronto?».
«Dylan? Che cosa…? Perché tu…?».
Schizzò seduto sul divano, di nuovo vigile. «Tom! Ma che diavolo di ore sono da te? È il cuore della notte! Che ci fai sveglio?».
«Grace mi ha inviato un messaggio un’ora fa e mi sono svegliato adesso… Tu vuoi dirmi che cosa cazzo ci fai con il suo cellulare?».
«Me l’ha affidato prima di crollare addormentata, nel caso tu chiamassi…».

In effetti non ha pensato che noi ancora non ci parliamo per quello che è successo… O forse sì.

«Ah. Quindi… dorme?».
«Sì, decisamente. Però sta bene, tranquillo».
«E per quanto riguarda quello che è successo? Mi stava spiegando, quando mi ha sbattuto il telefono in faccia!».
Dylan si inventò una balla, perché Crawford lo aveva avvertito del loro ultimo piano e di conseguenza non poteva dire a nessuno che l’ex-marine era sopravvissuto. Anzi, doveva darlo per morto!
Per qualche assurda ragione Tom gli credette, dopodiché rimasero per qualche secondo in silenzio, senza più sapere cosa dirsi.
Ad un tratto il poliziotto sospirò e si passò una mano fra i capelli neri. «È… è meglio che tu torni a dormire, ora».
«Decido io cosa è meglio per me», rispose bruscamente, per poi abbassare il tono di voce: «E voglio risolvere la questione una volta per tutte. Mi dispiace per come mi sono comportato quella sera in ospedale, mi dispiace di averti ritenuto colpevole e di averti detto quelle cose…».
Dylan sorrise. «Tom, se fosse stato per me sarebbe finito tutto il giorno dopo, perché le tue parole non mi avevano neanche scalfito: stavo semplicemente male di mio, per non essere riuscito a proteggere Grace, e poi perché tu ti eri accanito così contro tuo fratello, nient’altro. Potevi anche evitare di scusarti».
«Cazzone», disse fra i denti il chitarrista, lasciandosi andare ad una risata liberatoria. «È bello… è bello che tu ti sia preoccupato di Bill. Sai, mi ha detto…».
«Ahm, scusami Tom, mi sa che devo proprio andare! Melanie ha bisogno di me! Ci sentiamo eh, buonanotte!».
Pose fine alla chiamata e guardò il soffitto, poi si passò le mani sul viso e trattenne una risata fra le labbra.

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Ma buonasera! :D
Un capitolo ricco di novità sconvolgenti, eh?! Spero che l'effetto sia stato proprio quello che viene definito "a sorpresa"!
Innanzitutto, l'agenda del padre di Grace è finita al sicuro nella sede dell'FBI in cui lavora Michael e si è capito a grandi linee che il caso di cui si occupava Mitch era piuttosto grave: corruzione ai piani alti della Marina Militare degli Stati Uniti, in cui c'entra un certo attentato a Baghdad di cui si parlerà ancora...
Poi, la chiamata di Lionel, quasi morto dissanguato a Tijuana. E, sorpresa!, è stato il caro Bryant a sparargli. Ha sempre fatto il doppio gioco... Chi se n'era accorto prima? xD
E poi, altra cosa sconvolgente... L'ipotesi che Carter in realtà sia vivo. Voi che ne pensate? E' possibile?
Ora, cambiando argomento, ma restando nel campo dell'FBI, iniziamo a scoprire qualcosa sul personaggio di Michael Crawford: una parte dolorosa del suo passato, il motivo per cui preferiva lavorare da solo prima dell'arrivo di Grace e Dylan... insomma, finalmente entriamo un po' anche nella sua testa! Ve l'aspettavate? u.u In ogni caso, ci sarà tempo anche per parlare di questo.
Passando invece a Bill/Tom/Dylan, questo strano triangolo (no cose strane, eh xD) tutto si è all'incirca sistemato: Bill si è confidato con Tom, Tom e Dylan si sono parlati civilmente e il cielo pare rasserenarsi.
Per ultima, ma non meno importante, c'è Molly! Nigel non demorde, eh xD E chi è stato attento al loro breve scambio di battute ha colto una cosa importante... staremo a vedere nel prossimo capitolo ;) Tra l'altro, Molly deve andare a studiare da Aiden e... voi non siete impazienti? Beh, io sì xD Quindi direi che è arrivato il momento di smetterla di blaterare, ho scritto un papiro o.o
Vi aspetto domenica prossima e ringrazio ancora chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate e chi legge soltanto :) Un bacio! Vostra,

_Pulse_


P.S. Ah! Per quanto riguarda le canzoni in questo capitolo, oltre a quella introduttiva, a cui ho già dato un autore e un titolo tra parentesi, quella che canticchia Grace nell'auto di Crawford, mentre vanno a Tijuana, è la stupenda "Warning sign" dei Coldplay ;)

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Capitolo 26
*** Capitolo 24 ***


Capitolo 24

“Young love is taking me over, your love
I’m losing control, my heart stops, stops when I get close to you,
like lightning striking out of the blue”

(Young love – Jedward)

Ben, col suo vassoio del pranzo fra le mani, si diresse verso i tavoli all’aperto seguito da Molly, la quale gettò uno sguardo verso quello di Nigel incontrando subito il suo viso e il posto vuoto che le riservava ogni giorno, instancabilmente.
Si voltò di nuovo e vide che Ben si era già seduto di fronte a Sheila, la quale la stava osservando con una mano stretta a pugno sulla guancia. Molly arrossì e si sistemò accanto al ragazzo, più che a disagio di fronte ai suoi occhi blu, soprattutto ora che sapeva che era sempre stata nel torto.
«Che bella sorpresa», disse Sheila senza entusiasmo, tornando a mangiare le sue patatine fritte.
Molly incrociò lo sguardo di Ben, lui le rivolse un sorriso incoraggiante e si rivolse all’amica: «Sheila, ascoltala, per favore. È importante».
«Ascolto con le orecchie, non con gli occhi».
Molly deglutì e guardando la tovaglietta di carta iniziò a parlare: «Voglio scusarmi per quello che è successo, per aver creduto che voi… in particolar modo che tu avessi fatto apposta a lasciare quella foto alla redazione del giornale. Puoi perdonarmi?».
«Avresti potuto venirmene a parlare direttamente, invece di farti tutti i tuoi film ed accusarmi ingiustamente. Tuttavia…». Sheila sollevò gli occhi blu per incontrare quelli azzurri della biondina e scrollò le spalle. «Sì, penso di poterti perdonare».
Il viso di Molly si illuminò con la comparsa di un sorriso felice. «Allora… amiche?». Arrossì subito, perché mai con Sheila era riuscita a pronunciare quella parola, ma si sorprese quando anche la ragazza si lasciò scappare un sorrisino, annuendo con un cenno del capo.
«Ma ti avverto, non sarà una passeggiata avere noi due come amici», indicò sia lei che Ben, il quale in quel momento stava facendo scorrere con le dita delle pagine sul touchscreen del suo cellulare, e poi i compagni alle sue spalle. Molly si voltò e molti ragazzi e ragazze deviarono il suo sguardo, smettendo di borbottare e scrivere velocemente sulle tastiere dei loro telefonini.
«Guardate qua».
Ben mostrò alle ragazze ciò che i loro compagni avevano scritto su Facebook, sotto l’ultimo stato di Nigel, sempre più disperato che Molly non lo calcolasse: commenti di ragazze più simili a vipere che sibilavano cattiverie coinvolgendo anche i nuovi amici “sfigati” che Molly si era scelta, dicendo che stare tra “la feccia” era solo un modo per apparire migliore agli occhi degli altri.
Molly stava per alzarsi e scatenare l’inferno di fronte a tutti quei vigliacchi che non sapevano nemmeno dire le cose in faccia, ma Ben la prese per mano e la tenne seduta al suo fianco.
«Lasciali perdere, non ne vale la pena».
Molly, il viso rosso ed accartocciato in un’espressione irata, guardò di nuovo alle sue spalle e in particolar modo fissò Nigel, a cui lanciò uno sguardo infuocato. Il ragazzo nascose il collo fra le spalle e da vero codardo qual era si voltò verso i suoi amici del club degli sportivi e dei popolari, facendo come se nulla fosse.
«Non mi importa quello che dicono su di me», disse Molly con convinzione, guardando prima Ben e poi Sheila. «Ma non devono azzardarsi a parlare male di voi. Siete gli unici veri amici che ho qui dentro».
Sheila, anche se era rimasta piacevolmente sorpresa dalle sue parole, si disegnò un sorrisino malizioso sulle labbra. «Oltre ad Aiden».
Molly sentì il proprio viso avvampare e posò lo sguardo sull’albero del giardino sotto il quale qualche volta aveva trascorso la pausa pranzo con lui.
«Si vede così tanto?», domandò con poca voce.
Sheila scrollò ancora le spalle. «Tutti se ne sono accorti, tranne Nigel: sembra che non ci voglia credere».
La bionda sospirò e bevve un sorso d’acqua dalla sua bottiglietta. Poi confessò: «Dopo scuola dovrei andare a casa di Aiden a studiare storia».
«Se me lo dicevi potevamo trovarci tutti insieme!», intervenne Ben, punto nel vivo, ma Sheila gli rivolse un’occhiata che gli fece capire che Molly aveva volutamente fatto in modo che fossero solo lei ed Aiden. «Oh, ho capito. E perché non ne sembri sicura?».
«Ancora non l’ho visto».
«Magari non aveva voglia di venire ed è rimasto a casa. È normale per lui», tentò di rassicurarla Sheila.
Molly guardò ancora l’albero e per un attimo vide lei ed Aiden che ridevano, prendendosi in giro a vicenda sui loro pranzi. Quando sbatté le palpebre anche quell’immagine sfocata svanì e dovette costringersi a mangiare qualcosa.


La campanella decretò la fine delle lezioni e Molly, dopo aver salutato Ben e Sheila, schizzò in bagno per darsi una veloce sistemata prima di incontrare Aiden.
Durante l’ultima ora, infatti, le aveva mandato un SMS, dicendole che non si era dimenticato del loro appuntamento e sarebbe venuto a prenderla fuori da scuola.
L’emozione l’aveva quasi mangiata viva, ma era riuscita a trattenersi e a fare come se nulla fosse fino alla fine, quando non aveva più resistito e aveva travolto con la sua gioia anche i suoi amici.
Una volta di fronte allo specchio si guardò i capelli biondi e gli diede una rapida spazzolata con il pettine che portava sempre in borsa, poi si chiuse in uno dei bagni per fare pipì.
Si era appena tirata su i jeans, quando sentì le voci stridule di due ragazze, più una terza che tentava debolmente di rispondere agli insulti. Quella di Breanne.
«Ma cosa ti è saltato in mente?! Difendere Molly di fronte a tutti! “Non dovremmo dire queste cattiverie, non se le merita” e bla bla bla!».
«Ma Megan, io non volevo…».
«Ah, non voglio più sentire nulla! Penso che ti troverai bene con lei e la sua banda di emarginati, visto che se non fosse stato per me avresti trascorso il tempo proprio come loro, obesa!».
Quella fu l’ultima goccia e Molly azionò lo sciacquone, quindi uscì dal bagno come se nulla fosse ed accese l’acqua di un rubinetto per lavarsi le mani.
«Ciao ragazze», salutò le due smorfiose, sorridendo candidamente. «Tutto a posto?».
«Sì», risposero a denti stretti, per poi lanciare uno sguardo gelido a lei come a Breanne.
Quando uscirono dal bagno, la ragazza scoppiò definitivamente in lacrime e Molly sospirò, prendendo dei pezzi di carta per asciugarsi le mani e due in più per Breanne.
«Quelle due non meritano le tue lacrime, te l’assicuro», le sussurrò, accarezzandole un braccio.
«Mi hanno… mi hanno chiamata obesa!».
Molly percorse con lo sguardo Breanne e, oggettivamente, sotto gli abiti griffati, i profumi e i trucchi costosi, lo era. Ma aveva un bel viso, un viso dolce e amichevole che Molly ricordava con particolare affetto quando ripensava al suo primo giorno di scuola. Era stata lei la sua prima compagna di banco e l’aveva trovata subito carina e gentile, che fosse grassa o meno non le era interessato.
«Sono orribile…».
«No che non lo sei», disse Molly sorridendole. «Io ti trovo molto bella, Breanne, e non lo dico per tirarti su di morale. Sei bella perché hai un bel sorriso, perché il colore dei tuoi occhi è bello; sei bella perché sei sempre stata gentile con me e da quello che ho potuto capire hai litigato con le tue amiche del club del gossip a causa mia».
Breanne annuì, asciugandosi le lacrime e tirando su col naso. «Non trovavo giusto che scrivessero quelle cattiverie su di te su Facebook…».
«Hai fatto bene a dire quello che pensavi e se loro non lo accettano vuol dire che non sono né sono mai state tue amiche». Poi aggiunse: «Grazie, grazie davvero Breanne».
La ragazza ricambiò il sorriso e strinse la biondina in un abbraccio. «Vuoi essere mia amica, Molly?».
«Lo siamo già», le fece l’occhiolino. «Ora devo scappare, ci vediamo domani!».
«Come? Non ti fermi a vedere la partita di baseball?».
Molly si morse le labbra e ricordò il giorno in cui lei ed Aiden si erano messi d’accordo per studiare insieme storia. Lui aveva proposto quel giovedì e solo quella mattina Molly ne aveva capito il motivo: era il giorno della partita di baseball in cui lui, non essendo stato convocato a causa del pugno tirato a Nigel, non avrebbe giocato.
«No, ho un altro impegno. Ciao!».
Uscì in fretta dal bagno e corse lungo i corridoi ormai vuoti e silenziosi. Una volta nella piazza di fronte all’edificio scolastico, anch’essa deserta, si guardò intorno ed incrociò quasi subito gli occhi scuri di Aiden, il quale l’abbagliò con un piccolo sorriso.
«Pensavo ti fossi persa! Di nuovo».
Molly ridacchiò e lo raggiunse. «Scusami, c’è stato un piccolo… imprevisto».
Incuriosito, corrugò la fronte. «Che tipo di imprevisto?».
«Ti spiego strada facendo?».
«Okay, allora monta sul mio destriero!».
Molly rise e si sedette di traverso sulla canna della sua bicicletta, fra le sue braccia forti che controllavano il manubrio.
«Pronta?», le chiese all’orecchio. Molly sentì il cuore batterle sempre più velocemente, ma annuì e si tenne forte per non cadere, anche se sapeva che Aiden non l’avrebbe mai permesso.
Per raggiungere casa sua ci vollero circa venti minuti, visto che più o meno era nello stesso quartiere della scuola, anche se nella zona più periferica, e Molly ebbe tutto il tempo per spiegargli ciò che era successo a Breanne poco prima.
«C’è un sacco di brutta gente in questa scuola, imparerai a farci l’abitudine», convenne Aiden, sospirando.
«Io non voglio farci l’abitudine, voglio che la smettano e basta!».
«Hai un costume da paladina della giustizia nell’armadio, per caso?».
Molly sorrise, prendendola con ironia. «Tipo Wonder Woman?».
«Staresti molto bene col suo costume stelle e strisce, ne sono sicuro, ma non penso davvero che tu possa fare qualcosa per fermare quel branco di palloni gonfiati: se la prendono con i più deboli, l’hanno sempre fatto e continueranno».
La ragazza cadde in un profondo silenzio, l’espressione corrucciata e pensosa, col vento che le scompigliava i capelli.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto bruscamente quando Aiden le chiese: «Piuttosto, hai fatto pace con Ben e Sheila?».
Durante una delle pause pranzo trascorse insieme gli aveva raccontato pure della situazione che si era creata con gli unici amici che aveva, confidandogli tutti i suoi sentimenti. Era facile parlare con lui, sempre che i loro discorsi non riguardassero… beh, lui.
«Sì, proprio oggi, con entrambi».
«Sono felice per te», disse e, guardando il suo sorriso, poteva anche essere che lo fosse davvero. «Sono due tipi a posto, anche se parecchio strambi, devo ammetterlo».
«Che cos’hanno per essere definiti strambi, posso saperlo?».
«Beh… Ben è un genio della matematica e dell’informatica e alcuni dicono che la sua stanza sia piena di computer e formule matematiche scritte sui muri…».
«Certo, e io sono Cenerentola!», esclamò Molly, rovesciando gli occhi. «Davvero credi alle voci di corridoio?».
«No, però… Devo dire che ce lo vedo!», ridacchiò. «Niente in contrario, comunque».
«E Sheila?».
«Lei è un po’, come dire… lunatica. Strano che tu non abbia mai sentito il suo soprannome».
«Quale, Moody? L’ho sentito da Nigel il primo giorno, ma non credo che lei sia…».
«Fidati, lo è», la interruppe, parlando con un tono di voce fin troppo serio. «E non nel senso che cambia spesso umore e cose del genere, è proprio una cosa seria, una patologia. Credo che in questo periodo stia prendendo i suoi farmaci, perché passa quasi inosservata».
Molly, scioccata, non trovò nulla da dire e rimase in silenzio fino a quando Aiden non si fermò e la prese per mano per aiutarla a scendere dalla bici, dicendole che erano arrivati al suo “castello”. La ragazzina milionaria alzò il viso per guardare il condominio in cui Aiden le aveva detto che si trovava il suo appartamento e si chiese se le stesse facendo uno scherzo. Già il fatto che Aiden avesse un appartamento tutto suo l’aveva lasciata a bocca aperta, se poi si parlava di condominio
«Quindi abiti davvero da solo?», gli domandò mentre salivano le scale, lui in testa.
Aiden sorrise e tirò fuori le chiavi dalla tasca dei jeans. «Sorpresa?».
«Beh… sì».
«Me l’ha comprato mio zio. Lui paga le bollette e cose del genere, ma per il resto faccio tutto io, dal bucato ai piatti. Prego».
Aiden le aprì la porta e si fece da parte per farla entrare per prima. Molly gettò un rapido sguardo all’interno, poi si pulì i piedi sullo zerbino ed entrò.
Si trovò in un piccolo ingresso che dava da una parte sulla cucina abitabile, a cui si accedeva salendo un paio di gradini, e dall’altra su un salotto sviluppato più in lunghezza che in larghezza, che si concludeva con due porte vetrate che davano su una terrazza. Se invece Molly guardava di fronte a sé, poteva vedere uno stretto corridoio che doveva portare al bagno e alla camera da letto di Aiden.
«Scusa il casino, stamattina non ho fatto in tempo a sistemare tutto».
In effetti c’era un po’ di disordine, come per esempio i CD sparpagliati sul tavolino di fronte al divano e le riviste di auto aperte sul pavimento in salotto, ma era bello, perché poteva cogliere la vera essenza di Aiden in tutti gli oggetti che riempivano gli spazi e che i suoi occhi catalogavano minuziosamente.
Molly si voltò verso di lui e quando anche lui si girò, dopo aver chiuso la porta, i loro sguardi si incrociarono. Lei arrossì, ma coraggiosamente esclamò: «È semplicemente fantastico».
Aiden si portò una mano dietro la nuca ed accennò un sorriso imbarazzato. «Sì, piace anche a me».
Si tolse il cappellino e lo lanciò sul divano, poi la superò per dirigersi in cucina. «Hai sete? Un bicchiere di Coca?».
«Molto volentieri, grazie».
Molly fece qualche passo nel salotto e lasciò la borsa a tracolla accanto al divano, osservando la parete su cui era installato il televisore a schermo piatto e rimanendo particolarmente affascinata da una fotografia in bianco e nero che Aiden aveva fatto ingigantire: due ragazzi di colore, un uomo e una donna col pancione, sorridenti e felici di essere l’uno nelle braccia dell’altro seduti intorno ad un tavolo all’aperto di un bar.
«Molly».
La ragazza si voltò e vide Aiden con lo sguardo fisso sulla stessa fotografia che aveva guardato lei fino ad allora, una mano ancora sulla bottiglia di Coca Cola e un’espressione triste sul viso.
Molly si morse l’interno della guancia e lo raggiunse in cucina, provando a sorridergli quando prese uno dei due bicchieri e lo ringraziò.
Quando tutti e due posarono di nuovo i bicchieri sul tavolo, gli chiese: «Dove ci mettiamo a studiare?».
Aiden scrollò le spalle, tornando a sorridere. «Possiamo stare qui, oppure fuori in terrazza, se preferisci».
«Davvero possiamo stare in terrazza? Sarebbe perfetto».
«Okay. Tu inizia ad avviarti, io vado a prendere i libri».
Molly annuì e lo vide sparire in corridoio. Prese la borsa in salotto e ridacchiando spostò la maglietta che Aiden aveva lasciato sulla maniglia delle porte vetrate, poi uscì. Alzò subito lo sguardo verso il cielo, arricciando il naso di fronte alle nuvole che ogni tanto oscuravano il sole, ma non si lasciò intimorire e si avvicinò al tavolino di alluminio circondato da quattro sedie con lo schienale traforato. Appese la tracolla ad uno di essi e si appoggiò al parapetto per osservare la città di grattacieli e palme, scorgendo persino l’oceano agitato in lontananza.
«Una bella vista, vero?».
Molly si voltò e guardò Aiden mentre posava i suoi libri sul tavolino, per poi raggiungerla sorridendo.
«È ancora più bella di notte, con le luci dei grattacieli e delle auto in strada».
«Aiden, perché vivi qui da solo?», gli chiese ad un certo punto, interrompendo il silenzio che li aveva avvolti stando appoggiati lì, a guardare il panorama urbano.
«Sto meglio da solo, con le mie cose e senza che nessuno si occupi di me ventiquattr’ore al giorno».
«E non soffri di solitudine?».
Aiden non rispose, anche se la sua espressione, triste come quella che gli aveva visto poco prima, parlò da sé. A salvarli dall’imbarazzo ci pensò il cellulare di Aiden, che iniziò a vibrare insistentemente nella tasca dei suoi jeans.
«Scusami un attimo», le disse prima di allontanarsi un po’, tornando all’interno del salotto.
Molly provò a farsi gli affari suoi, ma sentì comunque parte della conversazione.
«Mi dispiace zio, lo so che sto facendo molte assenze, ma stamattina non mi sentivo bene. Sì, ti ho già detto che verrò stasera, non ti preoccupare. Va bene, okay, ciao».
Quando Aiden tornò da lei, per fortuna gli era tornato il sorriso.
«Allora, parliamo dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America?».
Molly annuì e si sedette di fronte a lui, pronta per quella full-immersion nella storia del loro Paese.


«Perché si festeggia il 4 Luglio?».
«Perché il 4 Luglio 1776 il Congresso continentale adottò la Dichiarazione d’Indipendenza, un documento formato da tre parti: la dichiarazione dei principi relativi ai diritti dell’uomo e alla legittimità della rivoluzione, l’elenco delle accuse contro il re, Giorgio III d’Inghilterra, e la formale dichiarazione d’indipendenza».

«La Dichiarazione d’Indipendenza fu redatta dalla cosiddetta Commissione dei Cinque… Sapresti dirmi da chi era formata?».

«Li so, li so». Molly fece un respiro profondo e socchiuse gli occhi nello sforzo di ricordare tutti e cinque i nomi.

Aiden non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere di fronte alla sua espressione buffa. La ragazza si distrasse e, contagiata, gli tirò uno schiaffetto sul braccio.

«Non farmi ridere, stupido! Allora c’era Thomas Jefferson, il più importante…».

«Scusa, scusa ma non ci riesco!», disse continuando a ridere, tenendosi la pancia. «Avresti dovuto vedere la tua faccia!».

Molly si addossò allo schienale della sedia incrociando le braccia al petto e lo guardò imbronciata, ma non resistette a lungo. Due minuti dopo, infatti, aveva ripreso a ridere anche lei, decisamente travolta dal suo sorriso.

Era così bello quando era felice, peccato che lo fosse così poche volte…

All’improvviso sentì qualcosa di bagnato colpirle il naso. Si portò una mano sul viso, poi alzò lo sguardo verso il cielo, ora del tutto coperto dalle nuvole. Cercò lo sguardo di Aiden, il quale l’aveva posato su una goccia di pioggia che si era schiantata in quel momento sui loro appunti, sbavandone l’inchiostro blu.

Contemporaneamente si alzarono e raccattarono disordinatamente più fogli e libri possibili per portarli al sicuro all’interno del salotto. Quando uscirono di nuovo per recuperare gli astucci, i loro bicchieri di Coca Cola e la borsa a tracolla di Molly, l’acquazzone era già iniziato e si bagnarono da capo a piedi. Ciononostante, una volta chiusa la porta vetrata alle loro spalle, si scoprirono a ridere ancora come due bambini.

«Oh mio Dio», esalò Molly quando non ne poté più, sentendo i muscoli dell’addome intorpiditi.

«Guardati, sei tutta bagnata!». Aiden le prese una ciocca di capelli biondi e se la girò fra le dita.

Molly ebbe come l’impressione di andare a fuoco, ma serrò le labbra e cercò i suoi occhi senza successo. Aiden le sistemò la ciocca dietro la spalla ed accennò un sorriso abbassando il viso.

«Vado a prenderti un asciugamano», mormorò, per poi sparire in corridoio.

Molly nel frattempo sistemò meglio i fogli dei loro appunti e divise i libri, infilando nella borsa i suoi. Quindi gettò un’occhiata all’orologio che portava al polso e quasi trasalì: non pensava fossero stati insieme così tanto, non se n’era nemmeno resa conto!

Quando Aiden tornò, con un asciugamano intorno al collo e uno in mano per lei, la trovò seduta sul divano, intenta a chiamare qualcuno col suo iPhone di ultima generazione.

Le rivolse uno sguardo confuso e lei scosse il capo, spiegando: «Devo assolutamente andare a casa, stasera devo uscire con i miei genitori e…».

«Ma fuori diluvia!», ribatté Aiden, indicando con un dito la terrazza.

«È a questo che servono gli autisti».

Aiden si lasciò cadere seduto al suo fianco, affondando nella morbida pelle del divano, ed accese svogliatamente la TV, mettendo il volume al minimo. Ma, per niente interessato, la ignorò completamente, osservando piuttosto il profilo di Molly mentre parlava al cellulare e i suoi capelli umidi di pioggia. Aveva detto che doveva uscire quella sera… E se si fosse presa il raffreddore?

Strinse l’asciugamano che teneva in mano e, seppur con qualche esitazione, glielo posò sulla testa, iniziando a frizionarglieli delicatamente.

Molly, rossa d’imbarazzo, chiuse in fretta la telefonata e si rivolse ad Aiden: «Lascia, faccio io…». Si portò una mano sulla testa, ma incontrò la sua e fu ancora peggio per il suo povero cuore, che sobbalzò. Si voltò lentamente verso di lui ed incrociò i suoi occhi scuri come pozzi e allo stesso tempo accesi e vispi, rimanendo completamente senza fiato.

Aiden ricambiò il suo sguardo e ad un tratto si sciolse in un sorriso divertito, permettendo a Molly di uscire dallo stato di trans in cui era piombata.

«Perché ridi?», gli chiese, anche se a bassa voce.

Aiden trattenne l’ennesima risata. «Con l’asciugamano in testa sembri una contadinella».

Molly riempì le guance d’aria per non urlare né ridere a crepapelle e prese l’asciugamano per usarlo come frusta contro di lui, colpendolo sul petto.

«Ahi! Ma che fai, sei matta?!», gridò ridendo, afferrandolo per un’estremità e tirando.

Molly resse il suo gioco per un po’: si stavano divertendo come bambini e avrebbe tanto voluto che mai niente interrompesse quel momento. Niente eccetto la cosa che desiderava con tutta se stessa e che al contempo temeva.

Ad uno strattone più forte Molly perse l’equilibrio e gli finì addosso, con il viso ad un centimetro dal suo petto. Provò a sollevarlo per vedere la reazione di Aiden, ma non ne ebbe il coraggio, mentre invece trovò quello necessario ad abbandonarsi al suo abbraccio, nascondendo il viso sotto al suo mento. Lentamente sentì le braccia di Aiden avvolgerle la schiena ed ebbe come la sensazione che al suo cuore fossero spuntate le ali, talmente forti e veloci erano diventati i suoi battiti.

«Hai… hai freddo?», le domandò Aiden, dicendosi che poteva essere solo quello il motivo per cui l’aveva abbracciato in quel modo. Solo quello.

«No, adesso sto bene», rispose Molly. «Alla fine ho capito perché hai voluto che ci vedessimo proprio oggi: era il giorno della partita di baseball».

Aiden sorrise e le posò una mano sulla nuca, passandole ancora un po’ l’asciugamano fra i capelli. «Nigel doveva essere parecchio felice, immagino. Sei riuscita a levartelo di dosso?».

«Ma quando mai… Inizio a credere che dovrò sopportarlo fino alla fine della scuola».

«Probabile».

«Grazie, come sei di conforto».

Aiden ridacchiò e le massaggiò la schiena con una mano. «Oppure fino a quando non troverai un ragazzo pronto a difenderti da ogni suo assalto».

Molly sgranò gli occhi nello stesso istante in cui quelle parole raggiunsero il suo cervello e il suo cuore perse un battito.

Cosa voleva dire? Chi era il ragazzo che descriveva? Lui? Oppure diceva così perché non pensava di poter essere adatto per ricoprire quel ruolo?

Provò a sollevarsi per guardarlo in viso, ma la suoneria del suo iPhone la interruppe bruscamente e non seppe se ringraziarla o maledirla per il tempismo.

«Signorina, sono qui sotto. Quando vuole, l’aspetto».

«Arrivo subito, grazie», rispose lapidaria e bloccò il touchscreen. Si voltò verso Aiden e lo vide sorridere sghembo.

«È arrivato l’autista?».

«Come sei perspicace…».

Le fece l’occhiolino e si alzò, aiutandola a fare altrettanto. Poi le prese l’asciugamano dalle mani e la condusse alla porta, osservandola mentre si faceva un rapido chignon con l’elastico che aveva al polso.

Quando furono entrambi sulla soglia, si sorrisero imbarazzati.

«Ci vediamo domani, allora», disse Aiden, rompendo il silenzio.

Molly annuì. «Grazie per avermi aiutato a studiare, senza di te non avrei saputo come…».

«Ah, lascia perdere. È stato bello».

Molly annuì ancora una volta e rimase ferma lì per qualche secondo, poi si allontanò di uno, due, tre passi, salutandolo con uno sventolio di mano.

Era già sulle scale, quando Aiden si sporse e la chiamò. Lei si voltò e lo guardò speranzosa, pensando che magari le sarebbe corso incontro e le avrebbe dato il bacio che sognava. Ma lui rimase fermo e le rivolse un altro dei suoi sorrisi.

«Adams, Franklin, Livingston e Sherman. Loro, insieme a Thomas Jefferson, formavano il Congresso dei Cinque».

Molly gli fece il segno d’OK con la mano e senza più guardarsi indietro corse giù dalle scale.

«Signorina, è maledettamente tardi. Non avrebbe dovuto intrattenersi così tanto con il suo…».
«Malie, rilassati», la interruppe Molly stancamente, finendo di asciugarsi i capelli dopo la doccia calda. Posò il phon nel cassetto aperto accanto alla specchiera e chiese: «Il ferro per i ricci è acceso?».
La governante hawaiana annuì. «L’ho messo a scaldarsi poco fa, credo ci vogliano ancora un paio di minuti».
«Benissimo. Il mio vestito?».
«Eccolo qui, signorina».
Glielo mostrò tenendo la gruccia con una mano e Molly accarezzò la seta color platino del corpetto senza spalline e della gonna lunga fino alle ginocchia, i ricami floreali e la fascia nera elasticizzata legata a fiocco intorno alla vita.
«Aiutami ad infilarlo».
Una volta indossato, si rimirò avanti e dietro più volte sul grande specchio da terra nella sua stanza, poi pensò ai suoi capelli piatti e privi di carattere. Si occupò di ogni singolo boccolo con fare minuzioso, nonostante la governante continuasse a metterle fretta, e successivamente passò al trucco, mettendosi un po’ di ombretto grigio brillantinato sulle palpebre, un filo di matita nera all’interno degli occhi, un po’ di fondotinta e di cipria chiara per rendere la pelle del suo viso più luminosa e per finire un velo sottilissimo di gloss trasparente sulle labbra.
Curare il suo aspetto era l’unica cosa in grado di farla rilassare e di distrarla, per questo se l’era presa comoda: aveva bisogno di non pensare al pomeriggio passato con Aiden, perché era stato uno dei pomeriggi più belli della sua vita e allo stesso tempo l’aveva lasciata con l’amaro in bocca, oltre che con ben poche speranze di diventare qualcosa di più di una semplice amica per lui.
Ancora non aveva smesso di interrogarsi su quello che aveva detto, o meglio su quello che aveva voluto farle intendere. Non si riteneva forse abbastanza per lei? Beh, Molly non si sarebbe arresa tanto facilmente, perché anche se non era esattamente il principe azzurro che aveva sognato da bambina, con il cavallo bianco, il castello e mille servitori, era lui quello che voleva, l’unico capace di farla sentire felice e al sicuro dai briganti di nome Nigel Hall.
«Malie, la signorina è pronta?».
La governante tirò fuori dalla grande tasca del suo grembiule un walkie-talkie gracchiante – molto utile per parlare da un lato all’altro dell’enorme villa – e dopo aver gettato un’occhiata a Molly rispose al maggiordomo: «Sì, sta scendendo».
Molly si infilò le scarpe, un paio di decolté argentate a tacco alto, poi prese la piccola pochette Fendi, anch’essa in tinta col vestito, e scese lentamente le scale di marmo, facendo scivolare le dita lungo il corrimano dorato.
«Oh tesoro, sei una meraviglia», le disse subito sua madre.
Molly accennò un sorriso nella sua direzione, mentre lasciava che la governante le mettesse sulle spalle nude la giacchetta di pelle nera.
«Possiamo andare?», chiese Mr. Delafield, porgendo il braccio a sua moglie.
«La limousine è già qui fuori che vi attende», spiegò il maggiordomo, aprendo la porta di casa.
Aveva smesso di piovere e il cielo ora era sgombro di nuvole, tanto che si potevano vedere le stelle che brillavano nell’oscurità.
Molly entrò per ultima nella lussuosa vettura e l’autista chiuse delicatamente la portiera, poi con una corsetta raggiunse il posto di guida, mettendo subito in moto.
Erano partiti da quasi dieci minuti, diretti alla villa estiva del più influente uomo d’affari del momento, forse anche più importante di suo padre, quando Molly sentì la sua borsetta vibrare insistentemente. Tirò fuori il suo iPhone e lesse il nome di Grace sullo schermo, ma invece di rispondere sospirò e guardò fuori dal finestrino, lasciandolo vibrare nella sua mano.
Aspettava la sua chiamata da molto tempo, ma aveva beccato un pessimo momento, così brutto che non aveva voglia di parlare con nessuno, nemmeno con lei. Voleva soltanto trovare un modo per far sì che quello stupido ricevimento finisse il più presto possibile e la sua mente la smettesse di tramortirla in continuazione con l’immagine del sorriso di Aiden, con il suono della sua risata, con le sensazioni che aveva provato quando l’aveva guardato negli occhi oppure quando, bagnata di pioggia, si era rifugiata nel suo abbraccio.

***

Grace corrugò la fronte e guardò confusa il cellulare.
Molly non le aveva risposto, dopo tutta l’insistenza che aveva usato per costringerla a chiamarla il prima possibile. Strano.
Si grattò la testa e sbucò di nuovo in salotto, dove si soffermò a guardare con più attenzione Dylan che stringeva un cuscino al petto come se fosse un peluche.
«Cos’è, hai deciso di trasferirti sul mio divano?».
Il poliziotto, in dormiveglia, si disegnò un sorrisino sulle labbra e si girò sul fianco per lasciare un po’ di spazio alla detective, la quale si sedette accanto alle sue ginocchia.
«Potrei farci un pensierino», le rispose. «Dormito bene?».
«Vuoi la verità? Da Dio. Ma non avrei dovuto dormire così tanto: questa notte che farò?».
«Io sento che potrei dormire ancora».
Grace ridacchiò, scrollando il capo. «Tu sei un caso patologico».
«Chi hai provato a chiamare?», le chiese ancora, dopo qualche secondo di silenzio, accennando al cellulare che teneva ancora in mano.
«Molly. Voleva parlarmi, ma non mi ha risposto».
Dylan sbadigliò senza ritegno. «Sarà impegnata».
«Oppure è successo qualcosa con il ragazzo che le piace… Oggi doveva andare a casa sua per studiare storia, se non mi sbaglio».
«Vedrai che starà bene».
«Uhm, sarà… Adesso chiamo Tom, anche se quando è preoccupato è insopportabile».
All’udire il nome del chitarrista, Dylan si alzò di scatto sul divano e la fermò, abbassandole la mano con la quale stava per portarsi il cellulare all’orecchio.
«Che c’è?», gli domandò la detective. Sembrava preoccupato e a disagio, tanto che deglutì rumorosamente prima di aprire bocca.
«Prima di crollare mi hai affidato il tuo cellulare, ricordi? E Tom… lui ha chiamato».
«Davvero? E che ti ha detto? Aspetta…», sorrise dolcemente e gli posò una mano sulla spalla. «Avete fatto pace!».
«No! Cioè, anche!».
Grace inarcò un sopracciglio. «Allora vai al sodo, Dylan. Che ti ha detto di tanto sconvolgente?».
«Ecco, lui… lui sa».
«Lui… Oh!». Grace scoppiò in una grassa risata e si piegò in avanti tenendosi la pancia. «Cosa credevi, che Bill glielo tenesse nascosto per sempre? È il suo gemello! E poi anche tu ti sei confidato subito con me».
«Lo so, ma lui è… è Tom! E poi è diverso, perché tu sei una ragazza e sei amica di Bill!».
Grace si ammutolì e fissò intensamente gli occhi nei suoi. «Stai dicendo che tu e Tom non siete amici?».
«Io non intendevo… Però, insomma, ci conosci, sai benissimo che abbiamo sempre avuto alti e bassi… E questa è una cosa maledettamente delicata…».
Gli posò entrambe le mani sulle spalle e gli sorrise incoraggiante. «Appunto perché questa cosa è maledettamente delicata dovete parlarne e cercare di avere un rapporto più stabile. È soprattutto per Bill che dovete farlo, perché vi ama entrambi e non può fare a meno di uno di voi».
Dylan scosse il capo. «Non lo so, io…».
«Tom può anche essere il ragazzo più stupido, irritante, infantile e narcisista del mondo, ma quando si tratta di suo fratello, puoi starne certo, farebbe di tutto pur di vederlo felice. E se questo vuol dire averti sempre tra le palle… cercherà di adottare un comportamento civile con te».
I due si scambiarono un sorriso, quindi Grace si alzò e prese il cellulare per fare, finalmente, quella telefonata al ragazzo che aveva appena insultato e allo stesso tempo lodato.
«Alleluia, finalmente sei uscita dal letargo?!».
Quelle furono le prime parole che Tom le rivolse, con finto tono di rimprovero, e Grace arricciò le labbra per reprimere una risata.
Forse, se non quasi certamente, non si sarebbero divertiti tanto se tutto fosse stato perfetto.

***

La villa in cui si stava già svolgendo il ricevimento era semplicemente pazzesca e Molly dovette confessare a se stessa che non aveva mai visto nulla del genere.
Era grande forse il triplo della sua, c’erano decine e decine di stanze, tra cui una vera sala da ballo, un cinema/teatro e una serra gigantesca con piante tropicali, e oltre alla normale piscina in giardino, a forma di otto rovesciato, il simbolo dell’infinito, nel salone in cui si trovavano c’era un’enorme acquario che prendeva un’intera parete ed era profondo diversi metri, nel quale era stato riprodotto l’habitat della barriera corallina australiana. Di sicuro il posto più affascinante per intrattenere gli ospiti con flûte di champagne e vassoi di stuzzichini, anche se, chissà come mai, tutti quanti evitavano quelli ai gamberetti o al salmone.
Era riuscita a distrarsi abbastanza, grazie all’ambiente travolgente e alle mille presentazioni a cui suo padre aveva costretto lei e sua madre; ciononostante una volta la sua mente le aveva fatto un brutto scherzo, facendole credere di aver intravisto Aiden in mezzo a tutti quegli uomini di mezza età in giacca e cravatta, accompagnati o meno dalle loro mogli.
«Oh, sta arrivando il padrone di casa!», squittì sua madre tutta eccitata, acchiappandola per un braccio e togliendole dalla mano l’ultimo stuzzichino alla gelatina che aveva preso, evitando che la trovasse così a bocca piena. Le fece una radiografia completa, controllando che i suoi capelli fossero perfetti, il suo trucco non avesse imperfezioni né il suo vestito avesse pieghe.
«Sai perché questo ricevimento è così importante?», bisbigliò, sollevando un po’ le sopracciglia.
E altrettanto a bassa voce Molly rispose: «Per affari?».
Sua madre annuì col capo. «Quindi vediamo di fare bella figura, okay?». Si passò una mano fra i corti capelli biondi, poi si stampò il suo miglior sorriso sulle labbra – cosa non affatto difficile per lei, col suo passato da modella – e si voltò.
Il padrone di casa aveva già raggiunto suo padre e gli stava stringendo la mano, sorridendogli in modo solare.
Quel sorriso colpì in modo particolare Molly, perché somigliava moltissimo a quello di Aiden. E non solo quello. Guardandolo meglio, infatti, si rese conto che anche la sfumatura particolare del colore della sua pelle era la stessa e i suoi occhi scuri e profondi le ricordavano maledettamente quelli di Aiden.
Sarebbe potuto passare tranquillamente per suo fratello, se non avesse avuto una quarantina di anni in più, i capelli sale e pepe e un comportamento molto più distinto. Forse era lui che aveva intravisto tra gli ospiti, non era stato uno scherzo della sua mente.
«Mr. McNab, le presento mia moglie e mia figlia», Mr. Delafield le annunciò con gli occhi fieri e luminosi, come se fossero il suo pezzo più pregiato, da guardare ma non toccare.
«Oh, finalmente ho l’onore di conoscerti, Molly!», esclamò l’uomo, prendendole la mano ed accarezzandogliela con le labbra.
«C-Come fa a sapere il mio nome?», gli domandò, senza però affievolire il sorriso che si stava sforzando di mantenere tirato sulle guance.
«Mio nipote… quello sciagurato», lo disse sorridendo in modo dolce, tanto da sorprenderla. «Mi ha detto che andate a scuola assieme e che domani avrete un test di storia».
Il cuore di Molly si fermò all’improvviso ed ebbe anche la sensazione di non riuscire più a farlo funzionare correttamente.
Mr. McNab si guardò intorno, sospirando. «Se solo sapessi dove si è cacciato! Almeno insieme non vi annoiereste troppo».
«Oh, ma il suo ricevimento è tutt’altro che –», disse sua madre, ma fu bruscamente interrotta da Molly, la quale, quella volta con la disfunzione opposta – il suo cuore batteva frenetico nel petto mandandole letteralmente a fuoco il corpo e il viso, – disse in modo concitato: «Aiden è qui?».
Il signore annuì e persino i suoi occhi trasudarono dolcezza. Chissà se anche Aiden era in grado di fare quell’espressione…
«Lui non è tipo da ricevimenti. Sarà qui da qualche parte».
Sua madre provò a trattenerla prendendola per un polso, ma Molly cercò lo sguardo di suo padre e quando lo incontrò lui le sorrise, sollevando il suo flûte di champagne pregiato. Allora sua madre fu costretta a lasciarla andare e Molly si allontanò in fretta, destreggiandosi abilmente fra gli invitati.
Provò a pensare come Aiden, ai posti in cui si sarebbe rifugiato più volentieri, ma fu parecchio difficile, anche perché concentrarsi con le pulsazioni del cuore che diventavano sempre più forti nei timpani non era il massimo.
Lo cercò in piscina, sotto il gazebo di legno circondato di statue in giardino, nel cinema/teatro, ma fu un continuo buco nell’acqua.
Alla fine il suo ultimo tentativo fu quello di provare a cercarlo nella serra tropicale. Quando vi entrò, però, si dimenticò del perché vi era giunta e rimase a bocca aperta.
C’era un tasso di umidità altissimo, tanto che il calore per un attimo la lasciò senza aria nei polmoni, e sollevando gli occhi verso il soffitto si accorse che in realtà non ce l’aveva. Il soffitto, infatti, era una semplice cupola di vetro trasparente, attraverso la quale di giorno entrava il sole, indispensabile per la vita delle piante esotiche, e di notte si poteva vedere il cielo stellato.
Camminò tra i grandi alberi le cui fronde rischiavano di toccare la cupola, le felci e gli strani fiori enormi e dai colori vivaci, fino a quando non sentì un lento e continuo gorgoglio. Si domandò se il padrone di casa non avesse fatto installare anche delle cascate, magari una riproduzione in miniatura di quelle del Niagara, ma spostando un paio di grandi foglie lussureggianti vide soltanto una modesta fontana. Al centro si ergeva uno scoglio scuro e frastagliato e sopra di esso si trovava la statua di una donna possente e al contempo femminile, uno strano ibrido tra un’amazzone e una sirena: sdraiata su un fianco, i capelli lunghi e mossi le ricadevano sul seno prosperoso e il suo sorriso era ammaliante, ma anche un po’ inquietante, come il pugnale che teneva posato su una coscia nuda e snella.
Totalmente rapita dalla visione di quella donna bella quanto letale, fino a quel momento non si era minimamente accorta della presenza di Aiden, seduto sul bordo in marmo nero della fontana, con un bicchiere di champagne nella mano.
Lo guardò mentre con una smorfia lo svuotava tutto d’un fiato e poi posava il flûte vuoto per terra. Alla fine decise di annunciare la propria presenza ed emerse dalla vegetazione. Aiden alzò di scatto il viso e la fissò stupefatto, percorrendola con gli occhi per qualche secondo.
«Molly… Che ci fai tu qui?».
La ragazza sorrise. «Quello che fai tu, suppongo: scappo dal ricevimento».
Allora anche Aiden sorrise, appoggiando entrambe le mani sul bordo della fontana e gettando di un poco la testa all’indietro.
«Hai perfettamente ragione, ma io intendevo cosa ci fai al ricevimento. Sai, avevo creduto di vederti prima, ma mi sembrava impossibile e allora…».
Molly si avvicinò ancora e con gli occhi gli chiese il permesso di sedersi al suo fianco. Lui acconsentì, ritraendo una mano.
Rimasero in silenzio a lungo, entrambi con il viso rivolto all’insù, a guardare la luna pallida che brillava oltre la cupola di vetro, i suoi raggi che andavano a colpire proprio il volto dell’amazzone-sirena.
Ad un certo punto Molly stese un sorriso, pensando che anche Aiden aveva stentato a credere alla possibilità di incontrarsi a quel noiosissimo ricevimento.


«E così… Mr. McNab è tuo zio».
Aiden annuì. «Fratello maggiore di mia madre. Si è preso cura di me da quando… mio padre è stato ucciso».
Molly rabbrividì ed abbassò subito lo sguardo sulle sue mani unite in grembo. Poi il suo sguardo cadde lentamente su quella di Aiden, posata sul marmo nero della fontana dove erano ancora seduti, e provò ad accarezzarla, ma la sfiorò soltanto, perché lui la ritrasse e si alzò, stringendosi nel suo stesso abbraccio e dandole le spalle.
«Scusami, non so nemmeno perché te l’ho detto».
La ragazzina scosse il capo e disse a bassa voce: «Non fa niente, se vuoi… sono un’ottima ascoltatrice».
Aiden accennò un sorriso dolente. «Mia madre se n’è andata nel sonno un anno dopo, quando io avevo solo nove anni. Ho sempre pensato che il dolore che aveva provato alla scomparsa di papà e tutte le stronzate che aveva sentito dire dalla polizia sulla sua morte l’avessero logorata dall’interno, fino a portarmela via. Probabilmente è così».
Le ritornò alla mente la fotografia in bianco e nero che aveva visto appesa nel salotto a casa di Aiden e sentì un groppo bloccarle la gola. Entrambi i suoi genitori se n’erano andati, lasciandolo solo.
«Mi… mi dispiace tanto».
Fu lui quella volta a scuotere mestamente il capo. «Sono passati tanti anni e anche io mi sto stancando di dispiacermi, sto perdendo le speranze di avere giustizia…».
Molly si voltò e guardò i grandi pesci, simili a carpe, nuotare nell’acqua fresca della fontana, fino a quando non riuscì più a resistere e disse: «Che cosa vuol dire che la polizia ha detto tante stronzate sulla morte di tuo padre?».
«Mio padre…». Aiden chiuse gli occhi e sospirò, accarezzando il tronco di una pianta vicino a lui. «È stato trovato morto sulla spiaggia, con una pistola in mano e una busta di cocaina nella tasca della giacca. Questo però non vuol dire che si sia suicidato per debiti di droga, mi spiego? La polizia invece ha chiuso subito il caso».
Non si era nemmeno accorto che Molly si era alzata e l’aveva raggiunto, se la trovò di fronte all’improvviso quando aprì gli occhi, una mano stretta intorno al suo braccio come se potesse davvero donargli un po’ di conforto. Nessuno ci era mai riuscito e Aiden stava già per ritrarsi, ma i suoi occhi azzurri non glielo permisero, inchiodandolo lì dov’era, con il cuore che iniziava ad aumentare la velocità dei suoi battiti.
Si sentì esattamente come quel pomeriggio, quando aveva osservato i suoi capelli bagnati e glieli aveva accarezzati con l’asciugamano, preoccupato che potesse prendersi un bel raffreddore, oppure quando, al momento dei saluti, si era trovato a combattere contro il desiderio di prenderla per la nuca e baciarla.
Ma loro non erano fatti per stare assieme, erano troppo diversi. Lui proveniva da una famiglia modesta e anche quando suo zio l’aveva preso sotto la sua ala non si era mai abituato al lusso, né l’aveva desiderato. Non a caso si era fatto comprare un appartamento in periferia, dove abitare da solo e cavarsela con le sue sole forze, e aveva scelto una scuola tutto sommato normale. Il cognome di Molly invece era famoso nel mondo della finanza e conosceva per sentito dire le condizioni di vita a cui era abituata.
Gli costava un’immensa fatica ammetterlo, perché quello sgorbio non si sarebbe meritato nemmeno di sognarla una ragazza come lei, ma Nigel sarebbe stato in grado di renderla felice, al contrario di lui.
«E tuo zio non ha fatto niente per scoprire l’assassino di tuo padre?».
Aiden aprì la bocca, stordito. Perché glielo chiedeva?
«Mio zio è una bravissima persona, è grazie a lui se sono ancora qui, ma… lui e mio padre non andavano esattamente d’accordo».
«Io posso… una mia amica fa la detective, posso chiederle di indagare, sempre se tu…».
«No, no». Aiden scosse il capo e le posò entrambe le mani sulle spalle. «Non voglio avere altre delusioni. Ma grazie comunque».
Accennò un sorriso che non riuscì a contagiare la ragazza, la quale abbassò il viso e si spostò con delicatezza, per poi girarsi ad osservare la statua in mezzo alla fontana.
Aiden si sentì infinitamente in colpa, ma non ebbe nemmeno la forza per dire qualcosa, qualsiasi cosa. Fu la stessa Molly a rompere il silenzio, portandosi le mani dietro il collo.
«Scusami, Aiden».
«Per che cosa?».
Si voltò e gli rivolse un sorriso, anche se era più paragonabile ad un doloroso strappo sul suo viso di porcellana illuminato dalla luna.
«Per tutto». Detto questo lo superò e si immerse di nuovo nella vegetazione.
Aiden rimase fermo immobile, rigido come l’amazzone-sirena sul suo scoglio, anche quando fu colpito dal suo profumo dolce e dai suoi capelli biondi che gli sfiorarono il braccio. Solo quando sentì la sua voce lontana esclamare: «Sarà meglio tornare al ricevimento, o ci daranno per dispersi», ebbe la forza di rilassare le spalle e di respirare a fondo, anche se sentiva che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato dentro di lui: un nuovo ingranaggio che il suo cuore non aveva preventivato di avere e che aveva iniziato a girare in maniera inarrestabile, come solo quello di una bomba ad orologeria pronta ad esplodere poteva fare.


Il resto del ricevimento trascorse noiosamente, ma Molly in quel momento non avrebbe chiesto di meglio. Aveva bisogno di stare da sola per pensare, ma soprattutto per concentrarsi ed evitare di piangere in pubblico.
Ogni tanto provava a cercare Aiden con gli occhi, da vera autolesionista, e ogni tentativo – per sua sfortuna, o fortuna – andava a vuoto.
In compenso aveva avuto l’onore di conoscere Mr. Hall, il padre di Nigel. Anche lui era stato invitato al ricevimento, ma era venuto da solo, perché soltanto i finanzieri più eccelsi avevano avuto il permesso di portare con sé la loro famiglia, e ovviamente la famiglia Hall non era così facoltosa.
Appena lo aveva visto avvicinarsi a sua madre l’aveva riconosciuto, perché era la copia sputata del suo compagno di scuola, solo con una quarantina d’anni in più. Viscido era stato il primo ed unico aggettivo che le era venuto in mente per descriverlo a primo impatto e infatti non si era sbagliata, perché esattamente come il figlio non si era risparmiato nei complimenti, lodando il suo vestito oppure i suoi capelli, gli occhi accesi di una strana euforia.
Ad un certo punto si era persino chiesta che cosa avesse preso Nigel da sua madre, visto che la parte peggiore di lui, quella che conosceva, era tutta concentrata nell’uomo che aveva di fronte.
Ma non si era risparmiato a provarci – penosamente – solo con sua madre, in quanto era toccato anche il suo turno.
«Oh, Nigel a casa parla sempre di te! A volte mi sono chiesto se fosse un bene che tu lo distraessi così tanto, ma guardandoti… beh, come avrebbe potuto rimanere immune alla tua bellezza?», le aveva detto ammiccando e Molly aveva riso con lui, anche se avrebbe voluto voltarsi e vomitare tutte le gelatine al caviale che aveva mangiato da quando era uscita dalla serra di piante tropicali.
Chinandosi sul suo orecchio, le aveva anche sussurrato: «Mi ha detto che non sei facile da conquistare, è così?».
«Beh, io…».
«Ma non importa: agli uomini della famiglia Hall piacciono le sfide».
Molly si lasciò andare ad un ghigno, quella volta per niente finto.

Gli uomini della famiglia Hall non sanno con chi hanno a che fare.
«Dimmi, non sarebbe grandioso se le nostre due famiglie si imparentassero?».
Oh, quindi era questo che volevano, lui e suo figlio? I soldi della sua famiglia? Perché non l’avevano detto subito!
Molly gli sputò in faccia e gli schiacciò il piede con il tacco alto, facendolo strillare come una donnicciola. O meglio, questo era quello che avrebbe voluto fare. Si limitò invece a rivolgergli l’ennesimo sorriso di circostanza, poi infilò di nuovo la mano nella sua perché la salutasse con un baciamano.
«Onorato di averla conosciuta, Miss Delafield».
«Altrettanto. E mi saluti suo figlio, mi raccomando».
Mr. Hall le rivolse un sorriso mellifluo e dopo aver salutato anche sua madre si allontanò, sparendo in fretta tra gli invitati.


