Bring me back to life di _Pulse_ (/viewuser.php?uid=71330)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Parte 1 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Parte 2 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Parte 1 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 - Parte 2 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 32: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
PARTE
I
Capitolo
1
Volteggiò
sulla sua poltrona di pelle nera e si picchiettò
delicatamente la matita sulle
labbra rosate.
Del
tutto all’improvviso si alzò e chiuse le veneziane
tirando la cordicella con
uno scatto brusco. Nell’oscurità del suo ufficio
abbassò lo schermo del suo laptop,
che infilò nella sua borsa a tracolla, e poi uscì
sbattendosi la porta alle
spalle. La chiuse con una mandata di chiave e rimase per un secondo di
troppo
ad osservare ciò che c’era scritto sul vetro
zigrinato incastonato nel legno: Mitch
Schneider Investigations.
Fu
solo un attimo, ma abbastanza per farle ricordare suo padre,
ciò che era
diventata per lui e il motivo per cui faceva il suo lavoro. Ovviamente,
come
ormai accadeva da due mesi a quella parte, un nodo le strinse la gola
pensando
all’ultimo “caso” che aveva accettato.
Scacciò
quei pensieri dalla mente e trotterellò giù dalle
scale dell’edificio,
tenendosi saldamente al corrimano di legno con una mano.
Salutò il portinaio
con un cenno del capo, senza sbottonare nemmeno un sorriso, quindi
saltò sul
suo fuoristrada grigio gettando la tracolla sul sedile del passeggero.
Stare
alla guida la rilassò, tanto che le venne anche un certo
languorino. Si fermò al
solito Starbucks e prese due
caffè,
il suo con un pizzico di vaniglia, e un paio di brioches.
Tornò in auto e guidò
ancora per una decina di minuti, poi parcheggiò nei pressi
degli studi di
registrazione della Cherry Tree Records.
Si
tolse la cintura di sicurezza e tirò un po’
indietro il sedile per poter posare
i piedi ai lati del volante, poi prese il suo caffè ancora
caldo e ne bevve un
sorso, sentendosi immediatamente più rilassata. Il
caffè per lei era come una
droga e non era l’unica ad avere quella strana patologia, a
quanto aveva
scoperto.
Accese
il suo laptop, intercettò il segnale delle microspie audio e
video che aveva
piazzato nell’edificio qualche mese prima e sullo schermo
apparvero quattro
riquadri che le mostrarono in simultanea tutto ciò che stava
avvenendo nello
studio di registrazione, nella sala mixer, nella sala riunioni e per
concludere
nelle vicinanze della macchinetta del caffè, il posto
più ingegnoso in cui si
potesse mettere una cimice. Luogo perfetto per fare due chiacchiere e
lasciarsi
andare, no? Grazie a questo piccolo espediente aveva raccolto molte
informazioni interessanti.
Mentre
guardava ed ascoltava tramite un auricolare, sperando che dicessero
qualcosa di
succulento, mangiò la sua brioche immergendola ogni tanto
nel caffè. Una volta
finita, non resistette e sbocconcellò anche un angolo
dell’altra.
Non
era il suo giorno fortunato: quella era proprio una di quelle mattinate
piatte
in cui quei quattro non facevano altro che dondolarsi sulle sedie e
sbadigliare,
a corto di ispirazione; per cui si concesse di distrarsi e si perse
ancora una
volta nei suoi pensieri: perché aveva accettato quel caso?
Un caso che in fondo
non poteva essere definito tale, perché lei non era pagata
per indagare, o
meglio… sì, però non era appagante
come lo era per esempio confutare od
accertare un tradimento. Lei era pagata per seguire ed osservare
un’unica persona,
tutto il santo giorno, e per riferire ogni cosa che vedeva e sentiva
alla sua
cliente – persino quante volte l’aveva visto fumare
le sue amate sigarette. Che
poi… facesse qualcosa di davvero interessante, quel
benedetto Tom Kaulitz!
Ridacchiò
mentre si puliva la bocca con un tovagliolo di carta. Stava proprio
iniziando a
credere che avesse dei superpoteri: ogni volta che pensava il suo nome
lui
aveva la straordinaria capacità di percepirlo.
Lo
vide alzarsi dalla sua sedia di pelle nera, stiracchiarsi e dire al
fratello
gemello e ai suoi due amici: «Vado a fare due
passi», per poi uscire dalla stanza.
Spostò
lo sguardo sul riquadro che mostrava i dintorni della macchinetta del
caffè e
lo vide passare per il corridoio, con le mani in tasca. Dopo qualche
minuto
alzò lo sguardo dal laptop e lo vide uscire
dall’edificio spingendo in avanti
la porta a spinta, lasciarsela alle spalle e, adocchiando il suo
fuoristrada, andarle
incontro.
La
ragazza non riuscì a ricacciare indietro un’altra
risatina, perché notò che aveva
ancora la stupida fissa di guardarsi le spalle per essere certo che
nessuno lo
seguisse, quella che gli aveva inculcato lei quando aveva fatto lo
stupido
errore di farsi scoprire proprio da lui, colui che non avrebbe dovuto
nemmeno
accorgersi della sua presenza.
Ricordava
ancora perfettamente la prima volta in cui si erano parlati.
Si
era appisolata un momento, uno soltanto, e proprio allora Tom e
compagni erano
usciti in giardino per una pausa sigaretta. Aveva la bruttissima
abitudine di
dormire spesso e volentieri a bocca aperta e anche quella volta non era
stata
da meno, tanto che i Tokio Hotel – così si
chiamava la loro band – si erano
chiesti se stesse semplicemente dormendo o se fosse morta.
Tom
successivamente le aveva raccontato che avevano fatto la conta per
decidere a
chi toccasse scoprirlo e lo sfigato di turno era stato lui.
Così si era
avvicinato al fuoristrada e con un po’ di reticenza le aveva
bussato al
finestrino, facendola svegliare di colpo.
Appena
lei lo aveva visto così da vicino aveva pensato che era
davvero carino, poi si
era ricordata del fatto che sarebbe dovuta rimanere un fantasma nella
sua vita
e allora tutti i suoi progetti erano andati in fumo, poiché
la sua copertura
era saltata: se l’avessero vista un’altra volta nei
paraggi si sarebbero
insospettiti e addio caso, anche se dopotutto non le sarebbe
dispiaciuto così
tanto, se solo non fosse stato per i soldi che quella ragazzina
milionaria le
dava ogni settimana per abitare nel suo fuoristrada, praticamente.
I
soldi… era per quello che aveva accettato
quell’incarico; se suo padre l’avesse
vista sarebbe stato profondamente deluso, ma suo padre non aveva mai
capito che
i soldi, almeno un pochino, facevano la felicità.
Comunque,
non era andata come aveva previsto, perché alla ragazzina
non importava che
l’avesse scoperta. Anzi, ancora meglio se aveva un contatto
diretto con lui! Voleva
assolutamente sapere in tempo reale che cosa facesse il suo idolo, il
suo amore
platonico.
Così
era tornata ancora a spiarlo, anche se scettica, e si era messa apposta
in una
posizione in cui l’avrebbe facilmente notata, per
accontentare quella ragazzina
viziata.
Il
chitarrista, come previsto, era andato da lei a chiederle che cosa
volesse e
perché continuasse ad appostarsi lì fuori. Alla
domanda: «Sei una stalker?», lei
aveva detto di sì, troppo legata alla segretezza
professionale.
Tom
aveva fatto solo finta di crederci: insomma, non somigliava affatto ad
una stalker!
Ma non le aveva più fatto domande, non sembrava nemmeno che
gli importasse,
fino a quando, appunto, non gli aveva sbattuto in faccia che se quel
giorno non
si fosse addormentata lui non si sarebbe accorto di lei e
chissà per quanto
tempo avrebbe vissuto nella beata ignoranza.
Da
quel giorno Tom aveva iniziato a guardarsi le spalle, quasi in maniera
ossessiva, tanto che non se ne rendeva nemmeno più conto, e
nonostante fossero
passate settimane, non si era ancora liberato da quella fissa.
Chiuse
il laptop e lo mise di nuovo nella sua borsa a tracolla, che
sistemò sui sedili
posteriori; impostò su REC il suo piccolissimo registratore
professionale, poi
lo cacciò con nonchalance sotto il sedile del passeggero,
come sempre. Per
finire si portò sulle gambe la confezione di cartone in cui
era infilato
l’altro bicchiere di caffè.
Tom
aprì la portiera e salì sul fuoristrada, si mise
seduto comodo sul sedile
accanto a quello della ragazza e le fregò subito il
bicchiere di caffè dalle
mani.
«Buongiorno
anche a te», lo salutò lei aggrottando le
sopracciglia: odiava i maleducati.
«Ciao
Brooklyn», Tom ricambiò distrattamente il saluto
ed aprì il sacchetto con la
sua brioche, la tirò fuori e corrugò la fronte
notando un angolo sbocconcellato.
«Hai i ratti in questa carretta?».
«Primo,
questo Mr. Fuoristrada non è una carretta. Secondo, non ci
sono ratti; sono
stata io».
Tom
la osservò e scrollò le spalle prima di addentare
la sua brioche.
«Vi
tengono a digiuno là dentro?», gli
domandò dopo qualche minuto di silenzio, nel
quale l’aveva ascoltato masticare e bere.
«Hai
smesso di farci le foto?».
La
ragazza roteò gli occhi al cielo: lo odiava anche quando
cambiava in quel modo
argomento.
«Siete
monotoni, dopo un po’. Quando cambierete pettinatura, allora
può darsi che
tornerò a farvi le foto. Ora dimmi se state lavorando a
qualcosa di nuovo, rintanati
là dentro».
«Mi
ricordi perché sto dietro ad una come te?».
Si
trattenne nello scaraventargli la fronte contro il portaoggetti.
«Perché ti
porto il caffè e la brioche tutte le sante mattine e
perché ti do’ il permesso
di chiamarmi Brooklyn –
sai quanto
odio questo soprannome».
Tom
scrollò di nuovo le spalle e finì di bere il suo
caffè. «Il tuo cognome è
simile», disse.
Bröker. Per lui era Helen Bröker, non Grace
Schneider.
Quindi
si voltò verso di lei con un sorriso raggiante.
«Ora devo tornare al lavoro se
non ti dispiace».
«Oh
sì che mi dispiace», lo trattenne per un braccio e
si portò un ciuffo di
capelli neri dietro l’orecchio con fare sensuale, si
avvicinò a lui e soffiò: «Avrai
pure qualcosa che non so da svelarmi…».
Tom
si leccò le labbra, guardando quelle di Grace, poi
posò gli occhi nei suoi
verdi. «Che cosa sai tu di me?».
«Non
puoi nemmeno immaginare…», gli fece camminare due
dita sul petto, «non puoi
nemmeno immaginare quante cose io sappia di te».
Tom
aprì la bocca per parlare, ma all’ultimo la
richiuse e sogghignò. «Non mi
conosci affatto».
Aprì
la portiera ed uscì dal veicolo, lasciandola con un palmo di
naso.
Grace
lo guardò allontanarsi e quando si fu ripresa del tutto
scese anche lei dal
fuoristrada e gridò nella sua direzione: «E dai,
Tom!».
Lui
si voltò e la guardò con lo stesso sorriso
beffardo. «Vedi, sei anche come
quelle gomme da masticare: appiccicosa».
«Eppure
continui a starmi dietro», lo rimbeccò con una
punta di arroganza nella voce.
Tom
tornò da lei e le sistemò dietro
l’orecchio lo stesso ciuffo di capelli che era
sfuggito alla coda scomposta che aveva sulla nuca, si piegò
e con la bocca
vicina al suo orecchio sussurrò: «Detto fra noi,
Brooklyn… devi fare molto di
più per conquistare uno come me. Da quanto tempo non fai
sesso?».
Grace
lo spintonò con forza e tornò a passo di marcia
al suo fuoristrada, coi pugni
stretti lungo i fianchi e ogni muscolo facciale contratto in
un’espressione
furiosa.
«Ehi,
non te la prendere!», gridò Tom, con una leggera
risata nella voce. Poi tornò
serio: «È davvero da così tanto tempo
che non scopi?».
Grace
sbatté la portiera con forza e premette
sull’acceleratore senza curarsi di Tom
che era ancora in mezzo alla strada deserta. Frenò appena in
tempo, a pochi centimetri
da lui, e lo guardò truce, mentre lui aveva come minimo
perso dieci anni di
vita. Non doveva scherzare con lei, perché aveva
già ucciso prima e non avrebbe
esitato se gliene fosse capitata l’occasione.
Lui
si spostò spaventato e lei sgommò via senza
curarsi di quello che considerava
un idiota ogni giorno di più.
***
Era
certo che Helen non fosse né una stalker né
tantomeno una groupie. La seconda
ipotesi era assolutamente da escludere, non sapeva nemmeno
perché l’avesse
presa in considerazione!
Forse
era così tanto attratto da lei proprio perché non
sapeva chi era e cosa voleva
da loro. Anche fisicamente non era male e il suo viso spruzzato di
efelidi
sembrava così delicato che anche la carezza di una piuma
avrebbe potuto creparlo,
per non parlare dei suoi occhi verdi che erano in grado di graffiare se
la si
faceva arrabbiare. Ma la sua identità e il motivo che la
portava a trovarsi
sempre dove c’erano loro erano qualcosa che
l’attiravano ancora di più. Voleva
scoprire tutto, ma… come?
Ormai
aveva capito abbastanza bene che non era una ragazza facile, che se
faceva una
cosa era perché le faceva da tornaconto, che era
più furba di quello che
credeva. Helen era ancora una sconosciuta per lui, nonostante si
vedessero
quasi tutti i giorni da quasi due mesi. Non gli aveva mai parlato di
sé e non
sembrava nemmeno intenzionata a farlo. Chi era quella ragazza? Che cosa
voleva
da lui?
«Tom?
Uh-uh? Ci sei?». Bill gli sventolò una mano di
fronte al viso e si dimenticò
per un istante tutte quelle domande che gli vorticavano in testa.
«Sì,
scusami, mi sono distratto. Stavamo dicendo?».
Sulle
labbra di suo fratello si disegnò un sorrisetto furbo.
«Stavi
pensando ad Helen?», gli domandò, più
interessato a quello piuttosto che al
loro lavoro.
Tom
si portò le mani sulla testa, puntando i gomiti sul tavolo,
e sbuffò. «Che cosa
vuole da me, Bill? Perché le sto dietro, invece di andare da
un giudice ad
accusarla di stalking? Perché alla fine è quello
che sta facendo…».
«Nah»,
schioccò la lingua contro il palato. «Lei non
è una stalker. Casualmente
ovunque andiamo noi c’è anche lei, però
non si comporta come una stalker: fino
ad adesso non ci ha mai dato fastidio più di
tanto».
«A
me dà fastidio!», sbottò, arrossendo
sul collo. «Mi dà fastidio che se ne stia
tutto il giorno in auto ad aspettarci, mi dà fastidio che mi
porti la colazione
alla mattina, che cerchi di strapparmi di bocca qualche anteprima sul
nostro
nuovo album… Mi dà fastidio non trovare una
motivazione per ciò che fa!».
Il
frontman dei Tokio Hotel scrollò le spalle ed
allungò le braccia sul tavolo
lucido della sala riunioni, in cui si erano isolati per parlare un
po’. Si
guardò le unghie corte e scrollò di nuovo le
spalle sospirando.
«Sta
diventando un’ossessione, Tom».
«Sì,
lo so», mugugnò ed abbassò lo sguardo.
«E la cosa che mi dà più fastidio sai
qual è?».
«Che
lei sa moltissime cose su di noi, mentre noi non conosciamo
praticamente nulla
di lei», rispose come se fosse una filastrocca imparata a
memoria, continuando
ad ammirarsi le unghie.
«Esatto».
Si appoggiò allo schienale e stirò le gambe sotto
al tavolo, portandosi le mani
sulla nuca.
«Forse
dovrei fare come fa lei: seguirla e vedere dove abita, cosa
fa…».
L’aveva
buttata lì come un’idea sciocca, ma appena
realizzò che poteva non essere del
tutto una cavolata si tirò su con gli occhi spalancati e
guardò il gemello, il
quale aveva già capito tutto e aveva lo stesso sguardo
incredulo.
«Vuoi
farlo davvero?», gli chiese.
Tom
sogghignò. «Perché no?».
***
Non
si era laureata in giurisprudenza né aveva ottenuto la
licenza di investigatrice
privata per stare dietro ad uno come Tom Kaulitz. Proprio no.
Dopo
quello che aveva osato dire quella mattina – la
verità, perché era davvero una
vita che non faceva del sano sesso – si era rifiutata di
stare ancora lì, non
le importava di quella ragazzina che avrebbe sicuramente fatto i
capricci.
L’aveva persino chiamata quel pomeriggio, seduta sotto
l’ombra degli alberi del
parchetto in cui suo padre la portava sempre a giocare.
«Non
ne posso più di quel tizio», le aveva detto
subito, senza nemmeno salutarla.
La
ragazzina aveva riso di gusto, come se avesse detto la barzelletta
più
divertente del mondo.
«Non
sto scherzando», aveva precisato allora, scocciata.
«Hai
registrato tutto quello che vi siete detti?».
«Sì,
in un modo o nell’altro sì», si era
sfiorata la spilla d’argento che aveva
attaccata alla maglietta: c’era una piccolissima microspia
video e audio anche
in quella; era il regalo che suo padre le aveva fatto quando aveva
compiuto
diciassette anni. L’ultimo regalo che le aveva fatto.
«Bene!
Non vedo l’ora di vedere tutto!».
«Molly,
davvero, io non voglio più continuare. Non mi sento
appagata, io… non è per
questo che sono diventata un’investigatrice
privata».
La
ragazzina finalmente sembrava aver compreso le sue ragioni e aveva
sospirato.
«Okay,
senti… mio padre oggi mi ha sequestrato la carta di credito
perché ho speso
troppo l’ultima volta che sono andata a fare shopping. Riesco
a pagarti questa
settimana di lavoro, ma non la prossima. Facciamo che te ne vai in
vacanza,
okay? Vedrai che ne sentirai la mancanza».
«Ne
dubito. Ne dubito davvero».
Comunque,
da brava ed onesta lavoratrice qual’era, poco dopo era
tornata a seguire gli
spostamenti dei quattro. Non che ne avessero fatti, di spostamenti: per
carità,
stavano tutto il giorno chiusi in quello studio di registrazione!
Aveva
cambiato postazione, aveva nascosto il fuoristrada dietro i cassonetti
dell’immondizia
sul retro dell’edificio: l’odore non era ottimo, ma
aveva una visuale perfetta
della sala riunioni, la quale aveva delle ampie vetrate sulla facciata
che dava
sul giardino.
Aveva
ascoltato un pezzo della conversazione intrattenuta dal management dei
Tokio
Hotel, Benjamin Ebel, col loro produttore più famoso, David
Jost, e la loro
promotion manager, Dunja Pechner.
Era
stato interessante e a tratti divertente, soprattutto sentire i
commenti e le
battutine su quei quattro ragazzi che non avrebbero mai immaginato di
essere
soggetti così buffi, tanto da far scompisciare dal ridere.
Adesso Grace avrebbe
potuto prendere per il culo a vita quel simpaticone di Tom, ma
facendolo
avrebbe commesso un altro errore.
Peccato, aveva pensato
schioccando la lingua
contro il palato.
Aveva
atteso pazientemente che i Tokio Hotel finissero di
“lavorare” e quando erano
usciti dall’edificio aveva tratto un respiro di sollievo:
quella sera non
dovevano andare da nessuna parte, a meno che i ragazzi non decidessero
di fare
qualcosa all’ultimo momento. Era quasi escluso,
poiché il giorno seguente
Gustav e Georg avrebbero dovuto prendere un aereo che li avrebbe
riportati in
Germania dalle loro fidanzate, come avevano concordato con i gemelli.
Appena
vide Tom fiutò che aveva qualcosa in mente,
perché non cercò il suo fuoristrada
con lo sguardo, né fece salire suo fratello gemello sulla
sua Audi. Che cosa
aveva intenzione di fare?
Aspettò
che si allontanasse, per ultimo dietro le auto dei suoi amici, poi
Grace mise
in moto a sua volta e lo seguì.
Tom
fece la solita strada verso casa, ma del tutto all’improvviso
svoltò a destra e
Grace non riuscì ad essere tanto rapida; o meglio, avrebbe
anche potuto, ma
avrebbe sicuramente dato troppo nell’occhio. Così
tamburellò le dita sul
volante e si disse che l’avrebbe sicuramente recuperato se
avesse svoltato alla
prossima e poi fosse sbucata nella stessa via.
Si
attenne al piano, ma quando si immise nella via che aveva preso il
chitarrista
non lo vide davanti a sé, bensì dietro. Lui
l’aveva aspettata, sapeva che si
sarebbe comportata così ed ora la guardava con un sorriso
beffardo sulle
labbra: ora era lui a seguire lei.
A
che gioco stai giocando,
Kaulitz?
Incrociò
ancora il suo sguardo e sorrise nello stesso modo, forse anche un
pelino più
arrogantemente. In fondo le erano sempre piaciuti i giochi e quello che
Tom le
stava proponendo non era tanto male; peccato che lui fosse un poppante
in quel
campo, che stesse soltanto giocando a fare il piccolo investigatore, e
sarebbe
stato fin troppo facile vincere.
Non
voleva umiliarlo, non amava mostrare troppo la propria bravura, e allo
stesso
tempo non voleva dargli troppa corda, anche se sarebbe stato divertente
farlo
uscire di testa girando sempre intorno allo stesso isolato.
Così decise che la
cosa migliore da fare era chiamare un amico che sicuramente
l’avrebbe aiutata a
levarsi dai piedi quel rompiscatole.
«Guarda,
guarda! Che onore!».
«Ciao
Dylan», ridacchiò. «Come te la
passi?».
«Tutto
nella norma. Tu? Non hai fatto altri danni, vero?».
«No,
stai tranquillo. Sei in servizio ora, vero?».
«Certo.
Stesso posto, come sempre».
«Giornata
tranquilla?», gli domandò per precauzione: voleva
far conoscere a Tom alcuni
aspetti della sua vita – ovviamente senza farglielo sapere,
– non
traumatizzarlo.
«Nella
norma. Vuoi venire a fare un giretto nell’Inferno della
Città degli Angeli?»,
ridacchiò divertito.
«In
realtà dovresti farmi un favore», sorrise.
«Qualsiasi
cosa, tesoro».
Tom
si guardò intorno e capì di essere
nell’Eastside di Los Angeles. Non era un
posto esattamente consigliato, perché Helen si era spinta
fino a lì?
Si
guardò intorno con un certo sospetto, notando gli occhi
luminosi e allo stesso
tempo affamati di alcuni ragazzini ispanici sulle loro biciclette
sgangherate,
i quali non perdevano nemmeno un dettaglio della carrozzeria e dei
cerchioni
scintillanti della sua Audi.
Perché
si era messo in testa di seguirla?
Appena
superò una vettura della polizia parcheggiata sul ciglio
della strada, questa
diede gas e lo seguì accendendo anche le luci blu e rosse
sopra il tettuccio.
Si spaventò immediatamente, credendo di aver fatto qualcosa
di male, ma quando
notò il sorrisetto più che divertito che
aleggiava sulle labbra di Helen capì
che lei c’entrava qualcosa. Le rivolse un’occhiata
fulminante e la vide alzare
una mano in segno di saluto, mentre si fermava ad un semaforo rosso,
proprio
come se volesse farlo soffrire di più. Si
affacciò pure dal finestrino per
godersi la scena, quella sfrontata!
Parcheggiò
sul ciglio della strada ed aspettò che l’agente,
sceso dal suo vecchio modello
di Ford Crown Victoria, lo raggiungesse. Il poliziotto si
chinò verso di lui
per vedere gli interni dell’auto e gli rivolse un sorriso
solare. Anche lui
aveva origini ispaniche, doveva proprio essere messicano, considerato
anche il
suo particolare accento.
«Bell’auto!
L’ha comprata qui o se l’è fatta
arrivare dalla Germania? Perché le Audi sono
tedesche, vero? Del ramo Volkswagen, no?».
«Sì»,
rispose Tom, attonito.
«Sì
che cosa?», domandò l’agente,
arricciando il naso e cercando di nascondere un
sorriso divertito, mentre lanciava un’occhiatina a Grace,
ferma ancora al
semaforo.
Tom
non si accorse di nulla e rispose: «… Le Audi sono
tedesche e sono della
Volkswagen».
«Oh!
Oh, sì, lo sapevo. E se l’è fatta
arrivare da là o l’ha comprata qui?».
«Beh…
Ma questo cosa c’entra? Non mi avrà fatto fermare
solo per chiedermi questo!».
Dylan
parve pensarci su, passandosi le dita sul pizzetto nero. «E
anche se fosse?».
«Mi
scusi, ma io ho davvero molto da fare e se non c’è
nulla che non va…», gettò
una rapida occhiata verso il fuoristrada di Helen, «io
andrei».
L’agente
rimase a fissare la mora dagli occhi verdi mentre rientrava del tutto
nell’abitacolo ed alzava un po’ il volume della
radio. Riusciva a sentire la
musica persino da lì.
«Oh,
ho capito», mormorò.
«Grazie»,
sospirò Tom. «Posso andare?».
«Ho
capito! Lei sta inseguendo quella ragazza!», lo
accusò puntandogli un dito
contro, facendolo sbiancare. «Lo sa che lo stalking
è un reato?».
Tom
sbarrò gli occhi. «Certo che lo so! E se vuole la
verità è lei che…».
Il
poliziotto lo interruppe e con tono serio disse: «Patente e
libretto».
«Che
cosa?», squittì Tom, sempre più
sconvolto.
«Ho
detto patente e libretto»,
rimarcò il
concetto, sollevando le sopracciglia. «Non vorrà
mica essere accusato di
resistenza a Pubblico Ufficiale, vero?».
«No»,
mugugnò.
Tirò
fuori il libretto e la patente e li porse all’agente, poi si
girò a guardare se
quel maledetto semaforo fosse ancora rosso e anche Dylan lo fece,
sorridendo di
sfuggita alla ragazza alla guida.
Quando
finalmente scattò il verde, Grace svoltò a
sinistra e salutò con un cenno del
capo il chitarrista, il quale digrignò i denti e si rivolse
all’agente con tono
brusco: «Ha finito?».
«Sì»,
esclamò il poliziotto. «È tutto in
regola, nemmeno una virgola fuori posto. Ma
senta, per caso lei è tedesco? Perché sa, si dice
che i tedeschi sono sempre
precisi in tutto… E lei ha anche l’accento da
straniero!».
Tom
si trattenne dallo sbuffargli in faccia, infastidito, e mise a posto i
documenti. Tanto ormai Helen l’aveva persa!
«Posso
andare?», domandò con tono lamentoso.
«Certo!
Anzi, è meglio che se ne torni a casa – scommetto
che abita dalle parti di
Hollywood, oppure di Beverly Hills – sta iniziando a fare
buio e non è
consigliato andarsene in giro di notte da queste parti».
Tom
si limitò a ringraziare con stizza, certo che
quell’agente l’avesse preso per
il culo per tutto quel tempo.
Stava
per fare manovra per uscire dal suo parcheggio di fortuna, quando
l’agente lo
richiamò: «Alla
fine non mi ha detto se
si è fatto arrivare l’auto dalla
Germania!».
Il
chitarrista roteò gli occhi al cielo, salutò il
poliziotto con un gesto distratto
della mano e sgommò via.
Dylan
lo guardò allontanarsi e una volta perso di vista non
riuscì a trattenere una
grassa risata. Si portò il cellulare all’orecchio,
ancora con le lacrime agli
occhi, e quando Grace gli rispose, disse: «Tesoro, non mi
sono mai divertito
tanto!».
«Mi
fa piacere, davvero».
«Però
un giro me lo offri comunque uno di questi giorni, eh».
Grace
ridacchiò. «Andata».
__________________________________________________
Non so quale cavolata abbia fatto, ma avevo cancellato questo capitolo
per sbaglio. Lo riposto così com'è, poi quando
avrò tempo lo sistemerò a dovere.
Abbiate pazienza e scusatemi.
I Tokio Hotel non mi
appartengono e questa storia non è scritta a scopo di lucro.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo
2
“I'm the devil on your
shoulder
I'm the conscious in your mind
I'm the feeling, that you, you cannot hide
I'm the devil on your shoulder,
telling you that love is blind
It's okay when, it's hiding in disguise”
(Reckless – You me at six)
La odio.
Dopo
l’ultimo scherzetto che gli aveva fatto, portandolo
nell’Eastside di Los Angeles, era giunto a quella
conclusione: la odiava da morire. E quello che gli dava più
fastidio era che non era ancora riuscito a vendicarsi,
perché da allora non l’aveva più vista.
Era sparita nel nulla, quella stronza!
Helen, volendolo o no, si era avvicinata così tanto a lui
che adesso… non riusciva proprio a non vedersela sempre
intorno. Voleva sapere dove fosse, voleva vederla. Ovviamente
perché voleva dirle quanto non la sopportasse
più, non per altro. Assolutamente! Non gli mancavano le
colazioni insieme a lei, le sue buffe provocazioni, i loro giochetti.
No, per nulla…
Sbuffò innervosito. Non era un buon segno, visto che si era
appena svegliato.
Si alzò dal letto scostandosi bruscamente le coperte di
dosso e si diresse a passo svelto verso il bagno.
«Tom! Ti sei svegliato?!», gridò suo
fratello dal piano inferiore.
«No, sono sonnambulo», sbottò.
Bill uscì dalla cucina e una volta nell’ampio
salotto alzò la testa verso il soppalco adibito a zona
living, quella che Tom stava attraversando.
«Vuoi i pancakes o i leka
leka waffles?».
Tom si girò verso di lui con lentezza e lo guardò
torvo. «Mi stai prendendo per il culo? Perché se
è così ti dico subito che è una
pessima giornata. Pessima».
Il frontman lasciò che un sorriso mesto si disegnasse sulle
sue labbra e scosse lievemente il capo, mentre si andava a sdraiare
sulla sua chaise-longue in acciaio e pelle nera.
«Si tratta di Helen, non è
così?».
Il chitarrista rovesciò gli occhi e sollevò le
braccia, poi le fece ricadere lungo i fianchi. «Non
è importante se si tratta di lei o meno; è una
pessima giornata e basta».
«Forse dovrei davvero farti provare questa»,
indicò la chaise-longue su cui si trovava e socchiuse gli
occhi prima di continuare: «Ci si sente proprio come dallo
psicologo! Magari ragioneresti meglio su quello che quella ragazza
è riuscita a farti».
«Illuminami, ti prego», sbuffò e si
appoggiò con le braccia alla ringhiera, sporgendosi verso il
piano inferiore.
«Ti ha fottuto il cervello. Quel poco che hai per queste
cose, chiaramente».
«Di quali cose
stai parlando?».
Bill si tirò su a sedere e lo guardò serio negli
occhi, tanto che Tom sentì un brivido corrergli su per la
schiena e fu in grado di leggergli nella mente.
«No», negò deciso. «Non dire
cazzate, Bill».
«Non dirne te, Tom», ribatté il gemello.
«Ti conosco come le mie tasche e fidati, se ti dico
che…».
«No, no, no!», strepitò e si
portò le mani sulle orecchie per non sentire. Ma fu
praticamente inutile, perché ormai la voce del fratello si
era insediata nella sua testa, non lasciandogli via di fuga.
Lei ti piace! gli gridò
senza pietà.
Tom rimase ad ascoltare il silenzio calato improvvisamente dentro ed
intorno a lui, poi iniziò a sollevare le palpebre.
Trovò subito lo sguardo furbo di Bill, il quale si era
alzato e si era portato le mani sui fianchi, con quell’aria
da saputello stampata in faccia.
Represse in un angolo della mente l’idea di saltare
giù dal soppalco ed atterrarlo con una mossa di wrestling e
si limitò soltanto a mandarlo affanculo.
***
Grace tirò
la cordicella con dolcezza e aprì le lamelle della tenda
alla veneziana. Il sole filtrò nella stanza, illuminando il
parquet scuro, i mobili stracolmi di grandi raccoglitori sistemati in
ordine cronologico e la lampada da tavolo anni ’50 con la
base in ghisa nera e il cappello in plastica verde.
Posò lo sguardo proprio su quella lampada e passò
un dito sull’interruttore, lo premette, ma i contatti fusi
non permisero alla corrente di arrivare alla lampadina, che rimase
spenta. Non funzionava da anni, ma non aveva mai pensato di disfarsene:
era di suo padre e da quando se n’era andato anche quel
vecchio cimelio si era rifiutato di illuminare di verdognolo quella
scrivania, di essere l’unica fonte di luce soffusa in
quell’ufficio quando la notte calava e l’ultimo
caso non era ancora stato risolto. Suo padre era fatto così:
quando iniziava un caso non lo lasciava mai a metà, andava
sempre in fondo, a discapito di tutto il resto.
Grace prese il caffè sulla scrivania, scrollandosi di dosso
quei ricordi, ed andò alla finestra. Allargò con
due dita la fessura tra una lamella e l’altra per vedere gli
edifici di fronte e la strada sottostante. Appoggiò le
labbra al bordo del bicchiere di cartone e lo mordicchiò per
qualche secondo, ancora soprappensiero, quindi bevve un sorso caldo.
Tornò alla scrivania e accese il suo laptop, ma il suo
sguardo, nonostante fosse puntato sullo schermo, era altrove. Non si
stupì, quando si sorprese a pensare ancora una volta a Tom.
Aveva pensato spesso a lui, in quei quattro giorni –
un’eternità! – in cui il suo incarico
era stato sospeso. Finalmente aveva ottenuto ciò che voleva,
o almeno qualcosa che avrebbe dovuto farla felice, si era levata dalle
scatole quello sfrontato, eppure… le mancava. Alla fine
Molly aveva avuto ragione. Aveva ancora altri tre giorni di vacanza e,
ironia della sorte, credeva che sarebbe impazzita se non fosse tornata
a pedinarlo entro le prossime ventiquattr’ore.
Buffo. Davvero buffo.
Guardò il cellulare sotto l’ombra verdastra della
lampada illuminata dal sole, allungò la mano come se una
presenza invisibile l’avesse persuasa a farlo e, controllando
sul suo taccuino, digitò il codice di decodifica del segnale
della microspia GSM che aveva incorporato al cellulare di Tom la prima
volta che era salito sul suo fuoristrada.
Era stato facile: aveva fatto in modo che si distraesse abbastanza da
potergli infilare una mano nella tasca della felpa leggera, aveva fatto
cadere il suo cellulare sotto i sedili e quando Tom era sceso dal
veicolo, del tutto ignaro di ciò che aveva fatto, aveva
infilato la microspia nel cellulare. Quando Tom si era accorto di
averlo perso era tornato da lei, certo che fosse ancora lì
fuori, a chiederle se gli fosse caduto nel fuoristrada. Lei, che
l’aveva rigettato in precedenza sotto i sedili, lo aveva
aiutato a cercarlo e gli aveva sorriso quando l’aveva
ritrovato e tutto contento era rientrato nell’edificio.
Stava per premere il tastino verde di chiamata, con il quale avrebbe
attivato la cimice e avrebbe sentito tutto quello che faceva il
chitarrista – aveva il cellulare sempre attaccato al culo!
– ma poi cambiò idea, dandosi della ridicola, e si
alzò per andare a fare quattro passi.
Saltò sul suo amato fuoristrada e guidò per
qualche chilometro, con la musica a palla, gli occhiali da sole sul
viso, una sigaretta fra le labbra e un gomito fuori dal finestrino
abbassato.
Le sarebbe piaciuto andare un po’ in spiaggia, era una
bellissima giornata e la colonnina di mercurio sfiorava ancora i venti
gradi, ma doveva stare in ufficio. Era vero, i clienti non erano mai
stati tanti da non permetterle qualche gita anche in orario lavorativo,
però doveva ricordarsi che si era presa una vacanza da Tom,
non dal suo lavoro.
Tom, Tom, Tom! Era sempre nei suoi pensieri in un modo o
nell’altro, quel cretino! Che poi, che aveva di
così speciale? Nulla, assolutamente nulla! Era carino,
sì, anche parecchio, okay… era davvero un ragazzo
appetibile, ma in quanto al resto non ne valeva la pena. Che cosa le
mancava di lui, esattamente? Le sue battutine pungenti, il suo sguardo
sempre un po’ malizioso e sfrontato, il modo in cui
pronunciava l’odioso nomignolo che le aveva affibbiato? Che
cosa, che cosa?
Parcheggiò il fuoristrada e camminò con passo
lento e sicuro fino alle grandi cancellate del cimitero. Prima di
entrare fece un respiro profondo e si tolse gli occhiali da sole dal
viso.
Si aggirò fra le lapidi di marmo grigio che il sole faceva
brillare e raggiunse quella che la interessava. Fissò il
volto segnato dal tempo e dal lavoro dell’uomo sorridente
nella foto e anche lei accennò un sorriso, ma aveva gli
occhi lucidi.
«Ciao, papà».
Come tutte le volte in cui
andava a trovare suo padre, poi si era ritrovata con un opprimente
senso di vuoto a schiacciarle il petto.
Era tornata nel suo ufficio e aveva aperto la cassaforte in cui teneva
tutti i dossier e i documenti del caso più importante di suo
padre, quello a cui aveva lavorato per quasi un anno, fino a quando era
morto.
Non era mai riuscito a risolvere quel caso e nel tentativo era stato
ucciso. Non avevano mai trovato il colpevole e tutti i bastardi che
c’erano dietro, ed era per quello che Grace aveva seguito le
orme di suo padre, per scoprire e dare un senso alla sua morte, per
fare giustizia in un modo o nell’altro. Quello era
l’unico caso di cui le importasse veramente, quello in cui ci
metteva anima e corpo, ma ancora non era riuscita a scoprire nulla di
significativo da integrare alle informazioni che suo padre aveva
raccolto in mesi di duro lavoro. Lei non era nemmeno brava come
lui… Forse non doveva nemmeno provaci, forse avrebbe davvero
dovuto accontentarsi dei verdoni che quella ragazzina piena di soldi le
offriva per pedinare il suo idolo. Quello era il massimo a cui poteva
ambire.
Quella sera, afflitta e frustrata, aveva pensato che era arrivata
l’ora di pagare quel famoso giro a Dylan per averla aiutata
con Tom. Quel maledetto Tom…
L’aveva chiamato senza pensarci su troppo, a meno che non
volesse finire ad ubriacarsi da sola nel suo appartamento. Aveva
bisogno di un amico che la facesse ridere, che la distraesse da tutta
la merda in cui si era immersa nelle ore precedenti, e chi meglio di
Dylan? Lui era l’unico vero amico che avesse.
Ora era seduta al bancone del Broadway
Bar, ad aspettare che finisse il
turno.
Inquieta, si girò e rigirò il bicchiere di vetro
trasparente fra le mani. Il barista glielo prese e senza nemmeno
chiederle se fosse d’accordo le versò un altro
giro di vodka liscia. Grace non ringraziò né si
mise a discutere, sollevò il bicchiere e bevve tutto
d’un fiato. La gola le bruciò e dovette strizzare
gli occhi, ma fu solo per qualche secondo.
Perché era inquieta? Sapeva fin troppo bene che quella era
zona d’azione dei gemelli Kaulitz – quel bar era
uno dei più chic di Los Angeles, escludendo le persone che
lo frequentavano – e li aveva persino seguiti lì,
una volta o due. Aveva paura di incontrarli e non ne sapeva nemmeno il
motivo. Che poi, perché dovevano andare lì
proprio quella sera, in cui c’era anche lei? La sua sfiga era
così grande?! Beh, forse sì, visto che era stata
proprio lei a ritrovarsi quella ragazzina rompiscatole e milionaria tra
capo e collo, che l’aveva incastrata nel vero senso della
parola.
«Ehi», le soffiò una voce calda
all’orecchio destro, mentre una mano si posava delicatamente
sul suo fianco sinistro. Grace si girò ed
incontrò subito il sorriso solare di Dylan, capace di farne
nascere uno anche a lei.
«È da molto che mi aspetti?», le chiese,
mentre prendeva posto al suo fianco.
«No, non molto». Alzò una mano in
direzione del barman ed indicò l’amico, gridando:
«Due Black Russian!».
Dylan, che non le aveva mai scollato gli occhi di dosso,
allargò ancora di più il sorriso e quando Grace
si voltò verso di lui, disse: «Non dovremmo
invitarci a bere solo quando scrocchiamo favori
all’altro».
La ragazza scosse lievemente il capo, poi scoppiò a ridere
insieme a lui.
Parlarono del più e del meno, mentre si scolavano un
bicchiere dietro l’altro senza nemmeno rendersene conto e la
testa si alleggeriva e la parlantina diventava più sciolta.
Ad un certo punto della sua sbronza, Grace si incupì. Smise
di ridere e di scherzare, sul suo volto comparvero delle ombre e Dylan
le pizzicò il braccio per farla tornare dal suo universo
parallelo, ma la ragazza non gli diede retta e con la voce roca disse:
«Oggi sono andata a trovare mio padre».
Quelle parole scossero Dylan a tal punto che parte della sbronza se ne
andò per un po’, dandogli un frangente di
lucidità. Però non disse niente,
lasciò che Grace si sfogasse.
«Quei bastardi… quei bastardi che
l’hanno ammazzato devono pagare», ruggì
a bassa voce, stringendo le mani intorno al suo bicchiere che ormai
conteneva solo ghiaccio. «Mio padre non può essere
morto per nulla. Ha lasciato il compito a me, ma io… io non
ne sono in grado. Sono una fottuta incapace!».
Sbatté i pugni sul bancone, facendo girare il suo vicino
tozzo e rasato, il quale si voltò quasi immediatamente,
incurante.
Dylan osservò le labbra rosate di Grace tremare ed
avvicinò la mano al suo viso, le accarezzò la
guancia quasi in trans e glielo sollevò per poterla guardare
negli occhi.
La ragazza fissò i suoi occhi scuri con stupore e lo vide
avvicinarsi. Poi socchiuse le labbra e lasciò che si
incastonassero con quelle del suo amico.
***
Tom alzò un
po’ il volume dello stereo e, provando a cantare qualche
strofa, mosse a tempo la testa al ritmo di Chiddy Bang. Non era uno dei
suoi rapper preferiti, ma quella canzone gli piaceva davvero tanto.
Suo fratello, seduto sul sedile del passeggero, aveva un gomito
appoggiato contro il finestrino e a volte lo guardava come se avesse
avuto un pazzo accanto, ma non osava dire nulla: quella sera non era
proprio consigliabile dargli fastidio. In realtà, era da
quella mattina che era intrattabile e Bill sapeva perfettamente
perché.
Quindi, quel giorno Tom aveva avuto il comando assoluto del tempo e
dello spazio e non aveva potuto fare molto quando gli aveva detto che
voleva andare al Broadway Bar.
Gli aveva semplicemente risposto che voleva accompagnarlo. Conosceva
suo fratello quando era incazzato o nervoso e altrettanto bene quando
si ubriacava. Per non parlare di quando le due cose erano unite! La
catastrofe, se lasciato da solo, era fin troppo prevedibile.
Tom parcheggiò l’auto, scese e Bill si
affrettò a raggiungerlo. Il maggiore camminò a
passo spedito verso il bancone circolare e si sporse verso la
passerella per attirare l’attenzione del barman, che fu da
lui quasi subito.
«Desidera?», gli domandò.
«Un mojito red bull, tanto per iniziare».
Si mise seduto sullo sgabello ed aspettò con impazienza il
suo drink, quando gli arrivò di fronte ci si
gettò a capofitto, dimentico di avere un gemello alle
spalle.
Bill si mise seduto al suo fianco, diede le spalle al bancone e
spaziò con lo sguardo, soffermandosi sulle scale che
portavano al piano superiore. Dopo aver visto una ragazza coi tacchi
alti rischiare di cadere, si voltò e posò lo
sguardo sulla grande piramide di bottiglie di vetro che, illuminate,
riempivano il soffitto basso di riflessi, conferendo una luce soffusa a
tutto il resto del locale.
Nonostante la poca luce, riuscì a scorgere comunque la
ragazza seduta in obliquo a loro: stava baciando un ragazzo di origini
ispaniche, forse messicano; un poliziotto della stradale, vista la
divisa beige.
Non perse tempo e si voltò subito verso Tom per chiedergli
se potevano andare a sedersi su quei divanetti rossi tanto comodi, ma
gli bastò un secondo per capire che l’aveva
già vista.
Oh no. Oh no, qui si
mette proprio male.
Ma Tom non reagì affatto come aveva previsto. Anzi, non
reagì proprio. Tenne lo sguardo fisso su di loro, nonostante
i suoi occhi si fossero adombrati, e continuava a bere il suo mojito.
Quando lo finì sbattè il bicchiere sul tavolo e
ululò: «Un altro!».
La ragazza parve sentirlo e aprì gli occhi. Non
realizzò subito chi fosse, ma quando lo fece… oh,
Bill vide tutte le emozioni possibili nel suo sguardo: prima di tutto
la confusione, poi lo stupore, la rabbia e poi ancora la vergogna; per
concludere, una tristezza che non seppe spiegarsi.
Tra loro però, fieri del loro orgoglio o forse soltanto
presi in contropiede, si scambiarono uno sguardo privo di qualsiasi
sentimento, vacuo, che gli fece scorrere i brividi lungo la schiena.
«Ecco a lei», esclamò il barman sopra la
musica e Tom ruppe il contatto visivo con Helen, prese il suo mojito e
non si staccò dal bicchiere fino a quando non rimase nemmeno
una goccia di alcool.
Nel frattempo, Helen scostò da sé il messicano,
pagò in contanti senza nemmeno interessarsi di prendere il
resto e lo fece alzare. Prima di uscire dalla visuale del chitarrista
gli gettò un’ultima occhiata, ma lui non la
calcolò nemmeno, troppo occupato ad affogare in quel mojito.
Bill la guardò uscire dal Broadway
Bar trascinandosi dietro il
ragazzo, poi si girò verso il fratello e sospirò
portandosi i pugni sulle guance.
Si era sbagliato. A Tom non piaceva Helen. Si piacevano a vicenda.
«Scusi!», gridò al barman, che si
pulì le mani e gli fece un cenno con il capo, in attesa del
suo ordine.
Tom finì il suo mojito e si pulì la bocca con il
dorso della mano. Aveva gli occhi già liquidi.
Bill sospirò ancora. «Un altro mojito red bull per
lui e un malibu per me».
***
Grace si
risvegliò lentamente, con un forte mal di testa ad
attanagliarle le meningi.
Si girò supina e guardò il soffitto bianco per
qualche minuto, concentrandosi su ciò che c’era
intorno a lei. Fu così che si accorse del respiro lento e
pesante alla sua sinistra. Voltò il capo verso quella
direzione e rimase senza parole, quando vide i capelli neri ed
arruffati di Dylan, il suo collo, le sue braccia forti e la sua schiena
scolpita, dalla pelle caffellatte.
Si tirò su a sedere, appoggiò le spalle alla
testata del letto e pian piano focalizzò tutto quello che
vedeva. Nulla di anomalo, quella era la sua camera da letto; peccato
che ci fossero vestiti ovunque, sia suoi che di Dylan, e
c’era proprio lui nel suo letto.
Ricordò alcuni flash di quella sera e lo sguardo glaciale di
Tom si infilò con prepotenza nella sua mente, facendola
sentire sporca e… ferita.
Alzò il lenzuolo bianco che l’avvolgeva per
accertarsi che fosse successo ciò che aveva dedotto
– ricordava poco o niente di quella notte, – poi si
portò le mani sulla faccia, imprecando.
________________________________________
Ehi, ciao! :)
La situazione tra Tom e Helen/Grace si sta un po' complicando e Dylan
non ha di certo migliorato la situazione! Nel frattempo però
abbiamo anche scoperto qualcosa sul passato e sul dolore che ha spinto
Grace a diventare una detective privata...
Ringrazio ancora
tutti quelli che hanno commentato/letto lo scorso capitolo e spero che
anche questo vi sia piaciuto! ;)
Un bacio, a lunedì prossimo!
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
Odiava i
lunedì mattina. Soprattutto quelli in cui si svegliava tardi
e con una strana ansia a divorarle lo stomaco.
Dopo tutto quello che era successo non se la sentiva proprio di andare
al lavoro, che era tornato ad essere quello di pedinare il caro vecchio
Tom Kaulitz.
Saltò giù dal suo fuoristrada con la borsa a
tracolla che le sbatteva su un fianco e corse nell’edificio,
ad ogni passo un’imprecazione.
«Signorina Schneider!».
Grace si fermò sui primi gradini delle scale, su cui si era
fiondata senza nemmeno salutare il portiere. Si girò e
guardò proprio lui, che estrasse una busta da sotto il
bancone e la sventolò nella sua direzione.
La ragazza si avvicinò, prese la busta fra le mani e
guardò l’uomo in cerca di spiegazioni.
«Ieri sera, sul tardi, è arrivato qui un uomo
chiedendo di lei. Mi ha detto di consegnarle quella busta. Non so
altro».
«Aspetto fisico, età,
altezza…?».
Il portiere la guardò con tanto d’occhi, pensando
che non era lui l’investigatore privato, ma rispose comunque:
«Alto nella media, magro… Sui
quarant’anni, forse di più… Biondo,
occhi azzurri…». Allo sguardo non soddisfatto di
Grace, sbuffò: «Non posso dirle di più,
davvero».
«Grazie», borbottò la ragazza,
incamminandosi su per le scale, quella volta lentamente, con la busta
fra le mani.
Entrò nel suo ufficio e aprì le veneziane. Si
tolse la borsa a tracolla dalla spalla e la appoggiò accanto
alla sedia, su cui si sedette senza mai distogliere lo sguardo
dall’anonima busta bianca. Col busto in torsione si
voltò verso la luce che filtrava dalla finestra e ne
sbirciò l’interno: c’era soltanto un
trafiletto di giornale.
Stava per aprire il bordo della busta, ma l’occhio le cadde
sull’orologio digitale posato sulla sua scrivania ed
imprecò ancora una volta.
Infilò la busta nella borsa a tracolla, prese tutti i suoi
attrezzi del mestiere e corse di nuovo fuori dall’ufficio,
giù dalle scale e fuori dall’edificio.
Nemmeno quella volta aveva salutato il portiere.
***
Tom, per sua sfortuna,
non aveva dimenticato nulla di quella famosa notte. Ricordava persino
il numero esatto delle volte in cui era andato in bagno a vomitare
– quattro e mezzo, perché una volta non aveva
fatto in tempo e aveva condiviso i suoi mojito con il pavimento del
corridoio, – con suo fratello sempre attaccato al culo,
nonostante volesse stare male da
solo.
Ricordava il forte senso di nausea che aveva provato quando aveva visto
Helen sbaciucchiarsi con il poliziotto che lo aveva fermato
nell’Eastside e la più totale repulsione quando
lei aveva provato a guardarlo negli occhi.
Sbronza
com’era, aveva pensato piegato
sul cesso, mi avrà
visto tre volte.
Per fortuna lui aveva appena iniziato a bere quando l’aveva
notata e si era risparmiato la tortura di vederla in duplice o triplice
copia. Una Helen bastava e avanzava.
Allo stesso tempo, però, ricordava di essersi sentito
parecchio… ferito. Sì, strano ma vero, quella era
la parola da usare. Ci sarebbe stata bene anche umiliato,
ma ferito andava meglio.
Perciò era stato un vero sollievo quando, quella mattina,
non aveva visto il suo fuoristrada nei paraggi della Cherry
Tree Records. Aveva di fronte a
sé l’ottavo giorno senza di lei e… ah,
stava tornando ad amare la particolare sensazione di non averla fra i
piedi.
E per questo ci era rimasto ancora più male quando, per la
pausa pranzo, lui e suo fratello avevano deciso di andare a mangiare
qualcosa di serio in un ristorantino appartato, in cui il cibo era
davvero buono, e aveva visto Helen e il suo maledetto fuoristrada
arrivare appena in tempo per seguirli.
«Cazzo», berciò fra le labbra, avendo la
forte tentazione di fermare il fratello e di ordinargli di tornare
indietro, ma sapeva che se l’avesse fatto Bill sarebbe
tornato ad assillarlo sul fatto che era cotto di lei e la cosa non gli
piaceva affatto. Così fece finta di niente: non la
guardò né disse qualcosa in proposito al gemello.
Guidò verso la loro meta e parcheggiò
l’auto in un posto che si era appena liberato. Menomale che
la fortuna era dalla sua parte!
Entrarono nel ristorante e si sedettero ad un tavolo in fondo alla
sala, accanto alle vetrate che davano sui tavolini
all’aperto, ombreggiati da grandi ombrelloni.
Helen si sistemò in uno di quelli e come se nulla fosse
tirò fuori il cellulare per ascoltare un po’ di
musica attraverso gli auricolari che si era infilata nelle orecchie.
Quanto la odiava.
***
Grace si mise seduta ad
uno dei tavolini all’aperto in modo tale da poter guardare i
gemelli, che ne avevano scelto uno all’interno del
ristorante, senza però dare nell’occhio.
Tirò fuori il cellulare e si infilò gli
auricolari nelle orecchie, poi digitò sulla tastiera il
codice di decodifica della microspia presente nel cellulare del
chitarrista e chiuse gli occhi quando sentì le loro voci:
stavano discutendo su ciò che c’era scritto sul
menù e questo sarebbe potuto interessare a Molly, ma
sicuramente non a lei, ancora meno quando rammentò di avere
una busta piuttosto sospetta nella borsa.
Un cameriere passò anche da lei e Grace ordinò un
piatto di nachos senza peperoni nel condimento e una birra. Quando se
ne andò, la ragazza tornò ad interessarsi della
busta, che estrasse dalla tracolla e si rigirò ancora fra le
mani, incerta. Alla fine prese il coltello posato sopra la tovaglia
immacolata e ne tagliò il bordo; ne fece scivolare sul
tavolo il contenuto ed accertò quello che aveva ipotizzato
nel suo ufficio: si trattava proprio di un piccolo articolo di
giornale, ritagliato in maniera minuziosa.
Osservò il pezzetto di carta grigia, macchiato
dell’inchiostro delle parole e della piccola foto sotto il
titolo del trafiletto. Lo scrutò e lo lesse
dall’alto, senza toccarlo, ma dovette farlo quando il
cameriere tornò da lei col suo piatto di nachos: lo
levò dalla tavola e se portò sul petto, come se
fosse la cosa più preziosa che possedesse.
«Buon appetito», le augurò il cameriere,
anche se un po’ stranito dal suo comportamento bizzarro.
Grace non rispose. Guardò ancora una volta
l’articolo di giornale, poi posò lo sguardo sul
suo piatto caldo e prese una tortilla di mais, trascinandosi dietro un
po’ di formaggio fuso.
Lesse ancora l’articolo, mangiando una tortilla alla volta e
bevendo un sorso di birra ogni tanto, ma non ci trovò nulla
di particolare.
Perché quell’anonimo
“informatore” le dava informazioni che non riusciva
a capire? Provò a leggerlo sotto un’altra
prospettiva, ma nulla.
Talmente concentrata su quello, si era completamente dimenticata di
Bill e Tom. Mentre si grattava il capo, confusa, alzò lo
sguardo ed incrociò quello del chitarrista, il quale si
voltò subito dopo.
Grace sospirò e si immobilizzò quando Bill disse,
nel suo tedesco impeccabile: «Smettila
di guardarla, se poi devi fuggire in questo modo».
«Stai zitto,
Bill».
«Potrei anche farlo, ma…».
«Il fatto è che devi,
punto».
Bill ridacchiò. «Da
uno a dieci, quanto ti ha dato fastidio vederla con quello
là, l’altra sera?».
«Nessun
fastidio!», ribatté
subito il gemello, alterato. «L’ho
solo compatita, perché poteva certamente trovarsene uno
migliore».
«Uno come te,
insomma».
«Smettila Bill, davvero, o ti ficco la testa
nell’insalata».
«Uh, che paura», lo prese in giro. «E
poi, che hai detto? Poteva certamente trovarsene uno migliore? Nel
senso che ha tutte le carte in regola per una sco-».
Grace sentì un movimento brusco e qualcosa che cadeva.
Guardò ancora in direzione dei gemelli, spaventata, e vide
Tom semisteso sul tavolo, che cercava di spingere la faccia di Bill
verso il piatto di insalata che aveva di fronte a sé.
Che qualcuno fermi quei
due bambini, pensò
portandosi una mano sulla fronte. Ma non impedì ad un
leggero sorriso – il primo della giornata – di
illuminarle il volto. Non avrebbe mai sentito quei
“complimenti” se non avesse usato delle microspie,
però non si sentiva affatto in colpa, anzi. Un po’
di merito ce l’aveva anche lei, in fondo, visto che conosceva
il tedesco; o meglio, il merito era ancora una volta di suo padre e
delle sue origini.
Si pulì le dita unte sul tovagliolo, bevve
l’ultimo sorso di birra e proprio in quel momento un auto
accostò sul ciglio della strada. Il finestrino si
abbassò e un uomo dai capelli biondi e gli occhi azzurri,
con un viso da bambino che nascondeva un’età
compresa tra i quaranta e i cinquant’anni, le fece segno di
salire. Grace pensò immediatamente all’uomo
descritto dal portiere, quello che le aveva fatto recapitare quella
busta, e lo stomaco le si strinse in una morsa. Come faceva a sapere
che lei si trovava lì?
«Si muova!», le gridò in labiale.
Allora Grace fece un respiro profondo e decise di fidarsi del suo
istinto.
***
«Ehi! Ehi,
signorina!».
Il capocameriere corse fuori dal ristorante, ma ormai era troppo tardi:
Helen era già salita sull’auto che si era fermata
lì di fronte appena qualche secondo prima.
L’uomo rientrò, infuriato, e mostrò
alla ragazza che stava alla cassa il tovagliolo scritto che Helen gli
aveva lasciato: «C’è scritto
“Torno subito”!».
La ragazza trattenne un sorrisino, mentre il capocameriere, sul punto
di avere un esaurimento nervoso, si rinchiuse in cucina.
«Ma che cosa…?», balbettò
Bill, puntando lo sguardo su suo fratello gemello, il quale non aveva
ancora schiodato lo sguardo dal posto vuoto lasciato da Helen: sul
tavolo c’era ancora il piatto di nachos che non aveva finito.
«Quella è pazza», disse ancora Bill,
scuotendo il capo. «Chissà cosa le è
preso… Dici che dovremmo seguirla?».
Tom si voltò verso di lui e lo guardò con occhi
inespressivi. «Da quando siamo noi che dobbiamo seguire
lei?».
***
Grace infilò
una mano nella borsa e sfiorò con le dita il suo
registratore, ma non fece in tempo a schiacciare il tasto REC che
l’uomo alla guida disse: «Non ci provi nemmeno,
signorina». La guardò con la coda
dell’occhio e le sorrise.
Grace fece una smorfia. «Posso sapere con chi ho
l’onore di parlare?», gli domandò con
finta cortesia.
«Lionel Reed».
«Lionel Reed…», ripeté a
bassa voce. Aveva come la sensazione di averlo già sentito
da qualche parte.
«E tu sei Grace». Le rivolse un altro dei suoi
sorrisi. «Scusa, posso darti del tu, vero?».
«Come fai a conoscermi? E come facevi a sapere che mi trovavo
in quel ristorante?».
Lionel ridacchiò. «Diciamo pure che siamo amici di
vecchia data, anche se tu probabilmente non ti ricordi di me. Trovarti
in quel ristorante è stato un semplice colpo di
fortuna».
Grace non ci credeva, nemmeno un po’. Doveva assolutamente
scoprire di più su questo Lionel Reed. A partire dal
perché le risultasse familiare. Amici di vecchia data, aveva
detto? E quando mai l’aveva conosciuto?
«E per quanto riguarda questo?», gli chiese
estraendo dalla borsa l’articolo di giornale.
«Perché dovrebbe interessarmi?».
Lionel le gettò un’occhiata di sfuggita e si
lasciò andare ad una risata. Poi disse: «Ma tu sei
la figlia di Mitch, vero? Ci mancherebbe soltanto che io abbia trovato
la Grace sbagliata».
All’udire il nome di suo padre, Grace impallidì.
«Come… come fai a conoscere mio padre?».
«Abbiamo fatto la qualificazione per entrare in marina
insieme. Bei tempi. Io e tuo padre eravamo molto amici, sai?».
«È morto», mormorò, mentre il
suo volto si pietrificava.
«Lo so bene».
«E allora perché…? Che cosa vuoi da
me?».
Lionel indicò l’articolo che Grace teneva ancora
fra le mani. «Credo che questo caso possa essere collegato
alla morte di Mitch».
Lionel costeggiò il ciglio della strada e si
fermò di nuovo di fronte al ristorante da cui
l’aveva prelevata. Grace scese dall’auto,
profondamente scossa, e chiuse la portiera con un gesto privo di
energia.
«Grace», la chiamò Lionel, sporgendosi
verso il finestrino abbassato. La ragazza si voltò e lo
guardò con sguardo spento. «Semper
fidelis».
Le venne in mente la voce di suo padre – non la sentiva
così distintamente nelle orecchie da anni ormai – e fu un vero colpo al
cuore, ma ebbe la forza di annuire e di salutare l'ex-marine con un
gesto della mano.
Entrò all’interno del ristorante e vide subito che
i gemelli non c’erano più, se n’erano
andati. Raggiunse il bancone del bar e il capocameriere la riconobbe
subito, perché si alzò in piedi e la
guardò stupefatto.
«Signorina, ma lei…», mormorò.
«L’avevo detto che sarei tornata»,
replicò abbassando lo sguardo sulla sua borsa a tracolla.
«Quant’è?».
«Ehm, in realtà…».
«Che cosa c’è?»,
domandò Grace spazientita, sollevando il capo ed incontrando
lo sguardo confuso dell’uomo.
«Il fatto è che il suo conto è stato
già pagato».
«In che senso? Chi l’ha pagato?».
«Il signor Kaulitz. Quello…».
Grace lo interruppe: «Sì, ho capito. Grazie
allora, a presto».
Raggiunse l’uscita senza voltarsi più indietro,
salì sul suo fuoristrada e posò le mani sul
volante, quando un piccolo sorriso si fece spazio sulle sue
labbra.
***
«Allora,
com’è andato il primo giorno di ritorno dalle
vacanze?».
Grace masticò il pezzo di panino che aveva ancora in bocca
ed annuì, come se Molly potesse vederla attraverso il
cellulare.
«Tutto sommato bene».
«Successo qualcosa di interessante?».
«Uhm… non esattamente».
Tenne premuto il cellulare contro l’orecchio sollevando la
spalla e sistemò in un’unica pila le carte che
aveva davanti: gli appunti che aveva preso in mesi di studio del caso
di suo padre, che improvvisamente si era riaperto grazie a Lionel Reed.
All’inizio del malloppo c’era proprio il fascicolo
dell’ex-marine, ritiratosi dal corpo dei marines quasi un
decennio prima. L’aveva ottenuto dopo essersi infiltrata
negli archivi elettronici dei computer della U.S.
Navy, la Marina Militare degli
Stati Uniti, a cui aveva accesso esattamente come lo aveva sempre avuto
suo padre.
Aveva scavato un po’ nel suo passato e ora sapeva che aveva
perso sua moglie e sua figlia a causa di un vecchio pareggio di conti
che riguardava l’Iraq. Alcuni terroristi islamici avevano
deciso di vendicarsi sulle persone a cui teneva di più al
mondo perché con l'aiuto di due soli uomini della sua
squadra era riuscito a sabotare un pericoloso attentato, programmato
per distruggere una delle basi navali americane a Baghdad.
«Tom mi ha pagato il pranzo», disse dopo essere
rimasta per qualche secondo in silenzio ad immaginarsi un Lionel
più giovane, in uniforme da combattimento, alle prese con
temibili terroristi appoggiati da Saddam.
«Che cosa?! Ma è fantastico!».
L’investigatrice alzò il sopracciglio.
«Io credevo che dovessi pedinarlo e dirti tutto
ciò che scoprivo, non pensavo che tu volessi trovarmi un
fidanzato».
«Beh, ormai siamo amiche Grace… e non mi
dispiacerebbe se tu e Tom vi metteste assieme, sai? Anzi, vi vedrei
proprio bene».
«Hai mangiato caviale avariato? Tu stai male,
Molly».
«No, assolutamente no! Sarebbe stupendo, davvero! Il
matrimonio ve lo finanzio io!».
«Molly, ti prego, non fantasticare troppo. Sognare fa male
alla salute».
«Macché!», rise. «Ora dove
sei?».
«Nel fuoristrada, di fronte al giardino sul retro. Come al
solito».
«E riesci a vedere dentro la sua camera?».
«Sì, in questo momento è tutto
nudo!», imitò la voce di una di quelle ragazzine
con gli ormoni impazziti e dovette allontanare il cellulare
dall’orecchio per tutta la durata di un urlo che non avrebbe
mai imputato a quella dolce ragazzina, se non fosse stato per il fatto
che ci stesse rimettendo direttamente un orecchio.
«Stavo scherzando», sbuffò con un
sorriso quando dall’altra parte ricadde il silenzio,
probabilmente perché Molly era svenuta.
«Ah», mormorò la ragazzina milionaria.
«Non fare mai più una cosa del genere».
«Mai più», promise. Ne andava anche
della salute del suo apparato uditivo.
«È sempre un piacere parlare con te, Grace, ma ora
devo proprio lasciarti. Ci sentiamo domani, okay? E ringrazia Tom, mi
raccomando».
«Buonanotte, Molly», disse e riappese.
Lanciò il cellulare sul sedile del passeggero, accanto alla
scatola in cui c’era ancora metà del suo panino, e
tornò ad esaminare le sue carte.
Non sapeva come avrebbe fatto, d’ora in avanti, ad occuparsi
sia del pedinamento di Tom sia di quel caso, ma quest’ultimo
aveva la massima priorità.
«E ringrazia
Tom, mi raccomando». Grace
ripensò alle parole di Molly e sospirò,
appoggiando il gomito al finestrino. Era da molto che non parlava con
Tom, era davvero il caso…?
Scosse il capo e riacciuffò il cellulare. Dei ringraziamenti
glieli doveva, non aveva scuse.
***
Grazie
per avermi pagato il pranzo oggi, non avresti dovuto. Io mantengo
sempre la parola data.
Tom
strabuzzò gli occhi leggendo quel messaggio appena
arrivatogli.
Helen? Da quando Helen aveva il suo numero di cellulare?
Come…?
Si mise seduto meglio sul divano, su cui si era spaparanzato per
guardare un film con Bill, il quale si era addormentato ancora prima
che iniziasse. Guardò il gemello e si levò dalla
testa l’idea di svegliarlo solo per dirgli che Helen aveva
avuto – non sapeva da chi né come – il
suo numero.
Si alzò e raggiunse le vetrate che davano sul giardino sul
retro. Vide una piccola luce illuminare l’interno del
fuoristrada che conosceva bene e per una frazione di secondo vide anche
i suoi occhi verdi brillare al buio, che lo scrutavano con attenzione.
Improvvisamente si diede del cretino: era inutile continuare a non
parlarsi, dato che a lui non gliene doveva fregare niente se scopava
con qualcuno. L’aveva istigata lui a farlo,
d’altronde.
Fece scorrere delicatamente una delle due porte finestre ed
uscì in giardino col cellulare stretto nella mano destra.
Raggiunse il suo fuoristrada e la vide nascondere dei fogli, che
cacciò nella sua borsa a tracolla. Poi aprì la
portiera del passeggero e si infilò
nell’abitacolo, trovandosi in mano un contenitore con un
mezzo panino all’interno.
La luce che si era accesa in mezzo a loro quando era entrato lentamente
si affievolì e solo quando fu spenta si girò
verso di lei.
«Ciao», la salutò.
«Ciao», ricambiò il saluto, arricciando
il naso per reprimere un sorriso impacciato.
Tom si guardò intorno. «Che fai?».
«Ti osservo».
«Beh, allora ti ho fatto un piacere venendo qui».
«Sì, potrebbe darsi».
«Posso?».
Grace abbassò lo sguardo sul suo panino e poi lo
sollevò per incontrare gli occhi seri di Tom, che indicava
la sua cena con un dito. La ragazza scrollò le spalle e il
chitarrista non se lo fece ripetere due volte ed addentò il
panino.
«Era lì da una settimana», disse Grace.
Tom lo sputò immediatamente, facendo un bel pasticcio, e poi
la guardò con gli occhi fuori dalle orbite. Lentamente la
sua espressione mutò in una adirata, mentre sul volto di
Grace si allargava un sorriso.
«Sì, era uno scherzo», gli
sussurrò.
______________________________
Grace,
grazie all'aiuto di Lionel, un ex-marine amico di suo padre,
riuscirà a fare progressi col caso? E lei e Tom faranno la
pace?
Per oggi dico solo questo ;) Aspetto di leggere le vostre opinioni,
come sempre!
Ringrazio infinitamente chi ha lasciato due parole allo scorso capitolo
e chi ha aggiunto questa storia fra le preferite/seguite! Love U :)
A lunedì prossimo (e abbiate fede, pian piano i capitoli si
allungheranno e succederanno un sacco di cose interessanti! ;D)
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
«Sai, non
penso di aver mai odiato tanto una ragazza quanto odio te».
«Avvertimi quando i tuoi sono complimenti, così ti
ringrazio», disse voltando il viso verso il finestrino. Il
suo sguardo però non andò oltre il vetro, rimase
lì a fissare il nulla eccetto il suo debole riflesso.
«Non sei abbastanza acida, questo vuol dire che hai la testa
altrove», dedusse Tom. «In realtà
è tutto il giorno che ti comporti in maniera strana. Per
esempio a pranzo. Hai mollato tutto e sei salita nell’auto di
quello… sconosciuto? Era uno sconosciuto?».
Grace scosse lievemente il capo e chiuse lentamente gli occhi.
«È un amico di mio padre. Credo di essere stata
amica di sua figlia, da piccola, ma non ne sono sicura».
Non avrebbe dovuto dirgli quelle cose, ma… le erano uscite
di bocca senza che nemmeno se ne accorgesse.
«E che cosa aveva da dirti di tanto urgente, tanto
da sequestrarti?»,
sollevò il sopracciglio ed ebbe la forte tentazione di
prenderle il mento fra le dita e di voltarle il viso verso di lui. Ma
non lo fece, nonostante volesse guardarla negli occhi.
La ragazza non rispose a quella domanda, non poteva parlargli del caso
e di tutto il resto. Lui non doveva sapere nulla di lei. Non a caso non
sapeva nemmeno il suo vero nome.
«Brooklyn», richiamò la sua attenzione
il chitarrista, «mi hai sentito?».
«Sì», rispose in tono piatto.
«Sta per piovere».
Tom sbuffò e scosse il capo, afflosciandosi un po’
di più sul sedile.
«Ti detesto, davvero», sussurrò. Poi
ritrovò la sua voce e disse: «Se non ne vuoi
parlare basta dirlo, sai?».
«Come se tu ti accontentassi di un “Non ne voglio
parlare”. Saresti ancora più insistente. Ti
conosco ormai, Tom».
«Non credo proprio», mormorò incrociando
le braccia al petto.
«Okay», si arrese Grace, girandosi finalmente verso
di lui. «Non ne
voglio parlare, cambiamo
argomento?».
Tom le rivolse uno sguardo freddo, poi fu lui a girare il capo verso il
finestrino. Anche la sua voce cambiò, sembrava…
lontana.
«Parliamo della tua serata al Broadway
Bar».
Grace si portò una mano sulla fronte e represse una risatina
nervosa. «Così mi fai preferire di rispondere
all’altra domanda».
«Fai un po’ come credi»,
borbottò, anche se dentro di sé sperò
che non tornasse sull’argomento precedente;
l’ultimo lo interessava di più.
La sentì sospirare e poi far schioccare la lingua contro il
palato.
«Dylan è l’unico vero amico che
ho», esordì, passandosi i palmi delle mani sui
jeans a pinocchietto. «E non ho la più pallida
idea del perché sia successo… Insomma, non
pensavo che potesse…».
«Da quanto vi conoscete?», chiese con tono sicuro,
come se si fosse preparato la domanda da tempo.
Ma Grace non ebbe la stessa rapidità né sicurezza
quando rispose: «Eravamo dei ragazzini. Lui era appena
entrato nella stradale, io… avevo appena finito
l’università e bazzicavo nell’ambiente
di mio padre».
Tom si voltò di scatto verso di lei e la guardò
intensamente negli occhi, tanto che la ragazza provò un
po’ di soggezione.
«Tu sei… diabolica», sibilò.
«Non mi hai dato nemmeno un’informazione, solo
degli accenni molto vaghi! Sei andata
all’università – quale
facoltà, in cosa ti sei laureata? – e poi hai
lavorato nell’ambiente di tuo padre – che ambiente?
Perché non…», sbuffò
sonoramente, irritato, «non provi a raccontarmi qualcosa di
te senza nascondermi anche le cose più banali?».
«Stavamo parlando di Dylan, se non sbaglio»,
glissò e si portò il pugno di fronte alla bocca,
tornando a fissare un punto oltre il suo finestrino.
«Sì, certo», mormorò Tom,
facendole cenno di proseguire.
Quella ragazza era pazzesca: preferiva parlare di cose di cui non
avrebbe voluto parlare, piuttosto che raccontargli un po’ di
sé.
«Beh, alla fine non c’è molto altro da
raccontare», rifletté ad alta voce Grace.
«È stato lui a provarci?», le
domandò.
Annuì. «Io non l’avrei mai fatto,
insomma…».
«E avete scopato comunque, anche se tu non
l’avresti mai fatto».
«Già». Spostò gli occhi sul
parabrezza ed indicò col dito una piccola goccia
d’acqua che si era appena schiantata contro il vetro e si
prestava a scivolare verso i tergicristalli.
«L’avevo detto che sarebbe piovuto».
Qualche secondo dopo molte altre gocce si schiantarono contro il
parabrezza, il cofano e il tetto del fuoristrada, producendo un suono
metallico. Era un vero e proprio acquazzone, uno di quelli che
preannunciavano l’arrivo delle piogge invernali, nonostante
fosse soltanto fine ottobre.
«Divertita?».
Grace non diede più peso alla pioggia e si voltò
verso il ragazzo, la cui voce aveva sentito a malapena. Ma
l’aveva sentita e il cuore le era schizzato in gola.
Perché avrebbe dovuto interessargli?
«Non pensi che sia un po’ privata, come
cosa?», gli chiese con espressione ancora un po’
sorpresa.
Lui scrollò le spalle. «La mia è
semplice curiosità».
Non ci credeva totalmente, soprattutto dopo quello che aveva ascoltato
quella mattina al ristorante. Forse un po’ curioso lo era sul
serio, ma voleva metterlo alla prova.
«È stato, diciamo… una delle migliori
scopate della mia vita. Decisamente».
Lo osservò attentamente e vide i muscoli della mascella
irrigidirsi e poi sciogliersi per permettere ad un sogghigno di
prendere il sopravvento sulle sue labbra.
«Perché non hai ancora provato il mio
amichetto», disse.
Immagazzinò la sua risposta nel cervello. «Oh,
fidati», continuò poi la sua sceneggiata,
portandosi una mano sul petto con gli occhi leggermente spalancati.
«Non penso che tu potresti superare Dylan».
«Ah no?», inarcò il sopracciglio, come
se le stesse lanciando una sfida. Quel Kaulitz, dotato o meno che
fosse, era un po’ montato.
«Mm-mmh», sollevò ed abbassò
il capo. «Al dipartimento gli hanno affidato un certo
soprannome…!».
Tom si avvicinò col viso al suo e inspirò ed
espirò profondamente prima di dire, con malizia negli occhi:
«Se non ti odiassi così tanto ti dimostrerei
quanto ti sbagli seduta stante».
«Sei solo un pallone gonfiato», e lo spinse via
ridendo sotto i baffi. «Adesso penso proprio che tu debba
andare a nanna». Accennò con un’occhiata
alla portiera.
Tom guardò fuori l’acquazzone che non era ancora
finito, poi guardò Helen con la faccia di un bambino
sperduto. «Ma diluvia ancora!».
«Che cosa vorresti fare allora, restare qui finché
non smette, con me?»,
sollevò le sopracciglia.
Il ragazzo guardò ai lati del sedile fino a trovare la
manopola che lo inclinò tanto da farlo somigliare ad un
letto. La guardò con un sogghigno dipinto in faccia, mentre
si girava sul fianco, e disse: «Magari nel frattempo cambi
idea sulla dimostrazione».
Grace lo imitò, tirando giù il sedile, e gli
diede le spalle. «Cos’è, già
non mi odi più così tanto?».
***
La vibrazione del suo
cellulare la svegliò lentamente, tanto che quando se lo
portò all’orecchio era ancora con gli occhi chiusi
a causa del sole del mattino che rischiarava il cielo e dava una
sfumatura leggermente rosata alle nuvole.
«Pronto?», mugugnò con la voce roca,
mentre faceva leva sul braccio per girarsi. Aveva dormito nel
fuoristrada tutta la notte e aveva la schiena a pezzi.
«Ciao Grace. Scusa, ti ho svegliata?».
Realizzare che aveva davvero
dormito tutta la notte nel fuoristrada –
con Tom accanto per
giunta! – fu un duro colpo, che
la fece svegliare del tutto col cuore che le batteva nella carotide.
«Dylan… No. Cioè
sì, però…», rispose a
scatti, dandosi della cretina. «Scusami un attimo».
Si portò il cellulare sulla clavicola e guardò
Tom che ancora dormiva sul sedile del passeggero, con una mano sotto la
guancia, poi aprì la portiera e senza fare troppo rumore
uscì dal veicolo.
Dal terreno impregnato d’acqua si levava un forte profumo e
l’aria frizzante della mattina la fece rabbrividire un poco,
ma fu in grado di rischiararle le idee.
Si appoggiò al cofano del fuoristrada e mise un piede sul
paraurti, dando le spalle al sole e a Tom. Poi tornò a
parlare al cellulare: «Eccomi. Dicevi?».
«Oggi a pranzo hai da fare?», le chiese subito
Dylan, senza nemmeno l’ombra di una risata nella voce,
ciò che la contraddistingueva. «È da
quando è successa quella cosa che non parliamo.
Dovremmo».
«Oh». Grace si portò una mano fra i
capelli e sospirò. «Sì,
dovremmo».
«Ci vediamo all’una all’Homegirl
Cafè,
allora».
«Okay, ci vediamo lì».
Dylan pose fine alla telefonata senza nemmeno salutarla e Grace si
portò entrambe le mani sul viso, che si
massaggiò.
Con la coda dell’occhio osservò Tom
all’interno del fuoristrada e un piccolo sorriso le
incurvò all’insù le labbra.
Quindi lo raggiunse e chiuse con delicatezza la portiera, poi si sporse
verso di lui e gli posò un dito fra gli occhi, lo fece
scivolare sulla linea delicata del suo naso e lo fermò sulla
sua punta arrotondata, la schiacciò un pochino e solo allora
Tom iniziò a svegliarsi.
Grace trattenne il respiro, come se quell’evento avesse un
qualcosa di miracoloso, e ripensò alla notte che aveva
trascorso con lui a dormire. Non si erano nemmeno sfiorati, ma
l’aveva sentito parecchio vicino.
Era la prima volta che le accadeva una cosa del genere ed era una
strana sensazione, quella che si sentiva appiccicata addosso.
Perché lui aveva quegli effetti collaterali su di lei? Era
profondamene convinta che quello sarebbe sempre stato un caso
irrisolto.
«Helen», mugugnò il chitarrista e lei
rinvenne.
Portò lo sguardo sui suoi occhi piccoli ed
accennò un sorriso.
«Buongiorno», lo salutò. «Si
dorme bene sul mio fuoristrada, vero?».
Tom si girò supino sul sedile e la sua espressione vagamente
sofferente la fece ridere sotto i baffi. Anche lui aveva il suo stesso
mal di schiena. Ma non fu soltanto quello, perché sulla
guancia aveva il segno rosso della sua stessa mano, usata come cuscino.
Stava per dirgli che sembrava davvero un bambino, quando si rese conto
che lei era la prima a non poter parlare: probabilmente aveva tutto il
mascara sbavato sotto gli occhi, che le dava l’aspetto di un
panda.
«Promettimi che non me lo farai fare mai
più», disse Tom, sollevando l’indice del
braccio che si era portato sugli occhi.
«Non sono stata io a costringerti a stare qui. Sei stato tu a
fare i capricci perché fuori diluviava»,
ribatté.
«Ho un bisogno assoluto di caffè»,
esclamò Tom, togliendosi il braccio dagli occhi e guardando
il soffitto del fuoristrada. «E di una doccia»,
arricciò il naso. «Non vorrei prendermi qualche
strana malattia. Chissà da quanto tempo non pulisci qui
dentro…».
«Ehi!», gli schiaffeggiò
l’addome con il dorso della mano e lui rise. Grace si
riempì le orecchie di quella risata contagiosa, diversa da
tutte le altre che aveva sentito da quando si conoscevano: era
più leggera, spensierata, vera. E bellissima.
Quando Tom smise di ridere, lasciandosi andare ad un sospiro, Grace si
riprese e si girò verso il volante.
«Ti do’ ragione sul caffè»,
disse ed avviò il motore con una mandata di chiavi nel
cruscotto.
«Che hai intenzione di fare?», le chiese,
sollevando il capo. «È sequestro di persona
questo!».
«Macché», sorrise. «Andiamo
soltanto da Starbucks.
Stai giù, fai finta di dormire; non ti
preoccupare».
Tom la scrutò per alcuni secondi, soffermandosi in
particolare sul suo viso punteggiato di efelidi e sul sorriso che le
aleggiava sulle labbra, poi scosse il capo e lo posò di
nuovo sul sedile, chiudendo gli occhi.
Cullato dalla guida sicura di Helen e dalle canzoni che passavano alla
radio, si riappisolò, ma nel dormiveglia la sentì
canticchiare a bassa voce l’ultima hit di Enrique Iglesias.
Quando il fuoristrada si fermò la sentì muoversi
accanto a sé ed aprendo un occhio la vide col busto in
torsione che cercava di prendere la borsa a tracolla sui sedili
posteriori. Vide la pelle tesa del suo ventre, lasciata nuda dalla
maglietta grigia che le si era sollevata, e anche il suo ombelico.
La ragazza si accorse del suo occhio aperto e gli fece cadere sul viso
la sua giacca di pelle marrone, rimbeccandolo: «Tieni gli
occhi a posto, Kaulitz».
Lui sollevò le mani in segno di resa e rimase
così fino a quando non sentì la portiera aprirsi
e richiudersi lasciando che il freddo mattutino si infiltrasse
nell’abitacolo.
Stava per togliersi la sua giacca dalla faccia, ma all’ultimo
decise di tenersela: aveva un buon profumo, che respirò a
fondo, tanto da sentirlo bruciare piacevolmente nei polmoni.
Ripensò alla notte che avevano passato insieme e non ci vide
nulla di male, proprio nulla. Era stata una bella serata, anche se non
avevano parlato molto né avevano fatto
qualcos’altro. Si era sentito bene.
«Grazie a Dio esiste Starbucks!»,
esordì Grace entrando nuovamente nel fuoristrada con una
confezione da quattro su cui erano impilati tre bicchieroni di
caffè. La diede a Tom ed avviò il motore.
«Il tuo è il terzo», disse indicandolo
frettolosamente, mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio.
«Questo?».
«No, quello è alla cannella, per tuo fratello.
Quell’altro è il mio, alla vaniglia, e il tuo
è l’unico rimasto».
Tom sollevò il suo bicchiere di cartone e se lo
portò alle labbra per bagnarsele con il caffè.
«Uhm. Ti piace Enrique Iglesias e il caffè con la
vaniglia. Ho già imparato due cose su di te
stamattina».
Grace lo guardò con la coda dell’occhio e
sogghignò. «Lo spirito d’osservazione
è importante, ma non sempre le cose sono come sembrano. Non
mi piace Enrique Iglesias, quella canzone l’hanno mandata
così tante volte alla radio che ormai l’ho
imparata a memoria».
«Devi sempre stare lì a smontarmi», si
lamentò, imbronciandosi.
La ragazza scosse il capo, arricciando le labbra in un sorriso.
«Mi raccomando, non andate in posti in cui non possa
rintracciarvi».
Tom si voltò verso Helen prima di aprire la portiera e
disse: «Tu ci rintracceresti persino al Polo Nord».
La ragazza sorrise corrugando la fronte. «Finalmente un
complimento! Sono stupita, Tom».
Lui le fece l’occhiolino e scese dal fuoristrada. Fece il
giro, passando di fronte al cofano, e si diresse verso le porte vetrate
che davano sul giardino sul retro.
«Tom!», gridò Grace sporgendosi dal
finestrino che aveva aperto. Lui si voltò e la
guardò con un grande punto interrogativo in faccia.
L’investigatrice l’aveva chiamato per dirgli di
quella serata, che tutto sommato si era sentita bene con lui, ma alla
fine non fu più così sicura di volerglielo dire.
«Niente», concluse infatti, scuotendo il capo con
un sorriso appena accennato sulle labbra.
Il chitarrista scrollò le spalle e rientrò in
casa.
***
Bill si
svegliò e vide suo fratello seduto al tavolo della cucina,
vestito come il giorno precedente, che beveva da un bicchiere di
cartone con il simbolo di Starbucks
stampato sopra e puntava il telecomando verso la televisione.
«Che… Tom?».
Il gemello gli prestò un briciolo della sua attenzione e gli
rivolse una rapida occhiata, dandogli il buongiorno.
Il frontman si alzò dal divano, levandosi la coperta di
dosso, e traballò fino alla cucina, ancora un po’
intontito. Si mise seduto accanto al fratello e lo guardò
attentamente, poi posò lo sguardo sull’altro
bicchierone di caffè sul tavolo.
Lo indicò col dito, dicendo: «Non è
opera tua, ne sono certo. Anche perché tu almeno ti saresti
cambiato per uscire».
Tom sollevò il sopracciglio e con esso anche un angolo della
bocca, in un mezzo sorriso. «Ebbene sì,
è opera di Helen».
Bill ci mise qualche minuto a fare tutti i collegamenti del caso e,
tenendo conto anche della strana luce che brillava negli occhi di suo
fratello, capì che dovevano “aver fatto
pace” in qualche modo.
«Raccontami tutto quello che è
successo», lo minacciò assottigliando gli occhi.
Allungò il braccio fino ad arrivare al primo cassetto alla
sua destra, quello delle posate, e ne tirò fuori una
cannuccia di plastica rosa. La infilò nel bicchiere di
caffè e dopo aver succhiato qualche sorso, concluse:
«Dall’inizio».
***
Dormì ancora
un po’ nel suo letto, dicendosi che se lo meritava dopo aver
fatto tutte quelle ore notturne di straordinari.
Quando si svegliò il sole era già allo zenit ed
ebbe solo il tempo necessario per una doccia, poi dovette correre fuori
di casa per non arrivare tardi al suo appuntamento con Dylan.
Parcheggiò di fronte all’Homegirl
Cafè e prima di
scendere dal fuoristrada si guardò nello specchietto
retrovisore: non aveva un filo di trucco sul viso e i capelli ancora
umidi erano legati in una coda scomposta sulla nuca.
Respirò profondamente, tamburellando le dita contro il
volante, poi si decise ad andare incontro a ciò che
l’aspettava.
Camminò accanto alle vetrate del cafè e vide
quasi subito Dylan all’interno, seduto ad uno dei tavolini
contro la parete est del locale, che consultava il menù.
Grace entrò annunciata da uno scampanellio e Dylan
sollevò il capo. I loro sguardi si incrociarono quasi subito
e lei vi fuggì, in imbarazzo.
Si avvicinò al tavolo e si mise seduta di fronte a lui
tossicchiando. Proprio come la mattina dopo aver fatto
l’amore, non sapeva da che parte prenderlo, si sentiva a
disagio e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era scappare
il più lontano possibile.
«Ehi», la salutò lui.
«Ciao», riuscì a ricambiare.
Dylan le posò le dita sotto il mento e le tirò su
il viso, in modo tale che potesse guardarla negli occhi e rassicurarla
con un sorriso appena accennato, che celava il vero dispiacere che
giaceva dentro di lui.
«Come stai?», le chiese.
«Tutto bene. Tu?».
«Ho rischiato di prendermi delle pallottole, ieri sera. Ma
per il resto sto bene».
Grace trasalì. «Stai scherzando?».
«No, purtroppo no», scosse il capo.
«Abbiamo visto dei ragazzetti spacciare un po’ di
droga ai loro amici e li abbiamo avvicinati, questi hanno tirato fuori
delle pistole ed hanno iniziato a sparare. Abbiamo aspettato che
finissero i proiettili, poi hanno provato a scappare, ma li abbiamo
presi».
«Feriti?», chiese la ragazza, con gli occhi grandi
preoccupati.
«Un ragazzino, beccato di striscio alla spalla da uno degli
spacciatori. Si riprenderà presto». Sorrise
amaramente e posò una mano sulla sua. «Ho avuto la
prontezza di gettarmi dietro un cassonetto. Ma se non avessi fatto in
tempo? Se mi fossi beccato quelle pallottole?».
Sollevò gli occhi e li immerse nei suoi.
«È per questo che ho voluto vederti subito e
risolvere questa faccenda, perché col lavoro che
facciamo… non si può mai sapere per quanto si
può rimandare. Non me lo sarei mai perdonato se avessimo
lasciato in sospeso qualcosa tra noi».
Una cameriera messicana, con folti capelli neri e il naso a patata, lo
interruppe chiedendogli che cosa volessero ordinare. Dylan rispose
subito con: «Pollo con salsa di semi di zucca» e
Grace ordinò la stessa cosa, conscia che non avrebbe
mangiato molto comunque, vista la piega che aveva assunto la loro
conversazione.
Quando la cameriera se ne fu andata, Dylan portò lo sguardo
ancora su di lei, poi sulla sua mano, che accarezzò con il
pollice.
«Non devi nemmeno pensarle queste cose»,
esordì Grace a bassa voce. «Rischia di farti
sparare addosso un’altra volta e giuro che
io…».
Il poliziotto ispanico ridacchiò.
«Grace… nel caso dovesse capitare che qualcun
altro mi spari addosso voglio che tu sappia fin da ora che
l’unico motivo per cui lotterò sarai
tu».
Grace trattenne il respiro, mentre veniva scossa da un fremito.
Inconsciamente strinse la mano di Dylan ed abbassò lo
sguardo.
«Quello che è successo quella
sera…», riprese a parlare il ragazzo.
«Non voglio che le cose tra noi cambino, o
meglio…», si lasciò andare un sospiro e
chiuse gli occhi per trovare le parole adatte per spiegarsi.
«Io tengo molto a te, Grace. Non voglio perderti per nessuna
ragione al mondo».
«Nemmeno io», sussurrò. «Da
quanto…».
«…sono follemente innamorato di te?»,
concluse la frase per lei e fece per ridacchiare, ma gli
riuscì per metà, perché
l’altra metà gli si strangolò in fondo
alla gola. «Da quella volta in cui abbiamo fatto coppia per
prendere quel piccolo magnaccia…».
Grace annuì. Si ricordava di quella missione, era stata una
delle prime in cui aveva collaborato con la polizia. Era ancora una
ragazzina, e lui pure.
«Confortante», mormorò, arricciando le
labbra.
«Che cosa?».
«Faccio l’investigatrice privata per mestiere e non
sono mai riuscita a capire che tu – tu
– provavi qualcosa per me».
«Non sei tu. Sono io che sono troppo bravo sotto
copertura».
Grace sollevò il viso e si perse nel sorriso dolce di Dylan.
All’inizio riuscì persino a ricambiare, poi il
mondo le crollò improvvisamente addosso: il suo unico amico
era innamorato di lei, erano andati a letto insieme e lei non aveva
nemmeno uno straccio di idea su come agire.
Le tornarono alla mente episodi della sua adolescenza, parole ed
immagini alla rinfusa che erano proprio fuori luogo; poi vide con fin
troppa chiarezza l’immagine di Tom che dormiva accoccolato
come un bambino sul sedile del suo fuoristrada, con una mano sotto la
guancia.
La cameriera portò loro ciò che avevano ordinato
e Dylan lasciò andare la sua mano per concentrarsi sul
piatto che aveva di fronte, sospirando sommessamente al suo silenzio.
Grace si guardò la mano stretta a pugno sul tavolo e pian
piano il calore di quella di Dylan svanì. Ricordò
il calore che lei e Tom avevano creato quella notte nel fuoristrada e
questo tornò a vivere sulla sua pelle.
Erano così diversi, loro due…
«Nemmeno io voglio perderti», ripeté
Grace, attirando gli occhi di Dylan di nuovo su di sé.
«Non mi perderai», le rispose stiracchiando un
sorriso. «Ora mangia, o si raffredda».
***
«Grace».
«Lionel».
L’ex-marine si mise seduto di fianco a lei ed
ordinò un bicchiere di rum.
«Come mai mi hai fatto venire in questa bettola?»,
le domandò guardandosi intorno nel locale appena illuminato,
in cui c’era una grande puzza di fumo e si potevano fare
ottime conoscenze se si volevano avere soffiate su magnacci e traffici
illeciti di droga.
«C’è gente simpatica qui», gli
spiegò stringendosi nelle spalle. «E poi volevo
fare quattro chiacchiere con te».
«A che proposito?». Ricevette il suo bicchiere di
rum e se ne bagnò le labbra.
Grace invece tirò fuori dalla tasca della giacca di pelle
marrone il suo pacchetto di sigarette e se ne accese una tenendola fra
le labbra, poi porse il pacchetto all’ex-marine, il quale
rifiutò gentilmente.
Espirò il fumo e disse: «Ho fatto una ricerca su
di te».
«Ero certo che l’avresti fatto», sorrise.
«Scoperto qualcosa di interessante?».
La ragazza annuì, imitando Lionel. «Voglio sapere
perché sei venuto a cercarmi per dirmi che forse
quell’omicidio in Virginia è collegato a quello di
mio padre».
«Perché sono quasi certo che quella donna
è stata uccisa perché sapeva qualcosa che non
doveva sapere, proprio come tuo padre».
Grace si fece più vicina a lui, assottigliando gli occhi.
«E cioè cosa?».
Lionel sorrise. «Ti stai chiedendo come faccio io a sapere
del caso che stava seguendo tuo padre, vero?».
«Beh, il dubbio è lecito».
L’ex-marine finì di bere il suo rum.
«Tuo padre era venuto a parlarmi, voleva che gli raccontassi
tutto quello che era accaduto quel giorno a Baghdad». A quel
ricordo le sue spalle si curvarono, come se improvvisamente gli fosse
caduto addosso un peso che non poteva sopportare. «Mi aveva
accennato qualcosa, da amico ad amico».
L’investigatrice soppesò le sue parole e si disse
che dopotutto poteva avere un senso. Peccato che non ci fosse nulla
sugli appunti di suo padre che provasse la loro chiacchierata.
«Ho bisogno di sapere che cosa vi siete detti»,
disse.
Lionel annuì e si guardò intorno con sguardo
circospetto. «Spero non qui né adesso».
«No, non ti preoccupare».
Spense la sigaretta nel posacenere sul bancone e quella fu anche la
fine del sorriso sulle sue labbra, che incontrarono il sapore della
vodka liscia.
«Perché?».
Gli occhi di Lionel si posarono su di lei ed attesero che continuasse a
parlare.
«Perché vuoi aiutarmi?».
«Mitch era un mio amico», rispose con
tranquillità. «È il minimo che potrei
fare per lui, scoprire chi l’ha fatto fuori a sangue freddo.
Ho provato a fare domande in giro, ma… non ho contatti, non
ho nulla in mano, e non sono portato per fare il detective».
Dell’amarezza contaminò il suo lieve sorriso.
«Da quando sono tornato da Baghdad la mia vita è
andata a rotoli, non ho più uno scopo e quando ho letto di
quella donna uccisa con lo stesso modus
operandi in Virginia…
sono venuto subito a cercarti».
Grace rimase in silenzio per un po’, cercando di ricordare
qualcosa che la legasse a quell’uomo amico di suo padre e
all’improvviso rammentò il volto di una bambina
che rideva spensierata prendendola per mano e conducendola in giardino,
mentre i loro genitori rimanevano a chiacchierare in salotto. Quella
bambina aveva gli stessi occhi di Lionel e il suo stesso colore di
capelli, biondi come se fossero stati immersi nel miele.
Non ricordava esattamente quando avevano smesso di giocare insieme, ma
le passò di fronte agli occhi un pomeriggio in cui era
andata da suo padre per chiedergli i soldi per il cinema e lui in
risposta le aveva detto che uno dei suoi migliori amici stava per
partire per l’Iraq.
«Lionel Reed. Ti ricordi di lui?», le aveva
chiesto, con le mani intrecciate di fronte alla bocca. Lei aveva scosso
il capo e aveva ripetuto: «Mi dai i soldi per il
cinema?».
A sedici anni era così superficiale, capiva che
cos’era una guerra ma non era importante chi ci andasse, chi
moriva combattendo e chi tornava indietro. La cosa fondamentale erano i
soldi per il cinema.
Solo crescendo era maturata, aveva scoperto che cos’era il
dolore e aveva capito molte delle cose che suo padre le aveva detto,
molte delle quali le erano ritornate vitali.
«Baghdad…», mormorò ancora
soprappensiero. «Com’era?».
«Che cosa, la guerra? Caos e morte».
Il barista passò da loro per servirgli un altro giro. Quella
volta anche Grace ordinò del rum.
«Una cosa interessante l’ho scoperta»,
riprese a parlare la ragazza, dopo qualche minuto di silenzio passato a
bere. «Ho scoperto che hai ricevuto una Medaglia
d’Onore per ciò che hai fatto in Iraq».
Una medaglia di quelle concesse solo ad un membro delle forze armate
degli Stati Uniti che si distingue per un «atto
di coraggio e ardimento a rischio della propria vita sopra e
aldilà del richiamo del dovere mentre impegnato in uno
scontro con un nemico degli Stati Uniti».
Lionel sorrise amaramente, socchiudendo gli occhi azzurri ed arrossati.
«Sì, l’ho ricevuta. Ma la mia famiglia
è saltata in aria, letteralmente».
Grace arricciò le labbra in una smorfia e posò
una mano sul viso di Lionel, con una tenerezza che non riservava quasi
a nessuno da quando suo padre era morto. Ma loro erano simili, avevano
lo stesso dolore a marcirgli nell’anima.
L’ex-marine lasciò che le lacrime sgorgassero dai
suoi occhi come un torrente ed alcune di esse scivolarono anche fra le
dita di Grace, adagiate sulla sua guancia ispida a causa della barba di
qualche giorno.
«Ci ho messo un po’», mormorò
Lionel con le labbra tremanti. «Ho impiegato due anni della
mia vita a cercare quei fottuti bastardi, ma li ho presi. Oh
sì che li ho presi». Si voltò verso di
lei ed accennò un sorriso fra le lacrime. «Il
Presidente avrebbe dovuto darmi un’altra medaglia solo
perché li ho lasciati in vita».
Grace ricambiò il sorriso. «Hai proprio
ragione».
E fecero scontrare i loro bicchieri di rum.
____________________________
Tom, Dylan e Lionel. Tre persone
con le quali Grace avrà un bel da fare d'ora in avanti,
chissà in quale modo! :)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi possiate dire le
cose che vi sono piaciute di più e di meno! Per quanto mi
riguarda una delle mie scene preferite è proprio l'ultima
con Lionel in lacrime per la sua famiglia distrutta dall'odio provocato
dalla guerra.
Ringrazio ancora tutti coloro che hanno commentato lo scorso capitolo e
anche chi ha soltanto letto :)
Ci vediamo lunedì prossimo, un bacio! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
Grace e Lionel
passarono molto tempo insieme nei mesi successivi.
Lei gli aveva dato una copia di tutti i dossier e gli appunti di suo
padre del caso che entrambi volevano risolvere, insieme avevano trovato
delle informazioni sulla donna freddata in Virginia, e appena aveva un
momento libero lo raggiungeva per esaminarli di nuovo da cima a fondo,
accompagnati sempre da un po’ di alcool che non faceva mai
male.
Capitava che a volte Grace si fermasse a dormire a casa sua e che la
mattina facessero colazione insieme, sfatti.
Capitava, alle volte, che guardandosi negli occhi si sentissero
sollevati, come se avessero ritrovato nell’altro qualcosa che
pensavano di aver perso per sempre.
Una sera, dopo aver riesaminato tutto con attenzione e non aver trovato
nulla di nuovo, si erano seduti in veranda con una birra in mano e
avevano guardato il sole infuocato tramontare lentamente tra gli alberi
del parco poco lontano da lì.
Lionel, seduto accanto a Grace, si era soffermato ad osservarla un
po’ più del solito e lei gli aveva chiesto se
avesse qualcosa in faccia; lui aveva sorriso e scuotendo il capo aveva
detto: «Pensavo alla mia Hilary. Mi chiedevo come sarebbe
stata alla tua età. Tu sei proprio come io volevo che fosse
la mia piccola».
Grace aveva sorriso ed aveva abbassato lo sguardo, ma non aveva potuto
fare lo stesso ragionamento: come sarebbe stata la sua vita se suo
padre non fosse stato ucciso? Lei sarebbe diventata la stessa persona
che era adesso? Lionel avrebbe mai potuto prendere il posto di suo
padre?
Avrebbe potuto farsi altre mille domande, ma sapeva che sarebbero
sempre rimasti quesiti senza risposte.
Nella mente di Grace, nelle
nottate senza sonno trascorse a pensare, era scattato qualcosa, ma
ancora non sapeva che cosa. Aveva come un presentimento e dentro di lei
era nata la stramba idea di fare una visitina ai due terroristi che
avevano fatto a pezzi la famiglia di Lionel.
Da quello che l’ex-marine le aveva raccontato, suo padre era
andato da lui per chiedergli del giorno in cui aveva mandato
all’aria l’attentato a Baghdad. Perché
gli interessava? Era anche quello collegato al caso a cui stava
lavorando?
E poi, perché ad un certo punto suo padre aveva smesso di
prendere appunti? Era persino arrivata a pensare che avesse smesso
perché riteneva troppo pericoloso ciò che stava
scoprendo, per proteggerla, ma si sbagliava di grosso se credeva che
così facendo l’avrebbe fermata. Se da
lassù pregava perché lo facesse… beh,
non avrebbe esaudito le sue preghiere.
Ne aveva parlato con Lionel, ma non gli aveva menzionato il fatto che
volesse parlare con quei due pazzi. Era quasi certa che Lionel non
avrebbe retto il colpo, vedendoli di nuovo.
Aveva provato da sola, ma non appena le avevano detto che quei due
erano morti in carcere… beh, aveva lasciato
perdere.
Altra idea da cancellare.
Ovviamente non aveva smesso di
pedinare Tom; anzi, in quei mesi aveva persino dovuto aumentare il
ritmo perché sembrava che quei quattro finalmente avessero
deciso di sfornare un nuovo album, per la gioia e gli ormoni di tutte
le loro fan. Tra cui anche la piccola Molly, elettrizzata come non
l’aveva mai sentita prima. Non a caso l’ultima
volta che l’aveva vista di persona aveva evitato qualsiasi
contatto fisico con lei per paura che potesse prendere la scossa.
Tom era il solito idiota che a volte faceva proprio di tutto per farsi
odiare e che a volte era l’unico a capirla veramente, tanto
da farla sentire meglio anche solo con la sua presenza.
Anche lui aveva notato la sua frustrazione, la sua poca attenzione, e
una volta aveva provato a chiederle che cosa le stesse capitando, ma
lei aveva abilmente cambiato argomento. Avrebbe tanto voluto
parlargliene, ma… come?
In compenso gli aveva raccontato di Dylan. Non ne era stata
particolarmente entusiasta all’inizio, ma mettendo da parte
le battutine e le frecciatine aveva considerato alcuni aspetti mai
presi in considerazione e aveva visto con occhi
“maschili” tutta la faccenda.
Tom una volta le aveva detto, testuali parole: «Deve essere
proprio andato se ha detto che non lo perderai mai. Non è
una cosa che si dice tutti i giorni. Almeno, Bill direbbe
così…». E Grace si era trovata
d’accordo con lui. E sapendolo, non era proprio riuscita a
mettere in chiaro un paio di cose con Dylan.
Lui… non le faceva pena, il fatto era che non voleva farlo
soffrire e per quel motivo ogni tanto si era data a lui. Ogni tanto
avevano fatto l’amore, ma loro non erano una coppia. Nessuno
dei due sapeva che cos’erano diventati dopo la prima volta e
non ne parlavano, proprio perché sapevano che non avrebbero
cavato nemmeno un ragno dal buco. Erano così legati
l’uno all’altra… tanto da non mettere
dei paletti fra loro per non ferire l’altro.
Ma tutto questo non lo sapeva. Tom non sapeva che qualche volta
andavano a letto insieme. Grace aveva come la sensazione che,
dicendoglielo, le cose si sarebbero compromesse anche con lui
e… ah, ne aveva abbastanza di compromettere le cose con
tutti.
Alzò al massimo
l’aria condizionata e si coprì meglio con la
coperta, mentre allungava le gambe sul cruscotto. Poi si
soffiò rumorosamente il naso.
Non era esattamente nella sua forma migliore, ma quei giorni sembravano
essere i più cruciali per Molly: era da più o
meno un mese che fremeva per sapere che cosa avrebbero fatto i gemelli
a Natale e Grace non se l’era proprio sentita di darle buca
per uno stupido raffreddore.
Chiuse gli occhi, posando il capo contro il poggiatesta, e
ricordò i Natali passati con suo padre. Quando
c’era lui adorava quella festa, era la sua preferita in
assoluto. Ora, con lui morto e i suoi assassini ancora a piede libero,
non le faceva il ben che minimo effetto, anche se stare nel suo
fuoristrada a spiare una rock star era un po’ deprimente.
Accese il laptop che aveva sulle gambe e si collegò alla
microspia che aveva piazzato nel salotto dei Kaulitz. Poi
intercettò anche la frequenza di quella che aveva installato
nel loro telefono.
Si strofinò gli occhi che le bruciavano e li chiuse, posando
la fronte sul finestrino fresco.
In quel periodo a Los Angeles c’erano a malapena dodici gradi
centigradi – faceva davvero freddo, dato che di solito negli
altri mesi si registravano costantemente dai venti gradi in su
– ma Bill e Tom se ne andavano in giro solo con magliette a
maniche lunghe e felpe. In effetti, per loro che arrivavano dalla
Germania, doveva essere una sorta di primavera quella.
Si appisolò giusto per qualche minuto, fino a quando una
ventata d'aria fresca non la fece rattrappire. Si voltò
verso destra e vide Tom entrare nel fuoristrada con la fronte
aggrottata.
«Helen? Stai bene?».
La ragazza si affrettò a chiudere il laptop di fronte a
sé e scosse leggermente il capo, non facendo altro che
aumentare il senso di vertigine.
Sentì qualcosa di morbido e allo stesso tempo calloso sulla
fronte e sobbalzò quando si rese conto che quella era la
mano di Tom. Lo guardò con la coda dell’occhio,
trattenendo il respiro, ed aspettò che la togliesse per
riprendere ad incamerare ossigeno.
«Tu hai la febbre. Non dovresti stare qui dentro, sai?
L’aria condizionata non funziona nemmeno bene».
«Che cosa…?», farfugliò
Grace, assottigliando gli occhi.
«Vieni con me, dai». La incitò con una
sollevata di sopracciglia e poi si sciolse in un sorriso.
«Bill ancora non morde, non aver paura».
L’investigatrice gettò uno sguardo verso la casa e
poi lo posò di nuovo su di lui. Non poté
rifiutare e forse era vero che l’aria condizionata non
funzionava bene: aveva i piedi congelati.
Entrarono in casa passando per il giardino sul retro e
nell’ampio salotto diviso in zone incontrarono subito uno dei
cani dei gemelli, che iniziò ad annusarla, e Bill,
appollaiato su uno dei tre divani in pelle che creavano una specie di
recinzione intorno al televisore al plasma. Stava sfogliando una
rivista, Vogue
se non errava.
Appena la vide nei suoi occhi si illuminò qualcosa,
nonostante la sorpresa, e un grande sorriso gli si dipinse sul volto
senza trucco.
«Ciao», la salutò, gettando da parte il
giornale. «Helen, vero?».
«Helen», annuì lei, non troppo convinta.
«Bill, vero?».
«Così pare», ridacchiò.
I suoi occhi luminosi si posarono sul gemello, il quale
ricambiò lo sguardo con un’espressione minacciosa
sul viso, che sembrava proprio voler dire: “Se dici qualcosa
ti ammazzo”.
«Helen non sta molto bene, mi sa che ha la febbre, e ho
pensato che poteva stare un po’ qui», gli
spiegò poi, dosando bene la cadenza di ogni parola.
«Giusto per non peggiorare le cose».
Il gemello sfarfallò le ciglia. «Oh, come sei
carino a preoccuparti per lei, Tomi», disse, in tedesco
però, non essendo a conoscenza che lei in realtà
lo sapeva.
«Comunque è ovvio che puoi stare», si
rivolse a lei quella volta, alzandosi e lasciandole il divano proprio
di fronte al plasma. «Ti vado a preparare qualcosa di caldo.
Un tè, magari?».
«Magari», sorrise impacciata.
«Grazie».
«Oh, figurati!». E saltellò in cucina.
Quando se ne fu andato, Tom scosse il capo e posò una mano
sulla schiena di Helen per farla avanzare.
Immediatamente nel punto in cui la toccò scoppiò
un incendio e Grace arrossì come non faceva da anni; il
rossore dovuto alla febbre però nascose il suo imbarazzo.
Si mise seduta sul divano, vagamente a disagio, e si guardò
intorno come se ci fossero pericoli ovunque.
Tom lo notò. «Perché sei
così in ansia? Rilassati un attimo!».
«È una cosa più forte di me»,
scrollò le spalle, stringendosi un po’ di
più nella sua coperta.
Tom si alzò e andò a prendergliene
un’altra, gliela gettò sopra e si mise seduto sul
tappeto, con le spalle appoggiate al divano, all’altezza
delle sue gambe piegate.
«Beh, fattela passare», disse,
«perché fai stare in ansia pure me».
Grace rimase per qualche secondo ad osservarlo e vide nei suoi occhi il
riflesso del plasma acceso di fronte a loro. Non si sentiva
praticamente nulla, il volume era quasi a zero, ma a nessuno dei due
interessava.
Ad un certo punto arricciò le labbra in un sorriso e
trattenne una risatina sinceramente divertita. Tom girò il
capo verso di lei ed aggrottò le sopracciglia.
«Perché ridi?».
«Stavo pensando che… sei davvero carino a
preoccuparti per me, Tomi».
La seconda metà della frase l’aveva detta in
tedesco ed appena il ragazzo aveva realizzato che sapeva parlare la
loro lingua madre – anche se con una pronuncia un
po’ arrugginita – era decisamente andato in panico.
Grace gli diede una leggera pacca sul capo, come a volerlo confortare.
«Non ti preoccupare, non è successo nulla di
grave», ridacchiò.
Il silenzio cadde su di loro e i loro sguardi si posarono su tutto
fuorché sull’altro.
Helen intrecciò le dita delle mani sopra le coperte e si
schiarì la voce prima di parlare di nuovo, con un tono
più insicuro e perciò senza ironia:
«Davvero, non era necessario che ti preoccupassi per
me».
Tom rimase ancora per qualche secondo in silenzio, poi si
voltò di scatto verso di lei ed aprì la bocca, ma
venne bloccato da Bill che rientrò in salotto con un vassoio
su cui c’erano tre tazze di tè caldo, lo zucchero
e un po’ di latte.
«Eccoli qua, i piccioncini», squittì a
bassa voce in tedesco, ma entrambi sentirono ed in particolare Tom, che
divenne tutto rosso in faccia dalla rabbia.
Il frontman se ne accorse e posò spaventato lo sguardo su
Helen, la quale alzò le mani e con espressione dispiaciuta
disse: «Capisco e so parlare il tedesco».
«Oh. Fantastico», mormorò Bill,
arrossendo.
«Vai a cagare», sibilò subito dopo Tom,
lanciandogli un’occhiataccia.
Il tè di Bill era
davvero buono, doveva chiedergli se avesse una ricetta particolare. Non
beveva un tè del genere da quando i suoi genitori avevano
firmato le carte della separazione. A suo padre non era mai piaciuto il
tè, era sua madre la patita, probabilmente perché
essendo mezza londinese ce l’aveva nel sangue.
«Che cosa fate per Natale?», domandò
senza sollevare lo sguardo dalla bevanda, soffiandoci sopra ogni tanto,
in modo tale che si raffreddasse; inoltre le piaceva come il calore e
il profumo che si sollevavano si posassero piacevolmente sul suo viso.
«Domani mattina partiamo. Passeremo la Vigilia, il giorno di
Natale e forse qualche altro giorno da mamma, in Germania».
Bill gettò un’occhiata sconcertata al gemello, il
quale scrollò le spalle e spiegò:
«Tanto lo avrebbe scoperto comunque», indicando
Grace, che sorrise. Sotto sotto, quello era un altro complimento.
«Tu invece?», le chiese Tom, puntando gli occhi in
quelli della ragazza.
«Ancora non lo so».
Il chitarrista sbuffò. «Qualche idea?».
«Forse con Dylan». Scosse leggermente il capo.
«Non lo so».
Tom si appoggiò lentamente allo schienale del divano e si
portò le mani dietro la nuca. «Non ce
l’hai una famiglia?».
Grace si irrigidì nel suo stesso abbraccio ed assunse
un’espressione distaccata. Infine scrollò le
spalle, cosa che mandò in bestia il ragazzo.
«Siamo alle solite», berciò senza
guardarla.
«Che ci vuoi fare, è la vita», rispose
lei.
«Ragazzi…», tentò di
dividerli Bill, ma il fratello lo interruppe, alzando un po’
di più il tono della voce.
«No, non è la vita, è che tu
non vuoi raccontare mai un cazzo di te!».
La ragazza continuò a rispondere con voce pacata:
«Non vedo perché dovrei».
«Okay, io me ne vado…». Bill si
alzò e nello stesso istante lo fece anche Tom, infuriato.
«Questo tuo modo di comportarti non è da persona
normale, semplicemente!», gridò piazzandosi di
fronte a lei. «Sono mesi che ci conosciamo – mesi!
– e tutto quello che so di te è decisamente
irrilevante! È come se ti avessi conosciuto ieri, in
pratica! Non so nemmeno qual è il tuo cantante
preferito!».
Grace si alzò dal divano lentamente, mettendosi sulle spalle
la sua coperta proprio come se fosse un mantello, e sostenne senza
difficoltà il suo sguardo. Anzi, quando Tom ebbe di fronte i
suoi occhi verdi si ritrovò spiazzato.
«Me ne basta uno», sollevò
l’indice fra i loro visi. «Dammi un motivo valido
per cui dovrei parlarti di me».
Rimasero così, testa a testa, per minuti interi. Bill,
paralizzato sul posto, li guardò attentamente e
riuscì a sentire sulla sua pelle
l’elettricità che vibrava intorno a loro. Era
certo che Tom avrebbe potuto fare solo due cose: tirarle uno schiaffo,
così forte da farla cadere a terra, oppure baciarla. E forse
era proprio quel dubbio a tenergli i piedi ben radicati lì e
gli occhi fissi su di loro.
«Tu dici sempre che mi conosci», disse infine Tom,
spezzando il silenzio.
Grace stiracchiò un sorriso amaro. «Non
è un motivo valido».
«Beh, allora sai che cosa puoi fare? Andare
affanculo», disse a denti stretti il chitarrista, prima di
correre su per le scale che portavano al soppalco e alle camere da
letto.
La ragazza ascoltò il rumore di una porta che sbatteva, poi
chiuse gli occhi e trattenne una risata malinconica.
Si girò verso Bill e gli concesse un sorriso più
sincero. «Grazie per l’ospitalità e per
il tè, era veramente ottimo. Mi dovrai dire come lo
fai».
«D-Dove vai?», le domandò titubante, ma
lei non rispose, uscì dalle porte scorrevoli,
attraversò il giardino sul retro e rientrò nel
suo fuoristrada.
Si sistemò meglio sul sedile abbassato, stringendosi
più che poteva nella sua coperta, ed alzò al
massimo l’aria condizionata. Quindi chiuse gli occhi.
Tom, seduto sulla poltrona
nella sua camera da letto, guardava proprio Helen nel suo fuoristrada,
che batteva i denti per il freddo e continuava a girarsi per trovare
una posizione più comoda. Il tutto inconsciamente,
perché si era addormentata già da un
po’.
Sbuffò sonoramente, dicendosi che non avrebbe dovuto farlo,
ma si alzò dalla poltrona ed uscì dalla sua
stanza. Andò a prendere un po’ di altre coperte e
trotterellò giù dalle scale senza sapere bene
dove mettere i piedi. Non rispose alle domande del fratello,
inforcò le scarpe ed uscì di casa.
Raggiunse il fuoristrada di Helen, aprì la portiera in
silenzio per paura di svegliarla e lentamente tirò
giù il sedile del passeggero. Si sdraiò sul
fianco accanto a lei e la coprì con le coperte,
lasciandosene un bordo anche per sé. Poi rimase
lì in silenzio a guardarla.
Quando Grace aprì
gli occhi, accortasi del piacevole calore che la ricopriva, vide Tom di
fianco a sé, che la fissava, e non si sorprese.
Ricambiò lo sguardo per diversi minuti, senza dire niente,
poi riabbassò le palpebre pesanti.
«Adoro i Coldplay», mormorò.
«Li adoro».
Tom sorrise, reprimendo una lieve risata, e le sistemò un
ciuffo di capelli neri dietro l’orecchio arrossato per la
febbre. Glielo avvolse con il palmo della mano e chiuse anche lui gli
occhi.
***
Molly, titubante,
dondolò sui talloni e le gettò sulla scrivania un
rotolo di banconote da cinquanta dollari fermato con un elastico.
«Per che cosa sono questi?», le domandò
Grace, puntando i gomiti sulla scrivania, con le mani sulla fronte
ancora calda. Grazie alla sua espressione stanca poteva apparire anche
leggermente disperata.
«C’è un volo che parte
tra…», controllò
sull’orologio che aveva al polso,
«mezz’ora».
Grace assottigliò gli occhi. «Un volo per
dove?».
«Per la Germania». Le
schioccò un sorriso smagliante, che le incavò le
guance e gliele alzò di qualche centimetro, tanto da
sembrare dei cuscini per le ciglia.
«Oggi è il 22 dicembre, non il 1° aprile.
Non è il giorno giusto per gli scherzi».
«Non è uno scherzo!», disse con voce
squillante, scivolando sulla punta della poltrona per guardarla negli
occhi da più vicino. «Desidero davvero che tu vada
là. Magari vedrai anche la neve!».
Grace ricambiò il suo sguardo con uno inespressivo, poi si
voltò verso la finestra del suo ufficio.
Le tornò alla mente la settimana che aveva trascorso con suo
padre nella sua terra natia, a Berlino precisamente, dai suoi nonni. Un
giorno aveva nevicato così tanto che svegliandosi alla
mattina si era spaventata, perché tutto fuori dalla finestra
era ricoperto di bianco. Una splendida, innocente valle bianca.
Quando suo padre era morto aveva pensato alla neve. Sì,
ricordava fin troppo bene quell’immagine. Aveva visto la neve
spruzzata di sangue. E tutta l’innocenza era stata spazzata
via.
Allontanò da sé le banconote arrotolate e scosse
il capo. «Non ci vado in Germania. Staranno lì
solo qualche giorno, che trascorreranno con la loro famiglia. Nulla di
speciale, le solite cose che fanno le famiglie a Natale».
Molly abbassò lo sguardo e fece scivolare di nuovo le
banconote nella sua borsetta firmata. Si alzò in piedi e si
ravvivò i capelli biondi, che le ricaddero in morbidi
boccoli sul collo di pelo bianco del cappotto rosa che indossava.
«Tu che cosa farai in questi giorni?».
Grace distolse ancora lo sguardo e scosse il capo. «Non lo so
ancora».
«Se ti va potresti venire a cena da me la Vigilia. Ci
sarà tantissima gente che non conosco nemmeno, mio padre
parlerà d’affari tutto il tempo e mia madre della
sua nuova linea d’abbigliamento. Tu almeno mi farai
compagnia», disse con lo sguardo acceso di speranza. Sembrava
ancora una bambina, nonostante i suoi quattordici anni.
L’investigatrice si alzò dalla sua poltrona, le
andò di fronte e le posò le mani sulle spalle,
accennando un sorriso.
«Mi farebbe davvero molto piacere».
«Ti aspetto, allora».
Grace annuì. Molly si diresse verso la porta e
l’aprì, poi si girò di nuovo verso di
lei e con gli occhi che nascondevano un vago senso di abbandono disse:
«Tu sei l’unica vera amica che ho. Buffo,
no?».
«Sì, buffo», rispose e Molly
abbassò di nuovo lo sguardo uscendo dal suo ufficio.
Grace si portò alla finestra e allargò lo spazio
tra una lamella e l’altra della tenda alla veneziana.
Guardò in strada e vide Molly salire sulla sua limousine
bianca. Rimase lì a guardare l’auto allontanarsi,
poi prese la sua giacca di pelle marrone e corse fuori
dall’edificio, diretta al suo fuoristrada parcheggiato
dall’altra parte della strada.
Arrivò trafelata
all’aeroporto di Los Angeles, guardò i tabelloni e
vide che mancava ormai pochissimo alla partenza dell’aereo
che avrebbero preso i gemelli per andare in Germania.
Attraversò tutto l’ampio salone di corsa e vide i
due, imbacuccati con occhiali da sole e cappellini sulla testa,
dirigersi verso il gate.
«Tom! Tom, aspetta!».
Il ragazzo, udendo il suo nome, si voltò e la
guardò correre verso di lui. Ne rimase piuttosto sbigottito,
dato che lei non aveva mai fatto una cosa del genere prima
d’ora.
«Che cosa… Helen, che ci fai qui?», le
chiese, mentre suo fratello si era già avviato e il
bodyguard che per sicurezza gli stava alle costole non sapeva se andare
con lui oppure restare col chitarrista e la ragazza.
Grace si tirò indietro i ciuffi di capelli che
durante la corsa erano sfuggiti alla coda scomposta che aveva sulla
nuca, ma fu pressoché inutile, poiché tornarono
ad accarezzarle il viso spruzzato di efelidi.
Respirò profondamente, per cercare di mandare via il
fiatone, e si lasciò andare ad un sorriso.
«È una lunga storia. Mi devi fare un
favore».
«Lo sapevo che c’era qualcosa sotto»,
brontolò il ragazzo. «E io che pensavo che fossi
venuta per salutarmi!».
«Ah, non mi conosci proprio per niente allora»,
scherzò e anche se quello di solito era un tasto dolente,
quella volta Tom ci sorrise sopra.
«Tom, ci lasciano a terra!», gridò Bill,
già dall’altra parte del check-in.
«Arrivo, un attimo!», gridò di rimando e
si voltò verso la ragazza, la quale gli rivolse un altro
insolito sorriso luminoso, mentre gli prendeva la mano e con una penna
gli scribacchiava sul palmo un numero di cellulare.
«Appena puoi chiama questo numero». Lo
guardò intensamente negli occhi e gli puntò un
dito contro. «Promettimi che lo farai».
«Questa è bella», borbottò.
«Promettimelo, Tom».
Il chitarrista sollevò lo sguardo nel suo e promise,
ipnotizzato da quegli occhi che si abbellivano ogni giorno di
più.
«Grazie», sospirò Grace, dandogli uno
schiaffettino sulla guancia. «Ora vai, o ti lasciano davvero
qui. Buon viaggio».
Si girò e si allontanò, infilando le mani in
tasca e non guardandosi più indietro.
***
La sera della Vigilia,
Grace si trovò nel suo appartamento, sola.
Non era per niente in vena di festeggiamenti e aveva già
avvertito Molly, prima di chiamare uno di quei ristoranti giapponesi
take away – uno di quelli che non avrebbe mai chiuso, nemmeno
se fosse finito il mondo – ed ordinare la sua cena a base di
sushi.
Mentre aspettava si mise seduta sul divano e sintonizzò la
televisione su un canale in cui davano l’ennesimo film di
Natale, visto e rivisto.
Soprappensiero accarezzò con la punta delle dita lo
schienale piatto del divano bianco e raggiunse senza nemmeno a farlo
apposta il suo cellulare. Lo prese fra le dita e premette il tasto
delle chiamate rapide: lesse il primo numero sulla lista e
pigiò il tasto con la cornetta verde.
«Grace…», rispose con un sospiro Dylan,
come se fosse già dispiaciuto per ciò che le
avrebbe detto.
In sottofondo il suono della sirena della volante di polizia e la radio
che gracchiava, mentre il motore si riscaldava e
l’acceleratore veniva premuto.
La ragazza accennò un sorriso amaro. «Sei in
servizio, eh? Pure la Vigilia di Natale?».
«Forse gli automobilisti sconsiderati non festeggiano il
Natale».
«Probabile».
«Appena finisco vengo da te».
«Appena finirai dormirò già».
«Ti guarderò dormire, allora».
«Okay», mormorò.
«Okay. Ciao, tesoro».
«Ciao», sussurrò in modo appena udibile,
prima di riappendere.
Chiuse gli occhi, appoggiandosi ai cuscini alle sue spalle, e si
posò un polso sulla fronte.
Del tutto all’improvviso le ritornarono alla mente le parole
di Tom: «Non ce
l’hai una famiglia?».
Una famiglia… Beh, forse un tempo ce l’aveva. Ora,
non ne era certa.
Si sollevò, raggiunse il cordless sul tavolino basso di
fronte a lei e compose il numero di sua madre.
Da quando i suoi genitori si erano separati e ancora di più
da quando suo padre era morto aveva smesso di sentirla, il loro
rapporto era andato proprio disintegrandosi, e non seppe nemmeno
perché ebbe la stramba idea di telefonarle. Forse
perché era Natale.
«In questo momento
non sono in casa, vi prego di lasciare un messaggio dopo il bip e vi
richiamerò al più presto».
Sentire la sua voce, seppur gracchiante attraverso la segreteria
telefonica, le fece venire la pelle d’oca. Solo allora si
rese conto del tempo che era passato.
Ci fu il famoso bip e Grace rimase per qualche secondo in silenzio, poi
sospirò ed infine chiuse gli occhi dicendo: «Ciao
mamma. Sono io, Grace. Io… beh, volevo soltanto…
Buon Natale». E buttò giù, portandosi
le mani fra i capelli.
***
Tom bloccò
la tastiera del suo cellulare scuotendo leggermente il capo e
sbuffò.
«Chi hai provato a chiamare?», gli chiese Bill,
comparendo all’improvviso dietro di lui.
«Fatti gli affari tuoi, impiccione».
«Tanto lo so che era lei»,
sghignazzò e si spostò dalla sua traiettoria,
prima di vedersi arrivare un cuscino in faccia.
«Non ti ha risposto?», gli domandò poi,
più serio.
«No, io… non l’ho chiamata, in
realtà».
Bill socchiuse le labbra. «Tu però…
vuoi farlo, no?».
«Non lo so», sbuffò e si alzò
dal divano. «Vado a fumarmi una sigaretta».
«Tesoro, il fumo fa male!», lo
rimproverò sua madre dalla cucina.
Fosse solo
quello…
Si
mise seduto in veranda con la sigaretta penzoloni fra le labbra. Il suo
cane preferito posò il muso sul suo grembo e lui lo
accarezzò sorridendo. Poi lo sguardo gli cadde sul numero un
po’ sbavato che aveva ancora segnato sul palmo della mano e
si ricordò della promessa fatta a Helen.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca, compose quel numero e,
anche se un po’ titubante, se lo portò
all’orecchio.
«Pronto?», rispose la voce di una ragazzina.
«Ehm… ciao. Sono Tom Kaulitz e… beh,
Helen mi ha detto di chiamarti. Buon Natale».
***
Solo il trillo del
campanello riuscì a schiodarla da quel divano. Grace
andò alla porta, convinta che fosse il ragazzo del take
away, ma si trovò davanti Lionel, con una bottiglia di vino
infiocchettata.
«Sorpresa», sussurrò con un sorriso
vivace sulla bocca.
«Lionel! Che cosa ci fai qui?».
Sbirciò all’interno della casa. «Sei
sola?».
«Sì, ma…».
«Allora sono venuto a farti compagnia. Non è bello
passare la notte di Natale senza nessuno accanto, non trovi? E poi mica
vorrai farmi bere tutto questo buon vino da solo, vero?».
Grace scosse il capo, ridacchiando. «Oh, no di
certo».
Lo lasciò entrare e si sistemarono entrambi nella piccola
cucina aperta, seduti sugli sgabelli alti del bancone che dava sul
salotto e in particolare sul divano.
Sorseggiarono un po’ di quell’ottimo vino,
discorrendo del più e del meno, fino a quando il campanello
non trillò di nuovo.
«Aspettavi qualcuno?», domandò Lionel,
con le gote già un po’ arrossate a causa
dell’alcool.
«Nessuno, a parte il ragazzo del ristorante giapponese. Deve
essere lui».
Ma anche quella volta sbagliò previsione. Infatti, dietro la
sua porta c’era una Molly eccitata, vestita e truccata come
una vera donna pronta per andare ad una cena di gala.
«Molly, ma tu…?».
La ragazzina la interruppe gettandole le braccia intorno al collo.
«Ti adoro Grace/Helen! Macché, ti amo!».
«Oh, ho capito», ridacchiò.
«Tom ti ha chiamata, non è
così?».
«Sì!», saltellò sul posto sui
suoi tacchi – non troppo alti, ma nemmeno uno scherzo.
«Oh, è stato… ah, non me lo
dimenticherò mai! Ha una voce così bella!
È il Natale più strepitoso della mia
vita!».
«Sono contenta per te», le passò
dolcemente una mano fra i capelli. «Resti un po’
con noi?».
«Perché no? Non penso che a casa qualcuno si sia
accorto della mia assenza», scrollò le spalle e
sorridendo si tolse i tacchi, per poi correre a presentarsi e a
gettarsi sul divano, dove monopolizzò il televisore.
Grace guardò rapita quello strano quadretto e
sobbalzò quando per l’ennesima volta suonarono al
campanello. Quella volta era il ragazzo del take away con la sua cena.
«Si mangia!», gridò felice.
Posò tutti i sacchetti sul bancone ed insieme a Lionel
divise per tre quello che aveva ordinato. Molly si mise seduta accanto
all’ex-marine e Grace, di fronte a loro, sorrise con una
serenità nel cuore che non sentiva da tempo.
Pensò che forse non aveva una famiglia, ma qualcosa di
simile. A cui mancava solo…
Prese il cellulare e scrisse un breve messaggio, poi lo
inviò.
«Buon appetito e buon Natale!», gridò
Molly e la ragazza sollevò il capo, ricambiando gli auguri e
scambiando uno sguardo complice con Lionel.
Sentì la porta di
casa aprirsi dopo qualche giro di chiave e poi dei passi che si
avvicinavano alla sua stanza. Vide Dylan affacciarsi, mentre si
toglieva la cintura con la fondina della pistola. Chiuse gli occhi e
finse di dormire.
Lui, del tutto ignaro che fosse sveglia, salì sul suo letto
e si appoggiò col petto alla sua schiena, in modo tale da
riuscire a vederle il viso illuminato in parte dalla luce della luna.
Una mano le scivolò sul braccio, dal gomito alla spalla
nuda, per poi posarsi sul suo collo. Il respiro caldo di Dylan le
sfiorò l’orecchio e le sue labbra si posarono
sulla sua tempia in un tenero bacio.
Lei sospirò e si sdraiò sulla schiena per
guardarlo in viso. Lui allora sorrise e le accarezzò il viso
con una mano, sussurrando: «Buon Natale».
Poi la baciò e Grace ricambiò senza molta
convinzione, ma Dylan non se ne accorse e si intrufolò sotto
le coperte, la sovrastò e le aprì le gambe.
Iniziò a muoversi, a sospirare e a gemere dentro di lei, ma
Grace, aggrappata alle sue spalle, non pensò ad altro che al
messaggio che aveva mandato a Tom qualche ora prima.
Buon
Natale, Tom. Quasi quasi mi manchi.
______________________________________
Oddio, è già Natale! Un po' in anticipo rispetto
a noi, però vabbè xD
In questo capitolo viene spiegato un po' il rapporto che si
è creato tra Grace e l'ex-marine Lionel, ma non solo! Si
direbbe che lei e Tom stiano sempre più diventando amici
(solo?), anche se hanno i loro alti e bassi e Grace non si vuole aprire
ancora con lui... E poi ora ha conosciuto Bill ufficialmente, quindi
è come se facesse parte della famiglia xD
Abbiamo anche visto per la prima volta Molly, fin'ora rimasta
un'entità telefonica xD E come vi sembra? A me sta troppo
simpatica e più avanti sarà una vera protagonista
;) Tra l'altro, ha confidato a Grace che lei è la sua unica
amica ed è persino andata da lei a cena la Vigilia! E Grace
le ha fatto pure il regalo di essere chiamata da Tom in persona! Che
bello, questo sì che è Natale *^*
Per quanto riguarda Grace e Dylan la situazione è ancora un
po' complicata, chissà se si risolverà
mai?
Ho detto fin troppo oggi, spero di non avervi fatto addormentare e che
questo capitolo vi sia piaciuto! :)
A lunedì prossimo, un bacio a tutti e grazie!! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6
«Oh, salve
signora Thompson». Si alzò dalla scrivania e le
strinse la mano.
«Nuovo coinquilino in vista?», domandò
nascondendo un sorriso divertito fra le labbra.
La donna roteò gli occhi al cielo, concedendosi un sospiro
mentre si sedeva su una delle due poltrone di fronte alla scrivania,
dietro la quale si era appena accomodata Grace.
«Mi sembrava che quella ragazza fosse in regola, che le
piacesse», continuò la detective. «Che
fine ha fatto?».
«Ha detto che non mi facevo gli affari miei ed ero troppo
assillante», sventolò una mano come se avesse
dovuto scacciare una mosca. «Se n’è
andata».
«Oh… capisco». Nascose ancora una volta
il sorriso divertito che premeva per mostrarsi.
«Vuole che agisca nel solito modo di sempre col nuovo
coinquilino?».
«Esattamente», la donna annuì.
«Sarà fatto», le sorrise e si
alzò per stringerle la mano mentre l’accompagnava
alla porta.
Una volta sola nel suo ufficio liberò finalmente quel
sorriso divertito, che si accompagnò più che
piacevolmente ad una risatina.
La signora Thompson era una frizzante sessantenne che era sempre stata
una sua cliente affezionata, al contrario di tutti quelli che entravano
in casa sua per affittare una delle innumerevoli stanze vuote.
Una donna dolcissima e premurosa, ma, ecco, forse un po’
troppo. Non aveva mai avuto figli e da quando suo marito era morto
soffriva di disturbi ossessivi-compulsivi: puliva casa in
continuazione, ma soprattutto si occupava con troppa premura delle
persone che andavano ad alloggiare in casa sua, tanto che veniva spesso
definita una ficcanaso ed una possessiva. Ciò che non aveva
mai dato ai figli che avrebbe voluto avere lo dava ai suoi ospiti, in
maniera fin troppo esagerata.
L’investigatrice privata si era sempre occupata di
sorvegliare i coinquilini della signora Thompson per i primi giorni per
capire le loro abitudini, i loro interessi e tutto ciò che
poteva interessare alla vecchietta per compiacerli in ogni modo
– con impeccabile nonchalance ovviamente.
Grace tirò su la cornetta del telefono sulla scrivania e
compose il numero di Molly.
«Sì, chi è?», rispose con
voce squillante la ragazzina.
«Buongiorno Molly, sono io».
«Oh, Grace! Ciao! Dove sei?».
«Ti ho chiamata col telefono fisso, dove credi che
sia?».
«Che ci fai ancora in ufficio?! L’aereo di Tom
atterrerà fra… cinque minuti!».
«Oh, me ne bastano due per arrivare
all’aeroporto», sogghignò.
«Comunque volevo avvisarti che ho accettato un caso di
routine. Mi serviranno solo pochi giorni, poi tornerò a
concentrarmi ventiquattr’ore su ventiquattro su Tom, okay? A
te sta bene?».
«Sì, certo. Al massimo se ho bisogno di qualcosa
chiamo direttamente lui!», rise come una bimba e Grace scosse
il capo, arricciando le labbra in un sorriso.
«Non assillarlo, ti supplico; poi se la prende con
me», l’ammonì.
«Oh no, non ti preoccupare!», si
affrettò a dire. «Non avrei mai il coraggio di
chiamarlo!».
Fu lei quella volta a ridere, mentre si infilava la giacca di pelle
marrone.
«Beh, nemmeno lui dopo l’ultima volta, visto quello
che mi hai raccontato».
«Su su, torna al lavoro, sfaticata!», disse con
tono offeso, ma prima di terminare la chiamata rise anche lei.
***
Tom scese
dall’aereo e si coprì subito gli occhi con un paio
di grossi occhiali da sole.
Si era appena svegliato, ci vedeva a malapena e con gli occhiali non
era tanto meglio, ma almeno nascondeva gli occhi ancora piccoli e
lucidi e le borse provocate dal fuso orario.
Lui e suo fratello – nelle sue stesse condizioni –
aspettarono i loro bagagli e una volta presi si diressero verso
l’uscita. Proprio allora Tom si accorse della ragazza seduta
ad uno dei tavolini esterni del bar all’interno
dell’aeroporto.
Appena lei notò il suo sguardo alzò gli occhi e
gli sorrise, alzandosi ed affiancandolo come se nulla fosse.
«Ciao», lo salutò a bassa voce e gli
porse uno dei due bicchieroni giganti di caffè che aveva in
mano.
«E a me non l’hai preso?!»,
squittì offeso il frontman, con una borsa decisamente
femminile appesa al braccio e uno sguardo che sotto gli occhiali scuri
doveva essere adirato.
«Questo con la cannuccia per chi credi che sia?»,
gli domandò la ragazza, porgendogli il secondo bicchierone
di carta che aveva in mano.
«Oh, sia lodato il cielo», sospirò e si
attaccò come una ventosa alla cannuccia gialla.
Grace tornò a guardare Tom e il sorriso che aveva in faccia
pian piano si allargò, assumendo un tratto un po’
beffardo.
«Sei proprio messo male. E menomale che sei tu quello
abituato a viaggiare in tutto il mondo».
«Ah-ah, quanto ridere», biascicò.
«Sono contenta che sia andato bene il viaggio,
comunque», gli diede una pacca sulla scapola.
Li accompagnò alla loro auto e lo stesso bodyguard che
avevano alla partenza gli aprì la portiera. Bill si
infilò subito in macchina, ancora attaccato alla cannuccia.
Tom invece si guardò intorno con circospezione e poi
guardò negli occhi, occhiali permettendo, la ragazza di
fronte a sé.
Lei si rese conto della serietà del suo volto, che sembrava
più spigoloso e duro, e la sua espressione si
adeguò di conseguenza, non nascondendo però un
po’ di insicurezza.
«Ti sono mancato davvero o quel “quasi
quasi” stava a significare: “Ti sto prendendo per
il culo”?».
La domanda la sorprese, e non poco. Questo ebbe delle ripercussioni
sulla sua lucidità, tanto che faticò a
controllare la propria voce.
«A te cosa sembrava?», sussurrò
assottigliando gli occhi.
«Non lo so», rispose abbassando ancora un
po’ il tono di voce.
«Già», annuì Grace.
«Non lo so».
Tom la imitò, muovendo su e giù il capo,
lentamente. «Bene».
«Adesso devo andare». Indicò con il
pollice il fuoristrada alle sue spalle, dall’altro lato della
strada.
«Dove? Tu non… non ci segui?»,
mormorò sporgendosi verso di lei.
La sua voce quella volta l’aveva tradito, mostrando la
sorpresa ma anche la preoccupazione che aveva provato quando aveva
capito che no, non li avrebbe seguiti.
«Ho delle commissioni da fare». Distolse lo sguardo
ed accennò un sorriso. «Sono certa che tutto
quello che farete in questi ultimi giorni di vacanza sarà
sicuramente dormire, guardare la TV, dormire, giocare alla playstation
e ancora dormire. Non mi perdo nulla».
Tornò a guardarlo in faccia ed alzò una mano in
segno di saluto, voltandosi ed incamminandosi verso il suo fuoristrada.
«E io che mi perdo?».
Grace si fermò all’improvviso, ma non si
voltò. Che cosa intendeva dire? Scosse leggermente il capo.
«Hai capito bene. Io che mi perdo? Con te non si sa mai
quello che succederà. Se tu non ci sei…
è tutto calcolato, no? Quasi… monotono».
«Dormi, ne hai davvero bisogno», disse con voce
dura e si allontanò definitivamente.
Quando fu al volante, però, non poté trattenersi
e gettò un’occhiata verso l’auto dei
gemelli: Tom era appena entrato e anche lui si era voltato a guardarla.
Grace si girò di scatto appena incontrò il suo
sguardo e mise in moto.
Solo dopo qualche chilometro sbatté il palmo della mano
contro il volante ed imprecò contro il macigno che le
opprimeva il petto.
***
Aveva piazzato le
microspie nella camera del futuro coinquilino già la prima
volta in cui la signora Thompson l’aveva assunta. Delle VOX,
per la precisione: microspie che consentivano di trasmettere solo
quando nell’ambiente sorvegliato erano presenti voci o
rumori, consentendo così di allungare la durata delle
batterie e riducendo il rischio di intercettazione tramite un
rilevatore.
Erano le sue cimici preferite, forse anche perché il loro
nome le ricordava il grande cantante degli U2.
Nonostante la loro proverbiale efficacia, con il nuovo coinquilino non
funzionarono. Ebbe persino il timore che si fossero scaricate le
batterie, un timore che venne però scacciato via quando
sentì chiaramente la signora Thompson entrare nella stanza
per chiedere se il suo ospite volesse che gli cucinasse qualcosa. Solo
allora era riuscita a sentire la voce dell’uomo.
Col passare delle ore aveva realizzato che nessuno sarebbe stato in
grado di fare tanto silenzio, a meno che non fosse stato addestrato a
dovere. Oppure, a meno che non fosse uno di quei paranoici che pensano
che siano pedinati ed osservati a tutte le ore. Ma qualcosa,
probabilmente la parte di cervello che ragionava come un detective, le
diceva che era la prima opzione quella più valida.
Lo osservò con attenzione sempre crescente e si rese conto
che non si mostrava mai apertamente e che pur non sapendo delle cimici
se doveva fare qualcosa andava a farla altrove, dove non poteva essere
sentito. Magari nel bagno, con l’acqua della doccia che
scorreva per precauzione.
Non sapeva assolutamente cosa fare. Aveva provato a fotografarlo per
poter fare un confronto facciale con gli archivi della polizia, ma
sarebbe stato più facile fare una foto ad un moscerino con
la nebbia.
Quella sera si ritrovò a fare i conti con il nulla,
ciò che aveva su quell’uomo. A quel punto credeva
che anche il nome che aveva dato alla signora Thompson fosse falso.
Era la prima volta che le capitava una cosa del genere ed era incazzata
nera. Non se ne faceva una colpa, semplicemente non poteva accettare la
disfatta.
Stava per levare le tende, quando con la coda dell’occhio
vide la porta principale aprirsi a mostrare l’uomo.
Erano le due di notte, c’era un buio pesto, e lui andava in
giro con un cappellino da baseball! Come se non bastasse, poi,
camminando per strada, si infilò anche un paio di occhiali
da sole. Incredibile!
Grace fece finta di consultare una cartina, coi fari accesi proprio
come se fosse arrivata in quel momento, ed aspettò che
l’uomo si allontanasse. Quando svoltò
l’angolo, si piegò verso il sedile del passeggero
e tirò fuori dal doppio fondo del portaoggetti la sua Glock
calibro 9mm. Se la infilò nei pantaloni, dietro la schiena,
e con cautela uscì dal fuoristrada.
Si guardò bene intorno, poi corse verso il giardino della
casa e si appiattì al muro fino a quando non
arrivò alla finestra della cucina. Sapeva che quella era
sempre aperta e fu proprio quella la sua via d’entrata.
La signora Thompson era andata a dormire da un pezzo, la casa era buia
e silenziosa. Sentiva il cuore martellarle nelle orecchie, anche se
quello che stava facendo non era pericoloso come altre cose che aveva
fatto in passato. Anzi, doveva essere una passeggiata per lei, ma aveva
un brutto presentimento.
Salì le scale lentamente, con una mano sempre pronta sul
calcio della pistola, e una volta al secondo piano camminò
con passo felpato fino alla camera del nuovo coinquilino.
L’aprì usando un fazzoletto sulla maniglia, per
non lasciare impronte, e quando fu dentro non trovò proprio
nulla di strano, perché non c’era nulla eccetto
ciò che faceva parte dell’arredamento. Non
c’era niente che stesse ad indicare che qualcuno si fosse
appena trasferito in quella camera, eccetto una borsa nera appoggiata
accanto al muro.
Si avvicinò ad essa, l’aprì con la
massima attenzione e sospirò quando vide che
all’interno c’erano solo vestiti.
Si tirò su e fece qualche passo nella stanza. Si
avvicinò all’armadio, ne aprì le ante e
vide un’altra borsa uguale a quella precedente.
Avvicinò la mano alla lampo e grazie alla luce della luna
che entrava attraverso una tenda che non era stata tirata del tutto
sulla finestra riuscì a scorgere il metallo lubrificato di
alcune pistole e di altre armi che in quel momento non
riuscì a distinguere, ma una di esse somigliava
terribilmente ad un mitra.
Il nuovo coinquilino della signora Thompson aveva un arsenale di armi
nascosto nell’armadio. Come gliel’avrebbe dovuto
dire, questo?
«Il suo
coinquilino ama le armi. Gli regali un AK-47, ne andrà
matto!».
All’improvviso
sentì una lieve vibrazione dietro di sé e non
riuscì a girarsi per vedere chi fosse, ma dalla stretta del
braccio che le aveva avvolto il collo capì che il
coinquilino doveva essere tornato.
Merda, pensò
prima di addormentarsi fra quelle braccia.
Quando aprì gli
occhi vide il coinquilino della signora Thompson seduto sul letto a
gambe divaricate, con i gomiti puntati sulle ginocchia, che accarezzava
il suo mitra. Grace notò che accanto a lui, sul letto,
c’erano il suo portafoglio, il suo tesserino identificativo
di investigatrice e la sua Glock. Si portò le mani, legate
dietro la schiena con un po’ di nastro adesivo in PVC, sulla
cintura ed ebbe la prova che la pistola sul letto era proprio la sua.
«Detective Grace Schneider», disse l’uomo
con voce pacata. «Le piace il mio Thompson? Che
coincidenza», ridacchiò. «Il mio mitra
si chiama esattamente come questa anziana signora».
Grace non provò nemmeno a stiracchiare un sorriso, impegnata
ad individuare qualcosa che potesse aiutarla a liberarsi.
Si trovava in un angolo della stanza, vicino al letto su cui era seduto
il coinquilino, e lui la teneva in pugno.
«È un marine?», azzardò la
ragazza, tirando le gambe al petto e schiarendosi la gola che le
procurava ancora qualche fastidio a causa del principio di
strangolamento che l’aveva fatta addormentare come un sasso.
Per la prima volta l’uomo sollevò gli occhi blu su
di lei e sul suo viso apparve un largo sorriso, fra la barba incolta.
«Che intuito», si complimentò.
«Beh, la tecnica che ha utilizzato su di me è dei
marines», scrollò le spalle con indifferenza.
Il marine scese dal letto e si mise seduto di fronte a lei. Si
avvicinò al suo viso e fissò gli occhi nei suoi.
Poi mormorò: «E tu sei la figlia di Mitch? Lo sei
davvero?».
Grace strabuzzò gli occhi. Prima Lionel, ora lui…
Che cosa stava succedendo? Perché tutti i marines sembravano
conoscerla?
L’uomo allargò ancora di più il suo
già ampio sorriso e si sporse su di lei per tagliarle il
nastro adesivo che le legava i polsi.
«Mi dispiace per l’inconveniente, ma sai
com’è…».
«Lei sa chi sono io. Ma io non so chi è
lei», osservò in tutta risposta, riservandogli
un’occhiata truce.
«Kyle Bryant. Chiamami Bryant, odio il mio nome. Mi chiama
Kyle solo mia madre».
«Okay, Bryant». Si guardò i polsi
arrossati, poi tornò a posare lo sguardo sul marine.
«Che cosa ci fa con un arsenale di armi
nell’armadio?».
Bryant le posò un dito sulle labbra e con l’altra
mano si ravvivò i capelli di un biondo sporco che gli
arrivavano fin sopra le spalle.
«Vieni con me», le sussurrò.
La fece alzare da terra, le ridiede tutto ciò che le
apparteneva, Glock compresa, e la portò nel giardino sul
retro. Si misero seduti sugli scalini della piccola veranda e il marine
tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. Se ne
accese una tenendola fra le labbra e ne offrì una anche a
Grace, che la prese volentieri, pentendosene subito: il fumo aveva
agito come benzina sul fuoco sulla sua povera gola già
infiammata.
Tossì un paio di volte e un gatto randagio dagli occhi
gialli che stava rovistando in uno dei cassonetti
dell’immondizia lì vicino sollevò il
capo per controllare che cosa fosse stato; poi tornò alla
ricerca della sua cena.
«Non è affatto un bel periodo, lo sai
Grace?», esordì Bryant.
«Quando mai?».
Il marine sorrise. «Somigli a tuo padre».
«Grazie. Ora dimmi che cosa te ne fai di tutte quelle
armi».
«Con quelle io mi difendo», le rivolse
un’occhiata glaciale e la ragazza avvertì un
brivido attraversarle la schiena.
«Da che cosa?».
«La domanda esatta sarebbe: “Da
chi?”», sospirò. «Presumo da
quelli che hanno fatto fuori anche Carter».
«Chi è Carter?», domandò
Grace, tossicchiando ancora a causa della sigaretta.
«Era il mio compagno di vita. Ci siamo conosciuti durante le
qualificazioni per entrare in marina, ci siamo ritrovati durante la
Guerra d’Iraq e abbiamo sventato un fottutissimo attentato a
Baghdad. Ci hanno pure dato delle merdose Medaglie d’Onore,
ma è da allora che è iniziato tutto
‘sto schifo».
«Scusa, che hai detto?», balbettò Grace.
La mano con cui teneva la sigaretta aveva iniziato a tremare, e non per
il freddo. «Tu… tu hai mandato a monte
l’attentato di Baghdad, quello alla base navale
americana?».
Bryant si voltò a guardarla. «Sì, come
fai a sapere che…?».
«Lionel Reed», sputò Grace.
«Lionel? Tu conosci Lionel? Era… era a capo
dell’operazione, tutti la ritenevano un suicidio, io e Carter
siamo stati gli unici a dargli fiducia e noi tre abbiamo fatto in modo
che la base non saltasse in aria. Come fai a conoscerlo?».
«Lui è venuto a cercarmi. Crede che
l’omicidio di una donna in Virginia sia collegato a quello di
mio padre e…».
«Devi portarmi da lui», disse con tono distaccato,
col quale tentava di nascondere una certa preoccupazione. Poi aggiunse:
«Immediatamente».
***
«Tom…
che ci fai ancora in piedi?», chiese Bill strofinandosi gli
occhi mentre scendeva gli ultimi gradini della scalinata e raggiungeva
il fratello.
Era seduto sulla sua chaise-longue e aveva il capo rivolto verso le
porte vetrate su cui aveva fatto calare le veneziane. Bill
contò le quattro righe di luce lunare che gli attraversavano
il viso, mentre si sedeva sul bracciolo della poltrona lì
accanto.
«Non riesco a dormire», disse con poca voce, come
se qualcuno gliel’avesse strappata dalla gola e tutto
ciò che ne era rimasto fosse un gorgoglio rauco.
«Vorrei, ma non ci riesco».
«A che pensi?».
«Penso a Helen».
«Non ne dubitavo», accennò un sorriso,
ma Tom non lo calcolò nemmeno: la sua mente, come il suo
sguardo, era altrove.
«Prima ho chiamato Molly, o come si chiama…
l’amica di Helen», confessò.
«Uhm. Che ti ha detto?».
«Le ho chiesto come mai Helen si comporta in questo modo,
perché oggi non è stata con noi… Mi ha
risposto che aveva del lavoro da fare».
«Ah
sì? E che lavoro fa?».
«Ahm… Beh, lei, ecco… Sai, per quanto
bene io ti voglia – e te ne voglio tanto, dico sul serio
– tengo alla mia vita».
«Fa l’assassina per professione?».
«Oh no», ridacchiò. «Ma
potrebbe iniziare questa attività proprio con la
sottoscritta, se ti raccontassi qualcosa di lei».
«Per quale cavolo di motivo nessuno vuole dirmi niente su di
lei?», sbraitò allora.
«Forse… forse lei non ritiene che ci sia molto da
dire».
Il silenzio calò su
di loro dopo che Tom ebbe finito di raccontare della loro
conversazione.
Bill non rispose subito, ci mise un po’ a scovare le parole
adatte da poter dire. Forse perché non ce n’erano.
«Magari tutto quello che Helen è ce
l’hai di fronte agli occhi. Solo che non riesci a
vederlo».
Il maggiore si girò per la prima volta verso di lui e lo
guardò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Che cazzo stai dicendo?».
Aveva pienamente ritrovato la sua voce e con quella anche i movimenti,
frenetici e nervosi.
«Sto solo cercando di dire che…», Bill
prese un lungo respiro, posando le dita sulle tempie.
«Tu… tu sei fissato. Tu vuoi così tanto
conoscere un po’ di lei che appena lei si mostra tu non
riesci a vederlo… Scommetto che lei si sia lasciata andare
qualche volta con te, magari non con le parole…
però l’ha fatto. E magari tu hai apprezzato un suo
gesto, un suo sorriso… ma non l’hai capito fino in
fondo».
Tom si mise seduto sulla chaise-longue, lentamente. Strinse con forza i
bordi d’acciaio e scosse il capo.
«Quante cazzate, Bill», sbuffò.
Dopodiché si alzò e salì due a due le
scale che portavano al piano superiore. Si fermò nella zona
living del soppalco e prese a calci il dorso di una poltrona, su cui
poi si lasciò sprofondare. Si posò una mano sulla
fronte e chiuse gli occhi.
Gli tornò alla mente la sera in cui avevano dormito nel suo
fuoristrada, il calore che l’aveva invaso svegliandosi e il
pizzicorio che aveva provato allo stomaco udendo come prima cosa la sua
voce.
Ricordò anche la volta in cui Helen, nonostante la febbre e
il freddo che provava, aveva continuato a stare appostata nel suo
fuoristrada con una sola coperta a proteggerla.
Si guardò la mano con cui quella volta le aveva accarezzato
i capelli e che poi aveva racchiuso al suo interno un suo orecchio
bollente.
E dentro di sé ebbe la sensazione che le cose che aveva
detto suo fratello non fossero cazzate.
***
Grace si
fermò col suo fuoristrada ad un semaforo rosso e di fianco a
loro fece lo stesso l’auto decappottabile di un gruppo di
ragazzi ispanici che ascoltavano ad alto volume una canzone di qualche
rapper.
«Ehi piccola, non è un po’ troppo grande
quello per te?», le domandò il ragazzo con il
cappellino storto sulla testa, svaccato sul sedile del passeggero,
indicando Bryant.
La ragazza sorrise e alzò gli occhi sul grande edificio che
si stagliava sull’angolo, coi suoi quadratini gialli: le
finestre dietro le quali le luci erano ancora accese.
«E tu non sei troppo piccolo per stare nell’auto di
Doc Mahkah?».
Il ragazzo, più che sorpreso, si voltò verso il
capo della gang, seduto sui sedili posteriori, e si passò le
dita sui baffetti neri.
«Capo, conosci questa tipa?».
Doc Mahkah sogghignò e si sporse verso il suo finestrino per
vederla in faccia. «Oh sì, teppista. La mia cara
Grace! Come stai, bambina?».
«Non c’è male. E tu, come te la
passi?».
«Tutto alla grande, sì. Gli affari procedono bene
in questo periodo».
«Sono contenta per te».
Il semaforo diventò verde e la ragazza alzò la
mano in segno di saluto. Lo fece però troppo
all’improvviso, perché i ragazzi di Doc Mahkah
portarono subito le mani sulle schiene o nelle tasche delle giacche.
«Ragazzi, calmatevi», disse Grace con una risatina
e schioccò un occhiolino al capo. «Ci si becca in
giro, Doc!».
«Sarà un piacere!».
Dopodiché Grace premette l’acceleratore, sgommando
un po’ sulla strada liscia.
Il silenzio accompagnò lei e Bryant ancora per un
po’, poi lui esordì: «Amici
tuoi?».
«Sì, una specie», annuì.
Fece schioccare la lingua contro il palato, con disappunto.
«Tuo padre non avrebbe approvato».
«Sono bravi ragazzi, se si chiude un occhio».
«Forse se si chiudono entrambi»,
commentò.
«Doc Mahkah e la sua gang controllano la maggior parte dei
sobborghi di LA, lui sa tutto di tutti… è un buon
informatore».
Lo guardò e si scostò un ciuffo di capelli che il
vento fresco della sera le aveva posato sulle ciglia. Le fu impossibile
non notare il sorriso divertito che aleggiava sulle labbra del marine.
«Mi piaci, cazzo!», esclamò Bryant,
prima di scoppiare in una grossa risata a cui anche lei prese parte.
Arrivarono a casa di Lionel
una decina di minuti dopo e lo buttarono giù dal letto. Si
erano completamente dimenticati che fossero quasi le tre e mezzo di
notte.
Appena Lionel vide Grace accompagnata da quell’uomo che aveva
proprio bisogno di un barbiere corrugò la fronte, spaesato.
Poi si soffermò ad osservarlo con maggior attenzione e lo
riconobbe.
«Bryant», sussurrò, mentre gli occhi gli
si inumidivano.
«Capo», rispose il marine, attirandolo in un
frettoloso abbraccio.
«Che fine avevi fatto? Ti ho cercato, qualche volta,
ma… E Carter? Carter dov’è, come
sta?».
Grace abbassò lo sguardo e si infilò le mani
nelle tasche dei jeans, stringendosi il collo fra le spalle.
«Lionel», mormorò, «dobbiamo
parlare».
«Carter… fatto fuori», ripeté
per l’ennesima volta l’ex-marine, prima di
allungare il bicchiere che aveva stretto nella mano verso
Grace, la quale gli versò ancora un po’ di rum.
Lui lo bevve tutto d’un fiato e tornò a fissare
con sguardo assente il marmo lucido del bancone della cucina.
«Stanno dando la caccia anche a me», disse Bryant,
passandosi una mano sulla barba incolta. «Tutto è
iniziato quando abbiamo mandato a monte quell’attentato e
Mitch vi ha collegato uno dei suoi casi. È stato risucchiato
da questa storia ed è morto. Dopo di lui hanno dato la
caccia a Carter. È riuscito a scamparla per un
po’, poi ce l’hanno fatta». Anche lui
affogò il suo dolore nel bicchiere di rum.
«Rimaniamo io e te, Lionel, e stai pur certo che non si
daranno pace fino a quando non saremo seppelliti sotto tre metri di
terra».
«Tutti quelli che hanno partecipato all’operazione
e quelli che ne sanno qualcosa devono essere fatti fuori»,
disse Lionel con voce lontana.
Sulla sua scia, Grace disse: «Devono portare i loro segreti
nella tomba…».
Sollevò il capo, con gli occhi sgranati, e strinse con
più forza il bicchiere di vetro fra le mani, tanto da far
sbiancare le nocche.
«Ma cosa? Che cosa avete visto, che cosa avete fatto
sventando quell’attentato?».
«E chi sono quei figli di puttana che hanno fatto fuori Mitch
e Carter?», domandò Bryant.
«Carter… Perché non se
n’è saputo niente? È stato un marine
con una carriera esemplare e ha ricevuto pure quella Medaglia
d’Onore. Come minimo i media ne avrebbero dovuto parlare,
eppure… hanno insabbiato tutto».
L’investigatrice finì anche lei il suo bicchiere
di rum. «Amici ai piani alti», rispose secca.
Bryant la osservò. «Così alti da
azzittire tutta la stampa?».
«Così alti che farebbero di tutto, pur di non
compromettersi».
***
Tom
scostò le tende dalle finestre della sua camera per far
entrare un po’ di luce e stava anche per aprirle per far
cambiare l’aria, quando vide arrivare il fuoristrada di
Helen. Allora lasciò perdere e corse al piano inferiore.
Suo fratello stranamente non si era ancora svegliato e pensò
che era meglio così: non avrebbe dovuto dargli alcuna
spiegazione imbarazzante, soprattutto dopo la discussione della notte
precedente.
Si infilò soltanto le scarpe, se ne fregò di
essere in tuta, ed attraversò il giardino sul retro
imponendosi un certo contegno, anche se fremeva: avrebbe tanto voluto
correre.
Arrivò al fuoristrada, ne fece il giro sotto lo sguardo un
po’ perso della ragazza e vi salì. La
guardò in viso con affanno e pian piano il suo sorriso
spontaneo si spense.
«Questa mattina sei tu quella messa male», disse
accennando con un gesto della mano alle sue occhiaie.
Lei si passò una mano pesante sul viso privo di trucco e Tom
pensò che le sue efelidi sarebbero state cancellate se
avesse usato tutta quella forza, ma quando tolse la mano erano tutte
lì, non ne mancava nemmeno una. Gli piacevano le sue
efelidi, tutte quante, anche quelle che le assalivano i bordi delle
labbra.
«È stata una nottataccia, ho lavorato fino a
tardi», sospirò. «Non sono nemmeno
riuscita ad andare da Starbucks,
mi dispiace…».
Tom sorrise e le sistemò la solita ciocca di capelli dietro
l’orecchio. Era un gesto che faceva quotidianamente ormai ed
entrambi si erano abituati.
«È l’occasione perfetta per provare il
mio caffè! Fino ad ora hai provato solo il tè di
Bill, ma vedrai che dopo una tazza del mio caffè ti
prostrerai ai miei piedi».
Grace accennò un sorriso, accompagnato da un cenno
d’assenso del capo, ed uscì dal fuoristrada.
«Ehi, ciao bello».
Appena entrata, Grace si chinò per accarezzare le grandi
orecchie del cane di Tom, mentre questo scodinzolava felice di
rivederla.
«Mettiti sul divano, arrivo subito», le disse Tom,
indicandogliene uno in salotto.
«Okay».
Tom andò in cucina, preparò il caffè
canticchiando, e quando fu pronto lo versò in due tazze.
Tornò in salotto e vide Helen rannicchiata sul divano di
fronte al plasma spento, che dormiva con una mano ancora sul pelo corto
del cane.
Si avvicinò con cautela e posò le due tazze sul
tavolino basso, poi prese la coperta piegata sul bracciolo del divano
accanto e gliela stese sopra, inginocchiandosi in corrispondenza del
suo viso. Scostò le corte ciocche di capelli che le
ricadevano sulla fronte e seguì il contorno del suo volto
con il dorso delle dita, un lieve sorriso sulle labbra.
_____________________________
Un po'
di routine della nostra detective alle prese di un caso piuttosto
bizzarro che si è però rivelato di una certa
importanza. E' entrato in scena, infatti, Bryant, un altro marine che
faceva parte del gruppo ristretto comandato da Lionel e che ha sventato
quell'attentato a Baghdad. Purtroppo questa riunione non è
stata felice, poiché ha rivelato che Carter, il terzo uomo
del gruppo, è stato ucciso da quelli che hanno ucciso il
padre di Grace e che danno la caccia pure a lui.
Che cosa succederà ora? E tra Tom e Grace? Rimaniamo
così in sospeso fino a lunedì prossimo ;)
Ringrazio ancora tutti coloro che hanno commentato e letto lo scorso
capitolo e spero che questo sia stato di vostro gradimento!
Alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7
«Dovresti
interrompere le indagini, questo caso è più
grande di te», disse Lionel, socchiudendo gli occhi.
«Non ci penso nemmeno», ribatté Grace,
mentre lavava i bicchieri che avevano usato per scolarsi
un’intera bottiglia di rum.
Bryant era svaccato su una delle sedie del tavolo da pranzo e guardava
con occhi acquosi sia la ragazza che l’ex-marine.
«È troppo rischioso. Se continui finirai per
diventare anche tu un bersaglio di quei pazzi e…».
Grace finì di lavare i bicchieri e si asciugò le
mani con un straccio.
«Questo caso
è l’unico motivo per cui sono diventata
un’investigatrice privata. Non mi tirerò indietro
fino a quando non lo avrò risolto e non avrò
spedito in prigione a calci in culo chi ha ammazzato mio
padre».
Lionel
scattò verso di lei e le prese con forza un polso, la
strattonò e la fece voltare verso di lui.
Era decisamente quello che aveva bevuto più di tutti e la
scoperta che Carter era stato assassinato lo aveva sconvolto, ma quando
parlò a Grace nei suoi occhi c’era una
lucidità profonda, macchiata soltanto dal dolore.
«Finirai come tuo padre, se continui»,
sussurrò a pochi centimetri dal suo viso. «Ti
ammazzeranno prima che tu riesca a risolvere il caso e io…
non lo posso permettere». La sua voce si era incrinata e una
lacrima era scivolata lungo la sua guancia. «Ho
già perso una figlia, non posso perderne
un’altra».
Grace lo fissò per minuti che sembrarono ore, nel silenzio
della notte e alla luce fioca proveniente dalle lampadine che
illuminavano il marmo bianco del bancone. Poi la sua espressione si
ammorbidì tanto da rivelare della malinconia e
sussurrò: «Io non sono tua figlia».
Si scostò lentamente dall’ex-marine, il cui viso
– e non solo quello – era ormai andato in pezzi, e
si infilò la giacca in salotto.
Prima di andare si voltò ancora nella sua direzione e gli
osservò la schiena.
«Mi dispiace».
Grace aprì di scatto gli occhi, senza muovere
nessun’altro muscolo, e vide Tom seduto per terra, con la
schiena contro il bordo del divano, all’altezza delle sue
ginocchia piegate, che guardava la TV col volume al minimo ed
accarezzava il dorso del cane sdraiato al suo fianco.
C’erano ben altri due divani nei paraggi, perché
non era andato a sedersi su uno di quelli?
Sorrise inconsciamente ed osservò il suo profilo,
definendone i contorni con accuratezza.
Provò a scacciare dalla testa l’ultima parte della
nottata passata con Lionel e Bryant, quella che aveva anche sognato, ma
non ci riuscì del tutto, perché il peso di quello
che si erano detti le comprimeva il petto.
Lionel le aveva rivelato che la considerava come una figlia e che non
voleva che corresse il pericolo di venir ammazzata come suo padre e lei
gli aveva risposto in quel modo brusco… Avrebbe dovuto
scusarsi, anche se l’importanza di quel caso era
pressoché vitale per lei. Non si sarebbe arresa per nulla al
mondo, anche a costo di rischiare la vita, e di perderla.
«Ehi, sei sveglia».
Posò di nuovo gli occhi su Tom e notò il sorriso
che gli incurvava all’insù le labbra.
Ormai, da quando lo sapeva, con lei parlava solo tedesco e Grace glielo
lasciava fare, perché un po’ di allenamento non le
avrebbe fatto male e poi perché sapeva che lui era in grado
di esprimersi meglio nella sua lingua madre. Inoltre, era a conoscenza
di quanto gli desse sui nervi correggersi se faceva qualche errore di
grammatica inglese.
Annuì con un leggero movimento del capo. «Scusa se
mi sono addormentata».
«Avevi bisogno di dormire», la
rassicurò. «Adesso vuoi provare il mio
caffè?».
«Sei proprio ostinato a volermelo far provare…
Cos’è, l’hai avvelenato?»,
sogghignò e Tom scosse il capo, trattenendo una risata.
«Ci avevo pensato», le confessò.
«Ma poi mi son detto che mi conveniva aspettare ancora un
po’: ci sono troppe cose ancora che non so di te».
«Già», mormorò e il sorriso
le si spense sulle labbra. Tom non se ne accorse.
Si alzò in piedi e le porse una mano, lei
l’afferrò e si lasciò condurre in
cucina, dove apprese che erano quasi le undici del mattino.
«Ho dormito così tanto?»,
domandò più a se stessa che a Tom, ma lui rispose
ugualmente.
«Già. Fino a che ora sei stata in piedi, ieri
notte?».
Grace si sedette su uno sgabello del tavolo alto che faceva da
prolungamento al piano da lavoro della cucina e si sciolse la coda che
aveva sulla nuca.
Tom si soffermò a guardarla mentre con l’elastico
tra le labbra se la rifaceva con gesti morbidi ma decisi. Era uno
spettacolo della natura, perché pur avendo i capelli
così corti riusciva a tenerli fermi, almeno per i primi due
minuti.
«Perché mi fissi?», gli chiese la
ragazza, notando il suo sguardo colmo di curiosità.
«Niente, io… prova un attimo a tenerli
sciolti?».
Grace si bloccò con le mani sulla nuca e i gomiti rivolti
verso l’esterno. Osservò il chitarrista, poi
lasciò cadere le braccia lungo i fianchi: i capelli le
ricaddero ai lati della testa, coprendole le orecchie ed arrivandole
complessivamente a metà del collo. Alcune ciocche erano
più lunghe, altre più corte, e quella che doveva
essere una frangetta l’aveva trasformata in un ciuffo
laterale che teneva fermo su un lato della testa con una forcina.
Tom si avvicinò a lei, dipingendosi un sorrisino sulle
labbra, e la scrutò da vicino, facendo un giro intorno a
lei. Una volta di nuovo con gli occhi nei suoi le posò le
mani sui lati della testa e le sistemò i capelli dietro le
orecchie. Piegò il capo leggermente di lato e
continuò ad osservarla, tanto che Grace, un po’
infastidita – ma soprattutto confusa ed imbarazzata
– da tutto quell’interesse, sbottò:
«Hai finito sì o no?».
Il ragazzo scosse il capo, come se fosse rivenuto or ora da uno stato
di ipnosi, e disse: «Non ti avevo mai vista con i capelli
sciolti».
«Ho fatto un casino l’ultima volta che li ho
tagliati», borbottò e riprese a farsi la coda, non
badando a lui. «È per questo che fanno
schifo».
«Te li sei tagliati da sola?», domandò
Tom, sorpreso. Lei annuì e prima che potesse aprire bocca,
lui aggiunse: «Sono belli, invece. Nel senso, ti stanno
bene».
Grace arricciò il naso e si lasciò andare ad una
risatina, abbassando lo sguardo. «Ora che me l’hai
detto tu sicuramente andrò in giro a vantarmene».
«No, non penso tu sia capace di fare una cosa del
genere», schioccò la lingua contro il palato, con
un sopracciglio sollevato. «Però è
quello che penso veramente, non ti sto prendendo in giro».
La ragazza sollevò lo sguardo e dai suoi occhi
capì che non stava mentendo. Lui le rivolse la stessa
occhiata perplessa, poi si voltò per andare a versare il
caffè nelle due tazze.
«Visto che sei in vena di sincerità…
c’è qualcos’altro che ti piace di
me?», gli domandò, osservandosi le mani unite sul
tavolo.
Stava per risponderle: «Solo se dopo mi dirai quello che ti
piace di me», ma
senza saperne bene il motivo evitò.
«Uhm… le tue efelidi», si
voltò con le due tazze di caffè fra le mani e le
rivolse un sorriso. Dopodiché si mise seduto al tavolo, di
fronte a lei, e gliene porse una.
«Davvero ti piacciono?».
Lui scrollò le spalle. «Sì,
perché?».
«Io le ho sempre odiate».
Tom non le chiese il motivo, rimase in silenzio, e la tecnica
funzionò, perché Helen riprese a parlare
autonomamente.
«Da ragazzina rubavo i trucchi di mia madre e me li spalmavo
in faccia fino a quando non sparivano. Uscivo dal bagno che sembravo un
clown», rise di sé e Tom
l’accompagnò con un sorriso, mentre si portava la
tazza alle labbra. «Quando ero piccola tutti mi prendevano in
giro perché avevo queste strane macchie in faccia. Una volta
delle stupide bambine…», al ricordo strinse
più forte la tazza fra le mani, «ci hanno passato
sopra la gomma da cancellare così forte che quando mia madre
mi ha vista credeva che mi fossi spellata per il troppo
sole». Rimase in silenzio per qualche secondo, poi riprese,
distendendo i tratti del viso: «Nessuno mi ha mai detto che
le trovava belle».
«Fino ad oggi», disse Tom.
«Fino ad oggi», ripeté Grace,
guardandolo negli occhi.
«Ti rendono unica», soggiunse il chitarrista,
sfuggendo però al suo sguardo. «Non che tu non lo
sia già, unica, però, ecco… ti danno
un qualcosa che… Mi piacciono e basta».
«Grazie», rispose la ragazza, con un sorriso
timido. «Ora forza, chiedimelo».
«Che cosa?».
Grace aggrottò le sopracciglia, divertita. «Che
cosa mi piace di te, no? Scommetto che non aspetti altro».
Tom fece l’indifferente, scrollando le spalle, ma
puntò tutta la sua attenzione su di lei.
«Risulterò scontata», mise le mani
avanti, «ma mi piace il tuo sorriso».
Forse era vero, era un po’ scontato: tantissime ragazze gli
avevano detto che il suo sorriso era bello. Ma forse era quello il
punto… lei aveva detto che piaceva a
lei, non che era bello.
Per questo disse: «Nessuno me l’aveva mai
detto».
Grace lo guardò sconcertata. «Non ci
credo».
Lui scosse il capo. «Non come me l’hai detto
tu».
Calò un pesante silenzio, nel quale l’imbarazzo
era palpabile e buona parte di esso apparteneva proprio alla ragazza,
la quale non riuscì a far altro che portarsi la tazza alle
labbra per bere un po’ di caffè.
«Com’è?», le
domandò Tom quando posò di nuovo la tazza sul
tavolo.
«Buono», rispose schiarendosi la voce.
Poi, quasi all’improvviso, si ricordò di Bill, che
non aveva ancora visto. «Che fine ha fatto tuo
fratello?», gli chiese.
«È uscito stamattina, tu ancora dormivi».
«E dov’è andato?».
«Non ne ho idea», scrollò le spalle.
«Avete litigato?».
Tom sospirò. «All’incirca. Tu come fai a
saperlo?».
«Quando litighi con tuo fratello te lo si legge in faccia,
bisogna solo saper leggere», gli sorrise.
Quelle parole lo riportarono alla discussione con Bill e socchiuse gli
occhi. Colpo basso.
Ma che voleva dire, saper leggere la faccia di una persona? Riuscire a
vedere ciò che è? Saperne apprezzare e capire un
gesto?
«Dai, vieni con me», esclamò Grace
allontanando col dorso della mano la tazza di caffè vuota ed
alzandosi dallo sgabello.
Il chitarrista sollevò di scatto la testa.
«Dove?»
Lei gli sorrise sbarazzina. «Non ti piacerebbe essere nei
miei panni, per una volta?».
«Intendi…».
«Sì, andiamo alla caccia di Bill».
«Bene, se non vuoi
dirmi per quale motivo avete litigato… dimmi almeno dove
andrebbe tuo fratello in questo caso».
«Forse andrebbe a fare shopping. Per scaricare la tensione,
sai».
«Oh sì, capisco», rispose Grace, ma
scosse il capo continuando a guidare. «Quindi, in un centro
commerciale?».
«Nah, troppo confusionario. A lui piacciono i
negozietti».
«Tipo quelli etnici?».
«No, tipo Chanel e Gucci».
«Negozietti»,
borbottò.
«Non faremmo prima a chiamarlo e a chiedergli dove si
trova?», chiese Tom, già con il cellulare in mano.
Grace non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca, lui aveva
già inoltrato la chiamata.
Bill rispose dopo qualche squillo e Tom esclamò:
«Ehi, si può sapere dove sei finito?».
«Metti il vivavoce», sussurrò Grace e
Tom obbedì, anche se non ne capì immediatamente
il motivo.
«Non te lo dico», rispose il gemello più
piccolo, con voce dura. Era proprio arrabbiato.
«Oh su, lo sai che non volevo prendermela con te ieri notte.
È che…».
«Tu sei un cretino, Tom, okay?».
Il chitarrista percepì nell’aria che Bill avrebbe
spiegato tutti i motivi per cui lui era definibile «un
cretino» e sicuramente avrebbe accennato anche qualcosa su
Helen, così tentò di arrestarlo sul nascere.
«È vero», disse, «sono un
cretino. Ora dimmi soltanto dove sei, mi sto preoccupando a
morte». Non era propriamente vero, ma un po’
preoccupato lo era.
Bill sbuffò e Grace ebbe l’opportunità
di sentire meglio i rumori di sottofondo, quelli che potevano
ricollegarla alla sua possibile posizione.
«Dimmi se sbaglio, Bill: sei a La
Placita?», gli chiese.
«Ehi Helen, ci sei anche tu?! La
Plachecosa?».
Grace roteò gli occhi, ma poi si ricordò che era
un’abitudine tutta latina, tipica anche di Dylan, quella di
chiamare in quel modo una delle strade più famose e antiche
del centro di Los Angeles. Quindi sorrise e spiegò:
«Intendevo Olvera
Street».
«Oh mio Dio, ma come hai fatto a capirlo?»,
strillò il frontman, sorpreso. Anche Tom, al suo fianco, era
ansioso di scoprirlo.
«Vedete, non sapete cogliere i particolari.
C’è un grande vociare intorno a te e
l’unico posto sempre affollato e dove si parla molto spagnolo
che io sappia è proprio il mercato di Olvera
Street. Ora mi dici per quale
cavolo di motivo tu e Tom avete litigato?».
«Ah, lui non te l’ha detto?», le
domandò con un tono di voce divertito, anche un
po’ sadico, che fece sudare freddo il suo gemello.
«No, si è rifiutato di dirmelo», rispose
Grace, imbronciata, prima di gettargli un’occhiata di
traverso.
Tom strinse più forte il cellulare tra le mani, ascoltando
il silenzio inquietante di Bill e pregando perché non lo
tradisse.
Alla fine il cantante sospirò e disse: «Era una
cosa molto stupida, niente di che».
Il chitarrista dentro di sé tirò un enorme
respiro di sollievo e promise a se stesso di abbracciare suo
fratello non appena fossero rimasti soli, ringraziandolo per essere
sempre così comprensivo con lui.
«E va bene», si arrese Grace, tornando a
concentrarsi completamente sulla strada oltre il parabrezza.
«Aspettaci lì, stiamo arrivando».
«Sì», intervenne inutilmente Tom.