Suo padre aveva passato quasi tutto il ricevimento in compagnia di Mr. McNab, nel suo ufficio al piano superiore, a discutere d’affari, e quando scese, sorridente, disse alle sue due donne che aveva trascorso una piacevolissima serata e potevano anche tornare a casa.
«Ma, tesoro, il padrone di casa non ha ancora detto che il ricevimento è finito, che figura ci facciamo ad andarcene via prima di tutti?», gli chiese ansiosamente la moglie.
Molly intercettò il suo sguardo e pensò che solo suo padre era in grado di portare un po’ di vita in quel mortorio con un semplice sorriso.
«Cara, Mr. McNab mi ha appena dato il permesso di andare a casa a riposare, perché domani sarà una giornata impegnativa a New York».
«A New York?», domandò Molly, stupita.
«Intendi forse dire che avete raggiunto un accordo, che l’affare è fatto?», squittì sua madre, stringendosi di più a lui e seguendolo fuori dalla villa, nonostante avessero gli occhi di tutti gli invitati puntati addosso.
«Proprio così», sussurrò soddisfatto suo padre, guardandolo il cielo punteggiato di stelle ed attirando a sé Molly, stringendosela contro l’altro fianco.
Salirono sulla loro limousine e l’autista li portò a casa in poco tempo, tanto che Molly rimase sorpresa quando realizzò che avevano trascorso fuori casa solo tre ore. Era decisamente presto per andare a dormire, ma si sentiva stanca, quasi prosciugata di ogni energia, quindi diede la buonanotte ai suoi genitori e si chiuse nella sua camera da letto.
Passò un’infinità di tempo in bagno, svestendosi e struccandosi in tutta calma. Poi in pigiama si sedette sul suo letto a baldacchino, con le luci spente, e quasi immediatamente il suo cervello iniziò ad elaborare furiosamente tutto quello che aveva vissuto quel giorno.
Pensò a Nigel e ad Aiden, i due ragazzi che erano entrati nella sua vita prima che potesse accorgersene: il primo che la desiderava più di qualsiasi altra cosa al mondo, anche se per fini molto meno nobili dell’amore; il secondo che invece, ne era sempre più sicura, non si riteneva abbastanza nobile per avere il suo amore. Come poteva fargli capire che non era così? C’era un modo per provargli che lei avrebbe fatto di tutto, pur di renderlo felice?
A quel proposito, ricordò anche la triste storia che le aveva raccontato, quella della morte di suo padre. Non aveva potuto fare a meno di paragonarla all’esperienza di Grace e non aveva esitato nel proporgli di riaprire il caso tramite un’investigatrice privata. Era vero, lui non aveva accettato, ma ora era lei a voler andare fino in fondo perché la riteneva la cosa migliore da fare.
Prese l’iPhone dalla pochette che aveva lasciato sul comodino e si spostò in terrazza, da dove stava giusto per chiamare la sua amica, sperando che fosse sveglia perché aveva davvero voglia di sfogarsi con lei, quando qualcuno bussò alla sua porta.
«Avanti», esclamò, anche se titubante.
Suo padre sporse la testa all’interno della stanza e le sorrise, una volta individuata. La raggiunse e Molly si morse il labbro per non ridere di lui, o più propriamente del suo pigiama di seta color blu notte. Non che non fosse bello, ma era abituata a vederlo sempre in giacca e cravatta, al massimo in camicia, e vestito in quel modo sembrava un lord inglese.
«Non riesci a dormire?», le domandò quando le fu accanto, sotto il cielo stellato.
Molly scosse il capo e lui accennò un sorriso.
«Pensi a qualcuno in particolare?».
«C-Come?».
Di sicuro il buio era dalla sua parte, ma Molly ebbe la sensazione che il suo papà si fosse accorto comunque del rossore sulle sue guance, perché sollevò le sopracciglia e ridacchiando sospirò.
«Tua madre mi ha detto che alla fine sei sparita nel nulla e non credo che tu abbia fatto un giro turistico della casa da sola».
«Papà, io…».
«Hai trovato Aiden, vero?».
Molly diventò ancora più rossa, se possibile. Mr. Delafield si voltò verso la figlia e le prese le spalle fra le mani, stringendole delicatamente; la guardò negli occhi per qualche secondo e le avvolse le braccia intorno alla schiena, posando le labbra sulla sua fronte.
«Tesoro, voglio che tu sappia una cosa molto importante: in amore, e forse un giorno lo capirai perfettamente, i soldi non contano niente. Credi che io abbia conquistato tua madre sventolandole davanti al viso un blocchetto d’assegni? Quando l’ho conosciuta lei era una delle modelle più pagate, mentre io ero ancora un ragazzetto pieno di sogni di gloria. Sono i sorrisi, le risate, le lacrime, le cose per cui si deve lottare in amore».
Molly sospirò e strinse più forte i pugni sulla schiena di suo padre, cercando di soffocare le lacrime sul nascere.

Vai a fare questo discorso anche ad Aiden, per favore.
«Anche se, lo devo ammettere, ci resterei un po’ male se tu decidessi di cedere di fronte alla avances di quel… Hall», aggiunse con un tono di voce sprezzante. Davvero suo padre aveva rischiato di dire una parolaccia, pensando al padre di Nigel?
«Mamma ti ha raccontato anche questo?», gli chiese trattenendo una risata e guardandolo negli occhi.
«Sì, l’ha fatto. Ascoltami, io non conosco il tuo compagno di scuola, magari mi sbaglio ed è il ragazzo più carino del mondo, ma conosco suo padre, lo conosco bene, e ti posso assicurare che è meglio starci lontani».
Molly ammiccò e gli diede una pacca sulla spalla, sussurrando: «Cercherò di resistergli, allora».
Entrambi scoppiarono a ridere e quando si calmarono guardarono la mezzaluna che brillava dietro un banco di nuvole leggere.
«Voglio solo che tu sia felice, bambina mia», disse Mr. Delafield ad un certo punto, cercando la sua mano sul cornicione.
«Farò del mio meglio, puoi giurarci».
Si scambiarono un altro abbraccio stretto, poi suo padre le augurò la buonanotte e la lasciò sola nella sua stanza.
Molly rientrò e si gettò sul letto dopo aver scostato le lenzuola di seta, quindi sbloccò il touchscreen del suo iPhone, rendendolo così luminoso da essere fastidioso agli occhi.
Scorse la rubrica e selezionò il numero di Grace, premette il tasto di chiamata e sospirò: era arrivato il momento di dar libero sfogo ai suoi sentimenti, anche col rischio di svegliarsi, il mattino seguente, con gli occhi gonfi ed arrossati.
«Molly, ciao! Prima ti ho chiamato, ma tu non hai…».
«Lo so, scusami Grace. Ero in crisi. In realtà lo sono anche adesso…».
«Ne vuoi parlare?».
Molly annuì e tirò su col naso, lasciando che una lacrima le scorresse lungo la tempia fino all’attaccatura dei capelli.
«Puoi… puoi stare un po’ al telefono con me?».
«Ma certo che posso, piccola…».
La ragazzina chiuse gli occhi e ruppe anche l’ultimo dei suoi freni, facendosi scappare un singhiozzo strozzato.

***

Grace si stiracchiò sul sedile e sbadigliò senza coprirsi la bocca con la mano, poi bevve un sorso di caffè e controllò il cellulare per vedere se Tom l’avesse già richiamata.
A Los Angeles erano le sette e mezza di mattina, il che voleva dire che a Vienna, dove si trovavano in quel momento i Tokio Hotel, erano circa le quattro e mezza di pomeriggio. Probabilmente se Tom non le aveva risposto era perché era impegnato con qualche bella e simpatica intervistatrice.
Doveva ammetterlo, stava iniziando a diventare gelosa e anche un po’ paranoica con il suo fidanzato a così tanti chilometri di distanza e per così tanto tempo!
Fu distratta da una piccola figura con una borsa a tracolla appesa alla spalla: uscì dall’ingresso principale e si diresse proprio verso il suo fuoristrada, parcheggiato accanto alle auto di proprietà Delafield.
Molly aprì la portiera e si sedette sul sedile del passeggero, gettando subito le braccia intorno al suo collo, tanto forte che Grace rischiò di soffocare.
«Anche io sono felice di vederti», esalò quando la lasciò andare, massaggiandosi la gola.
Percorsero il vialetto al contrario ed uscirono dal grande cancello già aperto; quindi si immisero nel traffico mattutino, dirette verso la Notre Dame High School.
«Grazie per ieri sera, comunque», disse Molly ad un certo punto, schiarendosi la voce.
Grace la guardò con la coda dell’occhio e sollevò un angolo della bocca. «Stai scherzando? Lo sai che per te ci sono sempre, o quasi».
Riuscì a strapparle una risata, seppur breve, e la detective ne fu più che soddisfatta. Per questo ebbe qualche remora nel farle la domanda seguente, che però andava fatta.
«Credi che sia la cosa migliore? Riaprire il caso del padre di Aiden nonostante lui sia contrario, intendo».
Molly evitò il suo sguardo, concentrandosi sul paesaggio fuori dal finestrino. «Assolutamente».
«Non vorrei davvero fare la guastafeste, ma so come ci si sente e credimi, se lui…».
«Non hai ancora chiamato il tuo amico alla omicidi, no? Non sappiamo nemmeno se la cosa può andare effettivamente in porto, è inutile fasciarsi la testa prima del tempo. E per quanto riguarda me, sono sicura: mi prenderò io ogni responsabilità, se sarà l’ennesimo fallimento e avrò riaperto una vecchia ferita per nulla».
«Come vuoi», mormorò la detective. «E cos’hai intenzione di fare con lui?».
«In che senso?».
«Sì, insomma… Come credi di comportarti oggi, dopo quello che è successo ieri?».
Dopo la telefonata con Grace si era sentita svuotata, come liberata da un peso che le opprimeva il petto, e sperava che una bella dormita le portasse consiglio su cosa fare, ma la notte aveva soltanto portato altri dubbi.
Forse era lei che aveva ingigantito un po’ le cose e si era fatta mille film in testa. Forse non era vero che Aiden provava qualcosa per lei e tentava in ogni modo di reprimere quei sentimenti. Forse era lei l’unica stupida con una cotta colossale per il ragazzo sbagliato. Forse Nigel non era così male, se metteva da parte i pregiudizi e lo spiacevole incidente che li aveva coinvolti. Forse tra loro poteva anche funzionare e tutti sarebbero stati felici e contenti. Sì, forse.
Molly finalmente diede un segno di vita e scrollò le spalle. «Non ne ho la più pallida idea».
«Mi sembra ragionevole», mormorò Grace, tanto piano da non farsi sentire dalla ragazzina, già immersa in mille altri pensieri.
Grace parcheggiò il suo fuoristrada di fronte alla piazzetta piena di studenti che attendevano il suono della campanella e li osservò in silenzio per una manciata di secondi, poi sorrise.
«Se devo essere sincera, mi manca un po’ la mia vecchia scuola».
«Io a volte mi domando perché mai ho desiderato mettermi i panni della ragazza normale», rispose Molly.
Grace la fissò e sospirò. Non era decisamente dell’umore giusto, quel giorno, e le dispiaceva non poter fare di più per tirarla su di morale.
«Se hai bisogno di uno strappo per tornare a casa, o di qualunque altra cosa, anche delle risposte per la verifica di storia…».
Molly le rivolse un breve sorriso, ma capace di illuminarle il viso. «Non ti preoccupare, Grace». La strinse in un nuovo abbraccio, quella volta un po’ meno stritolatore.
«Grazie, sei un’amica», le sussurrò all’orecchio e le posò un bacio sulla guancia, poi scese dal fuoristrada e si diresse verso l’edificio candido col rosone colorato sulla facciata.
Quando sparì all’interno, Grace prese il cellulare e notò con fastidio che Tom non si era ancora fatto sentire. Ci passò sopra giusto perché aveva altro di più importante a cui pensare ed effettuò una chiamata, tamburellando le dita sul volante.
«Pronto?».
«Ciao Andrew, sono Grace!».
«Grace! Oh, che bella sorpresa! Come stai? Aspetta… Mi sono illuso che questa fosse una chiamata di cortesia, vero?».
La detective ridacchiò. «Devi essere paziente, Andrew».
«Forza, dimmi che ti serve e facciamola finita».
«Una cosa da niente, davvero… Quand’è che hai un momento libero?».
«Una cosa da niente, eh? Per le cose da niente non mi chiedi di vederci!».
«Non fare storie, Andrew!».
Il poliziotto della omicidi sbuffò, anche se Grace sapeva che era tutta una finta, una parte che avevano recitato insieme mille volte.
«Oggi pomeriggio le andrebbe bene, signorina? Sa, è il mio giorno libero!».
«Caspita, questo sì che è destino!».
Si misero d’accordo sull’orario e sul luogo dell’incontro e terminata la chiamata Grace mise la retro e si allontanò dalla scuola proprio mentre suonava la campanella che decretava l’inizio delle lezioni.
Aveva ancora il cellulare in grembo, quando iniziò a vibrare. Quasi inchiodò al semaforo rosso, nella fretta di rispondere a Tom.
«Era bionda o mora?», strillò, del tutto fuori controllo.
«Di che diamine stai parlando, Grace?».
«Dell’intervistatrice! Allora, era bionda o mora? Oh no, non dirmi che era rossa!».
«In realtà era un uomo. Ma molto attraente, oh sì! Avrei voluto chiedere a Bill qualche tecnica di seduzione, perché davvero…».
«Tom!».
Lui scoppiò a ridere, facendo comparire un sorriso anche sulle labbra della detective.
«Quanto stai diventando gelosa, da uno a dieci? Perché adoro quando…».
«E tu quanto sei coglione, da uno a dieci?».
«Anch’io ti amo tanto».

***

Molly entrò a scuola e come di consuetudine non le vennero risparmiate le occhiatine e i mormorii con cui si era abituata a convivere e che ormai la toccavano appena. Percorse la strada che faceva sempre per raggiungere il suo armadietto, ma quella volta subì una deviazione quando vide di sfuggita Nigel e il coach della squadra di baseball entrare assieme nell’ufficio di quest’ultimo.
Si appostò vicino alla porta, utilizzando come scusa le copie del giornalino scolastico poste proprio lì accanto: ne prese una e fece finta di leggere, mentre con l’orecchio teso ascoltava ciò che si stavano dicendo. Non era molto difficile a dire il vero, perché Nigel, davvero furibondo, urlava come un pazzo.
«Coach, non può davvero rivolere Aiden nella squadra! È vero, ieri abbiamo perso, ma di sicuro non perché mancava lui all’appello! Io basto e avanzo!».
Molly sfogliò rapidamente le pagine del Knights e rimase sbalordita di fronte al risultato della partita del pomeriggio precedente: non li avevano battuti, li avevano polverizzati!
«Non c’è nessun motivo per cui io non lo debba rivolere in squadra, la sua punizione valeva solo per ieri, per il pugno che ti aveva tirato negli spogliatoi», rispose pacatamente il coach.
«Oh, crede che non lo rifarà?! Mi ha già minacciato, lui… mi picchierà di nuovo, se lo farà giocare!».
«Nigel, mi dispiace, ma…».
«Okay, l’ha voluto lei, allora. Avviserò mio padre e staremo a vedere se…».
Molly socchiuse gli occhi e strinse fra le mani il giornalino, accartocciandone i lati.

Non ceda, la prego, non ceda…
Le sue preghiere purtroppo non servirono un granché, perché il coach sospirò arrendevole e disse: «E va bene, hai vinto: cercherò una scusa per non convocarlo nemmeno alla prossima partita».
«Ora ci capiamo», disse Nigel soddisfatto, poi Molly vide la maniglia della porta abbassarsi.
Provò ad allontanarsi il più in fretta possibile, ma un suo gomito sbatté contro la porta che veniva aperta e strillò di dolore, colpita da una lieve scossa.
«Scusa, non l’ho fatto apposta», disse Nigel in modo burbero, ma appena si accorse che la persona che aveva colpito era Molly la sua espressione cambiò e preoccupato le sorresse il braccio. «Molly! Oh Dio, scusami, mi dispiace! Ti ho fatto tanto male?».
«No, non è niente…».
Ma lui non la stette nemmeno a sentire e la scortò in infermeria, dove recuperò un sacchetto di ghiaccio istantaneo e glielo fece posare sul gomito.
«Sul serio, mi dispiace così tanto», si scusò per l’ennesima volta e Molly roteò gli occhi al cielo, anche se con un piccolo sorriso sulle labbra.
«Per favore, smettila di scusarti, ti ho detto che non è niente».
Allora anche Nigel sorrise mestamente. «Okay».
Rimasero per parecchi minuti a fissare punti diversi della stanza, anche se erano tremendamente vicini: lei seduta su un lettino e lui in piedi di fronte a lei, che le teneva il ghiaccio sul gomito.
Il silenzio che si era creato era parecchio imbarazzante e Molly avrebbe dato qualsiasi cosa per andarsene da lì, per andarsene da lui, soprattutto dopo quello che aveva appena sentito nell’ufficio del coach.
«Ho sentito che ieri eri al ricevimento di Mr. McNab», esclamò all’improvviso il ragazzo, anche se con le mascelle serrate. Era geloso? Ben gli stava. O forse… Una rotellina iniziò a muoversi lentamente nel suo cervello, ideando un piano tanto folle quanto geniale.
«Sì, è stato… veramente noioso», disse, cercando di sorridere.
«C’era anche mio padre, mi ha detto che vi siete conosciuti».
«Oh sì, davvero gentile…».
Ma Nigel la interruppe, fulminandola con lo sguardo e proseguendo: «E che ad un certo punto sei sparita per una buona mezz’ora. Molly, devi essere sincera con me. Eri con lui?».
«Lui chi?», balbettò, guardandosi nervosamente intorno. Non le piaceva il suo tono sprezzante rivolto ad Aiden, non le piaceva la situazione in cui stava per mettersi con le sue stesse mani, ma se ciò avesse giovato a…
«Aiden! Posso sopportare che tu frequenti tutti gli sfigati di questa scuola, ma non… Eri con Aiden?!».
Molly dentro di sé fece un lungo respiro profondo per darsi un po’ di coraggio ed arricciò le labbra in un sogghigno. «Te l’ho detto, era un ricevimento così noioso! Peccato che tu non ci fossi…», si avvicinò al suo orecchio e gli passò un dito sul petto, dall’alto verso il basso, concludendo a bassa voce: «Ci saremmo divertiti».
Nigel la guardò incredulo – e faceva bene, perché nemmeno Molly riusciva a credere di averlo fatto davvero – e, più che confuso, chiese: «Quindi tu e lui… insomma…».
«Per l’amor del cielo, non farmi ridere!», continuò nella sua recita, sempre più sorpresa di se stessa. «Io ed Aiden? Ma come ti salta in mente?!».
«Io pensavo che…».
«Pensavi male, Nigel», sussurrò, posando entrambe le mani sul suo petto. «Mi dispiace di averti trattato male per tutto questo tempo, sono stata una vera stupida. Io… sarei davvero felice, se tu mi chiedessi di uscire di nuovo».
Il ragazzo le prese il viso fra le mani e la guardò negli occhi, trovandoli lucidi di lacrime. «Ehi, non c’è bisogno di piangere! Ti perdono, certo che ti perdono! Che ne dici di uscire questo pomeriggio stesso? Potremmo andare al cinema, ci sono un sacco di film interessanti in questo periodo! Sei d’accordo?».
Molly annuì e si maledì, perché quelle lacrime non erano per Nigel, quello stupido montato, ma per la pena che provava verso se stessa: sopportarlo, far finta di essere la sua fidanzatina e mostrarsi felice con lui… tutto questo solo per vedere Aiden giocare di nuovo nella squadra di baseball (sempre se fosse riuscita nel suo intento).
Se questo voleva dire essere innamorata di una persona… Beh, l’amore era una vera e propria fregatura.
La campanella trillò, avvertendoli che dovevano subito schizzare in classe per la verifica di storia.
Appena entrò nell’aula, ancora con il ghiaccio istantaneo sul gomito, Molly incrociò lo sguardo di Sheila, la quale aggrottò le sopracciglia in cerca di spiegazioni, e anche quello di Aiden, seduto quasi in prima fila. Il cuore cessò di batterle nella cassa toracica per un istante, leggendo in quei pozzi scuri una certa preoccupazione e qualcos’altro di più profondo e celato, ma si riprese presto, più precisamente quando la professoressa di storia le disse di prendere posto, visto che stava già consegnando i test.
Molly ubbidì e si sedette al banco vuoto dietro Sheila. Ricevette il compito e si mise subito al lavoro, rendendosi amaramente conto di quanto il pomeriggio di studio con Aiden fosse servito.
Le venne ancora voglia di piangere, perché nel peggiore dei casi l’avrebbe perso, per una o per l’altra cosa, e fu ancora peggio quando lesse la consegna del quesito numero sette: «Scrivi i nomi dei rappresentanti che formavano il “Congresso dei Cinque”».
Ricordò il sorriso di Aiden e le parole che le aveva rivolto prima che scendesse giù dalle scale di corsa: « Adams, Franklin, Livingston e Sherman. Loro, insieme a Thomas Jefferson, formavano il Congresso dei Cinque».
Una goccia d’acqua cadde sul suo test, sbavando l’inchiostro blu con cui aveva risposto alla domanda precedente. O aveva iniziato a piovere in classe, oppure… Molly si portò le mani sugli occhi, trovandoli colmi di lacrime.
La sua mente, crudele fino alla fine, le fece vivere di nuovo il momento in cui l’acquazzone li aveva presi alla sprovvista mentre stavano studiando in terrazza: avevano riso così tanto, fino a farsi venire il mal di pancia…
Sollevò di scatto la testa per sventolarsi una mano di fronte agli occhi, ma nel farlo incrociò per la seconda volta lo sguardo di Aiden, che si era girato per fissarla con un sorriso dispiaciuto sulle labbra.
Molly rimase a bocca aperta, colta in fallo, e riuscì a tornare al suo compito solo quando la professoressa, passando di fianco a lei, le schioccò una mano di fronte al viso, sussurrando: «Si concentri, signorina Delafield».
Passò un polso sulla goccia d’acqua salata sul suo foglio e soffiò, sperando che si asciugasse come i sentimenti che le stavano inondando il petto, rischiando di far affogare il suo povero cuore.

__________________________________________

Buonasera! :)
Allora, un capitolo piuttosto incentrato su Molly e i suoi due "uomini": Nigel e Aiden. Sono super-curiosa di sapere che cosa ne pensate, soprattutto riguardo al comportamento di Aiden e a quello che ha appena deciso di adottare Molly (spero si sia capito il suo piano)!
Si è scoperto che i genitori di Aiden sono entrambi morti, anche se in momenti e per motivi molto diversi tra loro - e, a proposito, inizia una nuova indagine per Grace, aiutata questa volta da Andrew ;) - che lo zio di Aiden è addirittura più ricco del padre di Molly e che, ciononostante, Aiden vuole avere la sua indipendenza e le sue poche cose a cui badare da sè. Insomma, completamente diverso da Nigel e da suo padre, che abbiamo avuto l'onore di conoscere u.u
Per quanto riguarda Grace, l'abbiamo vista come amica e confidente di Dylan, di Molly e poi come fidanzata gelosa... E' una ragazza piena di sfaccettature, che ci possiamo fare ;)
Credo di aver detto tutto, se ho dimenticato qualcosa chiedo venia! Aspetto di leggere qualche vostro commento, come sapete sono molto ansiosa ;)
Ringrazio di cuore chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate! Grazie!
A domenica prossima, ciao! Vostra,

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Capitolo 27
*** Capitolo 25 ***


Buonasera a tutti! :)
Che dire, questo capitolo è più corto degli altri, però diciamo che riserva molte sorprese... Per cui preferisco scrivervi prima, in modo tale da non rovinarvi l'effetto finale ;) E sì, come al solito non vedo l'ora di leggere che cosa ne pensate! Quindi ringrazio anticipatamente tutti coloro che lasceranno una recensione e voglio dire "Grazie, di cuore" a chi è giunto fino a qui con me, chi mi ha supportato, chi mi ha riempito di complimenti a volte non meritati, chi ha fatto critiche costruttive e chi si è limitato a fare "numero" leggendo e passando silenziosamente. Siete tutti importantissimi :)
Non mi resta che augurarvi buona lettura e sperare di vedervi presto, ancor prima di domenica prossima! ;)
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 25

Molly avrebbe voluto che nel pavimento del corridoio si aprisse una voragine pronta a farla sprofondare nell’Inferno in quell’istante, possibilmente senza Nigel, anche se lo riteneva impensabile, dato che era tutto il giorno che le stava appiccicato come una piovra.
Ovviamente la notizia della loro riappacificazione aveva già fatto il giro di tutta la scuola, ma lui non sembrava intenzionato a smetterla di mostrarla come il suo trofeo, sorridendo come un ebete a tutti quelli che incontrava sulla sua strada, con un braccio appeso intorno al suo collo.
La cosa peggiore era che Molly non poteva fare assolutamente niente, eccetto sorridere e fingere di essere felice stretta a lui durante ogni cambio dell’ora.
Volete sapere la cosa migliore (sempre se poteva essere definita così)? Non avevano ancora incontrato Aiden. Molly era convinta infatti che se se lo fosse trovato davanti sarebbe scoppiata, mandando al diavolo Nigel e tutti i suoi amici idioti con cui scambiava occhiate e sorrisini di vittoria.
Alla fine ce l’aveva fatta, aveva vinto la sua sfida, come le aveva detto Mr. Hall la sera prima, e solo il pensiero di essersi consegnata a lui di sua spontanea volontà le faceva venire voglia di sputarsi in un occhio.
«Vuoi che ti prenda io da mangiare, piccola?», le domandò con tono sdolcinato, fermandosi di fronte al self-service.
«No, grazie, faccio da sola».
Molly ci mise tutta la sua buona volontà per sorridergli per l’ennesima volta, perché davvero le facevano male le guance, e Nigel parve cascarci, lasciandola fare.
Raggiunsero insieme i tavoli all’aperto e Molly adocchiò subito Ben e Sheila, seduti da soli come sempre. Stava per andare da loro, quando si ricordò di Nigel al suo fianco, il quale di sicuro le avrebbe detto di accomodarsi al tavolo dei popolari e degli sportivi. Ma quando si voltò verso di lui trovò ad attenderla un’espressione dolce, che la lasciò del tutto senza parole.
«Vuoi andare da loro?», le chiese, indicando con un cenno del capo i suoi amici.
Molly annuì brevemente.
«Io non credo a quello che dicono le altre ragazze, penso piuttosto che tu sia una ragazza fantastica, tanto altruista da voler passare un po’ del tuo tempo con i più soli». Tenendo il vassoio con una mano sola, le accarezzò una ciocca di capelli al lato del viso. «È per questo che mi piaci tanto. Adesso vai, ci vediamo dopo».
Molly stiracchiò un sorriso e senza farselo ripetere due volte si diresse verso il tavolo di Sheila e Ben, sedendosi al fianco di quest’ultimo.
«Molly, ti senti bene?», le domandò il ragazzo, fissandola con un po’ di preoccupazione negli occhi castani.
Lei annuì e si appoggiò al tavolo con i gomiti, massaggiandosi le tempie con le dita. La verità era che si sentiva a dir poco sfinita: non pensava che fingere potesse essere così stancante!
«Non sei drogata, vero?».
Alzò gli occhi verso Sheila e la guardò corrugando la fronte. «Io? Assolutamente no!».
«Okay, allora sei impazzita tutto d’un tratto?». Con un cenno della testa indicò Nigel, poi tornò a fissare gli occhi blu nei suoi. «Che cosa diavolo stai facendo?».
«È… è complicato, ragazzi».
«Sono bravo coi problemi!», esclamò Ben con un sorrisino, addentando il suo tramezzino.
«A noi puoi dirlo, stai tranquilla», la rassicurò Sheila, sorridendole.
All’improvviso le tornò alla mente ciò che le aveva detto Aiden a proposito del suo essere lunatica. Davvero ne soffriva così tanto? Prima o poi avrebbe dovuto chiederglielo.
Stava per cedere e confessare tutto, ma qualcuno si fermò accanto a Sheila. Tutti e tre alzarono gli occhi, stupiti che qualcun altro volesse unirsi a loro. Breanne, il viso arrossato e il vassoio tenuto saldamente tra le mani, teneva il capo chino, come se si vergognasse di qualcosa.
«Ehi, ciao», esclamò Molly. «Ragazzi, lei è Breanne. Breanne, loro sono Ben e Sheila».
«Ci conosciamo già», spiegò la ragazza con poca voce, accennando un sorriso. «Anche io mi occupo del giornalino scolastico».
«Oh… allora che stai aspettando, siediti! Sei la benvenuta».
Molly incrociò lo sguardo di Sheila e notò che la sua espressione parlava da sé: «Ma che storia è questa?!».
Così spiegò quello che era successo a Breanne il giorno prima e i due ragazzi si rilassarono, iniziando ad accettarla nel gruppo. A dir la verità Ben non fece tante storie e chiacchierò con lei e le sorrise come se si conoscessero da una vita, mentre Sheila restò un po’ più sulle sue, per niente incline a voler abbandonare l’argomento che avevano iniziato.
Infatti dopo qualche minuto la incalzò: «Stavi per dirci che cosa stai combinando con Nigel».
«Già». Molly sospirò e in breve gli rivelò il suo folle piano e tutte le conseguenze che aveva già dovuto affrontare, anche se temeva che in futuro ce ne sarebbero state di assai peggiori.
«Non puoi farlo davvero, è del tutto… irrazionale!», bisbigliò Ben, anche se avrebbe voluto urlare e diventare rosso come un peperone. «Non puoi sacrificarti in questo modo, non è giusto!».
«Lo so, ma è anche l’unico modo per ammorbidire Nigel e far sì che Aiden possa tornare a giocare nella squadra di baseball».
«Non ne vale la pena!», continuò il ragazzo, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Dì qualcosa, Sheila! Dille che ho ragione!».
La ragazza dagli occhi blu scrollò le spalle. «Se questa è la sua decisione non possiamo fare molto, Ben. Per amore si fa di tutto, anche le cose meno razionali che possano venire in mente. Come te lo devo dire che non tutto in questo mondo è regolato dalla logica e dalle formule?».
Ben assunse un’espressione offesa e si strinse le braccia al petto, guardando fisso il suo vassoio.
Molly lo osservò per qualche secondo, quindi si voltò verso Sheila, la quale le sorrise ancora dolcemente. Se era davvero lunatica come diceva Aiden, sperava che quella Sheila restasse ancora per molto e molto tempo.
«Però non so quanto tu possa continuare a mentire, anche perché Nigel non è stupido. E anche Aiden prima o poi capirà quello che stai facendo per lui».
«E cosa credi che succederà, quando Aiden lo scoprirà? Come reagirà? Io non ne ho proprio idea», rivelò e bevve un sorso del suo succo.
Aveva già pensato a quell’eventualità, tutta la mattina a dire il vero, ed era giunta a due conclusioni: Aiden le avrebbe detto di smetterla, le avrebbe tolto Nigel dai piedi e avrebbe coronato il suo sogno d’amore; oppure si sarebbe arrabbiato, le avrebbe detto di non preoccuparsi per lui, perché lui poteva cavarsela benissimo con le sue sole forze, e infine le avrebbe ordinato di levarsi di torno per sempre.
«Io continuo a credere che tu stia facendo l’errore più grande della tua vita. E con errore intendo un errore assoluto, perché se si trattasse di un errore relativo avresti almeno una possibilità di tollerarlo…».
«Ben», disse Sheila, con voce pacata.
«…in quanto l’errore relativo di una misura è dato dal rapporto tra l’errore assoluto e il valor medio della serie di misure, quindi…».
«Ben, finiscila!».
Il ragazzo serrò le labbra e la guardò con gli occhi sgranati, poi sospirò ed allontanò da sé il vassoio del pranzo.
«Scusate, è che inizio a parlare in termini matematici quando sono nervoso».
Molly sorrise, uno dei pochi sorrisi veri della giornata, e gli accarezzò i capelli sulla nuca.
«Non c’è problema, Ben. E stai tranquillo, la cosa peggiore che potrebbe capitarmi sarebbe solo diventare la fidanzata ufficiale di Nigel».
Tutti e tre rabbrividirono a quel pensiero terrificante e quando si riprese Molly posò lo sguardo sotto il famoso albero in giardino, trovandolo solitario ancora una volta.

***

Il poliziotto all’interno della guardiola premette un pulsante e dopo una breve scossa la porta di ferro si aprì, permettendogli di entrare in un ambiente diviso in tantissime corsie di scaffali di metallo, ognuna illuminata da grandi lampade da fabbrica.
«Cox, hai detto?».
Grace annuì con un cenno del capo, stringendosi il collo fra le spalle per l’umidità.
A suo parere avrebbero dovuto rivalutare se quello fosse il posto adatto per conservare i reperti dei vecchi casi, chiusi oppure lasciati irrisolti.
Andrew camminò lungo le corsie fino a giungere allo scaffale che indicava l’inizio dei casi targati con la lettera C. Borbottò tra sé mentre faceva scivolare le dita sui vari scatoloni, cercando pazientemente quello che gli serviva.
Grace, alle sue spalle, indietreggiò di un passo per avere uno sguardo d’insieme ed individuò quasi immediatamente il cognome Cox, seguito da diversi numeri, scritto a pennarello nero sul lato di una scatola.
«Credo ti servirà la scala».
Andrew si voltò a guardarla e la detective sorrise, puntando il dito verso l’alto.
Una volta recuperato lo scatolone ed essersi ricoperti di polvere, caduta dallo scaffale quando il poliziotto l’aveva sollevato, si spostarono nel piccolo ufficio di Andrew.
«Allora, vediamo che c’è qui dentro», mormorò alzando il coperchio della scatola e tirando fuori per prima cosa il fascicolo del caso.
«Uh, cara vecchia carta», esclamò Grace, facendo il giro della scrivania per leggere insieme a lui.
«Allora… Laurence Cox, afroamericano di trentadue anni, trovato morto a Venice Beach il 5 settembre 2007, alle quattro e mezza di mattina, da un gruppo di ragazzi un po’ brilli che hanno chiamato il 911».
«Un colpo sotto il mento con una calibro 22», continuò a leggere Grace, osservando anche le foto scattate sulla scena.
«Gli è stata trovata addosso una busta di coca, quindi è stato ipotizzato il suicidio, visto anche la pistola che aveva in mano».
«Uhm… Perché proprio Venice Beach?».
Andrew scrollò le spalle. «Non ne ho idea».
«Chi è stata l’ultima persona che l’ha visto?».
«Aspetta, fammi vedere…», girò un paio di fogli e trovò il paragrafo. «Lavorava come giardiniere a Beverly Hills…», fischiò, sollevando le sopracciglia, «per la famiglia Hall, caspita».
«Cosa? Hai detto Hall?».
«Sì, perché?».
La detective si portò le unghie alla bocca e pensò a Molly, alla loro conversazione notturna: ricordava distintamente di averla sentita citare il padre di Nigel chiamandolo Mr. Hall. Che fosse una strana coincidenza?
«Grace, conosco quell’espressione. A cosa stai pensando?».
«A niente», rispose accennando un sorriso ed evitando il suo sguardo indagatore. «Piuttosto, hanno interrogato i signori Hall? Voglio sentire le registrazioni».
«Okay, ma dubito che ci troverai qualcosa di interessante».
Grace stese un sorriso. «Tentar non nuoce!».
«Però temo che dovrai andare a chiedere al nostro tecnico di laboratorio: qui c’è solo la registrazione audio su CD dell’interrogatorio alla moglie di Cox. Strano».

Già, strano.
Ciononostante Grace si alzò e si diresse verso la porta. «Intanto tu cerca i referti dell’autopsia e quelli balistici. E guarda anche i risultati del test sui residui di polvere da sparo… e se sulla scena sono state trovate impronte diverse da quelle di Laurence».
«Sissignora», la prese in giro facendole il saluto militare, col petto in fuori. Lei scosse la testa ridacchiando ed uscì dall’ufficio.
Andrew si mise subito all’opera e non riuscì a scoprire nulla di nuovo nei referti balistici, perché il proiettile estratto dal cranio della vittima non era stato collegato a nessun’arma già adoperata.
Passò quindi ai referti autoptici e rimase particolarmente sorpreso quando prese in mano l’esame tossicologico: il sangue di Laurence Cox era pulito, senza nemmeno una traccia di nicotina. Come poteva essere morto per i soldi necessari ad una tirata di coca?
Con la penna in mano, divertendosi un mondo col bottoncino alla sua estremità, tornò ad esaminare i documenti. O almeno lo avrebbe fatto, se ne avesse trovati altri all’interno della scatola.
Grace rientrò nell’ufficio, meditabonda. Si chiuse la porta alle spalle e continuando a fissare il pavimento disse: «Niente. Non sono state fatte registrazioni durante gli interrogatori ai signori Hall. Il tecnico mi ha spiegato che forse non li hanno nemmeno interrogati, perché magari chi si occupava del caso non riteneva necessario che venissero in centrale, non essendo dei sospettati. Tu hai scoperto qualcosa di nuovo?».
Allora alzò il viso e sgranò un po’ gli occhi di fronte all’espressione sconvolta ed allarmata di Andrew, col pollice fermo qualche centimetro sopra il bottoncino della penna.
«Andrew, che c’è?», gli chiese con cautela, avvicinandosi.
«No, la domanda è cosa non c’è».
Grace posò lo sguardo sulla scrivania su cui erano sparpagliati tutti i documenti del caso e al primo colpo d’occhio afferrò ciò che il suo amico aveva voluto dire.
«Mancano i risultati del test sui residui di polvere da sparo e la rilevazione delle impronte. Possibile che non abbiano ritenuto necessari neanche questi?».
La sera prima, durante il suo sfogo, Molly le aveva raccontato quello che si erano detti lei ed Aiden, tra cui anche il fatto che il ragazzo sosteneva che la polizia avesse chiuso subito il caso. Grace non poteva sapere quanto lui sapesse in realtà, ma ad ogni modo ci aveva visto giusto, perché chi aveva indagato sul caso aveva immediatamente dato per scontato che si fosse trattato di un suicidio, tanto da tralasciare alcuni test di routine.
«Aspetta un attimo… Chi si occupava del caso?», domandò Grace guardando Andrew, il quale si mise subito al lavoro per scoprirlo.
«Trovato. Il capo della sezione omicidi Peter Dennison. Anzi, l’ex-capo: è andato in pensione un paio di anni fa».
Grace si appoggiò alla scrivania a braccia conserte ed annuì con fare deciso. «Ho come la sensazione che dovrà tornare alla sua vecchia vita. Questa volta però saremo noi a porgergli qualche domanda».

***

«Allora ci vediamo domani», disse Sheila agitando una mano nella sua direzione.
All’espressione confusa di Molly, la quale si apprestava ad uscire, Ben spiegò: «Noi ci fermiamo un’ora in più, sai… per il giornalino».
«Ah! Sarebbe anche ora che mi trovi anche io qualche attività extra-scolastica per avere un po’ di crediti», rimuginò, poi gli rivolse un sorriso e li salutò.
Appena si fu allontanata lungo il corridoio, però, si ricordò dell’appuntamento con Nigel e sospirò, lasciandosi andare allo sconforto per la prima volta, ora che nessuno di popolare le ronzava intorno.
Uscì dalle porte vetrate e nella piazzola vide Nigel seduto su un muretto, curvo sul suo iPhone e col suo zaino Eastpack tra i piedi.
Guardandolo da lontano, il cuore di Molly ebbe un fremito che così su due piedi non riuscì a decifrare; sapeva soltanto che senza tutti i suoi amici intorno e senza maschere per farlo sembrare più figo somigliava moltissimo ad un bambino sperduto e solo, abbandonato a se stesso.
Respirò profondamente per farsi coraggio, quindi si avvicinò. Una volta giunta alle sue spalle sbirciò quello che stava scrivendo su Facebook.

Pronto per trascorrere un intero pomeriggio con la ragazza più bella dell'universo

Molly arrossì del tutto involontariamente e senza nemmeno rendersene conto gli posò una mano sulla spalla, stringendola piano.
Nigel sobbalzò leggermente e si voltò. «Ehi, non ti ho sentita arrivare! Sei pronta?».
La ragazza annuì e stiracchiò un sorriso, lasciandosi condurre all’auto che li attendeva, una Ford Edge nera tirata a lucido.
Nigel parlò con l’autista sporgendosi tra i sedili, poi tornò a sedersi al suo fianco e la guardò sorridendo. Molly rimase ad osservarlo e notò che il suo sorriso non era affatto come quello mellifluo di suo padre, almeno non in quel momento. Sembrava… davvero contento che lei fosse lì, seduta al suo fianco, pronta a passare un intero pomeriggio con lui al cinema.
Davvero l’aveva chiamata “la ragazza più bella dell’universo” e aveva pure aggiunto un cuoricino alla fine del suo status? La cosa stava iniziando a preoccuparla seriamente. Chissà le facce di Ben e Sheila! O, ancora peggio, quella di Aiden, se mai lo avesse letto.
Il cinema in cui furono gentilmente scaricati era il più grande della città, tanto da farlo sembrare a prima vista un centro commerciale enorme, con negozi di ogni tipo e ristoranti.
Loro però volevano solo vedere un film, quindi si diressero subito verso il botteghino per comprare i biglietti.
«Facciamo così», disse Nigel all’improvviso, attirando l’attenzione di Molly. «Mentre tu scegli il film, io vado a prendere i popcorn».
Stava già per avviarsi verso il bar, quando la ragazza scattò in avanti e gli afferrò la mano, urlando: «Cooosa?! No, aspetta!».
Nigel la guardò confuso, poi abbassò gli occhi sulle loro mani unite. Molly si rese conto di quello che aveva fatto e, rossa di vergogna, gliela lasciò, tornando ad alzare il viso verso il grande schermo su cui scorrevano i titoli disponibili. C’erano due film romantici e strappalacrime, un cartone animato, una commedia, un horror e un thriller.
«Non posso scegliere il film da sola», gli disse con voce calma ed inflessibile, senza guardarlo in faccia. «Tu cosa vorresti vedere?».
Con la coda dell’occhio vide Nigel boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Che cosa diavolo gli stava succedendo?
«Io… non ne ho la minima idea», confessò, gli occhi un po’ sgranati dallo stupore. «Nessuna ragazza mi aveva mai fatto questa domanda, ho sempre guardato quello che avevano scelto loro…».
Molly stentava a crederci, ma ancora una volta qualcosa le pungolò il cuore, portandola ad accennare un sorriso se non dolce, almeno comprensivo. «Beh, ti toccherà farti un’idea oggi. Io posso vedere tutto, tranne l’horror».
«Hai paura?», le domandò con un sorrisetto divertito, al quale Molly rispose con una risata.
«Tu non immagini neanche!».
«Potrei sempre tenerti per mano!».
Okay, con quell’ultima battuta aveva decisamente rovinato tutto, facendola tornare la solita Molly senza pietà e sofferente al solo pensiero di dover trascorrere tre lunghissime ore con lui.
Nigel, messo a disagio dal suo silenzio, capì di aver fatto un passo falso e si schiarì la voce, provando a rimediare.
«Che ne dici del thriller? La trama sembra interessante».
«Andata per il thriller», concordò Molly.
Una volta aver fatto la fila ed aver comprato i biglietti, si diressero insieme verso il bar, dove Nigel provò nuovamente a fare il brillante, con l’unico risultato di ciccare ancora.
«Tu una confezione piccola?», chiese a Molly sorridendo, ma senza staccare gli occhi dal commesso che aveva già iniziato a riempire il bicchiere di carta più piccolo, tanta era stata la sicurezza con cui aveva parlato Nigel.
«Mi prendi in giro? Anche io voglio la media!», ribatté però Molly, a dispetto di ogni sua convinzione.
Il commesso si fermò a metà del lavoro e guardò Nigel, sconvolto e con la mano con cui teneva i soldi alzata a mezz’aria.
«Beh, che c’è? Una ragazza non può andare matta per i popcorn?», chiese Molly portandosi le mani sui fianchi, anche se avrebbe tanto voluto ridere dell’espressione del suo accompagnatore.
«No, è che… lasciamo stare». Nigel scosse il capo e si corresse: «Una media anche per lei».
Molly, soddisfatta con il suo bicchierone di popcorn ancora caldi stretto al petto, ne mangiò qualcuno e poi prese fra le labbra la cannuccia della sua Coca Cola.
Quando si accorse che Nigel era ancora sconcertato e la stava scrutando come se fosse un’aliena verde appena uscita da un cratere lunare, ridacchiò ed esclamò: «Ma con che ragazze sei uscito fino ad adesso, posso saperlo?».
Nigel le rivolse uno dei suoi sorrisi più belli, con l’unica differenza che era nato spontaneamente ed era davvero… beh, wow. Ma Molly non avrebbe dovuto pensare cose del genere, giusto? Quindi si cancellò dal viso ogni traccia di stupore e meraviglia, o almeno fece del suo meglio.
«Sai, me lo sto chiedendo anch’io», le rivelò, porgendo ai due bodyguard i loro biglietti, i quali li strapparono da un lato e si spostarono per farli passare.
Molly avvertì ancora quel rossore sgradito riscaldarle le guance e quella volta si domandò che cosa diavolo stesse succedendo a lei.
Nella sala, la serie infinita degli spot pubblicitari era già iniziata e dovettero trovare i loro posti nella semioscurità, scusandosi con chi si era già accomodato nella loro stessa fila. Appena si furono sistemati, con i loro bicchieri di popcorn e di Coca Cola accanto, il film iniziò con un mirabolante inseguimento, che li tenne fin da subito col fiato sospeso.
Molly pensò che avevano fatto davvero un’ottima scelta e a provarglielo fu il fatto che era riuscita a pensare solo alla trama intricata e travolgente. Per quelle due ore e mezza non c’era stato nient’altro, tutti i suoi problemi da adolescente erano stati spazzati via e si era persino dimenticata di essere al cinema con Nigel, che era ad un appuntamento con lui.
Solo verso la fine – una fine piuttosto drammatica, ma romantica, da far venire le lacrime agli occhi e il nodo in gola – Molly notò la mano di Nigel appoggiata sul bracciolo della poltroncina, girata sul dorso.
Da quanto tempo l’aveva messa lì, in attesa che Molly gliela stringesse, semmai avesse voluto?
Con sgomento realizzò che non ci aveva provato con lei nemmeno una volta: non aveva mai tentato di prenderle la mano, né di avvolgerle le spalle con un braccio; non le aveva mai sussurrato cose dolci all’orecchio, mai si era azzardato ad avvicinare il viso al suo per baciarla. In poche parole, si era comportato in modo opposto rispetto a tutto ciò che faceva nei corridoi della scuola.
Che il Nigel che vedeva a scuola – influenzato dalla sua popolarità, dalla sua reputazione da difendere e dagli amici importanti – non fosse lo stesso che era seduto al suo fianco? Che avesse un gemello buono che si era scambiato con quello cattivo per fare bella figura con lei? Oppure era sempre lo stesso e si era semplicemente pentito dell’errore che aveva fatto con lei la prima volta che erano usciti insieme e stava cercando di rimediare?
Molly osservò il suo palmo per un’altra manciata di secondi, sospirò e socchiudendo gli occhi cedette, infilando la mano nella sua ed intrecciando le loro dita.
Sul viso di Nigel comparve un sorriso a trentadue denti, ma non osò spostare lo sguardo dal grande schermo, forse per paura che quel magnifico sogno si infrangesse.
Molly non riuscì a trattenere l’accenno di un sorriso e per un attimo, un attimo solo, si disse che aveva fatto la cosa giusta.


«Mi dispiace di non essere venuta alla partita di ieri», esordì Molly, cercando di mostrarsi davvero desolata.
«Non ti sei persa niente, te l’assicuro», mormorò Nigel, giù di morale al ricordo della pessima sconfitta.
«Sì, ho saputo… Scommetto però che se ci fossi stata io a sostenervi avreste vinto di sicuro!».
Riuscì a strappargli un sorriso e Molly, sull’onda di un entusiasmo non premeditato, continuò: «La prossima volta non mancherò e vedrai, vi riscatterete e porterete in alto il nome della Notre Dame High School! A proposito, quand’è la prossima partita?».
«Martedì pomeriggio».
«Ci sarò», gli fece l’occhiolino. «Sono stati convocati tutti?».
«Tutti tranne Aiden», puntualizzò, marcando con un accento di puro disprezzo il nome del ragazzo, mentre stringeva i pugni sulle gambe. «Ho fatto in modo che lui non giochi, non posso neanche vederlo!».
Molly tentò di controllare la rabbia che le ribolliva nelle vene e con tono pacato domandò: «Perché ce l’hai tanto con lui? Che ti ha fatto?».
«È un negro bastardo che mi ha rovinato la vita».
«Okay, ma…».
«Possiamo non parlare di lui, per piacere?».
«Come vuoi», borbottò, incrociando le braccia al petto. «Ma fai solo la figura del codardo, agendo in questo modo».
«C-Codardo, io?! E per quale motivo, sentiamo!».
La ragazzina lo guardò negli occhi e vi lesse un rancore profondo, che non aveva mai visto e di cui rimase parecchio impressionata.
«Pensa se i tuoi compagni di squadra venissero a sapere che hai fatto in modo di non farlo convocare, che cosa penserebbero? Che hai paura di lui, che credi che lui sia più forte di te e che sia capace di portare la squadra alla vittoria senza il tuo aiuto».
Nigel, paonazzo e tremante di rabbia, si voltò verso il finestrino. Aprì la bocca per urlare e negare tutto, ma non ne uscì alcun suono, perché Molly aveva ragione.
In un’altra occasione si sarebbe applaudita da sola, ma il suo compito era quello di convincere Nigel che lui non aveva bisogno di quei subdoli trucchetti per dimostrare a tutti di essere il migliore. Nonostante questo le costasse enorme fatica.
Si sporse verso di lui e gli prese i pugni fra le mani, accarezzandoli fino a quando non li aprì, rilassando i muscoli. I loro occhi azzurri divennero gli uni lo specchio degli altri e Molly gli spostò i riccioli biondi che gli cadevano sulla fronte.
«Che il coach lo convochi pure, tanto sappiamo tutti e due qui chi prenderebbe a calci in culo l’altro. Non ho ragione?».
Nigel abbassò lo sguardo per una frazione di secondo, poi un ghigno comparve sulle sue labbra. La ragazza tremò leggermente e sperò di non esserci andata giù troppo pesante nell’aumentare il suo ego già smisurato.
«Hai ragione, Molly. Sono stato un vero stupido».
«Giusto un pochino», sussurrò ed indicò un paio di centimetri invisibili tra il pollice e l’indice, scatenando le risate di entrambi.
Cinque minuti dopo arrivarono a Villa Delafield.
Molly scese dall’alta Ford afferrando la mano che Nigel le aveva offerto, gli sorrise brevemente e gliela lasciò nel momento stesso in cui i suoi piedi toccarono terra.
Camminò lungo il vialetto, costeggiando la piscina e il prato tagliato di recente, e si fermò di fronte all’ingresso, sotto la tettoia che circondava anche la facciata bombata e fenestrata della villa.
Nigel, quasi imbarazzato quanto lei, si infilò le mani nelle tasche dei jeans e le rivolse un sorriso impacciato.
Molly socchiuse gli occhi e dentro di sé sospirò. Era così stanca! Mancava poco ormai, cinque minuti al massimo e sarebbe tutto finito. I cinque minuti forse più lunghi e difficili della sua esistenza: il momento dei saluti.

Sii sincera con te stessa, dato che è tutto il giorno che menti, la punzecchiò la sua coscienza, facendola parecchio innervosire. Perché essere sincera proprio in quel momento? Perché ammettere qualcosa che l’avrebbe fatta sentire male?
Incontrò gli occhi accesi e pieni di speranza di Nigel e si arrese all’evidenza: glielo doveva, per come si era comportato e per… sì, beh, per aver evitato di saltarle addosso come la prima volta.
Così si sforzò di stendere l’ennesimo sorriso e con voce incerta, spezzata da un colpo di tosse, disse: «Mi sono trovata bene oggi, sul serio».
«Anche io», convenne Nigel, dondolandosi sui talloni. «Dovremmo rifarlo, prima o poi».
Molly annuì con un cenno del capo. «Beh, allora… grazie. Ci vediamo domani a scuola».
«Certo».
Ma nessuno dei due si mosse.
I loro sguardi si incrociarono ancora e Molly notò qualcosa cambiare sul viso di Nigel, che divenne improvvisamente serio e determinato. Frenando il suo desiderio di correre in casa sbattendosi la porta alle spalle, piantò i piedi a terra per scoprire che cosa sarebbe successo.
Nigel si avvicinò e le accarezzò delicatamente i capelli ai lati del viso. Reclinò la testa e Molly strinse un po’ gli occhi, deglutendo in modo rumoroso.

Okay, ce la posso fare. L’ho già baciato una volta, posso…
Ma Nigel la lasciò allibita ancora una volta, perché le posò un innocuo bacio sulla guancia.
«A domani», bisbigliò prima di allontanarsi senza guardarsi indietro.
Risalì sulla sua auto e l’autista fece inversione per ripercorrere al contrario il vialetto dell’immenso giardino di proprietà Delafield.
La Ford aveva appena voltato l’angolo e Molly era rimasta ferma sotto la tettoia, del tutto incapace di muoversi o di pensare in modo razionale, quando la governante aprì la porta alle sue spalle e la chiamò con voce premurosa, invitandola ad entrare.
Molly percorse il salotto e altre varie sale della casa accanto alla governante, la quale le esponeva ciò che avrebbe potuto dire di cucinare per cena allo chef e di tanto in tanto le chiedeva cosa preferisse, senza mai ottenere una risposta.
«Signorina, si sente bene? Per caso ha mangiato qualcosa che le ha fatto male?», le domandò ad un certo punto, apprensiva.
«No, io… no, sto bene», rispose distrattamente. «Non ho molta fame, comunque, e devo fare ancora i compiti».
«Oh, capisco. Se dovesse aver bisogno di qualcosa mi chiami».
Le rivolse un sorriso dolente. «Grazie, Malie».
Salì le scale in fretta e si chiuse in camera sua. Lasciò malamente la borsa a tracolla accanto al letto e si diresse in bagno, dove aprì i rubinetti della vasca per prepararsi un bagno caldo. Ne aveva davvero bisogno.
Una volta immersa in una marea di vapore e di schiuma profumata, con una mano raggiunse il suo iPhone e si collegò a Facebook.
Scorse la Home fino ad incontrare lo status che Nigel aveva scritto mentre l’aspettava per andare insieme al cinema e vide che aveva collezionato qualcosa come un centinaio di “Mi piace” e altrettanti commenti, molti dei quali delle stesse ragazze che l’avevano insultata quando Nigel, disperato, aveva scritto che non sapeva più come comportarsi con lei, visto che le carinerie e i regali non funzionavano.

Ipocrite
, pensò disgustata e in quel momento un nuovo status comparve sulla pagina del ragazzo. Aveva appena scritto: «Non ce n’è di ragazze come lei», con l’ormai immancabile cuoricino a concludere la frase. Forse l’aveva preso come una forma di punteggiatura alternativa.
Stava per disconnettersi e godersi il suo bagno rilassante – anche se ancora non aveva avuto alcun effetto benefico sui suoi poveri nervi tesi e sui suoi neuroni tramortiti da mille e più pensieri – quando vide che qualcuno aveva già messo “Mi piace”. Leggendo quel nome sentì distintamente il suo cuore staccarsi da tutte le vene e le arterie e piombare giù nella voragine abissale che le si era aperta in mezzo al petto.


A Aiden Cox piace questo elemento.


Lui sapeva che erano usciti insieme.
Spense bruscamente il suo iPhone e lo abbandonò sul bordo della vasca, per poi tirarsi indietro i capelli bagnati ed immergersi nell’acqua calda, sperando che la schiuma la inghiottisse per sempre.