«Va bene, tanto sto facendo dei veri affari! Prima sono stato
anche a Little
Tokyo, sapete? Al Little
Tokyo Shopping Centre,
precisamente, e sapete che tutti i reparti d’abbigliamento
delle bambine sono pieni di cose di Hello
Kitty?! È
ovunque!».
«E tu che ci facevi nel reparto d’abbigliamento
delle bambine?», domandò Tom, mentre la sua voce
si incrinava a mostrare tutto lo sconcerto provocatogli da
quell’affermazione.
«Ci sono passato per caso!», gridò Bill,
anche lui stridulo. Grace scoppiò a ridere e così
il frontman, forse offeso, si affrettò a chiudere la
chiamata.
Tom allora si infilò in tasca il cellulare e posò
lo sguardo su di lei. Non venne scoperto, così
poté osservarla in lungo e in largo, senza fretta.
Quella volta, come molte altre, riuscì soltanto a pensare
che quella bellezza era un continuo mistero. E non solo
perché ogni giorno che passava gli sembrava un tantino
più bella, ma perché… tutto
ciò che si celava dietro di essa era un mistero. Ancora non
era riuscito ad inquadrarla, sembrava che avesse chissà
quali misteri alle spalle… non era nemmeno certo che quella
ragazza fosse la stessa che aveva conosciuto, né quella che
sarebbe stata il giorno seguente.
Arrivarono in Olvera Street
una manciata di minuti dopo la conclusione della chiamata e dovettero
parcheggiare il fuoristrada prima di immettersi nella strada affollata
e costeggiata da bancarelle così addossate l’una
sull’altra che non si capiva nemmeno di quale fosse quella
merce e di quale quell’altra.
Circondato da file e file di pignatte di ogni forma e piene di
caramelle, di sombreri, di pupazzi a forma di scimmie e di strumenti
musicali colorati, gli sembrava di essere stato catapultato nel
vecchio, romantico ed ospitale Messico.
«È una delle vie più belle che abbia
mai visto», disse Tom, infilandosi le mani nelle tasche e
continuando a guardarsi intorno con gli occhi colmi di luci, le
orecchie piene di note di flauti e di arpeggi di chitarre classiche.
«Ci credo», rispose Grace, anche se con voce
metallica. «Però devi starmi vicino».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi a quelle parole.
«Eh?».
«Ti ho detto di starmi vicino. Questa via è tanto
bella, ma ci sono scippatori ovunque e se non conosci bene il posto
è impossibile che tu riesca a vederli», gli
spiegò e gli prese bruscamente la mano destra, lo
avvicinò a sé e si infilò sotto al suo
braccio.
Tom ci mise qualche secondo a metabolizzare ciò che aveva
appena fatto e a scacciare dalla testa tutti quegli strani pensieri che
gli avevano attraversato la mente quando aveva sentito il fianco di
Helen premere contro il suo e il suo braccio avvolgergli la schiena.
Quando si riprese, non poté non sogghignare e lanciare una
delle sue frecciatine: «Dici sul serio o è solo
una scusa per abbracciarmi?».
Grace scosse il capo, divertita. «Secondo te?».
«Indubbiamente è solo una scusa per
abbracciarmi».
«Pallone gonfiato», lo prese in giro, pizzicandogli
il fianco. «E tieni a posto quella mano, che non ci metto
nulla a schiantarti al suolo».
Tom sollevò la mano che penzolava sulla sua spalla, vicino
al suo seno. «Sissignora».
Camminarono per un po’ lungo la strada e ogni volta che si
stringevano un po’ di più per passare fra la gente
che si ammassava alle bancarelle con le super offerte era un brivido
per entrambi. E di Bill ancora nessuna traccia.
«Dove cavolo si è cacciato?»,
domandò ad un certo punto Grace, seccata. «Tu lo
vedi?».
«No», rispose Tom con voce tranquilla, scrollando
le spalle.
La ragazza sollevò un sopracciglio. «No?»,
ripeté ed imitò anche il suo gesto, desiderosa di
una spiegazione.
«Non posso dire che passeggiare e stare abbracciato ad una
bella ragazza non mi piaccia!».
L’investigatrice puntò lo sguardo di fronte a
sé, come se quelle parole non l’avessero
minimamente toccata.
«Stai flirtando con me, Kaulitz?».
«Avrei qualche chance?».
«Certo che no».
«Allora no, non sto flirtando con te, Brooklyn».
Tornò a fissarlo, ma quella volta fu lei a non trovare il
suo sguardo.
Tom era sempre più criptico, in quel periodo: sembrava che
volesse intendere qualcosa e che poi la confutasse, tirandosi indietro
e facendo finta di nulla. Era da un po’ che, per quel motivo,
non riusciva a capire chiaramente le sue intenzioni.
«Tu hai già il ragazzo poi, non è
così?». Tom se ne uscì fuori
all’improvviso, tanto che Grace non riuscì a
controllare il suo tono di voce, che diventò un
po’ isterico.
«Io? Io non ho il ragazzo».
«E allora Dylan che cos’è?».
«Chi ti ha detto che noi due…».
Tom girò il viso verso il suo e i loro nasi quasi si
sfiorarono. La guardò intensamente negli occhi e
capì quello che aveva voluto dire Bill la notte prima: era
tutto lì, in quegli occhi, stava a lui decifrarne i codici
segreti. E non sarebbe stato affatto facile.
«Ogni tanto scopate, dì la
verità».
«Ma… oh, insomma!», sbottò,
arrossendo.
Tom ridacchiò. «Lo prendo come un
sì».
«No, lo prendi come un bel niente! Io e Dylan non stiamo
insieme, noi… siamo solo amici, per quel che mi
riguarda».
«Scopi con tutti i tuoi amici? Perché se
è così hai dimenticato me»,
continuò con le sue frecciatine.
«Infatti, chi ha detto che siamo amici?», lo
smontò, pezzo per pezzo, e Tom si ammutolì.
Questo non se lo aspettava di certo.
«Oh, finalmente. Ecco Bill», disse ancora e lo
indicò con un dito. Era di fronte ad una bancarella che
vendeva strani gioielli ed inusuali accessori, come quelli che
piacevano tanto al cantante dei Tokio Hotel.
Mentre si avvicinava con Tom ancora appeso addosso, Grace si accorse
subito dei due ragazzini che, sulle loro BMX tempestate di adesivi e
ridipinte con le bombolette spray per coprire la ruggine, guardavano
con sguardo acceso il frontman; in particolar modo sembravano attratti
dalla borsa che aveva appesa al gomito e che sporgeva proprio nella
strada sgombra.
Il bodyguard se ne
accorgerà, pensò
Grace. È un
bodyguard anche per questo, no?
Bill, vedendoli arrivare, sollevò il braccio libero per
salutarli con la mano e si sporse ancora di più verso
l’esterno della bancarella. Grace ebbe come
l’impressione di vedere il riflesso della borsa di pelle nera
che dondolava negli occhi del ragazzino che, seguito dal suo compagno,
iniziò a pedalare nella direzione del cantante.
Quando capì che il bodyguard non se ne sarebbe accorto in
tempo scattò verso Bill, lasciando Tom sbigottito.
Corse verso di lui concentrando tutta la propria forza nelle gambe e lo
strattonò verso di sé, come se avesse voluto
abbracciarlo, giusto un momento prima che il ragazzino riuscisse ad
afferrare i manici della borsa. Il ragazzino, preso in contropiede, si
sbilanciò e cadde dalla sua BMX; l’amico dietro di
lui lo schivò per miracolo.
Dalle bancarelle vicine un nugolo di persone si precipitò
dal ragazzino appena caduto. Anche Grace si avvicinò,
ovviamente non avrebbe voluto che si facesse male ma purtroppo aveva
pestato la faccia sul cemento, facendosi sanguinare il naso e prendendo
una botta sulla fronte.
Sentì Tom alle sue spalle chiedere a Bill se stava bene e
lei chiese la stessa cosa al ragazzino, come fecero molte altre
persone, tra cui riconobbe anche la madre, la quale iniziò a
parlargli nello slang tipico di quel quartiere – una
particolare fusione tra l’inglese americano e lo spagnolo
– di cui Grace riuscì ad afferrare solamente
qualche parola, grazie alle saltuarie lezioni che Dylan le aveva
impartito.
«¿Qué
ha pasado, niño?»,
domandò al figlio, adirata e già pronta a
tirargli uno schiaffo. Forse non era la prima volta che lo beccava dopo
un tentativo di borseggio.
Grace la fermò, prendendole la mano nella sua.
«È soltanto caduto. Ho visto che stava per finire
contro mi
amigo,
ma non ho fatto in tempo a…», deglutì e
socchiudendo gli occhi concluse: «Non ha fatto nulla di male.
È stato un... accidente».
Il ragazzino era pressoché incredulo: non capiva
perché, nonostante si fosse accorta delle sue reali
intenzioni, l’avesse protetto.
Grace gli rivolse un’occhiata quasi materna, anche se
leggermente delusa, e i lineamenti del viso della mamma del ragazzino
si ammorbidirono e finalmente mostrarono la preoccupazione per il
proprio figlio sanguinante.
«Gracias.
Muchas gracias, señorita», le disse
la donna, ma nel suo tono di voce c’era della rassegnazione:
probabilmente aveva capito che Grace aveva mentito per difenderlo, ma
si voleva aggrappare all’illusione che avesse detto la
verità. O meglio, questo fu quello che percepì
Grace.
Quando la situazione si ristabilizzò e tutti tornarono alle
loro occupazioni in Olvera
Street, il ragazzino e sua madre
erano già andati via e Bill era ancora mezzo sconvolto per
ciò che era successo. Per non parlare del bodyguard, il
quale sembrava un bambino spaesato, incapace di realizzare
ciò che non
aveva fatto.
Mentre tornavano alle loro auto il clima non era uno dei migliori e
Bill riuscì ad afferrare che doveva essere successo qualcosa
anche fra suo fratello e la ragazza, dato che ogni tanto lo scopriva ad
osservarla di sfuggita.
Non si azzardò a chiedere nulla, anche perché era
ancora troppo scosso, nonostante non avesse ben capito la dinamica dei
fatti.
«La sua auto è di qua…»,
disse il bodyguard, indicando la parte opposta rispetto a quella in cui
stavano andando loro tre.
«Sì, lo so. Prendila tu», Bill gli
lanciò le chiavi. «Io vado con Helen».
«O-Okay», balbettò il bodyguard, per poi
allontanarsi.
Quando fu lontano, Helen ritrovò il dono della parola e
sfogò tutta la propria rabbia.
«Voi avete il coraggio di chiamarlo bodyguard,
quello?!», gridò, arrossandosi in viso e
camminando all’indietro durante l’ultimo pezzo del
tragitto verso il fuoristrada. «No, perché se
è così dovreste un po’ rimodernare la
vostra definizione. Se non ci fossi stata io a quest’ora sai
dove saresti?», guardò con sguardo infuocato Bill,
«All’ospedale!». E
con una borsa in meno nella tua collezione!
«Robe d’altro mondo!»,
borbottò ancora e salì sul fuoristrada. Bill e
Tom fecero lo stesso, il primo sistemandosi nei sedili posteriori e il
secondo accanto a lei.
«Grazie Helen», mormorò il cantante,
sporgendosi in mezzo ai due sedili anteriori.
Lei trasse un profondo respiro e scosse il capo, socchiudendo gli
occhi. «Non c’è di che, Bill».
Girò la chiave nel cruscotto e si girò verso di
lui per aggiungere: «Ma ti prego, d’ora in avanti
smettila di andare in giro con quelle borse. Okay?».
Il frontman non aprì bocca e Tom la guardò con
sguardo circospetto, poi si voltò verso il suo finestrino.
Grace annuì, concedendosi un altro respiro profondo, quindi
si allontanarono da Olvera
Street.
Grace scese dal suo fuoristrada dopo i gemelli e si appoggiò
alla portiera unendo le mani dietro il sedere. Si sentiva stanca,
stremata, e non era passata ancora metà giornata.
«Ti fermi qui a pranzo?».
«No, grazie dell’invito», sorrise
debolmente, stropicciandosi il viso con una mano. «Credo che
andrò un po’ a casa a riposarmi. Tanto voi ve ne
state qui buoni, vero? Le uscite fuori porta sono finite,
spero».
«Sì, sono finite», ridacchiò
Bill. «Grazie ancora per prima, Helen», disse e per
dar ancora più valore alle sue parole la strinse in un
abbraccio impacciato, che fece sobbalzare sia lei che Tom.
«Non preoccuparti Bill, è stato un
piacere», balbettò imbarazzata.
Lui sorrise entusiasta, si scostò e la salutò,
poi entrò in casa. Tom rimase ancora un po’ con
lei, a scrutarla a tre passi di distanza.
«Mi dispiace per quello che ho detto prima, non lo pensavo
veramente», esordì Grace, abbassando il capo e
spostandosi dalla portiera fino al retro del fuoristrada, dove
aprì il bagagliaio enorme su cui si mise seduta. Tom la
raggiunse e si sistemò accanto a lei.
«Cioè, stai dicendo che siamo amici?»,
le chiese.
«Beh… non vedo cos’altro potremmo
essere, altrimenti».
I loro sguardi si incatenarono e nessuno dei due ebbe la forza
necessaria a liberarsi.
«Quel ragazzino», disse il chitarrista dopo alcuni
minuti di silenzio passati a fissarsi negli occhi. «Quel
ragazzino non è soltanto caduto, vero? Voleva strappare via
la borsa a Bill».
Grace rimase sorpresa dalla sua intuizione, ma non lo diede a vedere.
«Come hai fatto a capirlo?».
«Ho visto la scena… E poi per quale altro motivo
avresti detto a Bill di non usare più le sue tanto amate
borse?», sorrise smagliante e Grace rise.
«Già, hai proprio ragione. Bravo Tom, stai
migliorando», gli diede una pacca sul braccio, ma la sua mano
improvvisamente si bloccò lì; o meglio, fu
bloccata lì da quella del ragazzo, che tornò a
guardarla negli occhi con quell’intensità che
metteva i brividi.
«Non dire mai più una cosa del genere»,
sussurrò.
«Che cosa?».
Tom scosse il capo, come se si fosse arreso, e guardò la
strada di fronte a sé. «È stato bello
passeggiare con te, prima».
Grace, sconcertata dal suo comportamento, si alzò e gli
passò davanti senza degnarlo di uno sguardo. Quando fu
accanto alla fiancata, posò una mano sulla portiera del
bagagliaio.
«Sarà meglio che vada», disse.
Il chitarrista annuì e si alzò, le
passò di fianco e prima che potesse superarla lei
infilò un braccio sotto al suo, come se dovessero iniziare a
girare in tondo a braccetto.
Entrambi guardavano in direzioni diverse, ciò che
c’era di fronte a loro.
Grace posò lievemente il capo sulla sua spalla ed
abbassò le palpebre stanche. «Sì,
è vero, è stato bello».
«Riposati», le sussurrò amorevolmente
Tom fra i capelli, per poi scostarsi e dirigersi verso la porta
principale, senza guardarsi più indietro.
Grace aspettò che entrasse, poi chiuse il bagagliaio,
entrò nel fuoristrada e guidò verso casa.
Mentre ripensava a tutto ciò che era successo in quella
mattinata piuttosto strana ed emotivamente coinvolgente, le
tornò alla mente il momento in cui aveva insinuato che lei e
Tom non fossero nemmeno amici. Quando aveva pronunciato quelle parole
si era sentita piccola piccola, bugiarda, e aveva anche un
po’ sofferto perché, volendo o meno, il suo legame
con Tom era decisamente cambiato rispetto all’iniziale
“rapporto di lavoro”.
«Non dire mai
più una cosa del genere». Solo ora riusciva a
capire quello che Tom aveva voluto far intendere.
Il loro rapporto stava tutt’ora cambiando e anche lui se
n’era accorto.
***
Sollevò la
cornetta del telefono del suo ufficio e se la portò
all’orecchio mentre sistemava su un’unica pila
alcuni fogli sparpagliati sulla scrivania.
«Schneider Investigations», rispose atona.
«Signorina Schneider, sono la signora Thompson».
«Oh, salve. Mi dispiace molto, ma questa mattina non sono
proprio riuscita a venire…».
L’anziana signora la interruppe: «Non si preoccupi,
non ce ne sarà più bisogno: il signor Bryant se
n’è andato giusto poco fa, non mi ha voluto dire
se aveva trovato un altro alloggio o se cambiava
città…».
Grace pensò a Bryant e a Lionel, che dopo tanto tempo si
erano ritrovati, e non fu difficile immaginare che avessero deciso di
stare insieme per un po’. In fondo Lionel era solo in casa e
un po’ di compagnia gli avrebbe fatto sicuramente bene.
Lionel…
Socchiuse gli occhi alle immagini della notte precedente.
«Signorina Schneider, è ancora
lì?».
«Sì, sì certo», si riprese
scuotendo il capo. «Le è dispiaciuto?».
«Un po’, ma non importa. Appena ha un po’
di tempo venga da me, ché le devo pagare il
disturbo».
«Non ce n’è davvero bisogno»,
accennò un sorriso. L’anziana provò a
ribattere, ma Grace la prevenne: «Parlo sul serio, non ho
fatto praticamente niente. Siamo a posto così. Adesso devo
proprio andare, se ha bisogno di qualcosa mi chiami, non si faccia
scrupoli».
«Va bene signorina, grazie. Lei è un
angelo».
«Prego, si figuri», rispose e concluse la chiamata.
Finì si sistemare i dossier che aveva tirato fuori per
l’ennesima volta a causa dei dubbi che la tormentavano e poi
uscì dal suo ufficio, lo chiuse a chiave e si
infilò la giacca.
Aveva proprio bisogno di una doccia e di una bella dormita, per questo
andò subito dritta a casa. Non aveva ancora mangiato e
probabilmente non c’era nulla nel frigorifero, ma non le
importava davvero: voleva soltanto chiudere gli occhi e lasciarsi
andare, dimenticare per un attimo la sua vita ed immaginarne una
migliore, senza doveri né preoccupazioni, senza ragazzi
criptici né tanto innamorati da ridursi a zerbini, senza
uomini feriti né in fuga dalla morte.
Parcheggiò il fuoristrada ed appena scesa notò un
uomo dai capelli biondi seduto sulle scale del suo palazzo, che davano
direttamente sul marciapiede. L’uomo alzò il capo
e i loro occhi si incrociarono: i suoi, azzurri, erano opachi e tristi.
Grace andò da lui e si mise seduta al suo fianco. Lionel la
guardò in viso per un po’ e poi
l’attirò a sé in un abbraccio che non
necessitava di parole. La ragazza ricambiò posando la
guancia sulla sua spalla.
«Mi dispiace tanto, ieri sera non avrei
dovuto…».
Lionel le posò una mano sulla testa, sussurrandole di stare
in silenzio, e così fece.
___________________________________
Buondì! :)
Questo capitolo è quasi tutto incentrato su Tom e Grace! Vi
piacciono più così oppure quando c'è
un po' d'azione? Io personalmente preferisco il secondo caso ;) Spero
che vi sia piaciuto comunque e che spendiate cinque minuti del vostro
tempo per scrivermi due righe in proposito!
Nel frattempo ringrazio ancora coloro che hanno recensito lo scorso
capitolo, chi legge e "fa numero" (letteralmente xD) e chi ha
messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi voglio tutti
bene! :D
Ah, in questo capitolo è stata citata una strada realmente
esistenta a Los Angeles e se passerete sulla mia pagina Facebook
(=> _Pulse_
EFP ) potrete vedere delle foto
che ho trovato su Internet e molto altro materiale riguardante questa
FF! ;)
A lunedì prossimo! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Buongiorno! Quest'oggi
preferisco che vi godiate pienamente il capitolo per vostro conto,
senza che io dica niente, per questo scrivo prima. Spero solo che vi
piaccia e che me lo facciate sapere in qualche modo! ;)
Ringrazio di cuore le persone che hanno commentato lo scorso capitolo,
quelle che hanno messo la FF tra le preferite/seguite/ricordate e chi
legge soltanto. Siete tutti importanti per me :)
Noi ci risentiamo nelle risposte alle recensioni e comunque
lunedì prossimo!
Buona lettura! Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________
Capitolo 8
«Se
quest’indagine è davvero così grande
non possiamo pensare di risolverla da soli, abbiamo bisogno
dell’aiuto della polizia, addirittura anche dei
federali».
Sia Lionel che Bryant sollevarono lo sguardo ed osservarono Grace, in
piedi di fianco alla libreria nel salotto del marine più
anziano.
«Vuoi coinvolgere l’NCIS, per caso?»,
domandò Bryant con una smorfia di disappunto.
Si era appena svegliato e si stava apprestando a bere una grande tazza
di caffè. Non aveva una bella cera, con i capelli
spettinati, la barba incolta e quelle occhiaie sotto gli occhi, ma
nessuno dei due gli aveva fatto domande, sapendo alla perfezione che
aveva problemi di insonnia, soprattutto dopo i mesi trascorsi a fuggire
e a nascondersi da loro.
«E anche l’FBI se necessario! Non ce la faremo mai
da soli e voi ora come ora avete bisogno di protezione».
«È ridicolo, Grace…».
La ragazza posò lo sguardo, acceso e colmo di inquietudine,
su Lionel, che continuò: «Non sappiamo nemmeno chi
siano quelli che hanno fatto fuori tuo padre, Carter e quella donna, se
siano le stesse persone… Per non parlare delle prove: non
abbiamo nulla in mano e siamo arrivati fino a qui solo grazie a delle
supposizioni che potrebbero essere sbagliate».
Grace aprì la bocca, ma non le venne in mente nulla da dire
e si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua. Poi strinse i pugni lungo i fianchi e
serrò la mascella.
«Sta di fatto che non possiamo andare avanti così,
non possiamo aspettare che quei pazzi piombino qui e vi
ammazzino».
Lionel scosse il capo. «Te l’ho già
detto come la penso, vero?».
«Sì», gli posò una mano sulla
spalla, «ma non abbandonerò questo caso, non ho
nulla da perdere».
Peccato che appena lo disse le venne in mente il viso di Tom, con tanto
di particolari come le fossette che gli si creavano
all’interno delle guance quando sorrideva e la ruga di
espressione che aveva in mezzo alle sopracciglia quando era confuso o
arrabbiato.
Scosse energicamente la testa per scacciarlo dai suoi pensieri, ma non
ci riuscì tanto bene, anche a causa del cellulare che le
vibrò improvvisamente nella tasca dei jeans. Era certa che
non si trattasse di Molly, l’aveva avvisata quella mattina
che non sarebbe stata appresso a quei due per un po’, ed
infatti non era lei, bensì Tom.
Abbiamo
bisogno di un bodyguard. Mentre ne cerchiamo uno, tu sei libera per
farci da scorta? Vogliamo fare un giro sulla spiaggia.
Tom è un cretino, pensò
subito, e anche Bill.
Continuava a leggere e rileggere quel messaggio, senza capacitarsi
della loro stupidità: avevano licenziato il loro bodyguard?
E volevano che lei gli facesse da scorta? E perché volevano
andare a fare un giro sulla spiaggia l’otto gennaio? Forse
l’unica domanda che doveva realmente porsi era:
perché aveva lasciato che quei due entrassero
così tanto nella sua quotidianità?
«Chi è?», chiese Lionel, estrapolandola
dai suoi pensieri.
«Un cretino», ribadì, anche a voce.
«Però devo andare da lui».
«Uhm, okay. Ci vediamo a cena?».
«Probabile».
Andò a prendere la sua giacca in salotto e se la
infilò, aggiungendo: «Se non confermo, non mi
aspettare».
«Sissignora», le sorrise.
«Ciao Grace, divertiti», le augurò
Bryant con un cenno della mano.
«Oh sì, certo», borbottò ed
uscì.
Arrivò a casa dei gemelli e li vide entrambi seduti sul
divano in salotto, ancora mezzi addormentati, anche loro che bevevano
grandi tazze di caffè.
Corrugò la fronte, confusa, e scese dal fuoristrada
guardandosi intorno con sguardo circospetto. Con una breve corsetta
raggiunse le porte vetrate che davano sul giardino sul retro e
bussò. Tom la vide e corrugò la fronte allo
stesso modo mentre andava ad aprirle.
«Che cosa c’è?», le
domandò, insospettito dal suo comportamento.
«Avete licenziato il vostro bodyguard?».
«Sì, ma… ma tu come fai a saperlo?
Ancora non…».
Grace sospirò e si portò una mano sulla fronte.
«Non volete andare a fare un giro sulla spiaggia,
vero?».
«No, perché?».
«Merda», disse stringendo i denti e voltando il
capo verso destra, saltellando sul posto. «Il tuo cellulare,
Tom».
«Helen, ma che ti prende?», sbottò
infastidito, ma lei scosse la testa e gli porse il palmo aperto della
mano.
«Ce l’ho di sopra il cellulare, non l’ho
nemmeno guardato stamattina! David è venuto qui, ci ha
svegliati all’alba e…».
«Non mi interessa, vallo a prendere, muoviti! Mi
serve!», strillò e lo spostò per poter
entrare nel grande salotto.
Il chitarrista sbattè la porta vetrata chiudendosela alle
spalle e si trascinò su per le scale, borbottando tra
sé, di umore nero.
Bill, intanto, che aveva assistito a tutta la scena, poggiò
sul tavolino di fronte al divano il suo caffè e chiese alla
ragazza: «Qualcosa non va?».
«Ancora non ne sono sicura», mormorò con
lo sguardo ancora puntato sulle scale che portavano al piano superiore.
Il cantante scrollò le spalle e riprese il telecomando in
mano, iniziando a fare zapping.
“Il miglior
sgrassatore sul mercato, provalo sub – Quello che rende
grande un piatto è il condimento, per questo
c’è – Ed ora passiamo alla cronaca.
Macabro ritrovamento quello di stamattina sulla spiaggia di –
Nell’episodio precedente…”
«Torna
indietro, Bill!», gridò Grace col respiro mozzato
e gli occhi sgranati.
«Dove, sul telegiornale?».
La ragazza si mise seduta sul bordo del divano più vicino e
si avvicinò più che poté allo schermo,
come se avesse voluto entrarci dentro. Ascoltò tutto senza
nemmeno respirare, né chiudere gli occhi.
“Infatti, qui
sulla spiaggia di Santa Monica questa mattina è stato
ritrovato il cadavere di una donna. Una ragazza stava facendo jogging
insieme al suo cane ed è stato proprio l’animale a
trovare il corpo. La ragazza ha subito chiamato il 911 e la polizia
scientifica è stata la prima ad arrivare sul posto. Come
vedete alle mie spalle, è ancora al lavoro sulla
scena…”
«Helen».
La ragazza si voltò di scatto verso le scale ed
incontrò gli occhi preoccupati di Tom.
«Non trovo più il mio cellulare».
Grace chiuse gli occhi lentamente e serrò la mascella,
respirando grevemente. Poi si alzò in piedi, estrasse dalla
tasca il suo cellulare e chiamò il numero di Tom.
Al terzo squillo sentì la voce grave e criptata di un uomo
dire: «Stanne fuori, sei ancora in tempo». Poi la
linea cadde.
Tremava da capo a piedi, ma compose subito il numero di Lionel.
«Abbiamo un problema», disse. «Uno bello
grosso».
***
Dylan
intercettò lo sguardo di Grace e sospirò
lievemente mentre tornava a concentrarsi su ciò che gli
stavano dicendo le due rockstar.
Non era la prima volta che lui, un semplice agente della polizia
stradale dell’Eastside, partecipava a casi appartenenti ad
altri dipartimenti grazie ad amici che lo presentavano come
“agente di collegamento”; tutto questo solo per
amor della ragazza.
Quel giorno si era precipitato proprio a Beverly Hills, a casa di Bill
e Tom Kaulitz, e maledicendosi continuava a pensare che non avrebbe
dovuto farlo.
Lui, le due già citate rockstar, Grace e Lionel erano tutti
seduti intorno al tavolino posto sotto il porticato nel giardino sul
retro. Paul e Andrew, i due agenti della omicidi che erano stati
spediti lì a fare un sopralluogo perché di troppo
sulla vicina spiaggia di Santa Monica, erano invece dentro casa che
cercavano qualche prova che accertasse l’avvenimento di un
furto e magari un collegamento con l’omicidio di quella
donna. Quest’ultimo
sì che sarebbe stato un colpaccio!
«Quindi, se ho capito bene», tirò le
somme Dylan, «l’unica cosa che è sparita
è il suo cellulare. Il quale è stato usato per
mandare un messaggio alla signorina», indicò
Grace, stando attento a non dire il suo nome né il suo
cognome vero. «Il messaggio diceva che loro avevano bisogno
di un nuovo bodyguard e che volevano andare a fare un giro in spiaggia,
giusto?».
«Sì», rispose
l’investigatrice, tirando fuori dalla borsa il pacchetto di
sigarette e l’accendino. Se ne accese una ed
aspirò la prima boccata. «Proprio
così».
«E secondo lei perché avrebbero dovuto fare una
cosa del genere?».
I suoi occhi scuri la penetrarono e lei, non potendo rivelare tutto
quanto davanti ai gemelli, scosse lievemente il capo. «Non ne
ho idea. Comunque puoi anche darmi del tu, Dylan».
Il viso dell’agente si stropicciò in una smorfia e
in quel momento Andrew uscì dalla casa, con Paul al seguito.
Il primo, un ragazzo giovane e piacente, coi capelli scuri e gli occhi
che potevano essere castani o verdi in base alla luce del sole,
posò una mano sulla spalla di Dylan e lo guardò
negli occhi con aria scettica. Poi posò lo sguardo sul
chitarrista.
«Ma lei è sicuro di non averlo lasciato da qualche
parte?», gli domandò. «Abbiamo
controllato dappertutto, ma non ci sono segni d’effrazione
né di una possibile presenza estranea, nulla di nulla.
Più tardi controlleremo i video delle telecamere,
ma…».
«Dubito che troverete qualcosa», lo prevenne Grace,
soffiando il fumo verso l’alto. «Se sono stati
così bravi da non lasciare nemmeno una traccia, non credo
che si siano lasciati fregare dalle telecamere. Erano preparati a
dovere».
Si chiese se avessero fatto qualche appostamento per studiare la pianta
della villa con la disposizione delle camere e soprattutto per capire
gli orari e gli spostamenti dei gemelli, proprio come aveva fatto lei
per mesi, e si rese penosamente conto che se così era stato,
lei non si era accorta di nulla.
«Esatto», annuì Andrew e diede una pacca
al braccio di Dylan. «Amico, sei sicuro che la tua bella ti
abbia detto tutto quello che sa? Mi sembra che abbia le idee chiare:
è già convinta che questo furto ci sia stato e
che non sia stata una sola persona – parlava al
plurale».
Grace si trovò sei paia di occhi addosso, in particolar modo
quelli spenti di Dylan, il quale disse a mezza voce: «No, non
ne sono sicuro».
Lionel guardò l’investigatrice e le fece un segno
d’assenso col capo, dandole una strizzatina al polso.
A quel punto Grace si rivolse direttamente a Dylan: «Ne
parliamo in privato?».
«Va bene», rispose scrollando le spalle.
«A patto che in privato significhi io e Andrew».
«Oh, come sei gentile», lo ringraziò il
diretto interessato con un sorrisetto divertito sulle labbra.
«Okay. Allora io mi porto Lionel», rispose a tono
Grace, stringendosi il collo fra le spalle.
I quattro si diressero verso l’interno della casa, ma Tom
fece tornare indietro di qualche passo la ragazza, richiamandola.
Grace incrociò le braccia al petto, segno che aveva altro
per la testa e ciò che avrebbe detto non le sarebbe
interessato più di tanto, a meno che non fosse essenziale
per le indagini.
«Che cazzo sta succedendo? Che cosa ci nascondi?»,
le domandò, alterato e preoccupato allo stesso tempo.
«È meglio che voi ne restiate fuori»,
rispose stizzita.
Si alzò dalla sedia bruscamente, il viso rosso dalla rabbia.
«Peccato che io abbia la sensazione di esserci dentro fino al
collo!», gridò.
La sua corazza si sgretolò in un istante. Grace gli
posò le mani sul petto e lo guardò negli occhi,
facendo del suo meglio per fargli capire che era solo per il loro bene
se si comportava in quel modo. Li aveva già coinvolti
troppo, tutte le persone che stavano dietro la serie di omicidi a cui
stava indagando li avevano presi di mira per farla spaventare e
rinunciare al caso, ma…
Improvvisamente la paura insita nell’angolo più
profondo della sua anima la fece vacillare: era disposta a mettere a
rischio l’incolumità di Bill e Tom, pur di non
lasciare il caso?
«Helen dì qualcosa, cazzo»,
soffiò Tom.
Nella sua espressione c’era ancora dell’ira, ma
gran parte di essa si era sciolta al tocco delle sue mani.
«Fidatevi di me», sussurrò tenendo gli
occhi bassi. «Fidati di me».
Levò le mani dal suo petto e sentì ancora sui
palmi il suo calore, come se le avesse appoggiate sopra una piastra
calda. Le strinse a pugno all’altezza dei fianchi, poi fece
un passo indietro ed entrò in casa.
Raggiunse i due agenti e l’ex-marine in cucina e appena
chiuse la porta alla sue spalle si sentì in trappola, in una
bolla carica di tensione. Lionel doveva avergli già spiegato
i loro progressi per quanto riguardava l’omicidio di Mitch
Schneider, suo padre. Gli occhi di Dylan glielo confermarono.
Non si era nemmeno seduta insieme a loro, quando esordì:
«Non posso permettere che Bill e Tom vengano usati come esche
per arrivare a me. Non sappiamo con certezza se le nostre supposizioni
sono esatte, ma l’istinto mi dice che è
così. E quello che è successo oggi potrebbe
esserne la prova: perché prendersi la briga di rubare il
cellulare di Tom e mandarmi un SMS, dandomi come indizio la spiaggia,
dove questa mattina è stato ritrovato un cadavere? Mi hanno
voluta avvisare che possono arrivare a loro con estrema
facilità e che sono informati – sapevano che in
questo momento non hanno un bodyguard. Magari li hanno tenuti e li
tengono sott’occhio anche adesso. E il riferimento alla
spiaggia… beh, è semplice da capire. Inoltre
c’è una cosa che non vi ho ancora
detto».
«Che cosa?», domandò Andrew.
Solo allora Grace si mise seduta al tavolo e si sporse verso di loro
per parlare più a bassa voce.
«Ho chiamato il numero del cellulare di Tom, appena ho capito
che le cose non tornavano, e mi ha risposto la voce di un uomo; era
criptata, forse non era così grave, ma era sicuramente di un
uomo. Mi ha detto: “Stanne fuori, sei ancora in
tempo”». Sospirò e si portò
le mani ai lati del viso.
«Ora si spiegano molte cose», disse Andrew.
«E che cosa dovremmo fare ora, esattamente?».
«Tu che cosa faresti?», gli chiese.
Andrew scosse il capo, desolato.
«Ecco, appunto».
Un lieve bussare alla porta li fece voltare tutti di scatto. Bill,
pallido come un cencio e tremante, incrociò gli occhi di
Grace.
«I nostri cani…», mormorò,
così lievemente che stentò a decifrare le sue
parole.
Ma quando capì quello che poteva essere successo fu come
ricevere un pugno al cervello.
La detective saltò giù dallo sgabello e
seguì Bill al piano superiore, in una stanza che non aveva
mai esplorato e di cui rimase sorpresa, ma nemmeno troppo: i loro cani
avevano una cameretta tutta per loro, come se fossero stati dei bambini
veri e propri, con cuscini, giochi di ogni tipo e…
«Ehi, cucciolo, svegliati… per
favore…».
Nell’udire la voce di Tom e un debole guaito, Grace si
riprese ed abbassando gli occhi lo trovò inginocchiato
accanto al suo cane preferito, quello che quando la vedeva la salutava
sempre scodinzolando felice. Si portò subito al suo fianco e
gli aprì le palpebre per vedere come le pupille reagivano
alla luce del sole che entrava attraverso la finestra: si sforzava di
chiudere gli occhi, quindi il cane era vigile, anche se un
po’ intontito e quasi paralizzato sul posto.
«Credi li abbiano sedati?», domandò
Dylan, avvicinandosi ad un altro cane per posargli una mano sul ventre
che si abbassava e si alzava lentamente, forse fin troppo.
«Pensavo dormissero…», disse Paul,
spaventato, perché lui aveva controllato quella stanza e non
aveva notato nulla di strano.
Grace fece finta di non averlo sentito e diede una rapida occhiata alla
stanza. Nulla di anomalo, se non avesse notato in controluce dei
residui calcarei sul pavimento, che andavano dalla ciotola
d’acqua posta in un angolo al cuscino su cui si era sdraiato
il cane che stava “visitando”.
«Gli hanno drogato l’acqua»,
esclamò, indicando la ciotola e accarezzando con un dito il
pavimento: se fosse stata solo acqua sarebbe evaporata e non avrebbe
lasciato tracce sul pavimento.
«Avrei dovuto cambiargliela stamattina», disse Tom,
con gli occhi lucidi.
La ragazza gli posò una mano sulla spalla, stringendogliela
un poco in segno di conforto.
«Meglio se li portate subito dal veterinario».
Grace aiutò Bill e
Tom a caricare in auto i cani, ancora semi-incoscienti, poi li
guardò andare via in fretta, appoggiata al cofano del suo
fuoristrada con le braccia strette al petto e la fronte corrugata, in
pensiero.
Qualche minuto dopo, sentì dei passi alle sue spalle e con
la coda dell’occhio vide Dylan affiancarla.
Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma non voleva parlare con lui
di Bill e Tom, non in quel momento. Il poliziotto però la
sorprese, perché introdusse l’argomento in modo
indiretto.
«Non avresti dovuto chiamare quel numero da sola. Avremmo
potuto intercettare la chiamata, capire dove…».
Grace lo interruppe: «Non ci ho nemmeno pensato. E poi non ci
saremmo riusciti, ha detto solo quelle parole e poi ha spento, mi
dispiace. Potremmo provare ad intercettare comunque la microspia
inserita in quel cellulare».
Dylan sollevò gli occhi su di lei. «Hai messo una
microspia nel cellulare di Tom Kaulitz?».
«Se è per questo, avevo messo delle microspie
anche in casa loro, ma guarda caso le ho tolte pochi giorni
fa».
Si accese l’ennesima sigaretta e si chiuse nel suo silenzio,
colmo di riflessioni e di insicurezze.
«Assurdo che ti paghino per tenere d’occhio quei
due».
«Assurdo o meno, è ciò di cui vivo in
questo momento».
«Ma se li hanno presi di mira vuol dire che
c’è di più»,
osservò Dylan. «In che rapporti sei con
loro?».
L’investigatrice scrollò le spalle, nervosamente.
«Siamo diventati amici, Dio solo sa come, e un po’
di tempo fa al mercato di Olvera Street
mi sono esposta troppo».
Lui si appoggiò meglio al cofano del fuoristrada ed
inarcò le sopracciglia, incrociando le braccia al petto.
«In che senso?».
«Nel senso che Bill ha avuto la fantastica idea di andarsene
in giro con un bodyguard incapace e io e Tom siamo andati a
recuperarlo. E già lì, camminando fianco a fianco
con lui… non sembrava che lo stessi pedinando, sai?
Sembravamo, piuttosto…».
«Una coppia», terminò la frase per lei e
Grace poté percepire nel suo tono di voce una lieve
tensione: era geloso.
Ci passò sopra e continuò: «Poi Bill
è stato quasi borseggiato. Quasi
perché ovviamente io sono intervenuta».
«Ed è possibile che… insomma, che
quelli che dovrebbero esserci dietro tutto questo vi abbiano visti ed
abbiano pensato che tu avresti ceduto, se fosse stata messa a rischio
la loro incolumità?».
«Sì, è possibile».
Gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò con la
punta della scarpa.
«Dobbiamo prenderli, Dylan».
«Chi? Sono dei fantasmi, Grace. Non abbiamo nulla, oltre alle
supposizioni e al tuo istinto».
Abbassò il capo e si spostò verso la portiera
della sua volante, parcheggiata davanti al fuoristrada.
«Un mio amico della scientifica mi deve un favore, gli
chiederò di passare appena avrà un
minuto».
La ragazza lo guardò entrare nella sua auto, poi si
chinò all’altezza del finestrino. «E se
non trovasse niente?».
«Abbandonerai questo caso, per il bene di tutti».
«Sai che non lo farò».
«Allora pregherò per i tuoi amici».
Dylan diede gas, Grace fu costretta a spostarsi e guardò
andare via anche lui.
***
L’arrivo
della sera aveva portato con sé un vento freddo proveniente
da nord e la pioggia, che impregnava la terra e ne sollevava il
profumo.
«Ho bisogno di sapere il più possibile della donna
trovata morta sulla spiaggia di Santa Monica. Ha qualche collegamento
con il caso che seguiva mio padre? Anche lei sapeva? O era
semplicemente una donna nel posto sbagliato al momento sbagliato che
hanno fatto fuori per mostrarmi la loro bravura?».
«Vedrò quello che posso fare. Dylan lo sa che me
lo stai chiedendo?».
«Andrew, non ti ci mettere anche tu», lo
supplicò, sospirando.
«Lo conosco da una vita e ti posso assicurare che se non ti
appoggia in quest’indagine è perché
pensa sia troppo pericoloso, anche per l’intrepida Grace
Schneider».
«Non voglio che lui mi appoggi a tutti i costi, infatti.
È una sua libera scelta».
Sollevò il viso verso il cielo e non vide altro che pioggia
e nuvole scure che impedivano alla luna e alle stelle di brillare.
«È innamorato di te».
Grace chiuse lentamente gli occhi. «Lo so».
«Tu no, vero?».
«Andrew, basta».
«Sissignora», si schiarì la voce.
«Ah, abbiamo provato a seguire la microspia che tu hai detto
di aver inserito nel cellulare di Tom, ma…».
«Se ne sono disfatti. Come immaginavo».
«Abbiamo provato anche a chiamare quel numero, ma il
cellulare è risultato spento».
«Okay. Se ci sono novità non aspettare a
chiamarmi, mi raccomando».
«Va bene».
«Grazie, Andrew».
«Prego. Però secondo me dovresti parlarne con
Dylan, sai?».
«Buonanotte», disse e concluse la chiamata.
Guardò di fronte a sé cercando di scorgere nel
buio la soluzione a tutti i suoi rompicapi, come se avesse davanti la
chiave del caso ma non la riuscisse a vedere.
C’erano troppi pezzi del puzzle che mancavano, tra cui che
cosa c’entrasse il mancato attentato a Baghdad.
Era certa che suo padre fosse arrivato vicino alla conclusione, ma non
aveva potuto, o forse voluto, che qualcuno vi giungesse come lui e
rischiasse la vita. Si era sacrificato, aveva preferito portarsi le sue
scoperte nella tomba, pur di proteggere chiunque avesse preso parte a
quelle indagini. Ed era questo a confondere ancora di più
Grace, perché suo padre non avrebbe mai fatto una cosa del
genere: si sarebbe sacrificato comunque e avrebbe fatto in modo di
limitare i danni, ma avrebbe lasciato a qualcuno il compito di
proseguire da dove aveva lasciato. Ma… come?
Si rannicchiò a terra, con le tempie fra le dita, e chiuse
gli occhi per concentrarsi meglio. Suo padre era troppo furbo, troppo
intelligente e cauto per lasciarsi prendere di sorpresa ed essere
ammazzato – professionisti o meno – senza aver
lasciato una traccia, una pista da seguire.
All’improvviso ebbe come la sensazione di vedere la risposta
alla domanda di fronte agli occhi, ma non
l’afferrò per un soffio a causa di una voce che si
intrufolò nei suoi pensieri, distraendola.
Voltò il viso verso le porte vetrate e vide Tom a pochi
passi da lei, che la guardava leggermente preoccupato.
«Che stai facendo, lì rannicchiata?», le
chiese.
«Pensavo. E tu mi hai interrotta»,
borbottò e si lasciò andare un sospiro frustrato
perché ovviamente il lampo di genio che le aveva
attraversato la mente era scomparso, irrecuperabile. «Grazie
tante».
«Non volevo, davvero».
Le porse una mano, lei l’afferrò e la forza con
cui Tom la tirò su fu tanta che Grace traballò e
cadde col viso ad un centimetro dal suo. Si guardarono negli occhi per
qualche secondo, in un silenzio carico di imbarazzo, poi il chitarrista
sogghignò.
«L’hai fatto apposta».
«No, non è vero!».
«Oh sì, invece. Ammettilo, dai, che ti
costa!».
«Ma non è vero! Sei tu che sei un
montato!».
Si scostarono l’uno dall’altra, lei gli
posò le mani sul petto come a volerlo allontanare da
sé, ma la forza che impiegò fu minima
perché si misero a ridere, nonostante tutto quello che era
successo quel giorno – tra cui il rischio, fortunatamente
scampato, che avevano corso i cani dei gemelli, a cui era stata
somministrata una forte dose di Ketamina, mischiata all’acqua
della loro ciotola.
«Eri venuto a chiedermi qualcosa?», gli
domandò poco dopo, quando smisero. Sulle loro labbra,
però, aleggiava comunque un sorriso sereno che non vedevano
da tempo sul viso dell’altro e che per un po’ li
fece stare bene.
Tom si passò una mano dietro il collo. «In effetti
sì. Volevo chiederti se restavi qui, stanotte. Insomma,
né io né Bill ci sentiamo molto tranquilli a
stare da soli, visto che sono riusciti a rubarmi il cellulare senza
lasciare nemmeno una traccia… Ci sentiremmo più
al sicuro se tu…».
«E in che modo potrei proteggervi, io?», gli
domandò. «Non ero una stalker?».
«Una stalker…
Sicura di non essere piuttosto un’agente sotto copertura
dell’FBI o della CIA?».
Lei rise ancora, tenendosi la pancia, e Tom ne fu irrimediabilmente
contagiato.
«Comunque non so, tu ci faresti sentire al sicuro in ogni
caso», concluse, cercando invano il suo sguardo.
Grace parve rifletterci un po’ su, con lo sguardo perso di
fronte a sé. Poi si voltò verso di lui, in
attesa, ed accennò un sorriso.
«Va bene. Vado a prendere una cosa che ho lasciato nel
fuoristrada. Tu inizia a rientrare, arrivo subito».
Tom annuì, rincuorato, e tornò in salotto. Grace
trasse un respiro profondo, poi corse sotto la pioggia ed
aprì il suo fuoristrada. Si mise seduta sul sedile del
passeggero, aprì il vano portaoggetti e nel doppio fondo
vide la sua Glock. La prese fra le mani e si assicurò che la
sicura fosse inserita, socchiuse gli occhi deglutendo e se la
infilò nella cintura, sotto la maglietta. Sentì
il metallo freddo premerle contro la pelle nuda della schiena, come se
quello fosse un prolungamento della sua spina dorsale, e
rabbrividì.
Infine scese dal fuoristrada e corse di nuovo verso il portico, dove
poteva proteggersi dalla pioggia.
Il buio della casa era quasi
inquietante. Odiava dormire in luoghi che non conosceva bene, anzi a
dire il vero odiava dormire al di fuori di casa sua o del suo
fuoristrada. E il temporale fuori dalla finestra non la rassicurava per
niente. Perché aveva deciso di rimanere lì,
quella notte?
Un lampo illuminò gran parte della zona living sul soppalco,
dove l’avevano sistemata sul divano letto che si apriva
proprio lì in mezzo. Il tuono seguente la fece sobbalzare e
la rete cigolò un poco al suo movimento improvviso.
Chiuse gli occhi, traendo respiri profondi per rilassarsi, quando un
altro rumore improvviso, un tonfo, la fece rizzare seduta sul
materasso, con le dita già strette intorno al calcio della
sua pistola.
Allungò il collo per vedere oltre la ringhiera che dava sul
salotto sottostante, poi si sporse per vedere le porte delle camere da
letto che davano sul corridoio.
Vide una porta schiudersi lentamente e deglutì il nodo che
le bloccava la gola. Aveva i palmi sudati, sentiva
l’impugnatura della sua Glock scivolarle via.
«Tom, sei tu?», domandò a bassa voce
rivolta verso il corridoio.
Una testa sbucò fuori dalla porta socchiusa e lei trattenne
il respiro fino a quando un lampo non ne illuminò il
profilo. Sì, era lui.
«Dio, che spavento», sospirò sollevata,
ma il cuore continuò a batterle nella cassa toracica a
velocità sostenuta.
Nascose nuovamente la pistola nello spazio tra la testata del divano e
il materasso ed aspettò che Tom la raggiungesse. Rimasero
per un minuto buono a fissarsi, senza sapere bene che dire, poi Grace
lo invitò ad accomodarsi al suo fianco con un cenno leggero
del capo.
Il chitarrista fece il giro del divano letto, salì con un
ginocchio sul bordo e la rete sotto di esso cigolò di nuovo.
Corrugò la fronte e posò anche le mani sul
materasso, poi spinse facendo dei piccoli saltelli. Il cigolio
persistette e Grace distolse lo sguardo, imbarazzata da quel rumore.
«Piantala, Tom», gli disse.
«Stavo solo…». L’occhiata che
ricevette fu in grado di interromperlo e finì di sistemarsi
sdraiato al suo fianco, con le spalle contro la testata e le mani unite
sul petto.
«Non riesci a dormire?», gli domandò la
ragazza, dopo qualche altro minuto di silenzio.
Lui scosse il capo, socchiudendo gli occhi. «Pensare che
delle persone siano riuscite ad entrare in casa mia come se nulla
fosse…».
«Non ti faranno niente», lo rassicurò e
si mise anche lei nella sua identica posizione, vicina al suo corpo
caldo. Il suo profumo lentamente la invase.
«Ce ne siamo andati dalla Germania proprio per evitare che
accadessero cose simili, ma non è cambiato
niente», sbuffò. «Non vedo
l’ora di andarmene da qui».
«Accadrà presto?».
«L’album è finito, lo stanno
già stampando. La settimana prossima iniziamo a girare il
video del nostro primo singolo, poi ci sarà tutto il lavoro
di promozione… e poi il tour, ovviamente. Forse è
la volta buona che ne facciamo uno mondiale. Non vedrò
questa casa per molto, molto tempo e non vedo
l’ora».
Fu un duro colpo per Grace. In quelle ultime settimane si era
completamente dimenticata di quale fosse il suo vero lavoro con loro e
questo non prevedeva nulla di tutto ciò che avevano fatto,
come non prevedeva che diventasse un’amica dei gemelli.
Venire a conoscenza in quel modo di tutti quei cambiamenti…
beh, la fece sentire piuttosto impreparata e malinconica. Era
maledettamente certa che le sarebbero mancati, tutti e due.
L’ennesimo cigolio la fece voltare verso Tom e vide che si
era girato sul fianco, verso di lei, e si era sollevato puntando un
gomito sul materasso. La guardava con occhi curiosi, nei quali
però c’era la stessa malinconia che aveva
ombreggiato quelli della ragazza.
«Non dici niente?», le chiese e la sua voce si era
abbassata di qualche ottava, divenendo roca e sensuale.
Lei distolse lo sguardo e con voce atona disse: «Vuoi che vi
innaffi il giardino, quando sarete via?».
Non lo vide nemmeno, si trovò soltanto con le labbra
intrappolate nelle sue, che avide le baciavano, le mordevano e le
torturavano con insignificanti sfioramenti mentre le sue mani
viaggiavano sotto la sua maglietta e gliela sfilavano senza alcuna
difficoltà.
Grace non si chiese cosa stessero facendo, lo attirò a
sé bruscamente e ricambiò il bacio, infilandogli
la lingua tra le labbra. Lui ansimò ed immerse le dita fra i
suoi capelli, ai quali tolse l’elastico per accarezzarli.
Allo stesso tempo la ragazza gli levò la maglia e
tastò con le mani le sue spalle, la sua schiena longilinea,
gli graffiò i fianchi e tornò ad accarezzargli
gli addominali e i pettorali appena pronunciati.
Tom fece scontrare ed aderire perfettamente i loro bacini e anche quel
briciolo di razionalità che si era preservata nelle loro
menti andò a farsi fottere.
Caddero esausti
l’uno affianco all’altra, col fiatone ed ogni
muscolo ancora in contrazione, accompagnati dal solito cigolio.
Entrambi guardarono il soffitto, increduli e distrutti, ma pienamente
soddisfatti.
«Cristo», soffiò Grace.
«Che hai detto?», domandò Tom, con gli
occhi piccoli come se sforzando la vista
nell’oscurità potesse sentire meglio.
«Niente», rispose frettolosamente la ragazza,
dandogli le spalle e rannicchiandosi sul bordo del letto.
Tom fece lo stesso, scrollando le spalle, ma nessuno dei due si
addormentò presto: a Grace ci volle una buona
mezz’ora, Tom non ci riuscì proprio e
guardò fisso davanti a sé senza capacitarsi di
come potesse essere successo. Era stato come… una reazione
chimica: erano finalmente esplosi e insieme avevano fatto fuoco e
fiamme. Allora era proprio vero che gli opposti si attraggono.
Qualche ora dopo, quando iniziò anche lui ad assopirsi,
cullato dallo scrosciare della pioggia insistente, si voltò
ad osservare la schiena nuda di Helen sollevarsi ed abbassarsi in
sincronia col suo respiro lento. Si sporse verso di lei e la
guardò in viso scostando delicatamente qualche ciocca di
capelli neri che le cascavano sugli occhi. Le accarezzò la
schiena con la punta delle dita, facendola rabbrividire, ed
osservò le sue palpebre alzarsi appena.
La guardò quasi incantato, Grace si girò
lentamente verso di lui e ricambiò lo sguardo, ancora un
po’ intontita, ma capì immediatamente quello che
gli stava passando per la testa e gli accarezzò il collo
come a volergli dare la sua approvazione. Allora Tom si
chinò sul suo viso e le sfiorò le labbra con le
proprie, la baciò con un’intensità
sempre crescente, ma senza mai perdere la dolcezza iniziale.
Accompagnò Helen a salirgli sopra e lei si lasciò
coccolare ancora un po’, riservandogli lo stesso insolito
trattamento.
Fecero un’altra volta l’amore, ma fu molto diverso
dalla prima, nella quale avevano agito d’istinto e si erano
saltati addosso quasi come animali, con una brutalità che
non si sarebbero mai immaginati derivasse dalla potenza della loro
attrazione.
Quella seconda volta fu completamente diversa perché
entrambi lasciarono da parte gli istinti e seguirono il cuore. Strano a
dirsi, ma… ci fu una strana dolcezza, si completarono
l’un l’altra.
Quella seconda volta fecero proprio l’amore, non scoparono e
basta. Sia Tom che Grace se ne accorsero, ma non si dissero nulla,
forse intontiti dal sonno o forse consapevoli che era ancora troppo
presto per ammettere all’altro che c’era qualcosa
di più della semplice attrazione fisica.
Quando Tom venne, venne anche lei; e fu piuttosto particolare,
perché quando Tom venne dentro di lei, quella volta, Grace
sorrise, come se il calore che si era sprigionato dentro di lei le
fosse arrivato fino al cuore, sciogliendole i lineamenti delicati del
viso, facendolo brillare di vita.
Quel sorriso non abbandonò le sue labbra, rimase
lì ancora per un po’, anche se nascosto, e quando
Tom se ne accorse era ancora steso su di lei, col viso ad un palmo dal
suo, fiato contro fiato. Avvicinò una mano alle sue labbra,
ancora con quello sguardo un po’ perso, e percorse con le
dita quella linea che si sollevava in modo quasi impercettibile agli
angoli.
«Quelle bambine erano così invidiose di te che se
avessero potuto non avrebbero provato a cancellarti solo le efelidi.
Sei bellissima», sussurrò senza nemmeno rendersene
conto.
Grace si lasciò andare ad una lieve risata espirando forte
col naso. Poi gli diede un’altra carezza sul collo e sempre
ad occhi chiusi mormorò: «Anche tu lo sei, Tom.
Anche tu».
Tante ragazze gli avevano detto che era bello – milioni di
ragazze in tutto il mondo, ma come l’aveva detto
Helen… ah, era tutta un’altra storia. Non potevano
esserci paragoni, perché Helen era unica nel suo genere, in
peggio e in meglio.
Quando la mattina dopo Tom si
svegliò, allungò il braccio e si accorse che la
parte di letto non occupata da lui era vuota.
Aprì gli occhi, nonostante la luce del sole che era tornato
a splendere dopo quell’intenso temporale, e non vide Helen.
Si arrabbiò, e molto. Non sapeva esattamente
perché, ma gli diede parecchio sui nervi svegliarsi solo.
Forse a causa della nottata così particolare che avevano
vissuto? Non se lo chiese nemmeno, accecato dall’ira.
La notte l’amava, la mattina dopo la odiava con tutte le sue
forze.
Si scostò le coperte di dosso, sbuffando pesantemente, e
fece il giro del letto per andare in bagno. Quando ebbe la visuale del
pavimento sotto la parte di letto occupata da Helen, però,
si bloccò come gli si arrestò il cuore nella
cassa toracica: lei era lì, stesa sul pavimento, con lo
stesso lieve sorriso della notte precedente disegnato sulle labbra, che
ancora dormiva con le braccia a farle da cuscino, con solo un
po’ di lenzuolo arrotolato intorno alla vita a coprirla.
Bastò il tempo di uno sguardo perché tutta la
rabbia gli scivolasse addosso e uno strano calore si diffondesse dentro
di lui partendo proprio dal centro del suo petto.
Non seppe nemmeno perché, ma gli venne naturale stendersi
sul pavimento accanto a lei, con una mano sotto la guancia e
l’altra ad accarezzarle il viso e i capelli perché
si svegliasse dolcemente.
Questo accadde qualche minuto dopo e Tom si meravigliò come
un bambino quando vide le sue palpebre tremare e poi sollevarsi,
mostrando al mondo quei due specchi verdi di cui avrebbe dovuto andare
soltanto fiera.
«Ciao», sussurrò.
«Ciao», ricambiò Helen, stiracchiandosi.
«Che ci fai per terra?», gli domandò,
corrugando la fronte.
Tom sogghignò. «Volevo farti la stessa
domanda».
«Beh, tu quando dormi ti muovi troppo per i miei
gusti».
Il ragazzo le spostò ancora un ciuffo dal viso e Grace
rimase affascinata dalla delicatezza con la quale aveva compiuto quel
gesto e dal suo sorriso, ma non glielo fece notare.
«La prossima volta sdraiati sopra di me», le disse.
«Sdraiarmi… sopra di te?»,
ripeté, non capendo.
Tom accennò un sorriso imbarazzato ed abbassò gli
occhi. «Quando io e Bill eravamo piccoli e facevamo qualche
incubo ci mettevamo a dormire nello stesso letto e capitava che io mi
muovessi molto. Così una volta Bill si è steso
completamente sopra di me, per farmi stare fermo, e ci è
riuscito… forse avevo capito che c’era lui e per
non fargli del male mi impegnavo inconsciamente a non agitarmi. Io non
so se funzioni ancora, però… tentar non nuoce,
no?». Riabbassò gli occhi su di lei e le
scoccò un altro sorriso. «Soprattutto per la tua
schiena, non penso sia comodo dormire per terra».
Grace ricambiò il sorriso, ma glielo nascose puntando il
mento sul proprio sterno.
«Beh, io… vado a farmi una doccia, okay? Sperando
che Bill non ti trovi ancora in questo stato, quando si
sveglierà». E le rivolse un’occhiata
eloquente.
«Oh. Sì, certo», annuì Grace,
imbarazzata.
Tom si alzò dal pavimento e coi soli boxer addosso
– gli altri vestiti li aveva raccolti e se li era messi sotto
braccio – si avviò verso la sua stanza, in fondo
al corridoio.
La ragazza si stese a pancia in su sul pavimento per poter guardare il
soffitto e pensare, soffermandosi in particolar modo sul momento in cui
Tom aveva pronunciato le parole: «La
prossima volta sdraiati sopra di me».
Aveva detto «La
prossima volta». Tom
pensava che ci sarebbe stata una prossima volta. E Grace ancora non
sapeva minimamente se fosse un bene o un male.
Non si era ancora guardata allo specchio, non poteva sapere che il
leggerissimo sorriso che aveva preso dimora fissa sulle sue labbra le
dava già la risposta che cercava.
«La
prossima volta».
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo
9
“And I just keep on trying,
but I don't know what for,
'cause trying not to love you…
only makes me love you more”
(Trying not to love you - Nickelback)
Entrò in
casa e sentì subito dei rumori provenienti dal salotto. Si
portò velocemente una mano dietro la schiena,
sull’impugnatura della sua pistola, ed era pronta ad estrarla
quando vide Dylan sbucare fuori dal suo salotto, con i capelli
spettinati e un aspetto pessimo in generale.
Lui sobbalzò e sollevò le mani verso
l’alto, gettando un’occhiata alla posizione del suo
braccio.
«Sono solo io».
«Per fortuna», borbottò Grace.
«Che ci fai qui?».
Lo scansò ed entrò in salotto: vide una coperta
sul divano e dedusse che doveva essersi accampato lì per la
notte.
«Ti hanno sfrattato, per caso?».
«No», rispose con tono fin troppo composto. Anche
la sua espressione era cambiata, ora che lei non aveva più
la mano sulla sua Glock: era dura, quasi contratta dall’ira.
«Tu, piuttosto, dove sei stata?».
L’investigatrice si voltò di scatto e si
trovò pochi centimetri dal suo corpo, ma non distolse mai lo
sguardo dai suoi occhi.
«Hai qualche supposizione, tu?».
«Ovviamente. Dai Kaulitz».
Grace fece un ampio sorriso e gli diede una pacca sulla spalla.
«Sei un bravo poliziotto».
Stava per dirigersi verso la cucina, quando si sentì
strattonare. Abbassò gli occhi sul suo polso e vide le dita
di Dylan tenerlo stretto con forza; poi li fece scorrere lentamente sul
suo braccio, fino ad arrivare di nuovo al suo viso.
«Solo amici, eh?», le disse in tono sarcastico, con
un sorriso storto sulle labbra.
«Vaffanculo, Dylan».
«Lo sapevo».
Le mollò il polso con un gesto brusco e voltò il
viso, passandosi le dita di una mano sulle guance su cui era cresciuta
un po’ di barba nera.
«Tu e Tom… Non si può stare in mezzo a
voi senza prendere la scossa. È come esporsi alle
radiazioni…».
«Che cosa stai tentando di dire?»,
sbottò Grace, portandosi i pugni sui fianchi.
«Che si sente l’attrazione fisica che
c’è tra voi, è… è
fortissima! Se ne accorgerebbe chiunque! E poi basta
guardarti…», le prese il mento fra le dita,
guardandola con l’espressione di un cane bastonato.
«Hai quella luce negli occhi, stamattina… Non la
vedevo da tanto tempo».
Grace si scostò e fece un passo indietro, allontanandosi da
lui. Il suo volto era di pietra, i suoi occhi freddi come il ghiaccio,
come la sua voce.
«Smettila di sparare cazzate. E vattene, per
piacere».
Un lampo di tristezza attraversò gli occhi del ragazzo, che
allungò una mano verso di lei.
«Grace…».
L’investigatrice gli diede le spalle ed andò a
prepararsi un caffè. «E non entrare mai
più così in casa mia».
«Me l’hai data tu la chiave».
«Lasciala sulla mensola in corridoio».
Dylan abbassò lo sguardo, ferito, ed annuì
debolmente. «Non volevo che finisse
così…».
«Non è finita», sospirò,
chiudendo gli occhi. «Ne riparleremo, ma non ora. Te lo
prometto».
Dylan fece un altro silenzioso cenno d’assenso e
rientrò nel salotto. Prese la giacca beige con lo stemma
della polizia stradale dell’Eastside di LA, se la
infilò e lasciò la chiave
dell’appartamento sulla mensola che gli aveva indicato Grace.
Poi uscì di casa, gettandole un ultimo non ricambiato
sguardo.
Quando la ragazza rimase sola nel suo appartamento, si
lasciò andare ad un sospiro tremante e strinse gli occhi.
Sentì la porta riaprirsi e sobbalzò. Dylan era di
nuovo di fronte alla porta della cucina.
«Che c’è?», gli
domandò, affranta e sorpresa.
«Ha chiamato tua madre, questa mattina presto. Ha lasciato un
messaggio sulla segreteria».
«E che diceva?».
«Che le farebbe piacere vederti».
Il fiato le mancò. «Quando?».
«Domani pomeriggio».
Annuì leggermente. Dylan accennò un sorriso e la
salutò. Lei non rispose.
***
Suo fratello non si
accorse subito della sua presenza, a dir la verità non si
sarebbe accorto di lui nemmeno se gli avesse tirato uno dei suoi anfibi
più pesanti sulla testa, concentrato com’era sui
suoi famosi waffles. In più, canticchiava. Tom non
canticchiava mai,
eccetto in rarissimi casi… e Bill sapeva con assoluta
certezza che quella notte fosse successo qualcosa
in grado di far avvenire il rarissimo caso.
«Buongiorno!», esclamò e fece finta di
entrare in cucina con il passo di uno che si era appena svegliato,
proprio come se non fosse stato una buona decina di minuti appoggiato
allo stipite della porta ad osservarlo mentre si muoveva di fronte alla
piastra per i waffles, con il mestolo sporco in mano.
Tom sollevò il capo e Bill si bloccò del tutto
quando vide sul suo viso un sorriso così bello da togliere
il respiro.
Erano… anni? Forse non l’aveva mai visto un
sorriso del genere sulle labbra di suo fratello gemello. E anche
l’aura di pura positività che emanava solo stando
in piedi in quella stanza era impressionante: sembrava che nulla
potesse andare storto, che tutto fosse rose e fiori.
«Ciao Bill», lo salutò con gli occhi
luminosi. «Li vuoi i waffles, vero? Li ho fatti anche per
te».
Bill, incapace di rispondere, annuì con un movimento della
testa; poi andò a sedersi, proprio di fronte a dove stava
lui, che aspettava che anche l’ultimo waffle che aveva messo
nella piastra fosse pronto.
«Perché mi fissi?», gli
domandò Tom ad un certo punto, incuriosito.
In un frangente normale lo avrebbe fatto senza l’ombra di un
sorriso, ma quella mattina… sembrava che il suo corpo non
riuscisse a trattenere dentro di sé la felicità,
tanto che sembrava sul punto di scoppiare a ridere in ogni momento.
«Dobbiamo cambiare quel divano letto nella zona living.
Scusami se per te ha un valore affettivo fondamentale ora, ma davvero,
fa troppi cigolii. Non vi siete sentiti a disagio, tu e
Helen?».
Tom lo guardò per diversi istanti in silenzio, ma il suo
sorriso non si scompose nemmeno di un millimetro, sembrava disegnato.
Alla fine scoppiò a ridere.
***
L’ultima
volta che si era innamorata non era andata a finire bene. Grace e il
suo ragazzo di allora erano quasi stati fatti fuori da un uomo a cui
suo padre dava la caccia da tempo e dopo quell’episodio
ovviamente lui l’aveva scaricata, dicendole che non voleva
rischiare ancora una volta la vita perché suo padre era un
investigatore privato fin troppo bravo.
Era appena una ragazzina e si arrabbiò parecchio con suo
padre, pensava davvero che fosse stata colpa sua se la sua prima storia
d’amore fosse finita. Con il tempo aveva capito che non
c’entrava nulla e che in realtà quella era stata
solo l’occasione adatta per scaricarla, visto che subito dopo
si era fidanzato con una cheerleader.
Dopo quell’episodio si era innamorata a stento un paio di
volte, faticava a fidarsi di nuovo dei ragazzi e soprattutto il mondo
di suo padre l’aveva così coinvolta, quasi
risucchiata, che aveva iniziato a pensare come un vero detective: tutte
le persone che avevano un legame affettivo con lei potevano correre
qualsiasi tipo di pericolo, ogni giorno. Lo sapeva bene.
Crescendo aveva capito che in fondo per lei l’amore non era
poi così importante e si era allontanata da quel mondo,
immergendosene in un altro, quello delle indagini, della polizia, degli
spacciatori, dei magnacci, della mafia, a volte persino dei cadaveri.
In quel mondo aveva incontrato molti ragazzi con cui aveva passato
delle belle serate, ma ormai il concetto dell’amore era
troppo nascosto nella sua mente. Dopo anni ed anni era stato Dylan a
rispolverarglielo e, come aveva sempre immaginato, non era stato il
massimo: era un problema, soprattutto ora che lei e Tom…
Cavolo, Tom! Era lui in realtà l’artefice di
tutto, non Dylan. Da quando aveva iniziato a pedinarlo e a diventare
sua amica era entrato dentro di lei come una scheggia e da allora non
aveva fatto altro che incasinarle l’esistenza. E poi, quella
notte… Se ci ripensava aveva ancora i brividi e riusciva a
sentire ancora tutto sulla pelle, nonostante avesse fatto la doccia: le
sue labbra, il suo respiro, il suo sudore, il suo profumo.
Era stato davvero stupendo quella notte, doveva riconoscerlo; sia la
prima che la seconda volta, anche se in modi completamente diversi. La
seconda… tutta quella dolcezza, non se la sarebbe mai
immaginata da Tom. Come non se la sarebbe mai immaginata da se stessa.
Ripensandoci le veniva da chiedersi se non l’avesse drogata,
se la Grace di quella notte fosse davvero la Grace di sempre. Alla fine
si era detta che sì, era quella parte di lei che si celava
al mondo e che era uscita di nuovo allo scoperto dopo anni
e… con Tom. Perché proprio lui?
Aveva paura a rispondersi.
Parcheggiò il fuoristrada nel vialetto che costeggiava il
giardino sul retro di casa Kaulitz e rimase a guardare la veranda
mentre sul finestrino iniziavano a scorrere dei piccoli rivoli di
pioggia.
Aspettò e pensò, si immerse così tanto
nei suoi ragionamenti che finì per non vedere più
ciò che aveva di fronte e per questo non si accorse
minimamente di Tom che aveva attraversato il giardino e aveva fatto il
giro del fuoristrada per entrarvi e sedersi accanto a lei, sul sedile
del passeggero.
«Che ci fai qui fuori?», le domandò.
Grace non si voltò, ma i suoi occhi tornarono ad osservare
il porticato e il vetro che ormai veniva attraversato da rivoli
d’acqua piovana spessi come arterie.
La sua voce però era rimasta ancora là, in un
angolo della sua mente, coi suoi pensieri, e quando parlò
sembrò infinitamente lontana. «Pensavo».
Tom fece un cenno d’assenso con il capo e schioccò
la lingua contro il palato. «Sembravi veramente
assorta».
L’investigatrice si lasciò sfuggire un breve
sospiro e spostò velocemente gli occhi quando
notò un movimento dietro la tendina della finestra in
cucina. Era più che certa che lì dietro, intento
a spiarli, ci fosse Bill.
«Che cos’ha tuo fratello?».
«Gli ormoni sballati. Il ciclo, o come lo vuoi
chiamare».
Grace si voltò verso di lui con un sorriso appena accennato
sulle labbra ed incontrò il suo, molto più aperto
e sereno. Rimase affascinata da quel sorriso, ma soprattutto dalla luce
brillante incastonata come diamanti nei suoi occhi nocciola.
Sentì un piacevole calore nascerle nel petto e questo la
fece rinvenire, perché era lì per il fare il
contrario di ciò che stava pensando.
«Tu invece che cos’hai? È successo
qualcosa?», le domandò, socchiudendo le labbra ed
avvicinando una mano alla sua guancia.
Grace si spostò ed allontanò la carezza infilando
il dorso della mano nel suo palmo alzato.
Sospirò di nuovo e chiuse gli occhi, annuendo lievemente.
«Stanotte».
«Cosa?».
«Stanotte è successo qualcosa che non doveva
succedere e che non dovrà più
ripetersi».
Tom, sorpreso da quelle parole e dal tono affranto con cui le aveva
pronunciate, rimase per diversi secondi a bocca aperta, le parole che
voleva urlare soffocate nella gola.
«Promettimelo, Tom».
Ebbe la forza di chiudere la bocca e di leccarsi le labbra secche, ma
di parole non ne tirò fuori nemmeno una. Era sconcertato:
non immaginava che Helen avrebbe potuto fargli così
male, dopo avergli fatto così
bene. Senza spiegargli nemmeno
perché.
«Promettimelo», ripeté, ma anche lei
stava lentamente cedendo: la sua voce si incrinava e si spezzava ogni
secondo di più, il suo cuore a fatica le pompava il sangue
in tutto il corpo.
In un lampo Tom riacquistò tutta la sua lucidità
e il dolore si trasformò in rabbia, accartocciandogli il
viso. Scosse energicamente il capo e posò una mano sulla
maniglia interna della portiera.
«Puttana», farfugliò in inglese e scese
dal fuoristrada, sotto la pioggia battente.
Grace lo guardò camminare coi pugni stretti lungo i fianchi,
la pioggia che gli colava sul viso e gli inzuppava i vestiti, e dopo
anni ebbe il forte impulso di lasciare che le lacrime sgorgassero dai
suoi occhi. Se lo impedì e quando Tom scomparve in casa
rimase ad ascoltare le sue urla, paralizzata sul sedile. Ma come poteva
sentirle, chiusa nell’abitacolo e con la barriera del suono
creata dalla pioggia? Erano urla immaginarie, presenti solo nella sua
testa, perché il fatto che Tom non avesse gridato e mostrato
tutta la propria ira l’aveva lasciata con un peso ancora
più grande a schiacciarle il petto.
Premette l’acceleratore e le gomme posteriori schizzarono un
po’ di fango sul paraurti, scavando dei solchi nel terreno.
Poi sgommò via, più veloce che poté.
Appena arrivata a casa si era gettata sotto la doccia, nonostante ne
avesse fatta una anche quella mattina, poi era andata direttamente a
letto. Si era svegliata verso le nove di sera, aveva mangiucchiato
qualcosa, poi era uscita a fare una passeggiata.
Aveva smesso di piovere, ma il cielo era più scuro del
solito e nell’aria si poteva respirare ancora
l’odore del temporale trasportato dalla brezza leggera che
arrivava dall’oceano.
Camminò per un bel po’, pensando a diverse
questioni che le punzecchiavano il cuore.
La prima, il messaggio che sua madre le aveva lasciato nella segreteria
telefonica e che aveva ascoltato ben cinque volte prima di credere che
non fosse una sua invenzione. Anche lei le aveva lasciato un messaggio
sulla segreteria, quel Natale, ma non pensava che sua madre si facesse
sentire. Insomma, erano anni che non si parlavano… Da quando
era scappata di casa per andare a vivere con suo padre, a tredici anni
e mezzo. Sua madre non l’aveva costretta a ritornare da lei e
ancora si domandava se fosse perché non le importava o per
qualche altra strana ragione.
Era così in ansia, aveva paura di rivederla, e avrebbe tanto
voluto parlarne con qualcuno. Con Dylan, per esempio, ma non era
decisamente il caso, dopo il comportamento che aveva tenuto quella
mattina con lui.
Il suo amico fu la seconda cosa a cui pensò e si
domandò che cosa ci fosse di tanto sbagliato in lei: era un
ragazzo di bell’aspetto, avevano più o meno gli
stessi orari, gli stessi pesi sul cuore, la violenza impressa nelle
menti, amavano frequentare gli stessi pub e inoltre si conoscevano da
anni, tanto da sapere che qualsiasi cosa sarebbe successa entrambi ci
sarebbero stati l’uno per l’altra. Non poteva
lasciarsi semplicemente andare? Dirsi che lui era il ragazzo con cui
sentimentalmente avrebbe potuto costruire qualcosa di stabile e
duraturo, qualcosa che poteva anche somigliare all’amore?
No. E qui entrava in gioco la terza cosa a cui pensò: Tom.
Il chitarrista di una band di fama globale che era stata incaricata di
seguire. Il contratto non includeva che diventasse prima sua amica, che
ci andasse a letto e forse addirittura che si innamorasse di lui.
Perché, no, lui non poteva far parte in quel modo della sua
vita. Lui non poteva entrare nel suo mondo che a volte si rivelava una
vera fregatura, per non dire di peggio. Non poteva correre il rischio
di metterlo in pericolo, perché era quello – il pericolo – che portava il suo
lavoro, il lavoro di suo padre, il lavoro per cui sua madre ad un certo
punto, esasperata, aveva chiesto la separazione.
Poteva sopportare che i suoi genitori si separassero, perché
sapevano già che avrebbero vissuto gran parte della loro
vita immersi in quel mondo, che lo volessero o no; poteva
sopportare che lei ne rimanesse scottata, che soffrisse per
ciò che ogni giorno poteva accaderle senza le amicizie
giuste – e anche i nemici giusti – e senza
una pistola che le premeva sulla schiena.
Ma non poteva permettere che una persona a cui teneva e che non avrebbe
mai dovuto far parte di tutto quello soffrisse perché lei
era stata così egoista da non riuscire a mettersi da parte.
Doveva proteggerlo, ecco, e l’unico modo era far
sì che dimenticassero quello che era successo fra loro.
Senza nemmeno accorgersene raggiunse il condominio in cui si trovava il
suo ufficio e parcheggiata al bordo del marciapiede vide una limousine.
Che ci faceva una limo in quel quartiere e a quell’ora?
La portiera del conducente si aprì all’improvviso
e l’autista fece il giro della lunga vettura per andare ad
aprire una portiera qualche metro più in fondo.
«Prego, signorina Schneider», le disse
cortesemente, con un gesto della mano che doveva invitarla ad entrare.
«La signorina Delafield vi sta aspettando».
Grace annuì, buttando giù il nodo che le aveva
bloccato la gola quando aveva sentito il nome della ragazzina, e a
passi piccoli raggiunse la portiera aperta, si abbassò ed
entrò nell’abitacolo.
Non aveva mai visto così tanto spazio dentro
un’auto e per un attimo la sorpresa le fece dimenticare il
possibile motivo per cui era lì.
La zona in cui si trovava, delimitata da grandi finestrini oscurati e
da divanetti in pelle di camoscio, era grande quanto il suo bagno, se
non di più, e le luci soffuse donavano
un’atmosfera di intimità, come se tutto quello
spazio fosse un’illusione.
L’autista, di nuovo al suo posto di guida, avviò
il motore e si allontanò dal luogo in cui
l’avevano prelevata a velocità sostenuta. Grace si
guardò intorno spaesata ancora per qualche secondo, immersa
in tutto quel lusso, quindi i suoi occhi si posarono sulla chioma
bionda di Molly, la quale le sorrideva con la testa leggermente piegata
verso sinistra e le mani unite sulle gambe.
Sia quel sorriso che il suo sguardo privo della luce che di solito lo
contraddistingueva le confermarono che non erano delle buone notizie
quelle che doveva comunicarle con tanta urgenza e di persona.
«Ti piace?», le domandò.
«Sì, molto…».
«Un po’
troppo lussuosa, lo so. Il fatto
è che la mia è dal meccanico per delle
riparazioni; ho preso in prestito quella di mamma».
L’investigatrice gettò ancora una volta un sguardo
intorno a sé. «Oh».
Molly si stirò la schiena con eleganza sul sedile, quasi con
le movenze di una gatta, nonostante avesse addosso un completo
elegante, un tallieur blu scuro.
«Allora… che mi racconti, Grace?»,
cantilenò.
«Che dei ragazzi della mafia italiana che incontrai qualche
anno fa, molto simpatici devo dire, facevano molta meno paura di te in
questo momento».
La ragazzina sorrise, quella volta candidamente. «Okay,
volevo solo atteggiarmi un po’. Ho voluto venire a parlarti
di persona adesso perché è da qualche tempo che
non ricevo più niente, anche se non credo che tu abbia
smesso di vedere Tom».
Grace chiuse gli occhi e ricacciò indietro un sospiro.
«Hai ragione. Ma non ho scoperto molto di nuovo, solo che la
settimana prossima andranno a registrare il video per il lancio del
nuovo album, che è già in stampa ed
uscirà a breve. Ah, e poi che forse il tour questa volta
sarà mondiale».
«Già. Sapevo anche questo»,
annuì, per nulla sorpresa, con gli occhi fissi nei suoi.
«Un amico di mio padre lavora alla Cherrytree
Records, è un bel
tipo, tosto, ma si è fatto corrompere con poco».
Grace non si accorse nemmeno di afflosciarsi sul sedile e di portarsi
contemporaneamente una mano sul viso, sentendosi
un’imbecille.
«Mi dispiace, davvero», mormorò.
Molly non rispose ed attaccò di nuovo: «In effetti
non sei stata molto professionale. Quello che vorrei sapere
è quanto
non lo sei stata».
«Tuo padre ha anche un amico che fa l’investigatore
privato?». Il sorriso che aveva sulle labbra era uno dei
più amari che avesse mai dipinto sul suo viso.
«No. È solo una sensazione mia, Grace. Oltre al
contratto che abbiamo stipulato, tu sei una mia amica, come ti ho
già detto forse l’unica vera che io abbia, e
vorrei tanto sapere se è successo qualcosa fra te e Tom. Da
amica ad amica, quindi se vuoi puoi anche non rispondermi».
Grace sollevò lo sguardo ed incontrò quello umido
di Molly. Ricordò il giorno in cui le aveva detto che non le
sarebbe dispiaciuto se lei e Tom si fossero messi insieme, che li
vedeva bene e che addirittura gli avrebbe finanziato il matrimonio. In
quel momento, guardando i suoi occhi colmi di tristezza e delusione,
capì che di fronte alla realtà Molly non aveva
reagito proprio come aveva previsto, ossia con distacco e gioia per la
cosiddetta amica: il suo idolo, il suo amore platonico, sarebbe sempre
rimasto la linea del traguardo che, per quanto irraggiungibile,
continuava a dare una speranza a quel cuore ancora giovane. Ma senza
quella linea, già strappata da qualcun’altra, non
c’era più motivo di sperare e faceva male.
Qualcosa le disse che era inutile mentirle ancora, farle credere che
non ci fosse stato nulla fra loro.
«Io e Tom abbiamo fatto sesso», sputò
senza guardarla in viso e fece ben attenzione ad usare quella parola,
“sesso”, invece che “amore”.
Quando Molly metabolizzò la notizia si rilassò
sul sedile, come sollevata da un peso troppo grande, e chiuse gli occhi
mentre le luci giallognole dei lampioni scivolavano sul suo viso
chiaro.
«Bene», mormorò.
«Grazie».
«E ora?», domandò
l’investigatrice privata.
«Sta a te. Vuoi continuare a…».
«No», la interruppe con voce dura. «Non
voglio più un soldo da te. E voglio stare il più
lontana possibile da Tom».
La ragazzina milionaria aprì di scatto gli occhi e la
fissò con un’espressione strana sul viso, come se
la notizia l’avesse spaventata.
«Perché? Hai appena detto che avete fatto sesso,
che è successo?».
«È successo che abbiamo fatto sesso»,
ribadì. «Non posso permettermi di affezionarmi
ancora a lui».
«Perché?», domandò ancora
Molly, sbattendo le palpebre.
«Tu sai vero che ho una pistola dietro la
schiena?», le chiese con un leggero sorriso sulle labbra, che
le sollevava l’angolo sinistro della bocca. «A cosa
credi che mi serva? La mia vita non è fatta solo di
pedinamenti a persone innocue, ci sono volte in cui la tiro fuori e
sparo. Non posso permettere che Tom o qualcun altro entri in questo
mondo, nella mia vita. Hai capito bene, Molly? Questo vale anche per
te, in questo momento più che mai».
Molly annuì lentamente, gli occhi spaventati che danzavano
nella luce soffusa della limousine.
Rimasero per diversi minuti in silenzio a guardare fuori dal
finestrino, cullate dalle fusa del motore dell’auto di lusso.
Poi la ragazzina si sporse verso di lei e le chiese dove dovessero
portarla. Grace le diede un indirizzo, poi si mise seduta accanto a lei
sul sedile e l’abbracciò, proteggendola
nell’incavo del suo corpo ed accarezzandole i capelli con una
mano.
***
«Ma lei ha
detto proprio così, che non
doveva succedere e che non dovrà più ripetersi?».
Tom strinse più forte le dita intorno alla ceramica della
tazza di tè che Bill gli aveva messo in mano qualche minuto
prima.
Lui odiava il tè, ma suo fratello gemello era convinto che
in un momento come quello gli avrebbe tirato su il morale. Avrebbe
preferito dell’alcool.
«Sì, Bill», sospirò.
«Me l’hai già chiesto ventimila volte,
ti ho già raccontato nei dettagli tutto ciò che
mi ha detto, e vorrei smetterla di pensarci, almeno per un
po’».
«Sì, è vero che me l’hai
raccontato, ma l’hai fatto come se l’avessi visto
da fuori. Dovresti sfogarti, raccontarlo dal tuo punto di
vista».
«Non voglio farlo».
«Non è consigliata, come opzione».
«Me ne fotto!».
Si alzò dal divano e passò di fianco a Bill,
sdraiato sulla sua poltrona da psicanalizzato, sbuffando con ritmi
regolari.
«E adesso, che cos’hai intenzione di
fare?», gli chiese, evitando il suo sguardo, puntando il
mento sullo sterno.
«Non lo so. Ho voglia di ubriacarmi. Abbiamo qualcosa, in
casa?».
«No, non penso».
«Allora esco. Anzi, sai che faccio? Vado all’Halo».
Bill si tirò su e si portò le mani sulle
ginocchia, preoccupato.
«All’Halo?
Tom, non penso che tu…».
«Senti, ho voglia di divertirmi!».
«No, tu vuoi scoparti una qualsiasi per cercare di
dimenticare Helen. Ti conosco, a volte penso che ti sfugga. E ti dico
che non funzionerà, non è così
che…».
Tom si chinò su di lui, tanto che le punte dei loro nasi
quasi si sfiorarono.
«Vuoi venire anche tu?», sussurrò
mellifluo.
«No».
«Bene».
Si rizzò e si diresse verso le scale che portavano al piano
superiore.
«Ma non voglio che tu vada da solo, che ti ubriachi e che poi
ti metta al volante».
Tom accennò un sorriso, senza voltarsi, e salì le
scale.
***
Si sporse in strada per
osservare la limousine di Molly allontanarsi, poi si voltò e
salì gli scalini che portavano al piccolo portico sotto il
quale si trovava la porta di casa di Lionel.
Bussò, ma nessuno le venne ad aprire. Così
tirò fuori il doppione delle chiavi che
l’ex-marine le aveva dato proprio per quelle occasioni: era
troppo stanca e triste per stare a casa da sola.
Stava per gettarsi sul divano, per nulla intenzionata a svegliarlo,
quando sentì il proprio cellulare vibrare nella tasca dei
jeans. Lo tirò fuori e ancora prima di guardare il display
illuminato le venne in mente Tom. Se fosse stato lui, che cosa gli
avrebbe detto?
Chiuse gli occhi, respirando profondamente, poi si decise a guardare:
non era Tom, bensì Dylan. La scoperta non la
rincuorò, visto che aveva problemi pseudo-sentimentali con
entrambi.
Lesse il messaggio appena arrivatole ed abbandonò del tutto
l’idea di gettarsi su quel divano. Fece marcia indietro ed
uscì dall’appartamento senza mai guardarsi
indietro.
***
Gli era sempre piaciuto
quel posto: un locale per soli uomini, uno strip-club piuttosto
riservato e frequentato da gente importante.
Sapeva che lì dentro girava parecchia droga, ma
finché si trattava delle sale due piani più su
non era un problema per lui. Bill non era della stessa idea, ma quella
sera l’aveva accompagnato comunque.
Era seduto su un divanetto, con un bicchiere di puro alcool in mano,
che si godeva lo spettacolo di fronte a sé, in pace col
mondo, quando notò un viso familiare tra la folla ammassata
davanti al bancone del bar.
«Non è possibile, cazzo»,
mormorò incredulo.
«Che cosa?», gli domandò Bill.
Una delle spogliarelliste di fronte a loro gli accarezzò il
viso per attirare la sua attenzione, ma Tom le allontanò la
mano e guardò in fratello gemello negli occhi, indicando un
punto verso il bancone del bar.
«Sono già ubriaco oppure quello è
davvero Dylan?».
***
La polizia ha ricevuto
una soffiata da uno della gang di Doc Mahkah. A quanto pare questa
notte ci sarà uno dei più grandi scambi di droga,
tanto da innevare tutta LA, tra due gang che fanno concorrenza a Doc.
Ha chiesto espressamente la tua presenza. Ci vediamo all’Halo
alle 23.45.
Aveva potuto fare ben poco
quando aveva letto quel messaggio: Doc Mahkah aveva chiesto la sua
presenza, ciò voleva dire che se non si fosse presentata si
sarebbe giocata la sua amicizia.
Aveva fatto un salto a casa, si era vestita “a
festa” e si era preparata un paio di caricatori, nel caso
fosse successo qualcosa di grosso. Sperava ardentemente di no,
perché un caso come quello l’avrebbe sicuramente
coinvolta, nei rapporti della polizia sarebbe stato scritto il suo nome
e per quanto Dylan e qualche altro suo aggancio potessero provare ad
impedirlo, la stampa sarebbe arrivata a lei.
Si era incontrata con lui e proprio come ai vecchi tempi avevano
pianificato tutto nei minimi particolari: le uniche donne ammesse nello
strip-club erano quelle che si strusciavano sui pali, quindi doveva
farsi credere una di loro mentre Dylan si fingeva uno dei tanti uomini
in cerca di un po’ di distrazione. Sotto copertura, entrambi
avrebbero avuto l’opportunità di guardarsi intorno
e grazie agli auricolari che gli avevano piazzato addosso avrebbero
comunicato con gli altri della squadra antidroga, pronti ad intervenire
in qualsiasi momento.
Dylan si gettò
nervosamente un’occhiata intorno e si premette più
forte il cellulare all’orecchio per sovrastare la musica
alta.
«Grace, sei pronta?».
«Sì, sto arrivando. Ma i tuoi amici
dell’antidroga mi devono un grosso, un grossissimo
favore!».
Il poliziotto ridacchiò avvertendo dell’imbarazzo
nella sua voce e chiuse la chiamata, allontanandosi dal bancone dopo
aver bevuto tutto d’un fiato il cocktail che aveva ordinato.
In realtà non avrebbe dovuto, dopotutto era in servizio e si
trattava di un’operazione delicata, ma non poteva di certo
dare sospetti non bevendo nulla!
Si fece largo tra la folla e nello stesso momento vide Grace fare la
stessa cosa.
Okay, forse non era stata un’ottima idea quella di lavorare
al suo fianco, non dopo quello che era successo tra loro, ma
lì per lì non ci aveva pensato, focalizzato
soltanto sulla scabra frase: “Io proteggere Grace”.
Indossava un completino intimo di pelle nera da far battere i denti
dall’eccitazione, con il reggiseno a balconcino e delle
culottes che rendevano pazzesco il suo lato B. La cosa più
sexy in assoluto però erano gli stivali col tacco coordinati
al completino che le avvolgevano le gambe affusolate e le arrivavano a
metà coscia.
Era semplicemente uno schianto e Dylan faticò a riprendersi,
con la gola in fiamme e il cuore che gli correva nel petto.
«Agente Marìn, com’è la
situazione?», gracchiò una voce nel suo orecchio,
facendogli finalmente distogliere lo sguardo da quella provocante ed
irriconoscibile Grace che si strusciava sul palo di fronte ad un branco
di arrapati in visibilio.
«Per ora tutto tranquillo. Grace è entrata in
azione».
«Uh. E come se la sta cavando?».
«Beh… Favolosamente, oserei dire».
«Io l’avevo detto che dovevamo piazzargli addosso
delle microcamere! Perché qui non mi ascolta mai
nessuno?!».
Dylan ridacchiò e dopo un piccolo
“click” capì che la comunicazione,
almeno per il momento, era terminata. Poteva tornare a concentrarsi
sullo spettac… sull’operazione.
Si avvicinò al lungo tavolo scelto da Grace, dalla
superficie luminosa e in cui vi erano conficcati diversi pali
d’acciaio, e scrutò le persone sedute intorno ad
esso: sui comodi divanetti di pelle bianca accostati alla parete
c’era il cosiddetto “gruppo di arrapati”,
uno sciame di uomini che probabilmente,
dato l’elevato tasso di alcool che gli stava già
circolando nelle vene, stavano festeggiando un addio al celibato.
Nell’angolo, invece, in parte ombreggiati da una grossa
colonna che ricordava quelle dei templi greci – cosa che di
sicuro l’Halo
non era e che, anche se lo fosse stato, non sarebbe stato di certo
dedicato alla dea del matrimonio Era –
c’erano…
Dylan sgranò gli occhi, sgomento.
«Occristo».
Non immaginava di trascorrere così quella serata. No davvero.
Perché lo
sto facendo? si chiese mentalmente,
mordendosi la lingua ed aggrappandosi con entrambe le mani al palo e
scivolando su di esso con la schiena. Non sapeva se si stesse
comportando come una strip-dancer professionista, ma il suo piccolo ed
adorante pubblico sembrava gradire, quindi…
Un sorriso le comparve sulle labbra, pensando che forse non era
così impedita e ridicola come aveva pensato. Lei era sexy!
Subito dopo, però, provò una gran pena per se
stessa: si stava strusciando mezza nuda su un palo, agli occhi di
quegli uomini doveva sembrare come una bistecca per un cane a digiuno
da giorni, non c’era niente di cui rallegrarsi. Era davvero
caduta in basso quella volta.
Cacciò quei futili pensieri dalla testa e si
concentrò sull’operazione, mentre continuava a
“ballare”.
Fino ad allora aveva già adocchiato un paio di membri delle
due gang che avrebbero effettuato lo scambio: dei ragazzini,
letteralmente, che avrebbero dovuto avvisare i capi, già ai
piani superiori a contrattare, nel caso avessero visto qualcuno della
polizia o comunque dall’aspetto sospetto. Erano troppo
piccoli e dubitava che la potessero riconoscere.
Aveva anche scorto fra la folla due o tre brutti ceffi della gang di
Doc Mahkah e questo non la tranquillizzò per niente,
perché voleva dire che erano stati mandati apposta per lei.
Il lato negativo di avere per amico il boss di una delle gang
più potenti di tutta Los Angeles: camminava sempre sul filo
del rasoio.
A quanto poteva vedere, non c’era modo di arrivare ai piani
superiori: davanti alle scale si stagliavano due armadi di bodyguard, i
quali non permettevano a nessuno di avvicinarsi, probabilmente
perché pagati dai capi delle due gang. Non volevano nemmeno
un po’ di divertimento offerto dalle spogliarelliste!
La tensione si tagliava a fette e se qualcosa fosse andato storto era
convinta che sarebbe scorso un bel po’ di sangue. La squadra
le aveva raccomandato di avvertirla non appena avesse capito che
l’aria si sarebbe surriscaldata, ma questo era ancora
più pericoloso: se quelli ai piani superiori avessero capito
che c’era la polizia poche persone sarebbero uscite vive da
lì.
Ci siamo ficcati in una
brutta, brutta situazione.
Come
se le avesse letto nel pensiero, Dylan apparve nel suo campo visivo.
Nel giro di un secondo provò sollievo, perché era
felice di averlo accanto; vergogna, perché mai avrebbe
voluto che la vedesse in quello stato; e infine preoccupazione,
perché era quello che esprimeva il suo viso mentre la
raggiungeva.
Dylan iniziò a parlarle in labiale, ma lei non
riuscì ad afferrare ciò che voleva dirle, un
po’ per la confusione e un po’ per il continuo
girare intorno al palo sculettando.
Alla fine il poliziotto si spazientì, tirò fuori
dal portafoglio un paio di banconote e si arrampicò sul
tavolo, accompagnato da un grande boato di disapprovazione da parte dei
depravati per cui stava ballando.
«Che c’è?», gli
domandò esasperata, mettendocela tutta per non arrossire
nello strusciarsi contro di lui.
«Abbiamo un problema», sussurrò, preso
dal panico. «Bill e Tom sono qui».
Grace si fermò, con le mani artigliate sul palo, inebetita
come se gli avesse appena tirato una mazza da baseball sulla testa.
Dylan le infilò le banconote nel reggiseno, più
che imbarazzato, e soggiunse: «In fondo al tavolo, sui
divanetti ad angolo vicini alla colonna».
«Ehi, amico, devi scendere!».
Sia Dylan che Grace abbassarono gli occhi sull’uomo vestito
di nero, la scritta Security stampata in bianco sulla maglia, e il
poliziotto si disegnò sul viso un sorriso da ubriaco,
posandole possessivamente le mani sui fianchi.
«Ma io voglio stare qui con lei!»,
piagnucolò. «È la donna della mia
vita!».
L’uomo chiamò i rinforzi e in poco tempo
riuscirono a trascinare giù dal tavolo Dylan, il quale
continuò a fingere magistralmente, tanto da meritarsi un
Oscar.
«Tu invece stai bene?», le domandò un
altro uomo della security, fissandola con cipiglio perplesso. Che si
stesse chiedendo perché non l’avesse mai vista
prima?
Grace riprese il controllo delle sue emozioni e gli sorrise in maniera
disinvolta. «Sì, grazie. Ho solo bisogno di
prendere una boccata d’aria».
Il bodyguard annuì e l’aiutò a scendere
dal tavolo, provocando altre urla di disapprovazione. Aveva fatto
davvero colpo! Nel peggiore dei casi, come per esempio se la sua
attività di investigatrice privata fosse fallita, poteva
sperare di avere una carriera in quell’ambiente.
Grace si diresse verso i bagni dall’altro lato del locale,
così da passare di fronte al punto che Dylan le aveva
indicato: doveva verificare di persona che quelli fossero Bill e Tom,
non poteva davvero credere che la sua sfiga…
Quando le si bloccò il respiro capì che Dylan non
si era sbagliato e che, dannazione, avevano davvero un grosso problema
da risolvere. Come se non ce ne fossero abbastanza!
Che ci facevano loro due lì? Perché proprio
quella sera? La situazione le stava sfuggendo di mano, come la sua
lucidità al pensiero che se tutto fosse andato bene ci
sarebbero stati una cinquantina di feriti e qualche morto.
Per una frazione di secondo intercettò gli occhi del
chitarrista e questo le bastò per farle sudare freddo,
soprattutto perché aveva colto nel suo sguardo un misto di
stupore e di rancore che l’aveva fatta sentire come una
farfalla sotto un bicchiere di vetro: in trappola.
Non voleva parlargli, non voleva spiegargli perché era
vestita in quel modo e via discorrendo. Allo stesso tempo
però doveva fare qualcosa, doveva mandare via dal locale lui
e suo fratello, prima che fosse troppo tardi.
Sperando vivamente che avesse un briciolo di cervello e la seguisse,
gli fece l’occhiolino e si creò un varco nella
folla, ancora diretta verso i bagni.
«Ma che cazzo sta facendo?», borbottò
Tom, alzandosi in piedi per vedere meglio ciò che stava
succedendo.
Dylan si era improvvisamente arrampicato sul tavolo delle
spogliarelliste, a qualche metro da loro, e si era piazzato di fronte
ad una di loro, impedendogli di scorgerne il viso.
«Credo sia ubriaco», osservò Bill,
mentre il poliziotto stringeva a sé la ragazza e urlava
frasi da lì incomprensibili, che però portarono i
bodyguard a tirarlo giù dal tavolo con la forza.
Solo allora Tom riuscì a vedere il volto della strip-dancer:
Helen. Helen faceva la spogliarellista quando non era impegnata a
pedinare lui?!
«Porca…».
La guardò mentre si faceva aiutare a scendere dal tavolo e
poi si dirigeva proprio nella loro direzione. I loro sguardi si
incrociarono per un attimo e Tom sentì il cuore cedergli,
come il suo volto, che ormai non controllava più.
Helen esitò, con le labbra dischiuse come sospese su una
domanda inespressa, e poi all’improvviso gli
strizzò l’occhio, riprendendo ad andare per la sua
strada.
«Beh, che stai aspettando?».
Tom abbassò gli occhi su Bill, sul suo volto che emanava
pura innocenza. «Come?».
«Avanti, seguila!».
Col cuore che gli batteva come un gong nelle orecchie, agì
d’istinto e diede ascolto alla voce della sua coscienza
incarnata in Bill, partendo in quarta per non perderla di vista.
La vide sparire oltre la porta della toilette, circospetta, e Tom
rimase a fissare per qualche secondo la scritta
“Women”, poi si morse il labbro ed entrò
di soppiatto.
Subito fu afferrato per il collo della maglietta e trascinato in un
bagno angusto, dove c’era a malapena lo spazio per il cesso.
Ma dopotutto non gli dispiaceva trovarsi appiccicato ad Helen,
oltretutto mezza nuda!
«Scusa, ti dispiace?», berciò,
prendendogli il mento tra le dita e sollevandogli di scatto il viso.
I suoi occhi verdi erano ardenti, un prato invaso dalle fiamme, e Tom
ebbe come la sensazione di trovarsi proprio lì in mezzo, ad
un passo dall’essere abbrustolito. Per non parlare poi
dell’espressione indecifrabile sul suo viso, che non era
delle più rassicuranti.
«Che cazzo ci fate voi qui?», gli
domandò bruscamente.
«Noi… Tu,
che cazzo ci fai qui!?», ribatté alterato,
fronteggiandola. «Non ho mai immaginato che tu
potessi…».
Helen sospirò col naso, cercando di mantenere la calma e il
sangue freddo. «Senti, non mi importa quello che immagini o
non immagini, questo non è proprio il momento adatto. Te ne
devi andare, subito.
Porta il tuo culo e quello di Bill fuori da qui».
«E sentiamo, per quale motivo dovrei farlo?».
Grace sfuggì al suo sguardo, quella volta pieno di malizia,
ma non poté sfuggire alla sua mano che le
accarezzò i capelli sciolti, sistemandoglieli dietro un
orecchio, a cui si avvicinò per sussurrarle in modo
suadente, ma anche vittorioso: «Ormai ti ho scoperta, tanto
vale…».
Grace lo spinse via da sé con violenza, facendolo quasi
cascare nella tazza del cesso, ed uscì dal bagno, nauseata.
«Helen! Helen, aspetta!».
Tom l’afferrò per un polso e Grace si
voltò di scatto, fissando gli occhi nei suoi. Il chitarrista
ebbe l’istinto di tirarsi indietro, perché oltre
che arrabbiata sembrava davvero ferita, il verde che tanto gli piaceva
lacerato da artigli che lui stesso aveva maneggiato.
«Come… come puoi pensare di usarmi dopo quello che
c’è stato ieri notte?!», gli
urlò in viso, furente.
Al ricordo di quello che avevano passato insieme sentì il
suo stomaco contorcersi, ma presto quelle immagini furono sommerse da
altre, forse ancora più scottanti nel suo cuore, che lo
fecero imbestialire.
«Sbaglio o sei stata tu a dire che quello che è
successo l’altra notte non doveva succedere e che non
dovrà più ripetersi?! Se hai paura di mettere in
gioco i tuoi sentimenti, allora non li metterò in gioco
nemmeno io! Ma se metti in bella mostra tutta la tua mercanzia, in
questo modo, permetti che io –».
Lo scoppio di uno sparo lo interruppe e senza nemmeno sapere come si
trovò a terra, con il viso di Helen ad un centimetro dal suo.
«C’è stato uno sparo,
c’è stato uno sparo al piano di sopra! Dovete
intervenire subito!», gridò lei, premendosi il
dito dentro l’orecchio, e Tom non capì con chi
stesse parlando, nella confusione generale. C’era gente che
urlava, gente che si era rannicchiata a terra e chi ancora tentava di
uscire dal locale ammassandosi di fronte alle porte, bloccando
inevitabilmente il passaggio.
Nel frattempo ci furono altri spari, una raffica che non sembrava
finire più, e alcuni esplosero talmente vicini a lui che
credette di essere stato colpito e di morire lì, con Helen
addosso.
«Dylan, dove sei?!», gridò ancora Helen,
sollevando il viso per potersi guardare intorno, e Tom
sbarrò gli occhi, non capendoci più niente.
Un proiettile colpì un vaso di fiori sul tavolino di fianco
a dove erano sdraiati loro e il vetro si infranse spargendo schegge
dappertutto. Alcune le sentì sulla pelle, ma non le vide
perché Helen gli aveva posato una mano sugli occhi per
proteggerlo.
«Cazzo, cazzo! Tom, non ti muovere, stai qui,
okay?», la sentì gridare ed istintivamente le sue
mani si strinsero sui suoi polsi.
«Cosa?! No, Helen, non puoi –!».
«Tuo fratello! Devo prendere tuo fratello!», gli
gridò nell’orecchio e qualche secondo dopo non la
sentì più sopra di sé.
Tom si ricordò di Bill e sentì una fitta al
cuore. Si accucciò a terra, mentre gli spari non cessavano
vicino a lui, e sollevò il capo in direzione del divanetto
su cui lui e il suo gemello erano stati fino a poco tempo prima. Vide
Helen correre piegata in due dietro un tavolo e quando un proiettile ne
scheggiò la superficie luminosa, mancandola di un soffio, la
vide estrarre una pistola dallo stivale destro, stendere il braccio,
chiudere un occhio per prendere la mira e sparare un colpo.
Il chitarrista, sconvolto, si girò verso la direzione in cui
la ragazza aveva sparato e vide un ragazzo steso a terra in un lago di
sangue, con un buco nel petto. Quando tornò a cercare Helen
con gli occhi, la vide accanto a Dylan, il quale aveva raggiunto Bill
per primo.
Suo fratello era terrorizzato, nascosto tra il divanetto crivellato di
buchi e il tavolo, ma stava bene. Era spaventato, ma stava bene.
Sorrise rincuorato, ma pochi secondi dopo una porta che non aveva
nemmeno mai notato, sul retro del locale, sbatté a terra con
un tonfo e diverse schegge; la stessa fine fece quella della cucina
collegata al bancone del bar. Entrarono nel locale una decina di
poliziotti con tanto di pistole e fucili alla mano e giubbotti
antiproiettile.
«Giù le armi, tutti!», gridò
uno di loro, puntando la canna della pistola prima a destra e poi a
sinistra, ispezionando il perimetro, mentre i suoi uomini si
avvicinavano ai civili rimasti feriti, a quelli illesi e alle persone
che, purtroppo, ci avevano rimesso la pelle, tra cui anche gli uomini
che avevano dato inizio a quella sparatoria.
Non era rimasto nessuno – di vivo – con le pistole,
eccetto loro e la stessa Helen, quindi si rilassò ed
abbassò l’arma.
«Dylan, Grace, state bene?», chiese uno dei
poliziotti, e sia Dylan che Helen annuirono distrattamente.
Appunto, Helen.
Tom le puntò addosso gli occhi fino a quando la ragazza non
ricambiò lo sguardo, per poi abbassarlo quasi subito,
mortificata. Lui continuò a guardarla anche quando Dylan si
tolse la giacca e la posò sulle sue spalle, per poi
stringerla a sé in un abbraccio carico di affetto e
preoccupazione.
«Ehi, tu, stai bene?».
Una voce lo distrasse e fu costretto a sollevare il capo per poter
guardare negli occhi il poliziotto che si era chinato su di lui.
«No», rispose scuotendo il capo e si
lasciò aiutare ad alzarsi in piedi.
Il poliziotto gli posò una mano sulla spalla e gli chiese
ancora: «Dove ti fa male?».
Il cuore, è
lì che mi fa male.
Altri
due spari li fecero sobbalzare e tutta la squadra si voltò
verso Grace/Helen e uno dei membri di una delle gang che era sfuggito
ma non ancora scappato, il quale ora riversava a terra, privo di vita,
colpito da un proiettile della ragazza, ancora con il braccio destro
steso, appoggiato sulla spalla di Dylan.
Un paio di poliziotti ridacchiarono, passandosi una mano sulla fronte
sudata, ringraziandola, ma lei ebbe occhi solo per Tom. Anche lui
sostenne il suo sguardo, fino a quando non la vide alzarsi da terra
divincolandosi dall’abbraccio di Dylan per correre da lui con
il terrore negli occhi.
Il chitarrista non capì perché avesse
quell’espressione e all’improvviso il suo cervello
lo fece soffermare su un particolare: aveva sentito due boati,
l’uno a poca distanza dall’altro. A rigor di
logica: due boati, due spari.
All’improvviso sentì un fuoco divampare vicino
all’ascella destra e quando abbassò lo sguardo la
mano di Helen/Grace era già sul buco causato dal proiettile
e si stava macchiando di rosso, come la sua maglietta.
«Cazzo», riuscì a biascicare, prima di
svenire fra le braccia della ragazza che da lontano – o era
solo una sua percezione? – aveva iniziato a gridare il suo
nome.
________________________
Ed è qui che iniziano le
cose veramente interessanti! *^*
Ma andiamo con ordine (Buongiorno xD).
In questo capitolo sono successe un sacco di cose e sono quasi tutte
degne di nota! Riassumento, però, possiamo avere quattro
momenti fondamentali: la "chiacchierata" tra Grace e Dylan, quella tra
lei e Tom, quella tra lei e Molly e per finire questa superscena con
spogliarelliste e sparatoria! ;)
Ebbene sì, Grace ha deciso di tagliare i ponti con Tom. O
almeno... ci ha provato! In questo capitolo è spiegato
chiaramente il motivo per cui Grace è tanto restia ad
aprirsi con qualcuno e soprattutto ad amare. Spero che si sia capito
bene, è importante capire il punto di vista della detective
anche per i prossimi capitoli ;)
C'è stata anche la reazione di Molly alla notizia che Tom e
Grace sono andati a letto insieme! Che ve ne pare? Comprensibile? :)
Per quanto riguarda Grace e Dylan... chissà ora il loro
rapporto come cambierà! Staremo a vedere!
Aspetto le vostre recensioni con
ansia, sono proprio curiosa di sapere che cosa ne pensate ora che la
storia entra nel vivo! *^*
Grazie a tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e poi a
tutti quelli che seguono e hanno messo tra i preferiti/ricordate questa
FF! I love u all :D
A lunedì prossimo! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10
Si portò le
mani sul viso, se lo massaggiò per qualche secondo, poi
sospirò stancamente ed appoggiò la testa alla
spalla chiudendo gli occhi, dicendosi che aveva davvero bisogno di
almeno due minuti di sonno, ma nulla. Appena chiudeva gli occhi vedeva
il sangue di Tom scivolarle fra le dita, vedeva le sue labbra
stringersi in una smorfia sofferente e i suoi occhi chiudersi, mentre
quella folle paura le devastava il sistema nervoso.
Non reagiva in quel modo da anni; anzi, non aveva mai reagito in quel
modo dopo la morte di suo padre e non pensava che qualche altra scena
l’avrebbe tormentata in quel modo, tanto da non farle
chiudere occhio, eppure…
Decise di andare a prendersi l’ennesimo bicchiere di
caffè al bar proprio di fronte all’ospedale, visto
che quello che facevano le macchinette era veramente immondo, quando
finalmente vide Bill uscire dalla stanza del gemello, col volto stanco
e sciupato come il suo e gli occhi arrossati. Forse aveva pianto.
«Ehi», gli sussurrò e dopo essersi
alzata in piedi l’attirò in un timido abbraccio,
posandogli una mano fra i capelli scompigliati.
«Va tutto bene?».
«Non ne sono certo», mugugnò stringendo
i pugni sulla sua schiena. «Sono distrutto».
Grace accennò un sorriso. «Lo capisco
bene».
«Grazie». Bill arrossì lievemente sulle
guance, scostandosi dal suo abbraccio.
«Per che cosa?».
«Per aver provato a mandarci via prima che succedesse tutto
quanto e per averci difeso».
«E tu come fai a sapere che…?».
Bill sorrise e parve il solito Bill di sempre. «Me
l’ha raccontato Tom. A proposito, stavo quasi per offendermi,
sai?». L’espressione confusa di Grace lo fece
ridacchiare divertito e continuò: «Quando si
è svegliato mi ha salutato, mi ha detto che stava bene,
anche se si sentiva stanco, e poi mi ha chiesto subito di te, Helen,
Grace o chicchessia».
L’investigatrice sorrise e voltò il capo verso la
sua camera: attraverso il vetro accanto alla porta lo vide steso sul
letto, con gli occhi chiusi come se stesse dormendo.
«Dici che vorrà delle spiegazioni?».
«Credo proprio di sì. Ora, scusami, vado a
prendermi un caffè. Tu lo vuoi?».
«Sì, grazie».
«Okay. Buona fortuna», sollevò il
pollice e si allontanò nel corridoio, stringendosi le
braccia al petto.
Grace lo guardò fino a quando non girò
l’angolo, poi trasse un respiro profondo ed entrò
nella stanza. Si chiuse piano la porta alle spalle e vi rimase
appoggiata ad osservare Tom, incantata: il sole che entrava dalla
finestra alla sua sinistra gli illuminava parte del volto, quella
graffiata dalle schegge di vetro. Ma nonostante tutto, nonostante fosse
stato immischiato in una sparatoria, si fosse preso un proiettile e
avesse subìto un’operazione, era bello come
sempre.
Dopo minuti che sembrarono ore Tom aprì gli occhi e la
osservò. Lentamente le sue labbra si stesero in un sorriso e
con un movimento impercettibile delle pupille le fece intendere che la
voleva seduta al suo fianco.
Grace si avvicinò, come ipnotizzata da quegli occhi e quel
sorriso appena accennato, e si mise seduta sulla sedia accanto al suo
letto, cercando di allungare il più possibile la giacca di
Dylan sulle cosce nude: era ancora nel suo costume da spogliarellista e
nonostante molte persone l’avessero vista conciata in quel
modo e lei non avesse fatto una piega, con lui si sentiva in imbarazzo.
«Avresti dovuto vedere la tua faccia, quando ti sei accorta
che quello mi aveva colpito», le disse con voce roca,
ridacchiando.
«Ma quanto sei scemo?», gli rispose con tono
arrabbiato, ma non riuscì a resistere e si lasciò
andare ad un sorriso e ad un sospiro di sollievo, anche se poi
confessò: «Mi sono spaventata a morte».
«Anche io», disse Tom, finalmente serio.
«Ma non quando mi sono accorto di aver un proiettile
conficcato nel corpo. Ho davvero avuto paura quando ho iniziato a
sentire gli spari e tu eri vicina a me, ma in qualche modo
irraggiungibile; e ne ho avuta quando ti sei allontanata per andare da
Bill, quando ti hanno quasi colpita e tu hai tirato fuori la
pistola… In quei momenti in cui tu eri lontana ho avuto
così tanta paura che tu potessi ferirti e allo stesso tempo
ho avuto paura per me, perché se fossi morto senza te
accanto non avremmo mai più potuto sistemare le cose,
nemmeno in punto di morte, e me ne sarei andato senza dirti tante
cose…».
La guardò e notò i suoi occhi lucidi di lacrime,
mentre le sue labbra tremavano; allora avvicinò una mano al
suo volto e le accarezzò una guancia, sistemandole con
dolcezza una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
«Le pensavi davvero, le cose che mi hai detto ieri
pomeriggio?».
Grace non gli rispose e non gli permise nemmeno di farle altre domande,
perché timidamente si chinò su di lui e con una
mano sulla sua guancia lo baciò.
Bill tornò dentro l’ospedale con due bicchieri di
carta stracolmi di caffè bollente e mentre si dirigeva verso
la camera di suo fratello incontrò Dylan, con il quale si
mise a chiacchierare facendo parte del tragitto insieme.
«Ciao Bill», lo salutò con un sorriso
amichevole sul viso, nonostante le occhiaie e la stanchezza per la
nottata passata a fare inutili interrogatori, verbali e rapporti.
«Come sta tuo fratello?».
«Sta bene, il dottore ha detto che non ci sono state gravi
lesioni interne; si sta già rimettendo in sesto».
«Bene, sono contento. Tu, invece?».
Bill lo fissò, vagamente stupito, e senza nemmeno rendersene
conto arrossì, ripensando al momento in cui, accucciato tra
il divanetto che vomitava la sua stessa imbottitura e quel tavolo,
aveva sentito il poliziotto stringerlo tra le sue braccia e proteggerlo
col suo stesso corpo.
«Tu sei okay, vero? Niente shock post-traumatico, nulla di
nulla?».
Il cantante scosse il capo, per poi abbassarlo a guardarsi i piedi.
«Se ne sono uscito illeso è solo grazie a
te».
Dylan sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. «Non dire
scemenze, è il mio lavoro! O almeno quello che mi piacerebbe
fare tutti i giorni».
«Alla stradale non ti trovi bene?».
«No, no, mi trovo benissimo, solo che… mi
piacciono l’azione, i lavori sotto copertura, le
indagini… per questo mi piace così tanto lavorare
con Grace».
Bill sorrise, già consapevole di molte più cose
rispetto a quelle che il poliziotto avrebbe voluto rivelargli. Per
esempio, sapeva benissimo che c’era un altro motivo per cui
gli piaceva così tanto lavorare con Grace.
«Potresti chiedere di trasferirti alla omicidi o, che so io,
all’antidroga…».
«Potrei. Ma non è così semplice: ci
sarebbero i corsi da frequentare e poi le
selezioni…».
«Scommetto che ce la faresti benissimo. Dovrebbero darti il
posto solo per la tua esperienza sul campo!».
Dylan ridacchiò e lo ringraziò con gli occhi.
Quindi sollevò una busta della spesa che, ad occhio, doveva
contenere dei vestiti.
«Sai dove posso trovare Grace? Sono andato a casa sua a
prenderle qualcosa con cui cambiarsi».
Il cantante evitò improvvisamente il suo sguardo.
«Ahm… l’ho vista prima, ma ora non so
dove…».
«Immagino che quel caffè allora sia per Tom,
no?».
Bill arrossì, smascherato in pieno. Si era dimenticato che
stava parlando con un poliziotto – uno bravo – e
che i poliziotti di solito sono attenti ai particolari.
Dylan sospirò. «Puoi anche dirmelo, se ora
è con lui, non succede nulla di male».
«Lo so, ma…».
«Cosa?».
«Lei… lei ti piace».
«Sì», ammise guardandolo di traverso, le
labbra strette tra loro. «E allora?».
«Ecco… io credo che lei e mio fratello si
piacciano».
«Lo credo anche io. Anzi, ne sono certo. Ma non
c’è problema, non è colpa
tua».
L’espressione di Dylan tornò serena, anche se gli
occhi erano adombrati da un velo di malinconia. Gli posò di
nuovo la mano sulla spalla e aggiunse: «Grazie, se quello che
volevi fare era non ferire i miei sentimenti».
Bill non rispose, si limitò ad accennare un sorriso.
Camminarono in silenzio per il resto del tempo e quando arrivarono a
destinazione sia il cantante che il poliziotto rimasero senza parole di
fronte al vetro accanto alla porta che permetteva di vedere
all’interno della camera.
Tom e Grace si stavano baciando, lei chinata su di lui per non fargli
fare sforzi, e lui le accarezzava docilmente i capelli sulla nuca.
C’era un’insolita tenerezza nei gesti del suo
gemello, misteriosa pure per Bill – non riuscì
proprio a spiegarsela. Il loro legame era davvero tanto forte ed
intenso, tanto da cambiarlo in quel modo?
Lentamente il cantante posò lo sguardo su Dylan, il quale
dopo qualche secondo distolse gli occhi da quelle effusioni romantiche
da film e gli prese un bicchiere di caffè dalle mani,
offrendogli in cambio i vestiti puliti di Grace. Poi tornò
in silenzio da dove era venuto, portandoselo alle labbra.
***
«La
verità? Okay», sospirò. «Il
mio vero nome è Grace Schneider, ho venticinque anni e sono
un’investigatrice privata con tanto di porto
d’armi. Il motivo per cui ho iniziato a starti dietro
è perché mi pagavano per pedinarti e controllare
tutto ciò che facevi, per poi riferire ogni cosa alla
persona che appunto mi aveva dato questo incarico. Ti ho nascosto la
mia vera identità solo per continuare a fare ciò
che facevo e perché la mia politica lavorativa consiste nel
non far capire alla persona coinvolta nel caso ciò che
realmente sono. Purtroppo, pian piano sono andata un po’
oltre a ciò che mi veniva chiesto, siamo diventati amici
e… insomma, il resto lo sai».
Ora che gli aveva confessato tutto – o quasi – si
sentiva più leggera, ma non per questo meno in colpa.
«E ieri sera… Stavi lavorando con la
polizia?», le domandò, con le sopracciglia
inarcate.
«Sì, ero sotto copertura. Un mio ottimo
informatore ha chiamato la polizia, avvisandoli che ci sarebbe stata
una specie di… riunione fra gang con come tema del giorno la
cocaina e altre droghe che avrebbero iniziato a girare in modo ancora
più consistente fra le strade di Los Angeles, e questo ha
chiesto la mia presenza. Pensa se non l’avesse fatto,
chissà come sarebbe andata».
«Già…».
Tom abbassò lo sguardo, meditabondo. Poi si girò
sul fianco, un po’ dolorante, e in quel modo le diede le
spalle.
«Un’altra cosa. Chi è che ti pagava per
sapere in tempo reale ciò che facevo? E che cosa faceva poi,
sapendolo?».
«Io… non potrei dirtelo. Sai, il segreto
professionale…».
«Grace», sibilò e il suono di quel nome
ebbe ancora uno strano effetto su di lui: doveva ancora abituarsi.
Lei sospirò. «L’hai
conosciuta».
«Che…?». Improvvisamente si
ricordò del numero di cellulare che Grace gli aveva dato
durante il periodo natalizio. «Quella ragazzina? Come si
chiamava, Molly? Era lei che ti pagava?».
«È milionaria», rispose stringendosi
nelle spalle, anche se lui non poteva vederla, girato. «E
tu… tu sei il suo amore platonico. Ha sofferto molto, quando
ha saputo che io e te avevamo… Comunque le informazioni che
riceveva da me se le teneva per sé, te lo posso assicurare.
Era solo un modo per sentirti più…
vicino».
Tom chiuse gli occhi, accumulando dentro di sé tutte quelle
nuove verità che gli erano sempre state nascoste e le nuove
domande che si stavano accavallando nella sua mente.
«Non dirmi che anche il furto del mio cellulare
c’entra con te…», mormorò.
Ma Grace non lo accontentò. «È molto
probabile. È… è anche per questo che
io ti ho detto quelle cose, ieri pomeriggio. Non volevo che tu corressi
altri pericoli per colpa mia, non l’avrei mai sopportato se
ti fosse successo qualcosa. Non volevo che tu entrassi a far parte di
questo mio mondo fatto di… violenza e tu non sai
cos’altro. Mi dispiace…».
Il chitarrista sbattè gli occhi, incredulo.
«Raccontami in che cosa ti sei immischiata. È
qualcosa di grosso e pericoloso, me lo sento».
«Ascolta, Tom, io… noi… sarebbe davvero
meglio per entrambi se non ci vedessimo più, fino alla fine
di questa storia. Più avanti, magari…».
«Lo stai facendo di nuovo, Helen».
Non si era sbagliato, aveva pronunciato il suo nome di copertura con
consapevolezza e con rabbia, certo di tirarle un colpo basso. Grace
infatti chinò il capo e pensò che le avrebbe
rinfacciato per sempre tutte le menzogne che gli aveva sciorinato, o
quasi.
«Mi stai ripetendo con parole diverse ciò che mi
hai detto ieri pomeriggio e io non voglio più sentire tutte
queste stronzate. Ho bisogno di stare solo, adesso».
Grace annuì e si alzò, lo sguardo basso.
«Tom…».
«Per favore»,
la pregò, interrompendola.
«Mi dispiace tanto», concluse comunque ed
uscì dalla sua stanza.
In corridoio incontrò subito Bill, con un bicchiere di
caffè in una mano e una busta di plastica
nell’altra. Sembrava teso, preoccupato, e Grace gli chiese
che cos’altro fosse successo. Il cantante le
spiegò tutto e il peso che le era crollato addosso dopo la
conversazione con Tom aumentò di alcune tonnellate pensando
a come doveva essersi sentito Dylan. Non faceva altro che farlo
soffrire.
«Quindi il tuo caffè se l’è
preso lui», concluse Bill, mordendosi il labbro inferiore.
Grace gli sorrise amaramente e, dopo aver preso i suoi vestiti, si
voltò.
Purtroppo non si
è preso solo quello.
«Vai a casa?», le domandò.
«Sì, ho bisogno di dormire. E di
riflettere».
***
Seduta al tavolo della
cucina con una tazza di tè tra le mani, osservava le
lancette dell’orologio appeso al muro spostarsi
inesorabilmente avanti, scandendo il tempo che passava.
Quando sarebbe arrivata Grace? Iniziava a dubitare che venisse, ma lo
sperava con tutto il cuore.
Le erano serviti anni per superare quel dolore, causato prima dalla
separazione con Mitch, poi dalla decisione di sua figlia di andare a
vivere con lui e per finire dall’assassinio dello stesso
Mitch, l’uomo che aveva amato e che tutt’ora amava.
Non voleva che anche questa occasione di riallacciare i rapporti con
sua figlia andasse sprecata.
Ma forse, chissà… Il suo mondo era imprevedibile,
pieno di insidie e di pericoli. Quel mondo da cui aveva cercato di
fuggire, preoccupata per la vita della sua famiglia. Era quello il
motivo per cui, a malincuore, aveva deciso di separarsi da Mitch: per
proteggere la propria famiglia. Ma non ci era riuscita nemmeno un
po’: Mitch era stato ucciso, Grace aveva deciso di lasciarsi
tutto alle spalle e di rinunciare a molte cose per vivere quella vita
pericolosa e arrivare dunque a scoprire il nome di chi aveva ammazzato
il suo caro papà, e lei… lei non sapeva ancora se
era tornata, dopo quegli orribili anni trascorsi sotto
l’influenza degli psicofarmaci.
Persa nei suoi ragionamenti, aveva continuato a guardare le lancette
dell’orologio muoversi senza vederle realmente, con il
tè fra le mani che intanto si era raffreddato.
Ad un certo punto sentì il trillo del campanello, corse
all’ingresso e senza nemmeno guardare chi fosse
aprì la porta.
«Grace!», esclamò con un sorriso radioso
sul viso, che però si spense presto.
***
Erano poche a Los
Angeles le autopattuglie utilizzate dalla polizia stradale, ma Dylan
aveva lottato duramente per ottenerne una ed era davvero fiero della
sua cara vecchia Ford Crown Victoria. D’altronde, in quasi
tutti i film polizieschi gli inseguimenti più mozzafiato
avvenivano con le auto, non con le moto, e per questo si sentiva un
superpoliziotto ogni volta che si trovava con le mani sul volante.
La radio che Dylan si portava sempre dietro, sintonizzata sulle
chiamate effettuate al 911, si mise a gracchiare, richiamando la sua
attenzione.
Il suo partner, Oswin, la tirò fuori dal portaoggetti e
sbuffò: «Non ci credo, vai ancora in giro con
quest’affare!».
Ma Dylan lo azzittì con un gesto della mano, infastidito, ed
ascoltò con attenzione.
Una voce di donna, una delle tante centraliniste, spiegò il
caso e Dylan dovette stringere con più forza il volante
quando sentì quel nome.
«Come ha detto che si chiama la donna?»,
domandò al proprio compagno, sperando di aver sentito male,
anche se aveva iniziato a sudare freddo e sentiva il battito cardiaco
aumentare secondo dopo secondo mentre accendeva le sirene e zigzagava
fra le automobili col piede sull’acceleratore.
Oswin aggrottò le sopracciglia allo strano comportamento del
partner. «Melanie Moore. La conosci?».
«È la madre di Grace», disse fra i
denti, accelerando ancora un po’.
Arrivarono nel luogo in cui avevano trovato il corpo quasi senza vita
della signora Moore, un vicolo buio e lercio nella parte più
degradata della periferia nell’Eastside di Los Angeles, e
scendendo dall’autopattuglia sentirono le sirene
dell’ambulanza che si allontanava diretta a tutta
velocità verso l’ospedale più vicino.
Quasi certamente sarebbe stato lo stesso in cui era stato ricoverato
Tom Kaulitz e pensò di chiamare alla reception per mandare
qualcuno ad avvisare Grace, probabilmente ancora lì, ma poi
Oswin attirò la sua attenzione parlando con il capo di una
delle squadre della omicidi che aveva risposto alla chiamata e che
quindi da quel momento in poi si sarebbe occupato del caso. Era un suo
amico di vecchia data, non sarebbe stato difficile farsi dare qualche
dettaglio in più.
«Che bel posticino!», ironizzò Oswin.
«Ma che…? E voi che ci fate qui?!».
L’uomo sorrise e passò sotto il nastro giallo
piazzato dalla scientifica, già al lavoro sulla scena, per
salutarli con una stretta di mano.
Dylan notò una striscia di sangue su un cassonetto verde
coperto da sporcizia e graffiti e solo all’idea che la madre
di Grace si fosse accasciata proprio lì qualcosa di pensante
gli si schiantò sulla bocca dello stomaco.
«Dylan non ha ancora imparato a non ascoltare le chiamate al
911», spiegò Oswin, ridacchiando. Poi
tornò serio e chiese: «Che è
successo?». Il capo della squadra gli spiegò
brevemente che un passante aveva trovato la donna e dato subito
l’allarme.
Si sporse oltre il nastro e gli indicò un punto dove si
trovavano ben due agenti della scientifica per fare dei rilevamenti.
«Ha detto che era lì, che si teneva aggrappata al
bordo del cassonetto, in completo intimo, e che aveva così
tanti lividi sul corpo che appena l’ha vista non è
riuscito a capire di che colore fosse la sua carnagione. Ha aggiunto
inoltre che aveva il fiatone, come se avesse corso qualche chilometro
prima di giungere qui. In effetti mi sembra improbabile che
l’abbiano scaricata proprio in questo punto».
Oswin fece un altro mugugno d’assenso, massaggiandosi il
mento. «Brutta storia. Dylan, tu che ne dici? Sei fin troppo
silenzioso, vuol dire che hai già un’idea in
testa».
Dylan socchiuse gli occhi e negò l’affermazione
del partner con un cenno del capo. Mentì, perché
ce l’aveva eccome un’idea in testa: quel pomeriggio
Grace sarebbe dovuta andare a trovare sua madre e probabilmente, troppo
presa da ciò che era successo a Tom, se n’era
dimenticata. Come se non bastasse, avvertiva un’orribile
sensazione bruciargli lo stomaco al solo pensiero che al 99,9 per cento
l’aggressione a sua madre c’entrasse con il caso
che si trascinava dietro dalla morte di suo padre e che in
quell’ultimo periodo aveva ripreso in mano con ancora
più convinzione, decisa a risolverlo ad ogni costo.
«Amico, va tutto bene?», gli chiese Oswin, non del
tutto convinto. «Hai detto che conosci la vittima, non hai
idea se avesse dei nemici o problemi di qualche…?».
«No», rispose bruscamente, portandosi il pollice e
l’indice sulle palpebre pesanti. «So solo che devo
andare da Grace».
«Certo, capisco. Io sto qui, caso mai mi farò dare
uno strappo da qualcuno. Ti chiamo appena c’è
qualche novità, okay?».
Dylan annuì, ringraziandolo, poi montò
sull’autopattuglia e la chiamò al cellulare.
Mentre aspettava che rispondesse tamburellò le dita contro
il volante, sbuffando. Non gli andava di sentirla, ma presto avrebbe
avuto bisogno di lui e voleva esserci, non gli importava quanto stava
patendo per lei, per il suo amore non corrisposto, per la sua gelosia
nei confronti di quel Kaulitz.
«Pronto?», rispose dopo
un’eternità, facendolo sospirare.
«Ehi, Grace, sono io. Stavi dormendo?».
«Sì, ero appena riuscita a…».
«Allora sei a casa?».
«Sì, ma…».
«Sto arrivando, non ti muovere da lì»,
disse e chiuse la chiamata, facendo pressione sul pedale
dell’acceleratore.
***
Grace si
sollevò lentamente sul letto, ancora col cellulare stretto
in una mano, e si portò l’altra sulla testa che
iniziava a girarle furiosamente.
Spostò il viso per non vedere la luce del sole del
pomeriggio riflettere sul pavimento lucido ed accecarla, poi si
alzò in piedi e si infilò una maglietta larga dei
Coldplay che aveva da quando aveva sedici anni e che usava di rado e
solo in casa.
Camminò lentamente verso il bagno, sentendo la testa pesarle
due quintali, senza essere certa di riuscire a tenerla dritta sul
collo. Si sciacquò il viso e provò a mettere
qualcosa sotto i denti, ma una leggera nausea le fece abbandonare il
tentativo. Così si prese semplicemente
un’aspirina, poi si appoggiò al tavolo in attesa
dell’arrivo di Dylan.
Dal suo tono di voce aveva capito che doveva essere successo qualcosa
di grave, ma non riuscì a fare ipotesi, forse a causa del
mal di testa lancinante, forse per la mancanza di riposo e di zuccheri.
Si costrinse ad aspettarlo e basta, perché provare a
concentrarsi e a pensare la faceva stare soltanto peggio.
Quando arrivò, il suo amico suonò il campanello e
il trillo le perforò il cranio, facendola lamentare. Si
trascinò comunque alla porta e l’aprì,
strizzando gli occhi per non vederlo in maniera sfocata.
«Va tutto bene?», le domandò invece di
salutarla, inarcando le sopracciglia.
«Non sono molto in forma, se devo essere sincera»,
rispose con poca voce e si spostò per farlo entrare.
«Che cos’è successo?».
Dylan non si mosse dall’uscio della porta e la
guardò negli occhi con una serietà da mettere i
brividi, che Grace riconobbe come quella che tutti i poliziotti usavano
nel loro lavoro quando accadeva qualcosa di brutto e dovevano informare
i parenti delle vittime.
«Mi sto preoccupando», sussurrò e
sentì un’impellente bisogno di piangere, ma si
trattenne. «Dylan…».
«Si tratta di tua madre», si decise a parlare e per
l’investigatrice fu un colpo tremendo, anche se non lo
percepì immediatamente. Prima vennero la confusione e
l’incredulità, che la portarono a dire:
«Mia madre? Mia madre, certo! Avrei dovuto vederla oggi
pomeriggio, ma mi sono completamente dimenticata!».
Purtroppo, si rese conto che persino alle sue orecchie quelle parole
erano suonate stonate, come se in fondo sapesse che non erano quelle
giuste da dire.
«Grace, tua madre è stata trovata in un vicolo
nella periferia dell’Eastside. Da quello che
so…».
Dylan, impassibile, continuò a parlare seguendo un filo
tutto suo, per non incappare in frasi e parole che avrebbero mandato a
monte tutta la sua copertura: doveva dimostrarsi forte, padrone della
situazione, e non lasciarsi influenzare dai suoi sentimenti. Sapeva,
però, che i suoi occhi non facevano lo stesso e mostravano
tutto ciò che provava.
Quando finì, trasse un lungo respiro e posò le
mani sulle spalle della ragazza che amava, immobile come una statua.
Fece scontrare delicatamente le loro fronti e sussurrò:
«Mi dispiace tanto. Vestiti, ti porto da lei».
***
«Ragazzi!»,
esclamò Tom sorpreso, alzando gli occhi dal PC portatile e
vedendo Georg e Gustav entrare nella sua stanza seguiti da un Bill
sorridente, tornato quasi se stesso. «Che ci fate voi
qui?».
«Siamo venuti ad accertarci che stessi bene!»,
disse Georg, dandogli un pugnetto sull’avambraccio.
«Lo dici sempre anche tu che sei il componente più
importante della band e…».
Tom abbassò lo sguardo e sorrise quasi imbarazzato.
«Oh, come siete carini».
Poi scoppiò a ridere, dimenticandosi per un attimo di Grace,
di tutto quello che era successo fra loro e del peso che si sentiva sul
cuore.
In effetti era da quando se n’era andata che si sentiva
tremendamente solo e vuoto, fatta eccezione per quel peso che gli
gravava all’altezza del petto, e non aveva fatto altro che
pensare alla loro conversazione e a quello che aveva scoperto sul suo
conto. Aveva proprio bisogno di un po’ di distrazione e Georg
e Gustav, col loro arrivo improvviso, gli avevano portato una ventata
di ossigeno.
«David vi ha già chiamati?», gli
domandò, giocando con la freccetta del touchpad sullo
schermo.
«Sì, ci ha già detto che il video si
registrerà solo e soltanto quando tu sarai pronto e tutta la
promozione dell’album è stata rimandata a data da
definirsi», disse Gustav.
E Georg aggiunse, chinandosi leggermente verso di lui: «Vedi
di metterci un sacco di tempo
a rimetterti in sesto: non mi dispiacerebbe se allungassimo ancora un
po’ questa pausa».
Tom ridacchiò. «Vedrò cosa posso
fare».
«Ma cos’è successo veramente in quel
locale? Ne hanno parlato anche al telegiornale e non so come sei su
tutte le riviste di gossip».
«Sì, ho visto un paio di video su Youtube e ho
letto qualche articolo. Direi che le versioni raccontate e
ciò che è successo veramente più o
meno coincidono», raccontò, tornando a posare gli
occhi sulle pagine che aveva aperto sul PC portatile.
«C’è stata una sparatoria fra due gang
che trafficavano droga, eccetera… C’è
solo una cosa che non quadra».
«Quale?», domandò Bill, avvicinandosi
per vedere.
«Non viene mai citata Grace. È come se
lei… non ci fosse mai stata».
«Grace? Chi è?», domandò
Gustav.
Tom socchiuse gli occhi, morsicandosi la lingua: il suo pensiero era
tornato a lei e non se n’era nemmeno accorto.
«È la… ragazza che ci ha protetti
all’interno del locale, nel bel mezzo della
sparatoria», tagliò corto. Non aveva voglia di
raccontargli tutta la storia, non in quel momento.
«Sapete, Tom è innamorato di lei».
Tutti, compreso il diretto interessato, si voltarono ad osservare Bill,
che aveva pronunciato quella frase come se fosse stata la cosa
più naturale del mondo. Lui sorrise, per nulla in
soggezione; non gli passò nemmeno per l’anticamera
del cervello di aver detto una cazzata, perché era vero come
era vero che lui era Bill Kaulitz.
***
La nausea, pur non avendo nulla
nello stomaco, aumentò
notevolmente quando vide sua madre addormentata in quella stanza nel
reparto di terapia intensiva.
Aveva un occhio gonfio più dell’altro, contornato
da un’ombra violacea che si espandeva anche sullo zigomo e su
gran parte della fronte; le labbra erano tumefatte, di un rosso
così vivo che sembrava avessero ancora del sangue sopra; il
naso rotto era coperto dalla mascherina dell’ossigeno. Le
bastò solo vederle il viso, non volle nemmeno immaginarsi
come avesse il resto del corpo, nascosto sotto le lenzuola chiare.
Dylan provò ad allontanarla da lì, da quella
visione a dir poco raccapricciante, ma la ragazza si
divincolò e corse in bagno.
In ginocchio davanti al cesso, ficcò la testa nella tazza
del water, squassata da conati asciutti e da singhiozzi che le
toglievano il respiro.
Il poliziotto la raggiunse senza curarsi del fatto che quello fosse il
bagno delle donne e Grace lo cacciò via, urlandogli di stare
indietro e di non toccarla, così rimase alle sue spalle,
appoggiato ad uno dei due lavandini.
Quando la detective tornò in sé, dopo aver
gettato la faccia sotto il getto del rubinetto, si lasciò
condurre mestamente lungo il corridoio, con una sua mano sulla schiena.
Dylan la accompagnò a sedersi su una sedia posta nei pressi
della camera della madre e si accovacciò di fronte a lei,
osservandola in viso con un misto di compassione e dolore nella propria
espressione.
Le accarezzò i capelli con una mano e con l’altra
le strinse una mano, prima di sussurrare: «Lo so che non
è un bel momento, ma devo chiederti se tu pensi che siano
stati gli stessi che hanno rubato il cellulare di Tom e che ti stanno
minacciando da mesi in questo modo perché non vogliono che
tu continui ad indagare al caso di tuo padre».
«Dylan, io…», singhiozzò,
senza lacrime e senza più ossigeno nei polmoni, guardandosi
a destra e a sinistra come se stesse cercando una via di fuga.
«Non riflettere, segui l’istinto».
«Sì. Sì! Sì,
loro!», strillò e si chinò in avanti
coi gomiti puntati nelle ginocchia e le mani a nasconderle il viso.
«Okay», sussurrò Dylan, dandole
un’altra carezza sulla testa. «Ti porto un
bicchiere d’acqua. O vuoi qualcos’altro? Anche
qualcosa da mangiare, magari?».
Grace non rispose, iniziò a dondolarsi avanti e indietro e
continuò quel pianto silenzioso e senza lacrime.
Dylan rimase a guardarla e si disse che con qualcuno vicino non sarebbe
mai riuscita a sfogarsi: era fatta così, la stoica Grace. La
sua
Grace. Inoltre, non piangeva da quando era morto suo padre e immaginava
quanto fosse difficile per lei; probabilmente stava rivivendo anche la
sua morte e stava crollando sotto il peso di tutto quel dolore.
Non voleva però che crollasse da sola. E se non era lui
l’uomo con cui riuscisse a farlo senza sentirsi piccola e
debole, chi altro, se non Tom Kaulitz? Gli costava molto ammetterlo, ma
forse lui era davvero la persona giusta per lei e doveva farsi da
parte, se voleva la sua felicità, per quanto fosse difficile
e doloroso.
Si avvicinò alla sua camera e, nonostante avesse notato che
aveva compagnia, bussò con decisione alla porta.
L’aprì e vedendolo tutti smisero di parlare quella
lingua strana, quasi incomprensibile, che però lo
affascinava quando era Grace a parlarla. Forse era la divisa che
indossava ad aver provocato quel silenzio surreale, forse la sua
espressione stravolta.
«Ciao Dylan», lo salutò Bill stupito.
«Tutto okay?».
«Devo parlare con lui», scandì bene le
parole, indicando Tom con un cenno del capo.
«Ahm… io non penso che sia una buona
idea», balbettò.
«Non voglio fargli del male, Bill», lo
rassicurò, per poi smentirsi: «Anche se vorrei
tanto».
Tom gli rivolse un’occhiata sprezzante e allo stesso tempo
disse qualcosa al fratello e agli amici. Anche se non convinti, i tre
uscirono dalla stanza, lasciandoli soli.
Dylan gli rivolse un sorrisetto di ringraziamento e pensò
lui stesso a chiudere la porta. Si avvicinò alla sedia
accanto al letto del chitarrista e vi sedette, stringendo le braccia al
petto. Si fissarono per una ventina di secondi, senza dire una parola,
e Dylan apprezzò il fatto che non avesse mai abbassato lo
sguardo, anche se nei suoi occhi continuava a brillare quella scintilla
di sfida.
Fu Tom a rompere il silenzio, chiedendogli spazientito: «Che
cosa vuoi?».
«Mettiamo in chiaro subito una cosa: io ti
detesto», esordì Dylan. «Per svariati
motivi, ma il primo è sicuramente perché tu mi
hai rubato Grace. Io la amo. Non so cosa tu provi per lei, ma prova
soltanto a farla soffrire e io ti rovino».
«Le tue minacce non servono a nulla, non mi fai paura. E
quello che c’è tra me e Grace non ti
interessa».
Il poliziotto ci mise qualche secondo per elaborare, perché
Tom aveva davvero una pessima cadenza, oltre che una pessima pronuncia.
Probabilmente, abituato a parlare in modo così veloce nella
sua lingua madre, non si rendeva conto che andando alla stessa
velocità in inglese si mangiava le sillabe, se non intere
congiunzioni. Ora capiva perché Grace avesse deciso di
parlargli solo in tedesco: dava i nervi.
«Tu sì che sei un ragazzo con le palle»,
lo sbeffeggiò, sventolando una mano. «Non sono
venuto qui per parlare di questo, comunque. Sono venuto qui per lei,
perché sta male e penso che abbia bisogno di te».
Si fissarono intensamente negli occhi ancora una volta e Dylan nel
frattempo buttò giù il boccone amaro che si era
costretto ad ingoiare dicendo quelle parole, chiedendo aiuto a Tom.
Allo stesso tempo, però, nei suoi occhi notò una
luce diversa, una che non aveva mai visto prima, e percepì
sulla sua pelle il sentimento che lo legava a Grace.
Che lui lo volesse o no, quei due si erano scelti.
Da lontano, la vide seduta su una sedia del corridoio, con i gomiti
puntati sulle ginocchia e le mani a coprirle il viso, mentre si
dondolava leggermente avanti e indietro. Non l’aveva mai
vista così, sembrava davvero distrutta ed indifesa.
Si dimenticò di tutto, non gliene importò
più niente delle bugie, delle mezze
verità… Lei era sua,
Helen, Grace o chissene-frega-del-nome, e se lei aveva bisogno di lui,
lui ci si sarebbe stato, sempre. Era così che ci si sentiva
quando si amava una persona? Era pronto a spaccare il mondo per lei, ad
uccidere per lei, a morire per lei; avrebbe fatto di tutto, pur di
vederla di nuovo sorridente e felice.
«Bill, ti vuoi muovere?! Non sei in auto, non ci sono limiti
di velocità!», inveì contro suo
fratello, che spingeva la sedia a rotelle su cui era seduto.
«Tom, ma…!», provò a
difendersi, ma lui lo interruppe bruscamente e gli fece segno di
allontanarsi.
«Lascia, faccio io!».
Portò le mani sulle ruote ed iniziò a spingere
con tutte le forze che aveva per arrivare più in fretta
possibile da Grace, in fondo al corridoio. Sentì dolore
vicino all’ascella, dove l’aveva colpito il
proiettile, ma non se ne curò grazie alla forza
dell’amore che gli circolava come adrenalina nelle vene.
Quando le arrivò accanto bloccò le ruote e la
guardò con un leggero fiatone, aspettando che sollevasse la
testa per guardarla negli occhi. Grace lo fece e il cuore di Tom
mancò un battito, leggendo sul suo volto tutta la sofferenza
che stava provando.
Senza nemmeno pensarci le prese la nuca con la mano e le fece posare
delicatamente la fronte sulla sua spalla, iniziando ad accarezzarle i
capelli su cui posava ogni tanto dei baci leggeri.
Con Tom che la teneva stretta, in poco tempo Grace riuscì a
lasciarsi andare e pianse tutte le lacrime che non aveva mai versato in
quegli anni.
Dylan rimase un po’ ad osservarli nascosto dietro
l’angolo, poi sospirò appoggiandosi con le spalle
alla parete. In quel momento il cellulare iniziò a suonargli
nella tasca e dovette portarselo all’orecchio, anche se ne
aveva fin sopra i capelli del suo lavoro e l’unica cosa che
voleva era andare a casa per farsi una dormita decente.
«Oswin, sei tu?», domandò stancamente.
«Il tuo angelo custode a rapporto. Come sta Grace?».
Dylan gettò uno sguardo a Tom e Grace, ancora abbracciati, e
sospirò. «Dimmi che hai delle novità
per me».
«Un paio. Siamo andati a casa della vittima ed era come se
dentro si fosse scatenato un uragano: completamente
sottosopra».
«Stai dicendo che qualcuno si è introdotto in casa
sua e l’ha messa a soqquadro?», domandò,
decisamente più attento.
«Non solo. Probabilmente è qui che è
avvenuta l’aggressione: abbiamo trovato del sangue in
salotto».
«Sai già se hanno preso qualcosa in
particolare?».
«Negativo. È una storia complicata,
Dylan… Hai qualche idea?».
«Forse, ma… Uff, è complicata persino
l’idea. È tutto?».
«Sì. Cioè, per questo caso
sì. Poco fa ho chiamato un mio amico della scientifica che
lavora sulla sparatoria all’Halo
e mi ha detto che hanno rinvenuto un cellulare addosso al ragazzo che
ha sorpreso i ragazzi dell’antidroga e ha sparato a Tom
Kaulitz».
«Sì, e allora?».
«Aspetta, fammi finire!», ridacchiò.
«Sono stati molto sorpresi, quando hanno rinvenuto
all’interno di esso una microspia».
«Una microspia?».
«Già. E sai qual è la cosa
più sorprendente in assoluto? Quel cellulare apparteneva
allo stesso Tom Kaulitz».
Dylan strabuzzò gli occhi e si portò una mano
alla fronte, che aveva iniziato a dolergli per la confusione.
Il cellulare che era stato rubato a Tom? Perché ce
l’aveva addosso quel brutto ceffo? Che quelli che
minacciavano Grace, la sua restante famiglia e i suoi amici, tra cui
quei marines, c’entrassero anche in quella sparatoria? Non ci
stava capendo più niente, tutto era
così… confuso ed intricato!
«Dylan? Ehi, amico, ci sei?».
«Sì, Oswin», mormorò.
«Grazie per le informazioni, ora… ora devo andare.
Ci vediamo domani». Riappese.
Gettò un’ultima occhiata verso Grace e Tom e col
suo perfetto tempismo li vide mentre si baciavano.
«Oh, merda», biascicò e quando si
voltò trasalì trovandosi accanto Bill. Non
l’aveva nemmeno sentito arrivare.
Il cantante lo guardò e gli sorrise teneramente, posandogli
una mano sulla spalla. «Mi dispiace, sul serio».
Dylan scrollò il capo, amareggiato. Poi sollevò
il viso e gli scoccò un sorriso. «Andiamo a berci
qualcosa?».
«Ecco, io in realtà…»,
balbettò, accennando a Tom e Grace, ma il poliziotto
ispanico lo interruppe, dandogli un pugnetto sulla spalla.
«Ne avranno ancora per molto, non si accorgeranno nemmeno
della tua assenza».
Così Bill si lasciò convincere.
***
«Vai
a casa, hai bisogno di riposare», le disse Tom, con tono
premuroso, accarezzandole il viso.
«No, voglio stare qui. Nel caso si svegli», rispose
ed indicò la porta chiusa di fronte a loro, dietro la quale
riposava sua madre.
«Okay, ma vieni in camera mia. Diciamo ad
un’infermiera di avvisarti subito, se si dovesse
svegliare».
Grace annuì brevemente, con gli occhi ancora un
po’ arrossati pieni di gratitudine. Si alzò in
piedi e prese i manici della sedia a rotelle di Tom, lo girò
e spinse la carrozzina lungo il corridoio fino a quando non
incontrarono un’infermiera.
Dopo essersi accordati con lei, proseguirono fino alla camera del
chitarrista. Durante il percorso Tom aveva gettato la testa
all’indietro ed aveva posato la nuca contro il ventre di
Grace, che l’aveva guardato negli occhi ricambiando il
sorriso. Era stato uno scambio di sguardi e sorrisi piuttosto intenso,
che le aveva fatto tremare piacevolmente il cuore e aveva fatto
schiudere i bozzoli delle farfalle che aveva nello stomaco.
Una volta in camera aiutò Tom ad alzarsi dalla sedia a
rotelle che gli avevano costretto ad usare se si doveva spostare, per
non affaticarsi troppo, ma lui si beffeggiò di lei e cadde
seduto sul letto trascinandosela addosso, con le mani sul suo sedere.
«Tu sei un caso perso», gli disse e lui sorrise
furbescamente, avvicinando il proprio viso a quello di Grace per
sfiorarle le labbra in un bacio appena accennato.
«Curami, se ne sei in grado», sussurrò
suadente, continuando a stuzzicarle le labbra con quei mezzi baci.
«E chi ha detto che voglio curarti?».
Portò le mani sulla sua nuca e lo baciò con
passione, dimenticandosi per un attimo di sua madre e
dell’angoscia che l’aveva assalita qualche ora
prima. Con Tom riusciva quasi sempre ad evadere dal suo mondo ed era
una vera fortuna che ci riuscisse, perché a volte aveva come
la sensazione che la soffocasse e la stritolasse.
Lo costrinse a stendersi e Tom le fece un po’ di spazio, in
modo tale che si potesse accucciare al suo fianco. Adagiò la
testa sopra la sua spalla e con la mano gli accarezzò il
petto, soprappensiero, mentre lo osservava in viso di sottecchi. Nei
suoi occhi brillava il riflesso bluastro della piccola televisione
appesa al muro che aveva acceso per passare un po’ il tempo e
come al solito Grace pensò che il suo viso fosse perfetto,
ad eccezione di quell’accenno di barba che iniziava a
spuntargli sulle guance e sul mento. Provò ad immaginarselo
con la barba, nonostante lei odiasse gli uomini con la barba, e si rese
conto che gli avrebbe dato qualche anno in più, tanto da
raggiungerla, ma lo preferiva decisamente rasato.
Senza un motivo ben preciso sospirò e Tom si
voltò per poterla guardare negli occhi.
«Che c’è?», le
domandò, accarezzandole la mano ancora sul suo petto.
«Non sono convinta di quello che stiamo facendo»,
rispose istintivamente, lasciando che tutto venisse a galla da
sé, evitando di rifletterci su.
«Perché, che stiamo facendo?».
Grace sbuffò, piantando gli occhi sul soffitto.
«Lo sai… È una follia, te ne rendi
conto? In questo momento rischieresti soltanto di cacciarti nei guai e
io non voglio che ti succeda niente per colpa mia».
Tom le posò una mano sulla guancia e le voltò
delicatamente il viso verso il suo.
«E non credi che io sia già troppo
coinvolto?», disse a bassa voce, suadente.
«In che cosa?», domandò lei, arrossendo
leggermente.
«Sia nelle tue indagini che con te».
Grace lo fissò intensamente negli occhi e si
lasciò baciare, inerme e allo stesso tempo decisamente
coinvolta.
Poi si appoggiò di nuovo alla sua spalla e gli avvolse un
braccio intorno alla vita, chiudendo gli occhi e lasciandosi
acchiappare dal sonno che non tardò ad arrivare.
_______________________________
Il
mistero si infittisce! *^* Il caso di Grace ha portato sventura ancora
una volta, coinvolgendo sua madre!
Chi sono gli aggressori? Gli stessi che hanno rubato il cellulare di
Tom e che hanno provato in ogni modo a far desistere Grace nell'andare
avanti ad indagare sul caso di suo padre? C'entrano anche con la
sparatoria all'Halo? A quanto pare sì, visto che
è rispuntato il cellulare di Tom... E cosa cercavano a casa
di Melanie Moore? Cosa farà Grace adesso? Ahahah, spero che
tutte queste domande vi incuriosiscano e che, soprattutto, mi diciate
le vostre ipotesi in una recensione (anche per quanto riguarda
l'aspetto sentimentale di tutta la vicenda, che è sempre
più intricato)! :)
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, chi ha
messo la FF tra le preferite/seguite/ricordate e chi legge soltanto ;)
A lunedì prossimo! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 - Parte 1 ***
Capitolo 11 –
Parte 1
Si svegliò
quasi di soprassalto, in preda ad un incubo, e si guardò
intorno alla ricerca di qualcuno. Non sapeva nemmeno di chi, se ne
ricordò soltanto quando gli tornarono in mente, appunto,
sprazzi della serata precedente.
Scese dal letto e improvvisamente tutta la stanza iniziò a
girargli intorno. Allora tornò a sedersi.
«’kay, Bill… Ce la puoi fare».
Riprovò e quella volta, seppure a tentoni, riuscì
a muovere qualche passo nella stanza. Raggiunse la porta e da
lì in avanti fu più facile: gli bastava
strisciare una spalla contro la parete per andare più o meno
dritto.
Raggiunse il soppalco e si aggrappò saldamente alla
ringhiera per poter guardare il salotto sotto di sé. Proprio
lì vide Dylan, che stava per aprire una delle porte finestre
ed uscire nel giardino sul retro.
«Scappi?», disse e a causa dell’alcool e
del sonno la sua voce si era indurita ed abbassata di parecchie ottave,
tanto da somigliare in maniera impressionante a quella di suo fratello
Tom.
Dylan si girò e sollevò la testa per poterlo
guardare, con le labbra dischiuse dalla sorpresa.
Lentamente un sorrisino si fece spazio fra le sue labbra e rispose:
«Devo andare al lavoro. Tu, come stai?».
Bill assottigliò le labbra e ricambiò il sorriso,
nonostante la testa gli girasse vorticosamente. «Sono stato
meglio».
«Avresti dovuto dirmelo che non reggi
l’alcool».
«Non sono io che non lo reggo, siete voi poliziotti che avete
nei geni qualcosa di strano: hai bevuto come una spugna e guardati,
stai benissimo!».
Dylan ridacchiò. «Ci si fa l’abitudine.
Ti ricordi tutto?».
«Ahm…». Bill socchiuse gli occhi per
fare mente locale e fu una pessima mossa, perché al buio il
suo equilibrio già precario a causa della sbronza divenne
nullo e rischiò di cadere giù come un sacco di
patate. Il poliziotto fece uno scatto all’interno della casa,
accorgendosene, ma Bill aprì subito gli occhi e fece in modo
di far tornare tutto alla normalità. O quasi.
«Non mi ricordo come sono arrivato a casa», rispose
alla fine, con la fronte imperlata di sudore.
«Ti ci ho portato io», rispose semplicemente Dylan.
«Ho fatto qualcosa di vergognoso che io non
ricordo?».
Il poliziotto ripensò la lunga chiacchierata che avevano
fatto in auto, entrambi sbronzi (anche se Bill lo era decisamente di
più). Quindi scosse il capo ed accennò un
sorriso.
«Nulla di grave. Ora devo proprio andare», disse e
si voltò.
«Dylan?».
«Dimmi».
«Non penso che riuscirò a scendere le scale da
solo».
«Oh, certo».
Si girò di nuovo ed andò a prenderlo.
***
Aveva sentito la
presenza dell’infermiera accanto a sé, nella
stanza buia di Tom, ancora prima che lei potesse posarle una mano sulla
spalla per svegliarla e dirle in un sussurro: «Signorina, ma
che ci fa sdraiata qui? Potrebbe far del male al paziente!».
Lei si era subito alzata, facendo piano per non svegliare il
chitarrista che dormiva ancora, e si era scusata. Solo dopo si era
ricordata di sua madre e una maschera di delusione le si era dipinta
sul volto.
«Quindi non è venuta per dirmi che mia madre si
è svegliata?», aveva chiesto.
L’infermiera aveva accennato un sorriso.
«Anche».
Dopodiché l’aveva accompagnata nella stanza di sua
madre, la quale immobile giaceva sul letto, ancora sotto sedativi e
frastornata, ma sveglia.
Appena incrociò il suo sguardo, Grace trasalì. E
anche sua madre, che strinse convulsamente il lenzuolo candido fra le
dita. L’investigatrice, accorgendosene, sentì il
peso di tutto ciò che le avevano fatto premerle sul cuore e
voltò il capo per sfuggire a tutta quella tristezza e a
quella paura. Si accorse così di Oswin, il quale le sorrise
lievemente.
«Buongiorno», la salutò sollevando una
mano, grande il doppio della sua.
Era un omaccione, un vero armadio, ma sapeva essere davvero dolce e
confortante, in certi brutti momenti.
«Ciao, Oswin. Come mai da queste parti?».
Aveva la voce che andava e veniva, che gracchiava come una vecchia
radio, a causa del sonno e dell’effetto che le aveva causato
la visione di sua madre ridotta in quello stato.
«Ho accompagnato un collega che deve parlare con tua madre.
Non volevo però che la vedesse prima di te: gli ho
consigliato di andarsi a prendere un caffè»,
rispose con voce pacata e carezzevole, rivolgendole un altro dei suoi
sorrisi dolci.
«Grazie, davvero. Ma credo che mi serviranno ancora un paio
di minuti».
Si sedette accanto a lui, su una seggiola del corridoio, prendendosi la
testa fra le mani.
«Non c’è problema. Piuttosto, hai visto
Dylan? È da ieri pomeriggio che non lo sento».
Grace lo guardò con la coda dell’occhio e un altro
peso si schiantò sopra il suo cuore.
«No, non l’ho visto», mormorò
e chiuse gli occhi per concentrarsi in lunghi respiri profondi, con
l’intento di rilassarsi. Purtroppo però il
pensiero che dopo l'arrivo di Tom si fosse comportata proprio come se
il suo migliore amico non esistesse non glielo permise.
Notò che nello stesso periodo di tempo, ossia da quel
pomeriggio, non aveva intravisto nemmeno Bill, ma non
collegò le due sparizioni; era solo una coincidenza che non
li avesse più visti entrambi proprio da quel momento in poi.
«Chissà che fine ha fatto»,
borbottò Oswin.
Nello stesso momento un’infermiera entrò nella
camera di sua madre e dopo aver controllato le dosi di medicinali che
doveva assumere per endovena uscì di nuovo.
«Signorina, lei è la figlia della signora Moore,
vero?», le chiese, fermandosi proprio di fronte a lei. Grace
annuì frettolosamente e l’infermiera sorrise,
aggiungendo: «Mi ha chiesto di farla entrare».
L’investigatrice si alzò, ringraziò
l’infermiera con un cenno del capo e si avvicinò
alla porta. Fremette, posando la mano sulla maniglia, ma poi si fece
coraggio ed entrò. Si chiuse la porta alle spalle,
appoggiandovisi, ed aspettò qualche secondo prima di alzare
lo sguardo su sua madre.
«Grace», sussurrò Melanie, con la voce
rotta dal pianto.
«Mamma», soffiò, sgranando gli occhi e
facendosi più vicina, cercando di non soffermarsi sui lividi
e le escoriazioni sul suo viso e sulle sue braccia.
«Vieni qui, tesoro».
Le posò una mano tremante sulla guancia e poi la fece
scivolare sulla nuca, l’attirò a sé e
le fece posare il viso nell’incavo fra il collo e la spalla.
La strinse forte, più forte che poté, e col naso
fra i suoi capelli corti e scompigliati biascicò
istericamente: «Oh tesoro, tesoro smettila. Lascia perdere
tutto, tutto! Lo faranno, mi uccideranno, ed uccideranno anche te e
tutti quelli che si metteranno in mezzo a questa storia! Lascia
perdere, ti supplico, lascia perdere!».
Grace si liberò dalla sua stretta, sconvolta, e
guardò sua madre in preda al panico, che stringeva il
lenzuolo candido fra le dita e si mordeva le labbra a sangue, muovendo
in continuazione le palle degli occhi. Poco dopo iniziò ad
urlare ancora più forte frasi sconnesse, intrise di paura, e
le convulsioni presero il sopravvento su di lei.
Un medico e un’infermiera intervennero immediatamente,
dandole un’altra pesante dose di sedativi, che la fece
crollare in un sonno senza incubi.
Grace rimase ancora un po’ al suo fianco a guardarla dormire,
poi indietreggiò ed uscì dalla camera per ultima.
Sentì gli occhi di Oswin su di lei, ma non li
incontrò, né gli spiegò quello che era
successo.
Si strinse il collo fra le spalle, infilandosi le mani in tasca, e
mormorò: «Vado a prendermi un
caffè», prima di allontanarsi.
***
Dylan
parcheggiò l’auto vicino all’entrata
dell’ospedale e prima di entrare si fermò sulla
rampa a fumarsi una sigaretta che gli bruciò la gola.
Si guardò intorno svogliatamente, lasciando che la sigaretta
si consumasse pian piano fra le sue dita, e notò poco
distante da lui un’infermiera in camice azzurro che lo stava
osservando. Aveva i capelli biondi e gli occhi scuri. Carina, ma non il
suo tipo.
All’improvviso, mentre ricambiava il suo sguardo accennando
un sorriso, gli venne in mente Bill. Chiuse subito gli occhi per
levarsi dalla testa la sua immagine e se li massaggiò con la
punta delle dita, scuotendo lievemente il capo.
Quando li riaprì si soffermò sulla vetrina del
bar di fronte, attraverso la quale vide una figura familiare seduta ad
un tavolino. Aspettò che si togliesse le mani dal viso e le
portasse sulla sua tazza di caffè per essere sicuro che
fosse lei e dopo non ci pensò due volte prima di
raggiungerla. Non si era nemmeno accorto dell’infermiera che
aveva fatto qualche passo verso di lui.
Attraversò la strada frettolosamente, senza prestare molta
attenzione alle automobili che passavano, ed infatti si
beccò qualche clacson; poi entrò nel bar.
Andò subito al suo tavolo, ma a pochi passi da lei
rallentò e tutta la forza e il coraggio che aveva sentito
dentro vedendola così ferita ed indifesa gli scivolarono
addosso, tanto da fargli pensare che avrebbe fatto meglio a ricambiare
lo sguardo di quell’infermiera con più
convinzione.
Mise da parte tutte le paure, tutto il rancore e tutta la gelosia che
aveva provato in quelle ore nei confronti di Tom; cancellò
momentaneamente dalla sua testa le immagini di loro due che si
baciavano e finalmente le fu accanto, le posò una mano sulla
schiena e si chinò un poco per affiancare il suo viso e
mormorare: «Ehi».
Grace si voltò verso di lui e gli mostrò gli
occhi stanchi ed arrossati, ma pur sempre bellissimi; provò
persino a sorridere, ma il tentativo non andò a buon fine.
«Ciao Dylan», lo salutò con poca voce,
indicandogli il posto libero di fronte a sé.
«Oswin ti cercava…».
«Oswin aspetterà», rispose, sedendosi.
«Tu sei più importante, non credi?».
L’investigatrice si portò una mano sulla guancia e
quella volta un minuscolo sorriso riuscì ad affiorare sulle
sue labbra.
Dylan ne rimase incantato e sconvolto allo stesso tempo:
c’era qualcosa di diverso in lei, una strana ombra e una
sconosciuta dolcezza aleggiavano nei suoi occhi, espandendosi nei
tratti delicati del suo viso spruzzato di efelidi.
La prima cosa che pensò fu che quello sguardo dolce e quel
sorriso amaro erano molto simili a quelli di sua madre, in particolare
quando aveva preso delle decisioni difficili che l’avevano
portata a rinunciare a qualcosa a cui teneva molto per far
sì che lui e i suoi fratelli e le sue sorelle avessero una
vita felice. Non riuscì però a collegare Grace a
sua madre e a capire quale fosse la decisione presa dalla ragazza che
amava.
Un cameriere si avvicinò al loro tavolo e gli chiese che
cosa desiderava. Dylan ordinò un caffè. Quando si
allontanò, si appoggiò al tavolo con le braccia
incrociate e si sporse verso di lei per parlare con un tono di voce
basso.
«Hai visto tua madre?», le chiese.
Grace annuì. «Non ho molta voglia di parlarne,
però».
«Okay, non importa», sorrise. «Allora
ascoltami, perché ho un paio di cose da dirti».
«Va bene. Spara», sospirò ed
infilò una gamba sotto l’altra, portandosi la
tazza di caffè alle labbra. Poi parve rinvenire
all’improvviso e raddrizzò la schiena.
«Si tratta di nuovi sviluppi nelle indagini?».
«Sì, anche», rispose Dylan, confuso
dalla sua reazione.
Lei gli disse di proseguire con un gesto vago della mano, come se non
avesse chiesto niente, e si afflosciò di nuovo sulla
panchina di velluto blu. Il poliziotto non si pose troppe domande ed
iniziò:
«Il mio istinto mi dice che le persone che hanno aggredito
tua madre siano le stesse che hanno ucciso tuo padre, rubato il
cellulare a Tom e da quello che hai detto tu, ucciso quel marine,
Carter. Chi altro può essere stato? Tua madre aveva nemici
in grado di farle una cosa del genere? Io penso proprio di no. Anche
perché hanno messo a soqquadro tutta la casa, probabilmente
cercavano qualcosa. Ancora non sappiamo se l’hanno trovata,
dovrà verificare tua madre».
«A casa sua?», mormorò Grace, gli occhi
vacui puntati verso l’esterno del bar. «Che cosa
poteva mai esserci a casa sua di tanto compromettente?».
«L’altra cosa che ho scoperto, riguarda la
sparatoria all’Halo.
Grace? Grace, mi stai ascoltando?».
La ragazza si voltò verso di lui, sorpresa, e scosse
lievemente il capo. Aveva continuato a pensare a cosa potevano aver
cercato a casa di sua madre, aveva immaginato quegli uomini senza volto
gettare giù dalla libreria i libri, aprire i cassetti e
svuotarli sul pavimento, frugare tra i suoi vestiti… e non
le era venuto in mente nulla di significativo che potesse interessarli.
«La sparatoria all’Halo?
Pensavo che fosse un caso ormai archiviato, in un certo
senso…».
«Anche io pensavo che non ci sarebbe più dovuto
interessare, ma la scientifica ha rinvenuto un cellulare addosso al
ragazzo che ha sparato a Tom e, indovina?, dentro quel cellulare
c’era una microspia».
«Una…?», sbarrò gli occhi e
spalancò la bocca. «Il cellulare di
Tom?».
«Proprio il suo. Quindi vuol dire che in qualche modo loro
erano anche lì! E chissà, magari hanno causato
proprio loro la sparatoria… In fondo non sappiamo come siano
andate veramente le cose, i membri delle gang che stavano contrattando
sono tutti morti a parte i boss, che sono riusciti a filarsela. Magari
hanno fatto partire un colpo e una cosa tira
l’altra…».
Grace scosse ancora il capo, abbassando lo sguardo spento.
«Perché mandare a morire quel ragazzo? Sapevano
che sarebbe morto, probabilmente lo sapeva anche lui che facendosi
vedere da tutti quei poliziotti ed iniziando a sparare sarebbe finito
così, allora perché…?».
«L’hanno costretto, semplice. O faceva
così e come minimo si beccava una pallottola, oppure lo
prendevano loro e lo trucidavano in chissà quale modo
osceno».
Dylan posò le mani sul tavolo e spingendosi verso lo
schienale di velluto della panchina si rese conto che il suo
caffè non era più arrivato. Si voltò
verso il bancone del bar ed alzò una mano, gridando:
«Un quarto d’ora fa avevo ordinato un
caffè, eh!».
Il cameriere che aveva preso la sua ordinazione arrossì
violentemente ed iniziò a balbettare: «Mi dispiace
tanto! Glielo porto subito!».
Quel ragazzo così impacciato ed in imbarazzo gli
ricordò tantissimo Bill, non che l’avesse mai
visto in quelle condizioni, ma a pelle glielo fece tornare alla mente
per la seconda volta in quella mattinata e dovette fare un bello sforzo
per cancellarselo dalla testa.
Grace però lo aiutò, mormorando
all’improvviso: «Tutto questo per sparare nella
direzione di Tom? L’hanno mandato a morire
per…».
Dylan abbassò il viso e sfiorò il bordo del
tavolo di legno chiaro con la punta del dito. «Ormai
l’hanno capito pure loro quanto siete legati voi
due».
Entrambi sollevarono il capo e i loro sguardi si incontrarono. Si
fissarono per un bel po’, scambiandosi un’emozione
dopo l’altra, dalla rabbia all’affetto
più puro, per poi allontanarsi l’uno
dall’altro con un’antica tristezza dipinta sul
volto.
«Mi
dispiace», mormorò lei alla fine, mentre Dylan si
passava le mani sul viso stanco.
«Ti prego, mettiamoci una pietra sopra e non parliamone
più».
Grace accennò un sorriso, allungando una mano verso di lui,
sul tavolino. «È quello che stavo per dire io. Ti
voglio bene come un fratello, Dylan…».
«E io voglio che tu sia felice», rispose, evitando
il suo sguardo come se potesse davvero celarle il suo imbarazzo.
Quindi tossì e si alzò.
«Sarà meglio che raggiunga Oswin, per vedere se
hanno già parlato con tua madre…».
«Andiamo».
Grace lasciò i soldi del suo caffè sul tavolo e
proprio mentre se ne stavano andando il cameriere richiamò
la loro attenzione, ancora immerso nell’imbarazzo:
«Scusi, il suo caffè? Non lo vuole
più?».
«Sarà per la prossima volta», rispose il
poliziotto, aprendo la porta e tenendola con un piede per far uscire
prima di Grace.
Una volta all’aria fresca del mattino sospirò,
infilandosi le mani nelle tasche e dondolandosi sui talloni mentre
aspettavano di poter passare dall’altra parte della strada.
«Qualcosa non va?», gli domandò Grace,
osservandolo.
«No… Sono solo piuttosto stanco».
«Menti, a me? Pessima mossa», lo prese in giro con
un minuscolo sorriso sulle labbra. «Forza, sputa il
rospo».
«Stanotte sono stato da Bill», sputò il
rospo tutto intero, proprio così. Appena si accorse
dell’espressione sconvolta della ragazza, però, si
affrettò ad aggiungere: «Quando sono andato a
chiamare Tom e poi voi due… Ecco, noi siamo andati a
prenderci qualcosa da bere e non ce ne siamo nemmeno accorti, ci siamo
ubriacati e Bill non si reggeva nemmeno in piedi… allora
l’ho accompagnato a casa. Abbiamo parlato davvero tanto in
macchina, ma puoi immaginare che discorsi… eravamo tutti e
due sbronzi! Anche se ad un certo punto Bill ha detto una cosa strana,
una cosa del tipo: “Grace è fortunata ad avere una
persona come te al suo fianco: tu ci sarai sempre per lei, qualsiasi
cosa accada… Anche io vorrei qualcuno come
te…” e poi si è impappinato diverse
volte, ma penso di aver capito che in qualche modo mi stesse dicendo
che ero un bel ragazzo, sia dentro che fuori… Insomma, io
non so se era l’alcool o se ho capito male io, ma ho avuto
l’impressione… Bill non è gay,
vero?».
Grace si fermò nel bel mezzo della rampa che portava
all’entrata dell’ospedale, aggrappata al corrimano.
Lo guardò per una decina di secondi in silenzio, poi disse:
«Mi stai dicendo che hai avuto l’impressione che
Bill ci stesse provando con te?».
Dylan annuì frettolosamente, scappando dai suoi occhi e
vergognandosi come poche volte gli era capitato. Il perché
gli era sconosciuto.
«Beh, io… non so davvero cosa dire»,
soffiò Grace. «Quindi è per questo che
ieri siete scomparsi tutti e due nello stesso arco di tempo…
E poi, poi cos’è successo, dopo la chiacchierata
in auto?».
Il poliziotto non alzò lo sguardo, continuò a
guardarsi i piedi, che muoveva come se stesse calciando dei sassolini
immaginari.
«L’ho accompagnato dentro, l’ho portato
in camera sua e…».
«E che cosa?», lo esortò a parlare, con
una mano sul petto.
«E ci siamo addormentati tutti e due sul suo letto,
così», scrollò le spalle.
«Quindi non è… non è
successo niente».
«No!», urlò stridulo, arrossendo sulle
guance. «Stamattina, quando mi sono svegliato e mi sono
trovato lì di fianco a lui mi sono spaventato e allo stesso
tempo…».
«Cosa?».
Dylan batté i piedi a terra, stringendo i pugni.
«Niente, niente Grace».
«Ora lui dov’è?».
«A casa, dove vuoi che sia? Ha ancora i postumi».
«Sarà meglio che oggi pomeriggio passi a
trovarlo…», rifletté e
guardò il suo amico di sottecchi: sembrava un bambino
vergognoso. «Vuoi che gli dica qualcosa?».
«No, non dirgli niente di quello che ti ho detto. Se ti
racconta lui qualcosa bene, altrimenti… faremo come se non
fosse mai accaduto nulla».
«Va bene, come vuoi».
«Okay».
Dylan sospirò ancora e si rese conto che anche se ne aveva
parlato con Grace, il peso che sentiva sullo stomaco era ancora
lì, non si era affievolito, né tanto meno era
sparito come aveva sperato che accadesse.
Entrarono nella struttura ospedaliera e raggiunsero in silenzio la
stanza della madre di Grace. Oswin era ancora lì, in
corridoio, che aspettava il collega, e appena vide Dylan gli
urlò contro diversi insulti e parecchi rimproveri.
La ragazza approfittò del momento per salutarlo con un gesto
fugace della mano ed un sorrisino divertito, lasciandolo da solo con la
sua “mammina”. Si diresse verso la camera di Tom e
vi entrò facendo meno rumore possibile, per non svegliarlo.
Infatti lo trovò ancora addormentato, con
un’espressione innocente sul viso, appoggiato alla spalla
sinistra. Si mise seduta su una sedia posizionata accanto al letto e
rimase ad osservarlo, cercando di respirare il più
silenziosamente possibile.
I suoi pensieri iniziarono ad accavallarsi l’uno
sull’altro, sempre più freneticamente, ma ad un
certo punto li fermò, dicendosi che ormai aveva preso la sua
decisione e non sarebbe tornata indietro, per quanto le facesse male.
Non era riuscita a mettere da parte i sentimenti, quindi aveva
già fatto da tempo la sua scelta, che se ne fosse resa conto
o meno. Adesso però riconosceva perfettamente che non poteva
più correre quei rischi, non poteva più
permettere che le persone che amava soffrissero per causa sua. Per sua
madre e per Tom, soprattutto, avrebbe rinunciato a tutto ciò
che l’aveva portata fino a lì. La sua vita poteva
anche non valere un tubo, ma quella di Tom… era molto
più importante, quasi essenziale.
Quando realizzò che avrebbe anche dato la vita per lui,
arrossì e le lacrime le riempirono gli occhi. Gli prese una
mano fra le sue e se la portò al viso, lasciando che alcune
di quelle lacrime le scorressero sulle guance.
«Grace».
La voce rauca e ancora assonnata di Tom le fece aprire di scatto gli
occhi umidi e sollevare il capo. Si perse nei suoi occhi nocciola e a
malapena si accorse della sua espressione profondamente preoccupata.
«Che cos’è successo?», le
domandò, puntando i gomiti sul materasso per tirarsi un
po’ più su.
Le strinse con più forza la mano, infondendole coraggio, e
con l’altra le accarezzò il viso, sistemandole una
ciocca di capelli dietro l’orecchio. A quel gesto
così semplice e usuale la stoica Grace ebbe un altro crollo
d’emotività e altre lacrime le segnarono il volto.
«Ho deciso di lasciare le indagini»,
singhiozzò. «Basta, io… non voglio
più…».
Tom, senza la benché minima idea di cosa dire,
l’attirò a sé e la strinse fra le
braccia, posandole il capo sotto il suo mento e accarezzandole i
capelli per rassicurarla.
«Ho paura, tanta paura», mormorò ancora
Grace e in quel momento il chitarrista capì che qualcosa si
era spezzato dentro di lei.
***
«Tu…
tu che cosa?», balbettò ad alta voce, quasi
gridando, un Dylan totalmente incredulo.
«Hai capito; non farmelo ripetere», rispose con
voce pacata Grace, seduta in maniera fin troppo composta e rigida sulla
sedia accanto al letto di Tom, spettatore più o meno
silenzioso della loro discussione. Perché ne era certo:
prima o poi – e scommetteva prima
– sarebbe stata una vera e propria discussione, se non la
litigata del secolo.
Si era accumulata così tanta tensione in quella stanza,
subito dopo che la detective aveva rivelato al poliziotto della sua
decisione di abbandonare il caso più importante della sua
vita, che temeva che scariche elettriche improvvise potessero piombare
giù dalla lampada al neon.
Dylan si strinse le braccia al petto e la sua espressione da incredula
passò ad irata, per poi divenire frustrata e rancorosa.