***

Grace aveva capito subito che non si trattava di un suicidio. Quando poi lei e Andrew avevano notato tutte quelle mancanze se ne era convinta del tutto. A dire il vero aveva già qualche sospetto – come non averne! – mancavano soltanto le prove. Presto le avrebbe avute e il caso sarebbe stato risolto, dando finalmente giustizia a quel pover’uomo che aveva lasciato una moglie e un figlio di otto anni, il ragazzo di cui la sua Molly si sarebbe innamorata.
Andrew aveva chiamato l’ex-capo della omicidi Peter Dennison e, dato che era stato anche il suo capo e si conoscevano, era riuscito a farsi dire dove fosse senza metterlo in allarme. L’uomo si trovava a San Francisco, in visita alle sue figlie, e sarebbe tornato a Los Angeles, dov’era residente, entro pochi giorni.
Nel frattempo, Grace e Andrew avrebbero fatto visita ai coniugi Hall per fare due chiacchiere innocenti con loro. Avevano deciso che ci sarebbero andati dopo il week-end, perché il poliziotto aveva diversi casi di cui occuparsi.
Dopotutto anche Grace aveva altro a cui pensare. Al caso di suo padre, per esempio; ai suoi nuovi sviluppi, alla situazione complicata di Lionel e… beh, a Carter, visto che c’era una seria possibilità che fosse ancora vivo, contrariamente a ciò a cui li aveva invogliati a credere il loro ex-amico Bryant.
E a partire da quella sera, perché l’agente Crawford aveva invitato lei e Dylan a bere qualcosa. Non l’aveva mai fatto ed entrambi erano rimasti sorpresi, ma la detective silenziosamente aveva intuito lo scopo di quella serata.
«Carino», esclamò Dylan con il suo casco di servizio sottobraccio, gettandosi un’occhiata intorno.
Era ancora in divisa, perché aveva appena smontato dal turno, e aveva incontrato Grace fuori dal bar in cui Michael aveva dato loro appuntamento.
Con un cenno del capo la detective gli indicò l’agente dell’FBI, seduto sulla panca di velluto verde dietro ad un tavolo addossato alla parete sud del locale. Aveva già preso da bere e si girava il grosso bicchiere di vetro tra le mani, inquieto e con gli occhi vacui.
«Non so tu, ma io ho una brutta sensazione».
Grace ricambiò lo sguardo dell’amico ed annuì prima di avvicinarsi al tavolo.
Appena li vide, Michael recuperò la cosa più simile ad un sorriso presente nel suo repertorio di quella sera e li salutò, esortandoli a sedersi. Poi chiamò un cameriere per le ordinazioni.
«È da molto che vieni qui?», domandò Grace, incrociando le braccia sul tavolo e sorridendogli.
L’agente esitò, colpito in pieno dall’ennesimo flusso di ricordi belli quanto dolorosi, e alla fine rispose: «Sì, abbastanza».
«Ho notato che il cameriere ti ha chiamato per nome», spiegò subito Grace, sventolando una mano.
Un pesante silenzio calò su di loro e Dylan tossicchiò, più che a disagio.
«Ahm… volevi dirci qualcosa?».
«Sì», rispose frettolosamente Michael, anche se sembrava fosse stato preso alla sprovvista.
«Lionel è stato inserito nel Programma Protezione Testimoni dell’FBI e domani sarà trasferito nella casa sicura, dove due agenti gli faranno da scorta ventiquattr’ore su ventiquattro».
«Potrò vederlo, qualche volta?».
Sia Michael che Dylan la fissarono, sbigottiti; allorché Grace realizzò quello che aveva detto, scosse il capo e si portò stancamente una mano sulla fronte.
«Scusami, io…».
«Non possiamo rischiare che quelli dell’organizzazione lo trovino: la nostra intera operazione andrebbe in fumo, oltre al fatto che lo metteremmo in serio pericolo».
«Certo. Mi sono lasciata trasportare. Lui è come un… È molto importante per me».
Michael accennò un sorriso e le strinse la mano sul tavolo di legno chiaro. «Lo so».
«Come farete a trasportarlo nella casa sicura?», intervenne Dylan. «Una volta ho sentito che un uomo era stato costretto a viaggiare in un sacco da morto su un’ambulanza!».
I due lo fissarono come se fossero al cospetto di un bambino – mancava soltanto che Grace gli facesse pat pat sulla testa – e Michael fu tanto abile da cambiare immediatamente discorso.
«Mentre una squadra si occuperà del suo trasferimento, tutti noi dovremo partecipare al suo funerale».
Le guance di Grace si gonfiarono d’aria e vodka lemon, facendole venire le lacrime agli occhi sgranati. Quando riuscì a deglutire e a riprendere fiato, urlò a mezza voce: «Che cosa?!».
«Che ti aspettavi? Dobbiamo far credere che sia morto sul serio!».
«Sì, ma… un finto funerale! Non è un po’ eccessivo?».
«Affatto! Una persona morta a cui non viene organizzato il funerale? Molto sospetto».
Grace si morse le labbra e dovette ammettere che la sua logica era schiacciante. Così si rifugiò di nuovo nell’alcool, sperando che nessun’altro tentasse di farglielo sputare dal naso.
«E poi cosa succederà?», domandò Dylan, guardando prima l’amica al suo fianco e poi Crawford, il quale alzò le sopracciglia ed indicò la detective con un dito.
«Pensavo di chiederlo a lei. Avevi detto che ci avremmo pensato più avanti, ricordi? È arrivato il momento».
Grace scrollò il capo e si strinse nelle spalle. Non aveva un piano, non era riuscita ad escogitarne uno, quindi propose l’unica cosa che le era venuta in mente.
«Aspettiamo che il pesciolino abbocchi all’amo?».
Dylan si staccò dalla cannuccia infilata nel suo bicchiere. «Credi che nonostante il finto certificato di morte e il finto funerale manderanno qualcuno a controllare che Lionel sia davvero morto?».
«Qualcuno di nome Bryant, spero. Altrimenti non ho idea di come fare a contattarlo. Insomma, ho ancora il numero del suo cellulare, ma non lo tiene mai acceso troppo a lungo, per non farsi rintracciare».
«Io lo terrei comunque sotto controllo, non si sa mai», disse Michael.
«Dobbiamo anche cercare Carter. Io e Lionel crediamo che possa essere ancora vivo, magari in fuga».
L’agente dell’FBI annuì e fermò un cameriere per ordinare un altro giro.


Drink dopo drink, erano diventati tutti e tre un po’ più allegri e loquaci, soprattutto Michael, il quale aveva perso del tutto la sua facciata di uomo col cuore di ghiaccio e rideva come un matto per ogni minima cosa, paonazzo in volto e con gli occhi lucidi. Probabilmente non era abituato all’alcool come lo erano lei e Dylan, i quali smisero di divertirsi quando capirono che stava esagerando.
«E dai, ragazzi, che cosa vi prende? Cosa sono quei musi lunghi?!», gridò, sbattendo le mani sul tavolo. «Volete che vi offra un altro giro, non è così? E va bene… Cameriere!».
«No, Michael».
L’agente fissò perplesso la mano che aveva tirato giù la sua, fino a farla posare nuovamente sul tavolo, quindi sollevò gli occhi per incontrare quelli verdi e seri di Grace.
«Credo che possa bastare per stasera».
«Ma cosa…? Abbiamo appena cominciato!», ribatté offeso, mentre il suo viso si accartocciava in una smorfia.
La detective scambiò uno sguardo con Dylan e lui la capì al volo, perché si alzò e delicatamente lo prese per un gomito, invitandolo ad alzarsi.
«Cosa? Dove andiamo?», chiese confuso, appoggiandosi a lui per non camminare nel modo sbilenco che aumentava soltanto il senso di vertigine. «Quand’è che hanno cambiato la disposizione dei mobili, qui dentro?».
«Non hanno cambiato proprio niente, sei tu che vedi la stanza girare», gli spiegò cautamente il poliziotto.
«Oh. Allora credo mi serva proprio una boccata d’aria».
Appena furono accarezzati dall’aria fresca della notte, Michael si appoggiò alla fiancata della sua auto federale e respirò profondamente, con la testa gettata all’indietro e il volto baciato dalla luna.
«Come ti senti?», gli chiese Dylan in modo gentile, avvicinandosi d’un passo. L’agente però stese una mano nella sua direzione e si piegò in fretta oltre il bagagliaio.
Il poliziotto sospirò affranto e gli corse accanto per tenergli la fronte. «Oh, Crawford, che schifo».
Qualche minuto dopo Grace uscì dal bar con il portafoglio ancora fra le mani e sorrise nella direzione di Dylan e Michael, il quale si stava passando un fazzoletto di carta sulle labbra ed era visibilmente più… Crawford, quello dallo sguardo impenetrabile e dal cuore non affatto incline alle sdolcinatezze.
«Un po’ d’aria fresca ti ha fatto bene, a quanto pare», esclamò contenta. Dylan la guardò di sottecchi e con un cenno del capo indicò oltre il bagagliaio dell’auto scura a cui erano appoggiati. E allora capì.
«Oh, no…».
«Oh, sì… Crawford ha vomitato».
«Oh, no! Perché me l’hai fatto vedere?! Sai che sono sensibile!».
Dylan scosse il capo, sghignazzando, mentre la detective camminava avanti e indietro sul marciapiede, con gli occhi socchiusi e il torace che si alzava e si abbassava regolarmente.
«Vedi cose terribili tutti i giorni e sei sensibile al vomito? Questa sì che è bella. Ma con chi mi tocca uscire?».
Sia Grace che Crawford lo guardarono con l’ombra di un sorriso sulla bocca, tanto che anche il viso di Dylan si modellò in un espressione serena.
«Diceva così anche Izac, tutte le volte. E tutte le volte che gli chiedevamo di uscire lui accettava».

Izac. Grace aveva già sentito Michael pronunciare quel nome e a passi lenti lo raggiunse per mettersi al suo fianco.
«Chi è Izac?», chiese Dylan, l’innocenza fatta a persona.
Grace posò una mano sulla spalla di Michael e la strinse piano, cercando di trasmettergli un po’ di sostegno, conscia che gli sarebbe costata un’immensa fatica aprirsi in quel modo.
«Lui… faceva parte della mia squadra».
Dylan si irrigidì ed arrossì per la poca delicatezza con cui aveva fatto quella domanda. Si ricordò delle parole che gli aveva rivolto nella sede dell’FBI a LA qualche giorno prima – sembrava passata un’eternità – e si chiese se non fosse stato quello il vero motivo per cui aveva chiesto loro di bere qualcosa con lui.
«Io, Izac, Spencer, Charles e Allison formavamo una delle migliori squadre dell’FBI, sei anni fa. Poi… ho commesso un errore fatale, un errore che è costato la vita a tutti eccetto me e Charles: non ho creduto nella squadra. Peggio, ho creduto di poter proteggere la squadra contrattando da solo con un criminale che aveva ottenuto delle informazioni top secret su un’operazione dell’FBI in cui eravamo coinvolti. Aveva minacciato di farli uccidere tutti se non andavo all’incontro da solo e io…».
Grace si parò di fronte a lui e lo guardò negli occhi nonostante Michael stesse piangendo ormai a dirotto, con la voce spezzata dai singhiozzi che cercava in ogni modo di trattenere. Gli accarezzò il viso con entrambe le mani, poi lo strinse in un abbraccio.
Michael appoggiò il mento alla sua spalla, stringendo forte i pugni sulla sua schiena.
«I miei compagni hanno capito quello che stavo per fare, sono… sono entrati in quel maledetto capannone per fermarmi, senza aver chiamato i rinforzi, quel bastardo aveva un cecchino e… sono morti. Izac e Spencer sono stati colpiti alla testa e sono morti subito, Allison… la mia Ally… è stata colpita al ventre, ma non c’è l’ha fatta».
«Lei era… era la tua fidanzata?», chiese Dylan a bassa voce, davvero mortificato e commosso, posandogli una mano sulla nuca.
«No, lei era… era sposata, suo marito l’amava e avevano un bambino bellissimo… Oggi sono andato a trovarli, sapete? Li tengo sempre sotto controllo, ma oggi volevo vederli. Mi sono appostato di fronte a casa loro e li ho seguiti mentre andavano al parco. Suo figlio è così cresciuto… ha i suoi stessi capelli biondi».
«Tu l’amavi», mormorò Grace al suo orecchio, facendolo gemere di dolore e singhiozzare più forte contro la sua giacca di pelle marrone.
«Io… l’amavo tanto e non l’ho protetta».


Non essendo Michael in grado di guidare, Grace aveva dovuto lasciare il suo fuoristrada parcheggiato nei pressi del bar e guidare l’auto federale di Crawford per portarlo a casa, con Dylan che sembrava fargli da scorta sulla sua moto.
Una volta nell’appartamento dell’agente, erano rimasti ancora un po’ con lui, giusto per accertarsi che stesse bene.
«Potete andare, ragazzi, è molto tardi. Domani abbiamo un funerale a cui partecipare».
Grace notò con piacere che stava tornando il solito Crawford di sempre e si sedette accanto a lui sul divano, aiutandolo a sbarazzarsi della cravatta.
«Che fine ha fatto Charles?», gli chiese piano.
«Quando io sono stato retrocesso lui si è fatto trasferire a Miami. Non ci sentiamo da allora». La guardò negli occhi e aggiunse: «E non ho intenzione di sentirlo. Ha tutte le ragioni del mondo per odiarmi».
«Okay, come vuoi», sospirò e gli accarezzò una guancia, un sorriso mesto sul viso.
«Tu non ci perderai», gli disse ad un tratto, cercando anche gli occhi di Dylan a conferma delle sue parole. «Siamo una squadra».
Michael la strinse in un delicato abbraccio e le posò un bacio sulla fronte. «Tu assomigli molto ad Allison. E ti voglio bene».
Grace, onorata, si morse l’interno di una guancia e si alzò per lasciare un po’ di spazio a Dylan. Anche lui abbracciò Crawford, dandogli qualche pacca sulla schiena.
Finalmente si diedero la buonanotte e i due uscirono dall’appartamento sentendosi legati a lui più che mai, ora che si era confidato con loro, permettendogli di scoprire le sue più grandi paure e i suoi più grandi punti deboli.
«Ora capisco molte cose», esclamò Dylan prendendo il casco di riserva e passandolo a Grace. «Per esempio perché era sempre così chiuso con noi: non voleva che diventassimo una squadra, perché aveva paura di perderla di nuovo».
Grace annuì e montò dietro di lui, stringendogli le braccia intorno alla vita.
«Vai piano, mi raccomando».
Dylan sogghignò. «Cos’è, adesso sei sensibile anche alle moto?».
«No, sono sensibile a te che vai in moto. Non mi dimenticherò mai il volo che abbiamo fatto quando cercavamo di arrestare quel trafficante».
«Cavolo, è stato anni fa! E poi non era stata colpa mia, tecnicamente…».
Grace sorrise e gli tirò un pugnetto sul casco. «Anche noi ne abbiamo passate tante, eh?».
«Siamo una squadra veterana, ormai! Per questo dovresti fidarti di me ciecamente!».
«Ma io mi fido di te, è della tua guida pericolosa che…».
Dylan accelerò all’improvviso e Grace non riuscì a trattenere il grido stridulo che le uscì dalla gola mentre si aggrappava a lui con più forza.
Giurò a se stessa che una volta scesa da quel veicolo-suicida l’avrebbe preso a calci così a lungo che non sarebbe riuscito a sedersi per una settimana.

***

«Tesoro! Il tuo PC ha qualcosa che non va!».
Grace si grattò la testa ed uscì dal bagno come ci era entrata, nel suo completo da notte: una canottiera larghissima e un paio di pantaloncini.
«Non ha nulla che non va, si sta soltanto collegando a Skype».
Sbadigliò vistosamente e prese la sua tazza di caffè in cucina, quindi tornò in salotto, dove sua madre era indaffarata con asse e ferro da stiro. Si sedette sul divano, di fronte al suo laptop, e all’improvviso apparve l’immagine di Tom sdraiato a pancia ingiù sul letto, che mangiava patatine.
«Bill! Siamo in diretta con Grace!», gridò, per poi sorridere rivolto verso la webcam. «Che bello rivederti. Ma ti sei appena svegliata?».
Grace annuì e si passò una mano sugli occhi. «Mi manchi».
«Davvero? Allora perché non stai urlando disperata?».
«Okay, dopo questa mi manchi già di meno».
Tom rise e finalmente Bill lo raggiunse, gettandosi al suo fianco.
«Ciao Grace! Non starlo a sentire, è lui quello disperato senza di te! E indovina chi se lo deve subire? Io!».
«Mi dispiace proprio tanto, Bill».
«Quando avrete finito di far finta che io non sia presente fatemi un fischio!», intervenne il chitarrista, riempiendosi la bocca di patatine.
Grace ridacchiò e si portò una mano alla bocca per fischiare. «Tom, raccontami che avete fatto oggi».
«Il solito: interviste, sessioni d’autografi, ancora interviste… Tu come te la passi? Qualcosa di nuovo?».
«Nulla di straordinariamente eccitante. Vi ricordate il ragazzo che piace a Molly? È stato riaperto il caso della morte di suo padre e io sto collaborando con la omicidi, con Andrew».
«Ah, sì, mi ricordo di lui!», esclamò Tom.
Quasi contemporaneamente, Bill chiese: «Quindi le cose tra Molly e questo ragazzo stanno andando bene?».
«In realtà… è complicato». Grace bevve un altro sorso di caffè e si tirò indietro un ciuffo di capelli neri che le era scivolato sulla fronte. «Molly crede che questo ragazzo non sia interessato a lei e poi è successo un casino con la squadra di baseball… e lei, per poterlo aiutare, ha deciso di passare un po’ di tempo con Nigel».
«Cosa?! È uscita con quello che l’ha quasi aggredita di fronte alla gelateria?!», urlò Bill, tanto da costringere Tom ad allontanarsi un po’, dopo avergli tirato una gomitata nel fianco.
«Aggredita è una parola grossa. Comunque sì. E adesso è più confusa che mai, perché…».
«Non ci posso credere! Quel ragazzino è riuscito a farsi piacere?!».
Bill era sconvolto tanto quanto Grace, che non capiva proprio come avesse fatto. Anche lei aveva molto intuito, ma nelle questioni di cuore il cantante era un assoluto indovino.
«È un periodo piuttosto difficile, magari parlarvi la farebbe sentire un po’ meglio», gli consigliò con un sorriso dolce sul viso e Bill annuì, convinto al cento e uno per cento.
«La chiameremo, stai tranquilla».
Tom stava per cambiare discorso facendole un’altra domanda, ma si interruppe quando sentì la voce di Melanie fuori campo. La donna infatti aveva fatto il giro dell’asse da stiro e aveva mostrato alla figlia ciò che le aveva diligentemente stirato: una camicetta e una gonna lunga fino al ginocchio, entrambe rigorosamente nere.
«Dove te le metto, tesoro? Oh, ciao ragazzi!».
«Salve», incorarono i gemelli, anche se erano piuttosto incuriositi da quegli indumenti fin troppo insoliti per una come Grace.
«Lasciale pure sul letto in camera mia», disse la detective tirando un sorriso, guardandola mentre si allontanava lungo il corridoio.
Quando si voltò di nuovo verso lo schermo del suo laptop cercò di mantenere un’espressione normale, a dispetto della tensione che sentiva crescere dentro di lei. Non era certa di riuscire a mentire a Tom su una questione tanto importante come la morte di una persona, ma doveva farlo, nel caso quei bastardi criminali controllassero tutte le sue chiamate e si fossero collegati anche al suo computer.
Odiava sentirsi spiata, tanto da promettere a se stessa che non avrebbe più messo cimici per un bel po’ di tempo, ma grazie alla sua abilità nelle intercettazioni poteva prevedere ogni loro possibile tattica e sfruttarla a suo vantaggio. In quel caso, mentendo a Tom, avrebbe dato loro un’ulteriore prova che Lionel fosse morto davvero, anche se rischiava di convincerli fin troppo e di perdere l’unica possibilità di avere un seppur minimo contatto con Bryant, il loro burattino sacrificabile. Come fare, allora? Doveva o non doveva essere convincente?
Sospirò e pensò che l’avrebbe deciso la dea bendata. D’altronde non poteva leggere nelle loro fottute menti perverse!
«Ehm… Non dovrai indossarli, vero?», esclamò Bill a bassa voce, avvicinandosi un po’ di più alla webcam.
«Invece credo proprio di sì».
Tom sgranò gli occhi. «E dove dovresti andare vestita così?».
«Ad un… ad un funerale».
I due gemelli si irrigidirono, Tom spostò le patatine e prese il PC portatile fra le mani, facendo tremare tutto per qualche secondo. Una volta seduto sul letto, se lo appoggiò sulle ginocchia e piegò lo schermo per far vedere meglio anche a Bill, appoggiato alla sua spalla, in ginocchio dietro di lui.
«Grace, per favore, dimmi che stai scherz–».
«Lionel è morto», lanciò la bomba e voltò il capo verso destra, vedendo sua madre venirle incontro per stringerle una mano.
Aveva dovuto mentire anche a lei, quella volta più per proteggerla che per attirare i topolini nella loro trappola, e credeva davvero che Lionel fosse morto.
«Grace, io… Mi dispiace tantissimo, so quanto tenevi a lui».
«Già», mugugnò strofinandosi la punta del naso.
«Perché non me l’hai detto subito?».
«Lo sai com’è l’FBI… tutto è top secret per loro. E poi non volevo che ti preoccupassi per me. Sto bene, davvero. Me la caverò».
Tom annuì, anche se non convinto, poi le rivolse un piccolo sorriso. «Sei hai bisogno di parlare, di sfogarti… sai che per te sono disponibile ad ogni ora del giorno e della notte, vero?».
«Sì, lo so. Grazie mille, Tom», ricambiò il suo sorriso avendo la sensazione che il suo cuore si stesse lentamente sciogliendo.
Vide sua madre alzarsi con la sua tazza di caffè vuota fra le mani e quando fu in cucina Grace si avvicinò di più alla webcam e sussurrò: «Ti amo», soffiando un bacio.


Sia Grace che Dylan avevano immaginato che sarebbe stato un funerale semplice, di pochi intimi. Si erano sbagliati, e di grosso.
Se n’erano accorti appena arrivati al cimitero, quando due agenti armati appostati all’ingresso avevano chiesto di mostrare loro le credenziali, per verificare che fossero effettivamente nella lista degli invitati. Quando erano entrati, avevano visto che l’intera area era strettamente sorvegliata da agenti dell’FBI. Non sarebbe riuscita a volare nemmeno una farfalla, con tutte quelle armi pronte a fare fuoco.
Prima che la bara venisse calata nel terreno e gli amici più cari di Lionel vi lanciassero sopra fiori e pugni di terra, c’era stata una parata della Marina Militare degli Stati Uniti, come in un vero e proprio funerale di Stato, che gli aveva reso onore per i suoi meriti in Afghanistan.
Più volte Grace si era detta che avevano fatto davvero un bel lavoro quelli dell’FBI, perché a tratti aveva sentito una morsa di ghiaccio intorno al cuore, simile a quella che aveva patito durante il funerale di suo padre. Peccato che il suo non era stato tutta una messa in scena e non c’era stata nessuna parata militare per lui.
Tornata a casa aveva trovato il pranzo pronto, ma si era scusata con sua madre dicendo che non aveva appetito, e poi si era chiusa in camera sua, malinconica e spossata.
Solo in quel momento riusciva a capire quanto fosse stata dura per lei rievocare quel ricordo, tanto da maledirsi perché aveva finto di partecipare all’ultimo saluto di una persona che era viva e vegeta. Sentire la voce di Lionel l’avrebbe fatta sentire meglio, forse, ma sapeva che non poteva chiamarlo in nessun modo. Per lei era davvero irraggiungibile.
Sospirò stancamente e si alzò dalla poltroncina con le rotelle della sua scrivania, desiderosa di spogliarsi e di fare una doccia bollente in grado di farle scivolare addosso tutta quella pesantezza.
Si diresse verso il bagno, slacciando i primi bottoni della camicetta, quando udì il suono del campanello. Stranamente, si fermò con la mano sulla maniglia della porta e non riuscì più a muoversi, ammutolita e raggelata da un brutto presentimento.
Fece uno scatto in avanti per impedire a sua madre di aprire la porta, ma purtroppo non fece in tempo a fermarla.
I loro sguardi si incrociarono e Grace sentì il sangue gelarsi nelle vene, mentre defluiva velocemente dal suo viso e lo rendeva pallido. Nessun trucco, era davvero sconvolta e arrabbiata e presa alla sprovvista… e mille altri sentimenti che non riuscì a denominare.
Non pensava che sarebbe successo così presto. Non era nemmeno sicura che potesse accadere, una cosa simile! E invece Bryant era proprio alla sua porta, che la fissava con le labbra dischiuse e le pupille dilatate per l’agitazione.
Sua madre non conosceva Bryant, come non sapeva nulla di Lionel prima che sua figlia le spiegasse chi fosse.
I due ex-marines l’avevano aiutata nel caso di suo padre, poi dopo l’aggressione a Melanie avevano deciso di tagliare la corda per allontanare dalla zona quelli dell’organizzazione criminale, i quali volevano farli fuori a tutti i costi. Questo era quello che aveva creduto fino a quando Lionel non l’aveva chiamata, ad un passo dal morire dissanguato perché Bryant, venduto ai loro nemici, gli aveva sparato due colpi al petto.
Sua madre non sapeva chi era Bryant, dunque, né poteva immaginare di essere di fronte a colui che aveva “ucciso” il suo amico Lionel.
Grace si avvicinò a lei, pur senza staccare lo sguardo da Bryant, e le strinse debolmente il polso, indicandole con un cenno del capo di andare in cucina. La signora Moore eseguì senza fare domande e una volta rimasti soli, Grace e Bryant si scrutarono ancora per qualche secondo, poi la detective pregò perché le sue doti di bugiarda in carriera fossero migliori con i cattivi.
«Oh, Bryant», sussurrò socchiudendo gli occhi e sforzandosi di farli lacrimare, quando gli avvolse le braccia intorno al collo per stringerlo in un forte abbraccio.
Toccarlo dopo quello che aveva tentato di fare a Lionel le dava il voltastomaco, ma era la loro grande occasione per fare un enorme passo avanti e sbattere in cella quei killer e coloro che li avevano assoldati.
«Stai bene, grazie al cielo! Da dove arrivi? Sarai stanco! Hai fame, forse sete?».
La prese per le spalle e la guardò negli occhi, o almeno ci provò. «Grace, Grace calmati. Sto bene e un bicchiere d’acqua andrà benissimo. Ma prima…».
«Sì?».
La percorse con lo sguardo e la detective ebbe la netta impressione che i suoi occhi si fossero oscurati, come se un’ombra di tristezza li avesse appannati all’improvviso.
«Lionel… Lionel è veramente morto?».
Grace chinò il viso, fingendosi addolorata, e pensò che nella scala dei bugiardi in carriera lui era molto, ma molto più convincente di lei. O forse era davvero triste per la scomparsa del suo compagno?
«Sì, lui… non ce l’ha fatta», mormorò e senza guardarlo in viso si allontanò. «Vado a prenderti quel bicchiere d’acqua».
Tirò fuori un bicchiere dalla credenza ed incrociò lo sguardo di sua madre, seduta al tavolo con una tazza di tè tra le mani. Tirata fuori la bottiglia d’acqua dal frigorifero, le si avvicinò e con la coda dell’occhio vide Bryant aggirarsi nel salotto, per poi sedersi sul divano, dandole le spalle.
«Mamma, devi darmi una mano», bisbigliò con un angolo della bocca. Gli occhi della donna si accesero d’ansia.
«Devi andare in camera mia, prendere il mio cellulare e chiamare Crawford. Digli che abbiamo compagnia e di raggiungerci qui il più in fretta possibile, lui capirà».
Melanie annuì e aspettò che Grace portasse il bicchiere d’acqua in salotto, poi si alzò dal tavolo e mise la tazza vuota nel lavello.
«Scusami tesoro, devo fare la lavatrice, hai per caso qualcosa in giro?».
Grace si complimentò silenziosamente con lei per la trovata. Anche lei se la cavava alla grande nel mentire. Al quel punto non poteva far altro che pensare che fosse una caratteristica di famiglia.
«Dovrebbero esserci un paio di cose in camera mia, vai pure».
La donna annuì e rivolse un sorriso all’ospite, il quale ricambiò incerto prima di tornare a voltarsi verso la detective.
«Mi spieghi che cosa diavolo è successo? Sono riusciti a trovarvi a Tijuana e hanno provato ad uccidervi?», chiese Grace, recitando ancora la parte della ragazza spaventata.
Bryant esitò, ma in poco tempo riuscì a reagire e ad annuire con convinzione. «Ci eravamo fermati in quel motel per la notte. Probabilmente non avevamo fatto abbastanza attenzione e ci avevano localizzati. Lionel ha tentato di difendersi, ma…».

Poteva inventarsi di meglio. «E tu non ti sei fatto niente? Come hai fatto a scappare?».
«Nulla, a parte qualche livido. Sono scappato dalla finestra e, non so come, sono riuscito a prendere l’auto, nonostante avessi paura che vi avessero piazzato sotto qualche bomba pronta ad esplodere nel momento in cui avrei avviato il motore, ma non è successo. Credo mi abbiano lasciato andare».
«E per quale motivo avrebbero dovuto farlo?».
«Forse far pervenire solo il cadavere di Lionel era un modo come un altro per arrivare a te… Non ne ho idea».
Grace lo fissò intensamente negli occhi e dentro di sé si chiese se non stesse cercando di mandarle qualche messaggio in codice, come se… come se Bryant non fosse del tutto dalla loro parte. Che casino allucinante! Rischiava di diventare pazza, a furia di tradimenti e di voltafaccia improvvisi.
«Forse hai ragione», borbottò.
«Tu invece cosa ti sei fatta al viso? È il residuo di un livido, quello che hai sulla mandibola?».
Grace si portò una mano sul lato del viso ed abbassò gli occhi, pensando freneticamente ad una risposta: doveva mentirgli oppure dire la verità?
Proprio in quel momento vide sua madre tornare dal bagno con una cesta di panni puliti e da piegare. Sfruttando un gioco di sguardi che Melanie e Grace avevano inventato quando quest’ultima era solo una bambina, la donna chiuse lentamente le palpebre e poi le riaprì, facendo capire che era tutto a posto: Michael sarebbe arrivato tra poco.
Rassicurata, rivolse un piccolo sorriso a Bryant, che assunse un’espressione ancora più confusa.
«Sono stata a Berlino, pochi giorni fa», spiegò. «E una sera sono stata aggredita, presumo da uno dell’organizzazione criminale».
«C-Come?».
Sembrava davvero sorpreso, come se avesse appena ricevuto un cazzotto imprevisto in pieno volto. (E non gli aveva ancora raccontato la parte più entusiasmante!) Possibile che non ne fosse informato? Beh, sì, dato che il suo unico compito doveva essere quello di sbarazzarsi di Lionel.
«E ti ha lasciato… viva?».
Grace alzò le mani, ridacchiando. «A quanto pare! Però ho rischiato molto. Se non fosse arrivato quell’uomo…».
«Che uomo? Di chi stai parlando?».
«Non sono riuscita a vederlo, era buio ed ero sdraiata a terra con una pistola puntata alla testa. Sta di fatto che mi ha salvata, uccidendo il mio aggressore».
Bryant sgranò gli occhi, tanto da farle credere che da un momento all’altro gli sarebbero penzolati fuori dalle orbite.
«È stata una vera fortuna. Senza di lui… sarei morta», concluse, continuando a guardarlo per godersi lo spettacolo: era così sconcertato! Probabilmente si stava domandando chi della cricca avesse disertato, pronto a guardare in faccia la propria morte.
Grace non vedeva l’ora di potersi sfogare su di lui per farsi rivelare tutto ciò che sapeva in proposito.
«Ma basta parlare di me», disse ancora, attirando la sua attenzione su di sé. «Perché sei tornato a Los Angeles? Solo per sapere se Lionel fosse morto davvero?».
«Sostanzialmente per questo, davvero non riesco a credere che…», sospirò afflitto e scosse il capo. «Speravo anche che tu potessi offrirmi un nascondiglio, per questa notte. Domani mattina ripartirò».

Non credo proprio, stronzo, pensò, a dispetto di ciò che rispose.
«Sicuro! Sai che puoi contare sempre su di me, se ti serve qualcos’altro basta che tu…».
«No, davvero, non è necessario. Non voglio metterti in pericolo più di quanto tu lo sia già».
Grace combatté per stiracchiare un sorriso, nauseata.
«Potresti stare nell’appartamento vuoto accanto al mio ufficio, ho le chiavi».
«Sarebbe perf–».
Il campanello lo interruppe, facendolo anche irrigidire.
«Aspettavi qualcuno, mamma?», chiese in tono candido Grace, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
«No, tesoro. Magari è Dylan».
«Uhm, può essere. Ormai passa così tanto tempo qui che casa sua deve sembrargli estranea!».
Le due scoppiarono a ridere, mentre Bryant era un fascio di nervi sul divano.
«Oh, è Michael! Un mio amico dell’FBI», annunciò Grace dopo aver guardato dallo spioncino, lanciando un’occhiata all’ex-marine.
«Dell’FBI?», balbettò, scattando in piedi come una molla.
Grace aprì la porta e Michael gettò subito un’occhiata all’interno, individuando il loro uomo.
«Tutto bene?», le chiese all’orecchio, mentre facevano finta di scambiarsi due innocui baci sulle guance.
Appena la ragazza annuì, Michael schioccò le dita della mano e mezza dozzina di uomini dell’FBI, con giubbotti antiproiettile e armi alla mano, entrarono in casa puntandole contro Bryant, il quale preso dal panico si portò le mani dietro la schiena.
Grace capì quello che aveva intenzione di fare, ovvero tirare fuori le pistole che aveva nascosto sotto la maglietta, nella cintura dei jeans, e sparare alla cieca per creare un qualunque diversivo e scappare, ma fu anticipata da una persona che non avrebbe mai immaginato capace di una cosa del genere.
Con un movimento fulmineo sua madre prese la cesta dei panni puliti e gliela lanciò addosso. Bryant perse l’equilibrio, cadde e venne ricoperto da calzini e biancheria intima da donna. Poi gli uomini dell’FBI gli si gettarono sopra, fermandogli le braccia dietro la schiena e disarmandolo.
«Beh, ora so per certo che non hai preso solo da tuo padre», esclamò Michael, mentre un agente si soffermava a guardare con malizia un reggiseno di pizzo nero levato di dosso dal sospettato.
Grace, rossa in viso, glielo strappò dalle mani e se lo nascose dietro la schiena, rivolgendo uno sguardo truce alla madre, la quale sollevò le mani e nascose il collo tra le spalle, con un’espressione innocente che sembrava voler dire: «Mi dispiace, ma è stata la prima cosa che mi è venuta in mente!».
Michael avvolse le spalle di Grace con un braccio e rise sommessamente, coinvolgendo dopo un po’ anche la detective.
Sarebbe stato un bell’episodio da raccontare a Tom. Già sapeva che avrebbe rimpianto per sempre il fatto di non aver assistito dal vivo alla scena: un uomo armato atterrato da un cesto di reggiseni e mutandine. Un avvenimento più unico che raro!

***

«Signorina, non dovrebbe fare il bagno! Ha appena finito di pranzare!».
Molly sbuffò e salì sul trampolino della piscina sul retro della casa. Si piegò leggermente sulle gambe, diede una bella spinta verso il basso e il rimbalzo la catapultò in alto e contemporaneamente in avanti. Fu un tuffo di testa quasi perfetto, perché non aveva tenuto i piedi ben uniti e per questo c’erano stati un po’ di schizzi.
Nuoto sott’acqua per un po’, con la pancia che sfiorava le mattonelle azzurre del pavimento, godendosi i raggi di sole che le accarezzavano la pelle delicata e il silenzio che le ovattava le orecchie. Solo quando sentì i polmoni a corto d’ossigeno risalì in superficie.
Con la schiena sorretta dall’acqua, chiuse gli occhi al cielo e regolarizzò il proprio respiro. Sapeva che i suoi capelli le galleggiavano intorno alla testa creando una specie di grande aureola bionda e dai riflessi luminosi, e si crogiolò nel pensiero di essere diventata un angelo, tanto che stese le braccia come se avesse avuto le ali.
«Ahm, signorina…».
La voce della governante sembrava così lontana, a causa dell’acqua che le copriva le orecchie, ma Molly non la ignorò e sospirò.
«Che c’è adesso, Malie?».
«La stanno chiamando al cellulare».
«Rifiuta pure la chiamata, non voglio essere disturbata da nessuno».
«Non vuole nemmeno sapere chi è?».
«Chi è?», domandò lagnosamente, controvoglia.
«Il signor Tom, a quanto vedo».
Molly si agitò all’improvviso e questo la fece sprofondare per qualche secondo. Poi nuotò in fretta fino a bordo piscina e si fece dare l’asciugamano posato sullo sdraio, si asciugò le mani e prese frettolosamente il suo iPhone per accettare la chiamata.
«Tom!?», esclamò, il cuore che le batteva forte nel petto.
Molte volte aveva sognato che la chiamasse e la confortasse e le dicesse cosa avrebbe dovuto fare con i due ragazzi che le tormentavano l’esistenza, ma non l’aveva neanche accennato a Grace: insomma, era la sua ragazza! E lei… beh, fino a pochi mesi prima sbavava dietro di lui, come qualsiasi teenager fan dei Tokio Hotel con gli ormoni impazziti e con il suo stesso debole per il chitarrista della band.
«Mi dispiace, ma sono solo Bill», rispose il cantante, ridacchiando. «Se hai così voglia di parlare con lui te lo passo, eh, nessun problema!».
«No, no! È che… è il suo numero!».
«Mm-mmh. Allora, come stai? È vero che hai iniziato a frequentare quel moccioso, Nigel?!».
Molly fu scossa da un brivido di freddo, tanto che la governante, ancora al suo fianco, le posò l’asciugamano sulle spalle. Le rivolse uno sguardo fulminante e con un gesto brusco – dopo si sarebbe dovuta scusare – la spinse ad andarsene.
«Oh, quindi… è stata Grace a dirvi di chiamarmi, non lo avete fatto di vostra spontanea volontà», dedusse, tanto avvilita che avrebbe voluto giacere sul fondo della piscina per l’eternità.
«È vero, Grace ci ha informati delle ultime novità, ma credi davvero che se lei non ci avesse detto nulla noi non ti avremmo chiamata? Molly tu sei… sei la nostra fan numero uno, ti vogliamo bene!».
Era stupido, ne era perfettamente consapevole, ma a quelle parole consolatorie il suo cuore riprese a palpitare con vivacità e il suo sorriso spento tornò a rifulgere, tanto brillante da essere in competizione col sole poco oltre lo zenit.
«Grazie, Bill, anche io vi voglio bene. Tanto».
Gli raccontò così tutto quello che era successo da quando se n’erano andati, soffermandosi in particolar modo sul pomeriggio trascorso a studiare a casa di Aiden e poi sul pomeriggio precedente, quando invece era andata al cinema con Nigel. Aveva ancora una gran confusione in testa e non riusciva a capirne il motivo, o più semplicemente non aveva ancora la forza per accettarlo.
«Vuoi il mio consiglio?», chiese Bill, dolcemente. «È la prima sensazione quella che conta! Non intendo dire che Nigel non possa rivelarsi un tipo okay, ma quello che hai provato quando hai incontrato Aiden per la prima volta… è di quelle sensazioni che ti devi fidare».
«Io… io mi fido di quelle sensazioni, mi fido fin troppo! Ed è questo che mi fa star male, perché lui…».
«Piantala di dire che lui non è interessato a te! Secondo me lo è eccome! Ma c’è qualcosa che lo blocca, non so cosa. Tocca a te scoprirlo e fargli capire che si sbaglia».

«Ehi, Dottor Stranamore, hai finito? È tardi, vorrei parlare anche io con Molly prima di domani!».
Sentendo la voce fuori campo di Tom, Molly ebbe la sensazione di avere appena ricevuto un pugno al cervello, mentre il suo cuore le era schizzato improvvisamente in gola. Veramente voleva parlarle?
Calmati, Molly. Lui è il ragazzo di Grace e tu non sei che un amica per lui! Ma era più forte di lei, maledettamente più forte di lei. Forse non sarebbe mai riuscita a smetterla di volergli bene in quel modo speciale.
«Come avrai sentito, Tom freme dalla voglia di parlare con te! Finiremo di parlarne la prossima volta, okay? Ehi, ci sei ancora?».
La ragazzina scosse il capo, i capelli ancora bagnati le frustarono le spalle. «Uh-uh».
«Allora ciao, e non dimenticarti quello che ti ho –!».
«Sì, sì, abbiamo capito, Bill», abbaiò Tom, il quale quasi sicuramente aveva strappato il suo cellulare dalle mani del gemello. Quando si rivolse a lei, lo fece con un tono infinitamente dolce, e il suo cuore tremò.
«Ciao, piccola. Bill non ti ha riempito la testa con troppe cavolate sull’amore, vero?».
Molly arricciò le labbra in una risata e senza nemmeno sapere perché due grosse lacrime le orlarono gli angoli degli occhi cerulei.
«Che cosa dovrei fare, secondo te?».
«Mmm… Credo che tu debba chiarire un po’ i tuoi sentimenti, scinderli, e capire che cosa vuoi davvero. Ma sia che tu faccia la scelta giusta, sia che tu prenda la decisione sbagliata, soffrirai un po’ in entrambi i casi. Queste… cose sono sempre dolorose».
«Ma prima o poi il dolore sparirà, giusto?».
«Dipende tutto da te, piccola. E dalla persona che avrai accanto, naturalmente. Sappi però che i tuoi amici ci saranno sempre per te».
«Sono le cose più belle che io abbia mai sentito in vita mia».
Tom ridacchiò. «Lo so, so essere estremamente sensibile anche io, qualche volta!».
«Tu… tu chi sceglieresti? Bill è già convinto che debba provarci con Aiden, da quanto ho capito…».
«Non saprei, tu ti meriti il meglio del meglio! E io, purtroppo, non sono più disponibile. Se fossi stata un po’ più grande e non mi fossi innamorato di Grace, credo che avrebbe potuto funzionare».
Le orecchie le si otturarono e si stapparono nel giro di un secondo, tramortendola. O era stata soltanto una sua impressione?
«Ma a parte gli scherzi… Credo davvero che tu debba scegliere chi ti fa felice davvero».
Il silenzio che seguì quelle parole preoccupò il chitarrista, che la chiamò più volte, inutilmente, perché Molly ci sentiva benissimo, solo non sapeva più cosa dire. In quel momento nessuno dei due, né Nigel né tantomeno Aiden, la rendevano felice, se non a sprazzi veramente isolati e rari. Ma quanto valevano quei momenti, quanto? Un sorriso assumeva i mille colori di un arcobaleno, la pioggia fredda e improvvisa che le bagnava i vestiti era miele sull’anima, le risate pura musica.
«Molly? Okay, forse ho detto qualcosa di sbagliato? Cosa posso fare per rimediare, qualsiasi cosa!».
«Sai qual è l’unica cosa che mi farebbe felice, adesso?», gli chiese finalmente, con voce pacata, mentre muoveva un piedino nell’acqua limpida.
«Cosa?».
«Abbracciarti. Mi farebbe stare molto meglio».
Tom trattenne il respiro per un attimo, poi si sciolse in un sorriso. «Credo che Grace non sarebbe gelosa, in questo caso particolare. Quando torneremo sarà la prima cosa che… Molly? Ehi, ma…!».
Aveva riattaccato.

***

«Quindi Lionel è vivo, dico bene?».
Grace serrò le mascelle e si sforzò per non ringhiare dalla rabbia. Sbatté le mani sul tavolo nero presente nell’angusta sala interrogatori nella sede dell’FBI e guardò Bryant dritto negli occhi, ad un palmo dal suo viso.
«Tu gli hai sparato. Tu sei dalla loro parte, lo sei sempre stato! Non ti perdonerò mai per quello che hai fatto a Lionel, né per aver tradito in questo modo la mia fiducia. Mi fai schifo».
Michael, che era rimasto seduto in silenzio di fronte al sospettato-già-colpevole fino ad allora, si schiarì la voce ed aspettò che la detective si allontanasse per iniziare con le domande.
Grace interruppe il contatto visivo, anche se aveva un disperato bisogno di sputargli addosso cose ben peggiori, e si appoggiò al muro alle spalle dell’agente Crawford, accanto al vetro a specchio che permetteva agli agenti dall’altra parte di godersi la scena senza però essere visti.
«Allora, ci può raccontare com’è entrato in contatto con l’organizzazione criminale e come poi, successivamente, ne è entrato a far parte?».
Alla gentilezza di Michael, Grace rovesciò gli occhi.
Bryant si inumidì le labbra e si strinse le braccia al petto. «Mi uccideranno. Mi uccideranno se verranno a sapere che…».
«Oh, ti prego!», sbottò, rossa di rabbia, non riuscendo a trattenersi. «Lo sai benissimo come funziona! Tu collabori e l’FBI ti protegge nonostante tu sia un dannato traditore! E se hai così tanta paura di loro, allora sei fortunato a non aver mai assaggiato la mia vendetta!».
«Grace, per favore», le disse Crawford, guardandola con tanto d’occhi. Lei si ammutolì e si addossò di nuovo con la schiena al muro, infuriata.
«Ha intenzione di collaborare oppure no?», domandò l’agente, lasciandosi andare ad un sospiro massaggiandosi una tempia.
Bryant scrollò la testa, arrendevole. «Una notte sono piombati in casa mia, mi hanno detto che avrebbero ucciso tutta la mia famiglia: i miei fratelli, mia sorella, mio padre… e io sarei stato la ciliegina sulla torta. Mi hanno proposto di stare dalla loro parte e mi hanno offerto pure dei soldi...».
Grace sgranò gli occhi e si portò le mani sulla testa, sconvolta, ma non un suono uscì dalla sua bocca.
«Ma lo giuro, lo giuro, i soldi non mi interessavano! Io volevo soltanto che lasciassero in pace la mia famiglia, solo quello!».
Allora la detective scattò in avanti e tornò a sbattere le mani sul tavolo, facendolo sobbalzare.
«E avresti sacrificato i tuoi amici, senza nemmeno provare a lottare?!».
«Che avrei dovuto uccidere Lionel me l’hanno detto solo quando ormai collaboravo da settimane!».
«E che cosa avresti fatto per loro, prima di ricevere questo… ordine?», chiese Crawford, interessato, facendo segno a Grace di fare silenzio.
Bryant gettò uno sguardo spaventato alla detective, la quale strinse con più forza gli occhi, come se volesse leggergli nell’anima, e in quale modo ci riuscì, perché la risposta le illuminò la mente come un lampo squarcia le tenebre durante una tempesta.
«Tu hai rubato il cellulare a Tom? Sei in entrato in casa sua…». Era così arrabbiata che avrebbe voluto chiedere cortesemente a Crawford di alzarsi per prendere la sedia di plastica nera e schiantarla in testa a Bryant fino a renderlo una massa informe sul pavimento.
«Mi dispiace, Grace, mi dispiace davvero», mormorò l’ex-marine, nascondendosi il viso fra le mani. «Ma la cosa più dolorosa è stata… è stata avvicinarmi a te e a Lionel, affezionarmi a voi, pur sapendo che un giorno vi avrei traditi».
«Tu hai scelto di tradirci. Se davvero… Avresti potuto parlarcene, avremmo trovato una soluzione, insieme!», gridò e solo grazie a Crawford, che le toccò il dorso bagnato della mano, si accorse delle lacrime che le scorrevano sul viso.
«Vai fuori a prendere una boccata d’aria, per piacere», le sussurrò. «Qui finisco io».
Lei annuì senza protestare ed uscì dalla sala interrogatori sbattendosi la porta alle spalle. Si appoggiò con la schiena al muro del corridoio, respirò profondamente e con lentezza si lasciò scivolare fino a ritrovarsi seduta sulla moquette grigia, con le gambe strette tra le braccia.
Qualche minuto dopo, la porta accanto a quella da cui era uscita lei si aprì, rivelando Dylan, il quale aldilà del vetro aveva assistito a tutto quanto.
Si sedette al suo fianco, un gomito a toccarle un ginocchio, e le sorrise prima di posarle un bacio fra i capelli insolitamente non raccolti nella coda sulla nuca.
«Sei okay?», le domandò a bassa voce, nonostante fossero soli.
«Non riesco a credere che non mi sia mai accorta di nulla, che lo abbia sempre creduto dei nostri».
«Grace… non sei infallibile. Nessuno lo è. Ed è questo che ci rende più forti, perché impariamo dai nostri errori».
«Ma a volte non si può rimediare agli errori, Dylan. Se io me ne fossi accorta prima, non avrei mai esposto Lionel in quel modo e non avrebbe rischiato di morire».
Dylan rimase in silenzio, certo che in quel momento nulla sarebbe stato in grado di convincere la detective che non era stata colpa sua, quello che era successo a Lionel.
«Forse è meglio tornare dentro a sentire cosa dice», propose debolmente, alzandosi e prestando attenzione a non rovinare la gonna che indossava ancora.
Dylan la imitò e le offrì il braccio per accompagnarla nella stanza oltre il vetro a specchio.
«Mi sei piaciuta un mondo, sai? Sembrava di guardare un film. E, diamine, tu eri decisamente il poliziotto cattivo!».
Grace ridacchiò, apprezzando il suo tentativo di distrarla un po’, e scrollò le spalle.
«È Michael che è troppo buono. A confronto, mi fa sembrare un mostro».
Nell’ambiente buio, un solo agente assisteva alla scena, seduto su una poltroncina con le ruote. Grace e Dylan rimasero in piedi, l’uno accanto all’altra, ed osservarono Crawford mentre poneva le sue domande a Bryant, ora in piedi e ora seduto, ora appoggiato accanto a lui con una gamba sul tavolo.
«Parliamo dell’organizzazione criminale in senso stretto: sai quanti sono, chi è il capo…?».
Bryant sospirò. «So per certo che erano in due, il capo e il suo braccio destro, più altri… collaboratori, tra cui io. Però io non ho mai visto di persona il capo, ho sempre parlato con il suo braccio destro. L’unica volta che ho sentito la sua voce, ed era la voce di una donna, è stata quando mi ha ordinato di sbarazzarmi subito di Lionel».
Crawford recuperò delle fotografie dalla cartellina dall’altro lato del tavolo e gliele mise di fronte.
«È per caso questo, l’uomo con cui parlavi tu?».
«Sì, è lui», annuì, con gli occhi sgranati e la fronte imperlata di sudore. «Non riesco a credere che sia morto. Ora capisco perché il capo mi ha ordinato di accelerare i tempi e mi ha contattato di persona…».
«Intendi forse dire che lui era l’unico di cui si fidava? Non ha nessun altro, ora?».
Bryant scosse il capo. «Da quello che so… no».
Michael si sedette di fronte a lui e picchiettò le dita sulle foto dell’uomo morto.
«Sapeva nulla in proposito?».
«Mi sta chiedendo se ero a conoscenza di ciò che avrebbero voluto fare a Grace? Certo che no, altrimenti io…!». Bryant sollevò il viso come se potesse davvero vedere la detective oltre quel vetro e Grace reagì trovando la mano di Dylan e stringendola forte nella sua fino a quando l’ex-marine non chinò di nuovo il capo.
«Continui», lo esortò l’agente dell’FBI, pacato ed imperscrutabile come sempre.
«Non avrei mai voluto che le accadesse qualcosa di male, come non avrei mai voluto sparare a Lionel. Quando mi ha scoperto, io… ho dovuto farlo, capite? No, non capite, però vi prego di credermi. Non ho controllato se fosse vivo o morto, non mi sono preoccupato di sbarazzarmi del suo corpo prima che arrivasse la polizia, sono soltanto andato via di lì, perché inconsciamente speravo che si salvasse, che qualcuno accorresse in suo soccorso. E quando il capo mi ha mandato a controllare se fosse realmente deceduto, ho visto da fuori ciò che gli avete organizzato per il funerale, poi sono andato da Grace, e per un attimo ho creduto che fosse davvero morto. Ma non è così, vero? Altrimenti non sapreste che sono stato io, non mi troverei qui…».
Michael si spostò sulla sedia e guardò verso il vetro, alla ricerca dello sguardo di Grace. Per un attimo ci riuscì e i loro occhi si incrociarono, ma ci mise poco a voltarsi nuovamente verso Bryant.
«Prima ha accennato ad altri collaboratori come lei. Li ha mai conosciuti, sa i loro nomi? Sa se uno di loro può aver salvato Grace a Berlino, uccidendo questo uomo?».
«Solo una persona sarebbe stato in grado di fare una cosa del genere. Lo sapevo che non era dalla loro parte, lo sapevo…», un piccolo sorriso gli illuminò il viso e sollevò gli occhi.
Grace, conscia che avrebbe voluto immergerli nei suoi, sentì una morsa stringerle lo stomaco, mentre un brivido le correva su per la schiena, come ogni volta in cui aveva un presentimento.
«Il nome», lo pungolò Michael, sporgendosi di più verso di lui.
«John Carter».

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Capitolo 28
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26

Non ci si annoiava mai. Per questo la Civic Center Gold Line Station era uno dei suoi posti preferiti e amava ogni volta che il capo gli affidava quella zona nell’Eastside.
Peccato che facesse ancora coppia con Oswin, con il quale non aveva un dialogo decente da settimane ormai. Con lui accanto non riusciva a rilassarsi e a godersi il rumore delle persone che salivano e scendevano dai treni, il suono delle voci dai mille accenti diversi, i pianti e le risate dei bambini…
Brulicava di vita quel posto, di vita vera, e Dylan si sentiva parte dell’universo ogni volta che si trovava da quelle parti.
Il sole era ancora basso, il cielo albeggiante tinto con colori pastello tenui e rilassanti, e con un rapido calcolo si disse che era il momento perfetto per chiamare Bill.
Con un vuoto nello stomaco e un piccolo sorriso sulle labbra, si portò il cellulare all’orecchio e riuscì a respirare normalmente soltanto quando sentì la sua voce.
«Ehi, è un nuovo giorno negli USA?».
«Sì, il cielo ha sfumature rosee che mi ricordano le tue labbra».
Oswin, in sella sulla sua moto ad appena un metro di distanza, gli ricordò la sua presenza con un colpo di tosse e Dylan si morse l’interno della guancia, dandosi del coglione. Ma subito dopo cambiò idea: il coglione non era lui, bensì Oswin, e se non gli stava bene che facesse lo sdolcinato con il suo ragazzo, allora che si trovasse un nuovo partner – non vedeva l’ora.
«Come sei romantico… Ti sei svegliato dalla parte giusta del letto, stamattina?».
«Stai insinuando che di solito non lo sono?».
Bill rise e questo bastò a rendere improvvisamente migliore il suo umore. Si prospettava proprio un’ottima giornata, nonostante fosse lunedì.
«Dylan… mi manchi. E lo odio».
«Sono d’accordo».
«Quando tornerò recupereremo tutto il tempo perduto?», chiese con una vocetta frivola, che fece ridere e al contempo arrossire il poliziotto.
«Puoi scommetterci», balbettò.
Gettò un’occhiata ad Oswin, che faceva finta di non ascoltare mentre guardava la gente attraversare i binari sulle apposite strisce gialle.
Si fece coraggio e disse normalmente, proprio come se non ci fosse: «Sai, ho anche cercato delle cose su Internet…».
«Nel senso che tu…? Ah, hai capito il porcellino!».
«Ma che hai capito!», strillò, sentendo le orecchie in fiamme. «È per te! Per far sì che non si ripetano certe… conseguenze, ecco».
«Te l’ho già detto che sei davvero dolce oggi?».
«Di nuovo! Sembra proprio che il resto del tempo io sia un energumeno senza cuore!».
Bill rise ancora e quella volta contagiò anche Dylan. Quest’ultimo però ad un tratto smise, colpito dalle urla di una donna a cui era appena stata scippata la borsetta da un ragazzo su un motorino.
«Scusa Bill, ti richiamo!», gridò prima di chiudere bruscamente la chiamata ed iniziare l’inseguimento con una sgommata sull’asfalto.
Il ragazzo capì di essere inseguito ed accelerò, zigzagando tra le auto ferme al semaforo rosso e decidendo di svoltare comunque, nonostante stesse passando un treno alla sua sinistra. Dylan calcolò che poteva farcela anche lui, se non voleva perderlo doveva farcela, ma i suoi calcoli risultarono sbagliati, perché con la coda dell’occhio vide il treno ad un passo da lui e dalla sua moto.
Il treno l’avrebbe colpito, sarebbe sbalzato via dalla moto e avrebbe fatto un volo di parecchi metri; magari si sarebbe salvato comunque, con il casco in testa, ma fu molto più apprezzato l’intervento di Oswin, alle sue spalle, il quale si sbilanciò per afferrarlo e tirarlo via da lì.
Entrambi caddero a terra, picchiando dolorosamente sull’asfalto, ma Dylan fu felice di non fare la stessa fine della sua moto, lanciata in avanti a causa dell’urto con il treno e poi trasportata sui binari con i rumori stridenti tipici del metallo che si graffia e si accartoccia.
Si voltò verso il suo salvatore per ringraziarlo, dimenticandosi persino del motivo per cui era stato tanto arrabbiato con lui e aveva addirittura smesso di essergli amico, ma lui fu più rapido e gli chiese, cercando di sorridere: «Nulla di rotto?».
«No, credo di essere a posto, a parte qualche graffio», balbettò. Stava per chiedergli: «E tu?», ma le parole gli morirono in gola, scoprendolo sofferente e con una gamba sotto il peso della sua moto d’ordinanza: se l’era lasciata cadere addosso pur di salvarlo. Dylan ebbe come la sensazione che il suo cuore fosse stretto in un pugno gelido e si tirò su, barcollando leggermente a causa delle botte.
Un uomo finalmente ebbe il coraggio di avvicinarsi per aiutarli, mentre un piccolo capannello di persone, abbandonate le auto nel bel mezzo della strada, si era radunato intorno al luogo dell’incidente con i cellulari in mano per girare video e scattare fotografie. Chissà se qualcuno aveva già chiamato l’ambulanza!? La risposta arrivò un paio di minuti dopo, quando Dylan sentì delle sirene uggiolare in lontananza.
Lui, insieme a qualche volontario, era riuscito a sollevare la moto dalla gamba di Oswin, il quale ormai diceva di non sentirla più. Sarebbe stato un casino se avesse perso l’uso della gamba, per questo Dylan scoppiò in una risata di gioia quando sentì l’amico latrare di dolore quando il sangue riprese a circolare con un’insopportabile formicolio.
Due paramedici smontati dall’ambulanza con una barella vi sistemarono sopra Oswin, anche se con qualche difficoltà e con un paio di braccia in più, poi invitarono Dylan a seguirli all’interno, visto che anche lui aveva diverse ferite, seppur superficiali, da medicare.
Mentre il veicolo sfrecciava a sirene spiegate tra le strade di Los Angeles, diretto all’ospedale più vicino, fu somministrata ad Oswin della morfina, che lo fece rilassare. Dylan, che non aveva mai smesso di lasciargli la mano, fu sul punto di farlo quando Oswin se ne accorse e si stampò un sorriso sciocco sulle labbra.
«Ti fidi di me, adesso?», gli domandò invece, con fin troppa serietà negli occhi, sintomo che aveva ancora un briciolo di lucidità.
Dylan sorrise ed annuì, gli occhi che si inumidivano di lacrime. «Ma non era necessario rischiare di perdere una gamba, chiaro?!».
Entrambi iniziarono a ridacchiare, finendo per scompisciarsi di fronte ai due sconcertati paramedici.

***

Dopo averci fatto un po’ l’abitudine, era riuscita a diventare così convincente che a volte pensava davvero di essere felice al fianco di Nigel.
Un po’ era anche merito suo a dire il vero, perché se chiudeva un occhio sui suoi difetti più insopportabili, tra cui la mania che non aveva ancora perso – quella di portarsela dietro ovunque andasse come per vantarsi del suo trofeo – non era così male come aveva pensato quando ancora non lo conosceva bene.
Adesso sapeva perfettamente che c’erano due Nigel: quello un po’ prepotente e sbruffone, che prendeva il sopravvento soprattutto a scuola, e quello carino e dolce che veniva fuori quando erano soli.
E poi c’era un terzo Nigel, quello che Molly stava cercando in tutti i modi di scoprire un passo minuscolo alla volta: il Nigel che provava un odio smisurato ed infantile nei confronti di Aiden. Voleva scoprire perché ce l’avesse tanto con lui, ma ogni volta che provava ad affrontare l’argomento lui ce la metteva tutta per stroncarlo sul nascere.
Comunque aveva imparato a trascorrere il tempo con lui e aveva scoperto la maggior parte dei suoi pregi, tanto che aveva smesso quasi del tutto di odiarlo come faceva prima. Non sarebbe diventata la sua fidanzata neanche per tutto l’oro del mondo, e se avesse potuto l’avrebbe fatta finita con quella commedia, ma le cose erano decisamente migliorate e ogni tanto aveva provato ad essergli amica, invitandolo a pranzare con lei, Ben, Sheila e Breanne – anche se loro non avevano fatto i salti di gioia – oppure dandogli qualche consiglio quando le parlava dei suoi problemi in famiglia.
Eh sì, a quanto pareva la sua vita non era perfetta e Molly aveva provato pena per lui quando le aveva raccontato che i suoi genitori si parlavano a malapena ed erano sempre distanti, anzi quasi del tutto assenti nella sua vita, in particolar modo sua madre.
Anche Molly aveva avuto a che fare con problemi riguardanti l’assenza dei suoi genitori, ma era stato esclusivamente per lavoro: suo padre e sua madre si amavano e, cosa più importante, amavano lei.
L’unica cosa positiva che poteva trarre da quella situazione, anche se Molly pensandoci si sentiva sempre un po’ in colpa, era che di sicuro Nigel non l’avrebbe invitata a cena a casa sua, almeno fino a quando sarebbero rimasti una coppia/non coppia qual erano in quel momento.

«Eccole qui le mie ragazze preferite!», gridò Ben alle loro spalle, gettandogli le braccia intorno al collo.
«Ma sei matto? Se Nigel ti sentisse…».
Molly rovesciò gli occhi e rispose con una linguaccia al sogghigno malizioso di Sheila, la quale sembrava divertirsi un mondo nel prenderla in giro sulla gelosia estrema che Nigel esercitava nei suoi confronti.
Ben ridacchiò e si allontanò, ma solo per riapparire di fronte a loro e camminare all’indietro come un gambero per continuare a conversare.
«Ci sarete alla partita, oggi pomeriggio, vero?».
«Certo!», esclamò Sheila, battendogli un sonoro cinque.
Al silenzio di Molly, i due ragazzi puntarono gli occhi su di lei e si fermarono.
«Pensavo… pensavo che fosse lunedì prossimo», balbettò, arrossendo all’improvviso. «Scusami Ben, io…».
Ben, con i pugni stretti lungo i fianchi e più che irritato, esclamò lamentosamente: «Non dirmi che hai un altro NFD!».
«Che cos’è un NFD?», domandò Molly disorientata.
Sheila le avvolse le mani attorno all’orecchio e sussurrò: «Nigel-Fake-Date». Poi, con un sorriso smagliante sulle labbra, aggiunse: «È una sigla che ci siamo inventati per non spifferare ai quattro venti il tuo piccolo segreto! Bella, no?».
«Uh, sicuro. Comunque, vedrai che riuscirò a trovare una soluzione. Ti avevo promesso che ci sarei stata e ci sarò!».
Ben annuì, per nulla convinto dalle parole dell’amica, e si allontanò mogio mogio lungo il corridoio.
«Non sopporto di vederlo così… Sono una stupida!», si sgridò Molly, dandosi una pacca sulla fronte.
«Credi che riuscirai davvero ad annullare l’appuntamento con Nigel?», domandò Sheila, con ben poche speranze a riguardo.
«Verrò a vedere la partita di basket ad ogni costo! Io mantengo sempre le mie promesse!».
Infervorata, si voltò di scatto ed iniziò a camminare a passo svelto nella direzione opposta. Anche a costo di arrivare tardi a lezione, doveva…
«Molly!»
La ragazzina si voltò a guardarla e Sheila scosse il capo.
«Anche Nigel ha educazione fisica, adesso».
«Oh… giusto».
Tornò indietro a capo chino, rossa di vergogna, e seguì l’amica.


Molly odiava fare sport. In realtà odiava qualsiasi cosa la facesse sudare, eccetto forse giocare a Just Dance con Bill e prendere il sole spaparanzata sulla spiaggia. Comunque, ciò che odiava della scuola era che ci fossero due ore alla settimana di stupidissima educazione fisica.
In calzoncini e canottiera, i capelli legati in un’alta coda di cavallo che seguiva ogni suo movimento, correva faticosamente accanto a Sheila, la quale invece sembrava non avere nessunissimo problema nel fare i sei giri di campo che il loro professore aveva imposto loro.
Infatti le chiese, sorridendo e senza nemmeno un minimo di fiatone: «Sbaglio o avevi detto che dovevi raggiungere Nigel per parlare del vostro appuntamento?».
Molly guardò Nigel correre in testa al gruppo e le venne quasi da vomitare.
«Aspetto sia lui a doppiarmi», soffiò, passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore.
Sheila rise ed aumentò un po’ il passo, lasciandola da sola a chiudere la fila.
Stava per gettarsi a terra e rotolare nella polvere supplicando pietà, quando sentì la mano di qualcuno posarsi in fondo alla sua schiena.
«Ehi… Nigel… Già qui?».
Il ragazzo ridacchiò della sua espressione più che sfinita e rallentò fino a prendere il suo passo.
«Non stai andando male», si complimentò. «Fino ad adesso non ti sei mai fermata!».
«Oh… sì… questo è vero».
Si sforzò di sorridere e decise di approfittare del momento, visto che erano stati superati dai più veloci e i più lenti del gruppo erano qualche metro più avanti.
«Nigel… devo dirti una cosa».
«Se vuoi arrivare fino in fondo non sarebbe meglio risparmiare il fiato? Potrai dirmi tutto quello che vuoi oggi pomeriggio».
«No, io…», deglutì, anche se aveva la bocca impastata. «È proprio di oggi pomeriggio che… ti devo parlare».
Nigel, accigliato, rimase in silenzio con gli occhi puntati su di lei. Molly fece un respiro profondo, per quanto i suoi polmoni sotto sforzo glielo permettessero.
«Mi sono dimenticata che oggi pomeriggio c’era la partita di basket… a cui avevo promesso a Ben di andare. Sai… lui gioca e ci tiene davvero molto che io… sia presente. Quindi possiamo vederci… un altro giorno?».
Nigel ci rimase male, la ragazza se ne accorse subito perché gli angoli della sua bocca si incurvarono all’ingiù e si allontanò un po’ da lei, staccandola di qualche passo. Molly lo raggiunse, sentendo le proprie gambe molli come gelatina, e gli prese un braccio per obbligarlo a rallentare.
«Non fare così, non l’ho fatto…».
«E così è più importante quello sfigato di me?», berciò, interrompendola.
Molly lo lasciò andare e guardò di fronte a sé a testa alta, iniziando ad inviperirsi.
«Uno, Ben non è uno sfigato. Due, la questione non è chi è più importante per la sottoscritta, ma è che io gli ho fatto una promessa ed intendo mantenerla. Mi dispiace averti detto che sarei uscita con te, non volevo darti buca».
Quelle parole suonarono strane alle sue orecchie, ma non ci pensò troppo e riprese fiato, visto che aveva fatto quel discorso senza mai interrompersi.
Scorgendo Nigel che tentava di nascondere il dispiacere mordendosi le labbra, Molly si guardò i piedi, le scarpe da tennis un po’ impolverate, e si disse che Sheila l’avrebbe come minimo insultata, ma non poteva fare altrimenti.
«Senti, perché non vieni anche tu? Staremmo insieme e io manterrei la promessa fatta a Ben!».
Il ragazzo parve sorpreso, come se si stesse chiedendo perché non fosse venuta in mente a lui un’idea del genere, poi accennò un sorriso.
«Va bene», rispose. «A me piace il basket!».
Si voltò per incrociare lo sguardo di Molly e si rese conto che non era più al suo fianco. Si guardò alle spalle e la vide sdraiata sull’erba a bordo campo, con le mani sulla fronte e il torace che si alzava e si abbassava velocemente.
Tornò indietro per raggiungerla e si chinò su di lei, con una mano su un suo ginocchio piegato.
«Ehi, stai bene?», le chiese apprensivo, mentre le prendeva il polso per controllare le pulsazioni cardiache.
«Ci divertiremo un mondo alla partita», disse con la voce spezzata dal fiato grosso e un sorriso smagliante. «Sempre che ci arrivi viva».

***

Andrew rilesse ancora una volta gli appunti di Grace, mentre col suo fuoristrada stavano andando ad interrogare nuovamente e a sei anni di distanza dall’omicidio i signori Hall.


Laurence Cox secondo sua moglie:

· Ottimo padre, amava sua moglie e suo figlio
· Non si drogava – non avrebbe mai sottratto soldi alla famiglia
· Gli piaceva il suo lavoro, anche se non era pagato granché
· Andava d’accordo con tutti, non aveva nemici, sorrideva sempre

Perché ucciderlo?


«Abbiamo solo questo?», domandò il poliziotto della omicidi, massaggiandosi gli occhi con due dita.
Grace annuì senza distogliere lo sguardo dalla strada.
«D’altronde i tuoi predecessori non ci hanno lasciato molto. Comunque credo che scopriremo un sacco di cose parlando con Mr. e Mrs. Hall».
Andrew la osservò attentamente e corrugò la fronte. «Non avrai… non avrai dei sospetti su di loro, spero!».
«Perché no?». Scrollò le spalle e svoltò ruotando il volante in modo fluido. «Non abbiamo le loro deposizioni e sono le ultime persone che hanno visto Cox. E poi... Guarda nella mia borsa, ci sono dei fogli stampati».
Andrew prese la borsa a tracolla della detective, se la mise sulle gambe e la aprì, trovando il solito casino che contraddistingue le borse di tutte le donne. Almeno in questo, era come le sue simili!
Quando trovò i fogli stampati di cui parlava, li tirò fuori e li stirò sul finestrino, dove si accorse che si trattava di un articolo scaricato da Internet. Quello che lo colpì maggiormente, però, fu la fotografia che vedeva immortalati i coniugi Hall e Peter Dennison, ex-capo della omicidi che aveva chiuso in quattro e quattr’otto il caso Cox: Hall e Dennison si stringevano la mano e sorridevano al flash della fotocamera.
«Leggi le parti evidenziate», lo esortò Grace, già con un sorrisino sulle labbra.
Andrew posò gli occhi sulle parole sottolineate con evidenziatore giallo e lesse ad alta voce, sgranando pian piano gli occhi: «I due, amici sin dai tempi del liceo, si sono incontrati di nuovo dopo tanto tempo alla cena organizzata per festeggiare i successi del finanziere e hanno posato insieme per questa foto».
«Guarda la data, ora».
Andrew abbassò gli occhi sulla data dell’articolo e rimase ancora più sconcertato. «La cena è stata il 6 settembre del 2007! Un giorno dopo l’assassinio di Cox!».
«Proprio così. E guarda caso Mr. Hall ha deciso di invitare il suo vecchio amico Peter… Qui c’è puzza di marcio».
«Stai cercando di dire che è stato Hall ad uccidere Cox e che poi ha corrotto Dennison per far chiudere in fretta il caso? Se è stata tutta una messinscena, allora vuol dire che quella busta di coca trovata addosso alla vittima…».
«Può averla messa Hall, ma non credo che sia tornato sul luogo del delitto solo per questo. È più probabile che Dennison l’abbia aggiunta fra le prove successivamente».
«E nessuno se n’è accorto, dico io?! Anche nell’esame tossicologico, possibile che nessun abbia notato che il suo sangue era pulito come l’acqua di un ruscello di montagna?».
Grace scrollò ancora una volta le spalle. «Dennison era il capo, può aver minacciato di licenziare chiunque andasse a raschiare il fondo di quella faccenda».
Andrew incrociò le braccia al petto e sbuffò. Allora Grace sorrise e gli accarezzò una spalla.
«So che tu avresti rischiato di perdere il lavoro, pur di fare giustizia. Purtroppo all’epoca eri ancora un pivellino».
Il poliziotto accennò un sorriso e sistemò di nuovo i fogli nella borsa di Grace.
«Indagherò sulla possibile provenienza di quella busta di coca. E se non troverò niente… chiederemo direttamente a Dennison domani».
«Ottimo», approvò la detective, parcheggiando il fuoristrada di fronte ad una villa bianca, non grande e sontuosa come quella dei Delafield, ma altrettanto d’effetto.
Essendo situata su un’altura, era possibile vedere l’oceano e la spiaggia dalla strada.
Grace si coprì gli occhi con una mano – aveva dimenticato gli occhiali da sole a casa – e indicò un punto di fronte a sé. Andrew la raggiunse e seguì la direzione del suo dito, scoprendo che quella che si vedeva in lontananza era proprio Venice Beach.
«Perché si sarebbe dovuto uccidere proprio là, in una spiaggia piena di turisti?», domandò il poliziotto, per poi fermarsi un attimo a riflettere. «Com’è possibile? Venice è sempre piena di turisti, anche di notte! Non è possibile che nessuno abbia sentito lo sparo!».
Grace ridacchiò, battendogli una pacca sulla spalla. «Credevo che avessi più occhio, Andrew! Hai per caso visto schizzi direzionali o una grande chiazza di sangue sulla sabbia, nelle foto fatte dalla scientifica?».
Andrew spalancò gli occhi. «Non è quello il luogo del delitto!».
Grace sollevò il pollice in segno d’OK e si diresse finalmente verso il cancello per suonare al citofono. Le rispose la cameriera, la quale appena sentì la parola “polizia” aprì e corse fuori di casa, preoccupatissima. Aveva una sessantina d’anni e molto probabilmente aveva lavorato per la famiglia Hall per tutta la vita, per questo non poteva credere che la polizia dovesse di nuovo varcare la soglia della loro casa.
Li accompagnò in un grande salone dove trovarono ad attenderli la signora Hall, seduta a gambe accavallate su uno dei divani di pelle bianca, che sorseggiava un bicchiere di tè freddo. Era davvero una bella donna, entrambi l’avevano già notato in foto, ma dal vivo – e nonostante gli anni trascorsi nel frattempo – era tre volte meglio, con i capelli corvini che le arrivavano fino al seno, gli occhi azzurri come il ghiaccio e le labbra carnose, per non parlare poi della sua silhouette da atleta di ginnastica artistica. Grace dovette prendere a gomitate Andrew perché si concentrasse sul motivo per cui erano lì.
«La polizia, Mrs. Hall», li presentò la cameriera, facendo poi un passo indietro.
«Vedo», esclamò la donna. Posò i suoi gelidi occhi azzurri su Grace, con un sorriso mellifluo che le diede subito sui nervi. «Ma lei non fa parte della polizia, o sbaglio, signorina Schneider?».
La detective provò a stiracchiare un sorriso per non essere scortese. «No, infatti».
«Ho sentito molto parlare di lei».
Si alzò in piedi per raggiungere le finestre che davano sul giardino e la piscina e Andrew seguì ogni suo movimento come ipnotizzato, ma quella volta Grace non fece niente, più interessata a ciò che aveva da dire la signora Hall.
«Pare che Mr. Delafield sia un suo convinto sostenitore. È davvero così brava?».
A quella domanda, il poliziotto parve riprendersi e con espressione seria intervenne: «La migliore».
Mrs. Hall si voltò lentamente verso di lui per inchiodarlo al muro coi suoi occhi taglienti, poi sorrise di nuovo rivolta a Grace, la quale si strinse nelle spalle con modestia.
«Scusatemi se vi ho fatti attendere, ero al telefono con mio figlio».
Sia Andrew che Grace si voltarono e videro Mr. Hall entrare nel salone dopo aver spalancato due porte fin’ora rimaste chiuse.
«Nessun problema», disse Grace, porgendogli una mano per presentarsi, ma anche lui era già a conoscenza della sua identità.
«Un’agente della omicidi e la detective Schneider in un colpo solo, direi che è il mio giorno fortunato», esclamò prima di sedersi sul divano, gettando un’occhiata a sua moglie, ancora alla finestra, che gli dava le spalle.
«Accomodatevi, prego. E per favore, Maria, potrebbe portarci qualcosa di fresco da bere?».
La cameriera uscì subito dal salotto per eseguire l’ordine e Grace si sedette sul comodo divano di fronte a quello su cui si era sistemato Mr. Hall, appoggiato con un lato del corpo contro il bracciolo.
«Come posso esservi utile?», chiese dopo qualche secondo, guardando prima l’uno e poi l’altra.
Andrew si schiarì un po’ la voce prima di parlare, ancora distratto da quella femme fatale.
«Abbiamo riaperto il caso di Laurence Cox», esordì, provocando una certa sorpresa nell’uomo, tanto che cambiò subito posizione e si sforzò di mantenere un tono di voce rilassato.
A Grace non sfuggì nessun sintomo di nervosismo, come non le sfuggì il sorrisetto malizioso che era comparso all’improvviso sulle labbra della moglie.
«Oh, che brutta storia», disse Mr. Hall. «Credo che nessuno di noi riuscirà mai a dimenticarla. Ditemi, come mai avete deciso di indagare ancora?».
«Per una serie di prove mancanti e di incongruenze sospette», intervenne Grace, parlandone come se si fosse trattato di cose irrilevanti. «Per esempio, mancano le registrazioni dei vostri interrogatori».
Dall’occhiata che le rivolse, Grace notò con soddisfazione che ormai aveva capito con chi aveva a che fare. Infatti, Mr. Hall decise di giocare tutte le sue carte e di non prenderla sottogamba, mettendocela tutta per dimostrarsi tranquillo ed innocente, nonostante avesse parecchi scheletri nascosti nell’armadio.
«Ci avevano detto che non era necessario, che non eravamo nella lista dei sospettati e che avevamo già fatto tutto il possibile».
«Quindi avevate un alibi?», domandò Andrew.
«Certo. Se non ricordo male, mia moglie era con Nigel, mentre io sono stato tutta la notte nel mio studio a lavorare».
«Da solo».
«Sì, da solo, ma…».
«Non regge come alibi», decretò gravemente Grace, addossandosi allo schienale del divano proprio mentre entrava la cameriera con un vassoio di bibite fresche.
Maria lo posò sul tavolino che li divideva e appena se ne fu andata Mr. Hall alzò un angolo della bocca per sorridere in modo spavaldo, prendendo in mano un bicchiere di limonata.
«Allora reggeva», disse prima di bere un sorso.
Andrew si voltò verso Grace, la quale non ribatté né distolse gli occhi dall’uomo, con un sorrisino quasi perverso dipinto sulle labbra. Non era mai un buon segno, mai.
Quando anche Mr. Hall se ne accorse, corrugò la fronte e poi, trattenendo a stento l’irritazione, chiese: «Perché mi fissa in quel modo, ora?».
«Lei è mancino».
«Sì, e allora?».
«Lei si ricorda per caso se lo era anche il signor Cox?».
«Io non… no, non credo. Per quale motivo me lo chiede?».
«Nulla, mi è solo venuta in mente una cosa buffa», scrollò il capo e nel farlo lanciò un’occhiata alla moglie dell’uomo: sembrava sorpresa, ma il suo sguardo non aveva perso la malizia che vi aveva visto poco prima.
«Lei ha una pistola, Mr. Hall?», fece la domanda seguente senza giri di parole.
L’uomo perse un po’ di colore, ma si riprese presto e divenne paonazzo, mentre si alzava in piedi e iniziava a ringhiare.
«Signorina Schneider, pensa davvero che io sia un assassino? Se ne è così convinta, ne riparleremo un’altra volta, con il mio avvocato».
Grace sollevò entrambe le mani in segno di resa. «Okay, se ci tiene tanto…».
Si alzò dal divano e fece segno ad Andrew di seguirla. Ma prima di uscire dal salone scortata dalla governante, incrociò lo sguardo di Mrs. Hall e le sorrise, tirando fuori un bigliettino da visita dalla tasca della giacca.
«Se dovesse venirvi in mente qualcosa, qualsiasi cosa, potete chiamarmi».
«Non ci conti troppo», berciò Mr. Hall, guardando in cagnesco anche sua moglie, la quale però continuò a sorridere ed accettò il cartoncino bianco.
Mentre raggiungevano la porta, Grace provò a fare qualche domanda alla governante, ma fu del tutto inutile: la donna non disse una parola nemmeno per confermare l’esile alibi di Mr. Hall, troppo spaventata che potesse accadere qualcosa di male a coloro che le davano il pane quotidiano da tanti anni.
Una volta alla porta, Grace si sporse all’interno e urlò: «A presto, Mr. Hall!», sperando vivamente che la sentisse.
Illuminati dal sole alto del pomeriggio, camminarono lungo il vialetto in giardino ed uscirono dall’alto cancello, diretti verso il fuoristrada della detective.
Ad un certo punto Andrew sollevò le braccia, esasperato, e strepitò: «Grace, ma che hai fatto? Sembrava che stesse per venirgli un embolo!».
«Divertente, vero?».
«No, per niente! L’hai fatto infuriare così tanto che nei prossimi giorni la mia scrivania sarà sommersa di scartoffie provenienti dagli studi dei suoi mille avvocati!».
«Non posso assicurarti il contrario. Però ora sei convinto della sua colpevolezza?».
«A dire il vero no». Si fermò bruscamente di fianco al cofano del fuoristrada e fissò gli occhi nei suoi. «Insomma, quale sarebbe il movente?».
«Ancora non lo so», rispose sinceramente, guardando verso la villa della famiglia Hall. Alla finestra c’era ancora la femme fatale, che la osservava con lo stesso sorriso mellifluo inconfondibile. «Ma sono certa che lei lo sa».
«Lei chi?». Ad un cenno della testa di Grace, si voltò e vide di sfuggita l’abito bianco di Mrs. Hall.
«Non ha mosso un dito per difendere il marito e non credo che voglia farlo. Più lui era in difficoltà, più lei sembrava godere».
Detto questo, Grace salì sul suo fuoristrada e Andrew fece lo stesso, sedendosi sul sedile del passeggero.
Titubante, si massaggiò il setto nasale e sospirò. «Ora che si fa? Provo a chiedere un mandato di perquisizione per vedere se Mr. Hall ha una pistola?».
«Dubito che sia stato così stupido da non disfarsene. E poi il Pubblico Ministero non te lo concederà mai, non abbiamo elementi a sufficienza, solo che è mancino e non ha un alibi solido. Piuttosto, perché non metti sotto controllo il cellulare di Dennison? Se è come penso, scommetto che Mr. Hall lo contatterà per far sì che lo copra anche questa volta».
«Uhm, ci proverò. Ora mi spieghi perché ci dovrebbe interessare il mancinismo di Mr. Hall?».
Grace ridacchiò e scosse il capo. «Stai davvero perdendo punti, Andrew».
Nonostante tutte le sue suppliche, la detective non cedette e non gli spiegò nulla, lasciandolo sulle spine.
Per questo motivo trascorsero il resto del viaggio in quasi totale silenzio, ascoltando distrattamente la radio.
Quando arrivarono alla centrale, Grace accostò il fuoristrada al marciapiede e sorrise lievemente ad Andrew, il quale si fermò con una mano sulla maniglia della portiera, sbigottito.
«Tu non vieni?», le chiese.
«No, ho altre cose da fare».
«Okay. Allora ti faccio sapere appena ho qualche novità».
Aprì la portiera e scese, chiudendosela alle spalle. Quindi si appoggiò al finestrino abbassato con un braccio, chinandosi per guardarla ancora in viso.
«Grace, posso chiederti una cosa?».
La detective annuì, curiosa.
«Ma stai ancora assieme a quel ragazzo… quello famoso?».
«Si chiama Tom», disse, ridacchiando. «Comunque la risposta è sì».
«E Dylan? Cioè… lui come l’ha presa?».
Grace pensò a Dylan e a Bill, la nuova coppia dell’anno, e rise ancora, quella volta però dolcemente.
«Molto meglio di quanto tu riesca ad immaginare. Posso andare, ora?».
«Sicuro, anche perché capirti è peggio che fare un rebus!».
Andrew si allontanò dal fuoristrada e lo guardò svoltare mentre l’ultima risata di Grace veniva trascinata via dal vento caldo, un vento talmente caldo che temette di prendersi un accidenti entrando nella centrale, dove non avevano idea di cosa volesse dire la parola “moderazione” abbinata ad “aria condizionata”. Rispetto a fuori, gli sembrava di essere entrato in una cella frigorifera!
Si barricò nel suo ufficio, prese lo scatolone del caso Cox e riesaminò tutti gli elementi fino a quando non si trovò di fronte alle foto della scena del crimine, o meglio del luogo dove avevano rinvenuto il cadavere.
Si soffermò a guardarle ancora una volta e allora, con un sorriso da ebete stampato sul viso, capì quello che Grace aveva notato subito: Laurence Cox impugnava la pistola con la mano sinistra, nonostante non fosse mancino.

***

«Okay, questo non me lo sarei mai aspettata».
Con la coda dell’occhio Molly guardò Sheila, ancora inacidita a causa dell’invitato inatteso, ed alzò un angolo della bocca per bisbigliarle: «Per favore, sii gentile con lui».
Sheila sgranò gli occhi. «Gentile?! Lui non è mai stato gentile con nessuno al di fuori del club P&A! Che, se non l’avessi capito, sta per Popular&Athletes».
«E va bene, su questo sono d’accordo con te, ma era l’unico modo per tenerlo buono e venire alla partita!».
La mora stava per ribattere, coi suoi occhi blu che lanciavano saette, quando Nigel si sporse su di loro indicando le porte spalancate della palestra.
«Stanno entrando i Knights!», le avvertì e applaudì vigorosamente a sostegno dei giocatori, tra cui Ben, il quale appena lo vide seduto accanto a Molly restò di sasso.
La ragazzina gli sorrise imbarazzata ed agitò una mano in segno di saluto, allorché Ben scosse lievemente il capo con un ghigno e si avvicinò alla panchina della squadra di casa.
«Però, sta proprio bene senza occhiali il nostro Ben!», esclamò Molly appena ebbe il tempo di avvicinare la bocca all’orecchio di Sheila, che arrossì un poco e si irrigidì.
«Sì, ehm… e allora? Non può di certo portare gli occhiali in campo!».
Molly la osservò, insospettita dal suo strano comportamento, ma non poté concludere la sua diagnosi perché Nigel le strinse improvvisamente la mano nella sua, facendola voltare di scatto.
«Sei felice?», le domandò con le labbra incurvate in un sorriso davvero dolce, tanto che si trovò a boccheggiare per qualche secondo.
«Sì… certo!», rispose alla fine, ritrovando il suo autocontrollo. Si avvicinò al suo orecchio e con voce pacata mormorò un «Grazie» che solo lui ebbe l’onore di sentire, perché le cheerleader avevano iniziato ad incitare la squadra della Notre Dame High School e sugli spalti tutti gli studenti accorsi a vedere la partita avevano iniziato a gridare incitamenti e ad applaudire, mentre la squadra entrava in campo per un breve riscaldamento.
«Non ci credo», esclamò Nigel quando tornò a concentrarsi sui movimenti dei ragazzi sparsi sul campo di linoleum. «Pensavo che il tuo amico fosse una riserva! Invece gioca subito in prima squadra!».
«Spero che la delusione non ti faccia troppo male», disse Sheila a denti stretti.
Molly le tirò una lieve gomitata prima di voltarsi verso Nigel e dire: «Ben è davvero bravo a giocare, te ne accorgerai presto».
La partita iniziò con il fischio dell’arbitro e in poco tempo i Knights riuscirono a portarsi in vantaggio, anche se di soli pochi punti.
Ben era alto un metro e ottanta, forse giusto qualche centimetro in meno, ma non era altrettanto prestante fisicamente, in quanto aveva un fisico smilzo e fragile che negli scontri corpo a corpo lo svantaggiava, anche se dalla sua parte aveva la velocità nei piedi e i falli. Inoltre, da non dimenticare era la sua capacità di elaborare nuovi schemi in continuazione, che lo rendevano uno dei migliori playmaker della squadra nonostante la giovane età.
Nigel si era dovuto ricredere presto e l’orgoglio di Molly si era gonfiato tanto da essere controllabile a stento, come se i complimenti che aveva fatto a Ben fossero rivolti a lei. Era così felice per lui!
«Vai Ben, sei il migliore!», gridò con un pugno alzato. Il ragazzo si voltò nella sua direzione e le sorrise, per poi tornare a seguire l’azione.
Molly vide Nigel con il cellulare fra le mani ed incuriosita si chinò su di lui. Lui intercettò il suo sguardo e con gli occhi meno luminosi del solito disse: «È mio padre, devo rispondere. Torno subito».
La ragazzina si lasciò accarezzare i capelli sulla testa, quindi lo guardò mentre si alzava dagli spalti e scendeva le scale di corsa per uscire dalla palestra e parlare con tranquillità con suo padre.
Una coltre di tristezza le aveva lambito il cuore ancora, come tutte le volte in cui leggeva nel suo sguardo lo stesso sconfortante sentimento legato alla sua famiglia, ma provò a mettercela tutta per esultare quando i Knights centrarono l’ennesimo canestro.
Nigel era uscito da neanche un minuto, quando qualcuno scese le scalette alle sue spalle e si sedette nel posto momentaneamente vuoto accanto a Molly.
«Scusa, ma è occupato», disse subito, senza prestarvi alcuna attenzione, concentrata sull’azione in campo.
«Mi sposterò quando ritornerà».
Molly riconobbe quella voce con un tuffo al cuore e si voltò di scatto, perdendosi il canestro della squadra avversaria. Ma, al diavolo, Aiden era molto più importante!
«Ahm… io vado a fare qualche foto», disse Sheila alzandosi, anche se nessuno dei due badò a lei, troppo impegnati a scrutarsi negli occhi, come se potessero vedere l’uno nell’anima dell’altra.
«Che cosa stai facendo?», le chiese alla fine Aiden, sospirando stancamente.
Molly si girò verso il campo e lo indicò con una mano. «Guardo la partita. Ho appena scoperto che il basket è uno sport davvero…».
«Cosa stai facendo con Nigel, intendo. Da quand’è che ha iniziato a piacerti?».
Il viso di Molly si accartocciò in una smorfia. «E da quand’è che tu sei diventato geloso?».
«Io non sono geloso», ribatté con voce metallica, inflessibile all’ira.
«Bene. Allora non preoccuparti per me e Nigel».
Quanto era stato difficile pronunciare quella frase! Lei e Nigel. L’aveva detto come se fossero una vera coppia, legata da qualche tipo di sentimento! Di sicuro Nigel provava qualcosa per lei, ma Molly… insomma, era già tanto se a volte lo trovava simpatico e dolce.
Avrebbe tanto voluto che Aiden la prendesse per mano e la trascinasse via prima che Nigel tornasse, che la portasse al suo appartamento e che la pioggia li bagnasse di nuovo dalla testa ai piedi facendoli ridere a crepapelle; avrebbe tanto voluto anche che la baciasse e le ordinasse di farla finita con Nigel. Ma sapeva che nulla di tutto ciò sarebbe mai successo.
«Lo so perché lo stai facendo», riprese Aiden, quella volta con una nota di dolcezza nella voce, tanto che Molly evitò di incontrare il suo sguardo: non poteva rischiare di perdersi in quegli occhi scuri e profondi e di combinare così qualche guaio irreparabile.
«Quando Nigel e la ragazza più bella dell’universo sono usciti per la prima volta il coach mi ha detto che non ero stato convocato. Il giorno dopo torna da me e… puff, domani giocherò!».
Molly, rossa come un peperone, strinse più forte la borsa sulle gambe e per la prima volta in vita sua pregò perché Nigel tornasse presto.
«Hai ottenuto il tuo scopo, anche se non capisco ancora perché tu l’abbia fatto. Ma questa è un’altra storia. Molly…».
La ragazza rabbrividì sentendo il suo nome uscire dalle sue labbra e l’effetto che ebbe su di lei fu ancora più sconvolgente quando le prese il mento fra le dita per costringerla a guardarlo negli occhi.
«Perché continui a frequentarlo?», le chiese, malinconico e allo stesso tempo confuso.
Davvero gli interessava? Davvero voleva saperlo? Molly era certa che non avrebbe capito, quindi si mise sulla difensiva e si allontanò, cercando Ben con lo sguardo e concentrandosi su di lui per non mostrare ad Aiden la sua frustrazione.
«Un grazie sarebbe più che sufficiente», mormorò con le mascelle serrate e gli occhi spenti.
«Io ho capito perché…».
Okay, ora stava davvero iniziando ad irritarla.
«Credi che mi piaccia davvero?», sbottò, anche se a bassa voce, con gli occhi lucidi. «Beh, credi pure a tutto quello che vuoi, tanto a me non…!».
«È che tu hai un cuore», la interruppe, accarezzandola con lo sguardo, visto che in mezzo a tutta quella gente non avrebbe mai potuto infilarle una mano fra i capelli, come invece aveva fatto a casa sua.
«Non vuoi ferirlo, non è così?».
«Io…». Molly boccheggiò e cercò qualche patetica scusa da sciorinare, ma la verità era decisamente più semplice da dire, anche se era certa che prima o poi ne avrebbe pagate le conseguenze.
«Pensavo che ci sarei riuscita: ti avrei aiutato a rientrare nella squadra di baseball e dopo un paio di giorni, giusto per non destare sospetti, avrei detto a Nigel che non saremmo potuti essere altro che amici, ma… lui non è come sembra, c’è molto di più oltre a quello che vediamo tutti a scuola, e io non… non me la sento di farlo soffrire, anche se…».
«Anche se ti senti in colpa per averlo ingannato e vorresti porre fine a tutto questo».
Molly annuì e chinò il capo, lottando con tutte le sue forze per non abbandonarsi alle lacrime.
Sheila arrivò trafelata accanto a loro e disse a bassa voce: «Ho visto Nigel in corridoio, sta tornando».
Aiden le sorrise con gratitudine, poi si voltò verso Molly nello stesso momento in cui tutti si alzarono in piedi sugli spalti, trattenendo il respiro.
Lui e Molly furono probabilmente gli unici a restare seduti, immersi l’uno negli occhi dell’altra e protetti da entrambi i lati da un muro di persone.
Aiden accennò un sorriso e si avvicinò al suo viso, tanto all’improvviso che Molly ebbe l’istinto di scostarsi, ma non lo fece perché i suoi muscoli sembravano essere stati pietrificati da Medusa in persona. Aveva il volto in fiamme e chiuse gli occhi, certa che l’avrebbe baciata; purtroppo Aiden le sfiorò con le labbra soltanto la guancia, facendole salire un groppo enorme in gola.
«Ci vediamo domani alla partita. E grazie», le sussurrò all’orecchio e Molly lo sentì distintamente, nonostante i fischi e le esultanze della gente intorno a loro.
Quando riaprì gli occhi, Aiden non c’era più e Nigel stava giusto salendo le scale di corsa per tornare al suo posto, con un sorriso incantato sulle labbra.
«È stato grandioso!», gridò rivolto verso Sheila, che ebbe a malapena la forza di annuire, estasiata.
Molly scattò in piedi e vide Ben sorridere e scontrare pugni con quelli dei suoi compagni di squadra che tornavano in formazione, mentre alcuni si limitavano ad arruffargli i lunghi capelli che non gli cadevano sulla fronte solo grazie ad una spessa fascia blu.
Quando Nigel e Sheila tornarono seduti ai loro posti e l’eccitazione calò, Molly si sporse verso l’amica.
«Mi racconti che cosa mi sono persa?».
In poche parole Ben, oltre la linea del tiro da tre punti, aveva tirato la palla verso il tabellone, con tanta precisione da sfiorare il canestro, e sul più bello era intervenuto un suo compagno, che era saltato in aria, («Sembrava avesse delle fottute molle sotto le scarpe!»), aveva preso la palla e ancora in volo l’aveva schiacciata a canestro, segnando due punti spettacolari.
La perfetta esecuzione di un alley-oop e lei se l’era persa. Ben l’avrebbe strangolata con le sue stesse mani, ma Molly non poté non pensare che ne era valsa la pena, visto che sembrava essere tornata finalmente alla vita dopo giorni in cui aveva sentito un macigno al posto del cuore nel petto.


«Amico, sei stato davvero fantastico! Su quel campo sembravi… un’altra persona!», esclamò Nigel non appena vide Ben uscire dalle porte vetrate a spinta.
Sedute sul muretto che circondava la piazzetta di fronte all’edificio scolastico, anche Molly e Sheila si alzarono e gli corsero incontro per abbracciarlo e congratularsi con lui.
Ben, disorientato e imbarazzato a causa di tutti quei complimenti, lasciò cadere la borsa a terra e non riuscì a spiccicare una parola: si limitò ad abbracciare le ragazze, anche se Sheila aveva un po’ esitato prima di avvolgergli le braccia intorno al collo, in punta di piedi.
Quando si allontanò da lui, Molly notò il rossore sul suo viso e ridacchiò sotto i baffi.
Rimasero lì ancora un po’ a parlare della partita vinta dalla squadra di casa, fino a quando un’auto si fermò proprio lì di fronte e Sheila dovette andare.
«Beh, suppongo che dovremmo andare anche noi», disse Molly.
Nigel annuì, anche se distrattamente, mentre tirava fuori il suo cellulare dalla tasca dei jeans. Allora si ricordò della chiamata di suo padre e spinta da un filo di compassione il suo viso si addolcì.
«Che cosa voleva tuo padre, prima?».
Nigel levò di scatto il capo e un paio di riccioli biondi gli scivolarono sulla fronte. Deviò il suo sguardo e se li spostò di lato.
«Mi ha detto soltanto che… potevo tornare a casa più tardi, oggi pomeriggio».
Molly capì subito che stava mentendo, persino Ben lo capì, ma non disse niente ed infilò un braccio sotto al suo, sorridendogli. «Potresti venire un po’ da me, allora».
Alla faccia sbigottita di Ben, Molly si rese conto di ciò che aveva fatto e detto del tutto spontaneamente e si morsicò la lingua, avvampando.
Nel tentativo di rimediare, decise di coinvolgere anche l’amico, sperando che l’aiutasse a tirarsi fuori da quell’imbarazzante situazione. «Ovviamente puoi venire anche tu, Ben, se ti va!».
Il ragazzo aprì la bocca per rifiutare gentilmente, ma non poté sfuggire agli occhi azzurri ed imploranti di Molly e sospirò. «Credo che i compiti potranno aspettare, oggi».
Nemmeno dieci minuti dopo, erano tutti dentro la spaziosissima e lussuosissima limousine bianca di Molly, che li stava portando a Villa Delafield.
«E, tanto per la cronaca, potremmo anche farli insieme i compiti», precisò Molly, incrociando le braccia al petto e lanciando un’occhiata a Ben, il quale non confidava nelle sue capacità di mettersi sui libri con due ragazzi che le giravano intorno.
«Stai dicendo sul serio?», si lamentò Nigel, cingendole il collo con un braccio, con nonchalance. «Non potremmo… che ne so, fare un bagno in piscina o qualcosa di divertente?».
«Io ho appena fatto la doccia, non mi va di bagnarmi di nuovo», si oppose Ben, cercando di sistemarsi in qualche modo i capelli ancora umidi.
Molly lo fissò per una manciata di secondi, poi si sedette al suo fianco e gli sistemò delle ciocche dietro l’orecchio.
«Sono davvero lunghi, Ben! Non pensi che sia ora di tagliarli un po’?». A quelle parole, il viso di Molly si aprì e divenne radioso grazie ad un sorriso che fece rizzare Nigel sul sedile. «Mi è venuta un’idea fantastica! Perché non passiamo dal mio parrucchiere di fiducia? Poi potremmo andare a fare un po’ di shopping! Ci divertiremo un mondo e potresti farti un look totalmente nuovo, Ben!».
«Perché, il look che ho adesso non ti piace?», le domandò imbronciato, ma sottovoce, passando completamente inosservato.
Sembrava che Molly fosse stata appena drogata, tanto era eccitata. «Allora, che ne dite?».
«Farei qualsiasi cosa, per vederti così felice!», esclamò Nigel a discapito del povero Ben, il quale lo guardò in modo torvo, con l’unico risultato di farlo ridacchiare mentre Molly urlava all’autista la loro nuova meta e non riusciva a smettere di saltellare sul sedile di pelle.

***

In realtà non aveva molto da fare. Semplicemente voleva tornare un po’ a casa per sentire Tom, farsi una doccia e magari gettarsi sul letto, sperando di riuscire a schiacciare un pisolino, dato che aveva bisogno di recuperare tutte le ore di sonno che aveva perso in quel periodo, per una ragione o per un’altra. Purtroppo però non era riuscita nemmeno a varcare la soglia di casa, figurarsi a dormire! Inaspettatamente, qualcun altro aveva deciso per lei, dandole qualcosa da fare.
Prima Dylan, quello sciagurato che, desideroso di diventare l’eroe del giorno, era quasi finito sotto un treno con la moto d’ordinanza e che, per farsi salvare, aveva spedito Oswin dritto all’ospedale, dove gli avevano ingessato una gamba. Grace era subito schizzata da loro, per accertarsi delle loro condizioni, e dopo aver tirato un sospiro di sollievo, perché poteva andare decisamente peggio, aveva sottoposto Dylan ad un cazziatone che almeno per un po’ gli avrebbe fatto passare la voglia di fare stronzate del genere in casi simili.
Poi fu il turno della femme fatale, Mrs. Hall, la quale a sorpresa – ma nemmeno troppo – l’aveva chiamata al cellulare. Le aveva chiesto se avesse degli impegni per quel pomeriggio e Grace, del tutto intenzionata a non lasciarsi scappare quell’occasione d’oro, aveva negato. Quindi Mrs. Hall l’aveva invitata a bere un caffè in sua compagnia in uno degli alberghi più famosi e cari di Los Angeles, a Beverly Hills.
Grace si era presentata all’appuntamento nettamente in anticipo, poiché non stava nella pelle e voleva anche sondare il territorio, ma dopo un giro di ricognizione aveva deciso di restare nel suo fuoristrada, con il sedile tutto tirato indietro e i piedi ai lati del volante.
Come d’abitudine ormai, le tornò alla mente ciò che aveva confessato Bryant durante il suo interrogatorio alla sede dell’FBI di Los Angeles.
Carter era vivo. Carter si era infiltrato nell’organizzazione criminale e l’aveva salvata a Berlino, anche se questo per lui avrebbe voluto dire mettersi in pericolo con le sue stesse mani e costringersi a sparire per un po’. Carter le aveva sempre guardato le spalle, sin da quando aveva iniziato a lavorare come portiere nel palazzo in cui si trovava il suo ufficio.
Ora non poteva fare a meno di chiedersi il motivo per cui l’avesse fatto, se fosse davvero – come sospettava – a conoscenza di tutto di quello che sapeva lei o forse anche di più.
Era più forte di lei. Cercare di srotolare quell’intricato garbuglio stava diventando quasi un’ossessione, perché sentiva di essere ad un passo dall’afferrare un capo del filo e né mangiare né dormire regolarmente erano cose importanti, in confronto.
La suoneria del suo cellulare la estrapolò bruscamente da tutti i suoi ragionamenti. Così se lo portò all’orecchio dopo aver letto sul display il nome di Michael e rispose.
«Ciao, Grace. Ti disturbo?».
«No, tutt’altro. Dimmi, come si sta comportando il nostro Bryant?».
L’ex-marine aveva deciso di collaborare pienamente con l’FBI, ammettendo che ormai non aveva più nulla da perdere.
Il suo compito era semplice: fare come se non fosse mai stato preso ed interrogato, eseguire gli ordini che gli venivano impartiti per non destare sospetti e puntualmente informare l’FBI sui colpi in programma, sui luoghi utilizzati dai killer, sui loro finanziatori e su tutto quello di cui riuscisse ad impadronirsi. In cambio, il Büro avrebbe protetto la sua famiglia da possibili attacchi da parte dell’organizzazione nel caso l’avessero scoperto.
«Va tutto secondo i piani, per ora non è successo nulla di spiacevole. Credo che stia cercando di redimersi sul serio».
Grace sospirò e chiuse gli occhi, passandoci sopra una mano. «O forse ci sta dando informazioni sbagliate e presto sparirà nel nulla».
«Non riuscirai mai a perdonarlo, vero?».
«Per ora mi risulta difficile. Ma lo sappiamo entrambi che il vero problema non è lui: sono io».
«Ti ostini ancora con questa storia? Grace, come potevi immaginare che fosse dalla parte dei cattivi, dimmi, come?».
«Non lo so, io… avrei dovuto capirlo e basta».
L’agente Crawford, dall’altro capo del telefono, sospirò. Grace se lo immaginò accennare un sorriso, mentre le diceva: «A meno che tu non abbia poteri paranormali… no, non avresti dovuto».
Il silenzio li avvolse per qualche secondo. Lo sguardo di Grace, fisso sulla lussuosa entrata dell’hotel a cinque stelle, scorse la figura di Mrs. Hall salire le scale ricoperte di velluto rosso, aiutata dal portiere in uniforme, dopo essere scesa da un’auto costosa, ma del tutto anonima se paragonata alle limousine della famiglia Delafield.
«Michael… tu credi che finirà presto?».
«È quello che desideri?».
Grace chiuse di nuovo gli occhi. Non le importava di arrivare in ritardo all’appuntamento con la moglie del suo primo sospettato per l’omicidio di Laurence Cox.
Il peso che da tempo le pesava sul petto era tornato a farsi sentire nella sua interezza, schiacciandola e facendola sentire all’improvviso una ragazzina, inadeguata per il compito che le aveva affidato suo padre, pessimista e in trappola, senza vie d’uscita da quel tunnel buio, la luce in fondo ad esso sempre più lontana.

Sì! avrebbe voluto gridare con tutto il fiato che aveva nei polmoni, per poi scoppiare a piangere con le braccia strette al petto.
«Sono certo che ne usciremo, Grace. Presto».
La detective stirò un sorrisino intriso d’amarezza. Peccato che non potesse vederlo, che non potesse capire da solo che in quel preciso momento non ci credeva nemmeno un po’, nel più totale dello sconforto, forse causato anche dalla mancanza di Tom. C’era un insieme di cose, comunque, che non le permetteva di essere serena o quasi, e la faceva dubitare di tutto, tanto da trascorrere le sue notti insonni mettendo in discussione tutta la sua vita. Con la fantasia si inventava un’altra Grace, con amici diversi, un appartamento diverso in una diversa città, una famiglia diversa, felice, ancora unita; un lavoro diverso. E quando si risvegliava dal sogno e si ricordava chi era, cosa o chi la teneva ancora in piedi, non faceva altro che fumare e bere caffè, consumata dall’ansia e da un amore così forte che le dilaniava il cuore al solo pensiero di abbandonare tutto per ricominciare e costruirsi un’altra identità per fare, vedere, sentire, tutto ciò che aveva sempre desiderato.
Immaginò di essere un cane, col pelo lungo zuppo dopo un tuffo nell’oceano, e scosse il capo con l’assurda pretesa che quei pensieri pesanti e scomodi si scrollassero da lei come l’acqua salata.
«Ora devo andare, ci sentiamo», salutò l’agente in tono sbrigativo e senza aspettare di udire la sua risposta uscì dal fuoristrada, attraversò la strada trafficata ed entrò nell’albergo infilandosi nella porta girevole.
Una volta nella raffinata hall, colma di fiori, tappeti persiani e rifiniture in oro ovunque, fu accolta dal sorriso cordiale di una receptionist.
«Lei è la signorina Grace Schneider?».
La detective strinse i denti: odiava che la gente la chiamasse per nome e cognome prima ancora che lei si fosse presentata.
Ciononostante, si stampò un sorriso simile a quello della giovane ragazza e rispose: «Sì, sono io. Mrs. Hall è già arrivata, quindi».
La receptionist annuì e le indicò la sala ristorante, oltre la quale avrebbe facilmente trovato la veranda su cui si affacciava il bar dell’hotel. Mrs. Hall aveva preso posto là e la stava aspettando.
Grace seguì la strada indicatale e in poco tempo avvistò la signora Hall, avvolta in un abito bianco della stessa manifattura di quello con cui l’avevano vista lei e Andrew poche ore prima, i capelli corvini che le accarezzavano liberamente le spalle e gli occhi azzurri e taglienti più accesi che mai, fissi sul giardino attentamente curato che si estendeva tutt’intorno all’hotel e in particolar modo su quella facciata dell’edificio, dove si trovava persino una delle due piscine.
La donna aveva scelto un tavolino oltre la veranda con le colonne in marmo, sotto un ombrellone color panna che evitava che il sole alto del pomeriggio le scottasse la pelle candida, e Grace ne capì il perché quando notò con sorpresa che si era tolta i tacchi e aveva posato i piedi nudi sull’erba.
«Spero di non essermi fatta attendere troppo», esclamò quando l’ebbe raggiunta.
«No, affatto», rispose la donna in tono pacato, rivolgendole un sorriso dolce. Quindi indicò la poltroncina in rattan sintetico di fronte alla sua. «La prego, si sieda».
Un cameriere passò da loro immediatamente e prese le loro ordinazioni. Grace non prestò molta attenzione a quello che la signora Hall decise anche per lei, il suo scopo non era quello di bere qualcosa in sua compagnia. Tutt’altro.
Aspettò comunque che venissero servite, poi Grace attaccò con le sue domande, mescolando lentamente lo zucchero nella sua tazza di caffè.
«Allora, come posso esserle utile?».
Mrs. Hall sogghignò. «Credo di essere più utile io a lei, che lei a me».
«Perfetto», allargò le braccia, fingendo di esserne entusiasta. «Prego, la ascolto».
La donna si portò la tazza alle labbra e guardò l’acqua azzurra ed immobile della piscina. Poi, come se nulla fosse, esordì: «Lo sapeva che Mr. Delafield e mio marito sono andati al liceo insieme?».
«No, non lo sapevo».
Aveva quasi rischiato che la sorpresa le modificasse i tratti del viso e la sua voce prendesse una diversa flessione, ma era riuscita a controllarsi, curiosa di sapere quale sarebbe stata la prossima mossa della femme fatale.
«Sì… e da quello che so erano anche amici per la pelle, almeno fino a quando uno dei due non ha iniziato a collezionare successi su successi. Indovini chi?».
«Mr. Delafield?».
«Esatto». Ridacchiò e scosse lievemente il capo. «Mio marito è sempre stato un tipo invidioso ed orgoglioso, non poteva sopportare che il suo amico fosse migliore di lui, quindi iniziò a fargli una concorrenza spietata nel campo della finanza, nonostante le sue ambizioni fossero altre».
Grace assottigliò gli occhi, concentrata. Era interessante scoprire qualcosa di più sulla storia che legava da decenni quelle due famiglie così diverse – immaginava la faccia sconvolta di Molly se le avesse raccontato tutto quello – ma fino ad un certo punto: lei voleva sapere qualcosa di utile per incriminare il suo primo sospettato, il marito della donna che aveva di fronte.
«Ben presto fronteggiarlo sul lavoro non gli bastò più, perché Nicholas… Mr. Delafield, non sembrava minimamente toccato dai suoi tentativi di mettergli i bastoni tra le ruote. Così si intromise anche nella sua vita privata, cercando di conquistare la sua stessa fidanzata».
Mrs. Hall fece una pausa e Grace notò che i lineamenti del suo viso si erano distesi in modo da conferirle un’aria stanca e malinconica. Allora, incuriosita, le chiese: «E ci riuscì?».
I suoi occhi di ghiaccio la trapassarono, ma non con la solita decisione, perché velati da un sottilissimo strato di lacrime. Quella donna impassibile e calcolatrice si stava pericolosamente avvicinando alla commozione e Grace dedusse che sì, Mr. Hall era riuscito nel suo intento.
«Nicholas… è stato ed è tutt’ora l’uomo migliore che conosca e io gli ho voltato le spalle solo perché mio marito all’epoca era più affascinante di lui, aveva più carisma e mi riempiva continuamente di attenzioni. Non avevo mai nemmeno sospettato che volesse conquistarmi solo per fare un dispetto a lui. L’ho capito quando ormai era troppo tardi».
La donna abbassò gli occhi, ferita, ma solo per un attimo, perché raddrizzò le spalle per reagire al dolore, cercando di dimostrarsi più forte del passato che a volte tornava a tormentarla.
Grace si guardò le mani e pensò che dopotutto non erano così diverse: entrambe non sopportavano di sentirsi deboli, entrambe si erano costruite, negli anni, una barriera protettiva che, per chi non avesse mai avuto l’onore e il privilegio di valicarla, le faceva sembrare stoiche, quasi intoccabili. Mentre invece erano più fragili di chiunque altro.
«Troppo tardi in che senso?», domandò con delicatezza.
«Rimasi incinta. Le nostre famiglie, ancora un po’ all’antica, organizzarono il matrimonio in fretta e furia, nonostante i miei genitori avrebbero preferito di gran lunga vedermi con Nicholas. E anche io».