«Scommetto che hai preso questa decisione quando ti ho detto
che loro
hanno cercato di uccidere il tuo Tom».
«Ehi, che cosa?!», gridò il chitarrista
spaventato, ma nessuno dei due gli badò e Dylan
continuò: «Te l’abbiamo detto in tanti,
non ci hai mai ascoltati e sei sempre andata dritta per la tua strada,
fregandotene del pericolo che noi e te stessa correvamo. Ci voleva
proprio che rischiasse lui, perché tu fossi disposta ad
abbandonare».
Tom spostò lo sguardo su Grace e solamente notando la
rigidità dei tratti del suo viso capì che quella
era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: sarebbe stata
la litigata del secolo ed era appena iniziata.
La ragazza, nel rispondergli a tono, si alzò persino dalla
sedia e si sporse col busto in avanti, come se volesse spingere fuori
dal suo corpo tutto il veleno che conteneva.
«Ho preso questa decisione quando ho visto mia madre ridotta
in quello stato!», urlò con tutta la voce che
aveva, arrossandosi in viso, indicando un punto nella direzione della
stanza di sua madre. «Quando lei mi ha implorato di
abbandonare le indagini, quando l’ho vista in preda al panico
al solo pensiero che potevano ferirla di nuovo, quando l’ho
vista in preda dalle convulsioni. In questi momenti, ho preso la mia
fottuta decisione. E quando mi hai detto che in quella sparatoria
c’era anche il Loro zampino e che hanno provato ad uccidere
Tom, mi sono convinta ancora di più della mia decisione. Mi
dici dove sta il problema, nel fatto che c’entri Tom? Io lo
so qual è il problema, lo so!», gli
puntò il dito contro, quando il fiato iniziava
già a mancarle. «Ti dà fastidio che sia
arrivata a prendere questa decisione anche grazie a lui e non a te!
Beh, ti assicuro che se invece che a lui avessero sparato a te avrei
fatto la stessa identica cosa!».
«Perché, perché aspettare che
sparassero a qualcuno e facessero del male a tua madre, prima di
prendere questa fottutissima decisione, Grace?!». Le urla di
Dylan, per ovvi motivi, erano state ben più forti di quelle
dell’investigatrice, ma furono anche più efficaci:
si conficcarono nella mente di Grace come una spada e la fecero
ammutolire.
Così ferma e pallida, l’investigatrice sembrava un
morto che camminava. L’unica cosa che permetteva a Tom di
capire che era ancora viva era il suo respiro affannoso, ben udibile
nel silenzio tombale che era calato.
All’improvviso Grace si mosse e lo fece in modo rapidissimo:
corse alla porta, l’aprì e senza preoccuparsi di
chiudersela alle spalle scappò via. Solo allora Tom, ma
soprattutto Dylan, poterono tornare a respirare con un grande sospiro.
Il poliziotto spostò la sedia su cui fino a poco prima era
stata seduta Grace e una volta accanto alla finestra si sedette,
abbandonandovisi.
Rimasero in silenzio per un po’, ripensando entrambi a
ciò che era appena accaduto. Tom fece particolare attenzione
ripercorrendo le parole di Dylan e si sentì
d’accordo con lui nella sua ultima domanda, ma non
poté schierarsi pienamente da una parte piuttosto che
dall’altra: non sapeva ancora una cosa.
«Dylan, perché Grace tiene tanto a
quest’indagine?», gli domandò per
togliersi subito il pensiero.
«Lei non te l’ha mai detto?»,
borbottò, guardandosi svogliatamente le mani intrecciate
sull’addome, col mento puntato contro lo sterno.
«No. Per questo lo sto chiedendo a te».
«In questo caso, penso che debba parlartene lei»,
sospirò, sollevandosi dalla sedia.
«Che cosa?!», strillò. «Oh,
lei non me ne parlerà mai! Non pensi che io debba essere
informato di tutto, visto che ci sono dentro fino al
collo?!».
Dylan, ormai accanto alla porta, l’aprì e
posò per un’ultima volta lo sguardo su di lui.
«No», sussurrò e poi se ne
andò, lasciandolo da solo nella sua più totale
indignazione.
Prima di allontanarsi da quella stanza, però,
sentì la suoneria del suo cellulare di riserva e si
fermò accanto alla porta appena chiusa per ascoltare. Non
seppe bene perché lo fece: forse spinto dalla
curiosità di sapere se era Grace, che già si
scusava – per quanto sembrasse improbabile, conoscendola
– oppure credendo che fosse Bill, verso il quale sentiva il
bisogno di chiarire la sua posizione.
Quindi, prima che Tom si decidesse a rispondere, nel suo cervello si
crearono due tifoserie differenti: una che sperava che fosse Grace, in
modo tale da dimostrargli che i suoi riguardi verso Bill erano del
tutto insensati; la seconda invece sperava che fosse proprio lui, per
il motivo opposto e perché sarebbe stata la prova che a lui,
almeno un po’, ci teneva.
«Ehi, Bill! Dove sei?».
Nel sentire quel nome, una parte di lui fu serena, l’altra
completamente adirata: lui non poteva essersi affezionato in quel modo
a Bill!
Eppure, mentre se ne andava col passo pesante e il viso incupito,
pensò e ripensò alla sera precedente.
Una volta giunto al volante della sua auto, si convinse che
l’unico modo per mandarsi via dalla testa quel pensiero
sconcertante era di parlare direttamente con lui, dicendogli chiaro e
tondo tutto quello che pensava di quella faccenda che, se ne rese conto
solo allora, non aveva alcun fondamento. In fondo la sua era soltanto
stata un’impressione, da sbronzo oltretutto! Come poteva
andare da Bill e spiegargli che lui non era gay e non ci sarebbero
state possibilità per loro, quando non sapeva nemmeno se
Bill ci aveva veramente provato con lui?
Posò la testa tra le braccia, appoggiate al volante, e con
un sospiro si disse che comunque doveva passare da lui: aveva
dimenticato le chiavi di casa e doveva assolutamente recuperarle, visto
che aveva bisogno di una doccia. E magari ne avrebbe approfittato per
scoprire se i suoi sospetti sulle avances di Bill fossero fondati.
_______________________________
Fine della parte uno :) Questo
capitolo era piuttosto lungo tutto insieme, quindi l'ho tagliato a
metà! Zac zac xD
Comunque, che ne pensate di questa prima parte? Grace ha deciso di
abbandonare il caso e Dylan non l'ha presa proprio bene, dopo tutto
quello che hanno passato... forse un po' ha ragione, ma anche Grace ha
ragione a voler dare giustizia a suo padre, anche se non vuole che
altre persone ci vadano di mezzo. Voi da che parte state? Che fareste
in una situazione del genere?
Poi, l'altra novità assoluta del capitolo... Sì,
avete già capito di chi sto parlando... *o* Vi sareste mai
aspettati questo colpo di scena? Bill e Dylan.... Potrà mai
funzionare? Ma soprattutto, Bill ci ha provato davvero con Dylan o
quest'ultimo era talmente sbronzo che si è immaginato tutto?
xD
Temo bisognerà aspettare la seconda parte per scoprirlo,
lunedì prossimo! Spero nonostante tutto che questa prima
parte vi sia piaciuta, dato che l'ultima volta siete un po' sparite, ma
ringrazio coloro che hanno recensito e letto ;)
Ah! Come ho già detto sulla mia pagina facebook ( _Pulse_
EFP ) da oggi in poi, causa lavoro, mi potrà capitare di
dover postare la domenica sera, così che abbiate comunque il
capitolo il lunedì mattina :) Detto questo mi dileguo xD
A presto! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 11 - Parte 2 ***
Capitolo
11 – Parte 2
“When
I was younger you never said,
when I was older I'd feel helpless
When I was younger, you shone the light
Now that I'm older, it doesn't shine bright”
(When
we were younger – You me at six)
Uscì dal
bagno e si impose di ricomporsi: non voleva più piangere e
fare la figura della debole, anche se le sarebbe piaciuto molto
sfogarsi in quel modo ancora per un po’.
Da quando aveva inscenato la sua fuga dall’ospedale aveva
pensato incessantemente a ciò che Dylan le aveva raccontato
a proposito della deposizione di sua madre sull’aggressione,
cioè che avevano ben poco su cui lavorare e con cui poter
prendere quei bastardi.
Avevano sottoposto sua madre ad uno sforzo disumano nel ricordare quei
momenti e il tutto quasi per niente: colui che aveva imperversato su di
lei aveva il volto coperto da un passamontagna e non le aveva mai dato
il tempo di vedere chiaramente i suoi occhi, complice anche
l’oscurità del furgone su cui l’avevano
caricata per continuare a pestarla senza farsi vedere né
sentire da nessuno. Aveva ricordato che il furgone era sempre stato in
movimento, ma non ricordava nulla degli interni, né del suo
esterno.
Aveva sentito parlare il suo aggressore soltanto una volta, quando
l’aveva schiantata a terra con una manata dopo essere entrato
con la forza in casa sua, senza che nessuno si accorgesse di nulla, e
le aveva detto chiaramente che era colpa di sua figlia, così
ostinata a non voler lasciare il caso a cui lavorava dalla morte di suo
padre. Per il resto, non conosceva nulla di chi stava alla guida,
né sapeva se ci fosse qualcun altro sul veicolo.
Giunto il momento di scaricarla in quel vicolo l’avevano
spogliata brutalmente, probabilmente per far sì che quelli
della scientifica non avessero niente su cui cercare delle prove, e da
lì in poi la storia la conoscevano bene.
Grace aveva ragionato così intensamente su quel racconto
agghiacciante perché non voleva ricordare la sua ultima
litigata con Dylan, che le aveva fatto addirittura più male
di sapere tutti quei dettagli del pestaggio brutale di sua madre. Il
motivo? Quello che le aveva gridato addosso era tutto penosamente vero
e lei era una fottuta egoista, che pur di far giustizia a suo padre
aveva messo in pericolo tantissime altre persone. Ed era certa che
questo suo padre non l’avrebbe mai tollerato.
«Grace, vuoi una tazza di caffè?».
La ragazza si voltò di scatto verso la porta della cucina e
vide Bill ridacchiare mentre si versava un po’ di
caffè in una tazza verde petrolio.
«Ti ho fatto
spaventare? Scusami, non era mia intenzione», le disse con un
sorriso sincero sul volto. «Allora, lo vuoi?».
«No, grazie, ne ho già preso uno
prima…».
«Io è la terza tazza che mi faccio»,
biascicò il frontman, per poi spostarsi in salotto con lei.
La fece sdraiare sulla sua chaise-longue di pelle nera e lui si
appollaiò sul bracciolo della poltrona accanto, la tazza fra
le mani.
«A che pensavi prima? Sembravi molto assorta».
Grace lo osservò e non poté fare a meno di notare
che si sentiva come ad una seduta da uno psicologo. Non che ne avesse
mai fatta una, ma quella era la percezione che aveva ed era quasi
sicura che Bill non l’aveva fatta sdraiare lì a
caso.
«Pensavo alla bruttissima situazione in cui vi ho messi. Voi
non dovevate entrare in questa storia, non mi perdonerò mai
per questo. E poi mia madre… che c’entrava mia
madre in tutto questo?», scosse il capo per poi prenderselo
fra le mani.
«L’hai vista? Ci hai parlato?», le chiese
Bill, con voce pacata, non intrusiva.
«Sì, stamattina presto… Ed è
stato orribile, mi sono sentita… come se le avessi fatto io
tutte quelle ferite e quei lividi. Mi sono sentita davvero colpevole e
ho capito che è davvero il caso di iniziare a proteggere le
persone che ho accanto, invece di esporle continuamente al
pericolo».
Il frontman posò la sua tazza di caffè sul
tavolino basso di fronte alla poltrona su cui era appollaiato e
corrugò la fronte. «Che cosa intendi
dire?».
«Ho lasciato il caso. Domani consegnerò tutti i
miei fascicoli, il mio lavoro di una vita, a Dylan. Avrei fatto meglio
a dargli subito ascolto, invece di continuare in questa
follia».
«Che cosa… Credo di aver perso dei pezzi. Che
c’entra Dylan con il tuo caso?».
«Lui aveva subito intuito che le cose sarebbero degenerate e
che sarebbe stato davvero pericoloso, mi ha detto di lasciar perdere,
ma io non gli ho dato ascolto e guarda: Tom, mia madre… e se
non mi fermo qui, può anche darsi che facciano del male a
qualcun altro».
Bill si fermò un attimo a riflettere su quelle parole e
credette di aver capito male: la sparatoria in cui erano stati
coinvolti c’entrava con il suo caso? Stava per chiederle
spiegazioni, ma lei riprese a parlare: gli raccontò della
discussione che aveva avuto con Dylan quella mattina, di quanto si
fosse sentita male, perché tutto ciò che le aveva
detto era assolutamente veritiero.
Durante il racconto di Grace, Bill si distrasse un momento e il suo
pensiero si posò sulla serata precedente, trascorsa in
compagnia Dylan.
Quella mattina, pur sapendo di essere tornato con lui, non si ricordava
ancora tutto ciò che era successo. Aveva chiesto a lui se da
ubriaco aveva fatto qualcosa di vergognoso, avendone come il
presentimento, e aveva ricevuto dal poliziotto una risposta
né rassicurante né preoccupante. Poi, quando lui
se n’era andato e si era un po’ ripreso dalla
sbronza, aveva iniziato a ricordare la loro lunga chiacchierata in auto
e il panico l’aveva divorato: aveva detto cose che non
avrebbe dovuto dire e chissà come Dylan le aveva
interpretate (sempre se le ricordava)! Riflettendoci, però,
non seppe nemmeno lui dare un’interpretazione alle sue stesse
parole, ai suoi stessi atteggiamenti. L’alcool
l’aveva fatto sbarellare a tal punto, oppure aveva portato
alla luce un sentimento nuovo, mai preso in considerazione, forse nato
in compagnia di Dylan in quelle ore precedenti alla sbronza?
«Ehi, Grace».
La ragazza, che era stata interrotta bruscamente durante il suo sfogo,
sollevò gli occhi su di lui ed ebbe come la sensazione di
trovarsi di fronte ad un Bill diverso.
«Uhm?», mugugnò, incuriosita.
«Quando hai visto Dylan, stamattina, ti è
sembrato…», cercò la parola giusta, ma
non la trovò e usò la prima che gli venne in
mente: «strano?».
Grace ci pensò su, arrivando a capire che tutto quel suo
parlare di Dylan doveva avergli fatto tornare in mente la serata
trascorsa con lui; ricordò anche le parole del suo amico
poliziotto: «Non
dirgli niente di quello che ti ho detto. Se ti racconta lui qualcosa
bene, altrimenti … faremo come se non fosse mai accaduto
nulla». Decise
così di stare momentaneamente dalla sua parte, anche se
mentire a Bill le dispiaceva.
«No, perché me lo chiedi?», gli rispose
con nonchalance, abituata a mentire per mestiere.
Il cantante si strinse nelle spalle, poi nel suo stesso abbraccio.
«Ieri sera, ecco… io e lui siamo andati a bere
qualcosa insieme, visto che tu e Tom… Alla fine ci siamo
ubriacati, io un po’ di più, e abbiamo parlato
tanto, di tante cose… Sai, mi sono sentito davvero bene con
lui e credo di essermi lasciato andare un po’ troppo,
forse… forse ho detto cose che non dovevo
dire…», il suo viso si chiazzò di rosso
per l’imbarazzo.
Il fatto è
che nemmeno io so che cosa significhi quello che ho detto.
Grace si tirò su seduta sulla chaise-longue e
posò il mento nell’incavo delle mani, sospirando.
«Ho capito. Vuoi che gliene parli, che gli dica
qualcosa?».
«E che cosa potresti dirgli?», mormorò
affranto.
«Che ti dispiace per aver detto quelle cose, che era
l’alcool, che è tutto come prima»,
elencò, contando le opzioni sulle dita.
Bill però sobbalzò, lievemente preoccupato.
«Ma io –!».
Si fermò appena in tempo, ma non abbastanza da sfuggire allo
sguardo indagatore della detective.
«Bill, mi stai dicendo che ti piace Dylan?», gli
domandò schietta, senza giri di parole, e lui si
sentì mancare l’aria dai polmoni.
***
Suo fratello era strano
al telefono, come se fosse preoccupato e tentasse di nasconderglielo.
Aveva inoltre glissato le sue domande sulla sua improvvisa sparizione e
quando gli aveva chiesto quando sarebbe tornato in ospedale da lui, si
era sentito domandare se c’era Dylan nei paraggi. Suo
fratello aveva decisamente qualcosa di strano e non vedeva
l’ora di vederlo per poter leggere nei suoi occhi tutto
ciò che voleva sapere.
«Mi dispiace davvero molto, signor Kaulitz, ma abbiamo
l’ospedale sovraffollato e un paziente più grave
di lei ha bisogno della sua stanza. Gliene daremo una singola appena le
acque si saranno calmate», lo rassicurò
un’infermiera, mentre spingeva la sua sedia a rotelle lungo
il corridoio. Accanto a lei, un bodyguard nuovo di zecca e un agente
della polizia che da quanto aveva capito si chiamava Oswin ed era il
partner di Dylan. L'aveva raggiunto proprio quando
l’infermiera era passata a prenderlo per il cambio di stanza
e si era trovato costretto a fare il tragitto con lui. Tom aveva
pensato di chiedere a lui delle spiegazioni sul caso a cui Grace teneva
tanto e a cui aveva rinunciato, ma poi aveva pensato che non avrebbe
fatto una bella figura e aveva lasciato perdere.
«Tanto non starò qui ancora a lungo,
vero?», domandò all’infermiera, cercando
un’altra risposta rassicurante: voleva tornare a casa, non ne
poteva già più degli ospedali.
Lei gli sorrise candidamente, dicendo: «Dovrebbe essere
dimesso in due o tre giorni, se non erro», e Tom
ricambiò entusiasta: era quella la risposta che voleva
sentirsi dire.
Lo portarono in una grande stanza, una camerata luminosa occupata
già da tre pazienti molto più anziani di lui.
L’infermiera lo aiutò a sistemarsi sul suo nuovo
letto, ma lui preferì fare da solo e se ne sorprese: che
quel suo improvviso avvicinamento a Grace l’avesse cambiato
tanto da rifiutare l’aiuto di un’infermiera carina
e piuttosto disponibile?
Sta di fatto che quando questa se ne andò si
trovò molto più a suo agio e si voltò
verso destra, verso il suo unico vicino di letto, visto che
dall’altra parte aveva il muro e poco distante la finestra.
Non fece in tempo a salutare, che il vecchio incominciò a
russare.
«Voglio andare a casa», borbottò,
già annoiato al pensiero che avrebbe passato lì
ancora due o tre giorni. Poi si ricordò di Oswin e lo vide
fuori dalla camerata, che osservava quello che succedeva nella sala
d’aspetto, dalla quale in effetti proveniva un certo vociare.
«Una rivolta dei pazienti?», sussurrò
– per non svegliare il suo vicino – pieno di
speranze.
Oswin scosse il capo, arricciando le labbra per reprimere una risatina.
«Una ragazzina che si crede la sorella di Paris
Hilton e pretende di andare da qualche parte – da
qua non si capisce bene».
«Ci avviciniamo?», propose, con gli occhi ancora
più luminosi.
Sia il suo bodyguard che il poliziotto lo guardarono con cipiglio
perplesso e lui si scusò: «Potrebbe essere
l’unica cosa interessante che io veda in questi giorni di
reclusione!».
Oswin acconsentì con una scrollata di spalle –
tanto lui sarebbe andato a vedere comunque – e il bodyguard
del chitarrista non poté far altro che accontentare quel
bimbo curioso.
La ragazzina in questione aveva anche lei il suo bodyguard e gridava
come un’isterica nel bel mezzo della sala
d’aspetto. Appena Tom la vide capì il motivo per
cui Oswin l’aveva paragonata “la sorella di Paris
Hilton”: capelli biondi, occhi chiari, vestiti griffati e
quella punta di arroganza delle persone che pretendono di tutto senza
dar conto a nessuno.
Tom si stava proprio divertendo nel vedere quella ragazzina
fronteggiare ben due robuste infermiere, ma quando strillò:
«So che la madre di Grace Schneider è ricoverata
qui, io sono un’amica di Grace, davvero, e devo
vederla!», sobbalzò sulla sua carrozzina. Quindi
cercò di ricordare la voce della ragazzina che Grace lo
aveva costretto a chiamare a Natale e si disse che se avesse smesso di
gridare, sarebbe stata proprio la stessa. Che quella fosse davvero
Molly, la ragazzina milionaria che aveva ingaggiato Grace per farlo
seguire ventiquattr’ore su ventiquattro?
«Ehi!», intervenne, facendo calare un silenzio
tombale nella sala, interrotto soltanto da qualche colpo di tosse
scappato ad un paziente che insieme a qualche altro era stato
spettatore del bello spettacolino che avevano organizzato per
intrattenerli.
Molly si girò verso di lui e nel giro di pochi secondi il
suo viso prima impallidì, poi arrossì ed infine
perse ancora colore, tanto da fargli credere che sarebbe svenuta
lì. Perlomeno era già in ospedale.
«Tu sei Molly, vero?», le chiese e la ragazzina
annuì con un frettoloso cenno del capo. Allora le
spiegò: «Adesso Grace non è qui. Devi
dirle qualcosa di importante?».
«Beh, io… io, ecco…», il suo
viso andò di nuovo in fiamme e fece finta di cercare
qualcosa nella sua borsetta di Gucci per mandar via
l’imbarazzo e non doverlo guardare negli occhi. «Ho
saputo di sua madre e volevo soltanto dirle che… che,
insomma, le sono vicina».
Tom sorrise dolcemente, intenerito, e con un cenno del capo
indicò il corridoio alle sue spalle. «Dai, vieni
con me».
«D-Dove?», balbettò, quasi terrorizzata.
Ma Tom non le rispose, si voltò ed iniziò a
spingere le ruote della sua sedia a rotelle verso la sua nuovissima
stanza. Molly lo seguì, lanciando un ultimo feroce sguardo
alle infermiere che le si erano parate davanti quando era arrivata.
Il suo bodyguard e quello del chitarrista si trovarono l’uno
affianco all’altro fuori dalla porta della camera, senza
sapere che fare, e si misero a chiacchierare tra loro, discutendo
animatamente su quale tipo di celebrità fosse la
più difficile da seguire. Oswin, che era evidentemente
capitato nel momento sbagliato, decise di andarsi a prendere un
caffè.
Molly guardò la camerata in cui avevano sistemato il suo
idolo e, inorridita, gli disse: «Se vuoi posso chiamare mio
padre e dirgli di farti dare una camera singola. Ha finanziato lui gli
ultimi lavori di ristrutturazione di questo ospedale, quindi non penso
sia un problema per lui…».
«Oh, non ti preoccupare», le disse ridacchiando,
sedendosi sul suo letto, rivolto verso la finestra. «A quanto
pare al pian terreno capitano cose interessanti. Vuoi
sederti?», le indicò la sedia appoggiata contro il
muro e la ragazza la prese e l’avvicinò al suo
letto.
«Allora…», Molly tossicchiò,
imbarazzata: era arrivata lì sperando di vedere Grace, di
darle un po’ di conforto, e guarda con chi era andata a
finire! Nemmeno nei suoi migliori sogni era mai accaduta una cosa del
genere.
«Grace mi ha raccontato che tu la pagavi per
pedinarmi», esclamò interrompendola, anche se
nella sua voce non c’era traccia di un rimprovero.
«Mi dispiace molto», si scusò
però la ragazzina, col viso abbassato ancora una volta
paonazzo.
«Non c’è bisogno che ti scusi, davvero.
Certo, mi ha fatto un po’ effetto saperlo, ma… io
ti devo ringraziare».
Molly aggrottò le sopracciglia, ripetendo:
«Ringraziare?».
Tom annuì con un cenno del capo. «Se tu non
l’avessi pagata per pedinarmi non l’avrei mai
conosciuta e già questo, indipendentemente da tutto il
resto, è qualcosa per cui ti devo davvero
ringraziare».
La ragazzina abbassò gli occhi e quando li
risollevò su Tom erano lucidi di commozione, mentre sulle
sue labbra aleggiava un sorriso amaro, incerto, ma in fin dei conti
contento per aver reso felice il suo idolo e Grace, quella che ormai
considerava la sua migliore amica.
«Allora, chiamiamo Grace sì o no?», le
chiese Tom, con un ampio sorriso sul volto.
Molly annuì e quel sorriso amaro divenne esclusivamente
dolce.
***
Boccheggiava come un
pesce fuor d’acqua, senza riuscire ad articolare una frase di
senso compiuto, forse perché nella sua mente non ce
n’erano, in tutta quella confusione creatasi dopo la domanda
bruciante di Grace.
A lui piaceva Dylan? Boh!
Era un bel ragazzo, questo l’aveva subito notato, col suo
fisico possente e muscoloso e quel viso dai tratti decisi che quando
sorrideva si addolcivano tanto da farlo sembrare un bambino; e quegli
occhi neri che sembravano pozzi in cui perdersi in un oblio
infinitamente piacevole.
La serata che aveva trascorso insieme a lui, a parlare e a bere, era
stata una delle più belle e serene di quel periodo e aveva
visto con occhi nuovi quel ragazzo che a prima vista non si sarebbe mai
detto, ma era buono come il pane e si prendeva cura degli altri meglio
che poteva.
Ricordava come si era messo a parlare con una bambina dalle origini
indiane, di due anni o poco più, che passando accanto al
loro tavolo si era incuriosita vedendolo in divisa. Il modo in cui le
aveva sorriso, in cui le aveva rivolto la parola e in cui
l’aveva ascoltata, facendole capire che era realmente
interessato a ciò che diceva; in cui si era lasciato
prendere per mano e in cui non aveva sciolto la presa, ma anzi
l’aveva accarezzata, gli aveva fatto aprire il cuore in due e
doveva essere sincero: non aveva mai visto un ragazzo comportarsi in
quel modo tanto tenero e disponibile. E poi non poteva di certo
dimenticare che lui l’aveva protetto, durante quella
sparatoria!
Ma che questo bastasse per fargli provare per Dylan qualcosa di
più dell’amicizia? Non lo sapeva proprio.
«Bill?», lo richiamò Grace, con un
sorriso intenerito sulle labbra. «A me puoi dirlo, non ti
devi vergognare. Siamo negli Stati Uniti! Qui non ci si vergogna di
nulla ormai!», tentò di buttarla sul ridere, ma
Bill non cambiò la sua espressione spaesata. Allora si
alzò e si scambiarono le postazioni: il cantante si
sdraiò sulla chaise-longue e l’investigatrice
finì sulla poltrona.
«Ascolta, Bill…», riprese, con tono
tranquillo e rassicurante.
«No, ascoltami tu, Grace!», la interruppe, con gli
occhi spalancati. «Tu l’hai visto prima, no? Sei
sicura che non ti abbia detto nulla, o che non fosse strano?
Perché sai, io mi sento molto
strano! Sono anche preoccupato, se vuoi la verità,
perché non so che cosa provo per lui, non so che cosa sono
io, e questa situazione è così
strana!». Si infilò le mani tra i capelli e chiuse
gli occhi, cercando di regolarizzare il suo respiro.
Grace, vedendolo così, si sentì proprio in colpa
per avergli mentito e stava per dirgli tutto ciò che le
aveva detto Dylan e quello che lei sospettava, ossia che anche il suo
amico poliziotto non sapesse come muoversi in quella situazione ed
avesse i suoi stessi dubbi, ma proprio in quel momento scorse
un’auto della polizia fermarsi di fronte alla seconda
entrata, quella che dava sul giardino sul retro, visibile dalle porte
vetrate del salotto. Come sospettava e temeva, ne scese proprio Dylan,
il quale suonò al piccolo citofono.
«Chi è?», domandò
svogliatamente Bill, con un braccio sugli occhi, come se fosse esausto
a causa del suo sfogo.
«È… ehm…».
Il cantante si tirò su seduto, allarmato, e
trasalì quando vide Dylan.
Si accorse dell’aumento dei battiti del suo cuore, ma non ne
fece parola con Grace, e provò a capire che cosa di lui lo
facesse reagire in quel modo. Non ne cavò un ragno dal buco
e, preso dal panico, mandò Grace ad aprire, mentre lui
faceva finta di andare in bagno. Prima però le fece
promettere di non dirgli nulla di ciò che le aveva
confessato e inoltre le raccomandò di farsi dire qualcosa
sulla serata che avevano trascorso insieme. A quel punto la detective
capì di essere in mezzo a due fuochi e che se non si fosse
spostata in fretta avrebbe finito per scottarsi.
Così gli posò le mani sulle spalle e lo
guardò dritto negli occhi: «Penso che faresti
meglio a parlargli tu».
«Ma… ma come?! No Grace, non puoi abbandonarmi
adesso! Ho bisogno di te!», piagnucolò.
Dylan citofonò un’altra volta, spazientito, e
Grace sospirò, abbattuta. «E va bene, ma solo per
questa volta!».
Bill sorrise radioso e fece due saltelli sul posto prima di baciarle
una guancia, per poi schizzare verso il bagno. Grace invece, convinta
che avrebbe fatto meglio a tirarsene fuori sin da subito,
aprì il cancello a Dylan e gli andò incontro
attraversando il giardino.
«E tu… tu che ci fai qui?»,
balbettò Dylan, sorpreso di trovarsela di nuovo davanti dopo
così poco tempo dalla loro discussione.
«Abbiamo lo stesso confidente», ipotizzò
Grace sollevando le spalle, con l’accenno di un sorriso sulle
labbra.
Dylan fece una smorfia per celare l’imbarazzo.
«Bill non è il mio confidente, è
che…». Si interruppe, rendendosi conto che il
motivo per cui era andato a casa sua era ancora più
imbarazzante del fatto di averlo per confidente.
«Ho dimenticato le chiavi di casa qui»,
mormorò, evitando i suoi occhi.
«Oh, ho capito».
Anche lei abbassò il capo, senza saper più cosa
dire a causa del clima ancora di tensione che si respirava tra loro,
derivato dalla loro discussione in ospedale.
Dopo un po’ di silenzio, si decise a romperlo facendo la
scelta migliore della giornata. Si schiarì la voce e disse:
«Mi dispiace per prima, io… non dovevo reagire in
quel modo, perché tu avevi ragione; l’hai sempre
avuta e avrei dovuto ascoltarti sin dall’inizio,
ma… non l’ho fatto e quello che è
successo in un certo senso me lo merito. Invece di proteggere i miei
cari, li ho feriti e non mi perdonerò mai per
questo».
I tratti del viso di Dylan si ammorbidirono e nei suoi occhi scuri
tornò in parte la normale serenità che li rendeva
luminosi. Le accarezzò una guancia e le prese delicatamente
il mento fra le dita.
«A me pare che i tuoi cari ti abbiano già
perdonata».
Grace scosse il capo, mestamente. «Temo che non mi
basti».
Il poliziotto invece accennò un sorriso e le
infilò un braccio tra le spalle. Quel gesto
decretò la fine di ogni tensione fra loro, tutto era tornato
come sempre, e insieme si avviarono verso il salotto di casa Kaulitz.
«Bill è in casa?», le domandò
Dylan, impensierito, questa volta dall’altra questione che
non gli permetteva di essere totalmente sereno: la presunta cotta di
Bill che lo vedeva come protagonista.
«Certo», annuì la detective e come lo
disse preoccupò ancora di più il poliziotto.
«Si è ripreso dalla sbornia, sai?».
«Ah sì?», deglutì
rumorosamente. «E… e ti ha raccontato qualcosa a
proposito di ieri sera?».
«Sì».
«Dimmelo, che aspetti!?», saltò su
Dylan, in allerta più che mai, come se ci fosse in gioco la
sua vita.
Grace si voltò verso di lui, col volto serio, e concluse:
«Mi ha fatto promettere di non dirti nulla».
«Oh, Grace…!».
Lei gli posò una mano sulla bocca, aggiungendo: «E
detto questo, me ne tiro fuori definitivamente. È una cosa
che io non posso risolvere, solo voi due ne siete in grado e, un
consiglio, prima lo fate meglio è. Io sarò
soltanto la spalla su cui piangere».
Dylan, sconvolto, la guardò entrare nel salotto e ripensando
alle sue ultime parole, gli venne spontaneo chiedersi: Perché,
ci sarà bisogno di una spalla su cui piangere? E
la risposta gli fece così tanta paura che volle subito
cancellarsela dalla testa, ma non ci riuscì. Non voleva
ferire Bill, non voleva trovarsi in quella spiacevole situazione, ma
per ora non vedeva altre vie d’uscita.
La seguì dentro casa e proprio in quel momento Bill
uscì dal bagno, con un sorriso piuttosto plastico sul viso,
come se lo avesse appena tirato fuori dalla confezione e se lo fosse
appiccicato addosso.
«Oh, ciao Dylan», lo salutò con voce
sorpresa, ma non troppo; poi si voltò verso Grace,
sussurrandole: «Ci sono biscotti nuovi?».
Ma lei strabuzzò gli occhi, non capendo. «Biscotti
nuovi?».
«Sì, ti avevo detto di… cercarli e poi
di farmi sapere!», continuò con tanto
d’occhi e con un cenno impercettibile del capo
indicò il poliziotto, che si guardava intorno attendendo che
avessero finito di bisbigliare.
«Oh. Oh! Sì, adesso ho capito!». Questo
Bill, prima o poi mi farà impazzire! «No,
mi dispiace, ma non ci sono biscotti nuovi in circolazione!
Peccato!», concluse sollevando le mani, facendo un sorrisetto.
Bill le lanciò un’occhiataccia e stava per
risponderle a tono, con chissà quale altra parola in codice,
ma il cellulare di Grace si mise a suonare, interrompendolo.
«È tuo fratello», gli disse e si
scusò anche con Dylan, per poi uscire nel giardino sul
retro, sotto il porticato.
Così il poliziotto e il frontman dei Tokio Hotel rimasero da
soli in salotto e l’atmosfera che si creò era
intrisa di imbarazzo, tanto che entrambi avrebbero voluto scappare via
al presentarsi della minima opportunità.
Bill fu in quel senso il più forte, perché si
girò verso Dylan e gli sorrise candidamente, nonostante
stesse andando in fibrillazione.
«Come mai di nuovo da queste parti?».
«Credo di aver dimenticato le chiavi di casa qui»,
rispose lui, tossendo nel bel mezzo della frase.
«Ah. E dove pensi che possano essere?».
«In… in camera tua, penso. Quando mi sono tolto la
pistola e tutto il resto, credo di aver tirato via anche quelle
perché in tasca mi davano fastidio…».
Bill accennò una risatina nervosa. «Okay, allora
vado a vedere».
Si voltò verso le scale e con la coda dell’occhio
vide il poliziotto seguirlo. Arrossì subito, senza nemmeno
rendersene conto, e proseguì.
Una volta in camera sua, la ispezionò con gli occhi e la
stessa cosa fece Dylan, standogli accanto.
Quella poca distanza che li divideva era una specie di tortura,
perché oltre al desiderio di allontanarlo da sé,
Bill ne aveva un altro – e ben più forte!
– ossia quello di annullarla completamente. Al solo pensiero
di stringersi fra le sue braccia si sentì girar la testa e
fece un passo verso il letto, ipotizzando che forse le aveva
abbandonate lì senza prestarci attenzione. Dylan non escluse
l’ipotesi e lo aiutò a sollevare le coperte, per
verificare se non si fossero infilate da qualche parte. Uno da un lato,
uno dall’altro, ne sollevarono i lembi e vi si infilarono
sotto; senza farlo apposta le loro fronti si scontrarono e quando
alzarono gli sguardi incontrarono quello dell’altro e
sembrò che lì sotto il tempo si fosse fermato. Si
fissarono per un lasso di tempo indefinito, pensando e ripensando alla
loro questione in sospeso, ognuno a modo suo, e se non fosse entrata in
scena Grace chissà come sarebbe finita! Forse si sarebbe
concluso tutto più in fretta, semplicemente.
«Ragazzi, ma che…?».
Entrambi si levarono furiosamente le coperte di dosso, tornando alla
luce del sole, e guardarono la ragazza appoggiata allo stipite della
porta con una mano, leggermente sconcertata. Quando li vide, rossi
d’imbarazzo e a bocca aperta come pesci in agonia, scosse il
capo e disse: «Devo tornare in ospedale da Tom, mi ha detto
che c’è una persona che vuole vedermi
urgentemente. Voi…?».
«Io vengo con te! – Io devo andare in
centrale!», gridarono in sincronia Bill e Dylan.
Grace, sempre più convinta che ci sarebbero state un bel
po’ di gatte da pelare con quei due, annuì
frettolosamente e gli disse che avrebbe aspettato Bill in salotto.
Ancora una volta soli e ancora più imbarazzati di prima, si
allontanarono l’uno dall’altro e non osarono alzare
gli occhi da terra, per paura di incrociare quelli
dell’altro. Dylan però ad un certo punto si mosse
perché si ricordò che prima di addormentarsi, la
sera prima, aveva lasciato cadere le chiavi per terra.
Fece mezzo giro del letto, si chinò a terra e sul pavimento
trovò il suo mazzo di chiavi. Si tirò su
trionfante e le mostrò il cantante, che fece molta fatica ad
essere contento per lui, frastornato ed imbarazzato com’era.
«Okay, allora… allora vado», disse il
poliziotto, accennando un sorriso. «Ci vediamo,
eh». E detto questo se ne andò veramente, non
avendo concluso nulla di buono e portandosi a casa un altro pacco di
confusione, come se non ne avesse abbastanza.
Sotto quelle coperte, che gli era passato per la testa? Invece di
spostarsi subito, come avrebbe dovuto, era rimasto ad osservare gli
occhi nocciola di Bill e qualcosa di caldo si era diffuso nel suo
petto.
In salotto incontrò Grace, la quale gli chiese con gli occhi
delle spiegazioni riguardo ciò a cui aveva assistito, ma lui
scosse il capo, amareggiato, e uscì dalle porte vetrate
sventolando in aria le sue chiavi, il cui ritrovamento era
l’unico obiettivo che aveva raggiunto.
Bill e Grace giunsero all’ospedale e per i corridoi non
incrociarono nessuna infermiera di loro conoscenza che potesse
avvisarli del cambiamento di camera di Tom, tanto che rimasero di
stucco quando si trovarono di fronte ad un uomo che non avevano mai
visto. Allora chiesero che fine avesse fatto il chitarrista e
scoprirono che era in una delle camere del pian terreno che avevano
superato proprio per andare a prendere l’ascensore.
Vi entrarono e Grace, scorgendolo sorridente a letto –
l’unico sveglio nella grande stanza, – stava per
dirgli della loro camminata, quando una testolina bionda si
voltò verso di lei e due occhi chiari la fissarono
intensamente.
Non fece in tempo a dire nulla, perché fu stretta in un
abbraccio che le tolse il fiato e i capelli di Molly le accarezzarono
le labbra, come a volerle dire di non aprile, che non ce
n’era bisogno.
Era lì per lei e non vi erano dubbi.
***
Avevano
trasgredito le regole ancora una volta, ma nemmeno i coinquilini di Tom
si erano lamentati della presenza di Grace nel suo letto,
così avevano dormito stretti stretti, lui steso col viso
rivolto al soffitto e lei sul fianco, con un braccio ad avvolgergli la
vita.
Quella mattina, fu lui a svegliarla con un bacio a fior di labbra ed
accarezzandole i capelli.
«Devi andare?», le sussurrò languido,
non volendosi staccare da lei. La ragazza annuì con il capo,
stropicciandosi gli occhi, e si alzò sentendo le
articolazioni irrigidite.
«E quando affiderai alla polizia il tuo caso, per te
sarà tutto finito?».
«Finito. Finito, sì», mormorò
Grace, facendo di tutto perché si convincesse lei stessa che
quella fosse la realtà.
Era davvero giunta a quel punto? Le sue indagini erano state un tale
disastro da costringerla ad abbandonarle, per non ferire ulteriormente
le persone a cui voleva bene.
«E tutto il tempo che ti occupava questo caso, come lo
userai?».
Quella domanda fu l’ennesimo colpo al cuore, che le fece
stropicciare il viso in una smorfia.
Si avvicinò di nuovo a lui, posò un ginocchio sul
materasso e la fronte contro la sua e gli prese il viso fra le mani.
Occhi negli occhi, bisbigliò: «Avete ancora
bisogno di un bodyguard?».
Tom sorrise. «Un posto per te lo troviamo. Anche se speravo
che ti offrissi di diventare la mia infermiera».
Le posò un lieve bacio sulle labbra, poi lei si
scostò dolcemente e gli strinse la mano prima di uscire
dalla camera.
Salì sul suo fuoristrada, che quella mattina guarda caso
tentò di fermarla, facendo le bizze ad avviarsi, e si
diresse verso il suo ufficio.
Il portiere del palazzo dormiva con un giornale di motori aperto sul
viso e Grace non se ne lagnò poi molto: quell’uomo
a pelle non le era mai piaciuto e non dovette far finta di non averlo
visto per non salutarlo.
Salì le scale, si fermò di fronte alla porta del
suo ufficio ed accarezzò il nome di suo padre sul vetro
smerigliato. Quindi entrò nell’ufficio illuminato
dalla debole luce di un normale mattino invernale e riempì
uno scatolone con tutti i fascicoli e gli appunti che aveva raccolto
durante gli anni spesi dietro quell’indagine, ma soprattutto
nell’ultimo periodo, quando tutto era precipitato ed era
stata travolta dagli eventi.
Una volta finito, chiuse con cura l’ufficio, nonostante non
ci fosse più nulla di tanto prezioso, e scese le scale.
Trovò il portiere ancora addormentato, ma quando
arrivò al portone qualcosa, la sensazione di essere
osservata, la obbligò a posare lo sguardo su di lui e vide
un suo occhio aperto sotto il giornale, che si affrettò a
chiudere. Lo stomaco le si congelò in una morsa sterile e
un’insofferenza ingiustificata le accartocciò il
viso. Perciò si affrettò a caricare sui sedili
posteriori lo scatolone e ad allontanarsi.
Fece un altro giro per arrivare alla centrale di polizia in cui
lavorava Dylan, nell’Eastside. Passò di fronte al
cimitero in cui era sepolto suo padre e con gli occhi umidi
mormorò mentalmente: «Mi dispiace tanto,
papà».
Poi accese la radio per riempire il silenzio che dentro la sua testa
era solo un pretesto per pensare e ripensare a cosa aveva sbagliato in
tutta quella vicenda.
Arrivò alla centrale fin troppo presto ed infatti vide Dylan
parcheggiare la sua auto poco distante. Lo aspettò
appoggiata al cofano del suo fuoristrada, con un piede sul paraurti.
Dopo un cenno di saluto, in silenzio si fumarono insieme una sigaretta,
poi Grace fece il giro del veicolo e tirò fuori lo
scatolone. Lo posò nelle mani del suo amico, ma prima di
mollare la presa chiuse gli occhi e strinse le labbra, ripetendo
ciò che aveva mormorato a suo padre passando di fronte alla
sua tomba.
Il poliziotto, con quello scatolone fra le mani, le rivolse un sorriso
dolce e disse: «Tuo padre avrebbe fatto la stessa cosa se si
fosse trovato nei tuoi panni».
Grace fece finta di essere d’accordo con lui, ma dentro di
sé pensò che non era vero: lui non avrebbe fatto
errori, avrebbe risolto il caso; lui non sarebbe mai arrivato a quel
punto, lui – come aveva fatto – si sarebbe
sacrificato per i suoi cari, non avrebbe mai permesso che gli fosse
torto nemmeno un capello.
Ma lei non era come suo padre, doveva accontentarsi di essere stata
pagata fior di quattrini per pedinare la superstar di cui si era
innamorata.
_______________________________
Buongiorno! Finalmente la seconda
parte del capitolo numero 11, con il quale si chiude la prima parte di
questa fanfiction! ;)
Vedrete infatti che nel prossimo capitolo ci sarà scritto:
"Parte II". Di questo però ne parleremo la settimana
prossima xD
Qui e adesso, invece, Molly ha incontrato Tom, il suo idolo! Non vi ha
fatto molta tenerezza, il momento in cui la ringrazia per avergli fatto
in qualche modo conoscere Grace? *^* Ma anche l'affetto che la
ragazzina prova per la detective è molto bello e vero :)
Per quanto riguarda quei due, Bill e Dylan, invece... voi che ne
pensate? Riusciranno mai a parlarne senza usare Grace come
intermediaria? xD
E poi la fine... la fine! Credo sia la parte uscita meglio :) Voi che
ne dite? Ci sarebbero tanti particolari da far notare, ma voglio vedere
chi è attento e sa porsi le domande giuste ;)
Ringrazio tutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo, chi
legge soltanto e chi ha messo questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate!
A lunedì prossimo, baci! Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 13 *** Capitolo 12 ***
Ciao a tutti! :) Come vi avevo
annunciato alla fine del capitolo precedente, qui inizia la seconda parte
della storia, con Grace che non si occupa più del caso e
tutto ciò che ne conseguirà. Ma per quanto tempo
riuscirà a tenersi lontana dalle indagini?
Chissà...
Sono felice inoltre di dire che dopo lo scorso capitolo, diviso a
metà per la lunghezza improvvisa, ora siete pronti a
sorbirvene uno lungo nella sua interezza, senza stacchi u_u (Spero che
non vi annoiate a leggerlo tutto in una volta! xD) E abituatevi
perchè d'ora in avanti saranno più o meno
tutti lunghi così
;)
Ribadisco che tutto ciò che è scritto qui
è frutto della mia fantasia e non voglio dare
rappresentazione veritiera dei personaggi che uso, soprattutto in
questo caso i parenti di Bill e Tom.
Credo di aver detto tutto... Ma non è vero! Devo ringraziare
tutte quelle sante persone che hanno sempre cinque minuti per
recensire, che leggono e che hanno messo questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate! Non vi ringrazierò mai
abbastanza :D
Ora sì che ho detto tutto. A lunedì prossimo!
Vostra,
_Pulse_
___________________________________________________
PARTE II
Capitolo 12
“I
know the memories rushing into minds
I want to kiss your scars tonight
I'm laying here
You gotta try, you gotta let me in, let me in”
(Heartbeat
– The Fray)
Affidare a Dylan tutto
il suo lavoro svolto sul caso di suo padre era stato come definirlo
irrisolto e abbandonarlo.
L’unico scopo certo che aveva avuto in tutti quegli anni era
venuto a mancare e questo aveva segnato l’inizio di una nuova
vita per Grace, la quale aveva avuto come la sensazione di dover
ricominciare tutto da capo, a tentoni. Non sapeva nemmeno se aveva
ancora senso continuare quella professione, visto che l’unico
motivo per cui l’aveva intrapresa era stato per suo padre. Ma
aveva paura che abbandonata anche quella avrebbe davvero brancolato nel
buio.
Così, mentre pensava a cosa fare, aveva chiuso
l’ufficio e si era presa una vacanza per stare vicina a Tom
che veniva dimesso dall’ospedale e, soprattutto, per
assistere ancora di più sua madre, bisognosa di tutte le
attenzioni possibili.
Che la sua vita sarebbe cambiata era fin troppo ovvio, ma ancora non
immaginava in quale mondo si sarebbe trovata immersa. Ne ebbe un
assaggio proprio il giorno in cui Tom venne dimesso
dall’ospedale.
«Sei pronto?».
Tom si girò e le sorrise candidamente, stirandosi addosso il
maglioncino marrone che si era infilato.
«Sì. Com’è la situazione
là fuori?».
«È pieno di giornalisti e paparazzi»,
rispose per lei un bodyguard.
«Quindi che si fa?», domandò Grace,
imbronciata. «Useremo l’uscita sul
retro?».
«Brava», si complimentò Tom, facendo
finta di essere sinceramente colpito dalla sua intuizione.
Grace, però, si sorprese davvero: veramente si abbassavano
ad usare le uscite sul retro?
«Ti abituerai presto», le sussurrò il
chitarrista, passandole accanto e posandole un bacio sulla fronte.
Abituarsi, certo. Bastava solo quello, giusto? E poi, una volta
abituata alla sua nuova vita priva di quell’indagine, tutto
sarebbe andato di bene in meglio.
C’era già un auto che li aspettava e il tragitto
che dovevano fare era davvero ridotto al minimo e alcuni bodyguard
avevano fatto in modo di distrarre i paparazzi, facendogli credere che
sarebbero usciti dall’entrata principale, ma ce ne fu uno,
uno molto scaltro oppure molto fortunato, che li beccò
mentre uscivano facendo lo zig-zag tra i veicoli
dell’ambulanza parcheggiati nel grande garage
dell’ospedale.
«Ehi, piccioncini, guardate qui!»,
gridò, prima di scattare le sue foto.
Grace si coprì il viso con un braccio, infastidita dai flash
e dal fatto che fosse diventata il soggetto delle foto che a volte
aveva fatto anche lei, e si affrettò a raggiungere
l’auto, senza badare all’impulso di tirar fuori la
sua Glock e di scaricarla addosso a quel provocatore.
Una volta al sicuro, dietro i vetri oscurati, si girò verso
Tom, seduto al suo fianco sui sedili posteriori, e lo guardò
con gli occhi spalancati.
«Ti prego, dimmi che non si riferiva a noi quando ha detto piccioncini».
Lui ridacchiò. «C’era qualcun
altro?».
«Oh», sospirò gettando la testa
all’indietro, ma presto si trovò a sorridere,
pensando alla sorpresa che gli avevano preparato a casa.
***
Sfogliò ancora una volta i fascicoli che aveva tra le mani e
non poté fare a meno di pensare ad alta voce:
«Tutto questo, Grace l’ha scoperto da
sola?».
Oswin si avvicinò alla sua scrivania, con una mano sul
fianco e una sulla testa. «Non l’hanno aiutata
anche quei marines…?».
«Già, è vero!».
Si massaggiò il mento, meditabondo.
«Chissà che fine hanno fatto quei due. Grace non
me ne ha più parlato».
Il suo partner scrollò le spalle. «Ha
così tante cose per la testa, quella povera
ragazza».
«Sì, in effetti è stata così
impegnata coi preparativi di quella stupida festa “Ben
tornato a casa Tom”…»,
sbuffò, tenendosi il viso fra le mani. «Da quando
si è avvicinata a quella sottospecie di… Non la
riconosco più, sul serio».
Oswin scosse lievemente il capo, accennando un sorriso mentre si sedeva
di fianco a lui, con un piede sulla sua scrivania.
«Sei ancora innamorato di lei, eh?».
In risposta Dylan si nascose il viso fra le braccia, mugugnando
qualcosa di incomprensibile. Non pensava di essere ancora innamorato di
Grace, come non pensava che fosse una buona idea abbandonare quella
scusa: fare finta, provare ad auto-convincersi di questo, magari
l’avrebbe aiutato a levargli Bill dalla testa, la sua
preoccupazione fissa.
«Ho capito, dai», disse alla fine Oswin, dandogli
un manrovescio sul braccio. «Sarebbe stato carino comunque da
parte sua invitarti».
«Oh, l’ha fatto! Ma non penso che ci
andrò». Non
posso rischiare di restare da solo con Bill!
«Da te questo non me l’aspettavo proprio: da quando
ti fai i complessi d’inferiorità? Con quel
Kaulitz, poi!», rise di gusto, tanto che fece adirare il
collega.
«Io sono migliore di Kaulitz e su questo non ci sono dubbi!
Se volessi riconquistarla, potrei farlo anche ad occhi
chiusi!».
«Bene!», esclamò soddisfatto Oswin.
«Quando inizia la festa?».
Dylan guardò di fronte a sé e capì di
essersi cacciato nell’ennesimo guaio.
***
«Bill
è strano in questo periodo, non trovi?».
Grace si voltò verso Tom e lo guardò con cipiglio
perplesso, nonostante sapesse benissimo di cosa stesse parlando, anzi,
nonostante sapesse molto più di lui – impossibile
ma vero – rispetto a ciò che stava succedendo al
cantante.
«In che senso?», gli domandò, per essere
certa dei suoi sospetti e intanto guadagnare tempo per riflettere sul
da farsi.
Bill le aveva proibito di parlarne con Tom e, per quanto tenesse a lui
e non volesse tradirlo, dentro di sé non le sembrava giusto:
lei era figlia unica, ma credeva fortemente che in un rapporto come il
loro non ci dovessero essere segreti, anche perché era una
cosa talmente importante… Se Bill si era innamorato
– di Dylan tra l’altro! – Tom aveva il
diritto di saperlo, visti anche i precedenti tra loro due e il loro non
ottimo rapporto attuale. Se non vi prestavano la giusta attenzione,
rischiavano di uscirne bruciacchiati tutti e quattro.
«Lo conosco da prima che nascessimo, lo sento quando Bill
è strano», sentenziò Tom, con le
sopracciglia aggrottate e uno sguardo eloquente. «Inoltre,
è ormai ovvio che mi sta nascondendo qualcosa. Ma cosa? Non
ci sono mai stati segreti fra noi, non capisco per quale motivo possa
comportarsi così…».
«È stato un periodo difficile per tutti e credo
che per Bill, conoscendolo, sia stato piuttosto stressante e traumatico
vederti con una pallottola in corpo. Poi si è occupato molto
anche di me, sai? Mi è stato molto vicino… Si
è accumulato sulle spalle anche parte della mia tensione e
magari sta riuscendo a smaltirla solo adesso. O magari è
solo una tua impressione».
Tom rimase in silenzio per un po’, a riflettere, e alla fine
rimase sulla sua posizione. Non lo disse a Grace, non gli andava
proprio di continuare a parlarne, perché solo al pensiero
che Bill stesse attraversando un periodo difficile senza renderlo
partecipe l’ansia lo assaliva.
Allora le infilò un braccio intorno al collo, facendole
posare il capo sulla sua spalla sinistra, e sospirò:
«Spero che torni presto il solito Bill di sempre».
Grace si morse le labbra, sentendolo così avvilito, e
odiò Bill coi suoi segreti, odiò Dylan con i suoi
ed odiò anche se stessa per essersi lasciata mettere in
mezzo a quella storia in cui non c’entrava nulla.
Ne era certa, avrebbe sicuramente detto qualcosa di azzardato per
consolarlo, qualcosa che gli avrebbe fatto intuire che lei sapeva, ma a
salvarla – o a prolungare la sua pena, dipende dai punti di
vista – fu il suo cellulare con un bip
bip.
Lo tirò fuori dalla tasca e appena vide chi era
l’emittente capì che doveva essere successo
qualcosa.
Con la coda dell’occhio vide Tom che cercava di sbirciare,
allora gli rivolse un sorrisino e senza dargli il tempo di capire
ciò che voleva fare gli gettò le braccia al collo
e lo baciò con trasporto. In quel modo lo distrasse
abbastanza da poter socchiudere un occhio e, tenendo il cellulare
dietro la sua nuca, leggere velocemente il messaggio di Molly:
C’è
stato un imprevisto, dobbiamo guadagnare tempo. Passa a casa mia, sai
dov’è, sarò lì ad aspettarvi.
Tom non si era accorto
proprio di nulla e quando Grace si scostò dolcemente da lui
e tornò a sedersi in maniera composta sul sedile, la
guardò soddisfatto del suo spirito d’iniziativa,
dimentico dell’SMS e di tutto quello che gli era passato per
la testa in quegli ultimi venti minuti.
Ah, gli uomini, pensò
Grace sorridendo sotto i baffi. Poi si sporse verso l’autista
e gli disse che la loro destinazione era cambiata.
Dopo avergli dato il nuovo indirizzo, quello di casa Delafield,
tornò a sedersi tranquillamente accanto a Tom, il quale
però non sembrava dello stesso umore pacifico.
«Che storia è questa? Io voglio andare a
casa!».
«Scusami caro, ma mi è appena tornato in mente che
devo parlare assolutamente con Molly a quattr’occhi;
è questione di un minuto», e gli posò
un bacetto sulle labbra, tenendogli il viso fra le mani.
«Caro?!
Mi stai prendendo per il culo?!», strillò lui,
fissandola sbalordito, non capendo più niente.
Lei rise piano e lo baciò ancora e ancora, nonostante lui
tentasse di divincolarsi e volesse delle spiegazioni. Alla fine fu
costretto a cedere ai baci di Grace, che lo calmarono più
della morfina.
Arrivarono a casa di Molly e Tom riprese a brontolare, dicendo che era
stanco, che essendo ancora convalescente aveva bisogno di calma e di
riposo, che non poteva portarselo dietro come se fosse un
cagnolino…
Grace si abituò alla sua voce petulante
nell’orecchio e dopo un po’ non vi badò
più.
Suonarono al citofono e due telecamere super-tecnologiche poste sopra i
piedistalli con tanto di leoni sulla cima, in cui era incassato
l’enorme cancello bianco, si mossero fino ad inquadrarli; poi
una voce maschile, pacata e monotona, gli chiese chi fossero.
«Grace Schneider».
«La signorina l’aspettava con ansia. Prego, entri
pure con l’auto».
La comunicazione terminò e il cancello si aprì
maestosamente di fronte a loro.
I due si guardarono, stupefatti, e poi Tom disse: «Dici che
quello al citofono era il maggiordomo?».
Grace sgranò gli occhi, non avendone la più
pallida idea ma sospettandolo fortemente.
Dall’esterno, salvo l’immenso giardino stile
Versailles, la villa della famiglia Delafield era proprio la tipica
villa hollywoodiana, vagamente somigliante alla Casa Bianca grazie alle
sue forme bombate e al colore.
L’autista parcheggiò l’auto nel grande
garage all’aperto in cui scintillavano in bella mostra
parecchie auto d’epoca.
Grace e Tom scesero e intravidero subito l’uomo alto e
risoluto, vestito con la classica divisa da maggiordomo, uscire dalle
grandi porte vetrate a quadretti che si aprivano sulla facciata bombata
della casa, fare il giro della piscinetta di fronte
all’entrata ed andargli incontro.
Non si presentò, li condusse con modi gentili
all’interno della magnifica villa e attraversarono,
stupefatti, un grande quadriportico interno, col pavimento in
ciottolato, molti fiori dalle tonalità sgargianti e alcuni
alberi.
Già attraversando quel cortile interno Tom e Grace si
sentirono parecchio disorientati: le sembianze di villa hollywoodiana
si erano già del tutto perse, sembrava di essere in un altro
luogo.
Quella loro idea non poté che rinforzarsi e divenire
definitiva quando giunsero finalmente in un sontuoso salone, illuminato
da ben quattro porte finestre che davano sull’altra, enorme,
piscina nel giardino, e dai colori tenui che predominavano: il bianco
della pelle dei divanetti posti intorno ad un tavolino basso dalle
gambe intagliate finemente, il giallo canarino delle tende, il verde
chiarissimo delle piante che adornavano gli angoli del salone, e
l’oro con cui era rifinito tutto il mobilio della stanza,
compreso l’antico arazzo appeso alla parete e il lampadario a
gocce di cristallo che pendeva nel bel mezzo di un soffitto
completamente affrescato con una serie di…
«Si chiamano Vedute
siciliane».
Grace e Tom, entrambi a bocca aperta e col naso
all’insù per vedere gli affreschi, abbassarono gli
occhi contemporaneamente e videro Molly seduta su una poltroncina dalle
imbottiture blu e dorate accanto ad una delle porte vetrate. Addosso
aveva una vestaglia leopardata, ma l’investigatrice era certa
che fosse rigorosamente di seta; i capelli biondi erano sciolti sulle
spalle e acconciati in morbidi boccoli; era truccata con mascara e
matita nera intorno agli occhi chiari e un velo di lucidalabbra rosato
sulla bocca.
«Vi piacciono?», gli chiese con un sorriso tenue,
alzandosi e spostandosi su uno dei divanetti attorno al tavolino.
Intanto che aspettava la loro risposta li invitò ad
accomodarsi e chiese al maggiordomo, rimasto immobile accanto alle
porte del salone senza che i due se ne accorgessero, di portare tre
bicchieroni di Coca Cola.
Quando furono soli, Molly sorrise più apertamente e si
svaccò sul divanetto, lasciando che un piedino nudo toccasse
il tappeto prezioso e l’altro penzolasse giù dal
bracciolo. Sembrava una piccola Venere in posa per un famoso e
privilegiato pittore.
«Mio padre
e mia madre sono andati in
luna di miele in Sicilia e si sono innamorati così tanto di
quella terra che se ne sono portati un po’ a casa»,
spiegò stendendo il braccio e ruotandolo intorno a
sé, ad indicare tutto ciò che vedevano.
«È meraviglioso», soffiò
l’investigatrice, dando ancora un’occhiata
estasiata a ciò che la circondava.
«Sai, l’avevo intuito»,
esclamò invece Tom, picchiettandosi il pugno nel palmo della
mano. «Io e Bill siamo stati a Catania una volta e abbiamo
fatto un…».
«Set fotografico per L’Uomo
Vogue in un palazzo del
diciottesimo secolo», gli tolse le parole di bocca la
ragazzina, sorridendo furbescamente.
Lui ricambiò, arricciando le labbra. Poi, spinto dalla
curiosità, disse: «Allora, che cosa avete di tanto
urgente da dirvi tu e Grace?».
«Oh sì, certo», disse sbadigliando, come
se nulla fosse. «In realtà avrei bisogno di
parlare con Grace da sola, se non ti dispiace».
«Ah, beh, io…», balbettò Tom,
lanciando un’occhiata di fuoco alla detective che
l’aveva portato lì, contro la sua
volontà, per niente.
L’avrebbe detto anche ad alta voce e si sarebbe sfogato per
bene, se solo il maggiordomo non avesse bussato delicatamente alla
porta di legno massiccio color noce con un vassoio d’argento
fra le mani, sul quale c’erano i tre bicchieri con la Coca
Cola e delle ciotoline con stuzzichini e patatine. Lo posò
sul tavolino con grazia e chiese a Molly: «Le serve altro,
signorina?».
«No, grazie, puoi andare», gli rispose
distrattamente, con una mano già protesa verso le patatine.
Poi all’improvviso qualcosa la fece tornare indietro e chiese
ancora al maggiordomo: «Sai dove sono mamma e
papà?».
Si era sforzata di mantenere lo stesso tono distratto ed indifferente,
ma Grace si era subito resa conto di quanta fatica le fosse costato e
di come fossero stati scarsi i risultati: gliela si leggeva negli
occhi, quella tristezza profonda che l’assaliva quando si
parlava dei suoi assenti genitori. Perché lei poteva avere e
aveva tutto, ma le mancava proprio la cosa più importante:
un po’ d’amore da parte di coloro che
l’avevano data alla luce.
«Sì, signorina: il signor Delafield è
ancora nel suo studio; la signora Delafield invece è uscita
poco fa, ma non so dove sia andata. Probabilmente la governante lo sa,
vuole che glielo chieda?».
«No, no, non importa», sospirò con un
gesto vago della mano. «Ora vai pure, grazie».
Il maggiordomo abbassò il capo in un mezzo inchino e fece
per uscire dal salone, quando Molly lo richiamò per la terza
volta: «Anzi no, aspetta! Mi è venuta
un’idea», accennò un sorriso, guardando
Tom negli occhi. «Mentre io e Grace parliamo,
perché non fai vedere il resto della villa al signor
Kaulitz?».
«Con molto piacere», rispose il maggiordomo,
mettendosi da parte per far uscire prima il “signor
Kaulitz”, il quale si alzò e gettò
un’occhiata alle due ragazze prima di lasciarle sole.
Grace non esitò un attimo e le fu seduta accanto, con una
mano fra i suoi capelli e la guancia posata sulla sua fronte, a
mo’ di conforto.
«Ehi, che c’è?», le
domandò la ragazzina, anche se con poca voce e gli occhi
cerulei colmi di fragilità.
«Molly, quand’è che vedi i tuoi genitori
di solito?».
«Io… a cena, se va bene…»,
sospirò nuovamente, quella volta lasciando che tutto
ciò che si era tenuta dentro uscisse fuori, rendendola
più leggera. «Ormai però ci sono
abituata e non siamo qui per parlare di questo».
«Ma…!», tentò di ribattere la
detective, ma Molly glielo impedì parlandole sopra:
«La madre e il patrigno di Bill e Tom non sono ancora
atterrati a Los Angeles, c’è stato un problema
all’aeroporto di Amburgo e sono partiti un po’ in
ritardo. È questo l’imprevisto per il quale
dobbiamo guadagnare tempo prima di portare Tom a casa. Io ve
l’avevo detto, dicevo a mio padre di mandare uno dei suoi jet
privati a prenderli, ma voi non mi avete voluto ascoltare e questi sono
i risultati!».
Grace sollevò le spalle, come a scrollarsi di dosso
l’amarezza provocatale dal fatto che Molly non avrebbe
più parlato dei suoi genitori, inutile insistere. La
guardò e sorrise dolcemente, dicendo: «Quindi tu
sei corsa qui, ti sei infilata la vestaglia sopra il vestito che ti eri
messa e…».
«Ah, come hai fatto! Sono stata attenta a non far vedere
nulla!», piagnucolò, alzandosi e togliendosi la
vestaglia.
«Intuito. Però una persona in vestaglia non
dovrebbe essere truccata, ecco».
Molly sbuffò col naso e una volta abbandonata sul divanetto
la vestaglia, fece un giro su se stessa, mostrando
all’investigatrice il vestitino lilla che si era messa per la
festa che lei e Bill, soprattutto, avevano organizzato con tanto
impegno, visto che Grace si era rivelata una vera schiappa, eccetto nel
gonfiare i palloncini.
«Come mi sta?», le domandò, posando le
mani sui fianchi.
«Benissimo. Avevi dubbi?».
Si sorrisero e pensarono al povero Tom in balia del maggiordomo, in
giro per quell’enorme casa quasi del tutto disabitata. Per
non pensarci più si misero a bere Coca Cola e a mangiare
patatine e stuzzichini.
***
«Bene, tutto
si è momentaneamente sistemato», disse Bill fra
sé. «A Tom ci stanno pensando Grace e Molly, mamma
e Gordon dovrebbero arrivare tra poco e qui è tutto
pronto».
A quell’ultima affermazione si guardò intorno,
circospetto: sembrava che nel salotto si sarebbe svolta una festa per
bambini dell’asilo: c’erano palloncini colorati
ovunque, un tavolo su cui avevano sistemato tutte le bibite e le
cibarie per il buffet – le scorte di alcool erano nascoste
nella dispensa e ancora a raffreddarsi in frigo – e
striscioni e bandierine pendevano da una parte all’altra del
soppalco, sopra le loro teste. Nel giardino sul retro, per fare un
paragone, si sarebbe svolta la parte della festa riservata ai soli
adulti: Gustav e Georg avevano trovato un piccolo gazebo in garage, lo
avevano montato e sotto di esso si trovava un altro tavolino per un
piccolo aperitivo all’aperto. Inoltre, sempre loro due,
contavano di poter fare un bel barbecue, visto che le temperature miti
della California, lo Stato del sole, lo consentivano. Bill non era
stato molto d’accordo, essendo lui e suo fratello vegetariani
ormai da parecchi anni, ma non poteva di certo costringere tutti a non
mangiare carne solo per la sua scelta. Allora aveva acconsentito,
dicendo però che la carne avrebbero dovuto comprarsela loro
e loro avrebbero dovuto cuocersela.
Molly, invece, la sua collaboratrice numero uno, aveva organizzato
nell’altra parte del giardino e sotto il porticato una zona
living all’aperto con tappeti, cuscini e puff di tutti i
generi. Poi, per rendere l’atmosfera più romantica
al calar della sera – parole sue – aveva fatto
appendere dall’autista della sua limousine diverse file di
piccole luminarie che a cielo aperto sarebbero sembrate tante lucciole.
Si torturò il labbro inferiore, chiedendosi se non avesse
dimenticato qualcosa, e in quel momento entrarono in salotto Gustav e
Georg, di ritorno dal supermercato con una scorta di carne che avrebbe
sfamato un intero branco di lupi per diversi giorni.
Bill trattenne il senso di nausea che gli salì alla gola e
chiese agli amici: «Ho dimenticato qualcosa?».
I due si fissarono, poi posarono gli sguardi su di lui e il
più coraggioso, Gustav, innescò la bomba a mano:
«Per caso ti devi cambiare, prima che arrivi Tom, o resti in
tuta?».
Bill, inorridito, abbassò gli occhi sul suo abbigliamento
casalingo e bianco cadaverico corse su in camera sua a cambiarsi e a
truccarsi.
Ecco cosa aveva dimenticato!
Bill era rintanato in camera sua da più di
mezz’ora, quando Gustav e Georg, impegnati a salare la carne
che avevano comprato per il barbecue, sentirono suonare il citofono
della seconda entrata, quella del giardino sul retro.
Si guardarono, chiedendosi chi fosse, e per un breve attimo gli
passò per la testa l’idea che Tom avesse fatto
così tante storie da costringere le due a portarlo a casa
senza dargli il tempo di avvisare. Poi decretarono la cosa impossibile:
Grace e Molly non l’avrebbero mai permesso! Allora chi era?
Che fossero arrivati la madre e il patrigno dei gemelli?
Perché entrare dal retro?
«Senti, Georg, vai a vedere», disse Gustav.
«Io finisco qui».
Il bassista si affacciò da una delle porte finestre e oltre
il piccolo cancello vide parcheggiata un’auto della polizia e
quello che molto probabilmente era un agente in borghese.
Sbiancò e corse di nuovo dentro, strillando a bassa voce al
batterista: «Un poliziotto! Ma la festa non è
ancora iniziata, non può dirci che disturbiamo la quiete
pubblica!».
«Che cosa sta succedendo qui?», chiese Bill,
entrando in cucina.
Indossava una camicia a quadretti blu e neri, le maniche lunghe
arrotolate sulle braccia, sotto una maglietta nera e un paio di jeans
chiari, stretti; ai piedi un paio di scarpe da tennis, giusto
perché non aveva voglia di indossare i tacchi. Nella tasca
posteriore dei jeans, in più, aveva un cappellino grigio
semplice, da indossare appena si fosse alzata quella brezza leggera che
con l’arrivo della sera lo avrebbe fatto rabbrividire.
«C’è un poliziotto in borghese, fuori;
ha citofonato», gli spiegò Georg, ancora scosso.
Il frontman prima aggrottò le sopracciglia, confuso, poi il
suo viso perse colore e i suoi occhi castani, contornati da ombretto e
matita neri, si spalancarono fino all’inverosimile.
Ecco, ecco perché aveva sgridato Grace quando gli aveva
confessato di aver invitato Dylan alla festa per suo fratello:
perché non voleva trovarselo tra capo e collo
all’improvviso. Ma, purtroppo per lui, quella sgridata non
aveva cambiato le cose e Dylan, all’improvviso, gli era
piombato tra capo e collo.
Intanto Dylan, ancora fuori dal cancello, provò a citofonare
di nuovo, appoggiandosi con un braccio ad uno dei due pilastri che
reggevano la tettoia, inglobata totalmente dalla siepe che circondava
il giardino sul retro assieme alla rete metallica.
Lo sapeva, ne era certo, che avrebbe fatto meglio a non cogliere la
provocazione di Oswin e a non presentarsi, ma lì per
lì non aveva riflettuto e ora il suo orgoglio
l’aveva portato fino a lì, con il cuore
improvvisamente di piombo, ad ammettere che l’affetto che
nutriva per Grace non era più amore (ma ne era comunque
geloso come lo sarebbe stato un fratello nei confronti della sorellina
più piccola) e che ciò che realmente lo
preoccupava in quella casa non era il confronto con Tom,
bensì con il suo gemello.
Non voleva vederlo, decisamente no, meglio rimandare ancora la
questione. Diceva sempre così, ad un passo dal loro
chiarimento su quella famosa serata trascorsa insieme e sulle loro
parole dette in macchina. Una volta a casa, però, diceva
sempre il contrario, ossia che doveva vederlo, che dovevano chiarirsi
il più presto possibile. Gli mancava il coraggio, ecco cosa!
E come avrebbe spiegato tutto quanto ad Oswin, il quale sicuramente, il
giorno dopo, avrebbe voluto un resoconto dettagliato della festa?
Gettò un’occhiata verso le porte vetrate del
salotto e vide che ancora nessuno dava segni di volergli aprire. Allora
fece retrofront e stava per salire sulla sua auto
d’ordinanza, escogitando un imprevisto che non gli aveva
permesso di andare alla festa, quando sentì il cancelletto
schiudersi dopo una scossa elettrica. Sollevò il capo e vide
Bill attraversare il giardino con gli occhi bassi e le mani nelle
tasche dei jeans.
«Ehi», lo salutò sorpreso, ma anche
ansioso.
Bill accennò una risata soffiando l’aria dal naso
e sollevò il viso da terra per incontrare gli occhi scuri di
Dylan, che lo trapassarono da parte a parte.
«Ciao», lo salutò. «Grace mi
aveva detto che ti aveva invitato, ma non pensavo che saresti
venuto».
«Beh… nemmeno io», gli
confessò e dopo un attimo di pausa si sorrisero, avviandosi
entrambi verso il salotto.
***
Quando Tom tornò dal suo giro turistico non evitò
di lamentarsi con Molly e Grace, che l’avevano lasciato solo
con quel maggiordomo inquietante. (Perché un po’
inquietante lo era, secondo il suo parere).
«Non ti è piaciuta?», gli chiese Molly,
chiudendosi ancora meglio la vestaglia sul petto.
«Oh no, la tua casa è bellissima, anche se non
è definibile una casa: è una reggia! Solo che,
ecco, sareste potute venire anche voi!», si lagnò
imbarazzato.
«La prossima volta, allora», gli promise.
Quindi si alzò dal divano e Grace la imitò,
prendendo il chitarrista sotto braccio.
«Beh, grazie mille Molly, sei stata gentilissima a
ritagliarmi un po’ del tuo tempo oggi. Sai, era una questione
un po’ spinosa e seguirò sicuramente i tuoi
consigli. Grazie ancora», recitò divinamente
Grace, come se davvero avessero fatto un discorso del genere.
«Non c’è problema Grace, sai che su di
me puoi sempre contare», le sorrise e si scambiarono un
frettoloso abbraccio. Poi il maggiordomo, ricomparso magicamente, li
fece uscire dal salone e li accompagnò verso la loro auto.
L’autista, che li aveva aspettati a bordo piscina, con un
cocktail fra le mani, appena li vide tornare si sistemò il
nodo della cravatta e tornò al suo posto di guida,
dispiaciuto che la loro visita fosse durata così poco: non
aveva fatto in tempo ad abbronzarsi.
«A casa?», gli domandò, mettendo in moto
e percorrendo al contrario il sentiero che li aveva portati fin
lì.
Grace, consapevole grazie a Molly che finalmente i genitori di Bill e
Tom erano arrivati, annuì stringendo la mano di Tom, il
quale la guardò con un’espressione strana sul
volto, senza trovare la forza di chiederle il perché di quel
sorriso sereno e così bello.
Le chiese però della “questione spinosa”
di cui avevano parlato lei e Molly in sua assenza e Grace lo
liquidò in fretta, dicendo che avevano ufficialmente
stabilito che il loro contratto era concluso.
«Solo di questo?», domandò stupito.
Lei ribatté: «E di cos’altro?».
«Sembrava una cosa più importante»,
borbottò e lasciò perdere, deluso.
Dopo quasi venti minuti di viaggio finalmente arrivarono a casa Kaulitz
e Grace si sentì tutta un brivido, eccitata come una bambina
il giorno di Natale, e non poté impedirsi di sorridere in
modo fin troppo solare. Tom se ne accorse, come se n’era
accorto la prima volta, ma quella volta la fermò ad un passo
dalla porta d’ingresso e la guardò intensamente
negli occhi per capire che cosa stesse tramando.
«Che c’è?», gli
domandò lei, sul chi vive.
«Che cosa mi stai nascondendo?».
«Nulla, Tom, nulla», mormorò
prendendogli il viso fra le mani e posandogli un dolce bacio a stampo
sulle labbra, ad occhi socchiusi. «Sono solo contenta che tu
sia tornato a casa, che tu stia bene».
Tom si rasserenò e intenerito le concesse ancora qualche
effusione, poi tirò fuori dalla tasca dei pantaloni le
chiavi di casa e aprì.
Grace trattenne il respiro, lasciandolo andare per primo, e quando Tom
fece un passo dentro il salotto venne travolto da un urlo che lo fece
sobbalzare: «Bentornato a casa, Tom!».
Disorientato guardò i coriandoli che dopo un piccolo scoppio
erano volati dappertutto nel salotto, poi sentì gli applausi
e i fischi ed iniziò a focalizzare tutte le persone
presenti: Bill, Georg, Gustav, Molly, persino Dylan! Ma la sorpresa
più bella la ebbe quando vide sua madre con gli occhi lucidi
fare un passo fuori dal gruppo compatto e corrergli incontro con le
braccia aperte per stringerlo, incapace di contenere la sua gioia.
«Mamma!», gridò meravigliato,
ricambiando il suo abbraccio. Non poteva crederci.
«Gordon, ci sei anche tu! Oh, Dio,
è…», si arrestò e si
voltò di scatto verso Grace, la quale si accingeva a
chiudere la porta solo in quel momento. Quando ebbe i suoi magnifici
occhi verdi a disposizione, li fissò con un amore infinito,
tanto che Grace sentì un tuffo al cuore, ed
esclamò: «È opera tua! È per
questo che oggi mi avete sballottato di qua e di là, era
tutto per…».
Sciolse l’abbraccio con sua madre per andare da lei, ma Grace
portò le mani avanti, arrossendo sulle guance:
«Non è opera mia, è opera nostra»,
disse, indicando anche tutti gli altri presenti. «Soprattutto
di Bill e Molly, vai a ringraziare loro».
Tom la guardò ancora con quell’amore negli occhi,
fino a quando il suo sguardo non si fece malizioso e fu come se le
avesse detto: “Tanto a te ci penso io dopo”. Alla
fine di quello scambio silenzioso si voltò e con sua madre
ancora stretta al fianco raggiunse tutti gli altri, in primis suo
fratello, il quale lo stritolò in un abbraccio.
Grace rimase ad osservare la famiglia di Tom e per un attimo la
malinconia l’assalì, colpendola dritta allo
stomaco.
Ad un certo punto però incontrò gli occhi di
Dylan, lo stesso Dylan che aveva giurato che non sarebbe mai venuto
perché non voleva trovarsi solo con Bill. Le sorrise
dolcemente e alzò il pollice della mano destra.
Poteva ritenersi soddisfatta.
Nella confusione generale – manco ci fossero stati duecento
invitati – Tom e Grace si ritrovarono da soli solo dopo un
paio d’ore, quando il sole tramontava e il cielo era una tela
di pennellate calde e sgargianti: arancioni, rosse, rosa.
Molly aveva detto di iniziare ad accendere le luci appese nel giardino
sul retro e Gustav e Georg avevano deciso che era arrivato il momento
giusto per mettere su un po’ di carne.
Tom uscì fuori per prendere una boccata d’aria,
non perché dentro si sentisse soffocare da tutte quelle
attenzioni, ma perché era così felice che credeva
che se non avesse sbollito un po’ tutta quella contentezza
sarebbe esploso. La trovò seduta su uno dei puff sistemati
sotto il porticato, che osservava il cielo con aria pensierosa, i palmi
delle mani sotto il mento.
«Ehi», sussurrò sedendosi al suo fianco
e posandole un lieve bacio sulla tempia. «Mi chiedevo proprio
dove fossi finita».
Grace si lasciò abbracciare e sorrise furbescamente.
«Dici davvero? Io invece scommetto che non ti eri nemmeno
accorto della mia assenza».
«E va bene, hai vinto», sbuffò e le
passò una mano sulla schiena, come a volerla riscaldare.
«Il fatto è che… Dio, non avrei mai
immaginato che potesse accadere una cosa del genere. Mia
madre… avete fatto venire qui mia madre! La persona
più importante del mondo dopo Bill…».
Vedendo i suoi occhi adombrarsi si ammutolì e ripercorse le
parole che aveva detto, trovandoci, forse, qualcosa che aveva potuto
farle del male.
«Scusami», mormorò prendendole il mento
fra le dita per immergere di nuovo lo sguardo nel suo, fuggito per un
breve attimo, ma vi trovò soltanto un leggero stupore.
«Non dovevo, visto che tua madre…».
Lei capì ciò che intendeva e gli sorrise
rassicurante, accarezzandogli una guancia. «Non ti
preoccupare, Tom. Non devi nemmeno pensarci. Sono contenta che tu sia
felice, contentissima; è quello che volevo. Sai,
l’idea di portare qui tua madre è stata di
Bill… dopo che Molly aveva ipotizzato di farti una piccola
festicciola. Insomma, io ho fatto ben poco, ma tutto quello che potevo
l’ho fatto con piacere e sono davvero contenta che ti sia
piaciuta la sorpresa».
«Siete stati grandi, tutti quanti. Devo confessarti che
all’inizio mi veniva da piangere, mi sono
commosso!», le sussurrò, prima di ridere
sommessamente con lei e di baciarla sulle labbra.
Si scostarono, nonostante non fossero del tutto sazi l’uno
dell’altra, quando Dylan uscì dalle porte vetrate
del salotto con una bottiglia di vodka in una mano e alcuni bicchieri
di carta nell’altra.
«Eccovi qui», esclamò e si sedette nel
puff di fronte a loro, a gambe divaricate.
Posò la bottiglia di vetro per terra e distribuì
i bicchieri. Grace, quando ricevette il suo, lo guardò con
disapprovazione e il poliziotto ghignò, prevenendola:
«Lo so che è quasi un sacrilegio bere la vodka in
questi bicchieracci, Grace, ma Bill non si ricordava dove fossero
quelli adatti e non avevo neanche voglia di tirar fuori quelli di
vetro. Fai uno sforzo per questa volta».
Detto questo, iniziò a versare nei bicchieri il liquido
trasparente.
«Vacci piano con lui, Dylan», lo ammonì
l’investigatrice, indicando il bicchiere di Tom.
«Oh, dai Grace!», replicò Tom, punto da
quel suo atteggiamento da mammina.
«L’hai detto anche tu, oggi: sei ancora
convalescente, l’alcool non lo dovresti nemmeno vedere. Anzi,
sai cosa? Avevi detto anche che avevi bisogno di riposo, quindi
perché non te ne vai in camera a riposare?», lo
stuzzicò, sorridendo maliziosamente.
E Dylan resse il suo gioco: «Sì, mi sembra
un’ottima idea! Così noi inizieremo a spassarcela
sul serio! Non è vero, Grace?».
«Assolutamente sì».
Fecero scontrare i loro bicchieri e mentre Tom minacciava, innervosito
da quella scenetta: «Smettetela voi due»,
l’investigatrice e il poliziotto bevvero tutto d’un
fiato, per poi guardarsi e strizzare gli occhi con una risata che gli
fremeva sulle labbra.
Grace, vedendo che il chitarrista aveva messo il broncio, gli diede una
spallata delicata e posò il viso contro suo collo. Questo
parve calmarlo e tornò a sorridere e a chiacchierare
più o meno amabilmente con Dylan, facendogli anche notare
che non lo aveva mai visto senza indosso la divisa della polizia
stradale. Portava un paio di pantaloni neri e un maglioncino grigio a V
che gli metteva in evidenza i muscoli delle spalle possenti e dei
pettorali, senza contare il suo collo taurino che a vederlo da dietro
faceva una certa impressione.
Tom stava proprio per chiedergli in quale palestra andasse, quando
tutti e tre si voltarono verso una voce dolce, nonostante la presenza
molto forte dell’accento tedesco nell’inglese
parlato.
«Signora Kaulitz, si sieda!», esclamò
Dylan indicando accanto a sé con fare amichevole.
La donna gli sorrise calorosamente, anche se poi non resistette negli
dirgli che preferiva essere chiamata Signora Träumper o, se
preferiva, semplicemente Simone. Il poliziotto si scusò per
la figuraccia e la sua carnagione caffellatte si colorò
tanto da sembrare rosea.
La mamma di Bill e Tom sorrise candidamente a suo figlio, come se non
fosse successo nulla, e poi si concentrò sulla ragazza
seduta al suo fianco.
«Allora… lei è la tua ragazza, eh
Tom?», gli domandò, tenendo fissi gli occhi su di
lei, che arrossì ed impallidì a distanza di pochi
attimi, percependo che anche Tom si era irrigidito grazie alla sua mano
che le teneva possessivamente un fianco.
«È… è la mia
ragazza?», balbettò il chitarrista, guardando
prima Grace e poi di nuovo sua madre. Osservò anche Dylan,
per una frazione di secondo soltanto, ma la ragazza se ne accorse e
sentì il sudore bagnarle la schiena.
«Sei la mia ragazza, Grace? Sì, lo è.
Vero?», le domandò all’improvviso e lei
trasalì, tanto che nella foga di non farlo notare ebbe la
sensazione di essersi inghiottita la lingua. Così
accennò un timido cenno d’assenso muovendo il capo
su e giù, sentendo poi l’impellente bisogno di
scappare via.
«Scusatemi un minuto, devo… devo vedere una
cosa», mormorò, ritrovando un filo della propria
voce.
Si alzò e si rifugiò in salotto, dove
trovò Bill, Molly e il padre acquisito dei gemelli, Gordon,
seduti sui divani di pelle bianca, che discutevano di musica. In quel
momento la ragazzina milionaria stava raccontando la lunga storia
dell’antico pianoforte di suo padre, custodito gelosamente in
chissà quale delle tantissime camere della sua villa.
Bill fu il primo ad accorgersi della detective e si scusò
con Molly e Gordon per andare da lei. La scortò in cucina e
per farla rinvenire – sembrava che avesse appena visto un
fantasma – le versò un po’ di Coca Cola
in un bicchiere.
«Ma che è successo?», le chiese,
preoccupato.
«Tua madre… Tom… Dylan…
io…», balbettò e tracannò
l’intero bicchiere di Coca Cola.
Gli zuccheri la fecero tornare in sé e pensò che
in quel momento non era abbastanza lucida per riflettere
sull’accaduto: aveva bisogno di un po’ di tempo per
pensarci e poi avrebbe saputo valutare il tutto razionalmente.
«Niente, Bill, niente», lo liquidò
allora e lui provò a ribattere, ma lo sguardo che gli
rivolse gli fece chiudere la bocca con un’espressione
insoddisfatta sul viso.
«Piuttosto, tu come stai?», gli domandò
poco dopo, per distrarsi e curiosa di sapere. «Alla fine
Dylan è venuto».
Bill abbassò gli occhi.
«Già…».
«È successo qualcosa, prima che noi
arrivassimo?».
«No, noi… non abbiamo parlato molto, in
verità. E se è capitato abbiamo discusso del
più e del meno».
Sospirò abbattuto e continuò: «Grace,
io ci provo con tutte le mie forze, ma… appena mi decido a
parlarne, il mio cervello va nel pallone e non riesco a spiccicare una
parola. Come devo fare, secondo te?».
Lei strinse le labbra e guardò il soffitto, poi gli sorrise
tornando a fissare i suoi occhi nocciola. «Vedrai che quando
sarà il momento riuscirai a parlare e tutto si
sistemerà».
La faceva facile lei, uscendosene con una frase così poco
personale, ma la ringraziò comunque per lo sforzo.
«Spero davvero che tutto finisca per il meglio, anche se
sinceramente non so quale sia, il lato positivo di tutta questa
faccenda. Insomma… metti caso che – ipotesi eh!
– che Dylan e io… No, è assolutamente
impossibile! Non siamo per niente compatibili! Lui… lui
è…».
Grace trattenne a stento un sorrisino. Si stava arrampicando sugli
specchi in modo talmente tenero e buffo che non poteva davvero non
volergli bene e stare dalla sua parte.
«Lui
è… cosa,
Bill?», lo spronò a continuare.
«Lui è… non è vegetariano,
ecco!», esclamò, sicuro che avesse avuto
un’intuizione geniale, ma Grace lo fece ricredere subito.
«E allora? Anche io non sono vegetariana, eppure Tom non si
è fatto tutti questi problemi».
Bill si prese la testa fra le mani, guardandola implorante. Lei gli
rivolse un altro sorriso confortante e gli chiese, con voce pacata e
sporgendosi verso di lui per fondere i colori delle loro iridi:
«Lui ti piace?».
Bill boccheggiò, proprio come la prima volta che
gliel’aveva chiesto. Il suo cuore iniziò a correre
all’impazzata e qualcosa si smussò dentro di lui,
sentì un’eco nella sua testa e la risposta gli
salì alle labbra, ma non ebbe la forza di sputarla fuori.
«E va bene», intervenne Grace, dandogli un colpetto
sul braccio. «Vorrà dire che avrai le idee chiare
quando sarà il momento».
Bill ingoiò con forza le parole che gli erano affiorate alle
labbra ed annuì impacciato. In quel momento sentirono Gustav
e Georg imprecare e litigare e girandosi videro un sacco di fumo
alzarsi dal barbecue. Uscirono in fretta e capirono che non avevano mai
fatto un barbecue in vita loro.
L’investigatrice gettò uno sguardo a Tom,
preoccupata che quel fumo potesse fargli male, ma appena
incrociò i suoi occhi si ricordò di poco prima e
li evitò. Poi si rivolse a Dylan, il quale si
alzò dopo un cenno d’assenso e andò a
divedere i due, dicendogli che ci avrebbe pensato lui.
«Sai, è un peccato che tu sia
vegetariano», disse Grace a Bill, che tossiva col pugno
chiuso di fronte alla bocca e gli occhi piccoli.
«Perché?», le domandò
incuriosito.
«L’unica cosa che sa fare Dylan, in fatto di
cucina, è proprio il barbecue!»,
accennò una risata, mentre Bill la guardava con una smorfia
sul viso.