Non avevo dubbi, pensò la detective. Si vedeva lontano un miglio che non amava suo marito e che nel suo cuore c’era sempre stato il padre di Molly. Non a caso si riferiva a lui chiamandolo per nome, mentre quando parlava di Mr. Hall usava soltanto l’espressione “mio marito”.
Quella volta risultò del tutto priva di tatto, ma la curiosità fu più forte di tutto il resto.
«Per quale motivo è ancora con suo marito, se non lo ama?».
Mrs. Hall sorrise e i suoi occhi azzurri tornarono a splendere melliflui. «Abitudine? Comodità? La chiami pure come preferisce. La cosa buffa è che dopo il matrimonio lui si è innamorato davvero di me, sono diventata una specie di ossessione per lui e non vorrei mai che lei assistesse ad una sua scenata di gelosia».
La donna tornò a sorseggiare il suo caffè, lo sguardo rivolto verso la piscina, come se non avesse più nulla da dire, e Grace corrugò la fronte. Non capiva a che gioco stesse giocando, dove volesse arrivare con tutta la premessa che le aveva fatto. O forse l’aveva chiamata semplicemente perché a casa si annoiava, non aveva nulla di meglio da fare, e voleva parlare un po’ di sé con qualcuno? Non aveva senso, anche perché Grace era certa che una donna scaltra e macchinatrice come lei non si sarebbe mai confidata in quel modo e con una perfetta sconosciuta senza un motivo più che valido.
Alla fine non riuscì più a trattenersi e disse: «Mi fa molto piacere che mi abbia detto queste cose, ma… qual è il vero motivo per cui ha voluto vedermi?».
Mrs. Hall le rivolse uno sguardo divertito e penetrante allo stesso tempo. «Mi scusi se mi sono dilungata più del previsto. Adesso le racconterò qualcosa su Laurence».
Grace cambiò posizione sulla sedia, sporgendosi col busto in avanti, una mano a sorreggerle il mento.
«Ha lavorato per noi per tre anni e credo di non aver mai conosciuto un uomo così gentile, buono e dedito alla famiglia come lui. Amava sua moglie e suo figlio più di qualsiasi altra cosa al mondo, glielo si leggeva in fronte che pensava sempre a loro, persino quando tagliava le siepi del nostro giardino. Suo figlio, Aiden, un bambino davvero adorabile, nei week-end accompagnava suo padre al lavoro e lui e Nigel giocavano per ore a baseball, con mazze e guantoni troppo grandi per loro. I primi due anni sono stati i più felici nella storia della nostra famiglia: adoravo vedere i due bambini correre sul prato, adoravo vedere Laurence che ogni tanto lasciava giù gli attrezzi del mestiere per andare a dargli consigli su come colpire le palle… Non so se l’ha mai visto in fotografie in cui ancora non era un cadavere, ma era un uomo piuttosto attraente secondo i miei gusti e il suo amore incondizionato…». La donna sospirò e si ravvivò i capelli neri e lucenti, per poi concludere, bisbigliando: «Molte volte avrei voluto averne un po’, giusto un po’».
Grace rifletté sulle sue parole, mentre con perfetta efficienza il suo cervello organizzava e collegava con fili invisibili tutte le informazioni appena ricevute. Quindi le chiese: «Ha detto che i primi due anni sono stati i più felici. Cos’è cambiato nel terzo, l’ultimo?».
La signora Hall si strinse nelle spalle ed inarcò un sopracciglio. «Le ho già accennato dell’estrema gelosia di mio marito? Beh, lui iniziò a sospettare che io avessi un debole per Laurence e che lui volesse conquistarmi. Ora lei capisce che si trattava di una sua folle invenzione, perché come le ho già detto lui amava soltanto ed esclusivamente sua moglie e non aveva mai nemmeno pensato di guardarmi in quel modo. Ma mio marito ne era profondamente convinto e ogni giorno trovava nei miei sguardi, nelle mie frasi, degli spunti per attaccarmi e darmi della poco di buono, dato che mi piaceva passare del tempo con quello sporco negro – così lo chiamava. Una volta gli dissi che poteva pure insultarmi in tutti i modi che conosceva, in ogni caso io non mi sarei sentita offesa perché non era vero niente. Allora vuole sapere che cosa fece per farmela pagare?».
«Che cosa?».
«Tirò dalla sua parte Nigel, nostro figlio. Un giorno lo chiamò nel suo studio per parlargli e io origliai tutto. Gli disse che doveva diffidare delle persone di colore, che erano sempre pronte a pugnalare i loro amici alle spalle e che avevano tutte una malattia orribile. Gli disse persino che sua madre era stata contagiata e che doveva stare lontano anche da me».
Grace serrò le mascelle per non lasciare che il suo lato volgare prendesse il sopravvento e lasciò che la donna continuasse nel suo racconto, perché man mano che andava avanti tutto diventava sempre più chiaro nella sua mente.
«Era solo un bambino di otto anni… Con quel discorso lo aveva così spaventato che da quel giorno iniziò ad odiare Laurence e Aiden, e a quest’ultimo disse persino che non voleva vederlo mai più. Il bambino pensava che fosse solo arrabbiato per qualcosa e che il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima, ma quando si ripresentò alla nostra porta Nigel ordinò alla governante di non farlo entrare. Lo odiava perché credeva davvero che lui e suo padre mi avessero trasmesso la loro malattia e nel contempo cercava di stare lontano da me, ma ero la sua mamma, non voleva abbandonarmi al mio triste destino, credeva che sarebbe riuscito a curarmi standomi vicino. Fui io allora a voler stare lontana da lui, ferita per come aveva trattato Aiden e per la scelta che aveva compiuto, ovvero quella di seguire il padre nella sua follia.
«Non mi guardi così, lo so benissimo che era solo un bambino, che potevo semplicemente prenderlo da parte e spiegargli tutto, che comportandomi così ho solo alimentato l’odio che suo padre gli aveva trasmesso, ma allora ero totalmente accecata dalla rabbia e dal desiderio di non darla vinta a mio marito. Infatti qualche tempo dopo lo affrontai e gli dissi che non poteva sbarazzarsi comunque di Laurence, perché io non avrei mai permesso che lo licenziasse, anche perché faceva bene il suo lavoro e non aveva alcuna prova per dimostrare che mi volesse davvero conquistare».
Grace si addossò allo schienale della sedia, senza mai distogliere lo sguardo dal viso di Mrs. Hall, accartocciato in un’espressione sofferente e malinconica.
«Cosa successe il 4 settembre 2007?», domandò con tono di voce pacato, come se non volesse entrare con troppa irruenza in quei ricordi rimasti sepolti nell’angolo più remoto della memoria della donna, gli stessi che ora sarebbero tornati a colpirla senza pietà.
«Il giorno prima che Laurence venisse trovato morto a Venice Beach, intende?», un sorriso quasi sadico si impadronì delle sue labbra. «Ha lavorato in giardino tutto il giorno, come al solito. Quella mattina aveva riempito i vasi di tutta la casa con i fiori più belli, aveva scelto delle rose rosse magnifiche. E quando mio marito le vide… beh, può benissimo immaginare il dramma che ne susseguì. Ma quella volta fu diverso. Litigò con lui apertamente, gli urlò contro, lo accusò delle cose più oscene, lo minacciò. Stavano quasi per arrivare alle mani e si sarebbero presi a pugni sul serio, se non si fossero accorti in tempo di Nigel, sulla soglia del salotto. Aveva assistito a tutta la scena e non mi dimenticherò mai il suo viso: aveva gli occhi spalancati, colmi di lacrime, e il labbro che gli tremava. Era semplicemente terrorizzato e mi ricordo che io abbassai la mia ascia di guerra, lo presi tra le braccia e lo portai via. Sono stata davvero con lui tutta la sera».
«E suo marito? Era davvero nel suo studio a lavorare?».
Mrs. Hall abbassò il capo, ma poi, fiera come una leonessa, lo rialzò e fissò gli occhi nei suoi. Dopo essersi dipinta sul viso un sorriso dolce quanto pericoloso, si alzò dalla poltroncina ed osservò l’orologio d’oro che portava al polso.
«Se mi vuole scusare, ora ho un impegno improrogabile. È stato un piacere parlare con lei, signorina Schneider. Spero di rivederla, un giorno».
La detective si alzò sospirando lievemente.
Che donna. Le dava tutti gli elementi necessari ad incastrare suo marito e non rispondeva quando si trattava di rendere nullo il suo alibi.
Le strinse la mano ed accennò anche lei un sorriso. «Non ho dubbi».
La guardò andare via, nel suo vestito bianco come quello di una sposa, e Grace pensò a come anche i più banali ed incoscenziosi errori umani potessero rovinare non una, ma moltissime vite. Irreparabilmente.
Qualche minuto dopo era di nuovo sul suo fuoristrada, che guidava verso casa, quella volta più decisa che mai a concedersi qualche ora di divano e TV.
Con un auricolare nell’orecchio chiamò Andrew per informarlo delle novità. Senza nemmeno darle il tempo necessario ad aprire bocca, però, lui la travolse con le sue, di novità.
«Ho scoperto dove Dennison ha recuperato la coca! O meglio, ho un’ipotesi…».
«Spara».
«Ecco, pochi giorni prima dell’omicidio di Cox c’era stata una grande retata dell’anti-droga e la omicidi era intervenuta perché vi avevano collegato un loro caso. La droga ovviamente era stata recuperata e…».
«E per il capo della omicidi non era di certo un problema far sparire una bustina di coca dal deposito prove. Ottimo lavoro, Andy».
«Oh, aspetta di sentire la prossima! Ho fatto mettere sotto controllo il cellulare di Dennison, ma visto che risultava sempre spento ho detto al nostro tecnico di controllare anche quello di Mr. Hall e indovina un po’? Cinque minuti dopo che ce ne siamo andati ha fatto la prima telefonata a Dennison. Per ora ne abbiamo contate una decina».
«Non ci sono più dubbi ormai: è lui il nostro uomo».
«Ora ne sono convinto anche io, però non abbiamo il movente!».
Grace si accorse che stava sorridendo soltanto quando gettò uno sguardo allo specchietto retrovisore.
«Oh, ma quello ce l’ho io».

***

Alla fine Molly riuscì a convincere Ben che un nuovo taglio di capelli era necessario, elencandogli tutti gli aspetti positivi che gli avrebbero giovato, a partire dalla scomparsa del fastidio che provava nel dover portare quell’odiosa fascia per evitare che i capelli gli finissero negli occhi mentre giocava a basket. E poi un cambio di look ogni tanto non faceva male a nessuno!
«Madame Molly, ma
chérie! Cosa la porta qui?».
La ragazza salutò con due baci sulle guance il suo coiffeur di fiducia e sorrise raggiante. «Salve Pierre, hai qualche minuto da dedicarmi?».
«
Certainement! Prego, da questa parte!».
Sparì dietro una tenda di velluto porpora nel suo superlussuoso salone e Molly si voltò verso Nigel e Ben, rimasti sconvolti di fronte alla visione di Pierre, un parrucchiere eccentrico e piuttosto effeminato, quasi sicuramente gay, proveniente da Parigi e con un inglese sottomesso alle cadenze della sua lingua madre.
«Forza, venite!», li incitò, agitando una mano.
I due ragazzi annuirono e titubanti la seguirono oltre la tenda, dove si trovava un piccolo studio scintillante che Pierre doveva utilizzare per le star d’eccezione o qualcosa del genere, visto che il suo negozio era abitualmente frequentato dai divi di Hollywood.
Molly stese una mano verso Ben, il quale pian piano si avvicinò e l’afferrò, trovandosi subito dopo seduto sulla comoda poltrona reclinabile posta di fronte ad un enorme specchio diviso in tre, a forma semicircolare, che non prendeva solo il suo viso, ma anche il suo profilo destro e quello sinistro.
«Possiamo vedere qualche modello, Pierre?», chiese Molly, prendendo una ciocca di capelli neri e setosi di Ben e guardandolo in modo rassicurante.
Il coiffeur le passò un libro rilegato in pelle nera e lei lo diede a Ben, il quale se lo mise in grembo e sfogliò le pagine plastificate insieme a lei e a Nigel, avvicinatosi per sbirciare.
«Questo!», esclamò ad un tratto la ragazzina, puntando il dito su una fotografia. «Staresti benissimo!».
«Sei sicura? Io non sono molto convinto…».
«Piacerai tantissimo anche a Sheila, fidati di me!».
Nell’udire il nome di Sheila, Ben arrossì e la guardò negli occhi, sconvolto, ma lei gli diede solo il tempo necessario a vederla sogghignare e disse a Pierre che poteva cominciare.


Uscito dal salone di Pierre, Ben sembrava già un’altra persona e continuava ad ammirarsi, stupefatto, su qualsiasi superficie riflettente: lo schermo del cellulare, la vetrina di un negozio, il finestrino di un’auto…
Pierre aveva fatto un ottimo lavoro, accorciandogli i capelli ai lati della testa e lasciando un po’ più lunghi i restanti, così che potesse usare il gel per farsi una cresta oppure pettinarli e lasciarli morbidi ed ondulati su un lato, in modo che gli accarezzassero appena la fronte e non gli infastidissero gli occhi.
Molly si avvicinò a lui e gli sorrise. «Sei bellissimo, Ben; non sto scherzando».
Il ragazzo ridacchiò e le prese le spalle tra le mani, incitandola a camminare di fronte a sé fino a raggiungere Nigel, il quale si era fermato a guardarli con l’accenno di un sorriso sulle labbra, il cellulare ancora stretto nella mano.
«Tutto bene?», gli chiese Molly, aggrottando le sopracciglia.
Lui annuì scrollando il capo. «Nulla di grave, tranquilla».
Avrebbe voluto chiedergli di più, invogliarlo a sfogarsi con lei, ma pensò che forse a causa della presenza di Ben non se la sentisse, così lasciò correre e li prese entrambi a braccetto, pronta per spuntare il loro prossimo obiettivo: comprare qualcosa di carino a Ben, così da ultimare la sua stupefacente trasformazione da bozzolo pieno di potenziale a bellissima e coloratissima farfalla.


Sembrava avessero saccheggiato intere boutique dai nomi illustri e ogni volta che Molly si voltava per incitarli a darsi una mossa, i due ragazzi si scambiavano uno sguardo che rasentava la disperazione. Ben poi era sconvolto, perché la ragazzina gli aveva comprato un sacco di cose, coi suoi soldi, e non sapeva se sarebbe mai riuscito a restituirglieli in qualche modo. Ovviamente appena le aveva accennato l’argomento lei l’aveva azzittito senza nemmeno aprire bocca, limitandosi ad agitare solo una mano, ma Ben continuava a sentirsi in debito.
La limousine di Molly li attendeva alla fine di Rodeo Drive e quando finalmente la raggiunsero Nigel e Ben sospirarono, massaggiandosi i muscoli delle spalle e i palmi delle mani, arrossati per aver trasportato tutte quelle borse per metri e metri. Fare shopping con Molly era spossante e sarebbero stati ben attenti a non cascarci più. Anche se ad essere sinceri avevano trascorso un pomeriggio diverso e si erano divertiti.
L’autista portò a casa prima Ben e il ragazzo, prima di scendere dall’auto, sorrise a Molly e la ringraziò un’altra decina di volte.
La ragazzina, invece, non gli negò gli ultimi consigli: «Domani mettiti quello che abbiamo deciso prima, mi raccomando! E ricordati le lenti a contatto!».
Ben annuì sospirando e salutò anche Nigel, dato che alla fine di quella giornata gli era risultato davvero più simpatico di quanto avesse mai immaginato.
Rimasti soli, Nigel e Molly, seduti vicini, rimasero in silenzio a guardarsi intorno. Ad un tratto i loro sguardi si incrociarono di fronte a loro, riflessi nello specchio che circondava il piccolo televisore al plasma collegato allo stereo.
Nigel fu il primo a voltarsi verso la vera Molly e la ragazzina non poté far altro che imitarlo, immergendo gli occhi azzurri nei suoi. Era così diverso da Aiden… eppure con lui non era mai successo niente, mentre con Nigel c’era già stato un bacio, diversi appuntamenti e ora…
Molly sentì delle farfalle librarsi nel suo stomaco, ma fu quasi sgradevole e per questo deglutì, quando vide Nigel chinarsi verso il suo viso mentre posava una mano sulla sua, sul sedile di pelle.
Ma a dispetto di ciò che credeva, ossia che l’avrebbe baciata, Nigel socchiuse gli occhi e bisbigliò: «Vuoi sapere perché odio così tanto Aiden?».
Il cuore di Molly perse un battito, ma restò in silenzio, in attesa che Nigel riaprisse gli occhi per leggervi dentro.
«Lo sapevi che suo padre faceva il giardiniere a casa mia? Ogni tanto Aiden lo accompagnava e noi giocavamo insieme a baseball». Al ricordo un sorriso amaro gli incurvò all’insù gli angoli delle labbra. «Poi non ricordo bene cosa successe, avevo solo sette, otto anni, ma so di per certo che per colpa sua e di suo padre mio padre e mia madre iniziarono a litigare sempre più spesso, mia madre voleva anche stare lontano da me… Poi un giorno suo padre è stato ritrovato morto a Venice Beach. Mi ricordo le sirene della polizia in lontananza, le luci rosse e blu che entravano nella mia cameretta attraverso la finestra, e poi le urla dei miei genitori. Non era cambiato niente, nemmeno dopo la sua morte».
Molly si allontanò un po’ ed istintivamente tirò via anche la mano da sotto quella di Nigel. Guardò altrove, in preda alla confusione più totale e ad un ansia inspiegabile che non riuscì a sedare.
«Prima, quando sono uscito durante la partita… era mio padre, diceva di non tornare a casa perché c’erano una detective e un agente della omicidi. Credo che abbiano ripreso ad indagare sulla morte del padre di Aiden, anche se ovviamente si è trattato di un suicidio».
Molly trasalì e non poté far nulla per nasconderlo. In ogni caso, anche se ci avesse provato, prima o poi Nigel si sarebbe accorto della paura che le riempiva gli occhi lucidi e l’avrebbe stretta comunque tra le sue braccia, scusandosi per averle raccontato quelle cose.
Non poteva neanche immaginare che il vero motivo per cui Molly stava male era perché sospettava che la sua famiglia c’entrasse con la morte del padre di Aiden.


Quando si era ripresa un po’, aveva messo da parte tutti i sospetti – d’altronde Nigel allora era solo un bambino e non aveva nessuna colpa in quella brutta storia – e timidamente gli aveva chiesto di restare a cena da lei. Sapeva che i suoi genitori non avrebbero fatto storie, o almeno non con lui ormai sulla soglia di casa. Il vero problema sarebbe stato dopo, ma Molly non ci pensò ed agì con il cuore: sentiva che non poteva lasciarlo solo, non in quel momento così delicato.
Mentre aspettavano che fosse pronta la cena, si rintanarono in taverna a fare i pochi compiti che avevano per il giorno successivo.
Molly era distratta, non riusciva per niente a concentrarsi ed era felice di avere Nigel al suo fianco a darle una mano, ma ad un certo punto non riuscì più a resistere e, scusandosi, si allontanò dalla taverna dicendo di dover andare in bagno. Ma non ci andò, salì semplicemente le scale e raggiunse il quadriportico interno alla villa, si sedette sotto gli archi a tutto sesto e si portò il cellulare all’orecchio, già con le lacrime che le pungevano gli occhi.
«Grace», la chiamò non appena le rispose, con voce tremante. «Ti prego, Grace, dimmi che non è vero».
«Molly…».
«I genitori di Nigel non hanno davvero…».
«Vuoi che venga lì?».
«No, voglio soltanto che tu mi dica che loro non c’entrano con la morte del padre di Aiden».
La detective non se la sentì di mentirle, anche perché era sicura che non sarebbe servito a molto, e, ferale, disse: «Mi dispiace».
Molly non riuscì più a trattenere i singhiozzi e fece terminare bruscamente la chiamata. Quindi si strinse le braccia intorno al petto e sperò che né la governante né il maggiordomo né nessun altro uscisse in quel momento e la vedesse: sarebbe stato troppo difficile spiegare il motivo delle sue lacrime e del dolore che sentiva in mezzo al petto.
Che lo volesse o no, si era davvero affezionata a Nigel, era impossibile ormai non riconoscerlo, e sapere che probabilmente per colpa sua la sua famiglia si sarebbe sfaldata definitivamente le faceva più male di qualsiasi altro dolore avesse mai provato sulla sua pelle.


Suo padre fu molto comprensivo, gli bastò rivolgerle un’occhiata per capire che doveva essere successo qualcosa e che voleva davvero la compagnia di quel ragazzo, il figlio di quello che era diventato il suo più acerrimo nemico dopo che avevano trascorso gli anni del liceo come migliori amici. Così aveva deciso di fare uno sforzo ed era stato ripagato appieno, perché aveva scoperto che quel ragazzo non aveva soltanto preso da suo padre, ma anche da sua madre, una ragazza – quando ancora era la sua ragazza – dolce e simpatica, prima che il suo cuore si inaridisse del tutto accanto a quell’uomo, rendendola fredda e scostante persino con suo figlio.
Dopo cena, una cena dai toni prima imbarazzati e poi sempre più sciolti e rilassati, Molly si rifugiò nel giardino sul retro, sui lettini di fronte alla piscina illuminata sia all’esterno che all’interno da piccoli faretti impiantati nelle mattonelle. Nigel la raggiunse quasi subito, sedendosi al suo fianco e stringendole una mano, senza trovare il coraggio di interrompere quel silenzio con le parole.
Molly si appoggiò la testa alla sua spalla senza nemmeno rendersene conto e rimasero così, a fissare l’acqua immobile della piscina, accarezzati dal vento leggero che soffiava dall’oceano Pacifico, fino a quando la governante non li andò ad avvisare che era arrivata la macchina del «signorino Nigel».
La ragazza lo accompagnò fino all’entrata principale e sotto la stessa veranda in cui si era sentita per la prima volta le farfalle nello stomaco a causa sua, i loro occhi si incrociarono. Nigel dovette pensare allo stesso ricordo, perché chinò il capo accennando un sorriso impacciato e le strinse entrambe le mani.
«Molly…».
«Uhm?».
«Ci sarai domani alla partita, vero?».
La ragazzina annuì e per la prima volta da quando si frequentavano gli gettò le braccia al collo di sua spontanea volontà. Lo strinse goffamente a sé, strizzando le palpebre per trattenere le lacrime, e il macigno che portava sul cuore si appesantì di qualche tonnellata quando lui ricambiò l’abbraccio, posando le mani sui suoi fianchi ed affondando il viso fra i suoi capelli biondi.
«Grazie di tutto», le sussurrò, per poi scostarsi dolcemente ed allontanarsi lungo il vialetto.
Si girò solo una volta, quando si aggrappò alla portiera per entrare nella Ford Edge nera. Allora sollevò una mano per salutarla e Molly fece lo stesso, un nodo grosso come una casa che le ostruiva la gola.
Quando non riuscì più a vedere i fanali posteriori dell’auto, spariti oltre gli alberi dell’immenso giardino della villa, rientrò in casa accompagnata dalla governante, la quale nonostante avesse assistito a tutta la scena non aprì bocca, e si rintanò nella sua stanza.
Si lavò i denti in tutta fretta e una volta indossato il pigiama e spente tutte le luci si lanciò sul letto, stringendo il cuscino sotto la faccia e non riuscendo più a trattenere il pianto che aveva solo in parte sfogato quel pomeriggio.

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Buonasera!
Scoperte sconvolgenti sia da parte di Grace che da parte di Molly. Mi scuso per la parte investigativa un po' sbrigativa e fatta male (è fatta male u.u) ma non sono riuscita a fare di meglio, nonostante tutti gli episodi di CSI che ho visto negli ultimi cinque anni a questa parte xD
Gran parte della storia è venuta a galla, ma non è ancora detta l'ultima parola. Sarà davvero il padre di Nigel il colpevole? E Molly come si comporterà alla partita di baseball, a cui ha promesso di andare sia ad Aiden che a Nigel? E' un bel problema, dato che si è anche affezionata a quest'ultimo...
Ah, poi da non dimenticare la situazione psicologica in cui Grace si è ritrovata... è tormentata dai dubbi e chissà se riuscirà a reggere la pressione fino alla fine di questa indagine... Ormai siamo alle battute finali!
Ma c'è anche un lato positivo, rappresentato da Dylan e Oswin che finalmente hanno fatto pace, in un modo alquanto singolare xD
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi scriviate due righe per farmi sapere, beh... qualsiasi cosa vogliate dirmi :')
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha inserito la FF tra le preferite/seguite/ricordate e anche chi ha letto soltanto!
A domenica prossima, un bacio! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 29
*** Capitolo 27 ***


Buonasera! :)
Vi lascio poche parole all'inizio del capitolo perché credo sia meglio sia per me che per voi, dato che quello che leggerete oggi (o nei prossimi giorni, ecco) avrebbe potuto decisamente portarmi a scrivere un papiro e mezzo di cose. Vi lascio la più totale libertà di espressione, in questo modo, senza condizionamenti miei. Sappiate solo che questo capitolo fa parte della mia Top 10 dei preferiti, il che la dice lunga ;)
Ci tengo a ringraziare chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e ringrazio anche chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate.
Attendo con ansia i vostri pareri e... niente, buona lettura! :D
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 27

As long as you love me,
we could be starving, we could be homeless, we could be broke
As long as you love me,
I'll be your platinum, I'll be your silver, I'll be your gold
As long as you love, love, love, love me

(As long as you love me – Justin Bieber)

Quella mattina, quando entrò nell’ampia sala da pranzo per fare colazione, trovò Grace seduta al posto di solito occupato da sua madre, alla destra di suo padre, con il quale stava chiacchierando amabilmente.
Appena la detective si accorse di lei, le rivolse un sorriso intriso di tenerezza e da un lato Molly dovette puntare i piedi a terra per non schizzare a stritolarla tra le braccia e sfogarsi un po’ con lei; dall’altro i pensieri che aveva tentato in tutti i modi di cacciare nell’angolo più remoto della sua mente tornarono inevitabilmente a farle sanguinare il cuore, portandola ad osservare le ballerine beige che aveva indossato quella mattina, abbinate ad un paio di jeans a sigaretta e un maglioncino col collo a V, marrone chiaro.
«Buongiorno, bambina mia», la salutò affettuosamente suo padre. «Dormito bene?».
Molly non rispose, si limitò ad annuire con il capo, perché sapeva che il tremore della sua voce l’avrebbe tradita.
Si sedette di fronte a Grace, la quale cercò subito i suoi occhi azzurri con i propri verdi, mentre la governante si occupava della sua colazione, servendole una tazza di caffellatte caldo e un vassoio di croissant.
Al suo prolungato silenzio, Molly vide di sfuggita suo padre e la detective scambiarsi uno sguardo e si chiese che cosa si fossero detti prima che arrivasse. Possibile che Grace gli avesse già detto tutto quello che lei non avrebbe mai voluto sapere riguardo la morte del padre di Aiden?
Lo stomaco le si chiuse ancora una volta, ma come si era sforzata la sera precedente, fece del suo meglio per sbocconcellare una brioche inzuppandola di tanto in tanto nel caffellatte.
«Non mi chiedi nemmeno perché sono qui a quest’ora di mattina?», le domandò Grace, con un sopracciglio inarcato.
Molly ricambiò per un attimo il suo sguardo e la detective rispose alla sua domanda inespressa: «Ti accompagno io a scuola. Vuoi?».
La ragazzina annuì senza troppa convinzione. Allora suo padre, Mr. Delafield, si schiarì la gola con un colpo di tosse ed esclamò con voce pacata: «Tesoro, se vuoi puoi anche stare a casa, oggi».
Quelle parole le fecero alzare la testa di scatto, attonita. Se fosse stato un giorno qualunque avrebbe iniziato a saltellare intorno al lungo tavolo in noce come una matta. Purtroppo però non poteva proprio mancare, perché voleva stare il più vicino possibile a Nigel e aveva promesso a lui – come ad Aiden – che ci sarebbe stata a vedere la partita di baseball.
«No, io… non posso», mormorò, tornando ad abbassare gli occhi.
Grace sospirò mestamente e scosse il capo, scambiando un altro sguardo con Nicholas, il quale arrotolò il suo Wall Street Journal e dopo aver bevuto l’ultimo sorso del suo caffè si alzò in piedi. Posò un bacio sulla testa della figlia, massaggiandole delicatamente le spalle, quindi uscì dalla sala da pranzo ordinando sottovoce alla governante di lasciarle sole. Malie obbedì senza battere ciglio e chiuse con delicatezza le pesanti porte che dividevano la sala da pranzo dal salotto.
«Perché sei qui, veramente?», chiese Molly dopo qualche altro secondo di silenzio, che come una coltre di nebbia si era posata su di loro, appesantendogli le ossa.
«Perché sono preoccupata per te».
«Non serve, sto bene», rispose, ma non appena levò lo sguardo ed incrociò quello apprensivo della detective si pentì di aver deciso di mentire a lei, proprio a lei.
«Nigel era con te, ieri, mentre io e Andrew eravamo a casa sua?».
Molly allontanò la tazza ancora mezza piena e si portò le mani tra i capelli.
«Sì», biascicò debolmente, gli occhi che le si inumidivano senza che lei potesse in qualche modo impedirlo. Si sentiva impotente, annientata, come se la colpevole di quell’assurda morte fosse lei e l’avessero appena inchiodata al muro.
«Non è ancora ufficiale, magari…».
«Magari ti sei sbagliata? Non dire idiozie, Grace, tu sei la migliore: se sospetti che la famiglia di Nigel sia coinvolta in questa storia, allora è così».
Grace piegò la testa sulla spalla destra e la fissò con un piccolo sorriso sulle labbra, che esprimeva tristezza e gratitudine insieme.
Allungò un braccio sul tavolo per raggiungere la sua mano e la strinse, intrecciando le loro dita.
Molly sollevò il capo per guardarla in viso e si morse le labbra, ormai ad un passo dallo scoppiare a piangere.
«Nigel era solo un bambino, all’epoca. Lui non è coinvolto, te lo posso assicurare: non si sarebbe mai spinto a tanto, non avrebbe mai voluto che una persona innocente morisse. E non devi stare male, anzi, devi essere ancora più forte, perché lui avrà bisogno di te, quando la verità verrà a galla».
Molly tirò su col naso e si asciugò la lacrima che le era scivolata sulla guancia. «Non pensavo che… Non è giusto».
«Non è giusto che lui soffra per questo, ma non lo è nemmeno che l’assassino del padre di Aiden rimanga a piede libero. È la doppia faccia della giustizia, la quale, nella maggior parte dei casi, fa male a tutti, almeno un po’».
Molly rifletté a lungo su quelle parole e si rese conto che la sua amica aveva perfettamente ragione.
Nigel avrebbe visto la sua famiglia sfaldarsi, investita da un fantasma del passato che tornava a vendicarsi.
Aiden avrebbe finalmente visto l’assassino di suo padre finire in prigione per il resto dei suoi giorni, ma niente e nessuno gli avrebbe mai restituito i suoi genitori.
E Grace… Lei si alzò dalla sedia e fece il giro del tavolo per raggiungerla. Le accarezzò una ciocca di capelli biondi, morbidi e setosi, ed accennò un sorriso materno sussurrando: «Ti aspetto fuori».


Il sole splendeva mattiniero nel cielo terso, infinitamente azzurro, della Città degli angeli.
Ultimamente, purtroppo, di angeli se ne vedevano ben pochi e forse la persona seduta accanto a lei, col volante fra le mani, gli occhiali da sole sul naso, i capelli scompigliati dal vento che entrava dal finestrino abbassato e una sigaretta accesa fra le labbra, era uno di questi.
Grace sorrise divertita e le chiese, voltandosi verso di lei: «Perché mi guardi così?».
«Perché ti voglio bene».
«Anche io te ne voglio, piccola».
Un minuscolo sorriso riuscì a sorgere sulle sue labbra, illuminandole il volto, e così tornò a guardare fuori dal finestrino fino a quando i suoi occhi non incontrarono la piazzetta di fronte alla Notre Dame High School, già straripante di studenti che aspettavano il suono della campanella chiacchierando fra loro, ridendo, urlando, fumando, ascoltando la musica, ripassando per il test in prima ora. Tra tutti loro, scorse anche la chioma nera come la pece e gli occhi blu elettrici di Sheila, seduta sull’estremità di uno dei due muretti, con un libro fra le mani.
Quel giorno indossava una maglietta larga, raffigurante un teschio argentato su sfondo nero, che le lasciava nuda una spalla, e un paio di jeans sdruciti. Ai piedi un paio di Converse All Star nere.
Non era una dark lady, né una metallara, né una punk, né una emo. Era semplicemente Sheila.
I suoi occhi cerulei però abbandonarono presto la sua figura, per correre freneticamente alla ricerca di Nigel.
Quando finalmente lo vide, assieme ad alcuni suoi compagni di squadra, tirò un sospiro di sollievo. Stava sorridendo, ma Molly ormai lo conosceva abbastanza da sapere che si stava sforzando, che era inquieto e che, se solo avesse potuto, sarebbe andato via da lì di corsa.
La cosa che la fece sospirare di sollievo, quindi, fu sapere che era venuto a scuola e lei poteva stargli accanto, qualsiasi cosa fosse successa quel giorno.
«Oggi che orario fai?».
Molly si voltò verso Grace e, anche se titubante, rispose: «C’è la partita di baseball, dopo le lezioni. Nigel e Aiden giocano, quindi…».
La detective sorrise e le passò affettuosamente una mano fra i capelli. «Se ci sono novità ti mando un SMS, okay?».
La ragazzina annuì, ringraziandola flebilmente. Quindi scese dal fuoristrada e raggiunse Sheila, la quale aveva notato la vettura da cui era scesa e aveva arricciato il naso.
«Un giorno ti presenti qui con una limousine lunga tre metri, un giorno su un mezzo catorcio. Come funziona?».
Molly non rispose e cercò subito lo sguardo di Nigel, incrociandolo dopo qualche secondo passato ad accarezzare la sua figura da lontano: i capelli ricci e biondi, gli occhi azzurri simili ai suoi, le braccia esili ma forti; la camicia chiara sopra una maglietta grigia a maniche corte, i jeans neri attillati e portati a vita bassa, un paio di Reebok bianche ai piedi.
Nigel dischiuse le labbra come se avesse appena letto qualcosa di sconvolgente impresso sul suo viso e Molly provò a stirare un sorriso, con miseri risultati.
Il ragazzo lasciò i suoi amici senza degnarli di una benché minima spiegazione e le andò incontro. Una volta al suo fianco, le strinse una mano e le posò un lieve bacio tra i capelli.
«Tutto bene?», le chiese sottovoce.
Molly annuì, anche se sospirando, e allora si rese conto dell’espressione incredula e spiazzata di Sheila, seduta proprio di fronte a loro. Ai suoi occhi – e a quelli di tutti coloro che avevano assistito a quella scena insolitamente colma di tenerezza – dovevano sembrare proprio una coppia, alla quale Molly si era finalmente arresa.
La ragazzina avrebbe riso, se solo ne avesse avuto le forze, perché sapeva che non erano nulla del genere: semplicemente si erano legati l’uno all’altro più di quanto loro stessi si aspettassero o credessero mai possibile.
«Sheila, ti fermi anche tu alla partita, oggi pomeriggio?», domandò Nigel per rompere il silenzio innaturale che li aveva avvolti, nonostante fosse una domanda che non necessitava di alcuna risposta.
Sheila sbatté le palpebre un paio di volte più del dovuto, come per riprendersi da un incantesimo, ed alzò la custodia della sua preziosissima macchina fotografica. «Contaci».
La campanella suonò e la mandria di studenti più diligenti sciamò all’interno dell’edificio scolastico, mentre Nigel e Molly aspettavano che Sheila sistemasse il suo libro nello zaino. Solo allora, guardandosi intorno, tutti e tre si accorsero che Ben non era ancora arrivato.
«Ma che fine ha fatto?», borbottò Sheila, dirigendosi verso l’aula in cui tutti e tre avrebbero incontrato il professore di inglese.
«Magari è già nella sua aula, come sempre», ipotizzò Nigel, ma lei negò con un cenno della testa.
«Sono arrivata presto stamattina, l’avrei visto comunque passare!».
Proprio in quel momento furono avvolti da uno strano silenzio, rotto soltanto da mormorii sommessi. Si voltarono, altrettanto incuriositi, e videro molti ragazzi e ragazze farsi da parte per lasciar passare un ragazzo alto, dai capelli neri – più corti ai lati della testa e con un ciuffo morbidamente acconciato che gli accarezzava il sopracciglio destro – e due occhi castani e leggermente a mandorla.
Anche lui indossava una camicia aperta sopra la maglietta, a quadretti neri e rossi, dei jeans di color azzurro chiaro, tagliati sulle ginocchia, e delle sneakers della Nike ai piedi.
Era semplicemente divino, non sembrava nemmeno lui, e tutte le ragazze ne rimasero abbagliate, in uno stato di shock e di confusione.
«B-Ben? Sei proprio tu?», balbettò Sheila, gli occhi sgranati, colmi di sconcerto.
Il ragazzo arrossì, anche se lievemente, e senza nemmeno farci caso si portò due dita sul setto nasale per sistemarsi gli occhiali che non portava più, sostituiti dalle lenti a contatto, come gli aveva consigliato Molly il giorno prima.
«Certo che sono io», esclamò, in evidente imbarazzo.
«Ma cosa… Che ti è successo? I tuoi capelli, i tuoi occhiali…».
Nigel la interruppe e diede una pacca sulla spalla al nuovo Ben. «Stai una favola, amico! Molly ci sa davvero fare!».
A quelle parole gli occhi blu di Sheila si posarono sulla biondina, scagliandole addosso fulmini e saette.
«Tu! Sei stata tu a conciarlo in questo modo?!», gridò, paonazza, puntandole il dito contro.
Molly spalancò la bocca in una O di sorpresa. Perché la stava aggredendo in quel modo? L’aveva sentito anche lei Nigel: Ben stava una favola! Eppure lei non sembrava d’accordo.
Sheila fece un passo avanti, adirata, e le diede un violento spintone che sicuramente l’avrebbe fatta rovinare a terra, se Nigel non avesse avuto i riflessi pronti per afferrarla per i fianchi.
«Ehi, ma che ti prende?!», urlò quest’ultimo, una volta certo che Molly non si fosse fatta nulla.
«Che mi prende?! Guarda che cos’ha fatto a Ben! L’ha trasformato in uno di voi, con i vostri stupidi tagli di capelli e i vostri vestiti alla moda!».
«Sheila, per favore, calmati», la implorò Ben, ma la ragazza parve prendere quelle parole come un incitamento a gridare più forte, tanto da attirare l’attenzione dei professori già nelle aule per fare l’appello.
«Lui non aveva alcun bisogno di cambiare, stava benissimo anche prima! Come ti sei permessa di –».
«Adesso basta!», strillò Molly, scansando bruscamente Nigel per affrontarla a quattr’occhi. «Io non ho imposto nulla a Ben! Sei solo una pazza isterica se è quello che credi e penso che tu faccia meglio ad andare a prenderti un’altra dose delle tue pastiglie!».
Sheila impallidì all’improvviso e vacillò, come se avesse appena ricevuto una coltellata in mezzo al petto.
Ben le portò le mani sulle spalle, come per sorreggerla, e quando alzò il viso verso di lei, sconvolto, Molly realizzò ciò che aveva detto senza la benché minima intenzione di farlo, del tutto travolta dalla rabbia e dal nervosismo che aveva accumulato dentro di sé in quei giorni; l’aveva liberato così tutto insieme e in una volta sola, impossibile da arrestare, come un fiume in piena.
Si portò una mano sulla bocca, ma ormai era troppo tardi: il danno era fatto e, rigida come una statua, non poté far altro che guardare Ben mentre portava via Sheila, ancora inerte fra le sue braccia.
Anche il professore di inglese aveva assistito alla scena, senza muovere un dito, ed appoggiato allo stipite della porta li stava osservando severamente tutti e quattro.
Ben lasciò Sheila solo quando fu seduta al suo posto ed incrociò ancora lo sguardo di Molly sulla soglia dell’aula, dopo che lei e Nigel erano stati esortati dal professore a sbrigarsi ad entrare in classe.
Ben non sapeva cosa pensare, né come sentirsi in quel momento, troppo coinvolto e sbigottito dalla situazione, e la sua espressione smarrita, disorientata, fuggevole, lo confermava appieno.
Molly avrebbe voluto scusarsi, almeno con lui, ma non riuscì nemmeno a muovere le labbra, improvvisamente secche ed incollate tra loro.
Così camminò a testa china tra i banchi fino a quando non si sedette in quello davanti a Sheila, affianco a Breanne, e Nigel le lasciò la mano solo per sedersi in ultima fila, nell’angolo opposto della classe.
Per tutta l’ora di lezione restò con lo sguardo fisso sul libro, nonostante le sue orecchie non sentissero nemmeno una frase della spiegazione del professore: era troppo impegnata ad avvertire gli occhi di Sheila bruciarle tra le scapole e troppo impaurita anche solo per pensare di voltarsi a guardarla.

***

«Ora abbiamo tutti gli elementi per incastrarlo, incluso il movente. Ma non ha fatto tutto da solo, quindi è giusto che paghi pure colui che l’ha coperto».
Andrew annuì e dopo qualche minuto indicò a Grace di accostare: erano arrivati.
Peter Dennison, ex-capo della sezione omicidi della polizia di Los Angeles, abitava con la moglie, più giovane di lui di quasi quindici anni, in una delle tante villette a schiera che si susseguivano l’una dietro l’altra lungo la via.
A due piani, con la facciata bianca, due bovindi ai lati della porta d’ingresso e un piccolo giardinetto colmo di fiori, con tanto di vialetto in ciottolato, aveva un aspetto vagamente inglese che fece tornare alla mente della detective alcuni vecchi telefilm britannici che guardava da ragazzina.
«Che faccio, suono?», domandò Andrew, già di fronte alla porta, sotto la piccola tettoia.
Grace annuì e lo raggiunse, le mani nelle tasche dei jeans.
Il poliziotto suonò al campanello e quasi immediatamente una donna aprì la porta, il viso stanco truccato a malapena.
«Voi dovete essere della polizia. Prego, Peter vi sta aspettando».
I due ringraziarono ed entrarono in salotto, dove il loro sguardo si posò inevitabilmente sulle valigie sparse di qua di là e ancora mezze piene.
«Scusate il disordine, ma siamo appena rientrati dal nostro viaggio a San Francisco».
Grace sollevò il capo ed incontrò gli occhi gentili di Peter Dennison, incastonati in un viso tondo e pallido.
Successivamente l’uomo, comodamente infossato nella poltrona vicino al caminetto spento, si passò una mano sulla testa calva e ridacchiò, guardando Andrew di fronte a sé. «Ne hai fatta di strada, ragazzo mio».
«Già», rispose lui, imbarazzato. Quindi incrociò lo sguardo di Grace e la presentò, indicandola: «Signore, lei è Grace Schneider, un’investigatrice privata che mi sta aiutando a chiudere il vecchio caso di cui mi sto occupando».
«Grace… L’ultima volta che ti ho vista avevi appena sedici anni».
Le rivolse un sorriso, che rivelò le spaccature sulle sue labbra, e con un lieve cenno del capo le indicò di sedersi al suo fianco, sul divano.
«Grand’uomo, tuo padre», aggiunse, socchiudendo gli occhi, come se in quel modo potesse vedere meglio la sua figura. «Si è più saputo nulla sulla sua morte?».
«Ci sto ancora lavorando, signore».
«Uhm… Spesso avevamo pareri e modi d’agire differenti, non riuscivamo a capirci, ma se c’è una persona degna di avere giustizia… questa è lui».
Grace chinò il capo in un ringraziamento silenzioso.
La moglie di Dennison fece di nuovo la sua comparsa in salotto, dopo essersi chiusa in cucina per preparare qualcosa da bere, ed appoggiò sul tavolino basso un vassoio con una caraffa di caffè fumante, una zuccheriera e ovviamente le tazze con i rispettivi cucchiaini.
«Servitevi pure», incalzò.
Grace passò, dicendo che ne aveva già preso uno; Andrew, invece, prese una tazza e se la portò alle labbra, facendo i complimenti alla donna per rompere il silenzio.
Ad un certo punto Dennison, con gli occhi offuscati da un ricordo antico, ma ancora con quel sorriso pacifico sulle labbra, disse: «Tesoro, vai pure in camera a riposarti un po’, io sto bene».
La moglie, avvertendo che in realtà voleva parlare da solo con i loro ospiti, acconsentì e «con permesso» sparì oltre le scale.
Quindi Dennison tornò a rivolgersi ai due. «Siete qui per il caso Cox, non è così? Hall mi ha chiamato molte volte, recentemente».
Grace annuì, sporgendosi in avanti col busto. «E gli ha risposto?».
«Sì, gli ho dato appuntamento qui tra una ventina di minuti».
Andrew si irrigidì, mentre Grace non diede segno di esserne rimasta sorpresa, addirittura accennò un sorriso.
«Non sono più disposto a proteggerlo», disse ancora Dennison schietto, più che tranquillo. «Voglio avere la coscienza pulita, quando me ne andrò all’altro mondo».
«C-Come? Che sta dicendo?», balbettò Andrew, sempre più confuso.
Dennison gli sorrise. «Ragazzo, sai perché sono andato a San Francisco?».
«Per far visita alle sue figlie».
«A San Francisco c’è uno dei migliori istituti oncologici della costa occidentale», lo corresse Grace, attirando su di sé il suo sguardo sbigottito. «Entrando ho notato su quel mobile delle cartelle cliniche con il timbro dell’istituto».
Dennison annuì, compiaciuto del suo spirito d’osservazione. «Ho scoperto di essere malato di tumore cinque anni fa e mi sono trasferito a San Francisco per un po’, dove potevo stare vicino alle mie figlie e ai miei nipotini mentre mi sottoponevo a delle cure, ma amo Los Angeles, non posso fare a meno di tornare, ogni tanto. Penso che non mi muoverò più da qui, comunque: mi hanno dato al massimo qualche mese di vita».
Andrew abbassò lo sguardo verso la tazza di caffè che teneva fra le mani, mormorando: «Mi dispiace molto, signore».
«Oh, non ti preoccupare. Questo è il volere di Dio e, come ho detto, voglio espiare le mie colpe, prima di andarmene. È una fortuna che abbiate riaperto questo caso proprio ora».
«Ci racconti com’è andata», lo spronò Grace con gentilezza.
Dennison annuì e chiuse di nuovo gli occhi, seguendo il flusso dei ricordi.
«Sapevo che il giardiniere della famiglia Hall era stato trovato morto a Venice Beach e che una squadra della mia sezione aveva preso in mano il caso, ma non me n’ero interessato più di tanto perché in quel periodo ne stavo seguendo un altro ben più complicato. Il giorno seguente però ricevetti una telefonata da parte del mio vecchio amico Hall, il quale mi invitò personalmente alla cena organizzata in onore ai suoi successi. Non avrei mai immaginato che lui c’entrasse in quella storia, ma purtroppo verso la fine della serata mi tirò in disparte e mi spiegò la situazione, mi disse che solo io potevo aiutarlo ad uscirne. Mi pagò, mi diede moltissimi soldi e molti di essi li ho usati solo negli ultimi anni, per pagarmi le cure, perché mi vergognavo di essermi venduto e di aver tradito il giuramento che avevo fatto entrando in polizia. Ciononostante, non ho mai avuto il coraggio di dire la verità».
«Quindi lei intervenne, si occupò del caso personalmente e fece pressione per far sì che venisse ritenuto un suicidio, vero?».
«Era una follia, c’erano elementi davvero compromettenti, ma, sì, la mia posizione mi permise di chiudere in fretta il caso».
«E la bustina di coca? La aggiunse lei come prova in un secondo momento?», domandò Andrew, nonostante tenesse le mascelle serrate e lo sguardo fisso di fronte a sé, adirato e ferito, lui che aveva creduto fino all’ultimo all’innocenza di Dennison, al suo onore di poliziotto.
«Sì, c’era stata una retata qualche tempo prima e ne avevamo sequestrati parecchi chili, così…».
Andrew lasciò la tazza di caffè sul tavolo, con una lentezza calcolata, e si alzò in piedi, rigido come un bastone.
«Temo di doverla arrestare per complicità ed inquinamento delle prove, signore».
Dennison sorrise e per la prima volta vi si intravide l’amarezza che aveva tenuto celata così bene fino ad allora.
«Vuoi davvero umiliarmi in questo modo, ragazzo? Sai che non finirò in galera, essendo così gravemente malato».
Grace scorse un’auto scura parcheggiare proprio di fronte alla casa e si alzò per andare a controllare i suoi sospetti. Scostò di un poco la tenda chiara che ricopriva la finestra del bovindo di sinistra e vide proprio Mr. Hall scendere dall’auto e correre verso la porta.
La detective scambiò uno sguardo con Andrew, il quale la capì al volo, e si fece trovare pronta quando Hall tempestò di colpi il pulsante del campanello; infatti aprì subito la porta e sorrise in modo smagliante.
«Mr. Hall! Anche lei qui?».
L’uomo impallidì e le pupille gli si rimpicciolirono, preso dal panico. Ciononostante non ci mise molto prima di decidere di correre via, pestando le aiuole in fiore del giardino e scavalcando la bassa staccionata per infilarsi tra le due villette a schiera e sbucare nella via parallela.
Grace non lo perse un attimo di vista, correndo a perdifiato dietro di lui, ma l’intervento di Andrew fu provvidenziale, perché iniziava a non sentire più le gambe.
Il poliziotto sbucò all’improvviso da una vietta secondaria e gli si gettò addosso, facendogli fare un paio di giri sul cemento già caldo sotto il sole del mattino. Quindi gli portò bruscamente le mani dietro la schiena, tenendolo ancora steso a terra con addosso il suo peso, e gli fece scattare le manette ai polsi davanti a tutti i passanti che, incuriositi, si erano fermati ad assistere.
«Ha finito di correre, eh?».
«Voi non… non potete arrestarmi! Ve ne pentirete!».
«Staremo a vedere. Adesso stia zitto e lasci che le elenchi i suoi diritti».
Grace, anche se con la gola in fiamme, sorrise seguendo il suo amico, diretto di nuovo verso il fuoristrada. Poi pensò a Molly e tirò fuori il cellulare per mandarle un messaggio, come le aveva promesso.

***

Il padre di Nigel è stato arrestato, sto andando in centrale. Passerò a prendervi tutti e tre dopo la partita. Mi dispiace.


Non è vero. Non può essere vero.
Continuava a ripeterselo, come continuava a rileggere il fottuto SMS che Grace le aveva mandato.
Ci aveva messo un po’, prima di decidersi ad aprirlo e a scoprire così la verità. Aveva anche avuto la forte tentazione di eliminarlo senza nemmeno guardarlo, ma, attaccata all’assurda speranza che Grace si fosse davvero sbagliata, l’aveva letto, per poi desiderare soltanto che non gliel’avesse mai mandato.
Come poteva guardare Nigel negli occhi, ora? Come poteva dirgli che suo padre aveva ucciso quello di Aiden? Avrebbe potuto evitarlo per il resto della giornata, ma sapeva bene che era suo dovere stargli accanto, dato che nessun altro l’avrebbe fatto.
Grace aveva specificato che dopo la partita sarebbe passata a prenderli tutti e tre: aveva incluso anche Aiden. Peccato che lui non fosse minimamente a conoscenza che il caso della morte di suo padre era stato riaperto!
Come avrebbe reagito alla notizia? E come si sarebbe comportato con lei, alla quale aveva detto di non immischiarsi in quella storia e che alla fine aveva fatto di testa sua? Forse avrebbe dovuto dargli retta, forse…
Mancavano ancora tre ore prima che le lezioni finissero e quando uscì da quel bagno, dopo aver controllato con cura che non si vedessero i segni delle lacrime, tornò in classe, pronta ad affrontare il peggio.

***

«Sheila! Sheila, aspetta!».
La ragazza si voltò e lo fulminò con i suoi occhi blu elettrici.
«Che cosa vuoi, Bentley?».
Ben sbuffò e lasciò cadere lo zaino ai suoi piedi, prendendola per le spalle.
«Non pensavo che cambiare avrebbe causato tutto questo».
Sheila aprì la bocca per ribattere, ma lui le posò un dito sulle labbra e continuò: «È vero, Molly mi ha dato molti consigli, mi ha portato dal suo parrucchiere e mi ha comprato questi vestiti nuovi, ma ho scelto da solo di cambiare. Ma se vuoi… se vuoi posso anche tornare quello di prima, se ti piacevo di più».
Sheila boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, arrossendo com’era arrossito Ben, e quando ritrovò la sua forza di sempre disse: «A me non interessa come te ne vai in giro, okay? Voglio soltanto che tu rimanga il vecchio Ben. Il mio Ben».
I loro sguardi si incrociarono e Ben risalì le sue spalle, le accarezzò il collo fino ad arrivare ai lati del suo viso. Fece scontrare le loro bocche, trattenendo il respiro e chiudendo forte gli occhi, per paura della sua reazione.
Era da mesi che voleva farlo, senza mai trovarne il coraggio necessario.
Quando però sentì le braccia di Sheila avvolgergli la schiena si rilassò, col cuore in volo, e tornò a respirare col naso, reclinando la testa dall’altra parte per baciarla ancora, più dolcemente quella volta.
Il secondo bacio, sempre a stampo, poco approfondito, durò sì o no una manciata di secondi, interrotto da un gruppetto di ragazzi che passando per il corridoio avevano iniziato a fare versi e a fischiare.
Sheila si scostò da Ben ed indietreggiò di qualche passo, col viso rivolto verso il pavimento per non mostrargli il rossore che le infiammava le guance.
«Io devo… devo andare alla partita, adesso».
Ben annuì e il suo ciuffo enfatizzò il movimento del capo. Poi urlò, quando ormai si era voltata per dirigersi verso il campo da baseball: «Ah, Sheila!». La ragazza lo guardò con la coda dell’occhio.
«Sono sicuro che Molly non intendeva dire quelle cose, in questo periodo è… è strana, non so perché. Promettimi che ci parlerai».
Sheila alzò il pollice senza troppa convinzione ed uscì. Il sole le colpì il viso e solo allora si lasciò andare ad una risata gioiosa, rivolta verso il cielo. E quella volta non c’entrava niente il suo essere lunatica.

***

Nigel, nella sua divisa a righe bianche e blu, con la scritta Notre Dame in giallo stampata sul petto, e il cappellino blu scuro calcato sulla fronte, le stringeva una mano mentre percorrevano la strada laterale che li avrebbe portati alla panchina della squadra di casa.
Fino ad allora era riuscita a non farlo insospettire di nulla, ma in compenso aveva la nausea e sentiva di poter scoppiare da un momento all’altro.
Dopo la scenata di quella mattina, che aveva visto come protagoniste lei e Sheila, aveva la sensazione di avere il doppio degli sguardi puntati addosso e, presa da tutti quei problemi che la stavano schiacciando dall’interno, non si accorse nemmeno del loro arrivo.
«Vai a prenderti un posto in prima fila, oggi giocherò solo per te», le disse Nigel, accarezzandole i capelli su un lato del viso fino a quando, guardandola meglio, non si accigliò. «Ehi, Molly, stai bene? Sei pallida».
«Come? No, sto bene». Provò a stirare un sorriso, ma fallì miseramente, facendolo preoccupare ancora di più.
«C’è qualcosa che non va, vuoi dirmelo?».

Non posso, non posso, non posso!
«Nigel…».
«Cosa?».
Molly sospirò, abbassando il capo, e strinse un po’ più forte la sua mano. «Niente, solo… ti voglio bene».
Il ragazzo sorrise dolcemente e le posò un dito sotto al mento per sollevarle il viso. Con l’altro braccio le avvolse la vita, avvicinandola a sé, e si chinò per baciarla.
Molly non si ritrasse, ancor più rispose al bacio con una specie di disperazione, alzandosi in punta di piedi e stringendo forte le mani sulla sua nuca. Quella volta baciarlo non le fece ribrezzo, né paura; le fece soltanto desiderare che qualcosa si accendesse dentro di lei, che improvvisamente iniziasse ad amarlo follemente, per ricambiarlo e per riuscire a stargli vicino davvero, non come pateticamente aveva fatto tutto il giorno, stando in silenzio mentre gli teneva la mano.
Quando si scostò, Nigel aveva gli occhi luminosi e sorrideva felice come un bambino. Molly provò a fare lo stesso, avrebbe dato di tutto pur di vederlo sempre così, ma il dolore fu più forte di ogni sua altra intenzione e la costrinse ad abbassare il viso, a salutarlo con poca voce augurandogli buona fortuna e ad allontanarsi per raggiungere gli spalti, sotto gli occhi di mezza scuola.
Si sedette da sola, in prima fila, ad un paio di metri dalla seconda base, in un punto da cui riusciva a vedere anche la panchina dei Knights.
Scrutando i visi dei giocatori lì seduti, scorse in un angolo anche quello di Aiden. I loro occhi così diversi si incrociarono, ma quella volta Molly non ebbe nemmeno la forza di interrompere quello scambio: dovette subire in silenzio la loro durezza, la loro amarezza nei suoi confronti, fino a quando non fu lui a voltarsi, richiamato all’attenzione dal coach.
Era venuta a sapere che avrebbe giocato subito, quel giorno, e ne era felice, anche se una parte del suo cuore soffriva per il modo in cui l’aveva aiutato, facendo il doppio gioco con Nigel.
Alla fine era ciò che si meritava: un po’ di dolore dopo tutto quello che lei aveva fatto e non aveva fatto.
La partita iniziò e i primi battitori della squadra avversaria vennero eliminati, i primi punti vennero assegnati e poi toccò al coach della squadra di casa mandare sul diamante i suoi più bravi battitori. Tra questi, Nigel e Aiden.
Fu allora che Sheila riempì in parte il vuoto attorno a Molly, dato che nessuno aveva osato avvicinarsi a lei.
Con la sua macchina fotografica al collo, sfruttò la scusa dell’angolazione perfetta per sedersi lì al suo fianco, ma poi vi rimase, anche se in silenzio.
Guardarono Aiden colpire una palla velocissima con un suono secco e poi correre come una gazzella sullo sterrato, raggiungendo la prima e poi la seconda e la terza base, prima che i giocatori della squadra avversaria recuperassero la palla ai limiti del campo.
«È bravo, eh», esordì Sheila, schiarendosi la voce.
Non sapeva perché avesse iniziato lei la conversazione, orgogliosa com’era, ma sapeva che Ben doveva aver avuto le sue ragioni quando aveva detto che Molly in quel periodo era strana, a partire dal fatto che di sicuro lui la conosceva meglio di lei.
La biondina si limitò ad una scrollatina di spalle.
Allora Sheila, anche se infastidita da quella sua assenza, esclamò: «Senti, Molly, se è per quello che è successo –».
«Mi dispiace per quello che ti ho detto stamattina, non volevo», la interruppe e da quel momento in poi non riuscì più a frenarsi: le raccontò ogni cosa, dalla prima all’ultima, compreso il messaggio che le aveva inviato la sua amica detective, e alla fine, quando nel frattempo sul campo toccava a Nigel battere e Aiden era ancora fermo alla terza base, scoppiò in lacrime e singhiozzi, accasciandosi tra le sue braccia.
Sheila non sapeva che cosa fare, completamente sconvolta da tutto ciò che le aveva raccontato, e quando si decise la strinse un po’ a sé, massaggiandole la schiena tremante.
L’arbitrò fischiò e il lanciatore scagliò una palla potente verso Nigel. Lui riuscì a colpirla con tutta la sua forza, quasi sicuramente si trattava di un fuori campo, ma quello che interessava a tutti era che Aiden raggiungesse la casa base e segnasse un punto per la sua squadra.
Il ragazzo di colore iniziò a correre come un forsennato, come Nigel dal canto suo, ma quando sollevò lo sguardo verso gli spalti Aiden rimase spiazzato di fronte alla visione di Molly, rannicchiata contro Sheila, che si teneva il viso tra le mani per nascondere a tutti le sue lacrime.
Ma a lui no, lui le sentiva sulle sue stesse mani quelle lacrime, e non gli importò del punto, delle urla di incitamento e di indignazione provenienti dagli studenti tutt’intorno a lui sugli spalti, dai suoi stessi compagni di squadra e dal suo coach. Semplicemente si fermò ad un passo dal toccare col piede la casa base ed attraversò il campo in diagonale, correndo ancora più veloce, accecato dalla rabbia.
Sheila intanto aveva sollevato lo sguardo per capire cosa stesse succedendo e rimase a bocca aperta non appena capì quello che invece stava per accadere sotto gli occhi di tutti.
«È pazzo…», mormorò sconcertata e allora anche Molly si tirò su e si levò le mani dal viso per assistere all’ennesimo colpo al cuore.
Nigel non fece neanche in tempo a gridare dalla sorpresa, perché Aiden gli fu addosso come un leone sulla preda e lo fece rotolare sullo sterrato, per poi sedersi sul suo stomaco e tirargli il primo pugno in faccia.
Subito tutti i giocatori presenti in campo intervennero, o almeno ci provarono, ma dovettero arrivare i due coach perché quel tremendo spettacolo avesse fine. Nigel e Aiden vennero separati, per il grande sollievo del primo, col viso sanguinante e un occhio che a malapena riusciva a tenere aperto, e per la frustrazione del secondo. Entrambi poi furono fatti uscire dal campo e spediti negli spogliatoi, costantemente sorvegliati.
Prima che non potesse più avere alcun contatto con loro, però, Molly era riuscita a raggiungerli, correndo come mai aveva fatto in vita sua, tanto che il suo professore di educazione fisica non l’avrebbe creduto possibile se qualcuno gliel’avesse raccontato.
«Nigel! Nigel, Dio mio!», gridò senza fiato, gettandosi fra le sue braccia scansando malamente Aiden.
Gli accarezzò le guance, sporcandosi le mani di polvere e sangue, e si morse le labbra per non mostrarle tremanti.
«Sto bene, non preoccuparti», la rassicurò, accennando un sorriso ed accarezzandole i capelli. «Tu invece… hai pianto?».
Molly scosse violentemente il capo, anche se sapeva che avrebbe rincominciato presto, e lo abbracciò un’altra volta. Poi fu costretta a lasciarlo andare via assieme all’uomo che aveva il compito di controllare che i due non si azzuffassero ancora sotto le docce.
Fu in quel frangente che incontrò gli occhi di Aiden, smarriti e delusi, ma anche orgogliosi e colmi di quella rabbia cieca che l’aveva sopraffatto poco prima.
Fissando quei pozzi scuri e profondi ebbe la sensazione di perdersi, di non sapere più chi e dove fosse, né cosa fosse successo. Per sua fortuna però l’incantesimo svanì presto e poté tornare in sé, coi suoi sentimenti contrastanti che lottavano per prevalere l’uno sull’altro.
Prevalse anche dentro di lei la rabbia, tanto che digrignò i denti e latrò con la voce graffiata dalla sofferenza: «Poi sarei io quella che si comporta in modo incomprensibile, eh?!». Assottigliò gli occhi, nel patetico tentativo di dimostrarsi cattiva e allo stesso tempo per trattenere le lacrime, e gli volse le spalle.
Aiden non chiamò il suo nome, non la pregò di restare, non si scusò. La lasciò andare e con i pugni ancora macchiati del sangue di Nigel stretti lungo i fianchi si diresse verso la parte opposta.

***

Grace parcheggiò il fuoristrada nel bel mezzo della piazzola deserta di fronte alla scuola di Molly e quando scese, sbattendosi la portiera alle spalle, la vide seduta su un muretto, che la fissava con gli occhi gonfi e lucidi di pianto, spenti, quasi vitrei.
Le passò un braccio intorno al collo e le fece appoggiare la testa contro la sua spalla, posandole un bacio ogni tanto fra i capelli biondi.
Non era giusto che fosse costretta a subire tutto quel dolore, era ancora così piccola… Ma ciò che non uccide fortifica e Grace lo sapeva per esperienza, anche se ogni pezzo d’anima che si incrinava il più delle volte era una frattura a dir poco irreparabile, una di quelle che nemmeno il tempo era in grado di risanare.
Per una decina di minuti rimasero lì sedute, in quel silenzio rotto soltanto dalle grida e dai rumori della partita di baseball ancora in corso nel campo alle loro spalle. Poi finalmente un ragazzo dai capelli biondi e ricci, gli occhi azzurri e alcuni cerotti a ricoprire i lividi sul viso, uscì dalle porte vetrate poco distanti da loro.
«Tu sei Nigel, vero?».
Il ragazzo si voltò ed aggrottò le sopracciglia, vedendo Molly rannicchiata al fianco di quella ragazza sconosciuta.
«Sì, sono io. Ma tu chi sei?».
«Mi chiamo Grace, sono un’amica di Molly. Ti serve un passaggio».
«Io, in verità…».
«La mia non era una domanda», puntualizzò, decisa. «Devi venire con noi. E così anche Aiden».
Nigel arretrò di un passo, spaventato, ma proprio in quel momento Molly alzò gli occhi vacui ed annuì con un lento movimento del capo, estremamente lento, come se avesse un peso insopportabile tra il collo e le spalle.
«Sa quello che fa», cercò di tranquillizzarlo, ma non ci riuscì per niente.
L’arrivo di Aiden, col suo zaino in spalla, peggiorò ulteriormente la situazione, perché lui si rifiutò categoricamente di avvicinarsi al fuoristrada della detective. Alla fine Grace, anche per risparmiare altro dolore a Molly, decise di farla finita con le cattive.
«Si tratta dell’omicidio di tuo padre, Aiden. È stato riaperto il suo caso, qualche tempo fa, e ora è stato risolto definitivamente. Abbiamo catturato il suo assassino».
Il ragazzo si pietrificò sul posto per un attimo, poi gettò uno sguardo verso Molly e salì sul fuoristrada caricando malamente la sua bici nera nel grande cofano aperto.
Nigel, invece, iniziò a balbettare, pallido e stordito: «Omicidio? Il suo assassino? Molly, che cosa sta succedendo?».
«Per favore, Nigel, entra. Ti verrà spiegato tutto alla centrale».
Il biondino si arrese e, accompagnato da Molly, si sedette sui sedili posteriori, mentre Grace faceva il giro per andare al volante.
«Ah, vorrei chiederti cos’hai fatto in faccia, ma meglio che lasci stare, eh?».
Grace guardò Nigel attraverso lo specchietto retrovisore, poi Aiden con la coda dell’occhio e infine sospirò, sperando vivamente che quella storia finisse presto, per il bene della sua piccola amica, davvero stremata e per la prima volta alle prese con i pro e i contro dell’amore.
Una volta alla centrale, Grace condusse i ragazzi lungo i corridoi fino a quando non incontrarono sulla loro strada Andrew, appena uscito dalla sala interrogatori.
Il suo sguardo si addolcì identificando quelli che non potevano che essere i figli rispettivamente di Mr. Hall e del defunto Laurence Cox.
«Ragazzi, venite con me», li invitò, posando le mani sulle loro spalle.
Molly fece per andare con loro, ma prima che si mettesse a correre Grace la prese per mano, tenendola vicina a sé mentre li seguivano lentamente.
Andrew portò Nigel e Aiden in una stanza con dei divanetti, una specie di sala d’aspetto della polizia, e lì trovarono la signora Hall e un ottimo amico e collaboratore di Mr. McNab, il quale lo aveva delegato di stare vicino a suo nipote mentre lui prendeva l’aereo che da New York, il cuore della finanza, l’avrebbe riportato a Los Angeles.
La detective e la ragazzina si fermarono di fronte alla vetrata attraverso la quale potevano osservare tutto ciò che avveniva all’interno della stanza e videro Andrew, seduto su una poltrona di fronte ai due ragazzi, spiegare nuovamente quello che stava succedendo.
La madre di Nigel non sembrava molto addolorata, anche se ogni tanto guardava Aiden, quel bambino ormai cresciuto a cui aveva voluto tanto bene quando era ancora il miglior amico di suo figlio, con gli occhi di solito di ghiaccio che trasudavano rammarico e vergogna.
Stava accarezzando la schiena di Nigel con una mano, ma la tolse con un lieve sobbalzo, come ustionata, quando il ragazzo crollò sotto il peso delle parole che l’agente gli aveva appena rivolto, ossia che suo padre era stato arrestato per l’omicidio di Laurence Cox.
Le lacrime inondarono il suo viso, paonazzo e ricoperto di lividi; il suo corpo si raggomitolò, si chiuse su se stesso come un riccio, con le mani strette a pugni tra i capelli. Poi aprì la bocca per urlare, ma non ne uscì alcun suono, soltanto un rantolo soffocato.
«Mi dispiace tanto», disse Andrew e Molly sentì distintamente la sua voce pronunciare quelle parole, oltre che vederne il labiale. Si voltò verso la detective e la vide accanto alla porta aperta, che la incitava ad entrare.
Molly si fiondò dentro la stanza senza pensarci due volte e si sedette accanto a Nigel per stringerlo fra le braccia quando le lacrime iniziavano a scavare dei solchi anche sul suo viso.
Non disse niente, lasciò semplicemente che Nigel si sfogasse contro la sua spalla, stringendola fin troppo forte, tanto da toglierle il respiro.
Ad un certo punto Aiden parlò, con la voce bassa e ferale che lo faceva sembrare tanto più grande.
«Te l’avevo detto di lasciar stare».
Molly si irrigidì e levando lo sguardo oltre la spalla di Nigel si rese conto che erano usciti tutti: erano rimasti solo loro tre. Quindi cercò gli occhi profondi di Aiden, impassibile e con le mani unite di fronte alla bocca, i gomiti puntati sulle ginocchia, e lo trovò di sfuggita, perché lui le lanciò soltanto un’occhiata con la coda dell’occhio.
Nigel non l’aveva sentito, sconvolto com’era; o forse lo sentì, ma non volle dare peso alle sue parole. Molly lo fece per entrambi, sentendo il gelo che le aveva stretto il cuore poco prima scivolarle giù, fino alle viscere.
Che Aiden avesse sempre sospettato del padre di Nigel? Che, proprio per questo, non avesse voluto il suo aiuto? Possibile che avesse scelto razionalmente di lasciare in libertà l’assassino di suo padre perché non voleva che Nigel, il suo vecchio amico d’infanzia, ne venisse inevitabilmente travolto?
All’improvviso Aiden si alzò dal divanetto, aprì la porta e si affacciò. Molly, spinta dalla curiosità, aiutò Nigel ad asciugarsi il viso e tenendolo per un fianco, come se non avesse nemmeno più le forze per sorreggersi sulle sue gambe, lo accompagnò fino alla vetrata che dava sul corridoio.
Due agenti di polizia stavano scortando Mr. Hall, ancora ammanettato, verso l’uscita per trasferirlo nella cella che lo aspettava in carcere, dove avrebbe atteso il giorno del processo in tribunale.
L’ultima volta che Molly lo aveva visto era stato al ricevimento organizzato da Mr. McNab nella sua villa e, a guardarlo in quel momento, con il nodo della cravatta allentato, i capelli spettinati e gli occhi arrossati, non sembrava nemmeno la stessa persona.
Nigel posò una mano sul vetro quando i loro sguardi si incatenarono per un istante e Molly percepì sottopelle tutto lo smarrimento e la paura che provò nel vedersi portare via il padre, lo stesso uomo che aveva guardato negli occhi e a cui aveva voluto bene nonostante avesse ucciso brutalmente il padre del suo ex-migliore amico.
«Io… io…», balbettò il ragazzo, ora osservando il proprio riflesso sul vetro. Poi si voltò bruscamente verso Aiden, gli occhi colmi di nuove lacrime ardenti, il viso stravolto dal dolore. «Mi dispiace Aiden, mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto, tu sei…».
Aiden gli posò le mani sulle spalle e Molly trattenne il fiato per paura che potesse percuoterlo nuovamente. Invece fissò gli occhi nei suoi, tanto intensamente che Nigel avvertì per un attimo il bisogno di voltare il capo, pur sapendo che non sarebbe mai potuto sfuggirgli.
«Il problema non è chi sono io. Il problema è chi sarai tu, ora che tuo padre non ti manovra più come un burattino. È quello che ha fatto per tutti questi anni, non è così? Scommetto che ti abbia chiesto persino di conquistare Molly per far imparentare le vostre famiglie».
Nigel socchiuse gli occhi e con un groppo in gola annuì. Molly non ebbe alcuna reazione, lo sapeva già, l’aveva capito quella volta al ricevimento. Ma sapeva anche che Nigel era una persona ben diversa da suo padre, bastava volergli un po’ di bene.
«D’ora in avanti dovrai cavartela da solo e, fidati, starai meglio senza di lui. Ha avvelenato le nostre vite, non puoi negarlo».
Nigel annuì di nuovo, sfinito e di nuovo in lacrime. Si abbandonò contro il petto di Aiden e, con grande commozione di Molly, il ragazzo di colore, alto qualche centimetro in più di lui, non lo scostò, anzi lo strinse in un goffo abbraccio, dandogli qualche pacca sulla schiena in segno di conforto.
Non sarebbero mai tornati amici come prima, ne erano consapevoli tutti in quella stanza, ma almeno non si sarebbero lasciati provando ancora rancore l’uno nei confronti dell’altro.

***

Seduta alla scrivania, con la matita tra le labbra e una mano nei capelli, non riusciva proprio a concentrarsi.
Come poteva, dopo tutto quello che era successo in quelle tumultuose quarantott’ore?
Si alzò ed uscì in balcone, dove sollevò il viso per ammirare quella serie di colori caldi e delicati che solo il cielo del tramonto poteva regalare agli occhi.
Anche la sera del giorno precedente aveva fatto la stessa cosa e si sorprese, anche se non avrebbe dovuto, realizzando che lassù non cambiava mai niente, mentre lì sulla Terra tutto era mutabile ed imprevedibile.


«Adesso cosa succederà?», domandò debolmente, gli occhi rivolti verso il cielo rosato, attraversato da alcune nuvole gonfie e dalle sfumature arancioni.
Nigel scrollò le spalle al suo fianco e gettò l’ennesimo sassolino nell’acqua limpida della piscina: una cosa che suo padre gli aveva sempre vietato di fare.
«Probabilmente mi trasferirò nel Tennessee».
Ad occhi sgranati, Molly si voltò di scatto verso di lui. «Nel Tennessee?».
«I miei nonni, genitori di mia madre, abitano lì. Hanno una grande fattoria e da bambino adoravo passare le estati da loro. Mi piaceva prendermi cura dei cavalli. Penso che mi troverò bene, dopotutto».
La ragazzina abbassò lo sguardo e posò delicatamente una mano sulla sua, appoggiata sull’erba, in mezzo a loro.
«Grazie, Molly».
«Di che cosa?».
«Di tutto. Prima di conoscerti ero proprio come mio padre: uno stronzo. Tu mi hai aperto gli occhi, mi hai fatto capire che cosa vuol dire amare…».
Molly chinò il viso, rosso d’imbarazzo, e lo imitò, prendendo un sassolino bianco tra la ghiaia e gettandolo nella piscina.
«Abbiamo a malapena quindici anni, non dire fesserie».
«Lo so, però… tu hai trovato il meglio in me, l’hai fatto venire fuori e mi hai fatto sentire felice, nel tuo strambo modo di volermi bene».
Sollevò le loro mani intrecciate e se le portò vicino al viso, mormorando: «Spero che ci sia una ragazza, nel Tennessee, che ti voglia bene più di quanto te ne abbia voluto io. E se vorrai tornare, un giorno…».
Nigel le prese il mento tra le dita e le fece immergere gli occhi nei suoi. Sorrideva dolcemente, anche se con gli occhi lucidi.
«Sai che non tornerò. Spero che tu sia felice e che Aiden capisca finalmente quant’è fortunato ad avere le tue attenzioni».
A quelle parole rimase a bocca aperta, intontita ed imbarazzata, ma Nigel stesso la levò dall’impaccio stringendola tra le braccia, contro il suo petto.
Mentre le posava un bacio tra i capelli, Molly capì che si trattava di un vero e proprio addio e che quella volta niente, nemmeno la sua ostinata determinazione, avrebbe potuto fare qualcosa per impedire che Nigel uscisse per sempre dalla sua vita.
Buffo. Ancor prima di conoscerlo aveva pregato ardentemente che accadesse, che sparisse, che non le desse più fastidio con la sua corte spietata; adesso era sull’orlo delle lacrime ed era aggrappata con i pugni al suo petto, incapace di lasciarlo andare.


Molly respirò profondamente, poi rientrò in camera e si diresse verso la porta, che aprì per affacciarsi fuori con la sola testa e gridare: «Malieeeeee!».
La governante la raggiunse pochi minuti dopo, mentre la ragazzina era intenta a cambiarsi nella grande cabina armadio.
«Mi ha chiamata, signorina?».
«Sì», rispose lentamente, fissandosi allo specchio. «Dì all’autista di preparare la mia limousine».
«Prego? Deve uscire, signorina? È quasi ora di cena…».
Si voltò verso di lei e le lanciò un’occhiata dura e penetrante. «Qualche problema, Malie?».
La governante trasalì lievemente.«Nessuno, signorina».
«Bene, allora vai».
Abbassò il capo in un mezzo inchino e si allontanò in fretta.
Molly si guardò di nuovo allo specchio e si disse che era davvero giunto il momento di porre fine a quella storia, o sarebbe impazzita.

***

Era da moltissimo tempo che non faceva un po’ di ordine nelle sue scartoffie e quel pomeriggio aveva deciso di passare in ufficio proprio con quello scopo.
Gettò uno sguardo fuori dalla finestra con le veneziane aperte, da cui filtravano fasci di luce arancione, e poi su tutti i fascicoli che aveva sparso sul pavimento svuotando i cassetti dell’armadietto in cui li teneva cercando di rispettare un ordine annuale ed alfabetico.
Da quando aveva ottenuto la licenza di investigatrice privata si era occupata di molti casi, la maggior parte li aveva portati a termine con successo, alcuni erano rimasti irrisolti; certi erano finiti bene, altri avevano avuto un epilogo amaro. Tutti, però, le avevano permesso di accostarsi a centinaia di vite, così diverse le une dalle altre, e di conoscere anche se stessa, un po’ alla volta.
Rispolverando quei vecchi casi, dai primi di cui si era occupata ai più recenti, aveva avuto la sensazione di fare un tuffo nel passato e non si era minimamente accorta del tempo che scorreva nella sua realtà.
Solo il suono del telefono fu in grado di distrarla dai suoi pensieri e la costrinse ad alzarsi, nonostante le gambe intorpidite, per raggiungerlo sulla scrivania.
«Schneider Investigations».
«Signorina Schneider, finalmente riesco a sentire la sua voce! Ho provato a chiamarla anche questa mattina».
Grace corrugò la fronte e rispose: «Mi dispiace, ma non ero in ufficio. Posso sapere con chi ho l’onore di parlare?».
«Certo, mi perdoni. Il mio nome è Egon McNab, sono lo zio di Aiden».
Sorpresa, esitò prima di domandare: «Posso esserle utile in qualche modo?».
L’uomo ridacchiò sinceramente, davvero divertito. «Oh, lei ha già fatto più del dovuto, signorina, trovando l’assassino di mio cognato. Io e lui non siamo mai andati molto d’accordo, ma mia sorella, che Dio l’abbia in gloria, lo amava alla follia e anche mio nipote non si è mai dato pace, quindi è giusto che si sia fatta giustizia. Non posso credere che sia stato Mr. Hall, l’ho visto meno di una settimana fa… Comunque l’ho chiamata solo per informarla che ho depositato sul suo conto bancario una piccola cifra come ringraziamento».
«Sono davvero felice di aver aiutato la polizia a risolvere il caso, ma non posso davvero accettare. E poi come ha fatto ad avere il numero del mio conto bancario?».
«Sono azionista delle maggiori banche del paese, non è stato difficile. E per quanto riguarda i soldi, non si preoccupi e ne faccia ciò che vuole: ormai sono già sul suo conto».
«Davvero, Mr. McNab, io…».
«Desolato di doverla interrompere, ma devo proprio lasciarla adesso. Spero di poter parlare con lei nuovamente, magari per motivi meno deprimenti. Buona serata».
«Buona serata anche a lei», mormorò prima che la comunicazione si interrompesse.
Mise giù la cornetta e dopo un momento passato a contemplare il pavimento ricoperto di fascicoli tirò fuori dalla tasca il cellulare.
«Grace? Non dirmi che hai un altro caso irrisolto da tirare fuori e ti serve il mio aiuto, perché non sono proprio dell’umore giusto, voglio solo andare a casa, mangiare qualcosa di decente e…».
«Andrew, ricordi quando speravi sempre che la mia fosse una chiamata di cortesia e io ti dicevo di essere paziente?».
«Sì, mi ricordo».
«Bene, perché questa è una chiamata di cortesia. Anzi, è di più, dato che voglio invitarti a cena».
«A cena? Grace, sei per caso impazzita?».
La detective rise sommessamente e si portò un dito di fronte alle labbra, spostandosi di fronte alla finestra con le veneziane.
«Conosco un ristorante che ho sempre voluto provare, ma il mio budget non me lo permetteva».
«E adesso il tuo budget te lo permette?».
«Diciamo che una persona mi ha fatto un regalo che da sola non riuscirei mai a sfruttare. Allora, ci stai?».
«È uno di quei ristoranti in cui non ti fanno entrare se non sei in giacca e cravatta?».
«Presuppongo di sì».
Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante e Grace notò un elicottero volare verso le Hollywood Hills, in quel cielo sempre più tendente al violetto.
Alla fine il poliziotto esclamò: «Perché non chiami Dylan? Potremmo andare tutti a casa di Oswin a spaccarci di pizza e birra».
«Già, ma ti dimentichi sempre che Oswin ha una moglie e una pestifera bambinetta di due anni e mezzo».
«Allora Dylan, pizza e birra a casa tua? Ovviamente offri tu!».
Grace sospirò, sconfitta. «E va bene, il ristorante dovrà aspettare ancora un po’».

***

Molly scese dalla limousine ordinando all’autista di attenderla e trovò il portone del condominio aperto, così si infilò nell’androne e lentamente salì le scale, tenendosi al corrimano e tastando la parete perché la luce non andava e il sole, ormai quasi scomparso dietro la linea dell’oceano, non offriva abbastanza illuminazione.
Quando arrivò di fronte alla porta dell’appartamento fece un respiro profondo, mentre dei brividi le correvano sulla schiena al ricordo della prima volta in cui c’era stata. Quindi premette il pulsante del campanello.
La porta si aprì quando ormai non ci sperava più, mostrando un Aiden in pantaloncini e canottiera bianca. Alle sue spalle si intravedevano poche luci accese, quelle dei led sopra la cucina e il bagliore azzurrognolo dello schermo piatto di fronte al divano, e fu un’impresa per Molly decifrare l’espressione di quell’ombra nera che si stagliava di fronte a lei.
«E tu che ci fai qui?», le domandò, con nessuna intonazione particolare della voce, come se non fosse realmente interessato alla risposta.
«Ho saputo che sei stato sospeso».
Difatti, quella mattina, a scuola, oltre ad essere costretta a sopportare il motivo per cui il banco di Nigel era desolatamente vuoto – e la sua mano sinistra così fredda senza la sua a stringerla – aveva anche scoperto che le assenze di Aiden, almeno per quella settimana, non sarebbero più state ingiustificate a causa del pestaggio che l’aveva visto come protagonista alla partita di baseball.
Il ragazzo scrollò le spalle. «Non sarei andato a scuola comunque». Posò i suoi occhi scuri in quelli di Molly, facendole stringere lo stomaco, e solo allora si spostò di lato, in un silenzioso invito ad entrare nel suo regno.
Molly si diresse a passo spedito verso il salotto, dove fece attenzione a non inciampare nel filo che collegava il joystick sul tavolino alla Playstation posata sopra una piccola mensola sotto allo schermo della TV, dove si poteva vedere l’ultimo fotogramma dello sparatutto con cui Aiden stava giocando prima che lei lo costringesse a mettere in pausa.
«Allora, perché sei qui?», le domandò ancora una volta, tornando ad infossarsi nel suo divano per riprendere la partita da dove l’aveva interrotta.
Il volume era altissimo, oppure era semplicemente lei che non era abituata ad essere assordata da scoppi di granate, mitragliatrici e colpi di carri armati.
Con gli occhi stretti, come se così potesse sentire meglio sopra quel frastuono, disse: «Te l’ho già detto, ho saputo che sei stato sospeso e volevo…».
«Voglio sapere il vero motivo, non una balla».
Molly incrociò le braccia al petto e per paura di diventare sorda si rifugiò in terrazza: quando e se avesse voluto parlare con lei e smetterla con quel videogioco l’avrebbe trovata lì, nonostante la brezza fresca proveniente dall’oceano che ormai aveva già inghiottito anche l’ultimo spicchio di sole infuocato.
Rimase ad osservare le luci dei palazzi vicini e dei grattacieli in lontananza e quelle dei fanali delle auto che scorrevano in strada, divise da file di palme che sembravano terminare soltanto nelle vicinanze dei lidi.
Aiden aveva ragione: era davvero più bella la vista di sera.
Il ragazzo la raggiunse dopo qualche minuto e Molly se ne accorse solo quando sentì il calore di un corpo accanto al suo, appoggiato di spalle al parapetto.
Molly si portò le mani sul viso e poi si tirò indietro i capelli biondi e lisci, sospirando. «Perché l’hai picchiato?».
«Ti ho vista piangere e pensavo che lui ti avesse fatta soffrire», rispose sinceramente, ma senza guardarla in viso.
«Lui non c’entrava niente. O meglio, sì, però… Comunque anche se lui mi avesse fatta soffrire non sarebbe stato affar tuo».
Aiden accennò un sorriso sardonico ed incrociò le braccia al petto, guardando di lato.
«Dico bene?», incalzò Molly, con occhi di ghiaccio.
«Sì, sono d’accordo con te».
La ragazzina, sbigottita dalla sua risposta, rimase per un attimo immobile, indecisa se tuffarsi tra le sue braccia e scoppiare a piangere oppure tirargli un ceffone ed andarsene sbattendo la porta.
Alla fine la rabbia la montò, facendole portare di nuovo le mani tra i capelli e soffocando un urlo tra le labbra. Aiden, fino ad allora impassibile, si voltò di scatto e la prese per le braccia, preoccupato.
«Lasciami!», ruggì Molly, divincolandosi e tirandogli qualche debole e scoordinato pugno sul petto. «Sei uno stupido! Uno stupido! Mi difendi e te la prendi con Nigel se mi vedi piangere, mi asciughi i capelli quando li ho bagnati per non farmi prendere freddo, poi se ti dico che quello che faccio non è affar tuo dici che sei d’accordo con me! Ma che cos’hai in testa?!».
«Molly, calmati, per favore».
«No, non mi calmo! Perché tu pensi che Nigel mi abbia fatta soffrire per tutto questo tempo, quando in realtà lui mi ha voluto bene davvero, mentre io lo sfruttavo per aiutarti!». Senza più voce, la gola in fiamme, posò il viso contro il suo petto e singhiozzò: «Sei tu che mi fai soffrire, ogni volta… Ogni volta che siamo più vicini tu mi allontani e non so perché».
«Molly, io… tu meriti di più. Meriti un ragazzo che sappia darti tutto ciò che vuoi, non un orfano che vive in un appartamento perché non è stato e non vuole essere imboccato con il cucchiaio d’oro».
La ragazzina si scostò lentamente e gli volse le spalle, stringendosi nel suo stesso abbraccio. Cercò di ricordare le parole che le aveva rivolto suo padre una volta tornati dal ricevimento di Mr. McNab, sul balcone in camera sua, per poter fare lo stesso discorso ad Aiden, ma non ci riuscì e optò per l’improvvisazione.
«Sono stata imboccata col cucchiaio d’oro fino a due mesi fa, ma non sono mai stata così felice come quando sono in compagnia di Ben, di Sheila, di Nigel o tua. Questo perché i soldi non fanno la felicità e non me ne importa niente. Davvero tu pensi che io sia una ragazza così materiale?».
«No».
«E allora?!». Molly si voltò di scatto e si trovò ad un soffio dal suo viso, qualche centimetro più in alto del suo. «Il meglio che io possa desiderare sei…».
Aiden la interruppe prima che potesse concludere la frase. Posò le labbra sulle sue in un bacio morbido, ma che fece sobbalzare comunque il cuore di entrambi.
Molly cercò il suo viso con le mani e lo accarezzò, per poi intrecciare le dita sulla sua nuca, alzandosi in punta di piedi per poter ricambiare meglio al bacio. Ma proprio in quel momento Aiden la prese per i fianchi, facendola tremare da capo a piedi al solo pensiero che forse l’avrebbe avvicinata ancora di più a lui. Fu un’amara illusione, perché l’allontanò e la fece tornare coi piedi per terra.
Molly cercò il suo sguardo per capirne il motivo, ma il suo sorriso dolente fu un colpo al cuore.
«Rimango della mia opinione: io non sono il ragazzo adatto a te».
Gli occhi le si riempirono di lacrime e le mani iniziarono a tremarle, tanto che le chiuse in pugni lungo i fianchi mentre abbassava il capo, verso il suo petto squarciato.
«Forse la verità è che io non sono la ragazza adatta a te», farfugliò con poca voce, prima di tornare in salotto, correre fuori dall’appartamento e giù per le scale e, infine, chiudersi nella limousine.
«A casa, signorina?».
Molly annuì distrattamente in direzione dell’autista, passandosi le mani sulle guance e tirando su col naso.
A casa, anche se sapeva che nemmeno nel posto che avrebbe dovuto risultarle più sicuro sarebbe stata protetta da quel dolore che la stava consumando dall’interno.

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Capitolo 30
*** Capitolo 28 ***


Ebbene sì... siamo arrivati al capolinea. Almeno per quanto riguarda l'indagine condotta da Grace da quando suo padre è stato assassinato! Avrei voluto lasciarvi la più completa sorpresa, ma dovevo avvisarvi della quasi-fine di questa FF che ci ha accompagnati per tutti questi mesi con il suo mix di mistero, suspance, amore e lacrime: mancano infatti un paio di capitoli alla fine e ve lo dico con il cuore pesante come un macigno, perchè Grace mi mancherà, come mi mancheranno Dylan, Michael, Melanie, Lionel, Molly... e tutti i personaggi originali. Spero comunque che rimangano sempre nei vostri cuori come rimarranno nel mio :')
Ma torniamo a questo capitolo. E' inutile dire che è uno dei miei preferiti, forse è sul podio della Top 10, e spero che piaccia anche a voi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Mi piacerebbe a questo punto sapere cosa ne pensate tutti quanti, sarebbe un sogno che si avvera :')
Comunque sia vi ringrazio infinitamente e vi auguro una buona lettura. Alla prossima!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 28

“He's coming and she knows it, even though she knows why
Footsteps from the hallway, girl you haven't got time
You gotta get out, go far away”

(Witchcraft – Pendulum)

«È strano, Molly non era mai stata assente prima d’ora. Ieri ho anche provato a chiamarla, per sapere se fosse ammalata, ma non mi ha risposto».
«Dopo tutto quello che è successo, non mi sorprende che voglia stare un po’ a casa, senza sentire nessuno».
«Hai ragione, però…».
Sheila si voltò verso Ben, il quale aveva già dato prova di conoscere a fondo la biondina, manco fosse suo fratello gemello.
«Sentiamo, che cosa ti sta passando per la testa?».
Ben si infilò una mano tra i capelli per ravvivarsi il ciuffo, poi le prese la mano e la condusse fuori dalla palestra della scuola, dove si erano fermati per assistere ad una partita di volleyball.
«Secondo me è successo qualcos’altro».
«Tipo?», incalzò Sheila, roteando gli occhi al cielo mentre si lasciava trascinare.
Ben si fermò all’improvviso e si trovarono ad un centimetro l’uno dall’altra.
Non avevano ancora trovato il coraggio per parlare di quello che era successo due giorni prima e probabilmente non sarebbe successo presto, ancora intenti a sondare quel terreno inesplorato che trasformava la loro amicizia in qualcosa di più.
Imbarazzati, si allontanarono e si lasciarono pure la mano, guardando altrove.
Ben fu il primo ad aprire bocca, schiarendosi la voce per rispondere alla sua ultima domanda: «Non ne ho la più pallida idea».
«Che facciamo, allora?».
«Potremmo andare a casa sua con la scusa di portarle i compiti e…».
«Non sembra una cattiva idea».
Si sorrisero, anche se di sfuggita, e poi si diressero verso la pensilina degli autobus dall’altra parte della strada.


Per arrivare di fronte all’enorme cancello bianco di Villa Delafield avevano dovuto prendere non uno, ma ben due autobus, e poi avevano dovuto farsi un pezzo, in salita e sotto il sole cocente, a piedi.
Stanchi ed assetati, suonarono al citofono ed aspettarono che il maggiordomo gli rispondesse.
«Siamo Ben e Sheila, due compagni di scuola di Molly. Possiamo vederla?».
«Sono spiacente, ma la signorina è partita questa mattina».
«Partita?».
«Sì, è andata a Milano, in Italia. Vi resterà per un paio di giorni con sua madre, Mrs. Delafield».
Ben e Sheila si scambiarono un’occhiata stupita, quindi ringraziarono il domestico e se ne andarono.
Sulla strada del ritorno, anche se quella volta era tutta in discesa, la fatica di aver fatto quel viaggio a vuoto fece sbottare la ragazza.
«Che ci è andata a fare a Milano, dico io?! E perché non ci ha detto niente?».
Ben scrollò le spalle, mesto in viso e con le mani nelle tasche dei jeans.
Sheila lo raggiunse, anche se controvoglia, ed infilò un braccio sotto al suo per invogliarlo a camminare più rapidamente e al tempo stesso rassicurarlo: «Vedrai che tornerà più forte di prima, non temere».
«Ti va un gelato?».
La ragazza si voltò e vacillò di fronte ai suoi occhi castani, caldi e ora dolci come caramelle al mou.
Arrossendo, senza nemmeno avere la forza di aprire bocca, annuì con il capo. Allora Ben tornò a guidarla, intrecciando le dita delle loro mani. Sheila si lasciò scappare un sorriso e corse per camminare al suo fianco.

***

Dall’aeroporto di Los Angeles, il jet privato di suo padre era partito quel venerdì mattina alle sette in punto con direzione Milano, la città della moda e del design.
L’idea di recarvisi le era venuta quasi per caso, combinando una serie di fattori che le avevano fatto pensare che fosse la soluzione adatta ad ogni suo problema.
Il giorno prima aveva sentito sua madre mentre diceva a suo padre che prima o poi sarebbe dovuta andare a Milano per incontrare alcuni colleghi stilisti con i quali stava collaborando per la sua ultima linea di abbigliamento femminile e, guarda caso, si era ricordata che in quei giorni anche i Tokio Hotel si trovavano nella città italiana per promuovere il loro nuovo album.
Anticipare il viaggio di sua madre per vedere di nuovo i suoi idoli dopo tanto tempo sarebbe stata l’occasione perfetta anche per staccare un po’ la spina da tutto e riflettere sugli ultimi avvenimenti e sui suoi sentimenti.
Ciò che era successo a Nigel e la discussione con Aiden l’avevano sfibrata tanto da cedere alle insistenze di suo padre, il quale voleva che restasse per qualche giorno a casa da scuola. Successivamente, sfruttando la sua preoccupazione a proprio favore, era riuscita a persuaderlo a dare il proprio consenso a quel viaggio organizzato all’ultimo momento.
Non aveva avvisato nessuno della sua partenza, solo Grace, e a dire il vero si era sentita un po’ in colpa nei confronti di Ben e Sheila, ma sapeva benissimo che quel viaggio era la sua unica opportunità per fare un po’ di chiarezza dentro di sé: non aveva bisogno e non voleva dare spiegazioni o parlarne con qualcuno, nemmeno con i suoi migliori amici.
Dopo quasi tredici ore di volo, il suo orologio d’argento e Swarovski segnava le venti, ma il cielo fuori dall’oblò accanto al suo sedile in pelle era nero come la pece e sulla pista d’atterraggio c’erano poche luci a guidare i piloti del jet. Infatti, a causa delle nove ore di fuso orario, erano già le cinque del mattino di sabato.
Un’auto nera e dalle linee sinuose le prelevò non appena scesero le scalette del velivolo e le portò direttamente all’hotel Melià Milano, senza che ci fosse bisogno di perdere tempo ai controlli doganali. Quindi lasciarono al loro autista italiano il compito di trasportare nell’elegante hall i loro bagagli a mano, mentre loro domandavano la chiave della loro Suite Presidenziale Reale, la migliore dell’albergo.
Presero uno tra i vari ascensori per raggiungere il loro piano e sua madre sfruttò quel momento per rammaricarsi ancora una volta di non aver prenotato una suite nel primo hotel a sette stelle d’Europa, il Seven Stars, appunto, situato in Galleria Vittorio Emanuele, ad un passo dal Duomo di Milano.
«Per me sarebbe stato anche più semplice raggiungere il Quadrilatero della moda!».
«Lo so, mamma. La prossima volta dirò ai Tokio Hotel di pernottare in quelle stanze», rispose stizzita Molly, appoggiata ad una delle pareti a specchio, un paio di grandi occhiali da sole firmati Chanel calcati sul viso.
«Non volevo di certo dire questo, tesoro. Domani, cioè… più tardi, li vedrai?».
«Probabile».
La donna la fissò, stupita dal suo poco entusiasmo: sognava di vedere Milano da quando aveva cinque anni e al solo pensiero di rivedere i suoi idoli avrebbe dovuto fare i salti di gioia! Invece niente.
Ma si rassicurò presto, dicendosi che era solamente provata dal lungo viaggio e forse ancora scossa per quello che era successo al suo amico Nigel, e la seguì fuori dall’ascensore, già con il passepartout nella mano.

***

«Forse dovresti andare a dormire. Sembri stanca, dalla voce».
«Ma ti sei sentito tu? Sembra di parlare con un uomo delle caverne!».
Tom rise e si controllò il viso su una delle pareti riflettenti dell’ascensore, mentre suo fratello chiacchierava con Gustav e Georg.
«Io mi sono svegliato da poco, ho bisogno di carburare», le rispose alla fine, scoccando un sorriso alla sua stessa immagine.
«Io non riuscirei a chiudere occhio comunque».
«Perché?».
Grace, a Los Angeles, si morse la lingua, maledicendosi per avergli rivelato quell’insignificante quanto importante particolare.
Lui non sapeva che Lionel era vivo, in una casa sicura, inserito nel Programma Protezione Testimoni dell’FBI; non sapeva che era stato Bryant a sparargli, poiché aveva sempre collaborato con l’organizzazione criminale ed era stato lui ad introdursi in casa sua per rubare il suo cellulare, avvelenando tra l’altro i loro cani; non sapeva che lo stesso Bryant ora collaborava con l’FBI e non poteva di certo dirgli che era venuta a sapere che dalla sera di giovedì non aveva più comunicato la sua posizione agli agenti ed aveva iniziato a risultare irrintracciabile.
«A volte mi capita, un attacco di insonnia», mentì alla fine, modulando la voce per fargliela bere. E dal modo in cui le rispose dovette cascarci in pieno.
«Io avrei saputo come far passare il tempo».
Grace ridacchiò proprio nel momento in cui le porte dell’ascensore si aprivano dopo un din e i componenti dei Tokio Hotel si incamminavano verso la sala buffet dove avrebbero fatto colazione.
«Per il resto nulla di nuovo?», le chiese.
«No, nulla di particolare. Tu quali impegni hai oggi?».
«Abbiamo un paio di interviste qui in hotel e poi un’apparizione TV, in un programma italiano di cui ora mi sfugge il nome… aspetta, come si chiamava… Bill?! Bill, come si chiama il programma –? Oddio».
«Che è successo?», domandò Grace, allarmata.
Tom scosse il capo e sbatté le palpebre un paio di volte per verificare che non fosse una specie di allucinazione.
In coda al gruppo, impegnato nella conversazione con Grace, era arrivato per ultimo nella sala buffet e solo quando aveva cercato lo sguardo di Bill si era accorto della ragazzina bionda, seduta ad un tavolo vicino ad una delle due ampie vetrate, già accerchiata dai suoi amici, i quali le stavano chiedendo cosa ci facesse lì a Milano.
«Molly… Molly è qui!».
«Ah, sì, mi è sfuggito di dirtelo. Beh, meglio che tu vada da lei. Ci sentiamo dopo, ti amo».
Grace chiuse in fretta la chiamata, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere, ma lì per lì Tom non vi diede troppo peso e raggiunse i suoi compagni di band.
«Molly!», gridò sorpreso, facendosi spazio tra Georg e suo fratello. «Che ci fai qui?!».
La ragazzina gli rivolse un sorriso tirato che lo impensierì, come il velo di tristezza che le patinava gli occhi di solito così luminosi.
Grace, qualche giorno prima, lo aveva aggiornato sulla risoluzione del caso riguardante l’omicidio del padre di Aiden, il ragazzo per cui Molly si era presa una cotta, e sapeva che era stato un duro colpo per lei vedere in manette il padre di quel ragazzo, Nigel, che alla fine era diventato un suo amico. Si chiese se non fosse dovuta a questo, la sua fuga da Los Angeles, e si pentì persino del tono ben poco delicato che aveva usato.
«Come dicevo agli altri», disse, «ho accompagnato mia madre». Indicò la donna seduta di fronte a lei, con i capelli biondi e a caschetto, gli occhi azzurri e un sorriso incantevole sulle labbra, che rendeva luminoso e ancora più giovanile il suo viso. «Tom, lei è mia madre. Mamma, lui è Tom, il fidanzato di Grace».
Mrs. Delafield gli strinse calorosamente la mano, felice di conoscere finalmente questo famoso Tom, di cui sua figlia le aveva tanto parlato, e il chitarrista, ancora un po’ imbarazzato per essere stato definito “il fidanzato di Grace” – ciò che in fondo era – ricambiò la cortesia dicendole che l’aveva scambiata per sua sorella.
«Sapete, mamma deve incontrare dei suoi collaboratori ed era da tanto che io volevo vedere la città, così ho deciso di partire insieme a lei», spiegò ancora Molly.
Bill incrociò le mani di fronte al petto e sorrise smagliante. «Wow, è proprio una fortunata coincidenza! Prima di pranzo abbiamo giusto un paio di ore libere! Potremmo andare a fare un giro insieme, che te ne pare?».
«Io la trovo un’idea meravigliosa, tesoro», la incitò sua madre, accarezzandole una mano.
Molly annuì, anche se subito dopo abbassò gli occhi sulla tazza vuota di fronte a sé, giocando col cucchiaino e i rimasugli di caffè rimasti sul fondo.
Improvvisamente Tom si sentì stringere il cuore, captando la tristezza che cercava di soffocare dentro di sé e di celare a loro, e ricordò una delle loro ultime chiacchierate al telefono.

«Sai qual è l’unica cosa che mi farebbe felice, adesso?».
«Cosa?».
«Abbracciarti. Mi farebbe stare molto meglio».

Quella volta era solo confusa sui sentimenti che provava per Nigel e per Aiden, ma aveva sentito comunque nella sua voce una nota di malinconia e aveva promesso a lei, e a se stesso soprattutto, che l’avrebbe abbracciata non appena si sarebbero visti di nuovo. Ora era seduta davanti a lui, con una voragine al posto del petto perché gli eventi si erano evoluti in maniera imprevedibile, provocandole vero e proprio dolore per quel sentimento tanto irrazionale chiamato amore, e lui non trovava il coraggio per fare ciò che aveva promesso.
«Beh, sarà meglio che facciamo colazione anche noi, prima di cominciare la giornata in ritardo», esclamò Bill ad un certo punto, interrompendo il silenzio.
«Noi abbiamo finito, potete mettervi qui, è il tavolo migliore», disse Molly, alzandosi poco prima di sua madre. Poi, con un minuscolo sorriso, si rivolse a Bill: «Allora ci vediamo più tardi».
Fece per raggiungere sua madre, la quale si era già avviata verso gli ascensori, ma Tom le prese una mano all’improvviso. Molly si voltò verso di lui e il chitarrista strinse le labbra, amareggiato, leggendo nei suoi occhi lucidi come specchi tutta la stanchezza e la delusione che provava per ciò che era successo alle persone intorno a lei e che, come un’onda, l’aveva travolta, trascinandola lontano.
Tom aprì finalmente le braccia per invitarla a trovare un appiglio contro il suo petto, ma la ragazzina chinò il capo e lasciò che la sua mano piccola scivolasse via da quella grande e callosa del chitarrista. Quindi si allontanò senza mai guardarsi indietro ed uscì dalla sala buffet.

***

Terminata la chiamata con Tom, Grace sospirò appoggiandosi contro la parete alle sue spalle e si passò le mani sul viso stanco e sciupato.
Mentire a Tom era l’unica soluzione possibile, lo sapeva, ne valeva anche della sua incolumità oltre che quella di Lionel, ma si sentiva così in colpa… Come se non bastasse aveva un pessimo presentimento, che l’aveva resa inquieta e con i nervi a fior di pelle per tutto il giorno, seduta sul divanetto accanto a Dylan, il quale ogni tanto aveva avuto la sfacciataggine di appisolarsi, rannicchiato come un bambino, mentre l’agente Crawford faceva avanti e indietro dal suo ufficio alla base operativa al piano sottostante, tornando sempre con la solita risposta scritta in fronte: «Nessuna novità».
Bryant era sparito nel nulla da più di ventiquattr’ore ormai e non sapevano più dove sbattere la testa, visto che alcune squadre dell’FBI avevano già controllato tutti i covi dell’organizzazione criminale che Bryant era riuscito a rivelargli, facendo un completo buco nell’acqua ogni volta.
Quindi aspettavano. Aspettavano che Bryant facesse quella maledetta chiamata di routine, spiegando il motivo del suo ritardo. Aspettavano, anche se Grace era più che convinta che ogni minuto che trascorrevano con le mani in mano poteva essere l’ultimo per la vita di Bryant.
«Dobbiamo intervenire», decretò per l’ennesima volta, entrando nell’ufficio e trovando Michael seduto con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani tra i capelli, accanto a Dylan, il bell’addormentato.
«Lo so, Grace, lo so. Ma che cosa possiamo fare? Mettere dei rilevatori di posizione su Bryant era troppo rischioso, per non parlare di alcuni uomini… Ci affidavamo alle sue chiamate da cellulari usa e getta, e adesso siamo nella merda, senza avere la minima idea di dove andare a cercarlo».
«Ma non possiamo nemmeno starcene chiusi qui dentro e aspettare che qualcosa si smuovi!».
Michael si alzò di scatto e la fronteggiò, con espressione bellicosa. «Hai qualche idea migliore?!».
Dylan si alzò lentamente, a causa delle gambe intorpidite, e si mise tra loro, posando le mani sulle loro spalle.
«Ragazzi, nemmeno litigando risolveremo qualcosa».
Grace sbuffò dal naso, ridotta ad un fascio di nervi tesi, e stringendo i pugni lungo i fianchi gli voltò le spalle, decisa a fare qualsiasi cosa, qualsiasi, anche girovagare per le strade di Los Angeles per ore, piuttosto che restare ancora un minuto in quella stanza.
Uscì dalla sede dell’FBI e raggiunse il suo fuoristrada in tutta fretta, desiderosa di sfogare il suo nervosismo guidando.
Vide un volantino bianco incastrato tra i tergicristalli e sbuffando fece per strapparlo via, ma un colpo di vento improvviso lo voltò e lei si irrigidì sul posto. Non era un volantino, bensì una fotografia: lei e sua madre, sorridenti e col mare alle spalle, avevano lo sguardo puntato verso l’alto per ammirare il loro aquilone che finalmente si librava nel cielo azzurro. Era la foto dietro la quale aveva trovato la polaroid che l’aveva portata fino a Berlino e che le aveva permesso di trovare la preziosissima agenda di suo padre. Che ci faceva lì? E soprattutto, chi si era introdotto in casa di sua madre per recuperarla?

Mamma!
Terrorizzata al solo pensiero che qualcuno potesse averle fatto ancora del male saltò sul fuoristrada e pestò il piede sull’acceleratore, sgommando sull’asfalto.

Aprì la porta di casa con il suo doppione delle chiavi e portò istintivamente una mano dietro la schiena, sul calcio della pistola, mentre percorreva il corridoio fiancheggiando la parete.
«Mamma?», la chiamò sottovoce, senza nascondere l’ansia intrisa nella sua voce.
«Shhh. Non vorrai mica svegliarla, vero?».
Nella più totale oscurità, Grace puntò la pistola verso la poltrona in salotto, da dove proveniva quella voce. Le sue braccia però si piegarono di scatto, come colpite dal taglio di una mano, quando i suoi occhi si posarono sull’uomo il cui volto veniva illuminato dalla luce della luna, che le permetteva di scorgere il suo sguardo vispo ed intelligente e le sue labbra tirate in un sorriso beffardo.
Il portiere del palazzo dove si trovava il suo ufficio. L’uomo che aveva affittato l’hangar per l’organizzazione criminale, che era presente durante la sparatoria all’Halo e forse l’aveva anche causata. L’uomo che aveva parlato con Doc Mahkah, dicendo quelle cose su di lei. L’uomo che le aveva salvato la vita a Berlino, uccidendo il suo ex-complice.
In un nome e cognome, quelli veri, John Carter.


«Lo so che hai un sacco di domande da farmi e ti prometto che un giorno…».
«Non ci pensare nemmeno», lo interruppe rabbiosamente la detective. «Ho bisogno di risposte e tu sei l’unico in grado di darmele. Può anche darsi che questa sia l’unica volta che ci vediamo».
Carter sospirò stancamente e sprofondò di nuovo sulla poltrona, le mani intrecciate sullo sterno.
«Sappi solo che ogni minuto che perdiamo potrebbe essere…».
«Tu collaboravi con mio padre?», fu la sua prima domanda, dura come uno schiocco di frusta.
Carter chiuse gli occhi come se fosse stato davvero colpito alle spalle, ora curve in avanti sotto un peso invisibile, ed annuì con un cenno del capo. «Sin da quando mi è venuto a cercare per chiedermi informazioni sull’attentato sventato a Baghdad. Era tutta una farsa studiata da alcuni ufficiali di marina lautamente ricompensati perché armi americane finissero nelle mani di una cellula terroristica irachena. L’ho capito solo quando tuo padre mi ha messo la pulce nell’orecchio buono», indicò quello sinistro con due dita, un sorriso effimero sulle labbra.
«Quindi voi due collaboravate e per incastrare i killer assoldati dagli ufficiali tu sei diventato uno di loro. È così?».
Carter mosse la testa in un cenno d’assenso, già consapevole e pronto a sostenere lo strazio della prossima domanda.
«Perché hai lasciato che lo uccidessero? Perché hai permesso che me lo portassero via in quel modo?».
Non ebbe la forza di sollevare gli occhi nei suoi e rispose con voce pacata, intrisa di dolore: «Ero appena entrato nell’organizzazione, non avevo ancora la loro fiducia e col tempo ho scoperto che era la loro prassi: si dice solo ciò che è indispensabile che i collaboratori sappiano. Mitch però… l’aveva intuito, non so come, ma… Lui è sempre stato più bravo, sempre un passo avanti a me, e se solo l’avessi capito anche io… avrei fatto di tutto per salvarlo, credimi».
Grace lo fissò in maniera inquisitoria, ancora sulla difensiva. Poi chiese con la stessa durezza nella voce: «Sei un bravo cecchino?».
«Se quello che vuoi sapere è se ho ucciso io quello spacciatore, la risposta è sì».
Carter vide il suo volto disgregarsi lentamente: dall’imperturbabilità passò ad uno stato di desolazione e di stordita incredulità.
«Tu hai ucciso Doc Mahkah?».
«Sì. So che era un tuo amico ma, fidati, non avrebbe esitato ad usarti come scudo se tu gliene avessi dato il tempo. Quella è stata solo una delle tante… prove di lealtà a cui l’organizzazione mi ha sottoposto. E per fortuna non sono stato sfortunato come Bryant… Non sarei mai riuscito a fare del male a persone a cui tenevo, piuttosto mi sarei ammazzato».
Quelle parole parvero far breccia nel muro che Grace aveva eretto intorno a sé per difendersi da quell’uomo che era sempre stato irraggiungibile, una macchia invisibile nella sua vita. Infatti, con un gesto della mano gli diede il via libera per spiegarle che cosa ci facesse in casa di sua madre, dove l’aveva attirata con l’espediente della fotografia sul suo parabrezza.
«Dobbiamo intervenire subito, so dove si trova Bryant». La sua voce era tornata forte, rinvigorita dalla determinazione di salvare quello che un tempo era stato uno dei suoi migliori amici.
Grace incrociò le braccia al petto ed aggrottò le sopracciglia, nell’ultimo tentativo di resistenza contro l’istintiva fiducia che provava nei suoi confronti.
«Perché mi dovrei fidare?».
Carter si alzò dalla poltrona, lasciandosi scappare un risolino quasi isterico che venne inghiottito dalla serietà dei suoi occhi castani.
Si era tolto le lenti a contatto che li avevano resi azzurri e aveva cercato di levare via il più possibile la tinta che fino a qualche settimana prima lo aveva fatto passare per biondo. Si era lasciato crescere un po’ di barba, o più semplicemente non aveva avuto tempo di radersi, e persino il suo viso sembrava diverso, più pallido, come se l’abbronzatura sulla sua pelle fosse svanita all’improvviso. Trucco? Se davvero aveva usato fondotinta e terra, doveva ammettere che non se n’era mai accorta.
«Se non ti fidi di me, non so di chi altro ti potresti fidare in questo momento».
«Di Dylan e di Michael».
L’uomo quella volta sorrise dolcemente, anche se Grace ebbe la sensazione che la stessa giudicando un’ingenua.
«Loro non sanno quello che so io. Loro non ti hanno protetta in tutti questi anni, cambiando continuamente identità. Ho fatto persino l’inserviente alla tua università. Sì, pulivo i cessi pur di tenerti d’occhio».
Grace rivide il suo volto fuori dalle aule di lezione, anche se parecchio diverso grazie alla sua abilità di agire sotto copertura, e ne fu quasi sconvolta.
Carter si fece ancora più vicino e le tolse di mano la pistola, posandola sul mobiletto accanto all’ingresso.
«Loro, in particolare Dylan, non ti hanno salvato la vita a Berlino», continuò in tono pacato, accarezzandole la mano con il pollice. «Loro non conoscevano Mitch come lo conoscevo io».
Grace si scostò chiudendo gli occhi ed indietreggiò fino a trovare la protezione dello schienale del divano, che fece da barriera tra loro. Quindi lo fissò intensamente, stringendo gli occhi verdi come quelli di suo padre.
«Dimmi dove si trova Bryant».
Carter sorrise e tirò fuori una mappa di Los Angeles, la stese sul tavolino basso, in modo che fosse anch’essa illuminata dalla luce lunare, e si inginocchiò sul tappeto. Grace fu costretta ad andargli accanto.
Quelli segnati con dei cerchi rossi erano tutti i covi ancora attivi dell’organizzazione criminale, mentre quelli sbarrati con le X nere erano quelli già sgomberati. Carter ne indicò uno che era stato cerchiato di rosso più degli altri, tanto forte da rischiare di bucare il foglio, e scambiò uno sguardo con Grace, con un misto di determinazione e di paura sul viso.
«Credo sia arrivata l’ora della resa dei conti».

***

Erano passate appena due ore, quando lei, Dylan e Crawford scesero da uno dei furgoni blindati dell’FBI, con i loro giubbotti anti-proiettile addosso e armi alle mani.
Il punto indicatole da Carter si trovava a ridosso delle Hollywood Hills, in una zona molto isolata e boschiva, tanto che Grace si era chiesta se potesse essere mai possibile: perché avevano scelto quella villa iniziata e mai conclusa come ultimo covo? Come avrebbero fatto a scappare, così circondati dagli agenti delle squadre speciali dell’FBI e costantemente sorvegliati dagli elicotteri? Magari era tutta un’enorme trappola e Carter li aveva mandati a morire. Oppure era stato tutto un diversivo creato apposta per fargli perdere tempo a trovare ed organizzare quelle risorse mentre loro si dirigevano verso sud.
Grace si guardò intorno ancora una volta, inquieta, cercando di memorizzare i punti d’accesso e d’uscita della villa incompleta. Quindi si avvicinò a Crawford, il quale, con Dylan e un altro paio di agenti, stava ricontrollando con l’uso di una torcia elettrica la piantina della casa.
Quando il poliziotto incrociò il suo sguardo, l’avvicinò e la guardò dritta negli occhi prima di abbracciarla, stringendola forte a sé.
«Dovremmo avvisare Bill e Tom», le sussurrò all’orecchio, preoccupato quanto lei di non uscire più da quella villa.
Aveva ragione, avrebbero dovuto farlo e ogni secondo che passava si sentiva sempre più pesante per i sensi di colpa, ma… no, non avrebbe mai potuto farlo. Sentire la voce di Tom, ricordare la promessa che gli aveva fatto quando era stata aggredita a Berlino, le avrebbe impedito di entrare in quella casa per paura di non sentirlo né vederlo mai più. Non poteva rischiare di essere travolta dall’amore per Tom, dalla prospettiva di vivere pacificamente con lui per il resto dei suoi giorni. Non ora.
Grace si scostò dolcemente, gli occhi ardenti, e con tono da non ammettere repliche rispose: «Non se ne parla».
Dylan abbassò il viso. «Ho un brutto presentimento».
Non gli disse che ce l’aveva anche lei, come non gli disse che aveva paura. Semplicemente gli batté la mano sulla spalla e tirò fuori la sua fidata Glock per togliere la sicura.
Si guardò intorno nuovamente, quella volta per scorgere l’ombra di Carter dietro qualche albero nelle vicinanze, invano.
«Sarò sempre ad un passo da te», le aveva detto prima che lo lasciasse nel salotto della casa di sua madre.
Avrebbe dovuto sentirsi rassicurata, o perlomeno rincuorata che qualcun altro le guardasse le spalle, eppure la sua risposta era stata secca e tracciata da un velo di malinconia: «Non potrai proteggermi per sempre».
Scrollò il capo per mandare via il suo viso, i suoi occhi ora più familiari che mai, le sue parole pronunciate con tono quasi paterno.
Allontanandosi da Dylan si era avvicinata ad uno dei capi delle squadre speciali ed attirando la sua attenzione gli domandò: «Siamo pronti?».
Purtroppo non fece in tempo a sentire la sua risposta, perché un urlo agghiacciante si levò dall’interno della villa, mobilitando e mettendo in allerta tutti quanti. Muovendosi in fretta e silenziosamente e comunicando a gesti, si posizionarono rasenti il muro della facciata. Quindi, ai segnali dei capi squadra, sfondarono le poche porte installate ed entrarono.