Si voltò per andare ad aiutare il suo amico poliziotto,
nonostante non ne avesse bisogno, ma venne fermata da Simone, la quale
le prese una mano e la invitò a sedersi, visto che prima era
scappata via. Disse proprio “scappata via”, anche
se la detective aveva fatto di tutto per non farla sembrare una fuga.
Quella volta fu Grace a guardare Bill in modo implorante, ma lui
sogghignò e la salutò con una mano prima di
ritornare da Molly, la sua nuova compagna di giochi. Così si
ritrovò di nuovo seduta accanto a Tom, il quale non si era
minimamente accorto del suo disagio.
«Sai Grace, ci rimango sempre male quando è Bill a
dirmi che il mio Tom si è innamorato. Mai una volta che me
lo dicesse spontaneamente!», Simone guardò suo
figlio con occhio severo, per poi tornare a sorridere.
«Nonostante la parlantina di Bill, non so molto su di
te!».
«Ahm… vuole sapere qualcosa di me?»,
domandò innervosita, gettando un’occhiata
d’aiuto a Tom, che non la colse. Eppure sapeva quanto fosse
restia a parlare di sé! Con lui ci aveva messo un bel
po’ ad aprirsi, come poteva pensare che quella volta lo
avrebbe fatto in quattro e quattr’otto? Con sua madre, per
giunta!
La donna annuì sorridente, unendo le mani sulle gambe e
protendendosi in avanti, in ascolto.
Grace si schiarì la voce, senza sapere da dove cominciare.
Incrociò per caso lo sguardo di Dylan che dalla sua
postazione al barbecue, non molto lontana, riusciva a sentire tutto
– senza capire. Le rivolse comunque un’occhiata di
conforto, scuotendo il capo posando gli occhi su Tom, che se solo
avesse saputo lo avrebbe definito come “l’imbecille
che non era arrivato a capire su quale sedia spinosa fosse stata
costretta a sedersi la sua ‘amata
ragazza’”.
Simone, il cui sorriso si era lentamente spento al silenzio di Grace,
la guardò allarmata, incitandola a raccontarle qualsiasi
cosa della sua vita. «Per esempio quanti anni hai, che lavoro
fai…». Sembrava stranita e questo non fece altro
che innervosire ancora di più la ragazza.
«Beh, ho venticinque anni», rispose alla prima
domanda, la più facile.
«Oh, lo sapevo, ero sicura che fossi più grande di
lui!», esclamò la donna. «Sai, si vede
subito dai tuoi occhi che sei più adulta e
responsabile…».
«Responsabile», ripeté Grace
rabbrividendo, pensando a tutti i casini e alle situazioni pericolose
in cui si era ficcata nella sua carriera.
«Sì, si vede proprio… Chi ti ha
insegnato a parlare tedesco? Hai una pronuncia perfetta!».
«Mio padre; lui era tedesco», rispose senza
intonazione nella voce.
«Oh, capisco», mormorò Simone, capendo
che non doveva esserci più. «E tua madre, tua
madre invece è di qui?».
Grace trasse un lungo respiro prima di parlare di sua madre, ancora in
ospedale poiché non si era ancora ripresa dallo shock
tremendo che aveva subìto. Simone intuì che anche
quel tasto era dolente e stava per cambiare discorso, come Tom tra
l’altro, ma la detective li anticipò di mezzo
secondo: «In realtà lei è nata a
Londra, ma c’è stata poco, perché suo
padre era americano».
«Wow», soffiò Simone, nascondendo
l’agitazione: pian piano quella conversazione
l’aveva resa anche più tesa di Grace.
«Hai un bel po’ di culture dentro di te,
allora».
«Sì, penso di sì»,
accennò un sorriso, il primo e piuttosto debole.
«E… che lavoro fai?».
La ragazza scosse il capo tristemente. «In questo momento
nessuno, sto…».
«Fa l’investigatrice privata», si mise in
mezzo Tom, brusco.
Dylan si voltò di scatto a guardarlo: non sapeva che cosa
avesse detto, ma dalla sua irruenza capì che avrebbe fatto
meglio a stare zitto, come suo solito. L’espressione
sconvolta di Grace, inoltre, gli confermò i suoi sospetti.
«Sì, ma non sono certa di voler continuare
a…», provò ad aggiungere Grace, ma Tom
la interruppe ancora una volta.
«Quando c’è stata quella sparatoria lei
c’era e probabilmente se non ci fosse stata io sarei morto.
Le devo la vita».
«Non dire sciocchezze, Tom», lo
rimproverò severamente, fulminandolo con lo sguardo.
«È la verità, Grace, e non vedo
perché tu te ne vergogni. Tu hai difeso me e Bill. Quello mi
ha sparato e tu l’hai fatto fuori. Che
c’è di più lodevole?».
«E credi che mi sia sentita felice, nel farlo fuori? Non hai
idea di che cosa significhi spegnere di propria iniziativa una vita
umana!».
«Ma lui era dei cattivi! L’hai fatto per salvare
me!».
«Basta!», strillò Simone, con gli occhi
spalancati e il fiato grosso.
Entrambi si voltarono verso di lei e la videro annaspare, spaventata da
tutto ciò che aveva udito.
«Basta», disse di nuovo, a bassa voce. Con gli
occhi lucidi si alzò e si rifugiò in salotto.
«Bravo, complimenti», sibilò Grace,
alzandosi anche lei, furiosa.
«Tanto prima o poi lo avrebbe saputo», rispose a
tono Tom.
«Sì, ma non volevo che lo sapesse così!
L’hai traumatizzata, ora crede che io vada in giro ad
uccidere la gente!».
Il chitarrista si alzò, sull’orlo di perdere le
staffe. «Non dire stronzate!».
«Ehi, Tom», lo chiamò tranquillamente
Dylan, come se non si fosse accorto del loro litigio.
«Dì ai tuoi amici che la carne qui è
pronta, di portarne dell’altra, e i piatti e tutto il
necessario. Finalmente si mangia!».
Tom grugnì infastidito e fece come aveva detto Dylan, ma
solo perché non voleva vedere Grace per un po’.
Avrebbe voluto dire a tutti che era stanco e rifugiarsi nella sua
stanza, ma era la sua festa e non aveva intenzione di rovinarla
ulteriormente agli altri, anche se il danno ormai era fatto e per lui
era già terminata.
Fino alla fine della festa, verso le dieci e mezza di sera, si era
sempre preoccupata di tenersi ben lontana da Tom e da sua madre.
Si era fatta in quattro per rendersi il più occupata
possibile: aveva distribuito da mangiare a destra e manca; aveva
aiutato Dylan al barbecue e in quell’occasione gli aveva
proibito di parlare dell’accaduto, anche se lui aveva
accettato solo a patto che lei gli raccontasse che fine avessero fatto
i due marines suoi amici. Lo aveva accontentato,
dicendogli che se
n’erano andati da Los Angeles per evitare che Loro li
cercassero in tutta tranquillità, ora che lei aveva deciso
di lasciare le indagini.
«Dove andrete?», mormorò Grace con voce
flebile, nel corridoio deserto dell’ospedale.
Era molto tardi, notte fonda, e sembrava che anche i medici e le
infermiere fossero andati a dormire. Il silenzio regnava sovrano.
«Un po’ di qua, un po’ di
là», rispose Bryant, scrollando le spalle. Quella
vita per lui non era nuova.
«È meglio così, bambina»,
disse Lionel, avvolgendole un braccio fra le spalle ed attirandola al
suo petto roccioso per posarle un bacio sulla fronte. «Non
possiamo dargliela vinta un’altra volta».
«Sparirete», continuò la ragazza,
iniziando a stringersi a lui come una bambina incapace di lasciar
andare suo padre. «Non ci sentiremo più. Come
farò a stare tranquilla? Come
farò…?».
«Shhh». L’ex-marine le posò
delicatamente le mani sulle spalle e guardò i suoi occhi
lucidi. «Ci rivedremo, te lo prometto. Ti voglio bene,
bambina. Mi mancherai».
«Anche io te ne voglio e… mi mancherai anche
tu».
Contemporaneamente sciolsero l’abbraccio e lui e Bryant si
diressero verso l’uscita dell’ospedale.
Stavano per svoltare l’angolo, quando Grace chiamò
Lionel a gran voce, infischiandosene del fatto che avrebbe potuto
svegliare qualcuno. Lui si voltò e la guardò con
espressione stanca e triste, serrando le labbra.
«Sei come un padre per me», ammise finalmente
Grace, più a se stessa che a lui. «Non mi
abbandonare anche tu».
Lionel sorrise amaro e scosse il capo lentamente. Era una promessa.
Quando era giunto il momento
di sbaraccare aveva aiutato a ripulire tutto, sia il salotto che il
giardino sul retro, occupandosi dell’uno quando Tom e Simone
non erano lì e viceversa.
Alla fine però li incrociò per forza, al momento
degli «Arrivederci» e dei «Buona
notte».
Simone e Gordon dissero che sarebbero partiti per tornare in Germania
non il giorno seguente, ma quello dopo ancora, e la donna si era
fortemente opposta quando Bill aveva proposto loro di stare
lì a dormire, invece di andare in hotel. Tom non ci
provò nemmeno a trattenerla lì e solo
successivamente Grace ne avrebbe capito il motivo.
Una volta andati via loro, gli altri decisero di rimanere insieme
ancora un po’.
«Molly, sei sicura che puoi restare?», chiese Bill
premuroso. «Non è che poi i tuoi
genitori…?».
La ragazzina sventolò una mano, facendo una pernacchia.
«È già tanto se si ricordano che sono
qui».
Quindi rimase anche lei e provò a far parlare Grace, per
capire meglio ciò che era successo con Tom, ma non ottenne
nulla.
Pian piano tutti si fecero più silenziosi, sotto quelle
finte lucciole nel giardino sul retro, e una strana calma si
impossessò di loro, tanto che Gustav e Georg fecero pace e
Molly si addormentò.
Grace si rese conto di essere stanca e che l’unica cosa che
la teneva sveglia era la bottiglia mezza vuota di vodka che aveva in
una mano e quell’orribile bicchiere di carta
nell’altra. Così si alzò da uno dei
puff sotto il porticato e all’inizio barcollò, poi
si scrollò di dosso il sonno e l’alcool come un
cane bagnato si scrolla di dosso l’acqua e la schiuma.
«Ragazzi, io vado a casa», annunciò,
gettando distrattamente il bicchiere in uno dei sacchetti di plastica
che avevano usato per pulire.
«A casa? Non rimani qui?», domandò Bill,
stupito.
«No, vado a casa mia».
A quell’affermazione ripetuta Tom capì che faceva
sul serio e si alzò faticosamente dal suo puff per andarle
incontro.
«Perché?», le chiese con tono stanco e
ancora un po’ rancoroso.
«Perché mi va così».
«Grace… dai», sbuffò
prendendole la mano e chiudendo gli occhi, davvero stanco e stufo di
quel gioco.
La detective però si liberò dalla sua stretta e
salutò tutti con un mezzo sorriso, tranne lui. Per fortuna
Dylan non aveva proposto di accompagnarla, o sarebbe davvero esploso
dalla rabbia.
Quando Grace se ne fu andata col suo fuoristrada, il silenzio si fece
più carico di tensione.
Bill e Dylan, fissando il chitarrista, pensarono che avrebbe iniziato
urlare e a prendere a calci e pugni qualsiasi cosa si fosse trovato
sotto il naso. Ne erano talmente sicuri che la sua improvvisa calma li
preoccupò ancora di più.
«Vado a dormire, allora. Grazie mille per la festa ragazzi,
è stata uno spasso fino ad un certo punto», disse
senza alcuna punta di ironia nella voce, prima di ritirarsi nella sua
camera da letto.
Dylan e Bill rimasero soli nel giardino sul retro. Molly, che dormiva
beatamente su vari cuscini e su uno dei tappeti persiani che aveva
procurato lei, non era da contare. Seduti l’uno accanto
all’altro su due puff diversi, guardavano il cielo scuro e le
lucine che penzolavano, intrecciandosi, sopra le loro teste.
«Non era il finale che mi aspettavo»,
esordì Bill, rompendo il silenzio.
«Se devo dirti la verità, nemmeno io».
«Cioè… Grace e Tom non si sono rivolti
la parola per tutta la sera! Pagherei oro per tornare indietro nel
tempo ed essere presente nel momento in cui tutto si è
rivoltato. Tu c’eri, vero?».
«Sissignore», annuì e si
versò un po’ della vodka avanzata da Grace nel suo
bicchiere. Ci pensò due volte prima di berla, visti i
precedenti con Bill, ed infatti poi abbandonò il bicchiere
sul pavimento.
«Peccato che non abbia capito un accidenti di ciò
che si sono detti: parlavano in tedesco», concluse.
«Ah. Che peccato».
«Di sicuro non per Tom: se avessi capito sono certo che gli
sarei saltato addosso e l’avrei fatto a pezzi».
«Beh, allora sono contento che tu non abbia
capito», disse Bill sorridente. «Dopotutto
è mio fratello e non mi sarebbe piaciuto vederlo di nuovo in
ospedale».
Dylan rimase in silenzio per un po’, meditabondo. Quando si
decise a parlare di nuovo aveva una voce diversa, più calma,
apprensiva, quasi preoccupata, e gli occhi velati da
un’antica tristezza.
«Tu sai quali intenzioni abbia con Grace? Nel senso,
è una cosa seria?».
«Sarebbe un cretino, se non facesse sul serio con
lei», borbottò, incrociando le braccia al petto.
«Tom è pazzo di lei, è cotto come una
pera! Ancora non lo ha ammesso, ma so che si getterebbe nel fuoco per
lei, perché dentro di sé lo sa che è
innamorato».
«Spero che sia davvero così»,
sospirò. «E se dovesse farle del male, non ti
sorprendere se lo vedi tornare a casa con un occhi nero e qualche osso
rotto».
Bill sorrise, dicendo di aver capito perfettamente.
«Ma tu… tu sei ancora innamorato di
lei?», domandò poi, imbarazzato e anche un tantino
spaventato dalla sua risposta.
«Io… No, credo di no. Ci tengo tantissimo a lei,
è come una sorella, ma… non è
più amore, no. E poi ho così tante altre cose per
la testa che l’amore è l’ultima cosa che
voglio trovarmi tra i piedi».
Il cantante abbassò il capo, rosso come un peperone e
dispiaciuto per quell’affermazione. All’improvviso
sentì la mano di Dylan posarsi sotto il suo mento e
sollevarlo.
«Bill?», lo chiamò dolcemente, piantando
gli occhi nei suoi. Il frontman trasalì. «Che
è successo quella sera?».
Gli ci era voluto tantissimo impegno, ma ora che gliel’aveva
chiesto si sentiva già molto più leggero, a
prescindere dalla sua risposta.
«Io… io non lo so, Dylan»,
balbettò, sentendosi pungolare il cuore. «So solo
che da quella sera tutto è cambiato… io
ti… ti guardo in modo diverso»,
confessò e tutto d’un tratto si sentì
esausto, per questo si liberò dalla stretta di Dylan e
tornò a fissare le sue scarpe.
«Okay», disse il poliziotto, respirando
profondamente. «Non avrei mai immaginato di trovarmi in una
situazione del genere e… la verità è
che non so come comportarmi».
Bill stava per dire che nemmeno lui, che era la prima che si sentiva
attratto così potentemente da un ragazzo, ma non ne ebbe il
tempo.
«Vedi, io non voglio ferirti e so che in qualche modo lo
farò e ti chiedo scusa già adesso,
perché non vorrei davvero… tu sei
così… insomma, Bill, come posso
dirtelo?».
«Non c’è problema, Dylan. Io, in
fondo… lo sapevo, ecco».
«Sapevi che cosa?».
Lo sguardo di Dylan gli bruciò la parte di viso che stava
scrutando. «Sapevo che tu… che non ci sarebbero
state speranze».
«Bill…».
«No, davvero. Lo sapevo, ero pronto ad affrontare tutto
questo», disse con decisione, tanto da non ammettere
repliche. «Va benissimo così, credimi».
«Davvero? Sei sicuro?».
«Sì, sì certo»,
accennò un sorriso malfermo e mosse energicamente il capo su
e giù, fin troppo.
«Bene», sfiatò Dylan, ma non si
sentì per nulla sollevato, anzi. Si alzò dal
puff, con la sensazione che si sarebbe schiantato presto contro la dura
realtà. «Allora… amici come
prima?».
«Certo. Amici come prima», ripeté Bill,
non convinto, e gli strinse mollemente la mano che gli aveva teso.
In quel momento Tom uscì fuori a passo spedito e sia Bill
che Dylan sobbalzarono, lasciandosi subito la mano. Tom li
fissò per pochi istanti, ma necessari a fargli intuire tutto
e a sconvolgerlo. Forse fu per questo che si avventò ancora
più malamente su Molly per svegliarla. Lei si
svegliò dopo pochi secondi e sembrò piuttosto
lucida per una che si era appena svegliata, ma Tom, nel suo momento di
irrazionalità, non se ne accorse minimamente.
«Vieni, ti porto a casa», le disse e se la
trascinò dietro, tirandola bruscamente per un braccio.
«Dopo vai da Grace?», gli chiese tranquillamente
Bill e l’occhiataccia che ricevette in risposta la
interpretò come un sì forte e chiaro.
Tom se ne andò con Molly, sbattendo con violenza la porta
principale. Dylan e Bill tornarono a guardarsi negli occhi e subito si
pentirono di averlo fatto; fuggirono l’uno
dall’altro, ma faticavano a lasciarsi andare veramente.
Alla fine il poliziotto, rassegnato e con un sorriso dolente sulle
labbra, disse sottovoce: «Buona notte, Bill», per
poi dirigersi verso il cancelletto con le mani nelle tasche e le spalle
contratte per il vento freddo.
Bill si sentì morire ad ogni suo passo. Avrebbe voluto
fermarlo, dirgli di restare, ma con che coraggio? Lui non lo voleva,
non lo avrebbe mai voluto, non aveva senso aggrapparsi a delle pure
illusioni.
«Buona notte anche a te», mormorò quando
ormai Dylan era salito in auto e aveva acceso il motore per andarsene.
Il frontman dei Tokio Hotel si lasciò cadere sul puff alle
sue spalle e strinse le labbra per trattenere i singhiozzi che gli
assalivano la gola, mentre le lacrime gli offuscavano la vista.
Solo in quel momento riuscì ad ammettere a se stesso che
Dylan gli piaceva, eccome, e che era stato uno schifoso bugiardo a dire
che era pronto ad affrontare tutto quello. Se lo fosse stato davvero
non avrebbe sofferto così tanto, solo in quel silenzio,
sotto quel cielo senza luna, illuminato soltanto dalle finte lucciole
che penzolavano sulla sua testa.
***
«Grace non
sarà contenta di sapere che mi hai costretta a dirti dove
abita», disse Molly appoggiandosi al finestrino con la
tempia, gli occhi socchiusi.
«Non ti ho costretta affatto», rispose il
chitarrista, teso come una corda di violino.
Continuava a dirsi di pensare alla strada, oppure di prepararsi tutto
ciò che doveva dire a Grace, ma non riusciva proprio a
cancellare ciò che gli era balenato alla mente come un
fulmine a ciel sereno vedendo Bill e Dylan.
Appena li aveva visti insieme, solo loro due, il suo stomaco si era
chiuso di colpo. Le rotelline della sua testa avevano iniziato a girare
all’impazzata e aveva avuto la certezza di aver capito la
causa della stranezza del suo gemello: era innamorato. Di Dylan?!
Faceva di tutto pur di dirsi che si sbagliava, che aveva interpretato
male tutto quanto, ma era tutto così chiaro, ora! No, non
aveva sbagliato. E questo lo terrorizzava. Un po’
perché Bill quando si innamorava diventava
un’anima in pena, un po’ perché avrebbe
dovuto abituarsi a sentirlo parlare ventiquattr’ore su
ventiquattro di un ragazzo,
un po’ perché quel ragazzo, diamine, era Dylan,
una specie di ex per Grace!
In quel momento capì che era proprio per tutti i problemi
che si stava facendo che forse Bill aveva fatto in modo di non
farglielo sapere: non voleva farglielo pesare e chissà,
chissà se Grace sapeva tutto quanto? Magari era stato Dylan
a parlarne con lei e Dylan… ah, chissà che cosa
le aveva detto circa il suo fratellino!
Strinse con forza il volante e il piede gli scivolò
sull’acceleratore, facendolo sbandare un pochino.
«Che cosa ti prende, Tom?!», strillò
Molly, del tutto sveglia. «Non ti conviene andare da Grace in
queste condizioni, sai? Ti devo ricordare che ha una pistola e che
potrebbe spararti per autodifesa?!».
«Piantala, Molly!», la rimproverò.
«Accosta. Accosta ti ho detto!».
Tom sbuffò sonoramente e mise le quattro frecce, fermando la
sua Audi sul ciglio della strada.
La ragazzina aprì la portiera con fare brusco e scese, fece
per due volte avanti e indietro costeggiando la fiancata
dell’auto e poi si appoggiò al guard-rail,
portandosi le mani sul viso.
Anche Tom scese, sentendosi in colpa, e la raggiunse in tempo per
sentirla mugugnare: «Volevo soltanto fare una festa per le
tue dimissioni dall’ospedale, volevo che tutti fossero
felici… e guarda, guarda cos’è
successo! È andato tutto a rotoli, tutto!».
«Molly… Non fare così, dai»,
cercò di confortarla, sollevandole il mento per guardarla
negli occhi. «Non è andato tutto a rotoli e anche
se fosse la colpa non è tua. Mi hai organizzato una festa
stupenda e non ti ho nemmeno ringraziata come si deve».
«Mi dispiace Tom, mi dispiace tanto»,
biascicò, stringendosi a lui.
Il chitarrista guardò il cielo, apprensivo. «Non
è colpa tua, te l’ho già detto. E
adesso torna in macchina, stai tremando; non vorrei che ti prendessi
qualcosa».
Molly obbedì e Tom riprese il suo posto di guida, diretto
verso la villa dei Delafield.
Furono lì dopo altri dieci minuti di strada e Molly lo
pregò di accompagnarla fino all’entrata,
perché quell’enorme giardino di notte
l’aveva sempre spaventata a morte. Tom
l’accontentò e la accompagnò fino alle
porte vetrate dell’ingresso, la salutò con un
altro abbraccio e le augurò la buona notte, poi si
voltò per tornare alla sua auto, quando la ragazzina disse:
«Appena torni a casa, stai vicino a Bill».
Il chitarrista la osservò e il suo cuore perse un battito,
mentre il suo stomaco si chiudeva un’altra volta.
Annuì con un cenno del capo e se ne andò.
***
Era
appena uscita dalla doccia e si era appena infilata
nell’accappatoio, quando sentì bussare forte alla
porta. Con uno sgradevole presentimento ciabattò fino
all’ingresso, mentre si frizionava i capelli con un
asciugamano, e sbirciò dallo spioncino. Sobbalzò
nel vedere Tom, ma subito dopo la rabbia tornò a circolarle
nelle vene e decise di ignorarlo, fecendogli credere di non essere in
casa.
Fece per tornare in bagno come se nulla fosse, ma le parole di Tom la
raggiunsero come un’eco.
«Grace, lo so che sei in casa. Non me ne andrò fin
quando non mi avrai aperto».
L’investigatrice ritornò alla porta e vi si
appoggiò con le spalle. Trasse un respiro profondo e disse
stancamente: «Che cosa vuoi?».
«Voglio parlare con te».
«Non ho voglia di parlare in questo momento».
«Io sì. Mi fai entrare?».
Grace sollevò gli occhi al soffitto, poi si
guardò intorno. Far entrare in casa sua Tom sarebbe stato
l’ultimo passo per rendere la loro relazione una cosa
più che ufficiale. Nessun ragazzo era mai entrato in casa
sua senza prima aver ottenuto la sua fiducia, il suo rispetto e il suo
affetto. Era pronta ad offrire tutto questo a Tom? Era pronta a darsi
totalmente a lui? Era pronta a dire a se stessa che lo amava?
Posò una mano sul chiavistello e l’altra la fece
scivolare senza guardare sulla maniglia della porta. La socchiuse e
rimase dietro di essa, quasi nascosta, aspettando che lui entrasse e
distruggesse col suo consenso l’ultima sua barriera fisica.
Tom entrò nell’appartamento di Grace e si
guardò intorno con un misto di curiosità e di
sorpresa sul volto. Aveva immaginato tante e tante volte la casa di
Grace e niente era come nella proiezione nella sua testa, eccetto il
fatto che non ci fossero fotografie con i suoi genitori, o comunque con
la sua famiglia. Tutto era anonimo, nulla di ciò che vedeva
gli avrebbe fatto pensare che quella fosse casa sua se non lo avesse
saputo e se non avesse conosciuto il profumo inconfondibile di Grace.
«Che cosa mi devi dire?».
Tom si voltò e la vide appoggiata con la schiena alla porta,
i suoi occhi verdi lo fissavano, impenetrabili. Lei aspettò
con pazienza che parlasse, ma le parole gli erano sfuggite e
riacchiapparle non sarebbe stato facile.
Così Grace si staccò dalla porta spingendosi in
avanti con le braccia e a capo chino raggiunse il bagno, passando per
il corridoio che doveva portare anche alla sua camera da letto. Tom la
seguì e la guardò mentre si pettinava i capelli
corti, ancora bagnati, e poi se li asciugava distrattamente usando il
phon. Quando ebbe finito, lo guardò e gli andò
incontro, lo spinse dolcemente fuori dal bagno e chiuse la porta. Tom
respinse l’impulso di prenderla a calci e finalmente le
parole gli tornarono. Chissà, forse parlare attraverso una
porta era l’unico modo per farlo, quella sera.
«Che cos’è successo oggi,
Grace?», le domandò.
Qualche secondo dopo, la detective aprì la porta con indosso
una larga canottiera grigia e lo fulminò con lo sguardo:
«Lo chiedi a me? Dovresti saperlo tu, perché tu
ne hai combinata una dietro l’altra con tua madre ed ora
è già tanto se non mi odia».
Spense la luce del bagno, colpendo l’interruttore con un
pugno, e si diresse a passo svelto verso la sua stanza. Tom la
seguì ancora una volta, senza proferir parola. La
osservò mentre prendeva un pacchetto di sigarette da sopra
il comodino, ne tirava fuori una e andava alla finestra per fumare. Il
fuoco dell’accendino illuminò di un riflesso
ramato la pelle chiara del suo viso punteggiato di efelidi e Tom la
trovò bellissima.
Grace fece qualche nervosa tirata, dandogli le spalle, poi si
voltò di tre quarti e lo fissò con la coda
dell’occhio, esordendo: «Possibile che tu non mi
conosca ancora, dopo tutto quello che abbiamo passato
insieme?».
Sembravano passati anni dal giorno in cui si erano conosciuti, eppure
erano solo pochi mesi, tanto intensi da trarre in inganno persino lei.
«Mi hai lanciato in pasto a tua madre senza darmi il minimo
aiuto, pur sapendo quanto per me sia difficile aprirmi con qualcuno.
Volevo fare bella figura con lei, te lo giuro, ci ho provato ad
aprirmi, ma non mi è facile, Tom. Per come sono fatta, per
tutte le pugnalate che mi sono presa alla schiena in questo lavoro di
merda… Ormai sono diventata questa, mi sono creata una
barriera per difendermi, non è che voglio mantenere il
segreto su chi sono o cosa faccio: la mia è paura. Paura di
non andare bene, di far male, di non essere accettata per
ciò che sono e ciò che faccio. E tu non
l’hai capito, non mi hai aiutata nonostante si vedesse
lontano un miglio che…», si arrestò ed
abbassò gli occhi, aspirando una boccata di fumo e
soffiandolo nel cielo scuro.
«Hai peggiorato la situazione quando le hai raccontato del
mio lavoro e di quella maledetta sparatoria. Tu… non so,
forse per te che mi conosci da tanto e che ci sei dentro in prima
persona, è facile da accettare e riflettendoci ho capito
ciò che volevi comunicare a tua madre: mi volevi mostrare
come una specie di eroina», si lasciò scappare un
sorriso amaro, «ma sai, lei è tua madre e cosa
credi che abbia pensato, quando le hai detto che faccio
l’investigatrice privata, che vi ho salvati in quella
sparatoria e che ho ucciso quello che ti ha sparato? Non
avrà visto nulla di positivo in tutto questo, nonostante
qualcosa ci sia; no, la sua mente si sarà automaticamente
concentrata sul fatto che il mio è un lavoro pericoloso, che
sparo alla gente, che rischio la vita ogni giorno e che metto in
pericolo anche le persone al mio fianco – che è
verissimo. Sono certa che avrà anche pensato:
“Quindi è colpa sua se hanno sparato al mio Tom,
lei l’ha trascinato lì e si è preso una
pallottola!”». Fece un’altra pausa per
finire la sigaretta e in quei minuti di silenzio Tom non
aprì bocca, nonostante avesse già molte cose da
dirle. Preferì farla finire di sfogarsi. Infatti, quando
spiaccicò la sigaretta nel portacenere posato sul davanzale,
concluse: «Lei mi ha visto come un pericolo per te e Dio mi
corregga se non ha ragione».
Dopodiché si spostò dalla finestra, che chiuse, e
si mise seduta sul suo letto, con le spalle alla testata e un cuscino
stretto al petto. Alzò gli occhi su Tom e con un lieve cenno
del capo lo invitò a sedersi al suo fianco. Il chitarrista
lo fece e si preparò: era arrivato il suo turno.
«Mi dispiace di non aver colto il tuo SOS»,
incominciò, guardandola nella penombra della stanza.
«La verità è che anche io volevo che
facessi bella figura con mamma, lo volevo così tanto che ho
finito per rovinare tutto. Tutto ciò che hai detto
è giusto, ci hai proprio azzeccato: ha pensato tutto quello
che supponevi e ad un certo punto mi ha tirato in disparte per dirmelo.
Ma non gliel’ho data vinta».
Il suo sorriso enigmatico preoccupò Grace, tanto che gli
chiese: «Che cosa vuoi dire?».
«Abbiamo litigato, come non facevamo da quando avevo sedici
anni. Oltre a dire che eri soltanto un pericolo per me, eccetera, ha
avuto persino il coraggio di dirmi che preferiva Ria. Non ci ho visto
davvero più, Grace. Non si è mai visto che mia
madre decida con che ragazza devo stare e le ho detto che se tu non le
stavi bene non me ne fregava niente, che sei tu quella che
voglio».
Grace aveva il capo chino, torturava il bordo della canottiera con le
dita e le ombre della notte le danzavano sulla pelle, rendendola
bellissima ai suoi occhi.
«Perché… perché allora hai
esitato tanto nel rispondere se ero la tua ragazza, quando tua madre te
l’ha chiesto?», gli domandò con poca
voce.
Tom sorrise dolcemente e si avvicinò a lei, le
accarezzò una guancia col dorso delle dita e le
sistemò una ciocca di capelli profumati e ancora umidi
dietro l’orecchio, come d’abitudine. Quindi
incrociò i suoi occhi stupendi e le disse di non ridere,
perché avrebbe detto una cosa davvero sciocca.
«Volevo vedere la tua reazione, volevo essere sicuro di
essere anch’io l’unico che tu volevi al tuo
fianco».
«Quindi non volevi far ingelosire Dylan? Ho notato che
l’hai guardato…».
Tom si passò una mano sul collo e ridacchiò,
avvicinando la bocca al suo orecchio. «Okay, mi hai beccato.
Forse un pochino anche per quello».
Grace accennò un sorriso e si spostò per
guardarlo negli occhi. «Quindi avevamo ragione tutti e
due?».
L’espressione accigliata del chitarrista la fece continuare:
«Tu avevi ragione a dire che prima o poi tua madre avrebbe
scoperto il lato pericoloso della mia vita e io avevo ragione a dire
che potevamo dirglielo in modo diverso, con più
cautela».
«Sì, esatto. E invece di arrivarci subito ci siamo
scannati», trasse le fila Tom.
«Forse però non dovevi litigare in quel modo con
tua madre», gli disse un po’ allarmata, pensando a
sua madre e al fatto che lei avrebbe fatto la stessa scenata, se i
ruoli si fossero invertiti. «Lei voleva soltanto difenderti.
Dicendoti quelle cose agiva in buona fede».
Tom chiuse gli occhi e sorrise, posando la fronte contro la sua.
«Difendermi dalla ragazza di cui mi sono innamorato? Che
follia».
A quella dichiarazione il cuore di Grace iniziò a battere
come se volesse aprirsi un varco nel petto e fuggire via, ma non fece
in tempo a rendersene conto perché Tom la baciò,
stringendola fra le sue braccia.
«Non permetterò a nessuno di mettersi fra di
noi», le sussurrò mentre la faceva salire sulle
sue gambe e la spogliava della canottiera per baciarle il seno e il
collo, con le mani fra i suoi capelli freschi. «Dovranno
passare sul mio cadavere».
«E sul mio», esalò Grace, prima di
avventarsi con foga sulle sue labbra, stringendolo contro la testata
del letto. «Dove lo trovo un altro irresponsabile come
te?».
«È il tuo modo di dirmi che sono l’unico
che vuoi?».
«Una cosa del genere».
Fecero l’amore appassionatamente, dimenticandosi entrambi che
Tom era ancora convalescente e aveva bisogno di riposo.
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Capitolo 14 *** Capitolo 13 ***
Capitolo 13
Quella notte era stata
proprio la seconda notte in cui avevano dormito insieme.
Era passata solo una settimana dalla prima, anche se sembrava che fosse
passato un mese intero, ed erano successe così tante cose
nel frattempo che non era stato come fare l’amore con una
persona diversa, ma quasi. Il loro rapporto si era parecchio rinforzato
da allora e Grace si era lasciata andare completamente, ora che con lui
non aveva quasi più segreti. Anche Tom però si
era comportato in maniera diversa, proprio perché sapeva con
chi aveva a che fare e voleva fare di tutto perché stesse
bene pure lei.
Appena svegliato, era a questo che Tom pensava, con la testa di Grace
appoggiata sullo sterno e gran parte del suo corpo addosso. Quella
notte doveva essersi mosso parecchio, tanto da farle seguire il suo
consiglio.
Sorrise addolcito e le passò una mano fra i capelli,
scostandoglieli dall’orecchio.
Prima che si svegliasse pensò anche ad altre due cose: ai
suoi sospetti su Bill e Dylan e alla domanda che non aveva ancora posto
a Grace, ossia per quale motivo quell’indagine fosse di
così vitale importanza per lei, tanto da trascinarsela
dietro fino allo stremo delle forze per poi abbandonarla a malincuore,
nonostante tutto.
Non riuscì a trovare delle risposte a tutte le domande che
gli affollavano la mente e contava sul fatto di poter chiedere
direttamente a lei, anche se non voleva rompere l’atmosfera
di pace e serenità che si era creata in quella lunga notte e
che ancora persisteva, alle prime luci del mattino.
Quando sentì Grace muoversi fra le sue braccia, segno che
stava per svegliarsi, avrebbe voluto cullarla come una bimba per farla
riaddormentare, ma la curiosità e la preoccupazione per Bill
furono altrettanto forti.
La prima cosa che Grace fece appena capì dove si trovava e
con chi, sollevò il viso ancora gonfio di sonno e
fissò gli occhi di Tom, chiedendogli con voce roca:
«Ti fanno ancora male i punti?».
Il chitarrista sorrise e scosse il capo in silenzio.
Quella notte avevano anche avuto delle difficoltà, ma era
stato bello come si erano presi cura l’uno
dell’altro. Persino il dolore che aveva provato ai punti
vicino all’ascella, lì dove il proiettile
l’aveva colpito, che l’aveva fatto accasciare per
un momento su di lei mentre facevano l’amore, aveva avuto il
suo lato dolce.
«Bene», mugugnò allargando un sorriso.
Si rotolò nella parte di letto vuota, ancora fresca, e diede
qualche debole pugno al cuscino per gonfiarlo a suo piacimento sotto la
testa.
La luce del mattino iniziava ad entrare nella stanza e ad illuminarla
riflettendo sul pavimento di piastrelle bianche.
Tom aderì alla sua schiena, prese la forma del suo corpo e
le avvolse un braccio intorno alla vita, sporgendosi con le labbra sul
suo orecchio per poterle parlare a bassa voce.
«Tu come stai?».
«Alla grande», sospirò rasserenata.
«Anche se, se fosse per me, starei qui a poltrire tutto il
giorno».
«Fallo. D’altronde sei in vacanza, no?».
Grace si voltò e lo guardò in viso, qualche
centimetro più in alto del suo.
«Devo andare da mia madre», mormorò,
accarezzandogli il petto con le dita, gli occhi spenti. «E
poi sarà il caso di parlare anche con la tua, per dirle
almeno che i miei casi non richiedono sempre l’uso della
pistola e magari per… scusarmi…».
«Non hai niente di cui scusarti», le rispose,
accarezzandole i capelli. «E se non vuoi non sei costretta a
parlarle. In fondo lei non deve approvare nulla, giusto?».
«L’hai detto anche tu che volevi che io facessi
bella figura con lei. Questo vuol dire che ci tieni ad avere la sua
approvazione».
«Okay, è vero. Ma metti caso che non approvi?
Credi che ti lascerei solo per questo? No».
Il suo sguardo era sincero, avrebbe persino potuto vedere tutti i suoi
segreti più intimi riflessi in quegli occhi.
«È una cosa che può essere benissimo
rimandata, se non te la senti e devi stare con tua madre. Mi hai
capito?».
Grace annuì, accucciandosi sotto il suo mento.
«Grazie».
Tom la strinse a sé, chiudendo gli occhi ed appisolandosi
ancora per un momento. Li riaprì di scatto nel sentire il
cellulare di Grace fare bip bip.
La ragazza, che evidentemente si era riaddormentata come lui, non diede
cenni di voler guardare chi fosse e Tom pensò che poteva
trattarsi di Dylan. In circostanze normali non l’avrebbe mai
fatto, ma quella volta era diverso, visto che c’era in ballo
suo fratello; per questo incitò Grace a guardare chi fosse.
Lei borbottò, ma poi allungò la mano sul comodino
ed afferrò il suo cellulare. Se lo portò vicino
agli occhi e vide chi era, poi lo comunicò a Tom,
così ansioso di sapere. Era proprio Dylan.
«Ora sei soddisfatto?», gli chiese, pronta a
tornare a dormire.
«Non leggi che cosa ti ha scritto?».
A quell’altra insolita richiesta aprì gli occhi
del tutto e si mise seduta sul letto, le spalle contro la testata e il
lenzuolo tenuto sotto le ascelle.
Guardò Tom, steso al suo fianco, con aria investigativa e
alla fine sbottò: «Che è
successo?».
Tom, certo che non sarebbe riuscito a scamparla, confessò:
«Ieri ho visto Bill e Dylan che si davano la mano
e… non so come spiegarlo, ho semplicemente fatto due
più due, ad istinto».
«Non ti seguo», disse la detective, con finta aria
confusa.
«Bill si è preso una cotta per Dylan, non
è così? È per questo che si
è comportato in maniera così strana in questi
ultimi giorni. Sbaglio?».
Grace trasse un respiro profondo e sollevò le spalle.
«Non sbagli».
«Quindi tu… tu lo sapevi!».
«Ovviamente», socchiuse gli occhi e se li
strofinò con cura. «Prima Dylan e poi Bill sono
venuti a confidarsi con me, più o meno spontaneamente, ed
entrambi hanno voluto che io tenessi il segreto. Non dovevo parlarne
nemmeno con te».
«Ma-ma perché? Perché Bill non me
l’ha detto?». Era pressoché sconvolto.
«Questo lo devi chiedere a lui. Io so solo che fino a ieri
sera, quando me ne sono andata, non si erano ancora chiariti. Forse
è questo che mi ha scritto Dylan, che l’hanno
fatto. Chissà con che esiti?».
Tom ricordò le parole di Molly: «Appena
torni a casa, stai vicino a Bill».
Non promettevano nulla di buono.
Volle sapere l’intera storia, dall’inizio alla
fine, e Grace lo accontentò: gli fece un riassunto piuttosto
dettagliato dei fatti, con quel suo linguaggio acquisito dalle
collaborazioni con la polizia, tenendosi per sé le
confidenze che le avevano fatto Bill e Dylan.
Quando finì, Tom era più sbigottito di prima e
rimase in silenzio un momento per incamerare e riordinare tutti i fatti
nella sua testa.
Grace sbuffò dal naso e ricadde sdraiata sul letto, la testa
fra due cuscini e le mani dietro la nuca.
«Che cos’hai intenzione di fare, ora?»,
gli domandò con tono pacato.
«Devo andare da Bill e parlarne con lui».
La ragazza annuì, concorde. «Cerca soltanto di non
essere troppo duro con lui. Un motivo per cui non te
l’avrà detto ci sarà».
«Va bene». Si chinò su di lei e le
posò un fugace bacio sulle labbra, poi le
accarezzò dolcemente i capelli, guardandola negli occhi, e
disse: «Tu vieni con me?».
«È meglio se ne parlate voi due da soli. Io mi
sono già immischiata fin troppo in questa
faccenda».
«Quando si tratta di affari di cuore la mitica detective
Grace Schneider si tira indietro così presto?»,
ridacchiò e per quella sua battutina si beccò una
tallonata sul sedere.
«Vai, muoviti», lo esortò Grace,
spostandoselo di dosso, seppur col sorriso sulle labbra.
Tom le rivolse uno sguardo affilato. «Mi stai
cacciando?».
«Mmm… no».
«Sarà meglio per te!». La
baciò di nuovo, quella volta con più trasporto.
Quando si scostò, le chiese con tono carezzevole:
«Ci vediamo dopo?».
«Sì. Ti chiamo appena esco
dall’ospedale».
«Okay».
Grace guardò Tom mentre si rivestiva, puntando
l’attenzione sul grosso cerotto bianco che aveva vicino
all’ascella sinistra. Tolti i punti gli sarebbero rimaste
delle cicatrici, davvero minuscole, ma ne avrebbe sofferto ogni volta
le avesse viste e sfiorate con le dita.
Si alzò dal letto anche lei, dopo essersi infilata la larga
canottiera grigia che avrebbe dovuto usare come pigiama, e gli
andò incontro prima che si infilasse il maglioncino marrone.
Posò una mano sul cerotto, con gli occhi vacui, e
aprì la bocca per parlare, anche se per qualche secondo le
parole le rimasero incastrate nella gola. Quando riuscì a
liberarle, suonarono tanto flebili che non riconobbe la propria voce.
«Tu non… non ti sei mai accorto della mia
cicatrice?».
«Quella che hai in mezzo alle scapole?».
Stupita, sollevò gli occhi nei suoi, sorridenti.
«Certo che me ne sono accorto»,
continuò. «Come te la sei procurata?».
Grace scrollò il capo, sedendosi sul bordo del letto alle
sue spalle. Sulle labbra aveva un sorriso rammaricato e Tom colse la
tristezza nel suo sguardo.
«Era uno dei miei primi casi, nulla di complicato
all’apparenza: dovevo sorvegliare i capannoni di
un’azienda per scoprire chi si introduceva di notte per
distruggerne i macchinari. Tutti sospettavano di una banda di
ragazzetti del quartiere, incazzati perché da poco
l’azienda aveva deciso di fare dei tagli sul personale e
alcuni dei loro padri ci avevano rimesso».
«Ed era così?», domandò Tom,
mentre si sedeva al suo fianco, tutto preso dal suo racconto.
«Sì. Appena li ho visti entrare ho chiamato la
polizia perché mandassero una pattuglia e per evitare che
distruggessero qualcosa li ho raggiunti in uno dei capannoni. Ero
ancora una principiante e non volevo che si facesse male nessuno,
così avevo tolto il caricatore alla pistola. Sono entrata e
gli ho puntato la pistola per fargli paura, dicendogli che era inutile
che continuassero, perché ormai erano stati
beccati… Sono stata davvero una sciocca, sai? Loro erano
cinque, io ero ancora sola. Uno di loro non si è fatto
intimidire dall’arma che gli puntavo addosso, è
corso verso di me con la furia di un toro e all’improvviso ha
tirato fuori un coltellino… l’ho visto e ho
provato a scansarmi, ma mi ha preso comunque, di striscio. Poi sono
corsa via, capendo che non avrei avuto speranze con quei ragazzi pieni
d’odio. Mentre correvo verso il mio fuoristrada ho caricato
la pistola e senza nemmeno pensarci ho sparato un colpo in aria. Quella
volta il tentativo di spaventarli ha funzionato, perché si
sono tutti fermati, anche il ragazzo che aveva tentato di
accoltellarmi, e si sono sdraiati a terra con le mani unite sopra la
testa senza che io dicessi niente; sembrava un film». Si
lasciò scappare un sospiro, gli occhi rivolti al passato e
un’ombra di sorriso sul volto. «Ero ancora
così ingenua… Ho davvero rischiato
grosso».
Tom le posò una mano sulla schiena, laddove sapeva ci fosse
quella cicatrice, e le posò un bacio sulla tempia,
sussurrando: «Ma alla fine ce l’hai fatta.
È questo quello che conta».
«Già…». Si osservò
i piedi e tacque.
Tom pensò che sarebbe stato il momento adatto per chiederle
del perché l’indagine che aveva abbandonato fosse
così importante per lei, ma venne sorpreso da un suo sorriso
affettuoso che gli fece abbandonare quel proposito.
«Ora vai, ti ho trattenuto qui fin troppo», gli
disse.
Tom corrugò la fronte, per poi scoppiare a ridere
fragorosamente. Si alzò dal letto e raggiunse la porta della
camera, si appoggiò con una mano allo stipite e voltando il
capo le scoccò un sorriso.
«Mi ha fatto piacere ascoltare questa storia, fa parte di te
ed è un altro modo per conoscerti meglio. La prossima volta,
in cambio, ti racconterò qualcosa dei miei tour con i Tokio
Hotel».
Allora anche Grace rise, incrociando le gambe sul letto. «Non
vedo l’ora».
Tom arrivò a casa e tutta la pace e la serenità
che lo avevano invaso stando quella notte con Grace svanirono nel
nulla, da dove erano venute. Non dovette nemmeno trovarsi di fronte a
Bill per capire che stava male: lo sentiva nelle viscere.
Entrò dalla porta principale e salì al piano
superiore, credendo di trovare il gemello nella sua stanza, ma il suo
letto non era disfatto e tutto era in perfetto ordine. Tornò
in salotto e allarmato lo cercò persino nel bagno, poi
uscì nel giardino sul retro e finalmente lo
trovò.
Era seduto sul puff vicino al quale l’aveva visto
l’ultima volta in compagnia di Dylan, e ai suoi piedi
c’era un bicchiere di carta contenente vari mozziconi di
sigarette e una bottiglia di vodka vuota. Aveva profonde occhiaie
violacee a contornargli gli occhi, linee di trucco nero sulle guance e
il suo sguardo era vitreo, inespressivo. Doveva essere rimasto
lì per tutta la notte, mentre lui era da Grace.
Il rimorso di averlo lasciato da solo gli divorò lo stomaco
e temette di sentirsi davvero male, ma resistette e si mise seduto sul
puff accanto al suo, senza interrompere il suo grido muto di
sofferenza.
Avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo fra le braccia e cullarlo come
faceva quando erano piccoli, ma non ne ebbe la forza necessaria. Si
sentiva un idiota integrale e al solo pensiero che Bill era stato male
per così tanto tempo senza che lui lo confortasse gli veniva
il voltastomaco.
«Mi dispiace, avrei dovuto parlartene subito»,
mormorò Bill ad un tratto, con la voce roca a causa del
freddo, delle sigarette e dell’alcool. Nascose il viso
nell’incavo della spalla del fratello e si strinse a lui,
mentre iniziava a piangere silenziosamente. «Mi dispiace
tanto».
Tom gli avvolse la schiena con le braccia e posò il mento
sulla nuca di Bill, sentendolo tremare impercettibilmente contro di
lui.
Non era Bill a dovergli delle scuse, affatto; l’unico da
rimproverare era lui, che era stato un pessimo fratello gemello nel non
accorgersi dei suoi sentimenti e nell’averlo lasciato da solo
in quella lunga, lunghissima notte.
Grace, intanto, si era diretta in ospedale per far visita a sua madre.
Quel giorno sembrava che si sentisse meglio e il suo timido sorriso ne
era la prova.
Come ogni giorno aveva accolto la figlia che non vedeva da anni con un
po’ di timore, poi però si era lasciata andare e
le aveva dato un assaggio di quello che aveva passato da quando lei e
suo padre avevano deciso di separarsi e soprattutto da quando Grace
aveva deciso di raggiungerlo.
Era stato un duro colpo per Melanie, la quale aveva preso la sofferta
decisione di lasciare il marito che amava solo ed esclusivamente per
proteggere la sua bambina dal suo lavoro. Per questo era caduta in un
profondo stato di depressione che era riuscita a curare soltanto grazie
alla musica, nonostante tutti i farmaci consigliati da fior di medici.
Aveva trovato conforto soltanto nel suonare il pianoforte, la sua
passione da quando era una bimba, e aveva persino deciso di tornare ad
insegnare, cosa che aveva fatto per qualche anno a Londra, nella sua
città natale.
Dopo averle raccontato i retroscena e i ricordi peggiori e migliori di
quel periodo, con gli occhi già stanchi l’aveva
pregata di leggerle ad alta voce un passaggio dell’ultimo
romanzo che aveva comprato e che non aveva ancora finito. Grace
l’aveva accontentata e le aveva letto un pezzo della storia
di quell’amore struggente mettendocela tutta per dare un
po’ di sentimento alla propria voce, ma non era proprio il
suo genere. (I primi libri che lei aveva letto, subito dopo aver
imparato a leggere a scuola, erano stati quelli che narravano le
avventure di Sherlock Holmes, personaggio nato dall’ingegno
del suo scrittore preferito, Arthur Conan Doyle). Sua madre
però non sembrava mai accorgersene e pian piano si
addormentava, cullata dalle ultime parole che aveva udito.
Grace osservò il suo volto inespressivo nel sonno ed
accennò un sorriso accarezzandole la mano, poi
uscì dalla stanza e passeggiò avanti e indietro
nel corridoio per sgranchirsi un po’ le gambe.
Ripensò a quella notte trascorsa con Tom, a tutto
ciò che si erano detti, alle loro confidenze, ai magici
momenti che avevano passato insieme mentre facevano l’amore.
Si passò le mani sul collo e tirò indietro la
testa, scacciando per un momento tutte le altre preoccupazioni e
rilassandosi grazie a quei ricordi ancora freschi e vividi.
La vibrazione del suo cellulare fu l’unica cosa che la
riportò alla realtà.
Lo tirò fuori dalla tasca e se lo portò
all’orecchio, sorpresa di scoprire che Molly fosse
così mattiniera. Glielo disse a mo’ di battutina e
la ragazzina fece finta di ridere, dicendo: «Ero preoccupata!
Quando mi sono svegliata stamattina non sono più riuscita a
dormire!».
«Preoccupata? E per che cosa?», domandò
Grace, sbigottita.
«Beh, sono successe un sacco di cose ieri! Tu e Tom avete
litigato… Bill e Dylan…».
«Ehi, ehi, frena! Per quanto riguarda me e Tom, ci siamo
chiariti e abbiamo fatto pace».
«Sì, l’avevo intuito: dalla voce sembri
felice», ridacchiò maliziosamente.
«Dev’essere bello fare pace con Tom!».
«Farò finta di non aver sentito, okay?»,
replicò con tono serio, anche se tratteneva a stento un
sorriso divertito. «Per quanto riguarda Bill e Dylan tu che
cosa sai?».
La ragazzina le raccontò tutto ciò a cui aveva
assistito, quando si era svegliata e aveva capito che avrebbe fatto
meglio a fingere ancora per un po’. Espresse anche il suo
parere personale, ossia che Dylan doveva essere proprio cieco e stupido
per non capire che Bill mentiva ed ogni parola era come una pugnalata
in pieno petto.
«Gli parlerò io. Ora Tom è con Bill,
chissà come sta andando…», disse Grace,
in pensiero.
«Sicuramente non bene! Dev’essersi sentito davvero
uno straccio, poverino».
La detective sospirò, afflitta. E pensare che lei e Tom
quella notte, mentre lui soffriva, avevano fatto la pace – e
che pace.
All’improvviso si ricordò delle parole del
chitarrista, anzi di un particolare ben preciso che necessitava
assolutamente di una spiegazione. Molly era sicuramente la persona
più adatta con cui parlarne.
«Molly, posso farti una domanda? Chi è
Ria?».
La ragazzina rimase per qualche secondo in silenzio, raggelata da
quella domanda. «E tu… Perché vuoi
saperlo?», balbettò.
«Non aver paura, Molly. Tom non corre alcun pericolo se mi
parli di lei, è solo che… insomma, ieri lui ha
accennato al fatto che sua madre gli ha detto che preferiva questa Ria,
così volevo sapere chi fosse».
«Ah, capisco». Le rassicurazioni di Grace
però non la tranquillizzarono affatto, la sua voce era
ancora incerta e quasi meccanica.
«Beh, lei è… è stata
l’ultima ragazza di Tom, sono stati insieme per un bel
po’… sono certa che almeno per un anno si siano,
come dire…».
«Sì, ho capito ciò che
intendi». Si appoggiò con le spalle al muro e si
passò una mano fra i capelli, per tirarli via dalla fronte.
«Vai avanti».
«Che posso dirti? So che è una modella, una
bellezza filippina che ha vinto anche qualche premio… Non so
altro».
«Okay. Grazie mille, Molly».
«Aspetta! Non riattaccare! Hai intenzione di indagare su di
lei?! Grace! Grace, per favore…!».
L’investigatrice chiuse la chiamata e si infilò il
cellulare nella tasca dei jeans. Si voltò e vide sua madre
ancora addormentata, allora si incamminò lungo il corridoio.
***
Si avviò
verso la propria scrivania senza sollevare lo sguardo da terra e quando
vi giunse notò Oswin seduto sulla sua poltrona, con le mani
dietro la nuca, i piedi su un angolo del tavolo e un sorriso quasi
malefico stampato sul viso.
«Allora, com’è andata
l’Operazione Riconquista?».
Dylan fece finta di non averlo sentito e si appoggiò con un
fianco alla scrivania del partner, sorseggiando il suo caffè
superforte dal bicchiere di carta col logo verde di Starbucks.
Poi chiese, come se nulla fosse: «Non dobbiamo fare il giro
di ricognizione stamattina?».
Oswin tirò giù i piedi e si portò le
mani sulle ginocchia, sospirando.
«E va bene, è stato un disastro. Quel Kaulitz te
le ha suonate moralmente, eh?».
Il poliziotto ricambiò mestamente il suo sguardo e fece un
cenno d’assenso col capo, perché in un certo senso
il suo amico ci aveva preso.
***
«Non voglio
uscire di casa, Tom».
Il chitarrista si girò verso il suo gemello, comparso
all’improvviso sull’uscio della sua camera da
letto. I suoi occhi, di solito luminosi, lo ferirono come una grossa
spina nel cuore. Era certo che se avesse avuto lì Dylan lo
avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
«Nemmeno io», ammise, sospirando afflitto.
«Ma vediamo mamma così poco che non possiamo darle
buca. Domani partiranno e… Fatti forza, Bill».
Il cantante mugugnò e chinò il capo, mentre
tornava nella sua stanza per prepararsi.
Tom finì di cambiarsi e si mise seduto sul letto, con la
testa fra le mani. Sentiva le tempie pulsargli dalla rabbia e al
contempo percepiva un’enorme tristezza scavargli
l’anima lentamente. Lo trovò un buon momento per
chiamare Grace ed informarla di ciò che aveva trovato a casa.
Si portò il suo nuovo cellulare all’orecchio e
dopo due squilli sentì la sua voce, che fu subito in grado
di calmarlo almeno un po’.
«Dove sei?», le domandò.
«In giro. Mia madre si è addormentata e
così ne ho approfittato per fare qualche commissione. Tu sei
a casa?».
«Sì», sospirò. «E
le cose non vanno per niente bene. Bill è distrutto e ti
giuro che Dylan farà la stessa fine se lo becco che gli
ronza ancora attorno. Tu ci hai parlato per caso?».
«No, ancora no. Ma so per filo e per segno quello che
è successo ieri sera: Molly faceva solo finta di
dormire».
«Quella ragazzina è una peste», disse
trattenendo un sorrisino e ricordandosi delle sue parole di
raccomandazione. In effetti quando l’aveva scrollata per
portarla a casa l’aveva trovata fin troppo lucida…
«Bill non mi ha detto molto, si è chiuso a riccio
e… mi sento così in colpa».
«Anche io».
«Ma in fondo, noi… come facevamo a
saperlo?».
Il silenzio cadde fra loro e dal rumore del motore e della strada il
chitarrista dedusse che Grace doveva essere nel suo fuoristrada.
Si schiarì la voce e disse: «Adesso andiamo da
mamma, in hotel. Tu che fai?».
Sentì il rumore di una portiera che veniva sbattuta e del
vociare. «Grace, mi senti?».
«Sì, ti sento. Ci vediamo lì tra poco,
allora».
Grace si comportava in modo più strano del solito, tanto da
fargli venire il sospetto che stesse lavorando. Ma il suo ufficio era
chiuso, aveva deciso di prendersi una vacanza, era impossibile. E poi,
perché gli aveva detto che si sarebbero visti lì
con tanta sicurezza, vista la situazione con sua madre?
Stava per chiederle che cosa non andasse, ma lei non gliene
lasciò il tempo e concluse la chiamata.
Grace si infilò il cellulare in tasca e vide Ria Sommerfeld
(ventott’anni, metà asiatica, nata ad Amburgo e
trasferitasi a Los Angeles per lavorare come modella, presentatrice ed
attrice) scendere dalla sua auto, affidarne le chiavi ad un
parcheggiatore e salire i gradini tappezzati di rosso
dell’hotel a cinque stelle in cui pernottavano proprio Gordon
e Simone, la madre di Bill e Tom. Coincidenza? Quell’ipotesi
non era nemmeno da prendere in considerazione.
La seguì, come stava facendo da quasi un’ora tra
una ricerca e l’altra sul suo laptop, e una volta
all’interno scorse il bar, proprio adiacente alla lussuosa
hall. Si mise seduta al bancone ed ordinò un semplice succo
d’arancia, mentre con la coda dell’occhio spiava
Ria.
Stava attendendo qualcuno, appoggiata con una mano al bancone mentre
con l’altra reggeva sulla spalla una costosissima borsa che
doveva aver sfoggiato al massimo due volte.
Finalmente la persona che aspettava si fece viva e Grace nascose un
sorriso amaro nel bicchiere di vetro del suo succo d’arancia.
***
Tom posò una
mano sulla spalla del fratello e la strinse, un gesto con cui aveva il
desiderio di trasmettergli la sua vicinanza e il suo appoggio. Bill lo
ringraziò con un minuscolo sorriso nascosto agli angoli
delle labbra e lo stesso rivolse a sua madre quando la vide seduta ad
uno dei tavolini all’aperto del bar, sotto una bella tettoia.
Bill si fermò all’improvviso e Tom non gli
andò addosso per un soffio.
«Che c’è?», gli
domandò sbigottito e quando posò lo sguardo sulla
terza persona al tavolino impallidì. «Ri-Ria. Che
ci fai tu qui?».
«Non sei contento di vedermi?», gli chiese
sfarfallando le ciglia, per poi sciogliersi in una risata.
«Già Tom, non sei contento?»,
ripeté sua madre, gli occhi che le brillavano.
«È stata una vera fortuna incontrarci qui nello
stesso hotel, non trovi? È tanto che non vi vedevate,
giusto?».
Tom, che ormai aveva quasi dimenticato la rabbia che aveva nutrito nei
suoi confronti la sera precedente, ascoltando le sue critiche su Grace,
divenne ancora più rancoroso e le lanciò uno
sguardo glaciale.
Stava per aggredirla pubblicamente, perché era palese che
non si fossero incontrate lì per caso e che era tutta opera
sua per fargli cambiare idea su Grace, ma proprio il pensiero che Grace
l’avrebbe raggiunto di lì a poco lo fece
boccheggiare come un pesce fuor d’acqua.
«Questo non me lo dovevi fare, questo…»,
digrignò fra i denti appena ne ebbe di nuovo la
possibilità. Ad un tratto però si interruppe e fu
costretto ad ingoiare altre parole avvelenate perché un
cameriere si era avvicinato al tavolo scortando qualcuno.
Tom si girò e con immenso sollievo vide Grace che sorrideva
angelicamente. Gli bastò incontrare il suo sguardo caldo per
sentirsi meglio e rivalutò l’opzione del suo
arrivo: uniti erano più forti e avrebbero sconfitto il
nemico comune, in quello strano caso incarnatosi in sua madre.
«Oh cara, che bella sorpresa che ci hai fatto. Non pensavo
venissi», esclamò Simone contrariata, dato che
appena l’aveva vista aveva assottigliato gli occhi,
guardandola in cagnesco.
Poi con tono soddisfatto le presentò la sua ospite:
«Lei è Ria, una carissima amica di famiglia
nonché…».
«Piacere, io sono Grace», si presentò,
interrompendo la donna, la quale però non si arrese.
«È stata eletta reginetta di bellezza per Miss
Filippine, sai?».
«No, non lo sapevo. Non mi interesso a questo genere di cose,
solitamente».
Simone grugnì e bevve un po’ del suo succo. Mentre
non li guardava, Tom e Grace si scambiarono uno sguardo e si sorrisero
fugacemente, stringendosi forte la mano dietro le loro schiene.
«Allora, che facciamo?», domandò Gordon,
il quale non pareva essersi accorto di tutta la tensione che si era
creata. «Facciamo un salto in spiaggia?».
«Sì, perché no?», rispose
Ria, scambiando uno sguardo di sfida con Grace, che ricambiò
per nulla impaurita.
Il sole era caldo sulla pelle, ma non abbastanza da mettersi in
costume, perciò la sua rivale non poté mostrare
al mondo le sue curve perfette. Grace non avrebbe mai retto il
confronto, ma di certo non si sarebbe spaventata e sarebbe rimasta
seduta sorridente accanto a Tom, proprio come in quel momento.
«Questa situazione è imbarazzante»,
sussurrò lui a denti stretti, chinandosi verso il suo
orecchio.
«Lo so bene», rispose lei allo stesso modo.
«Eppure mi sembri tranquillissima».
«Come si dice, le apparenze ingannano. Se solo ci fosse un
modo per farle capire che…».
«Cosa?», la spronò a continuare, mentre
un sorriso si allargava sempre di più sul suo volto.
Grace chinò il capo, arrossendo. «Che non
permetterò che ti facciano del male di nuovo a causa mia,
che io ci tengo davvero a te…».
«Sei adorabile», mormorò.
«E tu sei un idiota», ribatté asciutta,
più che imbarazzata.
«Ci compensiamo allora».
Le sfiorò la guancia con le dita e si protese verso le sue
labbra per baciarla, ma proprio in quel momento sua madre lo prese per
un braccio e lo attirò bruscamente verso di sé.
«Tesoro, mi andresti a prendere qualcosa da bere a quel
chiosco laggiù? Fa davvero caldissimo!».
Tom sbuffò, ma fu costretto ad annuire. Ciò che
non si aspettava fu che Ria lo seguisse, dicendo che anche lei sentiva
la gola piuttosto secca.
Simone sorrise raggiante vedendoli andare via insieme e poi
scoccò uno sguardo vittorioso a Grace, la quale senza
nemmeno badarci si alzò dalla sabbia e raggiunse Bill,
seduto da solo all’ombra di un ombrellone.
«Ehi», gli sussurrò passandogli una mano
fra i capelli. «Vuoi che ti presti la mia pistola per
freddarlo?».
Bill si lasciò scappare un sorrisino e si beò
delle sue coccole, posando il capo sul suo grembo.
«No, grazie. Credo che peggiorerei soltanto le
cose».
«Mmh, forse hai ragione. E allora, che cosa vuoi
fare?».
«Per ora niente», mormorò.
«Saggia decisione. Intanto goditi lo spettacolo: è
davvero uno spasso, non trovi?».
Si riferiva ovviamente a Simone e a Tom e Ria, uno di fianco
all’altro al chiosco poco distante.
«Scusala», disse Bill gettando
un’occhiata indispettita a sua madre. «Non si
è mai comportata così…
Dev’essere davvero spaventata».
«Faccio così paura?».
Bill sorrise. «Non sei tu, è il tuo
lavoro».
«Chissà se un giorno ci sarà qualcuno
in grado di accettarmi per ciò che sono e ciò che
faccio».
«Oh, ma quel qualcuno c’è
già», mormorò, posando lo sguardo su
suo fratello.
«Una bottiglia d’acqua naturale», disse
Tom all’uomo sorridente dietro al bancone, mentre tirava
fuori dalla tasca dei pantaloni il suo portafoglio.
«Due», aggiunse Ria, già con i soldi in
mano. Girandosi verso di lui con un sorriso, disse:
«È tanto che non ci vediamo, lascia che offra
io».
Tom sbuffò, per niente a suo agio nella parte cucitagli
addosso da sua madre. Guardò Ria pagare e poi dargli la
bottiglietta d’acqua. Il chitarrista fece per prenderla, ma
lei non mollò la presa e lo costrinse a guardarla negli
occhi.
«Che cosa c’è?», le
domandò secco.
«Lei è davvero la tua ragazza?».
«Sì, perché?».
Ria si tolse gli occhiali da sole dal volto per aumentare
l’effetto del suo sguardo magnetico. «Che
cos’ha lei che io non ho?».
«Sei stata tu a scaricarmi», si difese alzando le
mani all’altezza del petto. «E so a che gioco state
giocando tu e mia madre; con me non attacca».
Le strappò la bottiglietta dalle mani e si
allontanò affondando i piedi nella sabbia, quando si
sentì prendere per mano e trascinare indietro.
Guardò spazientito la modella, ma quella volta nel suo
sguardo trovò qualcosa di diverso: una risata inespressa.
«Ti giuro, sono davvero curiosa di sapere che cosa ti piace
di lei».
Tom si girò per osservare la sua Grace e la vide sorridere
al sole, mentre con una mano accarezzava dolcemente i capelli di suo
fratello, sdraiato con la testa sulle sue gambe. Sorrise senza nemmeno
accorgersene e tornò a fissare gli occhi a mandorla di Ria,
la quale aveva assunto un’espressione piuttosto sconcertata.
«Tutto», rispose stringendosi nelle spalle.
«Ma, d’altronde, ai tempi mi piaceva tutto anche di
te, quindi… non saprei. So solo che Grace è unica
nel suo genere».
Che con quella risposta l’avesse soddisfatta o meno non
gliene importò, tanto che tornò dagli altri senza
aspettarla.
Diede la bottiglietta d’acqua a sua madre, la quale gli
chiese subito che cosa si fossero detti; lui però non la
calcolò e gattonò sulla sabbia fino a Grace, per
poi assalirla alle spalle.
«Bill, lei è la mia ragazza se non te ne sei reso
conto!», rimproverò il fratello, mentre la
riempiva di baci sul collo e lei si dimenava per liberarsi, non
impedendosi di ridere fino alle lacrime.
Simone, intanto, posò gli occhi su Ria come a dirle:
«Fai qualcosa!». La ragazza sollevò le
mani, muovendo il capo con fare rassegnato.
«Ria, posso parlarti un attimo?».
La modella tedesco-filippina sollevò gli occhi
dall’acqua che le stava bagnando i piedi sulla riva e li
posò su quella ragazza che in qualche modo doveva essere
speciale, visto l’affetto che Tom nutriva nei suoi confronti.
O forse era stato proprio il suo affetto a rendere così Tom.
«Sì, certo», le rispose.
«Facciamo due passi».
La detective camminò di fianco a lei e già dopo
pochi passi attaccò: «Perché stai
facendo tutto questo? So che Tom non ti interessa più,
quindi dì la verità».
Ria rise e scrollò le spalle. «Okay, lo sto
facendo perché me l’ha chiesto Simone».
«E per quale motivo? Ti senti in debito con lei?».
«No, perché è sempre stata carina con
me e mi ha chiesto di aiutarla».
«Ti ha chiesto di metterti fra me e Tom, di rovinare tutto.
Dimmi, se tu fossi al mio posto come la prenderesti?».
Ria si fermò e la guardò negli occhi tirandosi
sulla fronte gli occhiali da sole firmati. Rimase in silenzio e quella
fu l’occasione perfetta per un altro affondo di Grace.
«Sai dove potresti essere a quest’ora? A casa,
oppure in un carinissimo bar, col tuo fidanzato. Miguel,
vero?», le scoccò un sorriso.
«Ma tu… tu chi sei? Che cosa diavolo vuoi da
me?», gracchiò Ria, sgomenta.
«Voglio che la smetti con questo teatrino, che Simone mi
affronti faccia a faccia, perché se c’è
una cosa che in questo momento difenderei a costo della mia stessa vita
è proprio Tom».
Il suo sguardo era glaciale, nemmeno il sole caldo di quel pomeriggio
sarebbe stato in grado di scioglierlo.
La modella la fissò taciturna per un paio di minuti, poi
l’ombra di un sorriso le illuminò il volto e
sospirando disse: «Credo che anche se la madre di Tom
continuerà ad odiarti, dovrà per forza
accettarti».
«Che cosa intendi dire?».
«Intendo dire che non l’ho mai visto
così felice e… fedele, sì. Prima hai
detto che tu lo difenderesti a costo della tua stessa vita; beh, penso
che lui si getterebbe nel fuoco per te».
Grace sorrise, ricordando le parole che Tom le aveva detto quella
notte: il significato era più o meno lo stesso.
«Va bene, sarà ora che torni a casa sul
serio», esclamò Ria, posandole una mano sulla
spalla come se fossero vecchie amiche. «Sai», le
sussurrò all’orecchio, «io e Miguel
avremo presto un bambino».
«Congratulazioni», disse Grace e le strinse la
mano, profondamente riconoscente.
«Grazie. Mi raccomando, prenditi cura di Tom e…
chiedi scusa a Simone da parte mia».
«Lo farò, non ti preoccupare. Sii
felice».
«Anche tu».
Ci puoi contare.
Simone, incredula, colpì Gordon con un manrovescio sul petto
e il poveretto si svegliò di soprassalto, chiedendo che cosa
fosse successo.
«Guarda!», indicò Ria e Grace che si
stringevano la mano e poi si separavano scambiandosi uno sguardo che
trasudava gratitudine reciproca.
«E allora?», le domandò, calandosi di
più il cappellino sul viso per tornare alla sua pennichella.
«E allora?
È un disastro!», strillò la donna,
furibonda, alzandosi in piedi e creando un gran polverone.
«Ria! Ria, dove stai andando?!».
«Sta tornando a casa, dal suo fidanzato», rispose
con tono pacato Grace, giunta vicino a lei.
Tom le fu accanto in un attimo. «Il suo fidanzato?».
Grace annuì, sorridente. «Si chiama Miguel e
presto diventeranno genitori». Poi si voltò verso
Simone e con lo sguardo più serio che riuscì a
tirar fuori disse: «Sono davvero dispiaciuta per ieri,
abbiamo decisamente iniziato col piede sbagliato. Ma io sono pronta a
ricominciare da capo, se lei vuole. Capisco bene la sua paura, so che
il mio è un lavoro alquanto rischioso, ma sarei disposta a
lasciarlo se fosse l’unico modo per stare con Tom con la sua
approvazione. Io… io voglio davvero bene a suo figlio e sono
mortificata per ciò che gli è successo, ma le
giuro sulla mia vita che non permetterò a nessuno di fargli
altro male».
«Bel discorso, signorina», si
complimentò Simone, anche se non sembrava molto rassicurata.
«Il fatto è che lui è uno zuccone,
finirà per farsi del male da solo!».
«Sta dicendo che sarò io a fargliene?».
«Forse», borbottò incrociando le braccia
al petto e guardando altrove.
«Allora ho scelto di che morte morire!»,
esclamò Tom sorridendo, non trovando
l’approvazione né di Grace né di sua
madre.
«Ne riparliamo a cena», concluse lapidaria Simone,
agitandole un dito di fronte al viso prima di allontanarsi. Ma Grace
avrebbe giurato di aver visto un minuscolo sorriso incresparle le
labbra.
«Ti ha invitato a cena! È già un enorme
passo avanti!», disse felice Tom.
«Trovi anche tu?», gli domandò, anche se
non gli diede modo di rispondere, tappandogli la bocca con un bacio.
Simone e Gordon si erano allontanati per fare una passeggiata sulla
riva proprio come una coppietta di fidanzatini. Grace, Tom e Bill,
quindi, erano rimasti soli e si domandavano che cosa potessero fare per
non starsene lì come lucertole al sole.
«Allo stesso chiosco in cui vendono le bibite affittano delle
moto d’acqua. Possiamo prenderne una», propose Tom,
gli occhi luminosi come quelli di un bambino al pensiero di un
giocattolo nuovo.
«Ne hai mai guidata una?», gli domandò
Grace, scettica.
«Certo! Alle Maldive! Vero, Bill?».
Il cantante annuì. «Però di solito
guido io!».
«Non dire scemate!», lo rimproverò il
gemello, paonazzo.
Sia Grace che Bill ridacchiarono sotto i baffi.
«Tu sei sicuro di star bene? Il dottore ha detto di non fare
sport né di sforzarti, potrebbero saltarti i
punti…», disse Grace apprensiva e Tom
roteò gli occhi, nauseato dalle sue attenzioni da mammina.
«Sto benissimo!».
«E va bene», si lasciò convincere alla
fine. «Ne prendiamo due,
così…».
«Io e Grace su una e Bill sull’altra», le
tolse le parole di bocca, anche se la detective la vedeva in maniera
differente.
Infatti, replicò: «Io stavo per dire che voi due
ne usate una e io un’altra».
«Ma no, scusa, tu stai con me!», esclamò
ancora il chitarrista.
«Ma guido io!».
«Perché, ne sei capace?».
«Sicuro! Anche meglio di te!».
«Vuoi fare una gara?».
«Ti umilierei!».
Si guardarono con occhi ardenti di sfida e solo la suoneria del
cellulare di Grace interruppe la loro faida. L’investigatrice
lesse il nome sul display illuminato e si rivolse ai gemelli:
«Devo rispondere. Voi andate avanti, vi raggiungo fra un
attimo».
Tom e Bill si alzarono e si avviarono verso il chiosco, mentre Grace si
portava il cellulare all’orecchio.
«Dylan, in che guaio vi siete cacciati tu e Bill?»,
gli chiese subito, a bassa voce nonostante il frontman fosse
già lontano.
«Come sta?». La sua voce era dura e ferma, segno
che stava facendo di tutto pur di non cedere ai propri sentimenti.
Grace sospirò e si passò una mano fra i capelli,
poi guardò Bill con la coda dell’occhio e
sobbalzò scoprendolo voltato verso di lei, gli occhi tristi
ed imploranti.
«Vuoi la verità? Male».
«Beh, allora siamo in due. Ho fatto una cazzata».
«Credo che non tutto sia perduto, fai ancora in tempo a
rimediare», disse, non del tutto certa di ciò che
diceva. Chissà come avrebbe reagito Tom se avesse udito
quelle parole d’incoraggiamento!
«No, non posso».
«Non puoi o non vuoi?».
L’improvvisa freddezza nella voce di Grace fece tacere per
qualche secondo il poliziotto e la detective rincarò la
dose: «Di che cosa hai paura, Dylan?».
«Non ho paura di niente, di niente!»,
urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
«È solo che io non sono gay, capisci?!».
«Se è questo il problema capisco benissimo: la
divisa è troppo stretta per un gay, vero? Il tuo
è fottuto orgoglio, amico».
«Vaffanculo, Grace», sibilò.
«Con piacere».
Terminò bruscamente la chiamata e gettò il
cellulare nella borsa, per poi infilarsi le mani fra i capelli
nervosamente. Rifletté su quella maledetta situazione che si
era creata e nel frattempo si rifece la coda con gesti rapidi, visto
che a furia di toccarsi i capelli li aveva tutti scompigliati.
Si alzò dalla sabbia e raggiunse Bill e Tom al chiosco, dove
però non avevano trovato nessuno a servirli. Quindi si erano
messi a discutere sul modo in cui Grace aveva convinto Ria ad
abbandonare la commedia organizzata da Simone.
«Ma dimmi una cosa, Grace», disse il chitarrista,
appoggiato con un gomito al bancone.
In quel momento il bambino seduto su una piccola seggiola sotto uno
degli ombrelloni del chiosco alzò la testa verso di loro,
tenendo gli occhi chiusi. Aveva i capelli neri, lunghi fino al mento,
il corpicino esile e fra le mani teneva tanti cubetti dalle forme
più varie.
Grace si disse che l’aveva già visto da qualche
parte, ma non ebbe modo di appurarlo perché Tom riprese:
«Quando ti ho chiamata non eri a fare delle commissioni,
vero? Eri ad indagare su Ria».
La detective si strinse nelle spalle, accennando un sorriso.
«Beh, mi avevi incuriosito ieri e volevo sapere
perché Simone la ritenesse migliore di me».
«Quindi non eri nemmeno un po’ gelosa?».
All’espressione incredula disegnata sul volto di Tom sia Bill
che Grace ridacchiarono.
«Io, gelosa? Questa è
proprio…». Non riuscì a concludere la
frase perché due manine le avevano preso la mano destra e la
stavano esaminando accuratamente con movimenti veloci ed esperti delle
dita. Era lo stesso bambino che aveva visto seduto sotto
quell’ombrellone.
«Chi è, lo conosci?», mormorò
Tom alla ragazza, rimasta senza fiato quando il bimbo aveva aperto gli
occhi di un azzurro opaco e l’aveva fissata con le sue
pupille lattiginose.
«Grace, sei proprio tu?», le domandò con
una vocina fine.
«Dio mio, Jeremy», balbettò
l’investigatrice, inginocchiandosi sulla sabbia di fronte a
lui.
Il bambino, Jeremy, accennò un sorriso e le posò
le manine sul viso per esplorarlo e rammentarlo in tutti i suoi
particolari.
«Ti vado a chiamare mio padre», le
sussurrò prima allontanarsi affiancando la parete del
chiosco, fino a sparire sul retro.
Grace non si alzò subito da terra, rimase lì con
lo sguardo fisso, come se le manine di Jeremy stessero ancora sfiorando
il suo volto.
Tom, a disagio, bisbigliò: «Grace, ma quel bambino
è…».
«Cieco, sì», rispose e levò
lo sguardo verso di lui. Tese una mano e Tom
l’afferrò per aiutarla a tirarsi su.
«Come fai a conoscerlo?», le domandò
invece Bill, evidentemente scosso.
Grace finì di pulirsi le ginocchia e sorrise.
«È una lunga storia e, ah, saranno passati
già tre anni! Com’è
cresciuto…».
«Grace! Grace, oh mio Dio!», gridò un
uomo sulla trentina, uscendo di corsa dal retro con il piccolo Jeremy
in braccio. Era lo stesso uomo che qualche tempo prima aveva servito
Tom e Ria.
«È passato così tanto
tempo!», urlò ancora e la travolse in un goffo
abbraccio, non appena Jeremy fu coi piedi per terra.
«Sono così contenta di vedervi», rispose
la detective, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.
«Non sapevo che lavorassi qui».
«In realtà questo chiosco era del padre di mia
moglie, ce l’ha affidato. Oh mio Dio, sarà
così contenta di sapere che ti abbiamo rivista!».
«Perché, non è con voi?».
«No, purtroppo è rimasta a casa a badare alla
piccolina», disse e un sorriso colmo d’amore gli
illuminò il volto. «Jeremy ha avuto una sorellina
da poco».
«Wow, ma è fantastico»,
esclamò passando una mano fra i capelli lunghi del bimbo.
Solo allora si rese conto di aver trascurato Bill e Tom, impalati come
due stoccafissi.
«Oh, scusatemi. Bill, Tom, lui è Javier; Javier,
loro sono Bill e Tom Kaulitz».
«Molto piacere di conoscervi! La vostra non è una
faccia nuova, ci siamo già visti da qualche
parte?».
I gemelli si scambiarono uno sguardo imbarazzato e Bill si prese
l’incarico di rispondere: «Siamo il cantante e il
chitarrista dei Tokio Hotel».
«Oh, ma certo!», urlò dandosi una manata
sulla fronte. «Ora è tutto chiaro! Il piccolo
Jeremy è un vostro fan!».
Il bambino si nascose dietro le gambe del padre e chiuse i suoi occhi
vacui, forse timoroso di mostrare la sua cecità di fronte ai
suoi idoli.
Tom però non si lasciò intimorire e si
chinò di fianco a lui, gli accarezzò i capelli
con una mano e con l’altra prese quella di Jeremy.
«Molto piacere, Jeremy. Io sono Tom».
Il bambino rimase in silenzio, il capo rivolto verso il basso, anche se
non riuscì a resistere e le sue dita si mossero su quella
mano grande.
«Quanti calli», mormorò sorridendo.
«Puoi toccargli anche la faccia, se vuoi», lo
rassicurò Grace. «Stai attento però a
non pungerti: non si è ancora fatto la barba, nonostante lo
abbia implorato».
«Che cos’hai contro la mia barba?».
«Mi dà fastidio e non mi piace!».
Il padre di Jeremy scoppiò a ridere al loro battibecco e
mentre suo figlio posava timidamente le mani sul volto di Tom per
conoscerlo meglio, raccontò ai due di quando aveva
conosciuto la detective e ciò che aveva fatto per salvarlo.
«Perché mi ha davvero salvato la vita»,
ci tenne a precisare e poi incominciò:
«All’epoca io facevo parte di una delle gang
più temute di tutta Los Angeles e dopo aver conosciuto
quella che poi sarebbe diventata mia moglie avevo provato ad uscirne,
ma sapete com’è: quando si entra nelle gang non si
può più uscire se non pagando con la propria
vita; così sono stato costretto a rimanere. Intanto era nato
Jeremy e io ero davvero disperato, perché temevo per la mia
famiglia e non potevo cercarmi un lavoro normale, dovendo essere sempre
a disposizione del boss. Fu in quel periodo che conobbi Grace: non so
come era riuscita a farsi amico il boss, ad ottenere la sua fiducia, e
appena è venuta a sapere che io avevo tentato già
una volta di uscire dalla gang è venuta da me per ricevere
altre informazioni. Io le ho confidato tutto, sentivo che potevo
fidarmi e non mi sbagliavo», si scambiarono un sorriso.
«Mi ha detto che lei era un’investigatrice privata
e che poteva aiutarmi se io aiutavo lei: in pratica mi ha chiesto di
collaborare con la polizia per impedire al boss di innevare tutta Los
Angeles».
«E poi com’è finita?», chiese
in trepidazione Tom, alzandosi in piedi sentendo le gambe intorpidite.
Jeremy aveva finito di esaminarlo e ora si era avviato a tentoni verso
Bill, il quale si era lasciato toccare prima con un po’ di
diffidenza, poi con un sorriso dolce sul viso.
«È finita che la polizia con una sola retata ha
sequestrato chili e chili di droga, io inspiegabilmente ho ottenuto
ancora più stima da parte del boss», Doc
Mahkah,
«perché non aveva mai visto una ragazza con
più coglioni dei suoi tirapiedi – parole sue
– e sono riuscita a trattare per la
“liberazione” di Javier», concluse
sinteticamente Grace.
«È stata incredibile», disse
l’uomo, commosso. «Mi ha ridato la vita, la mia
famiglia, tutto».
La ragazza scrollò le spalle, nonostante fosse arrossita.
«Ho solo restituito un marito a sua moglie e un padre a suo
figlio, l’avrebbe fatto chiunque».
«Dovresti essere un po’ più orgogliosa
di te stessa», le disse Tom, stringendole un braccio fra le
spalle. «Credo che persino mamma si convincerebbe della tua
bravura se le raccontassi questa storia».
Lei lo fulminò con lo sguardo. «Non ci pensare
nemmeno».
Javier sospirò, cacciando in un angolo lontano il passato, e
sorrise raggiante. «In che cosa posso esservi utile, ragazzi?
Vi serviva qualcosa?».
«In effetti sì», rispose Grace.
«Volevamo affittare delle moto d’acqua per
un’oretta».
«Due: una per me e Grace e una per Bill», disse
Tom, ma Grace lo tirò per la maglietta strillando:
«Non ci pensare nemmeno!».
Ripresero il loro vecchio battibecco e Javier non poté fare
a meno di ridere, per poi dire: «Mi dispiace ragazzi, ma ne
ho solo una disponibile in questo momento. Se volete aspettare che
qualcuno finisca…».
«No, lascia stare», rispose Bill scuotendo il capo.
La sua affermazione fece azzittire anche i due litiganti. «Io
non ho molta voglia, quindi possono prenderne solo una e andare in due.
Faranno a turni per guidare. Vero?», li guardò
inarcando le sopracciglia ed affilando lo sguardo e i due non poterono
che accettare le sue condizioni.
«Tu che cosa farai?», gli chiese il gemello.
«Io rimarrò qui con Jeremy, sempre se a lui non
dispiace».
Il bimbo fece un largo sorriso e scosse il capo, scortando il cantante
fino ai suoi giochi, quei cubetti di legno di varie forme. Jeremy gli
fece chiudere gli occhi e gli diede uno dei cubetti per fargli
indovinare che forma fosse.
«Bene, allora siamo d’accordo per una moto
d’acqua?», ricapitolò Javier, andando a
prendere le mute - contro il freddo - e i giubbotti di salvataggio da
fargli indossare.
«Sì», rispose Grace.
«Quant’è?».
Javier la guardò con un sorriso sornione. «Vi
aiuto a metterla in acqua».
Nei bagni entrambi si tolsero i vestiti per indossare le mute, poi
Grace aiutò Tom ad allacciarsi il giubbotto sulla schiena e
una volta raggiunto Javier portarono la moto d'acqua fino a riva.
L’investigatrice, approfittando di un momento di distrazione
del chitarrista, si mise subito al posto di guida con un ghigno di
soddisfazione sulle labbra.
«Okay, ma quando te lo dico facciamo cambio!», la
intimò Tom, facendole ben poca paura.
«Grazie Javier, sei davvero gentilissimo», disse
Grace e l’uomo sventolò una mano come a voler
scacciare una mosca fastidiosa.
«Divertitevi!».
Grace accese il motore e dopo una partenza lenta, visto che
c’erano un paio di surfisti, iniziò ad accelerare
mostrando la sua abilità anche in quel campo. Tom
pensò che non avrebbe mai smesso di scoprirla: aveva una
risorsa inesauribile di sorprese!
«Sai a che cosa pensavo stamattina?», le
domandò all’improvviso, urlando per farsi sentire
sopra il rumore del motore e dell’acqua che li sfregiava.
«A che cosa?».
«Che la mia relazione con te è la più
strana che io abbia mai avuto!».
Grace sorrise e lo guardò con la coda dell’occhio
mentre curvava pericolosamente. Non perse nemmeno per un attimo il
controllo della moto, ma Tom si aggrappò ancora
più saldamente a lei. Era riuscita nel suo intento.
«Insomma», aggiunse ancora lui,
«è la relazione meno fisica che io abbia mai
avuto!».
La detective ebbe improvvisamente voglia di buttarlo giù a
calci, ma poi rise: che poteva farci, era fatto così, il suo
Tom.
«Sono successe tante cose e quando abbiamo iniziato ad
avvicinarci tutto è accaduto così in fretta che
secondo me non abbiamo ancora capito quello che ci sta succedendo. E
poi sei stato in ospedale… Non ti preoccupare,
recupereremo!», gli rispose.
Tom posò il mento sulla sua spalla ed annuì con
la testa, baciandola sul collo.
«Non ho detto che dobbiamo recuperare adesso!»,
gridò Grace, divincolandosi.
«Allora lasciami guidare!».
«Sporco ricattatore!».
Il chitarrista sorrise soddisfatto e la vide rallentare fino a far
fermare la moto d’acqua in uno specchio d’acqua
cristallina, nonostante il fondale fosse almeno trenta metri sotto di
loro. Grace si voltò verso un lato e con la grazia di una
ballerina si tuffò in mare. Riapparve in superficie qualche
momento dopo e gli sorrise, spostandosi i capelli dalla fronte.
«Com’è l’acqua?», le
domandò mentre le tendeva una mano per aiutarla a risalire
sulla moto.
«Un po’ freddina, ma tutto sommato
bella!».
«Bene, allora preparati al bis». Detto fatto: Tom
partì in quarta e Grace dovette stringersi a lui
più che poté per non volare via. Era un pazzo,
decisamente.
«E così sono venuto a sapere di due tuoi vecchi
casi in un solo giorno!», riprese a parlare ancora Tom.
«Sto migliorando, vedi?».
«Eccome! Ho capito che ne hai passate davvero tante, che hai
rischiato grosso in un bel po’ di
occasioni…».
«È vero. Molte volte ho pensato che fosse arrivata
la mia ora, che tutto stesse per finire».
«Ma sei arrivata fino a qui, più o meno
illesa».
«Già. Devo avere un angelo custode davvero
efficiente».
«No, semplicemente non potevi morire: dovevi ancora
incontrare me».
Grace si ammutolì e lo fissò in silenzio per un
po’, soffermandosi sui suoi occhi luminosi e sul mezzo
sorriso che gli creava una fossetta sulla guancia. Poi sorrise
dolcemente e posò la guancia contro la sua spalla,
avvolgendo ancora più saldamente le braccia intorno alla sua
vita.