Che la festa abbia inizio.


Se all’esterno quella villa risultava semplicemente incompleta, senza nemmeno una mano di vernice sulle pareti grigiastre, all’interno era un vero e proprio scheletro, con ancora le impalcature e metri e metri di cellophane tra le varie stanze e sui pavimenti scabri.
Gli agenti si separarono per controllare in ogni anfratto, comunicando con gli auricolari o a gesti quando era «libero».
Grace, Dylan e Crawford si ritrovarono insieme per ispezionare il piano superiore e furono costretti a dividersi quando sentirono i primi spari, diretti proprio contro di loro.
Nascosti dietro due angoli adiacenti del corridoio, Grace e Dylan si scambiarono un’occhiata e al «tre» si sporsero e spararono contro il loro nemico, un’agile ombra che si dileguò tra il fruscio dei teli di plastica.
Crawford, il primo a muoversi quando poterono uscire allo scoperto, partì alla sua rincorsa, ma si fermò di fronte ad una porta spalancata, con gli occhi sbarrati dall’orrore: Bryant aveva le mani legate con una corda che lo teneva appeso al soffitto, era seminudo ed era stato torturato per ore intere, con tagli e bruciature in ogni punto visibile della sua pelle, tanto che la vasca da bagno sopra la quale si trovava era spaventosamente piena di sangue, che continuava a gocciolargli dai piedi.
«Mio Dio», esclamò senza fiato, quando Dylan lo raggiunse.
Sentendo la sua voce, l’ex-marine sollevò faticosamente la testa, fino ad allora abbandonata sullo sterno, e li guardò con occhi imploranti ma rassegnati, intrisi di sofferenza.
«Dovete andarvene da qui», biascicò, sputando sangue ad ogni parola: aveva perso quasi tutti i denti, forse estratti senza anestesia per invogliarlo a parlare.
Dylan si avvicinò a lui e si arrampicò sul bordo della vasca per poterlo tirare giù, ma Crawford lo prese per il giubbotto anti-proiettile e gli indicò lo strano rigonfiamento intorno alla vita di Bryant, coperto da una specie di foulard nero messo lì come a volergli coprire le nudità, facendolo sembrare un martire come Cristo in croce.
«Ci sono esplosivi ovunque», rantolò ancora l’ex-marine. «Lei ha… ha il telecomando».
«Dobbiamo chiamare gli artificieri, non possiamo…», sussurrò Dylan, in preda al panico.
«Non c’è tempo. Dovete andarvene o morirete qui dentro!». Ce l’aveva messa tutta per alzare la voce e rendere il suo suggerimento simile ad un ordine, ma le forze lo abbandonarono e gli fecero abbassare di nuovo il capo contro il petto, senza che emettesse nemmeno un rantolo.
Michael, lentamente e con cautela, tirò giù Dylan dal bordo della vasca. Quindi si sporse in corridoio alla ricerca di qualche agente in carne ed ossa, mentre continuava a sentire, direttamente nel timpano destro, i bisbigli degli uomini in perlustrazione. Fu allora che si accorse dell’assenza di Grace, rimasta con loro fino ad allora.
Si voltò verso il poliziotto, pallido come lui, e non ci fu nemmeno bisogno di parlare.


Con il sudore che le imperlava la fronte e le palpitazioni a tremila, si acquattò dietro ad un vano senza porta e dopo un respiro profondo rotolò dall’altro lato, evitando di un pelo un paio di pallottole e sparando a sua volta e un po’ alla cieca all’interno della stanza. Dal gemito soffocato che riuscì a sentire, però, capì di averla colpita.
Aveva scorto il suo viso dai lineamenti orientali quando si era guardata le spalle prima di fiondarsi in quella stanza e per un attimo i loro sguardi si erano incrociati.
Lei era l’ultima rimasta della sua organizzazione criminale, perché il suo unico vero complice era morto, ucciso da Carter quando l’aveva salvata.
Lei era il capo, lei aveva dato l’ordine di uccidere tutte quelle persone innocenti o meno, tra cui anche suo padre.
Appena aveva visto i suoi occhi neri, tanto da non scorgervi nemmeno le pupille, aveva avuto addirittura la sensazione che fosse stata lei ad uccidere suo padre, con un freddo colpo alla nuca. Di certo non poteva essere stato il suo complice, molto più portato per la furia animalesca, quella che aveva avuto modo di provare sulla sua pelle e che probabilmente era stata quella che aveva travolto sua madre.
Ed ora era ad un passo dal rendere giustizia a tutti, suo padre in primis.
Si sporse all’interno per monitorare la situazione e vide la sua ombra longilinea spiccare un salto oltre il parapetto della terrazza illuminata dai raggi della luna. Grace allora si alzò, rischiando di scivolare di nuovo sulla superficie ricoperta di cellophane, e corse fuori, accolta da una brezza leggera e profumata.
Guardò giù, dov’era saltata la sua preda, e la vide correre di nuovo all’interno della casa, scavalcando il foro creato per una finestra. Era saltata giù come un gatto, atterrando su un mucchio terra ora cotta dal sole e più simile a sabbia.
Dopo un rapido esame dei pro e dei contro dovuti a quella caduta, Grace uscì di corsa dalla stanza e si fiondò giù dalle scale, seguendo poi i boati degli spari per orientarsi.
«Lei è mia!», avrebbe voluto gridare a chiunque tentasse di colpirla e di fermarla, ma non ce ne fu bisogno, perché lei riuscì di nuovo a scamparla, ferendo anche un paio d’agenti. Grace si lanciò al suo inseguimento un’altra volta e finì in un corridoio buio e con diverse stanze da entrambi i lati. Si appiattì contro il muro e con la Glock sollevata accanto al viso provò a controllare i battiti del suo cuore impazzito che non facevano altro che rintronarle nelle orecchie. Stava per entrare nella prima stanza alla sua destra, quando la donna sbucò da quella più avanti e le sparò addosso dopo aver dato un ultimo colpo al caricatore appena inserito.
Grace ebbe la prontezza di riflessi di buttarsi dentro la stanza al suo fianco, anche se un proiettile la colpì di striscio alla gamba. Provò a ricambiare la cortesia, gettandosi fuori all’improvviso, ma l’asiatica si era già infilata dentro alla stanza in fondo al corridoio, da cui proveniva un buio profondo: una cantina?
Grace accese la torcia e si strappò l’auricolare dall’orecchio, infastidita dai fischi e dalle interferenze che aveva iniziato a fare dopo lo scivolone che aveva fatto durante l’inseguimento. Quindi si avvicinò alla porta buia e si ritrasse, trasalendo, quando vide i bagliori di alcuni spari all’interno. Per un attimo aveva rischiato di essere invasa dalla paura, ma l’adrenalina fece il suo effetto e rasentando il muro scese in fretta, pregando che i suoi occhi si abituassero in fretta al buio che quella piccola torcia non poteva rischiarare in ogni angolo.
«Salterete tutti in aria», disse la donna quando per un attimo il fascio di luce della torcia di Grace le colpì il viso, mostrandole un sorriso compiaciuto e un piccolo telecomando.
La detective non ci pensò due volte prima di sparare e lo fece, ignorando il fischio che aveva sentito e che le aveva provocato un brivido alla schiena.
«Grace, alle tue spalle!».
La voce di Carter. Realizzò solo che lui era lì con lei, in quella cantina buia e umida, prima di voltarsi, terrorizzata da un ringhio feroce. La sua torcia ebbe solo il tempo di illuminare il muso del rottweiler i cui denti aguzzi spiccarono come stelle nel cielo quando aprì le fauci per azzannarla, prima di cadere a terra con lei.
Gli spari che aveva sentito prima di scendere le scale… erano serviti a liberare il cane, addestrato e lasciato a digiuno per giorni, dalla pesante catena che lo aveva tenuto attaccato al muro fino ad allora.
Alle sue spalle sentì le imprecazioni in cinese della donna, mentre si azzuffava a colpi di karate con l’ex-marine, impacciato ma abbastanza pronto di riflessi per parare i suoi colpi, almeno fino a quando non fu distratto dalle urla di Grace.
Allora l’asiatica lo colpì con un calcio in pieno petto, facendolo cadere a terra, e si gettò sul pavimento alla ricerca di qualcosa, a tentoni a causa del buio pesto. Carter ebbe così il tempo di alzarsi e di balzarle addosso, non potendo usare la sua pistola perché era stato disarmato poco prima nel combattimento corpo a corpo.
Grace, nonostante sentisse i denti del rottweiler premere sempre più forte nel suo braccio destro e strattonarlo come se fosse un pupazzetto di gomma, facendole vedere le stelle, riuscì a dimenarsi e scalciando gli fece mollare la presa.

Dio mio, non sento più il braccio, pensò atterrita, prima di scorgere il cane che tornava all’attacco con un balzo, quella volta puntando alla sua gola. In fretta afferrò la pistola con la mano sinistra e sparò, sperando almeno di ferirlo. Con un guaito il cane cadde a terra e solo allora Grace poté tornare a respirare più o meno regolarmente, anche se i pericoli che doveva affrontare non erano ancora terminati.
Si portò una mano sul braccio morsicato e sentì che il sangue scorreva a fiotti, caldo e viscido. Represse un conato di vomito e si girò, recuperò la torcia sul pavimento, anche se andava ad intermittenza, ed illuminò il punto sul pavimento dove l’asiatica e Carter stavano lottando, tirandosi pugni in faccia e scalciando. Anche se lei la sua pistola ce l’aveva ancora, non poteva rischiare di usarla: avrebbe potuto colpire Carter. Così fece l’unica cosa che le venne in mente: si buttò nella mischia.
Cercò di afferrare il detonatore che l’asiatica teneva stretto nella mano, ma a quel punto la donna trovò la pistola di Carter sul pavimento e sparò contro di lui, per levarselo di dosso. Grace non capì dove l’avesse colpito, seppe solo che lui rotolò via gemendo e lei provò a fare la stessa cosa, sparare contro l’asiatica, mancandola e dandole l’opportunità di avvicinarsi alla sua via di fuga: una botola sul pavimento.
«
Aufwiedersehen!», gridò in un tedesco stentato e il suo eco ebbe qualcosa di tetro, prima che iniziassero le prime esplosioni nel lato nord della villa, che diedero il via ad una disastrosa catena quasi senza fine.
Grace, rimasta paralizzata con le mani sulle orecchie per il frastuono, sentì due mani posarsi sulle sue spalle e riconobbe quelle grandi e paterne di Carter, nonostante l’avesse toccata soltanto quel pomeriggio.
«Hai ragione, non potrò proteggerti per sempre», le sussurrò all’orecchio e miracolosamente riuscì a sentirlo.
Avrebbe voluto chiedergli scusa, guardarlo negli occhi prima di morire avvolta dalle fiamme oppure intossicata dal fumo, ma non poté fare né l’una né l’altra cosa, perché venne spinta nella stessa botola in cui era scomparsa l’asiatica.


Nello stesso istante, al piano superiore, Michael e Dylan si gettarono fuori dalla finestra, spinti anche dalla potenza dell’esplosione che aveva distrutto quel salotto di cellophane e mattoni a vista.
Si coprirono la nuca con le mani, mentre con loro volavano calcinacci e brandelli di plastica bruciata, e quando tutto parve finito si voltarono e videro a pochi metri da loro le lingue di fuoco che annerivano i contorni della loro via di fuga e tentavano di uscire per mangiare più ossigeno.
«No, non un’altra volta», mormorò l’agente dell’FBI con gli occhi sbarrati e il viso pallido e sporco.
Si tirò su in piedi con fatica – aveva preso un colpo al ginocchio atterrando in giardino – e fece un giro della villa per sincerarsi delle condizioni degli agenti e nel caso contare le perdite. Di Grace, come pensava cupamente, nessuna traccia.
«Grace!», gridò Dylan, disperato e con le mani strette a pugni tra i capelli, inginocchiandosi di fronte alla cornice della porta principale. «Grace, rispondimi, ti prego!».
Si trascinò avanti a gattoni, verso le fiamme, fino a quando lo stesso Crawford e un paio di altri agenti non lo trascinarono via, stendendolo supino sulla terra dura e fredda, lasciando che si sfogasse piangendo tutte le sue lacrime.

***

Quella mattina aveva deciso di rimanere nella suite, ad attendere l’ora concordata con Bill, con sua madre attaccata al telefono per concordare l'orario e i temi della riunione che avrebbe tenuto con i suoi collaboratori.
Le ore erano passate lentamente e i suoi pensieri erano stati quasi tutti per Aiden. Forse avrebbe dovuto semplicemente levarselo dalla testa, dato che lui pensava di non meritare il suo amore. Prima o poi sarebbe arrivato qualcun altro a farle battere il cuore e questo magari non avrebbe rinnegato i suoi stessi sentimenti.
Era una ragazzina, non capiva per quale motivo doveva stare tanto male per un coetaneo che forse era solo spaventato, ma poi le tornavano alla mente i momenti passati insieme, a ridere sotto la pioggia che bagnava i loro appunti, a litigare, in silenzio; le tornava alla mente il loro primo ed unico bacio, una specie di premio di consolazione che Aiden le aveva offerto prima di ferirla di nuovo, brutalmente, tanto da farle desiderare di sparire nel nulla, in una città dove non conosceva nessuno e nessuno aveva idea di quanti soldi avesse o dell’importanza di suo padre.
Verso le dieci si era cambiata per uscire e aveva persino preparato la macchina fotografica digitale, con tutte le buone intenzioni di portarsi a casa qualche scatto di quella Milano baciata dal sole, più bella di come se la fosse mai immaginata.
Quando Bill bussò alla sua porta, lei era in bagno che stava finendo di legarsi i capelli sulla nuca, così fu sua madre ad aprirgli e con sua grande sorpresa scoprì che non era solo: Tom aveva deciso di unirsi a loro.
Molly uscì dal bagno cercando di stamparsi il suo sorriso migliore sul viso, anche se non avrebbe voluto vedere il chitarrista ed aveva paura che tirasse fuori tutto il dolore che teneva rinchiuso dentro di sé, come se fosse il suo tesoro più prezioso, di cui essere gelosa. La verità era che quel dolore era l’unica cosa che aveva ottenuto dal suo amore per Aiden e non poteva lasciarlo andare, sarebbe stato come andare alla deriva senza quella zavorra che la teneva attaccata alla mera illusione che qualcosa, prima o poi, sarebbe girato a suo favore.
«Sei sicuro di quello che stai per fare? Sai a che cosa vai incontro, con noi due maniaci dello shopping», lo avvertì con una punta di ironia nella voce, posandosi gli occhiali da sole sul naso.
«Sono preparato a tutto», rispose Tom con una scrollatina di spalle, sorridendo come se gli avesse appena lanciato una sfida.
Molly ricambiò per un attimo, prima di afferrare la borsa firmata e di prendere Bill a braccetto, salutando sua madre.
Salirono tutti e tre sull’auto nera noleggiata dalla famiglia Delafield per l’intera durata di quel soggiorno milanese e l’autista italiano li scarrozzò per le vie della moda – da Via Alessandro Manzoni a Via Monte Napoleone, da Via della Spiga a Corso Venezia fino a raggiungere Piazza S. Babila – dove ogni pretesto era buono per entrare nei negozi e provare mille capi, facendo impazzire le commesse quando decidevano alla fine di non comprare niente.
Durante la loro caccia non avevano parlato molto di ciò che era successo a Los Angeles mentre Bill e Tom erano lontani, forse proprio perché Molly rispondeva a monosillabi e la maggior parte delle volte cambiava proprio argomento, indicando vestiti, borse od occhiali da sole – cose che avrebbero potuto distrarre Bill, ma non di certo Tom, il quale non l’aveva mai persa d’occhio, anche a costo di risultare intrusivo e parecchio fastidioso. Ma era più forte di lui: voleva che Molly si sfogasse, almeno con loro; che si liberasse di tutti i pensieri negativi che la rendevano irraggiungibile e diversa, e non capiva perché invece lei si ostinasse a fare finta di nulla, a fare finta che stesse bene e che quello fosse un semplice week-end che i milionari come lei ogni tanto di concedevano.
Ad un certo punto decisero di fare una pausa in Piazza Duomo, che Molly trovò bellissima nonostante i piccioni e gli immancabili lavori di ristrutturazione alla Madonnina della cattedrale neogotica.
«È un vero peccato che Grace non sia venuta», esclamò all’improvviso, mentre scattava una foto alla facciata del Duomo, inondata di luce.
Tom, rimasto per un attimo incantato a guardare una coppia di bambini che correvano per la piazza facendo involare pigramente alcuni di quei fastidiosi volatili grigi, si voltò di scatto nell’udire quelle parole.
«Come hai detto?».
«Ho detto che è un vero peccato che Grace non sia venuta», ripeté la ragazzina, rimanendo confusa di fronte al suo atteggiamento vagamente inquisitorio.
Tom, infatti, aveva avuto una specie di illuminazione e il suo cervello aveva iniziato a surriscaldarsi, in cerca di una possibile spiegazione.
Grace sapeva che Molly sarebbe venuta a Milano – durante la loro ultima telefonata gli aveva detto che si era dimenticata di dirglielo, – così come sapeva benissimo che anche loro sarebbero rimasti lì ancora per qualche giorno. Allora perché non era partita con lei, visto che non aveva altri impegni?
«Tom, che ti prende?», gli domandò Bill, fissando il suo volto serio e concentrato, le labbra strette tra di loro.
Il chitarrista però non gli rispose e tornò a fissare gli occhi in quelli di Molly, ora più guardinghi che mai, come se temesse una sua improvvisa scenata in pubblico – oro per i paparazzi che in più di un’occasione quel giorno li avevano pizzicati per le vie di Milano.
«C’è qualcosa che non so?», chiese, stentoreo.
Molly sgranò gli occhi e si strinse nelle spalle, senza sapere bene quale fosse la risposta da dargli.
«Beh, Grace stava per venire ieri, voleva farti una sorpresa, ma giusto prima di imbarcarsi ha ricevuto una telefonata da parte di quell’agente dell’FBI…».
«Michael Crawford?», intervenne in aiuto Bill, nonostante anche lui iniziasse ad essere un po’ preoccupato.
«Sì, mi pare di sì. Non mi ha detto nulla in proposito, solo che non poteva partire».
«E che cosa aspettavi a dirmelo?». La sua voce era pacata, ma nei suoi occhi fiammeggiava la rabbia.
Molly, spaventata, portò le mani avanti. «Pensavo te l’avesse detto, ora che la sorpresa era saltata!».
Tom ricordò le parole che Grace gli aveva rivolto quella mattina al telefono e notò tutti i particolari che si era lasciato sfuggire allora: il tono evasivo con cui gli aveva detto che a volte aveva attacchi di insonnia e che non c’erano novità, il modo in cui lo aveva liquidato in fretta quando aveva esclamato che Molly si trovava a Milano e nel loro stesso hotel… Gli aveva persino detto «Ti amo»! Lo faceva così raramente, come lui d’altronde, e in occasioni così speciali che, ora che ci ripensava, col cuore stretto in una morsa, stonava terribilmente e non era per nulla rassicurante che gliel’avesse detto prima di terminare in quel modo la chiamata.
Che si fosse immischiata in qualche guaio e l’avesse tenuto all’oscuro? Che ci fossero state delle novità, delle rilevanti novità, nell’indagine, al contrario di ciò che gli aveva assicurato?

Oh, Grace, non puoi farmi questo tutte le volte… pensò, distrutto, preoccupato ed arrabbiato allo stesso tempo, tanto che ebbe la magnifica idea di sfogarsi sulla prima persona che gli capitò a tiro: Molly.
«No, non l’ha fatto! E tu avresti dovuto avvertirmi subito, invece di commentare tutto il tempo i tuoi stupidi vestiti e le tue dannate borse con Bill!».
«Ma cosa…?».
Il frontman si parò di fronte a Molly e posò le mani sulle spalle del gemello, cercando di calmare lui e di difendere l’amica.
«Piantala, Tom, lei non c’entra niente».
Molly si liberò della protezione di Bill e spinse Tom con entrambe le mani sul suo petto, facendolo indietreggiare di un passo per la sorpresa, mentre alcuni turisti vicini a loro si erano voltati per capire cosa stava succedendo. Stavano attirando non poca attenzione e questo non era mai un bene.
La ragazzina gli rivolse uno sguardo truce, colmo di lacrime che sapevano di rabbia e di sofferenza, e ruggì: «Mi dispiace di non averti avvisato che la tua ragazza non è venuta insieme a me. Mi dispiace di non potermi accollare anche i tuoi problemi. Mi dispiace di essere venuta qui per stare un po’ con degli amici che appena possono mi usano come sacco da boxe».
«Molly, io…», provò a scusarsi Tom, sconvolto e mortificato, ma non ne ebbe il tempo materiale, perché lei lo spintonò ancora una volta, con tutta la forza che poté. Quindi si allontanò in fretta, diretta verso l’autista che li aspettava nello Spizzico sotto una galleria.
Bill la guardò sparire all’interno del fast-food italiano, poi posò lo sguardo sul gemello, senza sapere se essere più confuso o deluso dal suo comportamento irrazionale. Non volle nemmeno sapere che cosa gli fosse passato per la testa: si voltò e raggiunse in fretta lo Spizzico, lasciandolo solo tra i piccioni, i turisti e una compagnia di ragazzi italiani che ridevano mentre si lanciavano delle patatine di McDonald’s.

***

C'era voluto un po’, un’ora buona, prima che l’incendio venisse completamente domato dai vigili del fuoco, ma appena era stato possibile Dylan e Michael avevano partecipato al controllo all’interno della villa: avevano trovato i corpi carbonizzati di due agenti dell’FBI rimasti intrappolati all’interno, tramortiti dagli esplosivi; quello di Bryant, ancora più raccapricciante di quando l’avevano visto prima che morisse, e poi avevano scoperto una cantina, sotto le macerie. Un’altra mezz’ora dopo, erano riusciti a crearsi un varco e lì avevano trovato la carcassa di un grosso rottweiler su cui, ad un attento esame nei laboratori della scientifica, non solo si sarebbero trovate tracce del sangue e della pelle di Grace sui suoi denti, ma anche un proiettile proveniente dalla sua Glock calibro 9mm, che l’aveva ucciso prima dell’arrivo delle fiamme.
Questo fu tutto quello che riuscirono a trovare riguardo a Grace e se da un lato era terrificante non aver trovato di più, era motivo di speranza non aver trovato il suo cadavere.
Lentamente quella speranza si era fatta ancora più solida, tanto da credere che la detective fosse riuscita a scamparla, quando trovarono una botola il cui passaggio sotterraneo era stato quasi del tutto intasato dalle macerie e dalla terra quando era esploso l’ordigno piazzato nelle tubature del salotto.
Dopo essere stati medicati alla bell’e meglio a bordo di un paio di ambulanze accorse sul posto, Michael e Dylan si erano rintanati in uno dei furgoni blindati e super attrezzati dell’FBI e con un tecnico avevano studiato ancora e ancora la pianta in 3D della villa, sperando di trovarvi il passaggio sotterraneo che collegava la cantina al posto in cui, molto probabilmente, si trovavano la detective e la donna asiatica. Ma questo non era segnato da nessuna parte, probabilmente era stato costruito dall’organizzazione criminale come via di fuga di emergenza.
I due non si diedero per vinti ed ordinarono che si continuasse a cercare qualcosa in quel campo, qualcosa che facesse intendere ad un passaggio nel sottosuolo; comunicarono a tutte le centrali di polizia la scomparsa di Grace, ordinando che venissero contattati nel caso in cui avessero anche solo una debole pista da seguire per ritrovarla. Tutto questo mentre continuavano a tempestare il suo cellulare di chiamate sempre inconcludenti, perché sempre irraggiungibile.
I loro sforzi vennero ripagati quando Oswin in persona, costretto al solo lavoro d’ufficio, chiamò Dylan e gli comunicò un’importante novità.
«Ho fatto pressione anche tra gli agenti della stradale e dei colleghi mi hanno passato una denuncia per furto d’auto».
«Vai avanti», lo supplicò il poliziotto, sulle spine.
«L’uomo che ha sporto denuncia ha dichiarato che una ragazza la cui descrizione corrisponde a Grace gli ha detto di essere della polizia e lo ha costretto a scendere, puntandogli la pistola contro. Ha detto anche che è spuntata dal nulla».
«Lo sapevo, lo sapevo che non poteva averci lasciato!», urlò entusiasta, stringendo la spalla di Crawford per trasmettergli un po’ di quella gioia che gli stava facendo esplodere il petto. Ma non era ancora giunto il momento dei festeggiamenti, dovevano prima trovarla.
«Dobbiamo rintracciare quell’auto», disse ancora e Oswin gli diede modello e numero di targa, in modo tale che Crawford potesse diramare un altro avviso ai colleghi di tutta Los Angeles.
Poi Oswin aggiunse: «È stata rubata nel garage sotterraneo di un centro commerciale, i colleghi sono già andati a recuperare i filmati delle telecamere di sicurezza. Li avrete tra poco».
Come aveva promesso, i filmati arrivarono poco dopo tempo e Dylan e Michael li guardarono fino a quando non scorsero Grace uscire da un tombino, correre verso la prima auto che le compariva di fronte, rischiando tra l’altro di investirla, e ordinare all’uomo alla guida di scendere, per poi premere l’acceleratore e scomparire dall’inquadratura.
«Un attimo, torna indietro».
Il tecnico premette il tasto rewind e fermò l’immagine nel momento in cui Grace gettava uno sguardo consapevole verso la telecamera ed annuiva, il viso sporco di fuliggine e di terra e i vestiti umidi. La cosa che interessava a Michael, comunque, era il suo braccio destro, rosso di sangue e quasi immobile lungo il fianco.
«Dobbiamo trovarla subito», decretò con tono ferale e Dylan annuì, il cellulare ancora stretto nella mano dopo aver rifiutato la prima delle tante chiamate che d’ora in avanti avrebbe ricevuto da Bill.

***

Magari non è successo nulla di grave. Magari ha solo dimenticato di mettere il cellulare in carica. Sì, dev’essere proprio così.
Si portò le dita agli angoli interni degli occhi e sospirò stancamente, mettendo via il cellulare ed entrando in ascensore accanto a Bill.
C’era della tensione tra loro, dopo quello che era successo con Molly e non solo, ma preferì rimandare i chiarimenti, almeno con lui.
Dopo il loro giro nel centro di Milano, erano tornati tutti e tre in albergo e poco tempo dopo Bill e Tom erano dovuti salire su un’altra auto che li aveva portati allo studio televisivo dove avevano registrato la puntata di un programma di musica italiano.
Era stato inquieto e con la testa altrove per tutto il tempo: un po’ con Grace, a Los Angeles, che continuava a non rispondergli al telefono, e un po’ con Molly, nella stessa città, che non gli aveva più rivolto uno sguardo dopo la loro bisticciata in pubblico.
Prima di cena aveva bisogno di parlare con lei, per levarsi almeno un peso dallo stomaco, e per questo rimase da solo sull’ascensore per raggiungere il piano dove si trovava la suite di Molly e sua madre.
Fu proprio quest’ultima ad aprirgli la porta, dicendogli che l’avrebbe trovata nella sua camera da letto, da cui non era più voluta uscire da quando era ritornata quel pomeriggio.
Tom, col cuore pesante come un macigno, la raggiunse attraversando il salottino e bussò piano alla porta. Non ottenne alcuna risposta, però non si fece problemi e gettò un’occhiata all’interno della stanza, scorgendo Molly rannicchiata sulla poltrona vicina alle portefinestre che davano su un piccolo terrazzo.
«Molly…».
La ragazzina si voltò di scatto e Tom, incrociando i suoi occhi gonfi e lucidi di pianto, serrò le labbra mentre il suo volto si accartocciava in un’espressione dispiaciuta.
Si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò con cautela, per poi posarle una mano sul capo ed inginocchiarsi di fronte a lei.
«Mi dispiace, ho sbagliato», mormorò, accarezzandole ora i capelli, ora il viso. «Ero e sono preoccupato per Grace, ma questo non mi giustifica, perché me la sono presa con te ingiustamente. Puoi perdonarmi?».
Molly mosse il capo su e giù in segno d’assenso ed inspirò profondamente. Tom poté sentire l’aria che le scendeva in gola con un rantolo, prima che Molly si portasse le mani sul viso e ricominciasse a singhiozzare violentemente.
«Piccola, ti prego, non fare così…».
Il chitarrista capì che il motivo delle sue lacrime non era di certo lui e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu di avvolgerle le braccia intorno alla schiena squassata dai singhiozzi, lasciando che nascondesse il viso umido nell’incavo della sua spalla.
Nello stesso istante, dall’altra parte del mondo, Grace apriva gli occhi in una stanza d’ospedale e si guardava atterrita la mano destra, immobile nonostante provasse e riprovasse a stringere le cinque dita intorno al lenzuolo candido.

***

Pochi istanti prima di svegliarsi, ancora intontita dagli antidolorifici che le avevano somministrato mentre era sotto i ferri, Grace aveva rivissuto quelle ore che mai, mai, le avrebbero fatto la grazia di sbiadire nella sua memoria.


La caduta inaspettata e il frastuono proveniente dall’alto la lasciarono per qualche secondo stordita a terra, con le orecchie che ronzavano fastidiosamente. Quando ebbe la forza di rialzarsi, sostenendosi solo sul braccio sinistro, quello buono, si rese conto di essere in un tunnel buio e lungo diversi metri, con le pareti rocciose e scabre, come quelli delle vecchie miniere d’oro.
Possibile che quei criminali avessero avuto il tempo di fare una cosa del genere? E dove conduceva?
Non potendosi dare una risposta alla prima domanda, decise di trovarne una almeno per la seconda.
Senza mai staccare la mano dalla parete alla sua sinistra e con la torcia mal funzionante sotto l’ascella destra, procedette a testa china per qualche metro, fino a quando un tremendo boato alle sue spalle non fece tremare le pareti che addirittura crollarono là dove c’era la botola.
Ora era definitivamente in trappola in quel tunnel e non poteva che andare avanti, sperando che la sua nemica non fosse già troppo lontana.
Camminò per una cinquantina di metri e poi, finalmente, sentì un odore diverso nell’aria, o per meglio dire una puzza diversa. Svoltando l’angolo, vide che il tunnel era finito e portava direttamente nei condotti fognari sotto le strade trafficate di Los Angeles.
Non potendosi aggrappare a nulla, fu costretta a tuffarsi nell’acqua sporca e, nonostante le arrivasse appena alle cosce, si bagnò tutta a causa della corrente che, più forte di quello che credeva, l’aveva spinta in avanti.
Alla sua imprecazione se ne susseguì un’altra, in cinese, che le fece drizzare la testa e dimenticare le ferite e l’acqua che le infradiciava i vestiti. Seguì il tunnel con le spalle contro la parete di mattoni coperti d’umidità, la pistola nella mano sinistra, e poco prima di svoltare due proiettili colpirono l’angolo del muro dietro il quale era nascosta. Dopodiché il rumore dei passi veloci dell’asiatica le fecero intuire che stava scappando. Non glielo avrebbe mai permesso, non ora che le era così vicina.
La inseguì in quella città sotterranea e puzzolente e il suo pensiero corse per la prima volta a Dylan e Michael: sicuramente erano in pena per lei, lei che li aveva lasciati senza dire niente per inseguire la donna autrice di tutte le morti e le sofferenze che aveva patito in quegli anni. Pensò anche a Carter, rimasto nella cantina, preferendo non chiedersi se si fosse salvato, e poi anche a Tom. Quella volta si sarebbe arrabbiato sul serio, già lo sentiva urlarle improperi tra le lacrime. Ma prima doveva portare a termine la sua missione e sopravvivere.
Dovette appiattirsi di nuovo contro il muro per evitare un paio di pallottole e quando si sporse oltre l’angolo vide l’asiatica salire una scaletta ed aprire il tombino sopra la sua testa. Era la sua occasione: sparò con un occhio chiuso per prendere meglio la mira, ma sfortunatamente la mancò – non era mai stata brava a sparare con la sinistra – e lei non fu tanto stupida da perdere altro tempo.
Una volta sparita alla sua vista, Grace corse alla scaletta e con sforzo immane, sentendo il morso sul braccio pulsare mentre tornava a sanguinare copiosamente, tenne sollevato il tombino per perlustrare l’esterno. Vide alcune auto parcheggiate di fronte a sé e ad istinto decise che il posto in cui erano sbucate doveva essere un garage sotterraneo.
Senza darsi troppa pena nel cercarla, vide l’asiatica sfrecciare di fronte a lei in sella ad una moto da corsa verde acido, con un casco nero e dalla visiera lucida infilato sul capo.
La vide uscire dal garage e allora si affrettò a risalire in superficie, gettandosi di fronte ad un auto diretta verso l’uscita, che inchiodò appena in tempo per non falciarle le gambe.
«Cristo, è per caso impazzita?!», gridò l’uomo ancora nella sua divisa da fast-food, sporgendosi fuori dal finestrino.
Grace corse alla portiera e l’aprì, constatando con enorme sollievo che era solo nell’abitacolo.
«La prego di scendere, sono un’agente di polizia e sto per perdere le tracce della criminale che sto inseguendo».
«Che cosa?! Lei non sembra un’agente di polizia!», ribatté, lanciandole un’occhiata sommaria.
«Come crede, ma mi serve la sua auto. Subito».
L’uomo ancora seduto al posto di guida fece per aprire la bocca e ribattere ancora una volta, ma Grace, visto che le buone maniere non erano servite e ogni secondo era prezioso, gli puntò contro la pistola. L’uomo impallidì e in un attimo fu giù dall’auto, con le mani sollevate.
Grace si gettò uno sguardo intorno, individuò una telecamera attiva e sperando che Dylan e Michael potessero rintracciarla annuì guardando dritto nell’obbiettivo. Quindi si mise al volante e senza nemmeno assicurarsi che la portiera fosse chiusa a dovere pestò il piede sull’acceleratore, partendo con una sgommata sul cemento verniciato di rosso.
Uscì dal garage sotterraneo e ringraziò che fosse notte fonda, perché non avrebbe sopportato la luce dopo aver frequentato solo posti bui.
Fece in tempo a vedere la moto verde acido in fondo alla strada, prima che svoltasse, e si regolò di conseguenza, andando a tavoletta e sterzando bruscamente se necessario, sommersa da una cascata di clacson.
In poco tempo recuperò terreno e nonostante la moto potesse zigzagare tra le auto la raggiunse e per poco riuscì anche a sfiorarne la ruota posteriore col paraurti.
L’asiatica accelerò e come Grace temeva si voltò per spararle in corsa, cosa che lei non avrebbe mai fatto perché nelle sue condizioni non poteva essere certa della sua mira e non voleva che innocenti ci andassero di mezzo.
Il parabrezza si incrinò in due punti, ma Grace, sprofondata nel sedile, riusciva a vedere abbastanza da non restare mai indietro, in quell’inseguimento che sarebbe potuto tranquillamente passare come la scena clou di un film d’azione.
Presa com’era nel non perdere d’occhio l’asiatica e nell’evitare scontri con auto e pedoni, non si era accorta che il paesaggio era cambiato da qualche tempo: i grattacieli e le palme erano lontani ormai, di fronte a loro solo distese di terra bruciata e l’asfalto dell’autostrada che portava dritta dritta al confine con il Messico. Stava tentando di espatriare, ma se questo poteva essere un problema per i federali e la polizia in generale, non lo era di certo per Grace.
Con un’accelerata che fece andare su di giri il motore della Mazda che aveva trovato sul suo cammino, si avvicinò a lei ancora di più e dato che non avevano auto né davanti né dietro, le restituì i colpi che le avevano e le stavano tutt’ora incrinando il parabrezza. Allungò il braccio sinistro fuori dal finestrino e sparò: la ruota posteriore esplose, facendo sbandare violentemente la moto contro il guard-rail; il secondo colpo, invece, colpì l’asiatica alla schiena e Grace la vide chiaramente gettare la testa all’indietro, in un muto grido di dolore lanciato contro il cielo, prima di cadere e rotolare a terra per qualche metro, mentre la moto si sdraiava su un fianco e roteava con mille scintille fino al guard-rail.
Grace fermò l’auto e scese, sentendo il braccio destro sempre più pesante, inerte lungo il fianco. Si fermò accanto al corpo dell’asiatica e la disarmò dando un calcio all’arma che teneva in mano. Quindi si inginocchiò e fissò gli occhi nei suoi, che ancora si muovevano con una scintilla di vita al loro interno.
«Sei stata tu ad uccidere mio padre. Sei stata tu!», gridò e l’afferrò per i capelli, desiderando una conferma, ma la donna si stampò un sorriso quasi inebetito sul viso, guardando il cielo oltre la spalla di Grace.
Grace puntò la canna della pistola contro la sua fronte e chiuse gli occhi. In un attimo la sua mente si affollò di ricordi, da quelli più dolorosi – il ritrovamento di suo padre morto assassinato nel suo ufficio, il viso pesto di sua madre dopo che era stata aggredita, Lionel in ospedale, sopravvissuto per miracolo ad una morte per dissanguamento in un motel di Tijuana – a quelli più felici – i momenti trascorsi con Dylan, con Bill, con Molly… con Tom.
Rammentò un pezzo di una conversazione intrattenuta con lui una sera:

«A volte mi chiedo che cosa farei io se mi trovassi di fronte alla persona che ha ucciso a sangue freddo mio padre e… non lo so, non lo so se la ripagherei con la stessa moneta oppure lascerei la giustizia alla legge… non ne ho idea».
«Sono certo che faresti la cosa giusta».

E poi, improvvisamente, rivide in maniera nitida, tanto da toglierle il fiato, il bambino che aveva avuto come apparizione quando era stata ad un passo dalla morte in quel vicolo a Berlino. Il bambino di Tom, il loro bambino.
Era ancora china sul corpo dell’asiatica, sempre meno cosciente a causa del proiettile che aveva nella schiena e da cui perdeva moltissimo sangue, con la canna della Glock contro la sua fronte, ma non sapeva più cosa fare, quale fosse la cosa giusta.
Vendicare la morte di suo padre con le sue stesse mani, oppure lasciare quel compito alla legge? Macchiarsi del sangue dell’assassina di suo padre, come lei si era macchiata del suo?
Il rumore assordante delle pale di un elicottero che volava sopra la sua testa la fece tornare alla realtà. Alzò il capo verso il cielo, poi si guardò attorno e vide un paio di auto ferme vicine alla Mazda che aveva preso in prestito. Due uomini erano scesi dai veicoli e chissà da quanto osservavano la scena impietriti, uno con il cellulare con il quale aveva chiamato il 911 ancora stretto in mano. Grace fece viaggiare il suo sguardo fino a quando non scorse all’interno di una delle auto, seduto sul sedile posteriore, il viso di un bambino di cinque o sei anni, nel quale erano incastonati due occhi verdi spalancati. Somigliava a suo padre da piccolo.
A quel pensiero Grace stese un sorriso stanco e dolente, ma anche con una punta di ironia agli angoli delle labbra, e scoppiò in lacrime, lasciandosi cadere accanto al corpo dell’asiatica, sull’asfalto ormai freddo, illuminata dal cono di luce proveniente dall’elicottero.


Quando aveva aperto gli occhi, aveva subito capito di essere in ospedale e aveva cercato di capire che ora fosse, ma la sua più totale attenzione era stata catturata dal braccio fasciato che aveva provato ad alzare per aggrapparsi alla sbarra del suo letto. Il braccio destro, quello che era stato morso dal rottweiler in quella cantina.
L’aveva sentito pesante, come se le avessero colato del cemento nelle giunture, ma c’era qualcos’altro ora, qualcosa di ben peggiore: non riusciva a muoverlo dal gomito in avanti, compresa la mano che, per quanto si sforzasse, rimaneva inerte, le cinque dita abbandonate sul lenzuolo bianco.
Le lacrime le punsero gli occhi, ma in quel momento la porta della sua camera venne spalancata e Dylan la guardò con gli occhi sbarrati, manco si fosse materializzata lì dal nulla, e un sorriso entusiasta sulle labbra.
Era sporco dalla testa ai piedi, i capelli e i vestiti erano ancora impregnati dell’odore del fumo dell’incendio e aveva delle terribili ombre violacee intorno agli occhi, ma tutto sommato era okay, come se lo ricordava, e questo la rincuorò almeno un po’.
«Ehi, sei sveglia. Come stai?».
Grace, senza distogliere lo sguardo dal suo, felice e luminoso come quello di un bambino a Natale, provò di nuovo a stringere il lenzuolo tra le dita. Invano.
«Bene», mentì con la voce arrochita, cercando di sorridere. «Tu? Michael?».
«Stiamo tutti e due bene, anche se ci hai fatto passare dei brutti quarti d’ora. Non farlo mai più, ti supplico».
Grace gli rivolse un altro tenue sorriso velato di compassione, più per se stessa che per lui.
«Ho parlato con Tom», esclamò il poliziotto dopo un attimo di silenzio, questa volta con tono amorevole ed avanzando di un passo. «Gli ho raccontato tutto quello che è successo, o almeno quello che sapevo. Credo che in questo momento stia discutendo con il manager della band. Fosse stato per lui avrebbe preso il primo volo disponibile».
«Certo, sai com’è fatto», rispose, ma il solo pensiero di non poterlo più accarezzare con entrambe le mani, perché una paralizzata, la sconvolse tanto da farla tremare impercettibilmente. Così, per distrarsi, gli chiese: «E Carter? Era ferito, lui come…?».
«Carter?», domandò cautamente Dylan, quando lei si interruppe di fronte alla sua espressione sconcertata.
«Sì, lui… lui era con me, nella cantina, mi ha salvata ancora… Dylan, lui…».
«Aspetta un momento, me lo spiegherai dopo. Adesso ti chiamo un dottore».
Grace lo lasciò fare. Lo guardò mentre usciva dalla porta, ancora con quell’espressione confusa e scettica sul viso, che aveva spazzato via la sua gioia di vederla viva e vegeta. Poi si concentrò di nuovo sul suo braccio e sulla sua mano, ancora immobili.


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Capitolo 31
*** Capitolo 29 ***


Capitolo 29

 

“Lights will guide you home
and ignite your bones…
And I will try to fix you”

(Fix you - Coldplay)

 

Ci vollero quasi due giorni e varie sfuriate con David e Benjamin prima che Bill e Tom ottenessero il permesso di tornare a Los Angeles.
Ora, sul jet privato che il padre di Molly aveva messo a disposizione della figlia e della moglie e inaspettatamente anche per loro due, Tom continuava a mangiucchiarsi le unghie, nervoso e conscio del suo aspetto quasi spettrale, con quelle occhiaie, frutto delle ultime notti insonni, che nemmeno la loro truccatrice era riuscita a nascondere del tutto.
Non vedeva l’ora di tornare a casa e di stringere forte Grace tra le braccia. Aveva rischiato la vita ancora una volta e non l’aveva nemmeno avvertito, ma non gli importava: non voleva, non poteva essere arrabbiato con lei e litigarci dopo averla quasi persa per sempre un’altra volta.
Ricordava ancora perfettamente la telefonata di Dylan, che l’aveva costretto a sciogliere l’abbraccio con Molly ancora in lacrime e che l’aveva ridotto a pezzi, nonostante il poliziotto s’era dimostrato tanto euforico da apparire quasi isterico, dopo tutto lo stress e la paura che aveva dovuto sopportare non sapendo se Grace fosse viva o morta, da una parte o dall’altra di LA. Gli aveva comunicato con gioia che finalmente era finita, che quell’odissea era giunta al termine; che Grace stava bene, anche se era stata diverse ore in sala operatoria a causa di una brutta ferita al braccio destro. Ma era viva e questo era quello che contava, no?
Dopo quella telefonata non aveva avuto la forza nemmeno di scendere nella sala ristorante, dove i suoi compagni di band e amici lo attendevano per cenare. Era stata Molly ad avvisarli dell’accaduto, o almeno a riferirgli ciò che era riuscita a capire dal confuso racconto del chitarrista, sperduto e profondamente sconvolto.
Quella notte, costantemente sorvegliato dal fratello, il quale aveva iniziato per lui la lotta contro David, non aveva chiuso occhio, restando in silenzio a fissare il soffitto sopra la sua testa.
Solo allo spuntare dell’alba, tanto all’improvviso da far spaventare Bill, era tornato in sé e aveva picchiato contro la porta del manager. Gli aveva urlato contro di lasciarlo andare, gli aveva rivolto i peggiori insulti fra quelli nel suo repertorio e poi l’aveva implorato, mettendosi addirittura in ginocchio di fronte a lui. David allora aveva ceduto subito e gli aveva promesso che tutto si sarebbe sistemato al suo ritorno.
Solo in quel momento, ripensandoci, si rese conto della sua follia: se avesse davvero voluto vedere Grace si sarebbe precipitato in aeroporto e avrebbe preso il primo volo, ma per qualche motivo si era aggrappato ai rifiuti di David e solo ottenuta la sua approvazione si era costretto a preparare le valigie, sotto le innumerevoli esortazioni di Bill e Molly.
Il motivo per cui si era comportato in quel modo ancora non lo conosceva, anche se sospettava che avesse provato paura al pensiero di vederla in quel letto d’ospedale dopo tutto ciò che aveva passato e rischiato, paura di essere contaminato dal suo dolore, paura della sua reazione e di non reggere ai suoi occhi ora che tutto era davvero finito nella maniera più impensabile.
Ora era pronto, o perlomeno sperava di esserlo, per affrontare tutto ciò che sarebbe avvenuto da lì in avanti. Voleva che Grace incominciasse una nuova vita, dimentica dei fantasmi del suo passato, e che insieme riuscissero a superare ogni difficoltà presente sul loro cammino.

 
Dylan era nella sala d’aspetto dell’aeroporto ad attenderli e non appena li vide oltre i gate sorrise loro e sventolò debolmente una mano in aria in segno di saluto.
Tom lo guardò in viso e constatò che da quel punto di vista non era il solo ad avere un aspetto pessimo: anche lui aveva gli occhi cerchiati da ombre scure, non si faceva la barba da un paio di giorni e, cosa che più lo inquietò, sembrava invecchiato, come se sul suo viso, specialmente nel suo sguardo, fosse rimasta impressa la fatica, il dolore e la preoccupazione di quelle ore di incertezze e paure, e sulle sue spalle leggermente curvata in avanti ci fosse un peso troppo grande da sostenere.
Bill si gettò direttamente tra le sue braccia ed affondò il viso nel suo collo, le dita fra i suoi capelli neri scompigliati, fregandosene di poter essere riconosciuto o peggio ancora paparazzato.
Tom, avvicinandosi, sentì la sua voce mugugnare frasi incomprensibili e vide Dylan annuire con piccoli cenni del capo, mentre gli accarezzava la schiena e respirava profondamente il suo profumo.
«Ti amo anche io» furono le uniche parole che Tom sentì pronunciare dal poliziotto, proprio prima che i due si staccassero.
Avrebbe dovuto esserne imbarazzato oppure sogghignare dicendo una battuta stupida sulla sdolcinatezza di quella scena, ma sul suo viso non apparvero sintomi né dell’una né dell’altra cosa, quasi come se fosse una maschera.
Salutò Dylan con un abbraccio più breve, come fece Molly, poi i tre ragazzi si avviarono fuori dall’aeroporto per montare sull’auto personale del poliziotto. La ragazzina e sua madre, invece, si diressero verso la limousine che le attendeva.
Fu un vero piacere non dover prendere scorciatoie scomode a causa delle fan o dei paparazzi, ma Tom fu ugualmente infastidito quando, uscendo dalle porte scorrevoli, una ragazza con un cappellino da baseball blu scuro e un paio di grossi occhiali da sole lo urtò facendo scontrare le loro spalle. In quella frazione di secondo anche le loro mani si erano sfiorate e il chitarrista aveva provato un brivido corrergli su per la schiena, ma lì per lì non vi aveva dato peso e aveva sbottato: «Stai attenta a dove vai».
La ragazza non si scusò né si voltò a guardarlo e in un attimo, il tempo che impiegò Tom per voltarsi e dirgliene quattro sulla maleducazione, era già sparita tra la folla.
«Tom, ti muovi?», lo incalzò suo fratello, già sotto il sole del primo mattino.
Il chitarrista scrollò il capo, anche se piuttosto stizzito, e raggiunse i due senza aprire bocca. Quindi sistemarono i loro bagagli a mano nel baule dell’auto di Dylan e si immisero nel traffico cittadino.
«Grace verrà dimessa proprio oggi pomeriggio», disse Dylan ad un certo punto, rompendo il silenzio.
Tom distolse lo sguardo dal paesaggio fuori dal finestrino e lo guardò in viso, teso. «E come sta?».
«Fisicamente sta bene, a parte…».
«A parte cosa?».
Bill si sporse verso i sedili anteriori, anche lui col fiato sospeso.
Il poliziotto sospirò e scrollò il capo, mormorando quasi tra sé: «Mi ha fatto promettere di non dirtelo, che te l’avrebbe detto lei…».
Tom strinse i denti, innervosito da tutti i segreti con cui non si era mai abituato a convivere. «Ormai è tardi, Dylan. Che cos’ha?».
«Lei ha… ecco… non riesce a muovere l’avambraccio e la mano destra perché alcuni nervi sono stati danneggiati, tra cui anche quelli della sensibilità», sfiatò, invecchiando di un altro paio d’anni.
A quelle parole Tom si voltò di nuovo verso il finestrino, gli occhi fissi su un punto lontano.
«Mi dispiace», bisbigliò Dylan. «Il neurologo e il chirurgo hanno detto che l’intervento è andato bene e può darsi che si tratti di una paralisi temporanea, che pian piano, con un po’ di fisioterapia, tornerà tutto come prima, ma...».
«Cosa?», chiese ancora Tom, con la voce rotta da un pianto lacerante e silenzioso.
«Lei non sembra ottimista. In questi giorni è stata taciturna, non mangiava quasi nulla… è come se quella puttana le avesse rubato l’anima». Strinse forte il volante tra le mani, ma poi allentò la presa, addolcendo l’espressione sul suo viso. «Spero che possa riprendersi, con te».
Lo speravano tutti, ma non fu così.
Quando giunsero all’ospedale seguirono il poliziotto, il quale li condusse con passo sicuro fino alla sua stanza. Entrarono senza bussare e la trovarono… vuota. Il letto su cui Dylan l’aveva vista sdraiata prima di lasciarla era sfatto e non c’era traccia della borsa con i vestiti di ricambio che lui stesso era andato a prenderle nel suo appartamento il giorno prima.
«Forse… forse le hanno cambiato stanza. O forse… forse è stata dimessa prima…», balbettò, scioccato.
Purtroppo però ci volle molto poco per mandare in frantumi entrambe quelle ipotesi.
«Ne è proprio sicura?», chiese Bill per l’ennesima volta e l’infermiera dietro il bancone annuì, confusa e stupefatta quanto lui.
«Ne sono certa, signor Kaulitz. Grace Schneider non è stata né dimessa né…».
«La prego, chieda alle sue colleghe: magari il computer è guasto e…».
La donna gli rivolse uno sguardo compassionevole, muovendo lentamente il capo a destra e a sinistra.
Allora Bill si voltò, sull’orlo della disperazione, e vide Dylan fissare il suo cellulare con sguardo vacuo. Dopo qualche secondo alzò la testa e bastò davvero un solo sguardo per capire che né sua madre né Michael avevano sue notizie.
Quando gli fu vicino, gli prese la mano e tenendo gli occhi bassi mormorò: «Michael mi ha detto che sarebbe andato subito al suo appartamento, ma ho paura che…».
«Eccomi!», esclamò Molly, attraversando la sala d’aspetto. Dalle espressioni dipinte sui loro visi capì immediatamente che doveva essere successo qualcosa di grave, tanto che il suo sorriso scomparve com’era venuto e i suoi occhi divennero vigili ed attenti. «Dov’è Tom?».
Bill e Dylan si guardarono e un secondo dopo schizzarono lungo il corridoio, diretti verso quella che fino a poco prima era stata la camera di Grace, dove Tom era rimasto per tutto il tempo.
Durante il tragitto passarono accanto ad una ragazza, la quale, preoccupata, aveva fermato un’infermiera chiedendole con foga se avesse visto un cappellino da baseball blu scuro in sala d’aspetto, dove l’aveva sbadatamente dimenticato mentre lei e il suo ragazzo aspettavano il loro turno.
«Oh, come farò? Ci teneva moltissimo!», aveva persino piagnucolato, dopodiché Bill e Dylan, con Molly al seguito, erano passati oltre, fermandosi di fronte all’unica porta aperta. Tom era seduto sul letto sfatto di Grace, con lo sguardo fisso sul pavimento.
«Se n’è andata», disse mestamente, la voce lontana mille miglia.
«È impossibile, non avrebbe mai fatto una cosa del genere», ribatté Dylan e solo allora il chitarrista posò gli occhi colmi di lacrime su di lui, il viso che rispecchiava perfettamente il suo stato d’animo: un mix di dolore e rabbia.
«L’ho vista stamattina all’aeroporto. L’ho vista e non l’ho riconosciuta!».
«Tom…».
«Bill, te la ricordi la ragazza che mi è venuta addosso? Indossava un cappellino identico a quello che sta cercando la ragazza qui fuori! E non mi ha chiesto scusa, quando ci siamo scontrati, perché sapeva che avrei riconosciuto la sua voce! Era Grace, Bill! Era lei…».
Il cantante lo travolse in un abbraccio stretto, nascondendogli il viso rigato di lacrime contro il suo petto.
«Era Grace… Grace…». Tom continuò a mugugnare il suo nome per molto tempo, fino a quando non ebbe versato tutte le sue lacrime.

 

 

 

TRE SETTIMANE DOPO

 

«Ti prometto che quando questo caso sarà chiuso e mi prenderò una vacanza partiremo, solo io e te. E torneremo alle nostre origini».
Grace corrugò la fronte, stranita. «Le nostre… origini?».
Mitch sorrise raggiante, alzandosi e andando alla porta. «Sì. È molto importante ricordare chi si è, tornare nei posti in cui si è nati… È confortante. Soprattutto nei momenti difficili».

 
Tornare alle origini. Era quello che aveva fatto, ma non per trovare indizi che avrebbero incastrato gli assassini di suo padre. No, quella volta l’aveva fatto per se stessa, unicamente per se stessa, per capire chi era davvero e che cosa ne avrebbe fatto, d’ora in avanti, della sua vita.
Se quando aveva deciso di rinunciare alle indagini, dopo la sparatoria in cui era stato coinvolto Tom e dopo l’aggressione a sua madre, si era sentita in qualche modo sperduta, brancolante nel buio senza quel punto fermo, lo scopo che per anni era stato l’unico nella sua vita – dare giustizia a suo padre, – tre settimane prima si era sentita addirittura un’estranea nel suo stesso corpo, una persona svuotata, senza più niente da offrire e da poter ricevere.
La consapevolezza che non si era lasciata quel caso alle spalle di sua spontanea volontà, ma che era stato chiuso e risolto definitivamente, senza possibilità che potesse riprenderlo in mano come aveva fatto la prima volta, la stordiva ed era come se davvero non avesse più nessuna luce ad illuminarle la via che doveva percorrere. Era come un’astronauta galleggiante nello spazio infinito e sola, senza sapere dove e come muoversi.
In quel letto d’ospedale aveva pensato molto, però non aveva trovato risposta a nessuna delle sue domande. Così aveva deciso di seguire il consiglio di suo padre ed era tornata alle sue origini, a Berlino.
Il periodo di permanenza nella capitale della Repubblica Federale Tedesca si era prolungato: dalla settimana programmata era passato velocemente a due, poi a tre.
In quei venti giorni, trascorsi per la maggior parte tra le strade della città, sotto i monumenti che erano tanto piaciuti a Dylan, nei pub oppure semplicemente nella stanza della piccola pensione in cui aveva trovato un confortevole rifugio, aveva riflettuto su tutte le avversità che la vita le aveva messo davanti senza scrupolo, a quelle che aveva superato e a quelle in cui era inciampata, cadendo rovinosamente a terra per poi riuscire comunque ad alzarsi.
Aveva pensato a tutte le vite che aveva attraversato brevemente nel corso dei suoi anni da detective, come aveva fatto poco tempo prima nel suo ufficio, sistemando l’archivio dei suoi casi, e quelle in cui, invece, aveva sostato più a lungo, sentendosi amata e ricambiando quel sentimento. Aveva pensato a sua madre, aveva pensato ai suoi amici, a Bill, a Molly, a Andrew, a Dylan. Aveva pensato a Tom… E ogni volta trovava deplorevole il fatto che non avesse avuto il coraggio di fargli sapere che stava bene, che aveva solo bisogno di un po’ di tempo, prima di salire sull’aereo che l’avrebbe portata a Berlino.
Sapeva di aver agito egoisticamente, ma per una volta, una soltanto, era certa di aver agito per il meglio: purtroppo, nemmeno la presenza di Tom sarebbe riuscita a sollevarla. Doveva farlo con le sue sole forze, tornare in piedi da sola, o sarebbe rimasta sempre a terra, a guardarsi con pietà mentre conduceva una vita tutto sommato serena, grazie alle magnifiche persone che la circondavano immeritatamente, ma una vita non pienamente felice e completa. Prima doveva accettare che quella parte fondamentale della sua vita fosse stata chiusa e doveva lasciarla andare, altrimenti quella zavorra l’avrebbe accompagnata per sempre nel corso degli anni.
Era quello che aveva fatto durante quelle tre settimane: aveva lasciato andare suo padre, percorrendo le stesse vie che anche lui aveva solcato da ragazzo, gli stessi prati in cui lui aveva corso giocando a pallone, gli stessi bar dove lui si era ubriacato.
Suo padre e tutte le persone che avevano tentato di portare a galla il coinvolgimento di alcuni ufficiali della Marina Militare degli Stati Uniti nella vendita di armi ai terroristi iracheni avevano avuto giustizia, perché il killer, poi rivelatosi in quella donna asiatica, sopravvissuta ma paralizzata a vita su una sedia a rotelle, dal carcere aveva voluto portare a fondo con lei tutti quelli che l’avevano assoldata per sbrigare i loro crimini.
Aveva lasciato andare il caso e tutto il dolore che le aveva provocato, anche se ne avrebbe per sempre portato le cicatrici sulla pelle, sul cuore e nella mente, e aveva guardato al futuro, per la prima volta con chiarezza.
Aveva visto sua madre, di nuovo con il suo sorriso e i suoi biscotti; aveva visto Molly ridere con i suoi amici, Sheila e Ben, oppure abbracciata al suo nuovo fidanzato, Aiden; aveva visto Bill e Dylan, ormai non più timidi nel mostrare al mondo che erano una coppia; aveva visto Tom, il suo sorriso, i suoi occhi nocciola, caldi, amorevoli, divertiti, maliziosi, arrabbiati, e ancora incuriositi, ombreggiati dalla tristezza, lucidi di lacrime, ardenti di passione; aveva visto se stessa, accanto a lui, e aveva visto il bambino che prima o poi avrebbero avuto insieme, quello alla cui immagine nella sua mente si era aggrappata nei momenti peggiori, ad un passo dalla morte, quando non aveva altro che lui per sopravvivere.
Era stato proprio pensando a quel bambino non ancora venuto al mondo che, in una notte con la luna piena ad illuminare la Colonna della Vittoria, aveva capito chi era e che cosa voleva dalla sua vita.

 
La cima della Colonna della Vittoria era uno straordinario punto d’osservazione, dal quale si poteva vedere tutta Berlino e sentirsi allo stesso tempo un po’ più vicini al Paradiso.
Una folata di vento le scompigliò i capelli e Grace sollevò il viso verso il cielo bianco, annuvolato. Quindi abbassò gli occhi ed incrociò quelli castani di un uomo che nel profondo del suo cuore non era mai scomparso.
«Non credi sia il momento di tornare a casa?», le domandò, sorridendole dolcemente.
Grace annuì con un cenno del capo e si allontanò dal parapetto, per poi scendere lentamente le scale.
Una volta sbucata fuori dal sottopassaggio, gettò un ultimo sguardo alla statua di bronzo della dea Vittoria, con le sue ali spiegate verso un mondo di infinite gioie ed infiniti dolori. Sorrise nella sua direzione e poi si incamminò, dritta per la sua strada, senza badare se John Carter le stesse guardando le spalle o meno.

 

***

 

Bill salì al piano di sopra con passo strascicato, ancora po’ insonnolito, e si domandò perché mai Tom lo avesse svegliato solo per dirgli che usciva con i cani.
Stava per entrare nella sua camera e gettarsi sul letto per continuare la sua pennichella, quando vide la porta aperta in quella di suo fratello.
Era da tre settimane, esattamente da quando Grace se n’era andata, che Bill non entrava in quella camera, sotto tacito divieto di Tom.
Non avrebbe dovuto farlo, ma la preoccupazione prese il sopravvento e lo spinse ad introdurvisi con cautela, come se il suo gemello fosse lì seduto sul suo letto sfatto, pronto a cacciarlo fuori con irruenza.
Non vide nulla di diverso dal solito, tra cui il fatto che non fosse improvvisamente diventato ordinato, ma lo schermo acceso del suo PC portatile lo incuriosì, tanto che si sedette alla scrivania e levò lo screensaver muovendo il mouse.
Gli mancò il respiro, quando vide che Tom aveva creato una cartella con il nome di Grace. La aprì e al suo interno vide diverse foto di Tom e Grace, scattate dalla madre della ragazza prima che uscissero per il loro primo appuntamento, altre scattate dai paparazzi e persino alcuni video recuperati da Internet. Poi c’erano altre foto, molto differenti, che ritraevano una Grace bambina, imbronciata o sorridente, sull’altalena o che correva nel prato, e infine un primo piano con suo padre, un uomo che le somigliava in tutto e per tutto.
Le lacrime gli salirono agli occhi contemplando quella foto, tanto che dovette chiuderla per non pensare a quanto Grace gli mancasse.
A volte si sentiva soffocare non sapendo dove fosse, che cosa stesse facendo o se semplicemente stesse bene, e si rendeva conto che se lui stava così male non poteva nemmeno immaginare il dolore muto di Tom. Muto, perché mai fino ad allora si era lasciato andare di nuovo. Teneva tutto dentro di sé, coltivando la sua sofferenza in solitudine e in silenzio; si comportava e parlava come se non fosse successo niente, come se Grace non fosse mai esistita, ma Bill glielo leggeva negli occhi, in ogni momento, che gli mancava da morire: di mattina, se per caso gli capitava di sognarla durante la notte; di pomeriggio, se si soffermava a fissare un punto sul pavimento anziché guardare la TV o giocare coi cani; di sera, quando restava per interi quarti d’ora a fumare da solo, sotto il porticato nel giardino sul retro, sperando magari di veder spuntare i fasci di luce prodotti dai fanali del suo fuoristrada. E chissà, in quella camera in cui lui si era intrufolato come un ladro, quante volte aveva pianto la sua assenza, aveva soffocato le grida di rabbia, aveva fissato con aria assente la finestra.
Bill si sentì male improvvisamente, intruso in quell’ambiente in cui non gli era permesso entrare, e fece per chiudere la cartella e andarsene, quando si accorse dell’ultima foto presente, salvata da pochi giorni con il nome “Berlino”. La aprì e la fissò per qualche istante, come rapito: Grace che con un bicchiere di caffè in mano camminava nella piazza di fronte alla Porta di Brandeburgo.
Grace, a Berlino, beccata da chissà quale paparazzo fortunato. Tom sapeva che era a Berlino, città natale di suo padre, e non aveva fatto niente per raggiungerla.
In un attimo sentì la rabbia circolargli nelle vene, chiedendosi perché non si fosse precipitato da lei. Poi chiuse gli occhi e sospirò stancamente. «Oh, Tom…».
Rimase lì seduto ancora per qualche secondo, fino a quando il suono del citofono al piano di sotto non lo fece sobbalzare sulla sedia. Che Tom fosse tornato e si fosse dimenticato le chiavi?
Chiuse in fretta e furia la cartella, sapendo perfettamente che lo screensaver non sarebbe apparso se non tra una decina di minuti buoni. Non aveva tempo però per modificare l’opzione, quindi si morsicò l’interno della guancia ed uscì di corsa dalla camera, socchiudendo la porta così come l’aveva trovata.
Corse a precipizio giù dalle scale, per poi fermarsi bruscamente di fronte alle porte vetrate, gli occhi sbarrati dalla sorpresa e dall’incredulità.
Cercò con la mano il tasto per aprire il cancelletto e restò paralizzato sul posto mentre osservava quel miraggio attraversare il giardino sul retro: aveva il braccio destro fuori dalla manica della giacchetta di pelle marrone, ciondolante lungo il fianco, e sul viso un sorriso che racchiudeva l’emozione e la felicità di essere tornata a casa.
«Ciao, Bill».
«G-Grace…».
«Sì, sono io. Sono tornata». Gli avvolse il braccio buono intorno al collo in un timido abbraccio e sussurrò ancora: «Mi sei mancato».
Bill si morse le labbra, gli occhi ormai colmi di lacrime, e ricambiò con una stretta vigorosa, come se volesse accertarsi che fosse lì, in carne ed ossa.
«Oh Grace, non ci posso credere!».
«Sono qui, Bill, sono qui».
«Lo so, ma…». La scostò delicatamente per guardarla in viso e la sua espressione felice ed incredula mutò in una dispiaciuta. «Tom non c’è, è andato a fare quattro passi con i cani».
Grace annuì lentamente e poi gli rivolse un altro sorriso, anche se i suoi occhi erano velati da una pesante coltre di malinconia che li rendeva opachi ed insicuri.
Qualcosa era decisamente cambiato in lei: insieme ad una parte del braccio destro sembrava aver perso un altro pezzo di sé, tanto consistente da lasciarle un buco profondo nell’anima, che andava assolutamente riempito. Però, leggendo ancora più a fondo nel suo sguardo, notò con ammirazione che era consapevole, consapevole e sicura del fatto che non sarebbe stato facile, che aveva scelto da sé la difficoltà da affrontare e che intendeva andare fino in fondo, accanto a loro, accanto a Tom. Era per questo che era tornata.
«Dobbiamo aspettarlo qui in giardino oppure posso entrare?», gli domandò con tono scherzoso, facendolo sorridere mentre la stringeva in un nuovo abbraccio carico d’affetto.

 

***

 

Non te la darò vinta, Grace.
Lanciò ancora una volta la pallina da tennis e ne seguì la traiettoria fino a quando non finì tra alcuni cespugli, nei quali i due cani si erano tuffati per recuperarla.
Grace se n’era andata da tre settimane ormai e non gli aveva lasciato nemmeno un biglietto. Nemmeno un dannato biglietto.
La sua partenza improvvisa, o meglio la sua fuga, l’aveva, come dire, reso una specie di essere amorfo, tanto che per i primi due giorni si era rintanato nella sua camera rifiutandosi di mangiare e facendo preoccupare Bill a morte. Poi era riemerso e aveva fatto del suo meglio per somigliare almeno apparentemente al Tom di sempre. Ma quando calava la sera, oppure non aveva niente con cui distrarsi abbastanza, tornava a rifugiarsi nella sua camera e i suoi pensieri erano tutti rivolti a lei. Stava bene? Dov’era? Cosa faceva? Lo pensava ogni tanto? Si sentiva in colpa, almeno un po’, per averlo lasciato in quel modo? Quando sarebbe tornata?
Si era fatto molte teorie, aveva molto fantasticato, immaginando persino che avesse cambiato identità per iniziare una nuova vita, resettando quella precedente.
Poi quella foto della sua Grace a Berlino, scattata da una fan che l’aveva riconosciuta e l’aveva messa in rete.
Grace era tornata dove suo padre aveva vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza e allora aveva capito che sarebbe tornata. Prima o poi l’avrebbe fatto, ne era sicuro. Perché la sua Grace aveva bisogno di tempo per metabolizzare la fine di quel libro scritto da mani che non erano state quasi per niente le sue. Aveva bisogno di tempo anche per accettare l’inevitabile, ossia che d’ora in avanti avrebbe dovuto impugnare la penna della sua vita e farla scorrere su nuove pagine bianche. Doveva capire quali sarebbero stati i protagonisti della sua trama, tra cui anche la persona che lei stessa voleva essere. Poi sarebbe tornata da lui, nel peggiore delle ipotesi anche solo per dirgli che voleva ricominciare da zero. Nella migliore delle ipotesi, invece, sarebbe tornata da lui per dirgli che lo amava, che voleva stare con lui, e che insieme avrebbero saputo andare avanti, in qualche modo.
Era il suo più grande desiderio, ma col passare dei giorni aveva avuto anche lui il tempo per riflettere – David gli aveva concesso un po’ di tregua a causa di quegli eventi spossanti – e aveva deciso che non gliel’avrebbe fatta passare liscia. L’amava, l’amava tanto, ma qualcosa gli pungeva fastidiosamente il cuore al pensiero che non si meritava tutto quello che gli aveva fatto passare. Che cosa aveva fatto di male, che cosa c’entrava in quella storia, tanto da non essere nemmeno avvertito quando aveva deciso di partire per quella pausa di riflessione?
Se fosse tornata da lui rinnovando il suo amore non voleva fare la figura dell’idiota, di quello che l’aveva aspettata nonostante tutto, piangendo la sua assenza. Se fosse tornata sarebbe stato il suo turno nel tenerla a distanza, avrebbe fatto di tutto pur di farle provare almeno un minimo della sofferenza che aveva provato lui quando l’aveva estromesso dalla sua vita, mettendo in dubbio la cosa più importante di tutte: il loro amore.
Poteva sembrare una stupida ripicca, forse lo era davvero, ma non poteva sopportare che l’avesse fatto soffrire in quel modo mentre lei, magari, accarezzava l’idea di dimenticarlo, di cancellare in modo irreversibile tutto quello che avevano passato insieme.
«Andiamo a casa», mormorò allacciando di nuovo i guinzagli ai collari dei cani.
Prima però si sollevò e rimase in silenzio ad osservare il sole riflettersi sulla superficie frastagliata dell’oceano in un’infinità di scaglie argentate.
La sera del giorno di San Valentino, poco più di mese prima, aveva portato Grace in quello stesso luogo e lì, sulla stessa panchina dove era stato seduto fino a poco prima, lei gli aveva rivelato che doveva andare a Berlino, quella volta per indagare.
Scrollò il capo per allontanare quel ricordo, quello che Grace aveva definito scherzosamente «il momento romantico con il suo fidanzato», e si incamminò verso l’auto parcheggiata vicino all’imboccatura del sentiero che portava alla spiaggia.

 
Quando arrivò sullo sterrato di fronte al giardino sul retro vide con sua grande sorpresa l’auto di Dylan.
Ricordava perfettamente che a colazione Bill si era lamentato dicendo che quel giorno non lo avrebbe visto perché da quando Oswin aveva la gamba ingessata faceva i doppi turni, quindi… che ci faceva lì la sua auto?
Gettò un’occhiata all’interno, ma non riuscì a scorgere nessuno in salotto, oltre le porte vetrate. Quindi fece scendere rapidamente i cani, aprì il cancelletto e li spinse dentro il giardino, per poi avviarsi a passo svelto dentro casa.
Sentì delle risate e delle voci in cucina, ma non riuscì a distinguerle perfettamente le une dalle altre, dato che si sovrapponevano una volta sì e l’altra pure.
«Bill? Sono tornato», esclamò allora, anche se la sua voce tradì un certo nervosismo.
Tutto d’un tratto calò il silenzio, cosa che lo mise ancora di più sulle spine, e nello stesso istante vide il suo cane preferito correre verso la cucina, superandolo.
«Ciao bello. Ehi… no, non così vicino».
Quella voce. La sua voce.
Tom raggiunse la cucina con ampie falcate e una volta sulla soglia vide Dylan e Melanie seduti all’isola della cucina, di spalle alla porta, mentre Bill era di fianco al cane e tentava di tirarlo giù dalle gambe di Grace, sulle quali aveva posato le zampe anteriori, scodinzolando con la lingua fuori dalla bocca, felice di rivederla.
La detective alzò il capo nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono, facendo mancare un battito ad entrambi i loro cuori.
«Ciao, Tom», lo salutò con poca voce, la bocca impastata nonostante avesse bevuto tè e parlato normalmente fino a quel momento. «Come… come stai?».
Il chitarrista, con la netta impressione che la stanza avesse iniziato a girare intorno a lui e Grace, gli unici punti fermi, si aggrappò con la mano allo stipite della porta. «Bene», rispose meccanicamente. «Tu… quando sei arrivata?».
«Poco fa, eri appena uscito. Ho preso un taxi all’aeroporto e…».
«Avresti potuto chiamare», disse, ma subito dopo si morse la lingua: non avrebbe dovuto dirlo, non avrebbe dovuto farle intendere che lui sarebbe corso da lei se solo l’avesse avvertito del suo arrivo.
Sul viso di Grace si aprì un sorriso mesto e colmo di tenerezza. «Lo so».
Tom deviò il suo sguardo, a disagio, e la sua attenzione fu catturata dal suo cane che, nonostante i silenziosi rimproveri di Bill, continuava a leccare la mano destra di Grace, senza che lei lo sentisse. Non a caso se ne accorse solo quando vide quella punta di angoscia impregnargli gli occhi e ne seguì la traiettoria, abbassando il viso verso il cane.
«Per favore, Bill, allontanalo», lo supplicò e Tom intervenne, prendendo il cane per il collare e strattonandolo verso il salotto, per poi farlo uscire in giardino.
Non tornò in casa, si fermò sotto il porticato, dove si accese una sigaretta e ne aspirò avidamente il fumo.
Grace era tornata. Grace era in cucina, in carne, ossa e un braccio inutilizzabile.
Non riusciva a pensare ad altro e quella volta fu lui l’insensibile, letteralmente, perché non si rese conto che lo aveva raggiunto. La detective dovette chiamarlo a voce perché si voltasse e la vedesse seduta sulla panca, con la mano sinistra che lo invitava ad unirsi a lei.
Tom spense la sigaretta nel posacenere e la raggiunse, sedendosi accanto a lei ma non abbastanza da poterla sfiorare anche solo inavvertitamente. Aveva già fatto una gaffe, non intendeva farne altre, più convinto che mai a non dargliela vinta solo perché l’amava, gli era mancata da morire e aveva una monoplegia al braccio.
«Mi dispiace», gli disse come prima cosa, abbattendo il primo muro di quella sua di per sé effimera ripicca.
«Mi dispiace di essere andata via in quel modo, di non aver detto niente a nessuno… Ma non volevo farlo sembrare un addio».
«Perché, sparendo cos’è sembrato?», le domandò, meravigliandosi della sua voce metallica, inflessibile ad ogni emozione.
Grace però non gli diede la soddisfazione di averla spiazzata e con un sorriso appena accennato continuò: «Avevo bisogno di stare sola, di riflettere, di farmi un’idea su ciò che sarebbe potuto accadere in futuro».
«Potevi farlo anche da qui, non necessariamente dovevi andare a Berlino».
Quella volta sì che l’aveva sorpresa, glielo lesse negli occhi, assieme a quella tristezza che gli trapassò il cuore da parte a parte, tanto da farlo pentire di essersi girato.
«Una fan ti ha fatto una foto, l’ho vista su Google».
Grace sorrise di nuovo, quella volta divertita. «Tu cercavi mie notizie su Google?».
Un altro punto per Grace, mentre lui restava il campione assoluto di ammutinamento contro se stesso.
«Tom… Per favore, guardami».
Il chitarrista sospirò e non poté dirle di no, così si voltò e fissò gli occhi nei suoi, due splendidi smeraldi che mai aveva visto così traboccanti di dispiacere e d’amore.
«Ti capisco, se sei arrabbiato per come ho agito, ma non lascerò che tu mi butti fuori a calci, non prima di averti detto che ho pensato a te tutti i giorni, che sentivo la tua mancanza tutte le notti. Sapevo però di non poter tornare, se prima non voltavo pagina. Non avresti potuto ottenere nulla da me, ridotta com’ero tre settimane fa. Avevo bisogno del mio spazio, di ricomporre i pezzi di me andati in frantumi nel corso degli anni e lasciati alla deriva. Ma tu, Bill, Dylan, Molly… siete stati gli unici pezzi che non ho toccato, che erano perfetti nonostante i loro piccoli difetti. Nessuno sarebbe in grado di incrinarli, quelli, perché siete voi che me li avete messi dentro a forza, contro la mia volontà, e non vi ringrazierò mai abbastanza per averlo fatto. Senza quei pezzi sarei andata davvero in frantumi, invece pensando a voi costantemente sono riuscita a sistemare le cose e ora conosco la persona che sono».
Tom capì che era inutile, completamente inutile, tentare di erigere delle barriere contro di lei. Era la più forte, aveva già vinto quando gli aveva detto che le era mancato e che lo aveva pensato, perciò ancora prima che facesse tutto quel discorso da far venire le lacrime agli occhi.
Abbandonata l’idea di non perdonarla per un po’, le posò le mani ai lati del viso e le accarezzò i capelli che eccezionalmente teneva sciolti e le sfioravano le guance. Osservò le sue efelidi, sicuro che non ne mancasse proprio nessuna, poi scese sulle sue labbra e le sfiorò con il pollice.
«La tua identità… è sempre stata un mistero, sempre», mormorò ad un palmo dal suo viso, gli occhi languidi.
«Il mio nome è Grace Schneider, figlia di Mitch Schneider e Melanie Moore, e l’unica cosa che desidero al mondo, che Dio mi fulmini in quest’istante, è stare con te, Tom Kaulitz, perché ti amo».

Al diavolo, non ce la faccio!
Tom lasciò che fosse il suo cuore a scegliere per lui e la baciò, traendo finalmente un respiro di sollievo.
Forse, mettendo da parte quel rancore infantile e il suo inutile orgoglio, era riuscito a recuperare e aveva meritatamente vinto la sua parte di felicità.

 

 

_______________________________

 

Beh, che dire? :')  Spero tanto che questo penultimo capitolo vi sia piaciuto e aspetto di sentire i vostri pareri, magari in una piccola recensione!
Ringrazio tutti, ma davvero tutti, per essermi rimasti accanto durante questi mesi e per aver apprezzato questa mia piccola opera di fantasia e cuore. Ci sarà tempo per i ringraziamenti veri e propri la prossima volta, quando posterò l'epilogo, ma volevo portarmi un po' avanti :)
Non so davvero che altro dire, quindi vi lascio. A domenica prossima con l'epilogo, non mancate! 
Con affetto, vostra

_Pulse_

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Capitolo 32
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

“When I see my face in the mirror,
we look so alike that it makes me shiver…
I still look for your face in the crowd,
oh if you could see me now
Would you stand in disgrace or take a bow?
Oh if you could see me now…”

(If you could see me now – The Script)

 

Grace rotolò nel letto alla ricerca del corpo caldo di Tom, ma quando sentì il materasso freddo e le lenzuola stropicciate si ricordò che quella mattina era uscito presto perché aveva del lavoro da sbrigare con il team della band, impegnato ad organizzare il tour mondiale.
«Magari seguiremo la sua vita da rockstar quando ci saranno dei concerti qui negli Stati Uniti», bisbigliò dolcemente, sorridendo verso il soffitto ed accarezzandosi il ventre ancora piatto con le dita della mano sinistra.
Lei e Tom ne avevano parlato a lungo. Entrambi sapevano che tutti quelli che li conoscevano li avrebbero presi per pazzi: insomma, era passato solo un anno dal loro primo incontro e già volevano prendersi quelle responsabilità!? Beh, sì, lo volevano.
Sapevano anche che quello non sarebbe stato il momento ideale per avere un figlio, ma Grace era convinta e determinata più che mai a voler vivere le gioie e i dolori della maternità e lui non aveva saputo dirle di no, contando sul fatto che in nove mesi il tour sarebbe bello che concluso e avrebbe potuto starle vicino almeno per l’ultimo periodo, quando la sua pancia avrebbe assunto le dimensioni di un pallone da basket.
Così si erano dati da fare, in quei mesi che susseguivano il suo ritorno a Los Angeles, e da circa una settimana aveva scoperto che avevano fatto centro: avrebbero avuto il loro bambino, sarebbero diventati genitori, e l’amore che provava per quell’esserino ancora piccolo come la capocchia di uno spillo era già immenso, tanto da farle scoppiare il cuore di gioia ogni volta che ci pensava. Non stava più nella pelle al pensiero di vederlo – o vederla – con i suoi occhi, di cullarlo tra le braccia mentre cercava il suo seno, di essere svegliata a tutte le ore della notte dai suoi striduli vagiti, di perdersi nei suoi occhi blu scuro che poi forse – lo sperava così tanto! – sarebbero diventati verdi come i suoi, come quelli di suo padre, senza nulla togliere alla bellezza del nocciola degli occhi di Tom.
«O magari anche in Europa! Mi piacerebbe vedere Roma, Vienna, Parigi, Madrid… Che ne dici?».
Scese dal letto posando entrambi i piedi sul pavimento lucido e senza togliere la mano sinistra dal ventre si diresse verso il bagno, lo stesso bagno dove, dopo aver fatto per l’ennesima volta il conto dei giorni di ritardo del ciclo, aveva fatto il test e aveva scoperto di essere incinta.
Non aveva ancora trovato il momento adatto per dirlo a Tom, anche se a volte era stata lì lì per annunciargli la lieta novella e altre volte aveva avuto come la sensazione che lui sapesse, che glielo avesse letto negli occhi, o tra le labbra incurvate all’insù in un sorriso estasiato, che gli nascondeva qualcosa di bello.
Da un lato ardeva di impazienza e fremeva al solo pensiero di pronunciare quelle parole: le ripeteva per ore nella sua mente, pregustandone il sapore dolce e allo stesso tempo salato a causa delle lacrime di felicità che le avrebbero solcato le guance.

Tom, aspetto un bambino. Tom, aspetto un bambino. Tom, aspetto un bambino…
Dall’altro amava custodire quel segreto, come se fosse la prima delle tante sorprese che in futuro lei e suo figlio avrebbero organizzato per lui, magari per il suo compleanno, per il suo onomastico oppure per la festa del papà.
Scese in salotto ed accese la TV giusto per non sentirsi sola in quella villa troppo grande per una persona sola. Quindi entrò in cucina e si versò un po’ di caffè in una tazza di ceramica, quella che era diventata ufficialmente la sua tazza da circa due mesi, cioè da quando era stata convinta a trasferirsi a casa dei gemelli.
All’inizio la proposta che le avevano fatto di andare a vivere con loro due le era sembrata una cosa impensabile, perché nel suo ideale di famiglia, per quanto avesse potuto beneficiarne, c’erano un uomo, una donna e poi i loro pargoletti. In realtà prima di allora non aveva mai preso in considerazione la possibilità che lei e Tom potessero convivere, lei e lui da soli, ma le sembrava sicuramente la cosa più ragionevole, più normale, in confronto alla prospettiva di vivere con Bill e praticamente anche con Dylan, dato che raramente, proprio come lei aveva fatto prima di trasferirsi, tornava al suo appartamento.
Alla fine però aveva realizzato che i due gemelli non avevano ancora alcuna intenzione, per il momento, di smettere di condividere tutte le ventiquattro ore del giorno e aveva accettato.
In poco tempo era riuscita a dare in affitto ad una giovane coppia (che coincidenza) il suo appartamento, da cui aveva portato via solo i suoi oggetti personali e la lampada posata sul suo comodino, a cui era affezionata, e aveva traslocato nella stanza di Tom, il quale le aveva pure fatto posto nel suo armadio strapieno di vestiti, promettendole che ne avrebbero comprato uno più grande quanto prima.
Un giorno, non molto tempo dopo, erano andati in un negozio di arredamento e avevano fatto la loro scelta, insieme. Uscita dal negozio, Grace non aveva mai lasciato la mano di Tom e lo aveva osservato di profilo, pensando che un giorno, prima o poi, avrebbero fatto la stessa cosa per riempire la loro casa.
Tutto sommato però non le dispiaceva condividere quei grandi spazi con altre due persone, a cui peraltro voleva così tanto bene, e si era abituata presto, felice di poter sempre parlare, ridere, scherzare o litigare con qualcuno. Tranne quando tutti erano a lavorare e lei si trovava sola in casa, indecisa se saccheggiare la libreria cinematografica di Bill e Tom oppure pulire i pavimenti, da brava donna di casa.
Attualmente poteva “vantarsi” di essere un numerino nelle preoccupanti statistiche sui disoccupati negli Stati Uniti e allo stesso tempo di vivere nell’agiatezza della donna mantenuta. Non che questo la rendesse felice, anzi: ogni volta che ci pensava si diceva che doveva cercarsi un lavoro per contribuire alle spese della loro famiglia allargata, anche se per ora poteva ancora usufruire della piccola somma (perché ventimila dollari erano una piccolezza per lui) che il magnate della finanza Mr. McNab le aveva versato sul conto in banca come ringraziamento per aver reso giustizia al padre del suo caro nipote.
Aveva deciso di lasciare per sempre il mondo delle investigazioni e aveva messo in vendita quello che prima di diventare suo era stato l’ufficio di suo padre, dove aveva esercitato la sua professione fino alla morte. Non poteva più condividere con lui quel mondo fatto di violenza, col rischio di finire in un circolo vizioso simile a quello che l’aveva quasi disintegrata, tanto che aveva sentito l’esigenza di staccarsene con un taglio netto, come un neonato viene separato dalla madre con una sola sforbiciata al cordone ombelicale.
Proprio per quel motivo aveva rifiutato la succulenta offerta che Michael Crawford le aveva fatto, un’offerta che forse un tempo non avrebbe esitato ad accettare.
Dopo aver fatto colazione osservando il frigorifero tappezzato da tutte le belle cartoline che Tom, nonostante tutto, le aveva portato dal tour promozionale dei Tokio Hotel, optò per fare un po’ di ordine in casa.
Iniziò dalle camere da letto, cambiando le lenzuola e raccogliendo i vestiti da lavare che non le avrebbero tolto tante energie, se solo i gemelli li avessero ficcati subito nel cesto in bagno invece di lasciarli sparsi qua e là, come a marcare il loro territorio. Fece partire la lavatrice e poi, visto che il braccio destro intorpidito iniziava a darle qualche fastidio, in salotto decise soltanto di passare l’aspirapolvere sul tappeto pieno di briciole di ogni tipo e di sistemare i cuscini sui divani.
Una volta finito, col viso un po’ arrossato per il caldo e i capelli sfuggiti alla coda che le sfioravano le guance, si lasciò cadere sulla morbida pelle di uno di essi e sospirò, accarezzandosi il braccio attraversato da piccole scosse.
La paralisi non era del tutto guarita, come non era tornato ad essere completamente sensibile: in particolare, continuava a non avvertire alcun dolore, e forse non ne avrebbe mai più sentito, nei punti in cui i denti del rottweiler erano entrati in profondità nella carne. Doveva ammettere però che col tempo il suo braccio aveva dato segni di miglioramento, muovendosi prima meccanicamente, quasi a sobbalzi, poi in modo leggermente più fluido, tanto da permetterle di chiudere e di aprire le dita della mano a suo piacimento.
C’erano giorni in cui riusciva a muoverlo a malapena e lo sentiva pesante come piombo lungo il fianco; altri in cui, invece, lo muoveva senza molti sforzi, anche se in modo limitato a causa dei formicolii o della debolezza dei muscoli.
Sorrise, pensando alla sera in cui per la prima volta aveva sentito qualcosa correrle sulla pelle, una specie di brivido, quando Tom l’aveva accarezzato con dolcezza, quasi soprappensiero.
Era sobbalzata sul divano, facendo spaventare sia lui che Dylan, sedutosi al suo fianco quando Bill si era alzato per andare a prendere un pacchetto di patatine in cucina, e aveva gridato, con un misto di gioia e di sconcerto nella voce: «Ho sentito qualcosa! Tom, fallo di nuovo, ho sentito qualcosa!».
Il chitarrista l’aveva accontentata non osando chiederle niente e Grace aveva chiuso gli occhi, avvertendo di nuovo quel formicolio sulla pelle mentre percepiva, anche se in modo molto lieve, la callosità dei suoi polpastrelli.
La fede che i dottori l’avevano pregata di avere nell’attesa quella sera si era accesa nel suo cuore e per la prima volta aveva sperato sul serio che un giorno potesse tornare a muovere entrambe le braccia e le mani in modo se non uguale almeno simile, nonostante si fosse ormai abituata ad utilizzare la mano sinistra per qualsiasi cosa. Aveva persino imparato a scrivere da mancina!
Lo squillo del telefono la fece tornare alla realtà e si alzò per raggiungere il cordless posato sull’isola della cucina.
«Pronto?».
«Grace, tesoro, ciao».
«Ciao mamma! Tutto bene?».
«Sì, benissimo. Tu piuttosto, come stai? Mangi regolarmente? Bevi tanta acqua? È importante, sai? Ora che siete in due…».
«Sì, mamma, lo so e faccio del mio meglio», rispose, ridacchiando delle sue premurose e a volte anche un po’ assillanti raccomandazioni. Ma non poteva fare altrimenti, Nonna Melanie, già in apprensione e decisa a fare di tutto perché il suo nipotino nascesse sano e forte.
Se fino a quel momento era riuscita a mantenere il segreto con Tom, con sua mamma non ne era stata in grado, forse perché non aveva fatto abbastanza attenzione o forse semplicemente perché una figlia non può nascondere nulla agli occhi della propria madre.
L’aveva smascherata subito: il tempo di farla entrare in casa e di versarle un bicchiere di tè freddo e l’aveva costretta a confessare, tra gridolini, lacrime di gioia e la promessa che non avrebbe rivelato il suo segreto a nessuno, nemmeno a Lionel.
Da quando il caso era stato chiuso l’ex-marine non correva più alcun pericolo. Con sua grande soddisfazione era uscito dal Programma Protezione Testimoni dell’FBI e aveva cercato di riprendere in mano la sua vita, ora che anche lui poteva ritenersi soddisfatto dell’operato della giustizia. Ma era stato comunque un duro colpo venire a sapere che persino l’uccisione di sua moglie e di sua figlia era stata pianificata dall’alto, in modo tale che venissero accusati due ignari cittadini iracheni caduti in un’orribile trappola e morti in carcere in modo molto sospetto, tanto da far supporre alle autorità che erano stati volontariamente uccisi perché non dicessero la verità.
Era tornato a casa sua, anche se ancora convalescente, e Grace, sfogando le sue preoccupazioni con la madre – aveva paura infatti che soffrisse di solitudine e si trovasse in difficoltà con le piccole cose di ogni giorno – aveva in qualche modo fatto scattare un processo i cui effetti erano visibili continuamente, negli occhi luminosi di Lionel o nel sorriso sereno di Melanie.
La donna da quel giorno si era occupata personalmente di fargli visita tutte le mattine, per tenergli compagnia oppure per preparargli un pranzo decente, tanto che alla fine gli aveva proposto di stabilirsi a casa sua, solo per un po’, fino a quando non si sarebbe rimesso completamente.
Grace non aveva reagito male, anche se si era trovata un pochino disorientata nel vedere Lionel gironzolare in casa di sua madre come se fosse la sua, così tranquillo e felice, e ogni volta, scrutando di nascosto i loro visi, non sapeva dire se la loro fosse solo una forte amicizia oppure qualcosa di più. Preferiva non pensare a Lionel come suo futuro patrigno, le bastava sapere che stando insieme, contando sulla presenza e il sostegno dell’altro, riuscivano ad alleviare i dolori del loro passato tormentato.
«L’hai detto a Tom?».
«Cosa?».
Melanie abbassò la voce ed esclamò: «Del bambino, cos’altro?».
«Ah, ehm… no, non ancora».
«Ma che cosa stai aspettando, amore? Hai forse paura della sua reazione?».
«No, no, assolutamente! Abbiamo deciso di volerlo insieme, non è venuto per caso».
«E allora…?».
«È che voglio che sia indimenticabile!».
Melanie rise in modo genuino. «Oh, tesoro, come se si potesse dimenticare una cosa del genere!».
Grace sorrise ed ammise che dopotutto aveva ragione: nessun padre avrebbe dovuto dimenticare il momento in cui aveva saputo che entro nove mesi avrebbe visto suo figlio.
«Facciamo così», disse ancora. «Siete tutti invitati a cena, questa sera. Sarà l’occasione perfetta!».
«Okay, allora…».
«Vedrai, Grace, sarà entusiasta! Adesso convinco Lionel ad accompagnarmi a fare la spesa, preparerò una cenetta coi fiocchi! Ah, invita anche Molly, mi raccomando!».
Grace non poté far altro che sorridere, col cuore leggero come una piuma, all’entusiasmo travolgente di sua madre. Erano anni che non la sentiva così felice ed era un vero piacere sapere di esserne una delle motivazioni.
Una volta terminata la chiamata con sua madre si trovò a tremare d’emozione e dovette sforzarsi per tenere a bada tutta la sfilza di sentimenti positivi di cui si sentiva colma fino all’orlo, tanto da rischiare di scoppiare da un momento all’altro.
Si portò una mano sul ventre e per l’ennesima volta lo accarezzò dolcemente, sussurrando parole d’amore al suo piccolo grande tesoro.

 

***

 

«Wow, come sei elegante!».
Tom si voltò verso le scale e seguì lo sguardo di Bill fino a posare gli occhi sulla figura aggraziata di Grace: indossava un abitino di raso grigio perla, dalle linee pulite e con un’arricciatura sul fianco destro – il regalo di bentornata a casa e di pronta guarigione da parte di Molly e in generale da tutta la famiglia Delafield.
Grace abbassò lo sguardo e si concentrò sulla rampa di scale, imbarazzata e sorridente allo stesso tempo.
Quando finalmente tornò a sollevare il viso, Tom rimase quasi senza fiato vedendo la luce di mille stelle brillare nei suoi occhi ridenti.
«Andiamo?».
Il chitarrista si limitò ad annuire, incapace di articolare una frase di senso compiuto, e le offrì il braccio, al quale la ex-detective si aggrappò con la mano destra, mettendocela tutta per stringerlo forte.
Salirono tutti e tre sull’Audi di Tom e Grace si stupì ancora una volta pensando che il suo fuoristrada non c’era davvero più. Non poteva tenerlo, aveva troppi anni sulle spalle, o meglio, sul motore, e troppi ricordi legati a suo padre, a partire da quando gliel’aveva comprato e le aveva impartito le prime lezioni di guida. In linea con la sua decisione di staccarsi dal passato, quindi, aveva deciso di rottamarlo e ora, parcheggiata sulla via parallela al giardino sul retro della villa, c’era la sua nuova auto da città, con il lettore CD, l’aria condizionata funzionante e persino il tettuccio apribile.
In poco tempo raggiunsero la casa di sua madre e con stupore dei gemelli notarono che anche Melanie si era messa in ghingheri, con un vestito di cachemir bordeaux, i capelli rossi che le ricadevano spumosi sul decolté adorno di una collana di perle e un mezzo sorriso piuttosto enigmatico sul viso, tra l’eccitato e l’impaziente.
A Tom non sfuggì nemmeno l’occhiata d’intesa che madre e figlia si scambiarono sull’uscio di casa, mentre lui e Bill entravano in salotto. Era certo che gli stessero nascondendo qualcosa e che quella non fosse una serata come le altre, ma non poteva nemmeno lontanamente immaginare la sorpresa che gli avevano riservato.
«Ah, mamma, Molly questa sera aveva già un impegno e quindi ci raggiungerà più tardi. Ha detto che porta il dolce».
Melanie unì le mani di fronte al petto. «Quella ragazza è un angelo! Sa quanto mi piacciono i dolci di quella pasticceria e ogni volta ne porta uno diverso!».
Grace annuì ed incrociò per un attimo lo sguardo indagatore di Tom, rivolgendogliene uno di traverso, mentre gli faceva una smorfia.
Il chitarrista aprì la bocca in una O di sorpresa ed inscenò un inseguimento tra le poltrone e il divano in salotto, dove c’era Lionel intento a guardare alla TV un quiz a premi.
«Ragazziiiii», li ammonì dolcemente, per poi sporgere una gamba nel tentativo di fare uno sgambetto a Tom.
«Non lo sai che bisogna sempre darla vinta alle donne?», aggiunse, ora guardandolo con un’espressione divertita.
«Oh, lo so meglio di chiunque altro», rispose Tom, ridacchiando mentre incontrava di nuovo lo sguardo della sua Grace, ancora tanto luminoso da essere in grado di eclissare la luna.
«Tutti a tavola!», urlò Melanie e Lionel fu il primo ad alzarsi e a correre in cucina, ormai dipendente dei suoi manicaretti.
Lionel si sedette a capotavola, alla sua destra Bill e Dylan e alla sua sinistra Melanie e Grace, mentre Tom si trovava all’altro estremo del tavolo e guardava in faccia l’ex-marine, stringendo la mano dell’ex-detective al suo fianco.
Fu una normale cena di famiglia, per quanto la loro famiglia potesse ritenersi normale; risero e scherzarono per la maggior parte del tempo, sfruttando le pause per lodare Melanie, una cuoca squisita.
Il momento clou della serata, però, ebbe inizio soltanto con l’arrivo di Molly e dell’ormai inconfondibile confezione della pasticceria di fiducia della famiglia Delafield, capace di fare piccoli miracoli.
Grace, seduta in salotto accanto a Bill, l’aveva vista entrare in tutto il suo splendore, avvolta in un abitino a righe stile navy, con gli occhi luccicanti di felicità e i capelli biondi e boccolosi che le incorniciavano il viso. Era stata con Aiden per tutto il pomeriggio, era fin troppo facile capirlo.
Alla fine Molly aveva compiuto la sua scelta: aveva capito che non avrebbe mai potuto costringerlo a volerla al suo fianco e si era fatta da parte, per quanto il suo amore per lui non fosse cosa facile da reprimere. Per un paio di mesi si era accontentata di vederlo a lezione, di essergli amica quando raramente si fermava al loro tavolo a mensa; si era fatta bastare gli sguardi fuggevoli che le lanciava dal suo armadietto in fondo al corridoio. Poi, finalmente, Aiden aveva ceduto: aveva smesso di imbracciare le armi in quella guerra impari – l’amore che riservava a Molly contro la sua paura di non poterle offrire tutto ciò che desiderava – e si era arreso, conscio che non sarebbe durato a lungo comunque, vedendo il suo sorriso solare brillare così raramente per colpa sua. Aveva fatto un piacere a lei, ricambiando il suo affetto, ma ne aveva fatto anche a se stesso, più di quanto avesse mai creduto e voluto.
«Grace, te l’ho già detto che quel vestito ti sta che è una meraviglia?», disse Molly, baciandole una guancia. «Ora però vorrei sapere qual è l’evento che dobbiamo festeggiare».
«Festeggiare?», ripeté Tom, confuso, guardando prima l’una e poi l’altra.
Molly si coprì la bocca con la mano, chiedendo con gli occhi se avesse combinato un guaio, ma Grace la rassicurò con un sorriso affettuoso.
«Lionel, tira fuori lo spumante, presto!», bisbigliò Melanie all’uomo, dandogli incessanti colpetti sulla spalla, costringendolo così ad alzarsi dalla sua poltrona e a ciabattare verso il frigorifero senza diritto di replica.
«Che cosa sta succedendo, Grace?», domandò ancora Tom, notando che improvvisamente era calato il silenzio e tutti gli sguardi erano puntati su di lei, in piedi al suo cospetto.
«Tom, ricordi quando ti ho detto che Michael mi aveva proposto di diventare un’agente speciale dell’FBI?».
«Sì, certo», rispose, sollevando un sopracciglio. «Hai detto che era il tuo sogno sin da bambina, ma hai rifiutato perché non volevi avere più nulla a che fare con il crimine».
«È tutto vero, ma temo di averti celato un’altra motivazione».
«Non volevi trasferirti in Virginia per l’addestramento?», intervenne Dylan, nervoso.
Grace scosse il capo e socchiuse dolcemente gli occhi, porgendo entrambe le mani a Tom. Il chitarrista le strinse forte, come se fossero la sua unica ancora di salvezza durante una tempesta marina.
«In realtà, gli ho detto che non potevo accettare la sua offerta perché avevo una persona, una persona molto speciale, a cui pensare e di cui occuparmi».
«Okay, ci rinuncio, non riesco a capirla», mormorò Dylan, chino verso Bill, l’unico che forse, forse, aveva intuito qualcosa.
«Grace…», balbettò Tom, a disagio.
Allora lei, con tono ancora più dolce, disse: «Tom, aspetto un bambino».
Di nuovo, il silenzio calò su di loro come una coperta bagnata, pesante, e il tempo parve fermarsi, cristallizzando tutti quanti nelle loro ultime espressioni e posizioni.
All’improvviso Tom si alzò e la travolse in un abbraccio, stringendola forte a sé con una mano tra i suoi capelli e la bocca vicina al suo orecchio, con la quale iniziò a sussurrarle ininterrottamente: «Ti amo, ti amo, ti amo…», mentre la bolla d’immobilità in cui erano stati tutti rinchiusi scoppiava e altre voci gioiose, altri rumori scoppiettanti, li avvolgevano.
Grace, aggrappata alla sua schiena con il solo braccio sinistro, perché quello destro era tutto un tremito, sbatté più volte le palpebre per mandare via le lacrime di commozione, ma non ci riuscì, allora le nascose contro la sua spalla assieme al suo sorriso intriso d’amore.
Non ci fu bisogno di altre parole, ricevette tutto quello che poteva desiderare da quell’abbraccio e da quelle parole sussurrate all’orecchio, dal suono eterno, inattaccabile e puro, tanto bello da far male al cuore.

 

«Bill e Molly si sono ripresi, anche se ci sono voluti due bicchieri di spumante».
Il chitarrista si voltò e le andò incontro, accarezzandole le braccia protette dalle maniche del cardigan nero che sua madre l’aveva costretta ad indossare prima di uscire in giardino per raggiungerlo.
«Torna dentro, potresti prendere freddo».
Grace sollevò il sopracciglio destro con un sorriso divertito sulle labbra e alzò lo sguardo verso il cielo punteggiato di stelle.
«Freddo, in estate?», scrollò il capo. «Vi ringrazio, siete davvero premurosi, ma non vi sembra di esagerare un po’?».
Tom arrossì, protetto dal buio della notte rischiarato soltanto dalla luce della luna e da quella proveniente dall’interno della casa, che usciva dalle finestre e disegnava figure sempre nuove sull’erba.
Il suo sguardo fu catturato dalla cenere della sua sigaretta che cadde ai suoi piedi senza che lui facesse nulla. Si affrettò a spegnerla nel posacenere sul davanzale, accanto ad una piantina di gerani.
«Ecco perché da una settimana a questa parte dicevi di voler smettere di fumare», realizzò improvvisamente, accennando un sorriso.
Grace annuì stringendosi nelle spalle, poi gli legò le braccia intorno alla vita, posando il mento contro il suo sterno.
I suoi occhi erano più luminosi che mai e Tom non poté che restarne affascinato, muto di fronte alla loro bellezza.
«È tutto vero», bisbigliò dolcemente, più a se stessa che a lui. Quindi gli prese una mano e l’adagiò sul suo ventre ancora piatto, sopra il raso del vestito. «Spero che sia maschio».
«Anche io», convenne Tom, baciandole la fronte. «Ma non mi dispiacerebbe nemmeno avere una piccola Grace tra i piedi».
L’ex-detective ridacchiò e sospirò sognante, immaginandosi ancora una volta il loro bimbo.
«Se è maschio lo chiameremo Tom Junior?».
Gli tirò un pugnetto sul petto, dandogli dello scemo, e il chitarrista soffocò una risata sulle sue labbra.
«Però mi piaceva fare l’amore tutte le sere», le disse ancora, quando si scostò, senza aver abbandonato quel suo sguardo beffardo e un po’ malizioso.
«Nessuno ci vieta di smettere», lo rassicurò sogghignando e tornò a baciarlo, mettendosi in punta di piedi e prendendogli la nuca con la mano sinistra.
La porta finestra alle loro spalle si aprì di scatto e loro si separarono, anche se continuarono a restare abbracciati mentre Dylan allungava il collo nella loro direzione.
«Mi dispiace interrompere la prima riunione da futuri genitori, ma ora che ci siamo tutti possiamo brindare! Venite?».
Tom e Grace annuirono e lo seguirono all’interno, dove videro Michael e Andrew, già con i loro bicchieri di spumante in mano.
«Michael! Andrew!», esclamò la ragazza, correndogli incontro per abbracciarli a turno.
Gettò un’occhiata riconoscente a Dylan, l’unico che avrebbe potuto avvisare l’agente dell’FBI e l’agente della omicidi, i suoi amici. Il poliziotto le fece l’occhiolino portandosi due dita alla fronte, in una specie di saluto militare, nel quale erano racchiuse tutte le parole e gli auguri che non le avrebbe mai detto a voce. Quindi tornò a stringere Bill per la vita e a farsi imboccare.
«Ehi, anche io voglio la torta!», protestò, ma nello stesso momento Molly comparve di fronte a lei e le porse la sua fetta, accompagnata da un bicchiere di spumante fresco.
Le sorrideva radiosa e un po’ commossa, con gli occhi lucidi e le guance arrossate. «Non posso credere che voi due siate giunti fin qui. Ti ricordi quando dicevi di non sopportarlo più, che volevi smettere di pedinarlo per conto mio? E adesso guardati, aspetti un bambino e sei bellissima».
Grace le prese il volto tra le mani e le baciò la fronte. «Grazie, amica mia. Ti devo più di quanto tu possa immaginare».
Molly tirò su col naso, scuotendo timidamente il capo, e le passò la torta e il flûte, per poi voltarsi e raggiungere gli altri nel bel mezzo del salotto.
«Tesoro, vieni!». Sua madre le fece segno di avvicinarsi e l’ex-detective si strinse tra lei e Tom, il quale le avvolse le spalle con un braccio.
Melanie sollevò il suo bicchiere di spumante e guardò la figlia con gli occhi traboccanti d’orgoglio e d’emozione.
«A Grace, la luce dei miei occhi. Ringrazio il cielo per avermi dato una figlia come te e sono certa che anche il vostro bambino sarà fiero di averti come mamma. Tuo padre sarebbe…», la voce le tremò e Lionel le accarezzò il braccio, sorreggendola contro il suo fianco.
«A Grace», ripeté l’uomo, prima di far scontrare i bicchieri e di bere il primo sorso.
«E a Tom», disse poi Dylan, guardandolo di sbieco. «Un bravo amico e, si spera, un bravo padre».
Bill gli tirò una gomitata nel fianco, sorridendo, e aggiunse: «Ti voglio bene, fratellone».
Brindarono ancora e ancora, al bambino, maschio o femmina che fosse, perché la loro fosse una vita felice e piena di salute e all’amicizia, il legame più forte quando anche l’amore vacilla. Quando fu il turno di Andrew però rimasero tutti di stucco, mentre Dylan arrossiva e si passava una mano sulla nuca.
«A Dylan, alla sua promozione alla omicidi!».
«Come?», esclamò Grace, colpita.
«Io, ecco… Era da un po’ che mi frullava nella testa, così ho chiesto il trasferimento e…».
«Ma è fantastico, Dylan! Perché non ci hai detto niente?».
«Volevo che fosse una cosa certa, prima. L’ho saputo solo stamattina… E poi non mi sembrava giusto rovinare la vostra serata per questa sciocchezza».
Grace gli si parò davanti e per un momento ebbe paura che lo prendesse a schiaffi, ma poi un sorriso si aprì sul suo viso luminoso e lo abbracciò, rimproverandolo e facendogli mille congratulazioni.
Ma fu Bill a sorprendere tutti ancora una volta, perché una volta che Grace si fosse allontanata gli saltò in braccio e lo baciò sulle labbra, lì di fronte a tutti, sotto gli occhi un po’ sconvolti di Lionel e Crawford, quelli inteneriti di Melanie e Molly e quelli divertiti di Tom e Grace, che a stento trattenevano le risate.
Ad un tratto l’ex-detective, guardando tutte quelle meravigliose persone intorno a lei, realizzò quanto fosse stata fortuna.
Pensò alla sua vita prima che Molly la ingaggiasse per pedinare il chitarrista della sua band preferita, i Tokio Hotel. Prima di allora non aveva nessuno, era sola al mondo, e l’unico vero amico che aveva era Dylan, ma anche lui lo vedeva raramente. Poi aveva conosciuto Bill, Tom, di cui si era innamorata, la stessa Molly, aveva recuperato i rapporti con Dylan e sua madre… E ancora Michael, Andrew, Bryant, il quale alla fine si era redento davvero, sacrificandosi per salvare la maggior parte degli agenti coinvolti in quella maledetta operazione; Lionel e Carter, gli unici amici che non avevano mai pensato di tradire suo padre e che alla fine l’avevano aiutata a dargli giustizia.
La sua famiglia dilaniata era cresciuta a dismisura e le aveva cambiato la vita. E gliel’avrebbe cambiata ancora, grazie all’esserino che portava in grembo e per il quale, già lo sapeva, avrebbe dato tutto quanto, ogni goccia di se stessa.
Abbassò lo sguardo sulla mano che teneva sul ventre e sorrise dolcemente, con le lacrime che le pungevano gli occhi.
«Tom?».
Il chitarrista abbassò lo sguardo su di lei e l’abbracciò per la vita, le labbra sulla sua fronte. «Uhm?».
«Dovremo chiamare anche tua madre. Secondo te sarà felice di diventare nonna?».
Tom ridacchiò ed annuì, prima di baciarla sulla bocca. «Quanto sei stupidauanto sei scioccaQuanto».
Grace accennò una risata insieme a lui, posando il viso contro la sua spalla. Oltre i vetri neri come la pece delle finestre, sui quali poteva benissimo scorgere il loro riflesso, le parve di vedere un’altra figura. Lentamente, avvolto da una luce bianca e tenue, riuscì a scorgere con chiarezza il suo sorriso compiaciuto, i suoi occhi amorevoli e velati da una più che ben sopportabile malinconia.
Una lacrima le scivolò sulla guancia quando suo padre, Mitch Schneider, si voltò e sparì nell’oscurità dopo averle rivolto un cenno d’assenso, una specie di benedizione.
«Grazie», mormorò con il sapore salato di quella lacrima tra le labbra, arcuate in un sorriso mesto.
«Di cosa?», le domandò Tom tra i capelli, con tutte le ragioni del mondo per pensare che si fosse rivolta a lui.
Grace gli posò un morbido bacio sul collo e lo tenne ancora stretto a sé.
«Di tutto», bisbigliò. «Di tutto». 

 

FINE

 

 

 

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Buongiorno gente!
Scusatemi infinitamente per il ritardo - mia reazione stamattina di fronte al calendario: "C***o è martedì e non ho postato ancora l'epilogo!". Sono stati giorni intensissimi, mi sono completamente scollegata dalla realtà... Soprattutto ieri, quando dopo ore ed ore di attesa e agonia ho visto i miei fantastici Bastille... Okay, questo non vi interessa, quindi la pianto.
Anche questa FF è finita e ora mi sento piuttosto svuotata, quasi come Grace senza il suo caso... Ma mi riprenderò anche io come lei, con il tempo :) E poi il vostro sostegno sempre costante, le vostre recensioni, le vostre presenze... è stata una gioia per me condividere con voi questa mia piccola opera di fantasia e cuore. E un grazie non basta. Avete un pezzo del mio cuore ora, abbiatene cura come avete fatto fino ad adesso :') Vi voglio bene, tutti quanti (siete troppi per ringraziarvi tutti uno per uno, ma voi lo sapete che vi sono davvero infinitamente grata).
Spero che come finale sia stato all'altezza e chissà, magari un giorno ritroveremo Grace, Dylan e tutti gli altri in un sequel... non si può mai sapere ;)
Ah, una cosa interessante che volevo dirvi a proposito del titolo. Perchè l'ho intitolata "Bring me back to life"? Beh, l'idea di questa FF prima era un po' diversa, di carattere soprannaturale... infatti Grace nella primissima bozza, per i primi capitoli, moriva dopo una notte passata con Tom, il quale l'avrebbe ritrovata e avrebbe visto il suo fantasma desideroso di vendetta e di giustizia. Avrebbe fatto il piccolo detective guidato da lei, in pratica! xD E ora come ora sono felice di aver cambiato totalmente versione, non sarebbe stata altrettanto bella xD
Ancora una volta grazie e niente, ciao a presto :3

_Pulse_

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