Grace guardò l’ora sul suo cellulare e si
lasciò scappare un sorrisino nervoso, alzandosi dalla sedia
su cui era seduta. Tom, Bill, Simone e Gordon, allo stesso tavolino e
con i loro aperitivi in mano, la fissarono confusi.
«Dove vai?», le domandò la donna.
«Pensavo che restassi qui a cena».
«Ci sarò, glielo prometto. Solo che…
prima dovrei andare a trovare una persona. Le avevo detto che ci
saremmo viste e…».
Il chitarrista intervenne in suo aiuto, sorridendole ed alzandosi a sua
volta. «Ti accompagno».
«Non è necessario», balbettò,
ma Tom la prese per mano e salutò la sua famiglia con un
gesto del capo e la promessa che si sarebbero visti tra
un’oretta a cena.
Raggiunsero ancora mano nella mano l’Audi del chitarrista,
anche se Grace avrebbe voluto prendere il suo fuoristrada.
«Non mi va di usare quel catorcio», disse Tom
sorridente, sapendo di scatenare le sue ire.
«Non è un catorcio!».
Si fermò ad un passo dall’Audi, con le mani sui
fianchi e uno sguardo furioso.
«Dai Grace, scherzavo…».
Non riuscì a farsi perdonare facilmente e per vederla
sorridere di nuovo dovette fare una cosa che non aveva mai fatto:
lasciare che una donna guidasse la sua auto.
«Ti prego, stai attenta», la supplicò
con voce strozzata, dandole le chiavi.
«Stai tranquillo, la tratterò come tratto il mio
fuoristrada!».
«Oh, bene».
Appena fu al volante Grace ebbe la sensazione di non aver mai guidato
in vita sua, con quella strana emozione che la punzecchiava sottopelle.
Ma presto si rilassò e percepì le fusa del
motore, le gomme che sembravano scivolare sull’asfalto e la
comodità dei sedili in pelle. Era come inglobata
nell’auto e la sua guida divenne sciolta e sicura, tanto che
Tom rimase di stucco per l’ennesima volta in quella giornata.
Quando arrivarono di fronte all’ospedale, Grace non spense il
motore e si sporse verso di lui per sfiorargli le labbra con un bacio.
«Grazie», gli sussurrò.
«Farò il prima possibile».
Tom annuì frettolosamente, in modo quasi automatico,
dimenticandosi per un attimo di ciò che gli era venuto in
mente di fare. Le prese il volto fra le mani e la travolse in un bacio
appassionato, che terminò solo quando lei si
spostò ridendo sommessamente e scese dall’auto.
La osservò entrare nella struttura ospedaliera e scosse il
capo, tornando pienamente in sé. Allora scese anche lui,
chiuse l’Audi con il piccolo telecomando e fece lo stesso
tragitto che aveva visto fare da Grace.
Raggiunse la stanza della signora Moore e vide
l’investigatrice in piedi accanto a lei, che le stringeva
docilmente la mano e le raccontava qualcosa. Allora bussò ed
entrò. Quella volta fu lui a sorprendere Grace,
perché lo guardò presentarsi a bocca aperta ed
incredula alle proprie orecchie.
«Buonasera, signora Moore. Mi chiamo Tom Kaulitz e sono il
ragazzo di sua figlia. È un vero piacere
conoscerla».
Melanie guardò sua figlia di sottecchi, imbarazzata, e le
sussurrò: «Grace, non era il caso di farmelo
conoscere adesso: sono impresentabile».
Tom sorrise e le prese una mano fra le sue, affiancando la detective.
«Io invece la trovo in ottima forma e ora capisco da chi
Grace abbia preso il suo bel sorriso».
A sentirlo parlare così, chiunque avrebbe pensato che avesse
imparato quelle parole a memoria e fosse così disinvolto a
furia di conoscere le madri delle sue ragazze, ma Grace sapeva che non
aveva mai fatto una cosa del genere e glielo leggeva negli occhi e
negli angoli tremanti del suo sorriso che era teso come una corda di
violino. Si chiese perché stesse facendo tutto quello, visto
che non gliel’aveva chiesto, e capì che stava
cercando di ripagarla per gli sforzi che aveva fatto con sua madre.
Commossa, accennò un sorriso impacciato e gli strinse forte
la mano nella sua.
_______________________________________________________
Buonasera!
;)
Oggi non starò a dire molte cose, lascio a voi la
più totale libertà, sempre se vorrete lasciarmi
due righe per sapere che cosa ne pensate di questo capitolo ancora
"senza indagini". Si sono scoperti però alcuni casi a cui ha
lavorato Grace e soprattutto è stato il capitolo delle mamme
xD Ve l'aspettavate così, la dolce Simone? Ha fatto bene o
male ad invitare Ria? E Tom, che si è presentato alla madre
di Grace? Che carino *-*
Per quanto riguarda Bill e Dylan so già che mi odierete e
che odierete ancora di più Dylan ora che sta facendo
soffrire Bill, ma nemmeno lui sta proprio bene e infatti lui e Grace si
sono presi a male parole... Staremo a vedere ù.ù
Ringrazio di cuore chi ha commentato lo scorso capitolo, chi ha messo
questa storia tra le preferite/seguite/ricordate e chi legge! Vi adoro!
:)
A domenica
prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 15 *** Capitolo 14 ***
Capitolo 14
«Sono
allibito, ormai anche i bambini spacciano in questa città
del cazzo!», borbottò indignato Oswin, mettendosi
al volante della Crown Victoria. Era così frustrato che
avrebbe voluto accendere la sirena solo per evitare il traffico, ma
Dylan riuscì a dissuaderlo, anche se si beccò il
nomignolo “Moscio Perbenista”.
Una volta domato il partner, Dylan posò il capo sul
finestrino e guardò la strada scorrere sotto le ruote
dell’auto, immergendosi nei suoi pensieri. Lo faceva spesso
da quando era successo il casino con Bill e aveva litigato con Grace,
quella stupida che non riusciva a capire come si sentisse. Ma in fondo
era lui il primo stupido, visto che nemmeno lui sapeva dare un nome
alla tempesta nata dentro di lui da quando aveva chiarito –
parola grossa – con il cantante dei Tokio Hotel.
All’improvviso l’autoradio gracchiò e
Dylan si mise le mani nei capelli, perché non dormiva da
circa quarantott’ore e voleva andare a casa.
«Pattuglia 114ES», rispose stizzito con la
radiolina alla bocca.
«Rientrate, il capo vi vuole alla centrale.
Subito».
I due poliziotti accartocciarono contemporaneamente le labbra in una
smorfia. Quella di Oswin era la più inquietante,
perché somigliava ad un sorriso perverso.
Proprio lui, disse: «Che bella notizia, ci voleva
proprio!».
Quella volta neppure Dylan ebbe la forza per impedirgli di accendere la
sirena: dopotutto il capo della polizia stradale del distretto
dell’Eastside li voleva lì subito, non potevano di
certo farlo aspettare.
Appena arrivati in centrale, si avviarono verso l’ufficio del
capo sotto gli sguardi curiosi e diffidenti dei colleghi.
«Hai combinato qualche guaio?», chiese sottovoce
Oswin.
«No», rispose Dylan. «Tu?».
«Non che io sappia».
Attraverso le veneziane dell’ufficio del capo notarono un
uomo seduto su una delle poltrone in pelle di fronte alla scrivania.
Dylan bussò lievemente sul vetro della porta e il capo li
fece entrare. L’uomo, rimasto seduto fino ad allora, si
alzò e si stirò la cravatta del suo completo
elegante.
Il capo stava per presentarlo, ma l’uomo lo precedette e fece
da sé: «Agente Michael Crawford, FBI».
I due poliziotti sgranarono gli occhi e deglutirono una
quantità smisurata di saliva, pur sentendo la bocca secca.
Che avevano fatto di male, tanto da attirare l’attenzione
dell’FBI?
***
Tom trovò
Grace in cucina, intenta a preparare un bricco di caffè. Le
avvolse la vita con le braccia e le baciò la tempia,
sussurrandole il buongiorno.
«Oggi tua madre viene dimessa, vero?», le
domandò, sedendosi al tavolo e rubando un biscotto dal
contenitore di latta.
La detective annuì con un cenno del capo. «Prima
che arrivi devo sistemare tutto e dare una lavata ai
pavimenti…».
Ci mancò poco perché Tom si strozzasse coi
biscotti di cui, uno dopo l’altro, si stava rimpinzando con
nonchalance.
«Viene a stare qui da te?».
«Non è il caso di farla tornare a casa sua, dove
è stata aggredita e dove rimarrebbe sola. È
meglio che stia qui con me, si sentirà più
tranquilla».
«E ti sentirai più tranquilla anche tu».
Grace sospirò e portò il bricco pieno di
caffè a tavola, ne versò un po’ in due
tazze e poi si sedette, coprendosi il viso con le mani.
«Ho avuto davvero paura di perdere anche lei»,
mormorò, ma subito dopo si ricompose, facendo scoppiare la
confezione di plastica di una brioche.
Tom ebbe come la sensazione che Grace, rendendosi conto di quello che
aveva lasciato trapelare dalle sue parole, si stesse comportando come
se nulla fosse per distrarlo. Visto che la metteva così,
fece tacere la propria curiosità e decise di assecondarla;
anzi, di distrarla a sua volta.
«Quindi da quando tua madre verrà qui noi non
avremo più un rifugio dove poter recuperare il tempo perso.
Fantastico», borbottò, versando nel proprio
caffè ben quattro cucchiaini di zucchero.
Grace lo guardò con un’espressione contrariata,
anche se un sorriso lottava per affiorare sulle sue labbra.
«Il problema principale è questo,
ovviamente». Pucciò la sua brioche nel
caffè, attendendo la replica di Tom, che non
arrivò. Allora continuò: «La settimana
scorsa hai detto che questa era la relazione meno fisica che tu avessi
mai avuto. Ripensandoci, mi sono chiesta se per noi fosse tanto
necessario, il sesso. Capisco con le oche senza cervello con cui sei
stato, non avevi nulla di meglio da fare, ma con
me…».
Grace sollevò la testa di scatto sentendo la sedia di Tom
strisciare sul pavimento e se lo trovò ad un centimetro dal
proprio viso, occhi negli occhi.
«No, per noi non è tanto necessario»,
sussurrò. «Ma è bello fare sesso con
te».
Le loro labbra si sfioravano.
L’investigatrice chiuse gli occhi ed accennò un
sorriso. «Stai dicendo che io sono più brava di
tutte le altre?».
«Sto dicendo che è bello perché sono
innamorato di te».
Il cuore di Grace perse un battito. Senza nemmeno accorgersene
posò le mani sul volto di Tom e lo baciò
togliendo il fiato ad entrambi.
***
«Il capo
della squadra della sezione omicidi che si è occupata del
caso di Melanie Moore – aggredita in casa sua, picchiata
selvaggiamente in un furgone e poi abbandonata seminuda in un vicolo
nella periferia dell’Eastside – mi ha detto di
rivolgermi a Dylan Marìn, dato che ha collaborato e conosce
sia la vittima che sua figlia».
«Sì, sono io», rispose Dylan, mentre i
battiti del suo cuore aumentavano.
«Ho letto tutti i dossier inerenti al caso, mi sono informato
e a quanto pare non sono ancora stati trovati i colpevoli».
«È vero, in questo momento le indagini sono in
stallo, ma dove vuole arrivare, agente Crawford? E io in che modo posso
esserle utile?».
Era inquieto e teneva la mascella contratta. Oswin, temendo che
reagisse in malo modo, posò una mano sulla sua spalla e la
strinse, suggerendogli di calmarsi al più presto: non era
per nulla conveniente farsi un nemico nell’FBI.
Michael sorrise sornione ed incrociò le braccia al petto.
«Coincidenza vuole che durante una perquisizione i miei
uomini abbiano sbagliato hangar e siano state rinvenute parecchie armi
automatiche e un furgone».
«Voi avete sbagliato
hangar? Ma come diamine…».
Dylan colpì Oswin con un manrovescio e rilassò i
muscoli, sbalordito, balbettando: «Lei pensa che quel
furgone…?».
«Non lo penso, ne sono certo. L’avevano pulito da
cima a fondo, da veri professionisti, ma i miei agenti della
scientifica sono riusciti a trovare comunque delle tracce che indicano
che Melanie Moore è stata in quel furgone».
«Lei come… come ha potuto fare il confronto, se
l’indagine è ancora della polizia
locale?».
«Il capo della sezione omicidi ha dato il suo consenso
perché potessimo attingere ai campioni e in laboratorio
è già stato tutto confermato».
L’agente Crawford sorrise di nuovo. «Inoltre non ha
avuto nulla da obiettare, quando l’FBI ha deciso di occuparsi
di questo caso».
Dylan si morse l’interno della guancia, pensando a Grace e a
cosa avrebbe detto quando avrebbe scoperto che l’FBI aveva
già in mano il suo caso. Solo successivamente si
ricordò che la detective l’aveva abbandonato, che
si era fatta da parte, e visto che loro in quel momento non avevano
proprio nulla in mano forse non era una cattiva idea: l’FBI
aveva più risorse, più accesso ai file top
secret… in poche parole, più
possibilità di fare qualche passo avanti.
«A me sta bene», disse, guardandolo fisso negli
occhi. «Però devo chiederle di non estromettermi
dalle indagini: lei non immagina neanche quanto io desideri risolvere
questo caso».
«Le do’ la mia parola», promise Crawford,
ma subito dopo aggiunse: «Ad una condizione: che mi racconti
tutto ciò che sa, perché sono certo di essere
all’oscuro di molte cose».
Dylan rilassò le spalle, socchiudendo per un attimo gli
occhi e traendo un respiro profondo.
«Andiamo nella sala interrogatori», disse, facendo
strada all’agente.
Michael Crawford non smise mai di guardarlo di sottecchi lungo il
tragitto, pensando che dietro a quella torbida storia ci fosse molto
più di quanto potesse minimamente sospettare.
***
«È
tardissimo», disse Grace col fiatone, mentre si abbottonava i
jeans e si infilava le scarpe ai piedi.
«Ci siamo dilungati un po’ troppo, dici?».
Lo guardò sorridere beato, nudo ed arrotolato nelle lenzuola
del suo letto, e gli tirò un cuscino addosso, trattenendo a
stento una risata.
Si sentiva euforica, a causa delle parole di Tom o forse del sesso
mattutino, ma ancora non era a conoscenza di ciò che
l’aspettava.
«Muoviti a rivestirti e a tornare a casa, devo pulire e poi
andare a prendere mia madre. A proposito, devo ricordarmi di darle il
doppione delle chiavi di casa, ma dove l’avrò
messo?».
Il chitarrista la osservò girare per la stanza con una mano
fra i capelli e sorrise, trovandola buffa quanto adorabile.
«Non avrai intenzione di andarla a prendere con il tuo
catorcio, vero?», le domandò Tom, inorridito.
Grace si fermò a metà strada e guardò
da lontano il suo fuoristrada, poi posò lo sguardo
sull’Audi luccicante di Tom, che lui indicava con lo stesso
sorriso persuasivo dei venditori. Sbuffò e per quella volta
decise di abbandonare il suo fidato veicolo per cadere nella trappola
del lusso.
Tom le aprì la portiera e la fece salire, poi fece il giro
dell’auto e si mise al volante. Avviò il motore e
notò che la detective lo fissava con espressione assorta,
allora sorrise e scrollò la testa, chiedendole
perché lo guardasse in quel modo. Grace rispose che era
semplicemente andata in fissa, ma al contempo, voltandosi con un mezzo
sorriso verso il finestrino, lo ringraziò mentalmente,
perché mettere in ballo l’inadeguatezza del suo
fuoristrada era stato il suo modo per dirle che le sarebbe stato vicino
anche quella volta.
***
Michael Crawford si
passò le mani sul viso e guardò il taccuino su
cui aveva preso appunti sull’intricato caso appena
raccontatogli da Dylan, seduti l’uno di fronte
all’altro al tavolo rettangolare nella spoglia sala degli
interrogatori, illuminati soltanto dalla lampada al neon sopra le loro
teste.
Dylan sospirò e si dondolò sulla sedia, tenendosi
al tavolo con entrambe le mani.
«Le avevo detto che non ci avrebbe capito nulla»,
esclamò affranto.
«Io ho capito tutto, invece», sibilò
Michael, guardandolo storto. «Mi chiedo solo come abbiate
potuto essere così stupidi tu e la tua amichetta da non
avvertire autorità superiori alle vostre!».
Il poliziotto si alzò bruscamente dalla sedia, che cadde
dietro di lui, e sbatté le mani sul tavolo, sporgendosi
verso l’agente dell’FBI.
«E sentiamo, che cosa avremmo dovuto dire a queste autorità
superiori?! A quanto mi risulta
l’omicidio di Mitch Schneider non è mai stato
risolto per mancanza di prove, quello del marine di nome Carter
è stato del tutto insabbiato, tanto che non se
n’è parlato nemmeno una volta. Forse
l’unica cosa che potevamo dire era: “Scusate, ma
hanno rubato il cellulare a Tom Kaulitz e chiamando il suo numero una
voce criptata ha detto a Grace Schneider di abbandonare
l’indagine su cui lavorava! Ve ne occupate voi?”.
Le nostre sono tutte ipotesi, anche se sono esatte. Le
autorità superiori le classificherebbero come tali oppure
non si degnerebbero neppure di ragionarci su. Lei mi vuole accusare di
non averne parlato con queste autorità, ma io non ci metto
nulla a dire che sono proprio loro ad aver abbandonato ed insabbiato
tutto per prime!».
Dylan e Crawford si fronteggiarono in silenzio, occhi negli occhi, per
diversi istanti. Poi il federale disse, in tono pacato: «Lei
rischia il posto con queste accuse».
«Che mi licenzino pure! Non me ne starò qui a
guardare mentre altri innocenti in cerca della verità
vengono ammazzati per gli scheletri nell’armadio di qualcuno
ai piani alti!».
Staccò le mani dal tavolo, diede le spalle a Crawford col
volto in fiamme e fece per andarsene, ma si arrestò con la
mano sulla maniglia della porta quando l’agente
dell’FBI disse: «Sono con lei».
Dylan si voltò lentamente e lo fissò sconcertato.
«Scusi?».
«Ho detto che sono con lei. Potremmo andare contro molte
persone importanti, potremmo perdere il lavoro, ma non importa:
risolveremo questo caso».
Si guardarono negli occhi per qualche secondo interminabile e con un
cenno del capo suggellarono la loro unione contro il nemico comune,
qualunque esso fosse.
«Com’è andata?», chiese Oswin,
appena vide il partner uscire dalla sala interrogatori.
«Quel Crawford dopotutto non è tanto
male», gli rispose e se ne andò, diretto allo Starbucks
vicino alla centrale.
***
Il sorriso impacciato
con cui Melanie li aveva accolti nella sua ormai ex-stanza
d’ospedale aveva lasciato trapelare chiaramente
l’imbarazzo che provava per il suo timore di tornare in
quella casa e di dover essere quindi ospitata da sua figlia.
In quella settimana all’ospedale, le ferite e le contusioni
della madre di Grace erano parecchio migliorate, anche se non del tutto
guarite. I lividi si stavano riassorbendo e la sua pelle stava tornando
pallida come la luna e punteggiata di efelidi simili a quelle della
figlia sul naso e gli zigomi, in forte contrasto con i capelli rossi
che le accarezzavano le spalle. I tagli alle labbra sottili si erano
quasi del tutto cicatrizzati e aveva un cerotto sul sopracciglio
sinistro, rotto e anch’esso in via di guarigione.
Indossava un maglioncino lilla e dei semplici jeans le avvolgevano le
gambe affusolate.
Solo in quel momento Tom riuscì realmente a concretizzare
quanto Melanie e Grace fossero simili: nei lineamenti del viso, dolci e
forti allo stesso tempo, nella corporatura atletica, nei loro sorrisi
appena accennati e persino nel modo in cui si stringevano le braccia al
petto, come per difendersi e consolarsi. Erano entrambe bellissime e
avrebbe pagato oro per vedere una foto del padre di Grace, dal quale
doveva aver preso il colore dei capelli e quello degli occhi, verdi
come prati in primavera, agli antipodi rispetto a quelli scuri della
madre.
«Siete in anticipo», disse Melanie a voce bassa,
come se l’aggressione che aveva subìto avesse
tolto forza anche alla sua voce.
Grace scrollò le spalle e le andò vicino,
prendendola delicatamente sotto braccio. «Non sei contenta di
uscire di qui un po’ prima?».
La donna sorrise, ma né alla detective né a Tom
sfuggì l’espressione fragile nei suoi occhi.
Il chitarrista prese la borsa di Melanie e insieme si diressero verso
la reception dell’ospedale, dove Grace e sua madre firmarono
i moduli delle dimissioni. Poi uscirono.
Il sole di quella mattina di fine gennaio colpì i capelli di
Melanie, che brillarono di diverse tonalità di rosso.
Rimase per qualche secondo a godersi l’aria aperta, alzando
il volto verso il cielo ad occhi chiusi e respirando a pieni polmoni, e
Grace la fissò come se si trattasse di una dea, rammentando
le giornate assolate della sua infanzia, quando suo padre era alle
prese di un caso e lei e sua madre andavano al parco a fare insoliti
pic-nic, portando con loro solo una tovaglia, dei succhi di frutta e la
torta di mele di cui da piccola andava ghiotta. Era proprio in quelle
occasioni che vedeva sua madre come la donna più bella del
mondo, rilassata e con il suo stupendo sorriso sul volto, i capelli che
le ricadevano sciolti sulle spalle che brillavano come di luce propria
ai raggi del sole.
«Che fine ha fatto il tuo amato fuoristrada?», le
domandò Melanie.
Grace rinvenne e vide che Tom si era già avviato verso
l’Audi, aveva aperto il bagagliaio e vi aveva depositato la
borsa di sua madre.
«Non dirmi che si è guastato qualcosa».
«Oh, no», rispose la detective.
«È solo che Tom mi ha accompagnata qui e ha voluto
usare la sua auto».
«Davvero molto bella», apprezzò a mezza
voce. «Anche se devo ammettere che il tuo fuoristrada mi
piace di più».
Grace sorrise ed accompagnò sua madre fino
all’Audi, la fece salire sui sedili posteriori e si
sistemò al suo fianco.
Prima di avviare il motore Tom si voltò verso di loro
sorridendo, ma non disse niente. L’investigatrice si
domandò il perché di quel sorriso e dopo pochi
secondi decise che non le importava, perché dopotutto i
sorrisi più belli non hanno motivazioni.
Erano quasi giunti a destinazione, quando Tom si accorse che dietro la
sua auto ce n’era una della polizia stradale che conosceva
bene.
«Ehi Grace, guarda chi è venuto a
trovarti», disse con una risata falsa sulla punta della
lingua.
Al suo cenno, la detective si voltò e attraverso il
parabrezza posteriore vide Dylan alla guida della sua auto di servizio.
«Proprio adesso?», mugugnò
lamentosamente, pensando all’ultima volta in cui si erano
parlati, ossia quando avevano litigato a causa della situazione
creatasi fra lui e Bill. «Non sono proprio
dell’umore giusto».
«Nemmeno io», rispose Tom, cercando di mantenere
inutilmente la calma. «Ti chiedo già scusa per
qualsiasi cosa farò».
«Non devi; non sarò di certo io a
fermarti».
Melanie, non capendo a che cosa si riferissero, non intervenne
– fece soltanto da spettatrice silenziosa.
Tom continuò dritto per la sua strada, stringendo sempre
più forte il volante fra le mani. Alla fine
parcheggiò di fronte al palazzo in cui si trovava
l’appartamento dell’investigatrice. Sia lui che
Grace scesero in fretta dall’auto, il primo per correre da
Dylan e soddisfare la sua voglia di prenderlo a pugni, la seconda per
inseguirlo e limitare i danni. Ciò che non si sarebbero mai
aspettati fu l’intervento di un uomo che aveva parcheggiato
l’auto proprio dietro quella di Dylan: appena vide il pugno
di Tom librarsi verso il setto nasale del poliziotto, lo
fermò e con una rapida mossa gli portò il braccio
dietro la schiena, storcendoglielo fino a farlo gridare dal dolore.
«Che cazzo…», balbettò Grace
e fu sul punto di tirar fuori la sua Glock dalla fodera nascosta dietro
la schiena, ma Dylan fermò l’uomo e
liberò Tom dalla sua stretta micidiale.
Quando si trovarono in cerchio, ci fu un momento di ansimante silenzio,
poi iniziarono a parlare tutti insieme, gridando sempre più
forte per prevalere l’uno sull’altro. Sarebbero
andati avanti così per ore, ma Melanie, confusa e
spaventata, uscì dall’Audi di Tom e chiese con
voce flebile che cosa stesse succedendo. Allora l’uomo,
Dylan, Grace e Tom si azzittirono contemporaneamente e si voltarono
verso di lei, poi tornarono a fissarsi in modo truce tra di loro.
«Chi è lei?», domandò ad un
tratto Grace, rivolta verso l’uomo sconosciuto, intento a
sistemarsi la cravatta.
«Agente Michael Crawford, FBI», si
presentò stizzito, mostrando il distintivo. «Lei
per quale motivo stava per colpire un poliziotto?».
Tom sobbalzò e diventò pallido, ma Grace accorse
subito in suo aiuto dicendo: «Non vanno molto
d’accordo, tra loro è sempre così; non
c’entra nulla la divisa, glielo assicuro». Parve
rabbonirlo e Dylan trovò il momento adatto per porre la sua
domanda, fissando Tom negli occhi: «Perché avresti
dovuto colpirmi, sentiamo?!».
«Per quello che hai fatto a mio fratello,
cazzone!», gridò e sarebbe tornato alla carica, se
Grace non gli avesse stretto le braccia intorno al torace.
«Calmati, Tom, non è il momento adatto»,
gli sussurrò all’orecchio e Tom si
rilassò, così la detective mollò
lentamente la presa e si girò verso il federale e il
poliziotto. «Che cosa ci fa qui un’agente
dell’FBI?».
«Devo parlarle, signorina Schneider», disse
risoluto Crawford. «Possiamo entrare?».
«Sì, certo», rispose, anche se con un
po’ di preoccupazione. Di che cosa dovevano parlare?
Gettò un’occhiata a sua madre e
sospirò, indicandogli la strada e trattenendo Tom per un
braccio fino al suo appartamento.
«No, senti, io me ne vado», sbottò ad un
tratto, fermandosi sul pianerottolo, mentre Dylan, Crawford e Melanie
erano già entrati.
«Per favore, Tom, si tratta solo di…».
«Non ce la faccio! Non ce la faccio a stare di fianco a quello!
Mi prudono le mani!».
Grace chinò il capo e si strinse le braccia intorno al
petto. «Va bene, vai. Grazie di tutto».
Tom le baciò la nuca, con le mani sulle sue spalle, poi
scese giù dalle scale più veloce che
poté.
La detective si fece carico del peso che improvvisamente le era
piombato sulle spalle quando lui gliele aveva cinte ed entrò
in salotto, dove trovò sua madre seduta sulla poltrona e
Dylan e Crawford sul divano.
«Posso offrirvi qualcosa?», domandò
stancamente, indicando con un dito la cucina.
I due agenti negarono con un cenno del capo e il federale
invitò Grace a sedersi. Fu proprio quest’ultimo a
rivelare senza preamboli il motivo della loro visita.
«L’FBI d’ora in avanti si
occuperà del suo caso, signorina Schneider, anche se
persisterà la collaborazione dell’agente
Marìn». Si fermò per una pausa e Grace
rimase in silenzio, poiché non aveva spiegato ancora nulla.
«Abbiamo rinvenuto per caso il furgone in cui la signora
Moore…», si interruppe vedendo la donna alzarsi
con rapidità dalla poltrona e correre via, nel corridoio
semibuio, per poi rinchiudersi in una delle stanze.
Grace la guardò andare via e anche quando si udì
il tonfo della porta chiusa, continuò a fissare il corridoio
come se la scia lasciata dal suo passaggio si potesse vedere.
«Mi dispiace molto, signorina Schneider. Forse non avrei
dovuto…».
«Mi chiami Grace, per favore», gli disse e si
appoggiò al bracciolo della sua parte di divano ad L.
«Va bene, ma allora lei mi chiami Michael». La
detective annuì mestamente e lo invitò a
proseguire.
«Come dicevo, abbiamo rinvenuto per caso il furgone in cui la
signora Moore è stata malmenata, in uno degli hangar in
affitto nella zona aeroportuale. Insieme al furgone, abbiamo
sequestrato anche diverse armi automatiche e parecchie munizioni,
troppe per le sole armi presenti, quindi suppongo che da qualche parte,
in un altro covo, ce ne siano delle altre».
«Ho capito», disse Grace, mostrando una
tranquillità quasi surreale che colpì molto
Dylan. «Ho solo una domanda da farle, Michael: vi siete
disturbati a venire fino a qui solo per dirmi questo?».
«No, Grace, noi... io volevo parlare con lei a proposito
degli sviluppi dell’indag–».
«Mi rincresce deluderla, ma io non mi occupo più
questo caso. Mi sorprende che Dylan non l’abbia avvisata:
avreste risparmiato benzina».
Crawford si voltò verso l’agente di polizia, il
quale abbassò il capo e si strinse le mani per scrocchiarsi
le nocche. Poi tornò a guardare la detective.
«Allora facciamo in modo di non aver sprecato questa benzina:
mi racconti la sua versione dei fatti, dall’inizio alla fine,
senza risparmiarsi le sue ipotesi e le sue sensazioni più
intime».
Grace lo guardò impassibile, ma dentro di sé si
scatenò un putiferio causato da emozioni contrastanti.
Non voleva ripescare quel caso, ci aveva messo tutta la sua buona
volontà per non pensarci ed ora un agente dell’FBI
le chiedeva di riportare tutto a galla? Era certa che se
l’avesse fatto non sarebbe più riuscita ad
abbandonarlo un’altra volta e non voleva proprio ritrovarselo
fra le mani, non dopo tutta quella fatica e quel periodo di pace
apparente che aveva vissuto da ragazza normale, una ragazza innamorata
che era persino riuscita a farsi piacere un po’ di
più dalla madre del suo ragazzo.
Allo stesso tempo, però, all’idea di riprendere
quel caso, di farlo di nuovo suo, sentiva lo stomaco tremare di una
gioia profonda, nascosta nelle viscere. Perché, nel bene e
nel male, quel caso era stata la ragione della sua vita per un sacco di
tempo e l’aveva abbandonato a malincuore, anche se non se
n’era mai pentita fino in fondo. Riprenderlo avrebbe
significato riprendersi un pezzo della sua anima, della sua essenza, ed
incastrare gli assassini di suo padre, gli aggressori di sua madre,
coloro che avevano tentato di strapparle via Tom… le avrebbe
dato finalmente la pace tanto agognata.
«Signorina Grace?», la richiamò alla
realtà l’agente Crawford, piegandosi un
po’ per guardarla negli occhi. «È
disposta a raccontarmi la sua versione dei fatti?».
«Sì», mormorò la detective e
senza nemmeno accorgersene si immerse nuovamente nel vortice dal quale
aveva tanto faticato per uscirne.
Quando Grace finì, Dylan guardò
l’orologio che aveva al polso: aveva parlato per un quarto
d’ora. Crawford, invece, finì di scrivere
confusamente sul suo taccuino.
La detective si scusò e andò in cucina per bere
un bicchiere d’acqua. Una volta tornata da loro, si
rannicchiò sulla poltrona sulla quale era stata seduta sua
madre tempo prima, colpita dal rimorso e dalla paura di aver fatto
un’enorme cazzata riportando tutto a galla.
«Grazie mille», disse Michael appena ebbe finito di
scrivere e di esaminare i suoi schemi da lontano, come un astigmatico
sprovvisto di occhiali. «Ora vorrei che rispondesse alle mie
domande: ci sono alcuni punti che non mi sono chiari».
«Dica pure».
«Qual era di preciso il caso su cui stava lavorando suo padre
e chi lo aveva ingaggiato?».
Grace scrollò il capo. «Io ho solo degli appunti
parziali e non ho mai ben capito quale fosse il caso, anche se ho
sempre pensato che si trattasse di corruzione».
«Nella marina militare? Mi ha raccontato che suo padre ha
fatto delle domande ad alcuni ex-marines, Lionel Reed e Kyle Bryant,
suoi amici, che ora si danno alla macchia per non essere
uccisi».
«Già. Potrebbe essere. Per quanto riguarda la
persona che l’aveva ingaggiato, non so minimamente chi sia.
Non si è fatto vivo nessuno dopo la morte di mio padre.
Forse… forse è un caso che aveva preso in mano di
sua iniziativa. A volte lo faceva».
«Uhm, capisco. Un’altra cosa che non mi
è chiara è il suo coinvolgimento nella retata
all’Halo,
dove poi è avvenuta una sanguinosa sparatoria».
Quella volta Dylan parlò per lei: «Un suo
informatore fidato ha chiamato alla centrale per fare una soffiata e ha
richiesto esplicitamente la sua presenza».
«Perché non ha chiamato direttamente Grace, se era
un suo
informatore?».
La detective e il poliziotto si fissarono, impietriti. Come mai non ci
avevano pensato prima?
«Insomma», riprese Crawford,
«è così che si dovrebbe fare, no? E
poi, Grace, mi ha detto che sia lei che Dylan sospettate che in quella
sparatoria siano coinvolti anche Loro, poiché hanno
costretto un componente di una delle gang a sparare a Tom Kaulitz,
facendolo rientrare nonostante sapesse che il locale fosse gremito di
poliziotti. Non è così? E allora, mi chiedo,
è plausibile che il loro intento fosse fin dal principio
quello di assicurarsi la sua presenza?».
«È chiaro: quello rivolto a Tom era un altro
attacco a Grace, per intimarle ancora una volta di abbandonare il
caso», disse Dylan.
«Già. Ma se si sono infiltrati persino nella gang
in cui ci sono dei suoi informatori, solo per farla partecipare alla
sparatoria, vuol dire che molto probabilmente si sono fatti vedere da
qualcuno».
«Ed ecco il perché della sparatoria»,
mormorò Grace, gli occhi vacui, proiettati in quel momento.
«Essendosi fatti vedere dai membri delle gang hanno dovuto
per forza scatenare la sparatoria, era già nei loro piani
sin dall’inizio, perché non potevano rischiare che
i pivellini catturati dalla polizia li descrivessero».
«E quindi, quelli che sono riusciti a
sfuggire…», cercò di tirare le fila
Dylan.
«I boss».
«Hanno comprato il loro silenzio?».
«O hanno intenzione di riutilizzarli in futuro»,
disse Crawford. «E poi quando non saranno più di
alcuna utilità, li faranno fuori».
«È improbabile», intervenne Grace.
«I boss delle gang controllano giri illeciti che nemmeno ci
immaginiamo e se crollano loro, ci sono lotte continue per le
successioni, che creano scompigli su scompigli che darebbero fastidio
anche a Loro. Quindi credo che si siano comprati il loro silenzio,
anche perché sono muti come tombe già di per
sé».
Il silenzio calò su di loro come un telo e un grosso peso si
depositò sulle loro spalle, che si incurvarono pian piano,
fino a quando l’agente dell’FBI non ebbe
un’illuminazione.
«Il boss di una delle gang è suo amico, vero
Grace?».
«Una specie», rispose la ragazza, ma, capito dove
voleva andare a parare, aggiunse: «Non abbastanza da
rischiare la propria vita solo per rivelarmi il nome o
l’identikit di qualcuno di quell’organizzazione di
criminali. Anzi, mi farebbe fuori lui stesso».
«Non è possibile, merda»,
digrignò fra i denti, stringendo i pugni sulle ginocchia.
«È l’unico filo che potrebbe condurci a
Loro!».
«Lo so», mormorò. «E poi non
voglio rientrare nelle indagini, è troppo rischioso e ormai
ho fatto una promessa: non posso permettere che qualcuno a cui tengo
venga ferito di nuovo».
«Allora lo farò io, andrò io a parlare
con Doc Mahkah», si offrì Dylan, determinato.
«Tu con lui non hai la stessa confidenza che ho io, anzi ti
ritiene soltanto uno sbirro. Non ti direbbe niente»,
decretò lapidaria.
«Ci proverò lo stesso! L’hai sentito,
no? È l’unico filo che potrebbe condurci a
Loro!».
Grace scosse lentamente il capo, avvilita. Non poteva permetterlo,
perché anche lui faceva parte della cerchia di persone a cui
teneva.
Del tutto all’improvviso, anche lei ebbe
un’illuminazione: «Ma dell’affittuario
dell’hangar si sa qualcosa?».
«Abbiamo chiesto al locatore e abbiamo scoperto che il nome
usato per affittarlo era falso, come i documenti che ha mostrato a
questo punto. Stanno ancora creando l’identikit, appena lo
avremo glielo farò vedere».
Grace sospirò e si portò una mano alla fronte.
«Diamoci del tu, per favore».
Crawford si limitò a sorridere.
Tom vide l’agente dell’FBI uscire dal portone del
palazzo, ma dietro di lui non scorse Dylan.
Peccato fosse appena riuscito a farsi sbollire un po’ di
rabbia, perché questa tornò ancora più
violenta pensando che quell’essere si era fermato con la sua
Grace, nel suo appartamento… Tremò dal nervosismo
e strinse i pugni lungo i fianchi, tanto da farsi sbiancare le nocche,
digrignando rabbiosamente i denti.
«Arrivederci», lo salutò
l’agente, con una mano sollevata e uno sguardo scettico.
Tom rispose stizzito, poi si fiondò all’interno
del palazzo e fece le scale di corsa, sentendosi nel pieno di un film
d’azione: le uniche cose che gli mancavano erano un
kalashnikov e un giubbotto antiproiettile per far irruzione
nell’appartamento e disintegrare Dylan.
Ebbe davvero l’impulso di sfondare la porta a calci, ma poi
ci rinunciò ed entrò di soppiatto, nascondendosi
nell’ingresso, dietro l’appendiabiti, da dove
poteva sentire ed osservare tutto ciò che accadeva nel
salotto, dove si trovavano appunto Grace e Dylan, seduti sul divano ad
L, agli antipodi. Entrambi guardavano il pavimento, assorti nei loro
pensieri.
«Non hai proprio intenzione di riprendere in mano il
caso?», domandò ad un certo punto Dylan, con un
fil di voce e senza sollevare il capo.
Grace si portò un braccio sugli occhi e scosse lentamente il
capo.
Dylan sospirò, affranto e frustrato. «Non ti
riconosco più, Grace… Non posso credere che per
Tom tu sia arrivata a questo, ad abbandonare il caso della tua vita e
ad immaginare di abbandonare le investigazioni».
Quell’affermazione, per quanto lieve fosse stata,
colpì duramente il cuore di Grace, tanto che si
alzò di scatto dalla poltrona e guardò il
poliziotto con sguardo infuocato, nonostante le lacrime che premevano
per scivolarle sulle guance.
«Qualche settimana fa mi hai supplicato di rinunciare a
questo caso perché era troppo pericoloso; ora che finalmente
l’ho fatto, mi dici che dovrei riprenderlo in mano e che
è colpa di Tom – gliene stai dando la colpa,
è così – se sto mettendo tutta la mia
vita in discussione?».
Dylan appoggiò le mani sulle ginocchia e si alzò
lentamente, la fronteggiò e i loro sguardi si incatenarono
con una tale intensità che Tom, ancora nascosto,
percepì delle scosse elettriche corrergli sulle braccia.
«Ora è diverso, Grace. Allora non avevi nulla in
mano, aspettavi soltanto che quelli si facessero vivi e ti
minacciassero, gli hai dato praticamente in pasto sia Tom che tua
madre. Adesso è diverso, adesso abbiamo qualcosa che
potrebbe collegarci a loro, siamo noi ora a dargli la caccia e tu sei
l’unica in grado di ottenere altre informazioni,
perché l’hai detto anche tu che solo tu hai una
certa confidenza con Doc Mahkah».
«Quindi stai dicendo che se allora gli
ho dato in pasto sia Tom che mia madre,
adesso il loro sacrificio sarebbe per una nobile causa? Mi dispiace
Dylan, ma non ci sto», sentenziò, voltandogli le
spalle.
Tom ebbe come la sensazione di essere osservato e si
appiattì ancora di più contro i cappotti,
trattenendo il respiro e continuando ad ascoltare.
«Nobile causa… Sì, sarebbe proprio per
una nobile causa: metteresti finalmente in cella i bastardi che hanno
ammazzato tuo padre».
Grace si voltò bruscamente verso di lui e lo
schiaffeggiò.
Tom a quel rumore secco, che riecheggiò nell’aria
per diversi istanti, chiuse gli occhi e si immaginò il
bruciore che stava provando Dylan. Non resistette e sbirciò
in salotto: Grace e Dylan erano vicinissimi, i loro corpi si sfioravano
così come i loro volti; Grace era furiosa e Dylan teneva gli
occhi chiusi, mordendosi le labbra per non lamentarsi dello schiaffo
appena ricevuto.
«Non osare mai più nominare mio padre»,
sibilò la detective ad un centimetro dalle sue labbra.
«Tu non hai la minima idea di quello che ho passato e darei
di tutto per uccidere con le mie mani quei bastardi che me
l’hanno portato via, ma non ne vale la pena se rischio di
farmi portare via anche le altre persone che amo. Non parlo solo di Tom
e di mia madre, ma anche di te, di Bill, di Molly… Tutti
quelli che mi sono vicini sono dei bersagli e se mi immischio ancora in
questa storia rischio di perdervi. Preferisco andare alla tomba di mio
padre e piangere tutti i giorni per la giustizia che non sono riuscita
a dargli, piuttosto che tornare a casa la sera e non trovare nessuno
che mi aspetta e che mi ama».
Dylan le posò le mani sulle braccia e deviò il
suo sguardo, chinando il capo, poi si allontanò da lei e si
diresse verso l’ingresso.
Tom, impietrito, trattenne il fiato e socchiuse gli occhi pregando
perché non lo vedesse. Per un attimo gli parve che qualcuno
l’avesse ascoltato, ma quando Dylan aprì la porta
voltò il viso nella sua direzione e lo guardò
severamente con la coda dell’occhio. Tom aprì la
bocca per difendersi, ma il poliziotto si girò di nuovo,
senza fiatare, e si chiuse la porta alle spalle.
Di nuovo solo nella semioscurità dell’ingresso,
ascoltò l’assordante rumore del silenzio e
all’improvviso sentì dei singhiozzi soffocati
perforare l’aria. Gettò un’occhiata nel
salotto e vide la stoica Grace seduta a terra, che prendeva a pugni il
tappeto mentre calde lacrime le tracciavano il viso chiaro.
Tom, colpito dal suo pianto disperato, fece un passo indietro. Non
l’aveva mai vista in quello stato e mai avrebbe immaginato
che dietro l’indagine più importante della sua
vita ci fossero l’assassinio di suo padre e un dolore
così grande.
Avrebbe voluto raggiungerla, ma invece di andare avanti i suoi piedi
continuavano ad arretrare, spingendolo verso la porta da cui era appena
uscito Dylan. Non avrebbe voluto lasciarla sola e forse, se nessuno
fosse intervenuto, non se ne sarebbe andato a gambe levate, ma per sua
sfortuna arrivò Melanie, che gli permise di compiere quel
vile atto: fuggire dal dolore di Grace.
La donna, infatti, uscì dalla camera in cui si era rifugiata
e raggiunse di corsa la figlia, sempre più accasciata sul
tappeto. Si inginocchiò al suo fianco e le fece posare il
capo sul suo grembo, si chinò su di lei e le
sussurrò parole di conforto all’orecchio,
massaggiandole con una mano la schiena che tremava ed accarezzandole i
capelli con l’altra.
Ad un tratto alzò gli occhi e vide Tom nei pressi della
porta, con gli occhi sgranati e pallido come un cencio.
Scoperto, Tom scappò più veloce che
poté anche da quegli occhi.
***
Dylan ci mise un
po’ a capire che quello che gli ci voleva era un amico con
cui confidarsi e poter sfogare tutta la propria frustrazione. Era un
periodo pessimo, forse il peggiore della sua vita, e Grace con il suo
comportamento – più che comprensibile –
non lo stava proprio aiutando.
Mentre vagava per i quartieri e i sobborghi di Los Angeles, nella sua
mente era alla ricerca di un amico. Pensò ad Oswin, ma poi
lo scartò (insieme a tutti i suoi amici della centrale): lui
non sapeva di Bill e avrebbe voluto parlare anche di
quell’argomento. L’unica che sapeva tutto era
Grace, ovviamente da evitare per le prossime quarantotto ore.
L’unico che gli rimaneva, strano ma vero, era lo stesso Bill.
Ma con che faccia tosta sarebbe andato da lui a sfogarsi, sapendo che
anche lui non se la passava bene, inoltre a causa sua?
Sbuffò ed ebbe un’impellente voglia di piangere,
ma ricacciò in fondo alla gola il magone e svoltò
bruscamente a destra, inserendo la sirena. Nei pressi della villa dei
Kaulitz la spense e fece l’intero giro della
proprietà, capendo che Bill non era in casa.
Non gli rimase che fare dietrofront e andare a casa, dove il suo letto
e Morfeo lo aspettavano.
***
Tom chiuse la propria
Audi con un tasto del piccolo telecomando e si diresse verso
l’ingresso, dove c’era già il
maggiordomo di Villa Delafield ad aspettarlo.
«Buon giorno, signor Kaulitz», lo salutò
cortesemente, invitandolo ad entrare. «La signorina si trova
nella taverna con suo fratello. Vuole che
l’accompagni?».
«No, grazie, so arrivarci da solo», gli rivolse un
breve sorriso e si avviò verso la taverna. Sapeva davvero
arrivarci da solo, grazie al giro turistico che Grace e Molly
l’avevano costretto a fare quella volta.
Attraversò il quadriportico all’aperto dal
pavimento ciottoloso e raggiunse una porticina nel lato ovest, scese le
strette scale di pietra antica, facendo scivolare le mani sulle pareti
di mattoni a vista, fino a quando non arrivò nella cantina
in cui erano custodite le bottiglie della collezione di vini del padre
di Molly, provenienti da ogni parte del mondo. Fece il giro
dell’isola di legno che faceva da bancone di degustazione,
poi finalmente sbucò, qualche gradino più in
alto, in una taverna spaziosa, con tappeti preziosi, divani di pelle
bordeaux e una vastissima libreria che occupava tutta una parete, con
le ante a vetro e una scala scorrevole per raggiungere i volumi sui
piani più alti.
Molly e suo fratello erano in piedi di fronte ad uno schermo al plasma
da almeno cinquanta pollici, che sculettavano alle note di Last
Friday night di Katy Perry, con
i loro telecomandi Wii
fucsia in mano.
Sorrise intenerito, osservando suo fratello ridere e divertirsi. Era da
un po’ che non lo vedeva sereno ed era felice che Molly fosse
riuscita a farlo uscire un po’ dal guscio in cui si era
rifugiato da quando Dylan gli aveva dato quella batosta.
«Ho vinto ancora io, ho vinto ancora io!»,
urlò di vittoria Molly, iniziando a saltellare su se stessa
e ad inscenare un altro balletto. Quando fu rivolta verso la direzione
di Tom, lo vide e diventò rossa come un peperone,
pietrificandosi sul posto.
«T-Tom», balbettò, alzando una mano a
mezz’aria in segno di saluto. «Da quanto tempo sei
lì?».
«Abbastanza», rispose ridacchiando e si
lasciò sprofondare in uno dei divani di pelle.
«Come mai qui?», gli domandò Bill,
sedendosi al suo fianco e versandosi un po’ di Coca Cola in
un bicchiere.
«Ti cercavo. Devo parlarti».
«A proposito di cosa?».
«Grace. E… Dylan».
A quel nome le labbra del frontman si strinsero automaticamente, mentre
i suoi occhi si oscuravano e sul suo viso compariva una smorfia.
«Vi lascio soli, okay», sussurrò Molly,
spegnendo la Wii
e dirigendosi verso la cantina.
«Allora? Parla», lo incitò duramente
Bill, addossandosi allo schienale del divano con le braccia incrociate
al petto.
Tom sbuffò e disse tra i denti: «L’ho
quasi preso a pugni, quello stronzo».
«Tu che cosa?!»,
gracchiò, sobbalzando.
«L’avrei fatto, se solo quell’agente
dell’FBI non si fosse messo in mezzo e non mi avesse quasi
staccato il braccio. Pensa che non sono voluto stare con Grace solo
perché c’era lui nella stessa stanza e mi
prudevano le mani. Perché, Bill… io non ce la
faccio a vederti così, mi fa male il cuore ogni volta che
leggo nei tuoi occhi il dolore che quel figlio di puttana ti sta
facendo…».
Bill sorrise commosso e posò una mano sulla spalla del
gemello. «Tom, non è necessario che tu sia
così in pena per me. Io… io sto bene,
è solo che devo ancora farci l’abitudine, ecco. E
poi non è certo colpa di Dylan».
«Non è colpa sua? Ma come cazzo fai a dire che
–!».
«No, non è colpa sua»,
sospirò scrollando il capo. «Quante volte non sono
stato ricambiato dalle ragazze, da ragazzino? Tu non andavi di certo a
pestarle… Dylan è sì un maschio, ma
che colpa ne ha lui se non gli piaccio?».
Tom, rendendosi conto che il suo fratellino era stato più
intelligente e razionale di lui ancora una volta, tacque.
Bill però lo sorprese con un piccolo sorriso e gli diede un
pugnetto sulla spalla per fargli sollevare il viso.
«Ora mi spieghi che cos’è successo con
Grace? E perché con Dylan c’era un agente
dell’FBI?».
Il chitarrista gli raccontò tutto ciò che sapeva,
ossia ben poco perché si era deciso a tornare da lei solo
quando ormai avevano finito di parlare del caso con il federale. Gli
raccontò della discussione di Grace e Dylan e della scoperta
che aveva fatto: dietro l’indagine più importante
della vita di Grace c’era l’omicidio di suo padre.
«Cavolo, ora si capiscono molte cose»,
esclamò Bill, meditabondo. «Non
dev’essere stato facile per lei abbandonare questo
caso». Sollevò il capo con un sorriso solare sul
volto e Tom lo guardò con espressione interrogativa.
«Ma l’ha fatto, per te».
«Non solo per me», lo corresse subito, nonostante
il rossore che si era impadronito del suo viso e delle sue orecchie, in
fiamme.
«Ma anche
per te. Ascolta, Tom», si fece più vicino a lui e
lo guardò dritto negli occhi. «Lei ha fatto uno
sforzo enorme per proteggere le persone a cui voleva bene, ora tocca a
noi fare uno sforzo e ripagarla».
«Hai in mente un piano?».
Una scintilla balenò negli occhi del cantante.
«Può darsi».
Tom corse su per le scale del palazzo di Grace per la seconda volta in
quella giornata e suonò il campanello più volte,
impaziente. Venne ad aprirgli sua madre, Melanie.
«Salve», la salutò impacciato.
«Grace è in casa?».
La donna lo scrutò severamente. «Perché
sei scappato, prima?».
Tom chinò il capo. «Io… io non lo so
perché. Venendo qui speravo di scusarmi e di parlare con
lei: ho tante cose da dirle».
I tratti del viso di Melanie si addolcirono e un piccolo sorriso si
fece spazio sulle sue labbra. «È nel suo
ufficio».
Tom raggiunse il palazzo in cui si trovava l’ufficio di
investigazioni di Grace e chiese al portiere a che piano fosse, poi
prese le scale e corse fino alla sua porta. Lesse il nome scritto sul
vetro smerigliato – Mitch Schneider – e
rabbrividì, infine si decise a bussare delicatamente.
Entrò dopo aver udito un debole «Avanti»
ed appoggiò le spalle contro la porta, guardando Grace
seduta dietro la scrivania.
Stava lubrificando la sua pistola: su un vecchio asciugamano erano
posati tutti i pezzi ancora smontati, accanto ad esso c’era
un solvente, poi uno spazzolino, altri stracci e una boccetta
d’olio. Rimase ipnotizzato a guardarla mentre con cura
maniacale passava uno degli stracci oleosi all’interno e
all’esterno della pistola e poi la rimontava pezzo per pezzo,
con movimenti veloci e senza sbagliare mai. Alla fine infilò
il caricatore, che scattò con un rumore silenzioso,
tirò indietro la sicura con un gesto deciso ed
infilò il dito nel grilletto, per poi puntare
l’arma proprio verso di lui e chiudere un occhio per prendere
la mira. Tom non ebbe il tempo di spaventarsi a sufficienza, tanto da
sentire il cuore smettere di battere per un istante, perché
la detective abbassò subito la sua Glock e
reinserì la sicura.
«Che ci fai qui?», gli domandò con voce
pacata, infilando la pistola nella fodera e cacciandola in uno dei
cassetti della scrivania.
Lui però le rispose con un altro quesito, pronunciato a
mezza voce: «Non vuoi più vedermi?».
«La domanda giusta è se tu
vuoi ancora vedere me, dopo quello che hai visto e sentito
stamattina».
«Te l’ha detto tua madre che ero
lì?».
Grace gli diede le spalle e sbirciò fuori dalla finestra,
allargando con due dita una fessura tra le veneziane. Un debole fascio
di luce illuminò la scrivania e il pavimento, fino a toccare
la punta delle scarpe del chitarrista.
«No, ti avevo già visto. Rispondimi,
Tom».
«Cosa ti fa pensare che io non voglia più
vederti?».
«Immagina le nostre vite separate, sarebbe tutto
più semplice: tu andresti per la tua strada, non vivresti
più nel pericolo, ti troveresti una bella ragazza la cui
principale preoccupazione è la manicure. Io andrei per la
mia strada e in un paio d’anni
questo lavoro
assorbirà tutta la mia linfa vitale, fino ad uccidermi, a
meno che qualcun altro non ci pensi prima. Sarebbe perfetto
così, no?».
«No, affatto. Stai tirando fuori per l’ennesima
volta quel discorso: pensavo che ormai l’avessimo
chiuso!». Tom si avvicinò a lei col passo pesante
e la voltò bruscamente verso di sé per fissarla
negli occhi. «Non voglio una bella ragazza la cui principale
preoccupazione è la manicure, voglio te,
compresi i pericoli della tua vita. Puoi darmi del folle, del sadico e
del suicida, ma voglio che tu riprenda in mano questo caso,
perché si vede lontano un miglio che ti manca, e voglio che
torni a fare il tuo lavoro, perché fa parte di
te».
Grace scosse il capo e provò a liberarsi i polsi, ma lui
aumentò la stretta ed avvicinò il viso al suo,
fiato contro fiato.
«Quello che tu ti sei imposta di fare per la mia
incolumità è rinunciare alla cosa a cui tieni di
più al mondo. È come se tu mi chiedessi
inconsciamente di abbandonare i Tokio Hotel, la mia musica. Per questo,
voglio che tu riprenda in mano questo caso, il tuo».
«È troppo rischioso, Tom!»,
strillò con gli occhi grandi di nuovo colmi di lacrime.
Il chitarrista si avvicinò alle sue labbra e ad occhi
socchiusi le sfiorò, liberandole un polso per posare una
mano sulla sua schiena. «Il tuo compito è
cancellare dalla faccia della Terra quest’organizzazione di
criminali, devi impedirgli di mettersi fra noi e fra te e tutte le
altre persone a cui vuoi bene. Perché amarti sta diventando
una specie di crimine, Grace, e non puoi permetterlo».
La detective ricambiò il bacio con cui Tom l’aveva
travolta appena la sua voce soave aveva terminato quel discorso tanto
bello quanto doloroso.
«Tra poco noi partiremo per la promozione del nuovo
album», le sussurrò ansimando, mentre la sollevava
da terra prendendola per le gambe ed arretrava verso una delle poltrone
in pelle oltre la scrivania. «Staremo via per parecchio tempo
e non torneremo più a Los Angeles per un po’,
visto che andremo anche in tour. Potremmo portare tua madre in
Germania, dalla nostra, così anche lei sarebbe al
sicuro…».
Grace si allontanò dalle sue labbra fameliche e lo
guardò intensamente negli occhi. «In pratica, voi
andrete via mentre io sto qui ad indagare».
«L’idea sarebbe quella. Non va bene?».
«No, va benissimo», mormorò e Tom,
purtroppo, non si rese conto della tristezza che aveva invaso i suoi
occhi chiari.
«Nel secondo cassetto c’è il doppione
della chiave dell’appartamento qua affianco», gli
disse ancora.
«Cos’è, il nostro nuovo rifugio per
recuperare il tempo perso?», le domandò sorridendo
maliziosamente, mentre le afferrava senza lasciarla andare.
Grace gli strinse forte le braccia intorno al collo e lo
baciò sulla nuca, bisbigliando: «L’idea
sarebbe quella», mentre una lacrima silenziosa le scivolava
sulla guancia.
Quando finirono di fare l’amore, Tom cadde sdraiato sul
materasso coperto da uno strato di cellophane. Non era stato entusiasta
di sapere che dovevano accontentarsi di quello, non avendo a portata di
mano delle lenzuola, e probabilmente nemmeno Grace, visto che entrambi
si erano spogliati il meno possibile.
Appena i suoi occhi fissarono il soffitto bianco e la nuda lampadina
che pendeva da un filo, lì dove una volta doveva esserci
stato un lampadario, si rese conto che non si erano rivolti la parola,
ma questo non gli dispiaceva più di tanto; il fatto grave
era che non si erano minimamente interessati l’uno
all’altra, anzi Grace l’aveva pure spinto a saltare
i preliminari, cosa che non era mai accaduta fra loro.
Lentamente si voltò a guardarla e la trovò
rannicchiata al suo fianco, che gli dava le spalle. Capì
subito che qualcosa non andava e se avesse potuto si sarebbe sputato in
un occhio, perché non era riuscito ad accorgersene prima,
troppo impegnato a soddisfare i suoi istinti animali.
Le si fece più vicino, le cinse la vita con un braccio,
posò le labbra fra i suoi capelli scompigliati, in
corrispondenza del suo orecchio, e sussurrò con voce dolce:
«Ehi, Brooklyn».
Grace serrò le labbra e le mancò il fiato a
sentire quel soprannome. Erano settimane che non la chiamava
così, come quando ancora non sapeva il suo vero nome. E
farlo tornare a galla proprio in quel momento fu la cosa più
stupida che potesse fare, perché tutto ciò che
avevano passato insieme, sin dagli inizi della loro tumultuosa storia,
le tornò alla mente con una crudeltà spietata,
tanto che non poté fare nulla per impedire ad alcune lacrime
di scivolarle sul profilo del naso e sulla tempia.
«Sei un coglione, Tom», biascicò,
liberandosi con una gomitata dalla sua debole stretta e stendendosi a
pancia in giù, il viso nascosto fra le braccia incrociate.
«Ma… Che ho fatto? È per il soprannome?
Scusami, io…».
«No, no», interruppe bruscamente il susseguirsi
delle sue stupide ipotesi, alzando il volto.
«Perché non mi hai detto subito che dovevate
partire e che avevo campo libero per mettermi nei guai senza provocarvi
alcun danno, invece di riempirmi la testa di tutte quelle
stronzate?».
Tom fissò gli occhi colmi d’ira e di frustrazione
di Grace e il suo viso si colorì all’improvviso,
mentre tentava di mantenere un tono di voce normale: «Lo sai
che non te l’avrei mai dipinta in questo modo, che non
intendevo…».
«Ma è questo che farete. Puoi spiegarmi la teoria
in mille modi sdolcinati e melodrammatici, ma la pratica è
sempre quella: voi ve ne andrete per lavoro, sì, ma
sarà anche un modo per pararvi il culo ed uscire da tutta
questa merda. Poi, visto che ti facevo pena, hai pensato bene di
mettere in mezzo anche mia madre, dicendo che l’avreste
portata dalla vostra. Non si conoscono nemmeno, Cristo!».
Tom sentì il bisogno impellente di prenderla a schiaffi,
perché stava esagerando e non sopportava più
tutte le cazzate che stava dicendo. Fu davvero a tanto così
da lasciarle una cinquina stampata sulla guancia, ma appena Grace vide
la sua mano sollevarsi si ammutolì e lo guardò
negli occhi con i suoi colmi di lacrime che ad ogni battito di ciglia
le cadevano sulle guance o sulle mani. In quegli stessi occhi acquosi
Tom vide un sentimento diverso rispetto a quello che li aveva
illuminati fino ad allora, anzi opposto: l’amore.
Tom socchiuse le labbra ed abbassò la mano, lasciandola
scivolare sulla sua guancia; posò la fronte contro la sua e
ad occhi chiusi accennò una risata fiacca, con un piccolo
sorriso agli angoli delle labbra.
«Anche tu mi mancherai da morire, Grace»,
sussurrò con la poca voce che gli rimaneva, siccome nel
frattempo un nodo grosso come una casa aveva messo le fondamenta nella
sua gola e gli occhi avevano iniziato a pizzicargli tremendamente, come
il naso. «E non riuscirò a chiudere occhio nemmeno
una notte, sarò preoccupato per te ventiquattr’ore
su ventiquattro, vorrò sentirti ogni cinque minuti e
diventerò intrattabile con tutti quanti fino a quando non
sarò tornato qui da te. Una settimana in tourbus con me in
queste condizioni farà tornare la voglia a tutti di tornare
indietro, anche a costo di rischiare la pelle».
Tom aprì gli occhi e trovò quelli di Grace a
fissarlo, immobili come li aveva visti cinque minuti prima. Poi
all’improvviso sentì le sue braccia stringergli
fortissimo il collo e il suo viso premere contro la sua nuca.
Menomale che hai capito, pensò
Grace, mentre tirava su col naso e si lasciava stringere la vita,
pregando perché Tom non la lasciasse mai andare.
Scesero le scale fianco a fianco e circa a metà i loro
cellulari si misero a squillare contemporaneamente. Si guardarono negli
occhi, sbalorditi, e li tirarono fuori dalle tasche dei jeans.
«Bill», disse Tom.
«Mia madre», disse invece Grace.
Insieme risposero alle rispettive chiamate, girandosi quel poco che
bastava per nascondere il viso all’altro.
«Bill, che cosa c’è? Oh sì,
sì… tutto a posto, sì».
«Mamma, non ti pare di fare domande un po’ troppo
personali? Sono grande ormai, ho la mia privacy!».
Tom si voltò verso di lei, pronto a prenderla in giro con
una smorfia per la sua ultima affermazione, ma incontrò gli
occhi espressivi di Grace che lo fissavano intensamente, mentre la voce
che usciva dall’apparecchio che teneva ancora incollato
all’orecchio le ripeté la domanda che le aveva
fatto poco prima.
«Sì», ammise la detective, con un tono
quasi solenne.
Tom si sentì mancare, avvertendo dei brividi scorrergli
sulla schiena, e fuggì al suo sguardo. Bill lo stava
chiamando, un po’ spazientito.
«Che cos’hai detto? Scusa, mi ero
distratto».
Anche Grace tornò a concentrarsi sulla conversazione con sua
madre: «Io non so se è il caso… Sei
sicura? Te la senti?». Pausa. «Uhm, okay,
allora… glielo chiederò».
«Devi chiedermi qualcosa?», le domandò
Tom, girando il viso di tre quarti. Suo fratello stava sbraitando
– odiava quando non gli si prestavano le giuste attenzioni
– ma non era colpa sua se era più interessato a
Grace che a lui.
«Ahm… mia madre mi ha chiesto se questa sera vuoi
venire a cena da noi». Tom arrossì e lo stesso fu
per Grace, che fino ad allora ce l’aveva messa tutta per
trattenersi e non balbettare. Tutta fatica sprecata.
«O-Ovviamente anche Bill può venire e-e
chiederò anche a Molly se ne ha voglia».
«Beh, io credo che… sì, si
può fare. Con molto piacere».
Grace quella volta gli diede completamente le spalle, a causa
dell’imbarazzo e forse anche per nascondere la gioia
insensata che le illuminava il volto. «Ha detto che vengono.
Adesso chiamo Molly… Sì, va bene, vado io prima
di tornare a casa». Poi, coprendosi la bocca con la mano,
sussurrò: «Grazie mamma».
Quando la detective si voltò, anche Tom aveva appena
terminato la chiamata con suo fratello.
«Allora?», gli chiese con un cenno del capo.
«Era ancora a casa di Molly – quei due stanno
legando parecchio – e ha subito informato anche
lei».
«Viene?».
Tom annuì. «A quanto pare tua madre
dovrà darsi un bel da fare». Improvvisamente si
accigliò: «Lei lo sa che io e Bill siamo
vegetariani?».
Grace ridacchiò. «Non c’è
problema, anche lei lo è».
«Davvero? Non lo sapevo! Quindi niente carne nemmeno per te,
ora che abitate insieme».
«A quanto pare…».
«Peccato», esclamò Tom con un sorrisetto
sul volto, mentre incominciavano a scendere di nuovo giù per
le scale. «Pensavo che questa sarebbe stata la volta buona
perché tu mettessi su un po’ di carne su quelle
ossa».
«Stai dicendo che sono troppo magra?»,
domandò stupita Grace. Era la prima volta che non apprezzava
qualcosa del suo fisico e venirne a conoscenza fu più
fastidioso di quanto pensava.
«Giusto qualche chilo in più, non chiedo
tanto!», si difese Tom, tendendo le mani avanti.
«Vuol dire che così non ti piaccio»,
affermò lei, stizzita.
«Questo non è vero», sussurrò
malizioso il chitarrista, spingendola verso il muro e tendendo un
braccio accanto alla sua testa. «Tu mi piaci
tanto». La baciò e le posò una mano sul
sedere, tenendola stretta a sé.
«Tieni giù le mani, scemo»,
borbottò Grace, seppure col sorriso sulle labbra,
liberandosi e terminando la rampa di scale.
Guardò verso la portineria e per la seconda volta si
sorprese di trovare uno sconosciuto al posto del vecchio portiere a cui
si era abituata e che, puntualmente, non salutava.
Quando era arrivata, qualche ora prima, era stata una vera sorpresa
vedere dietro il bancone quel ragazzo giovane, con un sorriso troppo
largo e fin troppa ingenuità nello sguardo. Gli aveva
chiesto chi fosse e dove fosse il vecchio portiere e lui, molto
educatamente, si era presentato e le aveva spiegato che aveva preso il
posto dell’altro portiere, andato momentaneamente in vacanza.
Allora, ancora turbata com’era, non ci aveva fatto troppo
caso ed era corsa nel suo ufficio, ma adesso che ci faceva
più attenzione… Il vecchio portiere era andato
“momentaneamente in vacanza” proprio nel suo stesso
periodo. Che fosse una semplice coincidenza? Quell’uomo a
pelle non le era mai piaciuto, forse era per quello che stava
ingigantendo le cose. Ma il suo istinto le diceva che c’era
qualcosa di molto, molto strano, e il ricordo del loro ultimo scambio
di sguardi rinvigorì il suo presentimento.
«Buona serata, signorina Schneider», la
salutò il portiere, con un cenno della mano e il suo sorriso
da sempliciotto.
«Buona serata anche a lei», borbottò ed
uscì dal palazzo con passo spedito.
Una volta fuori, Tom la prese per il braccio e la guardò
negli occhi con la fronte corrugata.
«Perché ti sei comportata in quel
modo?», le domandò.
«C’è qualcosa che non mi convince a
proposito del vecchio portiere. È andato in vacanza proprio
quando io ho annunciato che mi prendevo un periodo di pausa e poi se
devo essere sincera non mi è mai piaciuto».
«Hai mai investigato su di lui?».
Grace si voltò verso di lui e lo fissò con
sguardo perso. «No… non l’ho mai
fatto…».
«Strano», disse Tom, ridacchiando. Poi, come se
nulla fosse, si girò verso i loro veicoli. «Io
vado a casa, così mi faccio una doccia e mi cambio. Tu dove
vai? …Grace?».
La detective si riprese dal suo stato di trance, in cui cadeva
specialmente quando si immergeva nei meandri di un caso, ed
accennò un sorriso per non farlo preoccupare.
«Devo passare al supermercato per fare un po’ di
spesa: mia madre dice che nella mia cucina ci sono solo cibi
spazzatura».
Tom rise. «Buon divertimento, allora».
«Ti divertirai tantissimo anche tu con tuo fratello che ti
chiederà mille e duecento volte “Come mi sta
questo? E questo?”».
Il chitarrista si morse la lingua per non imprecare, ma poi trattenne
una risata e salì sulla sua Audi, mentre Grace saliva sul
suo fidato fuoristrada.
***
C’era un
profumino delizioso in tutta la casa, tanto che Grace e il suo stomaco
brontolante si chiesero se sua madre stesse davvero cucinando
vegetariano. Due secondi dopo, però, la sua attenzione
tornò a focalizzarsi sul laptop che aveva davanti al viso.
Aveva cercato negli archivi elettronici della Marina Militare degli
Stati Uniti, in quelli di tutti i dipartimenti di polizia da lei
conosciuti e alla fine si era infiltrata persino in quelli
dell’anagrafe, ma non aveva trovato assolutamente nulla sul
vecchio portiere che le aveva sempre fatto storcere il naso: non
esisteva. Dunque, il suo nome era falso e chissà
cos’aveva da nascondere, se c’entrasse lei in
qualche modo… Un lampo le attraversò la mente, ma
non riuscì ad acciuffare l’illuminazione che
l’aveva travolta perché sua madre le
picchiettò due dita sulla spalla facendola trasalire.
«Grace, basta lavorare. Stasera non voglio nemmeno sentir
parlare di indagini o simili. Ci siamo capite?».
La detective fu costretta a cedere. Chiuse il suo PC e si
alzò per accendere la TV, che sintonizzò su MTV,
poi aiutò sua madre ad apparecchiare la tavola per i tre
ospiti che avrebbero avuto a cena. Ancora arrossiva pensando a come
aveva invitato Tom e a come lui aveva accettato: erano tutti e due
così imbarazzati!
Quando ormai era tutto pronto e mancavano solo le pietanze secondarie,
il campanello trillò. Grace sentì chiaramente i
battiti del suo cuore aumentare a dismisura e si tirò un
pugno sul petto, come a volerlo azzittire.
Una volta con la mano sulla maniglia della porta, guardò i
pantacollant e il largo maglione grigio a collo alto che sua madre
l’aveva costretta ad indossare, rimproverandola: «Non
vorrai metterti i soliti jeans e una maglietta qualsiasi! Dovresti
curare un po’ di più il tuo aspetto, sai? Sei una
ragazza così bella!».
Doveva ammettere che quando si era vista allo specchio si era detta che
non stava poi così male, ma si era rifiutata categoricamente
quando sua madre l’aveva incitata a truccarsi un
po’. Era l’unica cosa che si era rifiutata di fare
ed era orgogliosa del suo viso pulito come al solito.
Respirò profondamente e poi aprì la porta con il
sorriso migliore che riuscì a fare. Incontrò
subito gli occhi di Tom, che si sgranarono quando si accorse del suo
insolito abbigliamento.
«Ciao Grace, sei stupenda!», esclamò
Molly, gettandole le braccia al collo e baciandole una guancia.
«Grazie per aver invitato anche a me, non so cosa farei se
non ci fossi tu!».
«Non c’è di ché»,
disse, ma la sua voce fu soppressa da quella della ragazzina, che
gridò: «C’è Lady Gaga su
MTV!», prima di schizzare in salotto.
Così Grace si trovò di nuovo di fronte agli occhi
di Tom: non era ancora riuscito a spiccicare una parola e sembrava
avesse trattenuto il fiato fino ad allora.
«Okay», mormorò Bill, conscio che suo
fratello avrebbe avuto bisogno ancora di qualche minuto per riprendersi
da quello shock. Allora si avvicinò a Grace e le
sfiorò le guance con le sue, posando le mani sulle sue
braccia. All’orecchio, senza farsi notare, le
sussurrò: «L’hai fulminato».
Le fece l’occhiolino, ridacchiando divertito, poi si diresse
verso la cucina per iniziare a presentarsi alla madre di Grace.
Venuta a conoscenza di ciò che aveva provocato al
chitarrista, lo guardò boccheggiando, mentre le sue gote
prendevano colore.
«Sto… sto bene davvero?».
Tom piantò i suoi fottutissimi occhi in quelli di Grace e,
finalmente in sé, sorrise furbescamente, avvicinandosi a lei
tanto da sfiorarle il petto con il suo. «Dire che stai bene
è riduttivo».
L’investigatrice ricambiò con un sorriso seducente
e si abbandonò alle sue braccia, facendo sfiorare i loro
nasi. Fece scivolare le mani sui suoi fianchi, poi dietro la schiena e
giù, giù…
«Non ti credo affatto», gli soffiò sulle
labbra.
«Fai benissimo. Stasera sprigioni sesso da tutti i pori, che
cos’hai fatto?».
Grace chiuse gli occhi, trattenendo una risata fra le labbra sottili. Ho
ripreso ad investigare.
Qualcuno dietro di loro si schiarì la voce e Grace si
voltò di scatto e si allontanò da Tom. Melanie
era sulla soglia della porta della cucina, con un mestolo in mano e
l’altra mano sul fianco, e li guardava con fare inquisitorio.
«Buonasera, Tom».
«Buonasera, signora. Scusi, mi sono intrattenuto un attimo
con…».
«Ho capito», gli lanciò
un’occhiata eloquente. «Ma sarà meglio
che ti sbrighi, la cena è già pronta in
tavola».
Detto questo scomparì in cucina, seguita da un Bill
piuttosto divertito e una Molly dello stesso parere. Tom, ancora dietro
Grace, si chinò verso il suo orecchio sinistro e parlando
glielo sfiorò con le labbra, riempiendola di brividi.
«Ne parliamo dopo. Ho una fame da lupo».
«Ma come», Grace si voltò verso di lui,
«l’antipasto non lo vuoi?».
Non gli diede il tempo di capire cosa intendesse e lo baciò.
«Molly, ne vuoi ancora un po’?»,
domandò Melanie, ridacchiando. Aveva spazzolato il suo
piatto in due minuti, se non di meno.
«Oh, no, io…».
«Non ti preoccupare tesoro, ce n’è
ancora!». Si alzò senza aspettare la sua risposta
e andò a tagliarle altre due fettine di polpettone di
bietole, una delle sue tante specialità, condendolo con un
po’ carote à
la julienne.
«Ecco qua», le mise il piatto davanti al naso e le
accarezzò i capelli con una mano affettuosa prima di tornare
a sedersi al suo posto a capo tavola.
Molly guardò il suo piatto e all’improvviso gli
occhi le si riempirono di lacrime.
«Ehi, Molly, va tutto bene?», le domandò
Grace, seduta di fronte a lei, preoccupata.
«Sì, sì… è tutto
a posto», la rassicurò sforzandosi di fare un
sorriso. Poi si voltò verso Melanie, la quale le stava
rivolgendo uno sguardo apprensivo. «Grazie mille signora,
è davvero squisito. Lei è stata l’unica
al mondo che sia riuscita a farmi mangiare delle verdure e pensare che
la governante ne ha cambiati di chef!».
La madre di Grace sorrise impacciata, ringraziandola per il
complimento. A quel punto anche Bill e Tom la lodarono, incoraggiati
dal primo passo di Molly. Ma Grace non stette troppo a sentire, ancora
impegnata ad osservare con cipiglio perplesso la sua piccola amica: che
cosa le era successo?
All’improvviso la suoneria del cellulare di Grace interruppe
le chiacchiere, qualunque esse fossero.
«Grace, dammi il telefonino».
La detective sbarrò gli occhi vedendo la mano di sua madre
porgersi verso di lei. «Mamma, dici davvero? Questo lo facevi
sempre quando ero una ragazzina, non vorrai…».
«Signorina, stiamo cenando e non è carino. Forza,
dammelo».
Grace non guardò nemmeno chi fosse, per non sentirsi troppo
male se per caso avesse ignorato la chiamata dell’agente
Crawford che finalmente aveva ricevuto l’identikit
dell’uomo che aveva affittato l’hangar dove avevano
ritrovato il famoso furgone, e consegnò il cellulare a sua
madre, la quale guardò anche i due ragazzi accanto a lei e
aggiunse: «Spero che voi li abbiate spenti, oppure dovrete
consegnarmeli».
«Oh mio Dio, sembra una professoressa»,
ridacchiò Tom, consegnandole il suo. Bill fece lo stesso e
persino Molly, per non sentirsi esclusa dal gruppo.
«E come credi che abbia preso questo viziaccio?»,
domandò sarcastica Grace, rivolgendole poi un sorriso
affettuoso.
«Era davvero una professoressa?», chiese
incuriosito Bill, mentre si portava alla bocca un quadratino di
polpettone vegetariano. «Di cosa?».
«Pianoforte», rispose Melanie con un piccolo
sorriso.
«Sul serio? Anche io suono il pianoforte!»,
esclamò Tom, eccitato.
«Oddio, dire che lo suona è un azzardo»,
precisò il frontman, ridacchiando al broncio del gemello.
«Se la cavicchia…».
«Tom, credevo suonassi la chitarra», disse Melanie.
«Da qualche anno ho iniziato anche a suonare il piano e le
tastiere. Non dico di essere come Mozart, ma sono bravo, vero
Molly?».
Grace scoppiò a ridere. «Ti sei rivolto a lei
perché è una vostra fan, non vale!». Si
girò verso sua madre e disse: «Potresti dargli
delle lezioni private».
«Male non gli farebbe», concordò Bill,
ma la donna non sembrava convinta.
«Dai mamma, ammettilo che ti manca insegnare. Ti piace, sei
felice quando trasmetti a qualcuno il tuo amore per il piano.
Perché no?».
«Ecco, io… va bene», cedette con un
sospiro ed un mezzo sorriso.
«Oh, fantastico! Ci vuole un brindisi!». Grace si
alzò in piedi e versò un po’ di vino in
tutti i bicchieri, tranne in quello di Molly. «A Tom, che non
potrà far altro che migliorare…».
Il chitarrista fece una smorfia. «Simpatica».
«…e per la mia mamma», concluse Grace,
rivolgendole un’occhiata dolcissima, tanto che Melanie si
portò una mano sul cuore e fu sul punto di commuoversi.
Le due si abbracciarono e Tom applaudì festosamente,
contagiando anche Bill e Molly. Quest’ultima non ci mise
molto impegno perché lo stesso sguardo triste e malinconico
di poco prima riprese il sopravvento, ma nessuno ci fece molto caso e
ad aiutarla ci fu anche il trillo del campanello.
«Aspetti qualcuno, Grace?», domandò
Melanie, sorpresa.
«No, io…». Le tornò alla
mente la chiamata a cui non aveva risposto e si domandò se
Crawford oppure Dylan non si fossero preoccupati, sempre se fossero
stati loro a cercarla.
Andò alla porta, l’aprì e si
trovò di fronte l’autista della limousine di
Molly, con una grossa scatola bianca con un marchio dorato fra le mani.
«Buonasera, signorina Schneider. Spero sia di vostro
gradimento. Da parte della signorina Delafield». Le diede la
scatola – pesava tantissimo! – e se ne
andò rivolgendole un sorriso cordiale.
Chiuse la porta con un piede, impacciata, e camminò a
tentoni verso la cucina, fino a quando Tom non si accorse della sua
difficoltà e l’aiutò a portarla a
tavola. Solo allora la detective poté tornare a respirare
normalmente e lanciò uno sguardo fulminante a Molly, pronta
a rimproverarla, ma le esclamazioni di stupore e meraviglia la
distrassero e fu costretta a rivolgere la sua attenzione alla magnifica
torta a piani dentro la scatola.
«Cristo», soffiò.
«Tesoro, è opera tua?»,
domandò Melanie alla ragazzina, che annuì con le
mani dietro la schiena, ruotando di centottanta gradi, accompagnata
dalla gonna del suo vestito blu notte.
«Oddio, ti ringrazio di cuore, è
bellissima». L’abbracciò e Molly
improvvisamente si irrigidì.
Grace la osservò attentamente e finalmente capì
il motivo del suo strano comportamento. Si promise che ne avrebbe
parlato con lei al più presto, dopo aver assaggiato quella
bomba calorica che la invitava con così tanta insistenza!
«Sei sicuro che tu mi voglia con qualche chilo in
più?», domandò sottovoce a Tom,
sporgendosi verso il suo orecchio. «Perché penso
di stare già ingrassando solo guardandola».
Tom scosse il capo. Ancora un po’ e avrebbe avuto la bavetta
all’angolo della bocca. «Chissene frega, non si
può resistere ad una cosa del genere».
«L’hai detto tu! Vado a prendere i
piatti!».
«Oddio, sento che potrei scoppiare da un momento
all’altro», disse Grace lasciandosi cadere sdraiata
sul suo letto.
Tom, che l’aveva seguita dicendo di dover andare in bagno,
sorrise malizioso e salì sul letto gattonando, fino a
sovrastarla.
«Conosco un ottimo modo per bruciare calorie»,
sussurrò suadente.
«Credo di conoscerlo anch’io… E mi
piace». Soffocò una risata contro le sue labbra,
una mano sulla sua nuca.
Tom le accarezzò un fianco sotto al maglione. La sua pelle
era calda e più saliva più sembrava bruciare
sulle dita. Si accorse che non indossava il reggiseno e la sua
eccitazione aumentò, ma Grace smise di baciarlo e lo
guardò negli occhi intensamente, accarezzandogli una guancia
con movimenti concentrici del pollice.
«Che c’è?», domandò
Tom.
«Penso che non sia carino lasciare gli altri miei ospiti in
balia di mia madre».
«Ma io sono il tuo ospite d’onore, dovrò
pure avere qualche privilegio!», piagnucolò.
«Il mio affetto smisurato non ti basta?».
Tom chinò il capo, poi le sorrise. «Per questa
volta me lo farò bastare».
«Bravo bambino». Si tirò su e si
sistemò addosso il maglione, che le ricadde sulle cosce
fasciate dai pantacollant. «Devo parlare con Molly».
«In effetti è stata un po’ strana
stasera. Tu hai capito che cos’ha?».
«Penso di sì. Ora vai in bagno, è
meglio».
Tom seguì il suo consiglio e mentre andava
incontrò Molly che, guarda caso, cercava proprio Grace.
Le donne hanno dei
poteri soprannaturali, ormai è appurato, pensò e le
disse che era in camera sua.
Molly si avvicinò lentamente alla porta della camera della
ragazza, l’aprì e la vide intenta a specchiarsi,
insicura sul suo aspetto.
«Ciao», la salutò a bassa voce, entrando
a piccoli passi.
«Ciao Molly, dovevo proprio parlare con te. Vieni
qui». Le indicò di sedersi sul letto, al suo
fianco, e Molly obbedì.
«Di cosa devi parlarmi?».
«Del tuo comportamento di stasera».
«Oh, ma non è niente…»,
chinò il capo e si torturò la gonna del vestito.
«Ah no? Io penso che invece sia importante». Le
prese il mento tra le dita e la costrinse a guardarla negli occhi.
«Molly…».
«Tua madre è davvero una donna
fantastica», la interruppe, ma la sua voce era già
incrinata. «È in un certo senso colpa sua
se… Mia mamma non mi ha quasi mai guardato come ha fatto
Melanie, con così tanta dolcezza e affetto… Non
ha mai il tempo di accarezzarmi i capelli… ogni tanto lo fa
la mia governante, ma non è di certo la stessa cosa. Melanie
sembrava così interessata a me a cena e dopo, quando
l’ho aiutata a sparecchiare, mi ha chiesto mille
cose… tra cui che scuola frequentassi. Io non sono mai
andata a scuola in tutta la mia vita! Ho sempre avuto maestri privati a
casa! Non so nemmeno cosa voglia dire svegliarsi presto alla mattina,
prendere un autobus e seguire le lezioni. Non so cosa voglia dire
essere una ragazza normale! Le ho mentito e mi sono sentita
così male… eppure con i miei l’ho fatto
milioni di volte!
«Ora io non so come fosse tuo padre, ma credo fortemente che
anche lui sia stato un padre esemplare con te, che ti riempiva
d’amore, mentre il mio… è
già tanto se lo vedo a cena». Le puntò
addosso gli occhi colmi di lacrime e singhiozzando concluse:
«Grace, io ti invidio da morire».
«Oh, Molly…».
L’abbracciò e le accarezzò i capelli,
lasciandola sfogare sulla sua spalla.
Tom entrò in camera e Grace lo guardò con gli
occhi spalancati, intimandogli di andarsene subito. Lui
annuì frettolosamente e richiuse la porta senza fare il
minimo rumore.
«Buona notte, tesoro. Grazie ancora per la torta, era
deliziosa», disse Melanie, avvolgendo delicatamente le spalle
di Molly.
«Sì, ne avremo fino a Natale dell’anno
prossimo», ridacchiò Grace.
«Sei la benvenuta qui, torna quando vuoi».
Molly guardò la donna con lo sguardo che trasudava
gratitudine, poi salutò ed incominciò ad avviarsi.
«È stata una serata magnifica e lei è
un’ottima cuoca. Mi sognerò il suo polpettone per
diverse notti», disse Bill, baciandole le guance.
«Grazie Bill, troppo buono».
Quando fu il turno di Tom, lui esitò a lasciare la mano di
Grace. Melanie se ne accorse e con un sorriso furbetto si
portò le braccia strette al petto.
«Tu puoi restare, se vuoi».
Il chitarrista arrossì, come la stessa Grace. «Oh
no, non vorrei disturbare ancora…».
«Non ti preoccupare, io ho il sonno pesante», lo
rassicurò con una risatina e si diresse verso il corridoio
che portava alle camere da letto.
«Beh…», mormorò Grace,
riprendendogli la mano nella sua. «Il suo è stato
un invito esplicito».
Le sfiorò le labbra in un bacio. «Allora credo di
non poter rifiutare».
Salutarono Molly e Bill, dandogli la buona notte, e poi si chiusero la
porta alle spalle.
Andarono in camera di Grace e si spogliarono a vicenda, poi si
infilarono sotto le coperte ancora fredde. Si strinsero l’uno
all’altra e si fecero un po’ di coccole, parlando a
bassa voce della giornata appena trascorsa, nella penombra della
stanza.
Entrambi si erano dimenticati dei loro cellulari spenti sequestrati da
Melanie durante la cena.
Ad un certo punto Tom la osservò in silenzio, continuando ad
accarezzarle i capelli sulla testa, e quando lei si accorse del suo
sguardo puntò il mento sul suo petto e i colori dei loro
occhi si fusero in uno.
«Hai mai provato a contarle?», le chiese,
sfiorandole le efelidi sullo zigomo.
«No, non ho mai provato», ridacchiò.
«Credo sia impossibile».
Si girò con uno scatto felino e lei cadde con la testa sul
cuscino; le labbra di Tom, pochi centimetri sopra le sue, si
incurvarono fino a mostrare un sorriso beffardo.
«Vuoi scommettere che ci riesco?», la
sfidò.
«Ma dai, Tom, non dire fesserie…».
«No, davvero! Dico davvero, io le conto! Una, due, tre,
quattro…».
Grace lo guardò incredula, ma non ostacolò la
comparsa di un sorriso sereno sul suo volto, mentre chiudeva gli occhi.
Quando si addormentò, Tom stava ancora contando.
_____________________________________________
Capitolo
bello lungo, non è vero? Spero di avervi saziate! (Per
questa settimana, ovviamente u.u)
Sono successe anche un sacco di cose, ma da notare sono: uno, l'entrata
in scena dell'agente Michael Crawford dell'FBI - che ne pensate? A me
piace molto come personaggio e avrete sicuramente modo di farvene
un'idea più precisa andando avanti con la lettura
;)
Due, Tom ha scoperto cosa c'è dietro il caso di Grace e
abbiamo visto qual è stata la sua reazione e quella di
Grace... Siamo sempre in bilico con loro, ma quando fanno la pace - e
non... vedi ultima scena - sono sempre tenerissimi *o*
Tre, il fatto che Grace ha come dire... ripreso ad investigare! xD Alla
fine, forse anche grazie alle parole di Tom, è tornata
all'attacco cercando informazioni su questo misterioso portiere...
Sarei curiosa di sapere le ipotesi che vi siete fatti su di lui xD
Quattro, questo Dylan è proprio complicato! Ma vorrei vedere
voi in una situazione così, poverino D:
Cinque (e poi basta xD) la situazione familiare di Molly, che
è sempre quella che è. Secondo voi
cambierà mai qualcosa?
Bene, dopo 'sto papiro che nemmeno Dante poteva fare, non mi resta che
ringraziare chi legge, chi ha commentato lo scorso capitolo (love u) e
chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Thank u all!
:D
A lunedì prossimo! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 15 ***
Buonasera! :)
E' in arrivo un altro capitolo bello tosto, sia per la lunghezza che
per i contenuti (tra l'altro mi chiedo se non abbia sbagliato a mettere
questa storia "arancione", perchè in alcuni punti
sembrerebbe da rosso... bah, lascio a voi giudicare e semmai
cambierò!).
Quindi, conoscendo il mio serio problema nel non scrivere dei veri e
propri poemi alla fine della lettura, preferisco evitare, per la vostra
sanità mentale xD
Dico solo che questo capitolo fa parte della mia Top 10 u.u Spero che
sia così anche per voi e che mi comunichiate le vostre
considerazioni in una piccola recensione ;)
Ah, ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e ovviamente
chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate!
Inoltre ne approffitto per augurarvi buone vacanze e un felicissimo
Natale, con chiunque e dovunque voi siate ;) (Per gli auguri di buon
anno nuovo ne parliamo domenica prossima!)
E ora... Buona lettura! :D
_______________________________
Capitolo 15
“My
back’s against the wall, there's nowhere else to go
And I can't hear you calling, who's gonna catch me when I fall?
(Who’s gonna) catch me when I fall?
And I'm forever falling
Who's gonna catch me when I fall?”
(Forever
falling – Professor Green)
Qualcuno
bussò alla porta e Grace alzò gli occhi dal suo
laptop, la matita tra le labbra.
«Tom, che ci fai qui?», gli domandò
sorpresa, ma felice di vederlo.
Era stata una settimana molto intensa per entrambi e si erano visti
poco, ognuno alle prese col proprio lavoro.
Tom era stato la maggior parte del tempo nello studio di registrazione
per discutere con il team dei Tokio Hotel: ormai era tutto pronto e il
lancio del nuovo album, preceduto dal nuovo videoclip, stava per
prendere il via. Grace, invece, aveva lavorato molto al caso, seppure
stando seduta alla scrivania del suo ufficio. C’erano stati
un paio di passi in avanti e ogni giorno Michael Crawford la informava
delle novità e degli ultimi rapporti, dandole da fare
piccole ricerche grazie ai suoi contatti.
Sotto le pressioni dell’agente dell’FBI, che aveva
dotato lei, sua madre e persino Tom di due agenti in borghese con lo
scopo di proteggerli, aveva persino provato a mettersi in contatto con
Doc Mahkah, il boss di una delle gang più influenti di Los
Angeles e con cui aveva un rapporto più o meno di amicizia.
Fino ad allora il boss non aveva accettato la sua proposta di
incontrarsi e Grace, nel profondo, era contenta così. Non si
sentiva ancora pronta ad uscire allo scoperto e quando lo aveva
realizzato aveva capito finalmente quello che Dylan le aveva detto a
proposito del fatto che non la riconoscesse più. Era davvero
cambiata, per amore.
Tom si avvicinò a lei sorridendo e la baciò,
infilandole una mano fra i capelli.
«Non ne posso più di riunioni», le
sussurrò a pochi centimetri dalle sue labbra avide di baci.
«Mi manchi tantissimo».
Grace capì al volo cosa intendeva e sorrise, facendo
scivolare una mano sul suo petto, sugli addominali, sulla
cintura… Lui però la fermò e le
alzò il viso per immergere gli occhi nei suoi e dire con
tono sicuro: «Stasera usciamo. Non accetto rifiuti».
La detective balbettò: «Noi due non siamo mai
usciti insieme… nel senso… come un
appuntamento».
«Proprio per questo prima di partire dobbiamo farlo, o i
paparazzi si deprimeranno!», replicò ridendo.
Grace roteò gli occhi al cielo. «Oh, certo, i
poveri paparazzi depressi. Come ho fatto a dimenticarmene?».
«E poi», riprese Tom con voce suadente,
«farci fotografare mentre magari entriamo ed usciamo da un
ristorante, mano nella mano, sarà la prova definitiva che la
nostra è una storia seria: le mie fans in tutto il mondo si
metteranno l’anima in pace, come i tuoi innumerevoli
ex». Si guardarono negli occhi in silenzio, poi scoppiarono a
ridere contemporaneamente.
«Va bene, avviserò l’agente Crawford,
così i suoi uomini si prepareranno a dovere per la
serata».
«Che palle, ci liberiamo dei bodyguards e arrivano gli agenti
di protezione dell’FBI. Non so cosa sia peggio», si
lamentò Tom, che da una settimana a quella parte si era
continuamente sentito spiato; l’unica consolazione era che
erano dei buoni a farlo, per proteggerlo.
«Che ci vuoi fare», commentò Grace,
scrollando le spalle. Quindi corrugò la fronte.
«In che ristorante hai detto che vuoi andare?».
«Non l’ho detto», ghignò.
«Ti piace il sushi?».
Grace parve rifletterci su, poi accennò un sorriso.
«Sì, mi piace».
«Bene. Allora ti passo a prendere a casa, uhm, facciamo alle
otto?».
«Okay», rispose annuendo col capo.
Tom, con un piano ben preciso in mente, si appoggiò alla
scrivania, accanto alla poltrona girevole su cui era seduta lei, ed
incrociò le braccia al petto. Doveva prendere tempo e
l’unica cosa che gli venne in mente fu di chiederle:
«Dylan è ancora arrabbiato con te?».
Grace sospirò e fece un mezzo giro sulla sedia, poi si
alzò e andò alla finestra, dandogli le spalle.
«Non ci rivolgiamo quasi più la parola, secondo
te? Anche l’agente Crawford comunque ha avuto da ridire, anzi
mi ha proprio fatto una lavata di capo: siamo stati degli idioti a
dimenticarci che mia madre ci aveva sequestrato e spento i cellulari;
credevano ci fosse successo qualcosa».
«Già, ricordo», ridacchiò
Tom. «La mattina presto sono arrivati a casa tua e quasi
sfondavano la porta! Dylan era nero dalla rabbia».
Grace si voltò verso di lui con un sorriso mesto sulle
labbra. «Non è solo per questo che non ci
parliamo. Ci sono tante cose di cui dobbiamo discutere, ma sinceramente
non me la sento e non penso di essere io quella che deve fare il primo
passo. Tu che dici?».
Tom scrollò le spalle e si allontanò dalla
scrivania. «Io sono ancora dell’idea che sia un
coglione, quindi fai quello che ti senti». Le prese il volto
fra le mani e la baciò una, due, tre volte. «Vado,
che devo ancora preparare le valige. Rimaniamo d’accordo
così: alle otto a casa tua».
Grace annuì. «Dov’è che
andate a registrare il video, che non mi ricordo
più?».
«Dovevamo registrarlo nell’ospedale in cui sono
stato ricoverato, sembrava a tutti più
appropriato», sorrise, «ma l’ospedale non
ci ha dato l’autorizzazione, così ci
accontenteremo di un ospedale di New York che in questo momento
è in via di ristrutturazione».
«Ci sarà un po’ più di
atmosfera in un ospedale che cade a pezzi, vedila
così», disse Grace, posandogli un altro bacio
sulle labbra. «Starete via per quattro o cinque giorni,
vero?».
«Sì. Partiamo domani mattina».
L’investigatrice gli avvolse il collo con le braccia e si
mise in punta di piedi per guardarlo meglio negli occhi.
«Allora ti do’ ragione: serve proprio questo
appuntamento». E lo baciò.
Quando Tom se ne andò, tornò a sedersi alla
scrivania e stava giusto per chiamare l’agente Crawford per
avvisarlo dell’uscita di quella sera, come aveva detto che
avrebbe fatto, ma la suoneria del suo cellulare glielo
impedì. Lasciò giù la cornetta del
cordless e si portò all’orecchio il cellulare.
«Grace, Grace, Grace!», gridò con voce
acuta Molly, senza nemmeno darle il tempo di salutarla. «Mio
padre mi ha appena detto che dalla settimana prossima
inizierò ad andare a scuola!».
La detective aspettava quella chiamata da una settimana.
Era riuscita, dopo duro lavoro e tantissime discussioni con la sua
segretaria, ad ottenere un appuntamento con Mr. Delafield, nel suo
lussuoso ufficio all’ultimo piano di uno dei più
imponenti grattacieli nel centro di Los Angeles, e nella
mezz’ora a lei concessa tra un impegno e l’altro
avevano discusso molto.
Mr. Delafield si era rivelato una persona disponibile e desideroso di
accontentare la sua unica figlia in tutti i modi possibili. Grace
l’aveva sempre immaginato come una persona fredda, incapace
di comunicare i propri sentimenti, ma si era sbagliata. Il lavoro lo
costringeva a stare lontano da casa molto tempo e quando Grace gli
aveva fatto notare che Molly aveva bisogno della vicinanza dei suoi
genitori, i suoi occhi si erano riempiti di dispiacere e le aveva
chiesto che cosa poteva fare.
«Prendersi una vacanza, per esempio, per stare un
po’ con sua figlia e sua moglie», gli aveva
suggerito. Quella proposta non gli era dispiaciuta, anche se gli
impegni improrogabili erano davvero molti.
«Mi deve informare di qualcos’altro?», le
aveva domandato alla fine, leggermente distaccato.
Grace aveva capito subito che non era infastidito dal fatto che fosse
lei a dovergli dare dei consigli su come mantenere in piedi
l’equilibrio della sua famiglia, ma dal fatto che lui da solo
non sarebbe stato in grado di cogliere tutto ciò. Era
arrabbiato con se stesso, non con lei, ed infatti alla fine del loro
colloquio glielo aveva anche confessato.
«Beh, Molly recentemente mi ha espresso il suo desiderio di
voler andare a scuola, di vivere una vita da ragazza normale, con degli
amici normali e degli insegnanti normali».
Mr. Delafield l’aveva guardata quasi scioccato.
«Davvero vuole questo, la mia bimba?».
Grace aveva scrollato le spalle, annuendo. «Perché
si stupisce tanto?».
Lui aveva accennato un sorrisetto amaro. «Presuppongo che lei
sia andata a scuola, signorina Schneider. In una scuola
pubblica».
«Sì. E con questo?».
«Anche io ho sempre frequentato scuole pubbliche, al
contrario di ciò che si potrebbe immaginare. Allora,
sappiamo entrambi quali siano le difficoltà derivanti dalla
scuola. Per non parlare poi dei classici bulletti presenti sia nelle
scuole pubbliche che in quelle private. La mia bimba vuole tutto
questo?».
Tutto ciò che aveva detto era giusto e veritiero, ma Grace
sapeva che non c’era solo questo, a scuola.
«Molly vuole semplicemente sentirsi una ragazzina normale,
spostarsi da casa per studiare ed affrontare tutto ciò che
ne consegue. È vero, a scuola la maggior parte delle volte
non si ha una vita facile, ma è anche questo un modo per
crescere, nel bene e nel male. Crede che tenendola chiusa in casa, con
insegnanti pagati profumatamente, al sicuro da ogni bulletto, possa
crescere adeguatamente? Prima o poi dovrà pure farsi una sua
vita e come si troverà, senza tutta la protezione di cui lei
l’ha sempre circondata?».
Mr. Delafield le aveva semplicemente risposto che ci avrebbe pensato
sopra. Poi l’aveva salutata, ringraziandola. Prima che
uscisse dal suo ufficio luminoso, però, le aveva detto:
«Preferirei che comunque lei continuasse a stare vicina a mia
figlia, sa… per aiutarla semmai dovesse averne bisogno.
Posso anche pagarla, se vuole».
Grace aveva sorriso candidamente. «Mr. Delafield, Molly
è una mia amica, mi sono affezionata a lei, e non ci penso
nemmeno ad accettare dei soldi da parte sua. Starò accanto a
Molly con molto piacere, come ho sempre fatto».
A quel punto, il sorriso di quel padre impacciato le aveva scaldato il
cuore, ricordandole un po’ quello del suo di padre.
«Farò in modo di ricambiare il favore,
comunque», le aveva detto e l’aveva lasciata andare.
Si appoggiò allo schienale della sua poltroncina girevole e
si morse un sorrisetto, felice che Mr. Delafield avesse preso la
decisione giusta.
«Davvero?», esclamò cercando di simulare
la sorpresa. «Ma è fantastico! Dove
andrai?». Era proprio curiosa di saperlo: suo padre aveva
scelto per lei una scuola privata o una pubblica?
«Alla Notre Dame
High School», rispose
Molly, eccitata.
Me lo sarei dovuto
aspettare, pensò
Grace. È una scuola
privata, sì, ma non è una delle più
prestigiose. Mr. Delafield ha scelto una via di mezzo. Molto saggio.
La ragazzina aggiunse: «Pensavo che papà mi
avrebbe mandata alla Marymount!
Quella specie di convento di suore, senza nemmeno la presenza di un
ragazzo. Sarei morta là dentro, stanne certa!».
Grace ridacchiò. «Sono contenta per te, Molly,
davvero».
«Oh, ma non è tutto! Ha anche detto che
d’ora in avanti tornerà sempre a casa per cena e
che cercherà di tenersi libero almeno un week-end al mese
per stare con me e mamma! Dev’essere per forza un miracolo,
non ci sono altre spiegazioni!».
«Già, non ce ne sono…». Si
girò intorno al dito una ciocca di capelli e si
voltò verso la finestra alle sue spalle. «Adesso
devo proprio andare Molly, scusami. Ci sentiamo presto, va bene?
Così mi racconti tutto con calma. Ciao!».
Pose fine alla telefonata e si portò entrambe le mani sulla
nuca, sorridendo serena. Ma fu solo per un attimo, perché
pensieri più urgenti tornarono ad occuparle la mente. Si
sporse sul telefono fisso per chiamare l’agente Crawford, ma
proprio questo squillò facendola sobbalzare.
«Schneider Investigations», rispose con tono
professionale.
«Grace, sono io».
«Ciao mamma», rispose sorpresa. «Che
c’è? È successo qualcosa?».
«No, stai tranquilla. È solo che… hai
letto il giornale di oggi?».
«No, io di solito non leggo i giornali, vedo le notizie su
Internet. Questa mattina l’ho comprato solo per te».
«Oh, grazie. Comunque non mi avevi detto che avevi ripreso a
fare pubblicità alla tua
attività…».
Grace sbarrò gli occhi.
«Pubblicità…? Ma di che cosa stai
parlando?».
«Nelle pagine degli annunci c’è il logo
della tua agenzia, con scritto che sei una delle migliori
investigatrici della California… Ma non l’hai
fatto mettere tu?».
«E come potrei? In questo periodo non sto guadagnando
niente!».
«Allora chi…?».
Il silenzio scese fra loro e Grace si portò due dita alle
labbra, meditabonda.
«Farò
in modo di ricambiare il favore, comunque».
Si
voltò bruscamente e fece una ricerca in Internet. Aveva
sempre desiderato creare un sito Web che pubblicizzasse la sua
attività e mettere avvisi ovunque fosse possibile sul Web,
ma non era mai riuscita a farlo per il poco tempo disponibile e la
scarsa disponibilità di liquidi che si trovava fra le mani.
Quando digitò su Google “Schneider
Investigations”, il motore di ricerca le mostrò i
risultati più vari, tra cui, il primo della lista, un sito
ufficiale. Vi cliccò sopra ed osservò
meravigliata la homepage: i colori chiari, tendenti al beige, e le
scritte in verde scuro; le descrizioni del modo in cui il suo lavoro
veniva svolto, con la maggiore riservatezza e rapidità
possibile; il numero di telefono, il fax con cui poterla contattare, e
c’era persino uno spazio riservato alle richieste via e-mail!
Era il sito in grado di pubblicizzarla a dovere, quello che aveva
sempre sognato, ed era quasi certa di sapere chi doveva ringraziare per
quel lavoro stupendo e per le sue tasche irrealizzabile.
«Scusami mamma, mi è appena venuta in mente una
cosa e devo scappare. Ti richiamo dopo». Tenendo la cornetta
accostata all’orecchio, mise giù la chiamata con
sua madre e digitò il numero che ormai sapeva a memoria.
«Salve, sono Grace Schneider, vorrei parlare
con…».
La segretaria però la interruppe: «Signorina
Schneider, Mr. Delafield mi ha detto di comunicarle che non
c’è bisogno che lo ringrazi: è stato il
suo modo per ricambiare il favore».
Finalmente, riuscì a chiamare l’agente Crawford.
«Oh, Grace. Hai qualche novità per me?»,
le domandò senza troppi convenevoli.
«Solo una: stasera Tom mi porta fuori a cena».
«Uhm… devo mettervi alle calcagna i miei uomini
migliori, allora», ridacchiò. «Vista la
tua imprevedibilità, è giusto
così».
«Okay, questa me la merito. Spero che questi tuoi due uomini
migliori non siano degli impiccioni, perché mi danno davvero
sui nervi».
«Non ti preoccupare, quando parlo dei migliori intendo
proprio i migliori», la rassicurò.
Grace, soddisfatta, passò all’argomento
successivo: «Qualche novità sul nostro Uomo
Invisibile?».
«No, ancora nessuna. È impossibile
rintracciarlo».
«E pensare che ce l’ho sempre avuto sotto al naso!
Se avessi dato retta al mio istinto, a quest’ora
magari…».
La sera della cena, quando Melanie aveva sequestrato i loro cellulari,
l’agente Crawford aveva provato a chiamare varie volte Grace
per dirle che avevano l’identikit dell’affittuario
dell’hangar in cui avevano trovato il furgone
dell’aggressione. Per colpa, o per fortuna, di quella
circostanza Grace aveva scoperto lo sconvolgente risultato solo la
mattina successiva, quando lui e Dylan, preoccupati che potesse esserle
successo qualcosa, avevano deciso di andare al suo appartamento.
L’uomo che aveva affittato l’hangar era il portiere
del palazzo in cui si trovava il suo ufficio di investigazioni e, come
se non bastasse, era già scomparso da un pezzo, agevolato
anche dal fatto che tutti i documenti da lui utilizzati fossero falsi,
ma contraffatti così bene da passare per autentici. Non a
caso per loro era l’Uomo Invisibile.
«È inutile fare questi ragionamenti,
credimi», le disse Crawford, col suo tono serio.
«Hai ragione. Ah, comunque è tutto confermato: Tom
e suo fratello Bill partiranno per New York domani mattina e staranno
via quattro o cinque giorni».
«Bene. Speriamo soltanto che Doc Mahkah si faccia vivo in
questo arco di tempo».
Grace, nel suo piccolo, sperava che il boss non si facesse proprio
sentire, ma il desiderio di scovare quell’organizzazione
criminale era altrettanto forte.
«Adesso scusami Grace, ma ho molto lavoro da sbrigare.
Chiamami per qualsiasi cosa, okay?», disse l’agente
dell’FBI, estrapolandola dai propri pensieri.
«Sì, certo. Grazie, Michael. Fai
altrettanto».
Interruppe la comunicazione e si appoggiò allo schienale
della poltroncina girevole serrando le braccia al petto, corrucciata.
Stava pensando alle nuove inaspettate pieghe che quel caso aveva preso,
quando la sua mente le fece il brutto scherzo di suonarle un campanello
d’allarme che le fece venire i sudori freddi, per quanto
fosse ridicolo ed assolutamente non da lei: che cosa si sarebbe messa
quella sera per uscire con Tom?
Chiuse gli occhi e si posò una mano sulla fronte,
vergognandosi come non mai. Quindi si sporse di nuovo verso il cordless
e si portò la cornetta all’orecchio, tamburellando
nervosamente le dita sulla scrivania.
«Bill, ciao. Ascolta, avrei bisogno di una tua
consulenza…».
Non credeva che sarebbe mai arrivata a tanto, eppure si trovava nella
limousine di Molly, lussuosissima come quella della madre ma con gli
interni fucsia, seduta di fronte a lei e a Bill, che confabulavano su
ciò che potevano proporle di indossare, proprio come due
stilisti in carriera.
Per quanto si vergognasse – ogni due per tre, ossia quando
sentiva ipotesi di mini-vestitini aderenti e cose del genere
– voleva davvero essere bella agli occhi di Tom, voleva che
quella serata fosse perfetta e che la ricordasse per il resto della sua
vita e non solo per quei cinque giorni in cui non si sarebbero visti.
«Ma dove la porta? Anche il contesto è
importante!», esclamò Molly a bassa voce, ma Grace
la sentì comunque e deglutì rumorosamente,
incontrando per un attimo lo sguardo di Bill, il quale era
già a conoscenza di tutto ciò che aveva in mente
il suo gemello, compresi i dettagli.
Infatti si sporse verso l’orecchio di Molly, avvolgendoglielo
con le mani, e le sussurrò il posto in cui
l’avrebbe portata a cena.
«Ah, quello!
Uhm, non mi piace granché», disse la ragazzina con
sufficienza.
Bill sgranò gli occhi. «Ma come?! È
bellissimo!».
«Sì, su questo non ci sono dubbi. Il fatto
è che per quanto sia alla moda e trendy, il cibo non
è di qualità».
«Io ho sempre mangiato bene», replicò
Bill, incrociando le braccia al petto e lasciando che gli occhi da sole
Chanel gli cadessero sul naso, coprendogli gli occhi.
«Son gusti», disse ancora Molly, scrollando le
spalle.
Grace doveva avere un’espressione davvero sconcertata,
provando ad immaginare in quale diavolo di posto Tom voleva portarla
per il loro primo appuntamento ufficiale, tanto che la ragazzina si
voltò verso di lei e le rivolse un sorriso candido,
posandole una mano su un ginocchio.
«Non ti preoccupare, ci penseremo noi a te. Tom
stenterà a riconoscerti».
E questo dovrebbe
tranquillizzarmi? si domandò
Grace, più agitata di prima, maledicendosi di aver avuto
quella folle idea di chiedere una consulenza a Bill e Molly.
Portò lo sguardo fuori dal finestrino oscurato della
limousine e per poco non si tagliò coi denti il labbro che
si stava mordicchiando nervosamente. Non poteva sbagliare, la via verso
la quale si stavano dirigendo era Rodeo Drive, la via dello shopping di
lusso a Beverly Hills e, inoltre, una delle più care al
mondo. Iniziò a sudare freddo.
«Molly, io non penso… non posso permettermi
nemmeno di usare il bagno di uno di questi negozi!»,
balbettò, arrossendo a chiazze sul collo e sul viso.
Bill e Molly si guardarono sollevando le sopracciglia, poi le sorrisero
tranquillamente.
«Non è un problema di cui ti devi occupare tu,
okay?», disse Bill, facendole ben intendere che non aveva
alcun diritto di replica.
Si accasciò sul sedile, umiliata e già priva di
forze, e aspettò che giungessero alla loro destinazione. Si
sentì come una condannata a morte diretta verso il patibolo.
Quando li fecero scendere, Molly andò a passo spedito verso
una delle tantissime vie adorne di cespugli in fiore e piccoli alberi
disposti ai lati delle numerose panchine e senza nemmeno un mozzicone
di sigaretta per terra, invitandoli a seguirla. Sembrava che la
ragazzina conoscesse ogni angolo di quelle vie, che ci fosse cresciuta.
Il bodyguard di Molly, l’agente di scorta di Grace e quello
di Bill non poterono far altro che seguire il gruppo a loro volta, per
quanto avviliti.
Grace fu trascinata in tutti i negozi delle griffe
più famose, partendo da Armani, proseguendo con Gucci,
Chanel, Luis Vuitton e Prada. Ma nulla era stato di suo gradimento, un
po’ perché non erano proprio nel suo stile e un
po’ perché ogni volta che guardava il prezzo di un
abito il suo cervello andava in tilt e si inventava mille scuse pur di
non comprarlo, anche se i soldi non erano suoi, soprattutto
perché non erano suoi.
«Che gusti, signorina», disse Bill ad un tratto,
mentre si incamminavano verso il negozio successivo.
«Uhm, mi sa che ci metteremo più del
previsto», concordò Molly. «O forse no.
Il prossimo stilista è il mio preferito, sono sicura che
lì ti troveremo qualcosa!».
Grace seguì la direzione indicata dal dito affusolato di
Molly ed alzò gli occhi per ammirare l’edificio a
due piani che le si stagliava di fronte. Somigliava alla facciata di un
tempio greco, con i capitelli a due volute laterali che reggevano la
trabeazione e il tetto, su cui doveva esserci un giardino, e le candide
colonne scanalate che si infilavano nella terrazza che sporgeva a forma
arcuata dal piano superiore. Sull’architrave si leggeva a
grandi lettere argentate: Versace.
Grace ebbe come la sensazione di svenire, ma Molly la prese per un
braccio e la trascinò nel negozio.
La commessa non si comportò in modo diverso rispetto a tutte
le sue colleghe che avevano incontrato fin’ora:
squadrò Grace da capo a piedi, facendola sentire una
nullità, ma non appena riconobbe Bill e sentì le
richieste esagerate di Molly chinò il capo in silenzio e con
una specie di timore reverenziale eseguì tutte le loro
richieste, portando loro tutti i migliori capi disponibili.
La detective fu infilata nell’ennesimo camerino, enorme come
tutti quelli in cui era stata da due ore a quella parte, e dovette
provare tutti i vestiti che Bill e Molly le ordinavano. Ne
provò una mezza dozzina, se non di più, e nessuno
l’aveva colpita tanto da farci un pensiero: erano tutti
troppo articolati e la maggior parte delle volte troppo assurdi anche
solo da indossare.
Quando uscì, con addosso i suoi comodi jeans e la sua felpa,
aveva il viso spento e demoralizzato, come Bill e Molly, i quali non
riuscivano a capacitarsi di come potesse essere successo. Che cosa
avevano sbagliato? Senza farsi sentire dalla commessa, giunsero alla
conclusione che tutto il personale che avevano incontrato era
incompetente e nascondeva loro le perle dei loro magazzini.
Stavano per uscire, quando lo sguardo di Grace fu attirato da un
manichino dall’altra parte del negozio, un po’
nascosto.
«Aspettate un attimo», disse, con la voce che le
tremava per l’emozione.
Bill e Molly si guardarono estasiati, unendo le mani a mo’ di
preghiera mentre la seguivano.
Quando si fermò di fronte al vestito che l’aveva
tanto colpita nonostante la sua semplicità, entrambi
rimasero a fissarlo con aria sufficiente, ma alla vista
dell’espressione meravigliata di Grace non persero tempo e
glielo fecero provare seduta stante.
Era un corto tubino nero ed aderente, che abbracciava docilmente ogni
sua curva, con due squarci posizionati ad hoc: uno sopra il seno e uno
sul fianco destro.
La detective rimase parecchio tempo nel camerino, a mirarsi e rimirarsi
allo specchio, sentendosi, forse per la prima volta in vita sua,
veramente bella.
Quando si decise ad uscire, Bill e Molly la osservarono in lungo e in
largo e pian piano sui loro volti si dipinse un’espressione
di gioia e stupore mista a commozione.
«Allora è vero quello che si dice»,
soffiò Molly con una mano sul petto. «Il vestito
in sé non conta niente, sono le persone che lo indossano a
renderlo unico».
«Puoi dirlo forte», convenne Bill, per poi guardare
Grace negli occhi e sorridere dolcemente. «Sei stupenda, non
scherzo».
«Oh, ti credo», rispose l’investigatrice,
fremendo.
«Hai guardato quanto costa?», le chiese Molly,
avvicinandosi e cercando il tagliando.
Grace scosse il capo. «Avevo paura di farmi prendere dai
sensi di colpa e non voglio, questo vestito è troppo
bello».
Molly trovò ciò che cercava e sorrise, soffiando
un po’ d’aria dalla bocca. «Una
bazzecola. Ma su di te è l’ottava meraviglia del
mondo».
Si voltò verso la commessa, ferma impalata dietro di loro:
«Lo prendiamo».
«Fammi vedere, fammi vedere che cosa hai comprato»,
disse eccitata Melanie, cercando di sbirciare dentro il sacchetto
firmato Versace.
Molly si mise in mezzo e lo strappò dalle mani di Grace,
brandendo un sorrisino sfrontato. «Quando sarà il
momento!». Poi si voltò verso Bill e disse:
«Dobbiamo consigliarle un paio di scarpe decenti e dirle come
truccarsi, la cosa più difficile».
Infatti Grace stava per ribattere, ma Bill le posò una mano
sulla bocca e scosse il capo. «Hai un viso stupendo Grace,
faremo in modo di non cancellarne la bellezza naturale,
okay?». Le toccò anche i capelli e, gettando
un’occhiata a Molly, aggiunse: «Forse dovremo
mettere mano anche a questi».
«Probabile», rispose la ragazzina, scrollando le
spalle. «Forza, andiamo!».
La trascinarono verso la sua camera e Bill la fece sedere sul letto,
mentre Molly andava in bagno a svaligiarlo di qualsiasi cosa potesse
tornargli utile. Quando tornò, aveva le mani piene di
trucchi, così tanti che Grace stentò a credere
che fossero tutti suoi, visto che non li usava mai.
«Ecco a te, Bill», disse, gettandoli sul letto.
«Mentre io vado a rovistare fra le scarpe e a cercare una
borsa adatta, tu prova alcune combinazioni di trucco».
«Okay».
La fase due della trasformazione di Grace stava per avvenire.
Quando ebbero in testa l’esatto modo in cui
l’avrebbero truccata e le avrebbero fatto i capelli, dopo
aver provato su di lei ogni soluzione possibile, facendola sentire una
povera cavia da laboratorio, la gettarono sotto la doccia, finalmente
libera.
Nel frattempo Molly decise di fare un salto a casa per prendere in
prestito da sua madre dei prodotti più professionali e
qualche accessorio che Grace non aveva, secondo lei fondamentali.
Bill rimase con Grace tutto il tempo, anche mentre faceva la doccia,
seduto sull’asse del cesso, tranne quando Melanie lo
invitò a prendere il tè con lei. Quello fu
l’unico momento in cui Grace riuscì a stare un
po’ da sola con i propri pensieri.
Sotto l’acqua calda della doccia, percepì i
muscoli tesi sotto la pelle e quella specie di frenesia scorrerle nelle
vene, quell’emozione che riconobbe come quella del primo
appuntamento. Si sentì una stupida ragazzina alla prima
cotta, ma non se ne vergognò, anzi sorrise a quel pensiero.
Allo stesso tempo, però, avvertiva anche un senso di
angoscia comprimerle il cuore: aveva un brutto presentimento e non
sapeva proprio a cosa associarlo, tanto che presto se lo
dimenticò, distratta da Bill.
Se l’era presa comoda sotto la doccia e Bill
iniziò a pensare che non ce l’avrebbero fatta a
renderla una meraviglia, ma quando Molly tornò si
rilassò e si misero subito al lavoro.
Le fecero indossare il suo nuovo abito, poi Molly pensò ai
suoi capelli, asciugandoli e stirandoli alla perfezione, tanto che
riuscì a dargli qualche centimetro in più.
Inoltre, glieli pettinò in modo tale da creare una specie di
frangia laterale. Nel complesso, il fatto che Grace avesse fatto un
gran pasticcio tagliandosi i capelli da sola non si notò
neppure: il suo sembrava proprio un taglio corto, sfilato e scalato
fatto apposta.
Bill, intanto, si era occupato del trucco, la sfida più
ardua che in realtà si era rivelata la più
semplice, perché la pelle di Grace, ricoperta di efelidi,
non aveva bisogno di alcun fondotinta né di colore. Aveva
così optato per un trucco semplice ed essenziale, puntando
l’attenzione sui suoi occhi verdi e sulle labbra. Le aveva
disegnato sulle palpebre una linea sottile di eye-liner, rendendola
più spessa alla coda dell’occhio, poi le aveva
pettinato le ciglia con un po’ di mascara. Sulle labbra,
invece, le aveva messo un rossetto rosa perla, che le rendeva ancora
più invitanti e sexy. Era stato molto combattuto nella
scelta fra quello e quello rosso, ma alla fine aveva pensato a suo
fratello e si era subito reso conto che lui avrebbe preferito un colore
più soft, che non sconvolgesse troppo la sua bellezza
naturale.
Quando entrambi furono soddisfatti del proprio operato, le fecero
indossare le scarpe, un paio di decolté alte di pelle nera
scamosciata, e la accompagnarono allo specchio, dove rimase a fissarsi
per minuti interminabili, sfiorandosi il vestito, il viso e i capelli.
«Sono veramente io?», soffiò ad un
tratto, del tutto incredula.
«Oh sì, eccome se lo sei», rispose Molly
orgogliosa, per poi andare a chiamare Melanie per mostrarle il
risultato finale del loro duro lavoro.
Grace continuò a fissarsi in silenzio anche quando rimase
sola con Bill, fino a quando non sentì la suoneria del
cellulare del cantante.
«Ciao Tomi», rispose dopo averlo tirato fuori dalla
tasca dei pantaloni, ammiccando verso la detective, rossa come un
peperone. «Sì, sono ancora da Grace, ma abbiamo
finito. Tu sei a posto? Oh, perfetto! Sì, ciao,
ciao».
«Che ti ha detto?», gli domandò
nervosamente, appena ebbe rimesso a posto il telefono.
Lui le sorrise. «Sta arrivando».
Grace si portò le mani sul viso per non urlare e proprio in
quel momento sua madre entrò nella stanza accompagnata da
Molly, che la indicava teatralmente.
Melanie trattenne il respiro per un attimo, per poi gridare con voce
stridula: «Tesoro! Sei così bella! E
così sexy… Allora sei tu che provochi quel
ragazzo!».
Tutti scoppiarono a ridere e anche Grace si lasciò andare,
nonostante si sentisse andare a fuoco.
Tom stava arrivando, era giunto il grande momento.
«Andrò tutto bene, rilassati», la
rassicurò Bill, seduto accanto a lei sul divano, mentre le
stringeva le mani nelle sue e la guardava negli occhi. Sembrava una
bambina sperduta e gli venne da ridere.
Quella sua reazione riuscì a far rivenire la detective, che
arricciò il naso. «Perché
ridi?».
«Sei così buffa, Grace. Non ti spaventa nulla, ma
uscire con Tom sì?».
«In effetti è divertente», disse Molly,
seduta alla sua destra. «Ma devo ammettere che se io fossi al
tuo posto mi comporterei esattamente come te. Insomma, Tom è
così… oh…».
Grace si schiarì la voce, guardandola malissimo. Molly
scosse il capo ed arrossì, stringendosi le braccia al petto.
«Scusa, mi sono lasciata andare».
Ma la detective si sciolse in un sorriso e le avvolse un braccio
intorno alle spalle. «Per tutto quello che hai fatto per me
oggi dovrei fare uscire te con lui, come minimo. Sei stata incredibile,
non so come avrei fatto senza di te», le posò un
bacio sulla fronte. «E senza Bill, ovviamente»,
aggiunse, stringendo a sé anche lui. «Siete stati
fantastici tutti e due, non so davvero come ringraziarvi».
«Fatti fare delle foto bellissime, voglio che tu sia su tutti
i giornali e i programmi di gossip!», esclamò
Molly, con gli occhi brillanti.
«Oh, Dio», sospirò Grace con un sorriso,
appoggiandosi allo schienale del divano. «È
assurdo che una detective venga fotografata per i giornali di gossip.
Io dovrei essere più che riservata, quasi
un’ombra…».
«Magari ti farai un po’ di pubblicità
così», ipotizzò Bill.
«O magari nessuno mi prenderà più sul
serio», sbuffò. Un lampo le attraversò
la mente e si rizzò sul divano.
Magari nemmeno i
cattivi mi prenderanno più sul serio, vedendomi uscire
così allo scoperto. Magari potrei sfruttare i paparazzi come
copertura per agire indisturbata e continuare ad investigare… Non era una cattiva
idea, ma i criminali a cui dava la caccia non erano così
sprovveduti da cadere in un tranello sciocco come quello.
Né Molly né Bill avevano notato il suo mutamento
d’espressione e avevano tranquillamente continuato a parlare
della vita sotto i riflettori, dei pro e dei contro.
Finalmente, il campanello trillò. Tutti e tre si
ammutolirono, poi la ragazzina e il frontman cominciarono a stringere
convulsamente le mani di Grace, intorpidendogliele.
«Vai tu ad aprire o devo andare io?»,
domandò Melanie alla figlia, guardandola con cipiglio
perplesso.
Grace non ebbe nemmeno il tempo di rispondere ché Molly e
Bill la spinsero ad alzarsi e ad andare alla porta.
L’eco dei suoi tacchi scandì il tempo e i battiti
del suo cuore e quando si fermò e posò la mano
sulla maniglia ebbe come la sensazione che tutto quanto si fosse
veramente fermato. Respirò brevemente, poi tirò
la porta verso di sé. Appena incontrò lo sguardo
di Tom sorrise impacciata, mentre osservava comparire sul suo viso
un’espressione sconvolta e dolce al tempo stesso. Quindi
sollevò gli occhi nei suoi le rivolse un sorriso seducente,
ma ricco di eleganza.
«Ahm, scusi signorina… cercavo Grace Schneider,
lei sa se è in casa? È una sua amica?»,
le domandò inumidendosi le labbra con la lingua.
Grace diventò rossa e, senza nemmeno sapere come, trattenne
una fragorosa risata per recitare la sua parte, appoggiando una spalla
allo stipite della porta e ricambiando il suo sguardo.
«Dipende quale Grace Schneider cerca».
«Oh… Lei crede che la Grace che cerco si
arrabbierebbe se per stanotte scegliessi quella che mi sta di
fronte?».
Lei scrollò le spalle, poi scoppiò
definitivamente a ridere e gli prese le mani per poi alzarsi sulle
punte e baciarlo sulle labbra. Tom non si accontentò di un
solo bacio e le premette il naso sulla guancia per non farla spostare,
cercando le sue labbra e trovandole, pronte a soddisfarlo.
«Che ti hanno fatto?», sussurrò ad un
tratto Tom, scostandosi per soffermarsi ancora a guardarla. Le
sollevò una mano e Grace fece un giro su se stessa,
sentendosi una principessa. Non si era mai sentita così
bella e felice, era al settimo cielo.
«Sei bellissima».
A quelle parole a malapena udibili Grace socchiuse gli occhi e
respirò profondamente, dicendosi che la sua reputazione e il
trucco si sarebbero rovinati se non fosse riuscita a controllare le
emozioni.
«Grazie. Anche tu».
L’aveva detto in automatico, ma lo pensava davvero: ormai era
arrivata ad amare ogni singola cosa di Tom, anche i suoi nei, e lo
avrebbe trovato bello anche con degli stracci addosso. Quella sera
indossava una semplice maglietta nera, una felpa nera a righe bianche
sottili e un paio di jeans scuri. Si era anche rasato!
Tom scosse il capo, accarezzandole una guancia. «Non reggo il
confronto. Anzi, penso che vestita così dovrei portarti come
minimo alla Notte degli Oscar».
«Scemo», rispose ridacchiando ed abbassando il capo.
«Allora ragazzi, avete finito con i convenevoli o ci vuole
ancora molto?», domandò dall’interno
Melanie.
Tom e Grace allora entrarono e furono accecati da un flash improvviso.
Strizzarono insieme gli occhi e dopo essersi ripresi capirono quello
che era successo: la madre di Grace gli aveva fatto una foto a sorpresa.
«Mamma, ti sembra il caso?!», strillò
Grace, mentre il suo viso andava a fuoco per l’ennesima volta.
«Oh sì», rispose tranquillamente
Melanie. «Mi sono persa il tuo ballo scolastico, devi
lasciarmelo fare adesso!».
La detective guardò con aria sperduta il chitarrista, il
quale sollevò le spalle e le sorrise avvolgendole la vita
con le braccia, mettendosi in posa per l’obbiettivo. Grace
trattenne il fiato e in un gesto del tutto spontaneo nascose il viso
contro il suo collo, immergendosi nel suo profumo. Sorrise.
«Un’altra! E dai, Grace, fatti vedere! Sei
così bella questa sera!».
Grace obbedì a sua madre, ora in pace con se stessa, e
posò la fronte contro le labbra di Tom, sorridendo beata
all’obbiettivo.
«Oh, siete così teneri», disse Molly con
una mano sulla bocca e gli occhi lucidi.
Grace rise e sua madre non perse l’occasione per farle
un’altra foto. Stava recuperando interi anni di lontananza.
Quando finalmente riuscirono a farla smettere, Tom decise che era
arrivato il momento di buttarsi in pasto ad altri flash, quelli dei
paparazzi. Salutarono Bill e Molly, che sarebbero usciti dopo di loro
per non creare troppo scompiglio, poi uscirono
dall’appartamento e dal condominio mano nella mano. Un solo
paparazzo prevenuto, che aveva seguito Tom fino a lì, li
fotografò mentre dal portone del palazzo si dirigevano
all’Audi R8 GT del chitarrista. Contemporaneamente, i due
agenti di scorta mandati di Crawford salirono sulla loro auto per
iniziare a lavorare.
«Quanto siamo controllati oggi»,
canticchiò Tom, accelerando un po’ e dando
un’occhiata all’auto che li seguiva attraverso lo
specchietto retrovisore.
«Oh su, non rendergli ancora più difficile il
lavoro. Nemmeno loro si divertono a farci da balie»,
replicò Grace, accarezzandogli un braccio.
«Uhm, forse hai ragione», disse, ma subito dopo
sorrise birichino ed accelerò ancora, facendola ridere.
Grace guardò fuori dal finestrino per la maggior parte del
tempo, provando ad indovinare la strada che avrebbe fatto e dunque il
posto in cui l’avrebbe portata a cena. Da quello che aveva
tratto dalla conversazione di Bill e Molly in proposito, doveva essere
un posto di tendenza, frequentato più che altro da
celebrità, ma che in qualità culinarie non era
chissà che. Provò a ricordare tutti i ristoranti
del genere a Los Angeles, ma ce n’erano a decine!
Ad un certo punto distolse lo sguardo dalle luci delle insegne al neon,
dei semafori e dei fanali delle altre auto che bucavano
l’oscurità della notte e riconobbe la via che
stavano percorrendo: la Hollywood
Boulevard.
«Ti prego Tom, parcheggia qui», lo
supplicò.
Il chitarrista, anche se incerto, l’accontentò e
parcheggiò l’auto sul ciglio della strada.
«Che cosa intendi fare?».
«Facciamo una passeggiata, è più bello.
Tanto è in questa via, no?».
«Sì, però non è
un’idea geniale… insomma, i paparazzi ci staranno
addosso per tutta la via e non voglio tornare a casa cieco».
Si girò verso di lei, ma il sedile del passeggero era vuoto:
era già scesa dall’auto e stava muovendo dei passi
incerti sul marciapiede ricoperto dalle famose piastrelle di marmo
nero, su cui spiccavano le stelle rosa con i nomi dorati di tantissime
celebrità: la Walk
of Fame. Teneva le braccia stese
nel vuoto, come un’equilibrista, e il piccolo sorriso che
aveva dipinto sulle labbra lo incantò a tal punto che gli ci
vollero una dozzina di secondi per scendere dall’auto e
raggiungerla.
«Ma che stai facendo?», le domandò a
bassa voce, affiancandola e gettandosi un’occhiata alle
spalle: anche i due agenti avevano parcheggiato l’auto,
confusi, e avevano iniziato a seguirli.
«Era da tanto che non passavo da queste parti»,
rispose Grace, senza scollare gli occhi da quelle mattonelle famose in
tutto il mondo, cercando la sua mano per stringerla forte.
«Mi ricordo che una volta io e mio padre abbiamo fatto una
passeggiata come questa, proprio come sto facendo ora con te. Io gli
tenevo forte la mano… e avrei voluto che questa via non
finisse mai, perché era bello stare con lui, anche in
silenzio. Io gli chiedevo se riconosceva i nomi delle
celebrità, ma lui rispondeva sempre di no e
rideva…». A quei ricordi rise anche lei, tirando
su col naso e cacciando indietro le lacrime.
«Scusa, se vuoi possiamo anche andare in auto», gli
disse, fermandosi improvvisamente e guardandolo negli occhi.
Lui ricambiò lo sguardo e sorrise, avvolgendole con un
braccio le spalle coperte da una giacca di pelle nera.
«No. È bello passeggiare così con
te».
Fu una vera sorpresa per i paparazzi vederli arrivare a piedi, ma non
ci pensarono due volte prima di corrergli incontro e di camminare
all’indietro come gamberi per poterli fotografare fino al
loro ingresso al Katsuya
Restaurant, uno dei
più noti ristoranti giapponesi a Hollywood. Furono inondati
da così tanti flash che per un bel po’ Grace,
sprovvista di occhiali da sole a differenza di Tom, vide pallini gialli
e blu ballonzolarle di fronte alle palpebre.
Gli arredamenti e il posto in generale erano molto carini, davano un
senso di intimità e non c’era il grande baccano
tipico dei ristoranti giapponesi a cui era abituata. Il sushi era
davvero buono e ripensò con disappunto al giudizio non
proprio positivo di Molly, ma poi si disse che una come lei doveva aver
provato davvero il meglio del meglio.
Fu una cena molto tranquilla, trascorsa a chiacchierare e a ridere, e
Grace si sentì davvero felice.
Non fu come se l’era aspettata, perché tutto il
nervosismo che aveva accumulato era scomparso magicamente appena si era
vista Tom davanti. Era stato tutto talmente naturale quella sera che si
chiese se stesse sognando.
Quel pensiero svanì quando dovettero attraversare di nuovo
il nugolo di paparazzi che li avevano aspettati fino ad allora fuori
dal ristorante, e realizzò anche come la sua vita
d’anonimato sarebbe stata spazzata via se fosse rimasta al
fianco di Tom.
Raggiunsero l’Audi R8 GT del chitarrista con un paio di
tenaci paparazzi al seguito e Grace accarezzò con un dito il
cofano prima di raggiungere la portiera. Tom la notò e
dall’altra parte della vettura le sorrise, illuminato da
altri flash; poi si mise dietro al volante.
Tom accese il motore dell’Audi e lo fece ruggire per intimare
ai paparazzi con le fotocamere allungate verso il parabrezza di
spostarsi, solo allora ebbero campo libero e poterono allontanarsi
senza investire nessuno.
«Oddio, ce l’abbiamo fatta»,
sospirò Grace, anche se divertita.
«Sì, e tutto grazie alla mia piccolina. Mi
mancherà molto, sai?», accarezzò il
volante e il cruscotto, facendola sorridere.
«È solo un’auto,
Tom…», commentò la detective, ma si
pentì subito delle sue parole, perché lei era
legata al suo fuoristrada esattamente, o forse di più, come
Tom era legato alla sua R8.
«No, è la mia piccolina, il mio
gioiellino», ribatté. «560 cavalli,
trazione integrale, motore di una Lamborghini Gallardo e cambio di
serie R tronic con doppia frizione. Lo sai che ce ne sono
solo…».
«…333 esemplari e che è il pezzo
più pregiato della Casa di Ingolstadt. Sì, lo
so».
Grace sorrise smagliante e Tom ricambiò, accarezzandole la
testa.
«Come ti ho addestrata bene, sono quasi commosso!».
La detective rise. Portando lo sguardo fuori dal finestrino si accorse
di essere nella zona del suo ufficio. Con la coda dell’occhio
osservò Tom e lo trovò sorridente. Aveva
sicuramente in mente qualcosa e forse quella stessa idea
sfiorò anche la sua mente.
Il suo sospetto prese consistenza quando Tom parcheggiò
l’auto proprio sotto il condominio in cui c’era il
suo ufficio e scese dall’auto per andare ad aprirle la
portiera, da vero cavaliere. Le avvolse un braccio intorno alla vita,
posando la mano sul fianco scoperto dallo squarcio del vestito, e
insieme entrarono nell’edificio. Il nuovo portiere li
salutò e sorrise malizioso vedendoli salire le scale.
Una volta giunti di fronte alla porta dell’appartamento vuoto
di fianco al suo ufficio, Grace si avvicinò al suo viso e
gli sfiorò le labbra dicendo con tono suadente:
«Vado a prendere le chiavi».
Tom però la strinse un po’ più forte e
sorrise. «Ce le ho già».
Le tirò fuori dalla tasca dei jeans, le infilò
nella toppa senza mai schiodare gli occhi da quelli sorpresi di Grace,
la quale si domandava quando le avesse prese, ed aprì la
porta.
«Andiamo», mormorò e la baciò
sulle labbra, spingendola all’interno.
Chiuse la porta con un piede e Grace lo spinse contro di essa senza
smettere di baciarlo con trasporto per sistemare il chiavistello.
Dopodiché Tom la condusse fino alla camera da letto, in cui
Grace rimase senza fiato: c’erano rose rosse ovunque e sui
pochi mobili presenti e sul pavimento erano state sistemate diverse
candele profumate che aspettavano soltanto di essere accese. Sul letto
c’erano delle lenzuola scarlatte, così lucide da
sembrare di seta.
Grace, a bocca aperta, guardò Tom negli occhi e
realizzò che non solo lei aveva fatto di tutto
perché quella serata fosse indimenticabile per lui, ma anche
lui si era adoperato per fargliela ricordare per sempre.
Stava per dirgli qualcosa, ma lui la precedette, domandandole
all’orecchio: «Devo accenderle per forza le
candele? L’unica cosa che voglio accendere stasera sei
tu».
La detective, invasa dai brividi, si aggrappò alla sua nuca
e sollevò una gamba per avvolgergliela intorno alla vita.
«Non capisco che cosa tu stia aspettando».
Tom non se lo fece ripetere due volte, la spinse verso il letto e
mentre la baciava ebbe voglia di strapparle il vestito di dosso,
letteralmente. Invece le percorse le cosce con le mani e glielo
sollevò fino ai fianchi, scoprendo l’unico pezzo
di lingerie che aveva addosso. Grace gli tirò via la felpa e
la maglietta, lasciandole cadere entrambe a terra, e si
lasciò baciare ed accarezzare da Tom guidandolo con i suoi
gemiti.
Quando finalmente il chitarrista riuscì a toglierle il
vestito e fu a sua volta in boxer, prese una rosa da terra, ne ruppe il
lungo stelo ed accarezzò la sua pelle con i petali vellutati
del fiore, dal seno fino alla vita. La vide tirare indietro la testa e
mordersi le labbra, invasa dal piacere, e la spinse sotto le lenzuola.
Sentì le sue unghie penetrargli la pelle fra le scapole
quando la penetrò e la sua bocca famelica cercò
quella di Tom, mentre lui immergeva le mani fra i suoi capelli per
tirarglieli dolcemente.
Erano una cosa sola, non erano mai stati tanto in simbiosi, e
più andavano avanti più ne volevano ancora,
più si stringevano e si bramavano, chiamandosi a mezza voce,
tra gemiti e sospiri.
Ad un tratto il cellulare di Grace iniziò a suonare, ma
entrambi lo ignorarono.
La persona che la cercava doveva aver proprio bisogno di sentirla,
vista la sua insistenza, e Grace, con un briciolo di
lucidità, pensò che doveva essere Crawford. Con
una smorfia di insofferenza allungò il braccio e raggiunse
la sua giacca di pelle nella quale c’era il cellulare che
continuava a suonare. Quando riuscì a prenderlo, Tom la
guardò con occhi macchiati di sorpresa mista a rabbia.
Grace lesse il numero che lampeggiava sul display e sgranò
gli occhi: quello era il numero che di solito usava Doc Mahkah come suo
informatore. Posò una mano sul petto di Tom, pregandolo di
fermarsi, e il chitarrista grugnì, scostandosi bruscamente.
La detective, ferita dal suo sguardo e dal suo stesso comportamento, si
portò il cellulare all’orecchio.
«Pronto?».
«Ci vediamo tra due ore al porto, niente sbirri. Ti
darò più informazioni via SMS. Sii
puntuale».
Grace aveva subito riconosciuto la voce di Doc Mahkah con un tuffo al
cuore, ma non aveva avuto modo di rispondergli perché lui
aveva fatto terminare subito la comunicazione. Se doveva dirle solo
quello, perché non le aveva mandato un messaggio? Forse
perché voleva essere sicuro che si presentasse, forse
perché non la credesse un’imboscata. Il suo
tentativo, comunque, era fallito miseramente, perché Grace
iniziò a sudare, presa dal panico.
Si voltò verso Tom, seduto sul bordo del letto, con le
spalle ricurve in avanti e una sigaretta fra le dita, che fumava
nervosamente, con gesti brevi e meccanici.
In qualche modo il chitarrista percepì i suoi occhi
bruciargli addosso e disse, con la voce roca: «Era tutto
perfetto… Perché hai voluto rovinare
tutto?».
Grace trattenne in gola un singhiozzo e fece di tutto per non piangere,
nonostante ne sentisse davvero il bisogno fisico. «Mi
dispiace, Tom. Te lo giuro, anche io volevo che…».
Lui però agitò una mano come a voler scacciare
una mosca e la fece azzittire. «Chi era?».
«Doc Mahkah. Vuole vedermi tra due ore al porto, da
sola».
Tom allora si girò verso di lei: era pallido, con gli occhi
velati da un sottile strado di lacrime, e più che
preoccupato. Provò a nasconderlo, ma Grace
avvertì la sua ansia come una coltellata nel petto. Doc
Mahkah aveva scelto la serata peggiore per decidersi a parlare e Grace
lo odiò con tutte le sue forze.
«Ti porto a casa, allora», mormorò lui,
alzandosi visibilmente scioccato ed incominciando a rivestirsi.
Durante il viaggio aveva avvisato l’agente Crawford, il quale
aveva sicuramente chiamato Dylan, oltre che organizzare una squadra. Il
federale era stato talmente in gamba che dieci minuti dopo essere
arrivati a casa di Grace, se lo trovarono alla porta con il capitano
della squadra e Dylan al seguito.
Tutti ascoltarono con estrema attenzione l’agente
dell’FBI mentre spiegava il loro piano d’azione,
persino Melanie, la quale era stata svegliata da tutta
quell’agitazione e si era presentata in salotto in vestaglia.
«Ancora non sappiamo in che luogo avverrà
l’incontro, il porto è estremamente grande e non
possiamo controllarlo tutto con i pochi uomini che abbiamo. Ho chiesto
ai miei superiori per l’utilizzo di un elicottero, ma
spaventerebbe troppo il boss, quindi…».
«Siamo al buio», concluse Grace per lui, che aveva
già messo in conto tutto quanto. «Il motivo per
cui mi vuole informare solo all’ultimo forse è
perché non vuole farsi scoprire ed individuare facilmente da
Loro».
«O forse sono Loro che controllano tutto ed è solo
un bluff», aggiunse Dylan, con le braccia incrociate al petto
e il viso basso.
Crawford incontrò lo sguardo della detective e
sospirò. «Tu te la
senti, Grace?».
Lei gettò a sua volta un’occhiata verso Tom, che
non le aveva più rivolto la parola e non si girò
per incrociate il suo sguardo.
«Ormai sono qui, non posso tirarmi indietro».
«È molto rischioso, lo sai», intervenne
ancora Crawford.
«In questo momento il mio morale è così
a terra che mi farei sparare due colpi più che
volentieri», disse con una certa nota di rassegnazione nella
voce, prima di voltarsi e di andarsi a cambiare per
l’operazione. Se non altro, quella volta era riuscita ad
attirare l’attenzione di Tom su di sé.
Si stava infilando una tuta, quando Dylan entrò nella sua
camera dopo aver bussato lievemente alla porta. Non si
impressionò vedendola mezza nuda, né lei gli
disse qualcosa, troppo immersa nei suoi pensieri e nelle sue
preoccupazioni per badare a quella piccolezza.
«Brutta serata?», le domandò sottovoce,
infilandosi le mani nelle tasche per non torturarsele.
«Sarebbe stata perfetta, se Doc Mahkah non si fosse fatto
vivo. Ma dovrei aver imparato già da un pezzo che le cose
belle finiscono sempre troppo in fretta».
«Mi dispiace, Grace».
Finì di infilarsi i pantaloni della tuta e spostò
le scarpe a decolté con un piede per raggiungere le sue
amate sneakers. Poi gli rivolse un sorriso amaro e disse:
«Grazie, ma è inutile cercare di
consolarmi».
Posò gli occhi sulle cose che aveva fra le mani e Dylan le
passò in silenzio il giubbotto antiproiettile che doveva
infilarsi sotto la felpa.
«Vogliono metterti degli auricolari e anche una piccola
telecamera per vedere in tempo reale ciò che
succede», la informò, passandole anche diversi
caricatori per la sua Glock.
La detective si limitò ad annuire e lo seguì
fuori dalla stanza, sentendosi di nuovo sua complice dopo tanto tempo
travagliato dai contrasti.
In salotto, intanto, sua madre si era seduta sulla poltrona, con una
tazza di tè fumante fra le mani. C’era una tazza
anche per Tom, ma lui l’aveva abbandonata sul tavolino. Per
l’ennesima volta Grace cercò il suo sguardo,
bisognosa di conforto e di alleggerire un po’ quel peso che
si era schiantato sul suo cuore quando gli aveva detto di fermarsi, ma
non lo trovò. Demoralizzata, si lasciò infilare
l’auricolare per le varie istruzioni e la minuscola
telecamera, che riuscirono ad incastonare come un diamante nel ciondolo
della collana che Molly le aveva prestato per la serata.
«I nostri tecnici hanno anche creato un collegamento con il
tuo cellulare, in modo tale da visualizzare immediatamente tutti i
messaggi e le chiamate in arrivo e saperci regolare sui tuoi
spostamenti». Crawford le posò le mani sulle
spalle e la guardò intensamente negli occhi:
«Saremo sempre dietro di te, non permetteremo a nessuno di
farti del male».
Grace chinò il capo e sospirò, annuendo
brevemente.
«Allora siamo pronti?», domandò il capo
della squadra, scambiando uno sguardo con Dylan, il quale rispose
affermativamente con un cenno del capo.
Anche lui avrebbe partecipato all’operazione, anzi sarebbe
stato un uomo fondamentale, quello più vicino a Grace, il
primo ad intervenire in caso le fosse successo qualcosa. Non aveva
alcun tipo di preparazione a riguardo, ma Crawford aveva convinto tutti
delle sue capacità.
«Stai attenta, tesoro», mormorò Melanie,
stringendo la figlia in un abbraccio stretto, gli occhi lucidi.
«Ci vediamo dopo, mamma», la rassicurò
con un sorriso appena accennato e quando si girò si
trovò di fronte Tom, che la guardava con
un’espressione seria e rigida, come se si fosse pietrificato
il viso per non far trapelare le sue vere emozioni. Ma Grace lesse
tutto nei suoi occhi grandi color nocciola e gli avvolse timidamente le
braccia intorno al collo, respirando irregolarmente contro la sua
pelle.
Non voleva farlo sembrare un addio, ma aveva davvero paura di non
vederlo mai più. La sensazione che provava era orribile e
per la prima volta riuscì a capire il vero motivo per cui
aveva sempre rifiutato legami stabili: pensare di lasciarlo per sempre
era già come morire.
Non si sarebbe mai staccata dal suo corpo se non fosse stato proprio
lui ad allontanarla per dire con voce monocorde: «Vengo anche
io». Grace si sentì rincuorata da quelle parole,
almeno un poco, e gli strinse forte la mano mentre uscivano
dall’appartamento e scendevano le scale.
Due furgoni blindati dell’FBI li aspettavano parcheggiati di
fronte al condominio. Tom salì su uno di essi dopo Grace e
si sentì come il protagonista di una fiction poliziesca:
un’intera fiancata del furgone era occupata da schermi,
computer e altri aggeggi elettronici che non seppe identificare,
davanti ai quali stava seduto un tecnico con delle grosse cuffie sulle
orecchie. Nel furgone dietro di loro, molto probabilmente, si trovavano
gli altri membri della squadra che doveva svolgere
l’operazione.
Crawford posò una mano sulla spalla del tecnico, che si fece
scivolare le cuffie intorno al collo.
«Tutto a posto. Ho sotto controllo anche il sistema GPS degli
apparecchi dei nostri uomini, vede», indicò su una
mappa elettronica i puntini rossi luminosi che si muovevano dietro
altri due, senza mai raggiungerli.
«Quei due davanti sono i nostri, vero?»,
domandò Dylan, riferendosi al GPS del suo cellulare e di
quello di Grace.
Il tecnico annuì. «Sarà più
facile controllarvi».
«Bene», commentò Crawford. Poi
posò lo sguardo sulla detective. «Quando pensi che
si farà vivo? Le due ore sono quasi terminate».
«Non lo so», rispose Grace, controllando lo schermo
del suo cellulare, in apprensione.
Non vedeva l’ora e allo stesso tempo non voleva che le
dicesse il posto esatto in cui si sarebbero incontrati e man mano che i
minuti scorrevano si convinceva sempre di più che quella a
cui andava incontro ad occhi chiusi era un’imboscata.
«Hai paura?».
Grace sobbalzò e girò il viso verso quello di
Tom, seduto accanto a lei in un angolino, che la osservava con un
po’ di tristezza celata negli occhi.
«Mi stai stritolando una mano», aggiunse a
mo’ di spiegazione, facendole accennare un sorriso ed
allentare la presa mentre annuiva.
«Mi dispiace per la piega che ha preso la serata»,
sussurrò Grace, appoggiandosi a lui con una spalla.
«Ci tenevo davvero tanto, volevo che fosse
perfetta… e alla fine ho rovinato tutto, come al
solito».
Tom le prese il mento fra le dita ed immerse gli occhi nei suoi.
«Non è stata colpa tua, lo so che se fosse stato
per te non avresti mai lasciato le cose a metà»,
accennò un sorrisetto malizioso che le fece arricciare le
labbra in un mezzo sorriso. «Non avrei dovuto dirti quelle
cose, né dimostrarmi così arrabbiato con te.
Perdonami».
«Avrei potuto ignorare la chiamata…».
«Se l’avessi fatto, magari avresti perso
l’occasione che aspettavate da tempo per avere nuove
informazione su quell’organizzazione di criminali».
«Oppure avremmo concluso in bellezza questa serata stupenda,
ci saremmo addormentati come due bambini e ora non starei per rischiare
la vita. Ora come ora, non sapendo come andrà a finire
questa storia, avrei preferito ignorare la chiamata».
Tom le sorrise con amarezza e le accarezzò i capelli sulle
orecchie a piene mani, facendole scivolare fino al suo collo candido.
Si avvicinò e la baciò a stampo sulle labbra.
Quindi la guardò negli occhi, passandole le dita sulle
guance.
«Vedi di tornare tutta intera, perché nemmeno a me
piace lasciare le cose a metà».
Grace si lasciò scappare una mezza risata e solo allora si
accorse dello sguardo di Dylan, che le fuggì non appena si
accorse che l’aveva colto in flagrante.
Improvvisamente un bip bip
la fece trasalire, mentre su uno degli schermi di fronte a loro
appariva il testo del messaggio che le era appena arrivato.
«È lui», mormorò, leggendolo
sul display del suo cellulare. «Di
fronte al Marina Hotel, vicino alla barca Santarosa».
Crawford andò subito ad avvisare l’autista del
furgone blindato, che prese velocità, e con una piccola
radiolina avvertì il comandante della squadra
d’azione che una volta raggiunto il Marina Hotel avrebbero
dovuto perquisire tutte le stanze con le finestre che davano sul molo. Le
controllarono un’altra volta il funzionamento degli
auricolari e della telecamerina, poi per scrupolo personale Grace
controllò che la sua arma fosse pronta all’uso.
«Dovrai fare un pezzo a piedi, non possiamo permetterci di
dare nell’occhio con i furgoni dell’FBI»,
le disse Crawford, dandole una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
«Andrà tutto bene», le
sussurrò ancora prima di spingerla delicatamente
giù dal mezzo dalla parte delle porte posteriori.
Grace scambiò un ultimo sguardo con Tom, sentendosi mancare
il fiato per un attimo, credendo che sarebbe finalmente riuscita a
dirgli a chiare lettere ciò che provava per lui, ma Dylan le
diede un’altra spintarella verso gli altri agenti
dell’FBI in giubbotti antiproiettile e carichi di armi. Si
scambiarono qualche parola, poi Grace si allontanò da sola
verso il Marina Hotel, seguita dai loro sguardi attenti.
Il vento freddo che arrivava dall'oceano la fece rabbrividire e chiuse
un attimo gli occhi, stringendosi le braccia intorno al petto.
Immagini della serata da sogno appena trascorsa con Tom e stroncata sul
più bello le invasero la mente, saturandogliela. Scosse con
violenza il capo per mandarle via e concentrarsi.
L’adrenalina iniziò a scorrerle nelle vene al
pensiero del pericolo che si prestava ad affrontare e si sorprese
rendendosi conto di quanto quella sensazione le fosse mancata,
dopotutto.
Fece il giro dell’hotel fino a giungere sul lato sud, quello
che si affacciava al molo in cui erano ormeggiate diverse barche a
vela. Non c’era anima viva e tutto, persino
l’oceano, era immerso in un silenzio surreale.
Provò a leggere i nomi delle diverse barche da
lì, protetta dietro un angolo dell’edificio, ma
era un’impresa impossibile a causa del buio. Doveva per forza
esporsi.
«Stai vicina
al muro», le suggerì
la voce gracchiante di Crawford attraverso l’auricolare che
aveva all’orecchio.
Grace seguì il suo consiglio ed iniziò a
percorrere la lunghezza della facciata dell’hotel, cercando
di avvistare nel molo la Santarosa.
Quando la vide, si portò istintivamente una mano al calcio
della pistola. Nello stesso istante una figura scura si
scostò dall’ombra della barca e sollevò
una mano in segno di saluto. Grace riconobbe Doc Mahkah e si diresse
verso di lui sentendo soltanto i battiti del suo cuore rimbombarle
nelle orecchie.
«Pensavo non venissi», mormorò con un
sorriso triste sulle labbra, ma anche sollevato.
Grace capì subito ciò che intendeva dire: il boss
sperava, per il suo bene, che non si facesse viva, ma aveva sperato
anche che si presentasse all’incontro perché
altrimenti ci sarebbe andata di mezzo la sua stessa vita.
«L’unica cosa che devi fare adesso è
venire con me, nessuno si farà male Doc»,
provò a persuaderlo.
«Ah no?», una risatina gli scivolò fra
le labbra. «Non saranno quattro sbirri a fermarli, loro
sono… Grace, ti sei immischiata in un qualcosa
più grande di te: è una battaglia già
persa in partenza».
«Chi sono? Dammi un nome, Doc».
Lui, con gli occhi lucidi, scosse il capo. «Sono dei
mercenari, dei killer professionisti. Sto rischiando il tutto e per
tutto dicendoti queste cose; sappi che se ne usciremo vivi dovrai
essermi debitrice a vita».
Con la coda dell’occhio vide diversi spostamenti dietro le
tende delle stanze del primo piano dell’hotel: gli agenti
stavano perquisendo ogni camera, come ordinato da Crawford. Poco
più in basso, nascosto nello stesso angolo in cui si era
protetta lei poco prima, notò Dylan, pronto ad intervenire
in suo soccorso.
«Per chi lavorano?», gli domandò
freneticamente, come se il tempo a loro disposizione fosse
già scaduto.
«Io questo non lo so, ma devono sicuramente essere
personalità influenti, ai piani alti di questo fottuto
Paese. Grace, lascia stare, è meglio per tutti».
La detective lo prese per un braccio e lo fissò intensamente
negli occhi: «Ho bisogno di qualcosa di più, Doc.
A questo ci eravamo già arrivati tutti. Voglio dei
nomi».
«’Fanculo i nomi, tesoro; io voglio soltanto
continuare a vivere. Non si fermano davanti a niente, sono dappertutto
e io… io devo andarmene subito».
Fece per andarsene, ma Grace lo fermò ancora una volta,
trattenendolo per un braccio.
«Aspetta, Doc, per favore. Non ci credo che tu mi abbia fatto
venire fino a qui per dirmi solo questo, a meno che tu non sia dalla
loro parte e voglia farmi ammazzare».
«No!», gridò con gli occhi pieni di
terrore.
«Allora dimmi ciò per cui abbiamo rischiato
così tanto».
Doc Mahkah la guardò intensamente e si chinò
verso il suo viso per sussurrare in tono concitato: «So che
loro si sono intrufolati nelle bande che dovevano smistarsi quel grosso
giro di coca e che hanno fatto partire la sparatoria. Ho parlato con
uno di loro, mi ha detto che ti conosceva e che gli sei sempre
piaciuta, che sei come tuo padre. Ha detto anche che era molto
dispiaciuto quando ha saputo che avevi ceduto, ma era sicuro che
saresti tornata presto sulla scena. Non so a che cosa si riferisse, te
lo giuro».
L’espressione di Grace era un misto di paura e sconcerto, ma
riuscì a non perdere la lucidità.
«Quindi sai che aspetto ha. Ho bisogno che tu
–».
«Devo andare, Grace, a quest’ora avranno
già scoperto che ti ho detto queste cose, rischio davvero di
finire ammazzato!».
«Se vieni con me ti proteggeranno, sarai un
testimone!», gridò sottovoce, ma era troppo tardi:
Doc Mahkah aveva preso la sua decisione inequivocabile e le
puntò contro la pistola, con la mano tremante.
«Basta, tesoro. Lasciami andare».
«Okay, okay», mormorò alzando le mani.
In quel momento Grace vide con la coda dell’occhio una
finestra che si apriva al secondo piano, proprio sopra la bandiera
americana infissa sopra la seconda entrata, e la canna di un fucile da
cecchino brillare ai raggi della luna.
«A terra!», gridò.
Doc Mahkah si gettò in mare per ripararsi dai proiettili che
tuonavano nel buio, mentre Grace con un’abile capriola si
nascose nell’angolo più nascosto della Santarosa.
«Cecchino nella sesta camera del secondo piano, sopra la
bandiera!», gridò un paio di volte rivolta alla
telecamera, fino a quando alcuni proiettili non ammaccarono il metallo
poco sopra la sua testa e decise di seguire l’esempio del
boss, tuffandosi dietro la poppa della barca a vela, dove sicuramente i
proiettili non potevano arrivare.
Mentre era sott’acqua sentì in modo attutito i
boati degli ultimi spari, come se avesse avuto l’ovatta nelle
orecchie, e quando tornò in superficie non sentì
più niente oltre al proprio respiro affannoso e ai battiti
veloci del suo cuore.
«Doc Mahkah!», urlò, provando a
sbirciare sotto la piccola passerella in legno che li divideva. Non
ottenne alcuna risposta dal boss.
«Dylan!», gridò allora con tutta la voce
che aveva, spaventata come una bambina.
«Grace! Grace, sono qui!».
Dylan arrivò di corsa, con il fiatone, ed infilò
la sua pistola nel fodero prima di stendere entrambe le braccia verso
di lei per aiutarla a risalire sulla passerella. Quando fu seduta, la
ragazza venne colpita da un attacco acuto di terrore, che la costrinse
a gettargli le braccia al collo e ad abbracciarlo fortissimo.
«È tutto finito, è tutto
finito», le sussurrò l’amico,
accarezzandole i capelli bagnati e massaggiandole la schiena per
riscaldarla.
«Dov’è Doc Mahkah?», gli
domandò dopo qualche minuto di silenzio.
Dylan trattenne la risposta fra le labbra e dopo averla guardata negli
occhi, li posò oltre la passerella. Grace allungò
il collo e scorse il corpo del boss galleggiare nell’acqua
intrisa di rosso a causa dei tre fori che aveva sulla schiena.
«Oh, Dio», biascicò.
«L’avete preso, almeno?».
Dylan scosse il capo. «Quando hanno fatto irruzione nella
camera se n’era già andato».
Grace sospirò affranta e nascose il viso contro la sua
spalla.
Le luci delle auto della polizia locale e quelle
dell’ambulanza illuminavano i fianchi delle barche e la
facciata sud dell’hotel.
Dylan la tenne stretta a sé, come a volerla sorreggere,
nonostante non ne avesse bisogno, durante tutto il tragitto fino
all’ambulanza. Aumentò la stretta intorno alla sua
vita quando due paramedici fecero scorrere di fianco a loro la barella
su cui era stato steso il corpo di Doc Mahkah, avvolto in un sacco
nero. Grace chiuse gli occhi, rivolgendo il viso altrove, e si strinse
le braccia al petto, scostandosi da Dylan. Un paramedico le
offrì subito delle coperte per riscaldarsi e un poliziotto
le portò un bicchiere di carta con del tè
fumante.
Rimasero parecchio tempo in silenzio, mentre gli agenti della
scientifica ed alcuni poliziotti esaminavano la scena del crimine,
camminando avanti e indietro intorno a loro, parlando tra loro e
discutendo come se fosse un caso qualunque, facendo come se loro non ci
fossero. In effetti Grace, seduta a bordo dell’ambulanza, con
le gambe a penzoloni e le coperte avvolte intorno al corpo, si sentiva
estranea a tutto quello e non si definiva parte integrante di
ciò che stava accadendo intorno a lei: era solamente la
vittima che aveva perso un amico, per quanto strano e poco
raccomandabile potesse essere.
Dylan, dal canto suo, sentì una fitta al cuore vedendola
ridotta in quello stato: i suoi capelli, fino a poco prima ancora
perfetti, erano bagnati e la piega rovinata; il trucco che le avevano
messo intorno agli occhi era tutto sbavato, tanto che sembrava avesse
delle profonde occhiaie; la tuta che indossava era completamente zuppa
e le si appiccicava alle gambe; tremava, nonostante il tè
caldo e le coperte, e aveva lo sguardo fisso perso nel vuoto. Non ce la
faceva proprio a vederla in quelle condizioni, così le fece
un buffetto sulla guancia, distrattamente, e andò a vedere
dove fosse andato a cacciarsi Tom. O meglio, dove l’avevano
costretto a restare, fregandosene di ogni sua protesta e delle sue
imprecazioni.
«Oswin».
Il suo partner e il collega che erano stati incaricati alla sicurezza
in quella zona si voltarono e Tom provò ad approfittarne per
sgusciare sotto il nastro giallo e correre da Grace, ma il poliziotto
lo placcò e lo fece tornare indietro, sotto gli occhi di
Oswin e Dylan. Il chitarrista rincominciò a gridare, ma
quella volta, davvero furioso e disperato, lo fece in tedesco. Quella
lingua dura ed ostile sembrava ancora più aggressiva ed
offensiva di quanto non fosse.
«Che cosa cazzo sta dicendo?», domandò
esasperato il poliziotto, che a stento riusciva a tenerlo indietro.
Oswin si lasciò scappare un sorrisino.
«Sicuramente non ci sta invitando a bere una birra
insieme».
«Lasciatelo passare», disse Dylan, scrollando il
capo.
«Come, scusa?», domandò
l’altro poliziotto, allentando la presa. Tom però
non sfruttò l’occasione e rimase in ascolto, a
bocca aperta. «Il capo ci ha detto di non far entrare
nessuno».
«Lo so e me ne prenderò io tutta la
responsabilità. Lascialo passare, Grace ha bisogno di
lui».
«Pensavo che tu e Grace foste amici»,
commentò sprezzante il poliziotto.
Lo sguardo di Dylan avrebbe incenerito persino un grattacielo.
Ripeté per la terza volta, digrignando i denti:
«Lascialo passare».
Il poliziotto grugnì e lo lasciò andare,
riservando comunque un’occhiata ostile ad entrambi. Tom
raggiunse Dylan e camminò di fianco a lui in silenzio per
qualche secondo, poi sputò fuori un
«Grazie» che suonò molto strano alle
orecchie dell’agente, ma anche molto dolce.
«Non scherzavo, quando dicevo che ha bisogno di
te», gli rispose, indicando con il dito il punto in cui era
seduta, avvolta nelle coperte.
Tom trasalì e percorse la distanza che li divideva di corsa,
poi la stritolò in un abbraccio. Grace si
aggrappò a lui e i suoi occhi tornarono vividi, riempiendosi
di lacrime.
Dylan li guardò per qualche secondo, accennando un sorriso.
Pensò a Bill, come gli accadeva spesso, ma quella volta fu
un pensiero confortante: quella sera era stato fortunato, non aveva
tirato le cuoia come Doc Mahkah, e non era ancora giunto il momento di
dirgli addio.
Solo pensare alla remota possibilità di poterlo rivedere,
magari per caso o senza che lui se ne accorgesse, lo
rasserenò.
***
Villa Kaulitz era
immersa nell’oscurità e nel più
assoluto silenzio.
Tom accompagnò Grace fino alla sua camera da letto, la
spogliò dolcemente dei vestiti ancora bagnati e li fece
cadere a terra. La spinse verso il letto, la fece stendere sotto le
coperte e si tolse la maglietta per utilizzarla come asciugamano sul
suo corpo freddo che gli faceva venire i brividi solo a sfiorarlo.
Guardandola negli occhi le accarezzò i capelli umidi
facendoseli passare fra le dita.
«Hai freddo?», le sussurrò ad un soffio
dalle sue labbra che tendevano ad un colore bluastro.
Grace mosse lievemente il capo in segno d’assenso e lo fece
sdraiare completamente su di sé, avvolgendogli le braccia e
le gambe intorno alla schiena e stringendolo fortissimo. Tom
rabbrividì a contatto con la sua pelle nuda e fredda, ma non
si scostò: nascose il viso fra i suoi capelli,
all’altezza dell’orecchio, e vi posò
sopra teneri baci.
Fece scivolare le mani sul suo seno, sui fianchi e sulle ossa del
bacino, per poi tornare su e ripetere il movimento da capo. Lentamente
sentì sotto le sue dita i muscoli di Grace rilassarsi,
mentre la sua pelle si intiepidiva. Allora scese con la testa sul suo
petto e lo riempì di baci umidi, fino ad arrivare al ventre.
La sentì tremare di piacere e si sollevò a
quattro zampe per sussurrarle all’orecchio di girarsi. Si
avventurò lungo la leggera infossatura creata dalla linea
della spina dorsale e quando la percorse tutta si abbandonò
delicatamente su di lei, adagiando le labbra sulla sua nuca.
«Va meglio?», mormorò e Grace
annuì. «Okay».
Respirò profondamente fra i suoi capelli e chiuse gli occhi,
portando il peso sul fianco sinistro per non schiacciarla, tenendola
stretta a sé. La detective si girò fra le sue
braccia, facendo aderire il petto al suo, e lo fissò fino a
quando non riaprì gli occhi e ricambiò il suo
sguardo intenso.
«Mia madre amava tantissimo mio padre»,
esordì Grace, sottovoce. «Nonostante questo non
poteva più vivere nell’ansia di non vederlo
tornare a casa la sera. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, viveva
nella paura che gli succedesse qualcosa a causa del suo lavoro e non
potesse più dirgli quanto lo amava. Stava per impazzire. Per
questo e per la mia incolumità se n’è
allontanata e ha chiesto la separazione. Ma questo non è
bastato a farla guarire, anzi… non vivendo più
con lui la sua ansia è aumentata ancora e la mia decisione
di seguire le sue orme e di trasferirmi da lui le ha dato il colpo di
grazia. Ovviamente non mi sono mai accorta del dolore che le avevo
provocato».
Tom ascoltò il silenzio derivato da una sua pausa e le
accarezzò una guancia, avvicinandosi ancora di
più al suo viso, tanto da sfiorarle le labbra.
«Cosa stai cercando di dirmi, Grace?», le
domandò sottovoce.
L’investigatrice distolse lo sguardo e tirò su col
naso. «Per quanto tempo ancora potrò vivere con la
paura di non riuscire a tornare a casa da te alla sera, di non riuscire
a dirti per l’ultima volta quanto ti amo?».
Tom rimase per qualche secondo in silenzio a guardare le lacrime che le
scivolavano sulle guance e che grazie alla luce della luna sembravano
diamanti. Ne sentì qualcuna scivolargli tra le dita, fino a
quando Grace non gli prese la mano e se la portò alle
labbra, strizzando con forza gli occhi per fermare quel fiume in piena.
«Brooklyn», sussurrò con gli occhi
ridenti che celavano una profonda malinconia. «Se le cose
stanno così, tu avrai un fottuto motivo in più
per tornare da me alla sera. E credo fortemente che tra un
po’ di tempo avrai paura proprio di questo, impazzirai
perché ti sei innamorata di uno come me».
Grace, ancora impegnata nella lotta contro le sue lacrime, non
riuscì a trattenere un sorrisino per le cazzate che
dopotutto Tom non riusciva proprio a non dire. «Sei sempre il
solito deficiente».
«Scusami, ma il discorso iniziava a farsi troppo pesante e
non volevo rischiare che anche io scoppiassi a piangere».
Si guardarono negli occhi per qualche istante, il silenzio che li
abbracciava come una coperta, poi Tom abbassò gli occhi
accennando un sorriso.
«Ti amo anche io, Grace».
La detective lo baciò e gli strinse le braccia al collo.
Cullata da quelle dolci parole che continuarono a risuonarle nella
testa, si addormentò profondamente.
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Capitolo 17 *** Capitolo 16 ***
Capitolo 16
«Carina
questa!», esclamò Bill, indicando una fotografia
nel giornale di gossip che stava sfogliando. Lo girò verso
Tom e Grace, seduti proprio di fronte a lui al tavolo della cucina,
intenti a fare una specie di colazione.
Entrambi sembravano stanchi, i segni intorno ai loro occhi e i loro
gesti lenti ne erano la prova, ma nel contempo qualcosa gli illuminava
le pupille e i volti. Capì subito che doveva essere successo
qualcosa quella notte, ma non riuscì a farsi alcuna idea,
anche perché le loro espressioni ambigue, a tratti felici, a
tratti malinconiche, gli rendevano il lavoro di giovane detective
ancora più difficile.
«Uhm, è vero», disse Tom, masticando un
pezzo della sua brioche ed indicando una foto. «In quella sei
venuta bene».
«Non mi si vede nemmeno la faccia»,
ribatté Grace senza energie, sforzandosi persino per far
sorgere un sorriso incerto sulle sue labbra.
Tom la guardò divertito e fece scontrare lievemente le loro
spalle, poi le prese il viso fra le mani e le stampò un
bacio sulla tempia.
«Forse non è il caso che ci accompagni
all’aeroporto», le disse abbassando la voce, segno
che stava parlando seriamente, ma senza abbandonare il sorriso, per
quanto fosse tenue. «Non vorrei che i paparazzi ti beccassero
e queste foto stupende finissero subito in secondo piano».
Grace girò il viso verso di lui e fece un altro sforzo per
sorridere e ricambiare i suoi tentativi di alleggerire
l’atmosfera e di non far notare troppo a Bill che non era al
massimo della forma. Visto però come la guardava, era certa
che il cantante avesse già fiutato qualcosa e che stesse
soltanto aspettando il momento giusto per attaccare con le sue domande.
«Grazie», mormorò, accarezzando la
guancia di Tom e posandogli un lieve bacio sulle labbra. Poi si
voltò verso Bill: «E scusatemi, ma mi sento
davvero poco bene».
«Ieri l’ho distrutta, sai»,
sussurrò Tom al gemello, ammiccando, e Bill
accennò un sorrisino, per poi stringersi le braccia al petto
e guardarli con aria indagatrice.
Grace si abbandonò ad una leggera risata, dandogli un
colpetto sul braccio, poi si alzò e fece il giro del tavolo
per andare a salutare il frontman. «Fate buon viaggio e
spaccateli tutti: voglio che sia il vostro video più
bello», disse e lo baciò sulla guancia.
«Grazie anche per i vestiti, te li restituirò
appena saranno lavati e stirati».
«Figurati», rispose Bill. «Riguardati, mi
raccomando».
La detective annuì e raggiunse Tom che, con addosso
un’anonima tuta grigia e una maglietta bianca, giocherellava
con le chiavi dell’auto e l’aspettava
già alla porta. Il chitarrista alzò una mano in
segno di saluto verso il fratello, il quale ricambiò allo
stesso modo e tenne gli occhi fissi su di loro fino a quando non si
chiusero la porta alle spalle. Quindi si alzò e corse su per
le scale, lasciando sul tavolo il giornale di gossip aperto sulle foto
che li immortalavano mano per la mano e sorridenti.
Grace aprì un po’ il finestrino, giusto lo spazio
necessario a far uscire la mano e lasciarla aperta per sentire il vento
sorreggerne il peso e correre fra le sue dita.
Tom, seduto al volante, la osservò attentamente con la coda
dell’occhio. Ad un tratto, la detective si accorse del suo
sguardo silenzioso e ricambiò offrendogli
un’espressione ricca di dolcezza, mentre abbandonava il capo
al poggiatesta e tirava dentro la mano ormai fresca. Con quella stessa
mano, nonostante non fosse la più vicina, prese quella che
Tom aveva sul cambio e la strinse, socchiudendo gli occhi. Il
chitarrista rabbrividì e fu come se il suo corpo nudo e
gelido fosse ancora sotto al suo.
«Mettiamola così: ricorderemo per sempre il nostro
primo appuntamento comunque, anche se non nel modo in cui avrei
voluto», disse Grace.
Tom sorrise e strinse appena più forte la sua mano.
«Sto iniziando a credere che è così che
devono andare le cose tra di noi: in modo inaspettato ed imprevedibile.
Altrimenti non ci sembrerebbero così belle».
Una volta arrivati al condominio di Grace,
l’accompagnò fino al suo appartamento e rimase
nell’ingresso ad osservare madre e figlia che si
abbracciavano dopo una notte di apprensione, anche se Grace
l’aveva avvisata che stava bene e sarebbe stata a dormire dai
Kaulitz.
Quando Melanie riuscì a staccarsi dal suo tesoro,
guardò Tom e regalò un abbraccio stretto anche a
lui, perché si era preso cura di lei in sua assenza.
«Hai già fatto colazione?», gli
domandò con tono premuroso, accarezzandogli una spalla.
«Sì, una specie», ridacchiò
passandosi una mano dietro la nuca. «Devo scappare, comunque.
Abbiamo l’aereo che parte tra un’ora neanche,
quindi…».
«Quindi vi lascio soli, va bene», concluse la donna
per conto suo, gettando un’occhiata ad entrambi, specialmente
a sua figlia, la quale la ringraziò con uno sguardo.
Tom prese Grace per mano e l’attirò a
sé per abbracciarla ed affondare il viso fra i suoi capelli
che profumavano vagamente di salsedine.
«Mi raccomando, stai attenta. Voglio trovarti tutta intera
quando torno», sussurrò al suo orecchio.
«Ti chiamerò sempre quando avrò dei
momenti liberi, te lo prometto».
«Certo Tom, ne sono sicura», rispose, dandogli
delle pacchette sulla schiena. «Non concederti troppo alle
tue fan, credo che potrei diventare gelosa».
«Povere loro», ridacchiò.
«Ah, Tom!», esclamò Melanie, uscendo di
gran carriera dalla cucina con una mano stesa verso di lui: sul palmo
aveva una piccola chiavetta USB, che gli porse sorridendo.
«Appena avrai dei momenti liberi e non starai parlando con
Grace, dai un’occhiata a questa».
Tom prese la chiavetta dalla sua mano e le sorrise. «Va bene,
grazie».
«Mi raccomando, non perderla».
Il suo tono severo lo colpì, ma subito dopo se ne
dimenticò perché la donna gli rivolse un sorriso
affettuoso.
«Fai buon viaggio, allora», gli augurò e
dopo che l’ebbe ringraziata tornò in cucina,
canticchiando a mezza voce.
Posò gli occhi in quelli di Grace e, riprendendo da dove si
erano lasciati, le sistemò i capelli dietro le orecchie. Era
da un po’ che non lo faceva e Grace sorrise commossa.
«Oddio, se facciamo tutte queste scene per cinque giorni,
pensa quando dovrò partire per un tour di tre
mesi…», la prese in giro, ma Grace invece di
controbattere con una frecciatina gli prese il volto fra le mani e
mettendosi in punta di piedi lo baciò sulle labbra.
«Adesso vai», gli disse quando si
scostò, guardandolo negli occhi con la fronte posata sulla
sua.
«Non mi dici che mi ami?», le domandò
con un sorrisetto birichino sulle labbra, chinandosi per strapparle un
altro bacio a fior di labbra.
Grace scrollò le spalle. «Lo sai».
«Bene, anche tu lo sai allora», replicò,
un po’ offeso.
Si scostarono l’uno dall’altra e Grace
aprì la porta, indicandogli di uscire. Tom provò
ad andarsene senza lasciar trapelare nulla, ma non resistette: si
voltò a bocca aperta e un’espressione da cane
abbandonato sul viso. Non ci fu nemmeno bisogno di parlare,
perché la detective sapeva che si sarebbe comportato
così e aveva preparato il suo sorriso più dolce
per sussurrargli: «Ti amo».
Il viso di Tom si illuminò e fece un passo indietro per
darle un ultimo, forte e passionale bacio, che le tolse il fiato. Poi
si allontanò, lasciandole sulle labbra il sapore zuccheroso
delle parole che non le aveva detto, ma che le aveva trasmesso come se
un filo avesse collegato direttamente i loro cuori alle loro bocche.
Quando Tom tornò a casa, la trovò fin troppo
silenziosa.
«Bill?», chiamò, sentendosi nel bel
mezzo di un film dell’orrore. «Bill, dove
sei?».
Salì le scale che portavano al piano superiore facendo due
scalini per volta e cercò nella camera del gemello, quindi
andò nella propria. Lo trovò seduto per terra,
con la tuta ancora umida di Grace tra le mani.
«Credevo che Grace mi avesse chiesto di prestarle dei vestiti
perché non voleva uscire con il vestito di ieri
sera», disse Bill con tono pacato, per poi sollevare il capo
e cercare i suoi occhi. «Che cos’è
successo, Tom?».
***
Dylan
sbuffò, stufo di aspettare, e per l’ennesima volta
cambiò posizione su quella scomoda poltroncina blu nella
sala d’aspetto dell’aeroporto. Guardò il
tabellone elettronico sopra la sua testa e vide che il numero
dell’aereo su cui c’era sua sorella minore era
sempre lì, fermo, in mostruoso ritardo, come la maggior
parte degli altri voli. Aveva proprio scelto il giorno perfetto per
venire a trovarlo.
Spostò lo sguardo sulle persone che aveva intorno:
c’era chi si sedeva ad aspettare come lui, chi si alzava per
andare ai bagni o al bar, chi rispondeva alle chiamate o agli SMS
sorridendo fra sé o con irritazione, chi sfogliava le pagine
dei quotidiani o dei giornali di gossip… A quel punto la sua
attenzione venne totalmente catturata dalla copertina patinata del
giornalino che la ragazza di quindici o sedici anni seduta di fronte a
lui teneva fra le mani. Si abbassò per vedere meglio la
fotografia che ritraeva Tom e Grace abbracciati e sorridenti che
camminavano lungo la Walk of
Fame e riuscì a
leggere il titolo sotto la foto solo di sfuggita, perché la
ragazzina si accorse del suo sguardo e, rossa d’imbarazzo,
chiuse il giornale e lo lasciò sulla poltroncina vuota
accanto alla sua.
Dylan si alzò con nonchalance e sorrise alla ragazzina, che
aveva sgranato gli occhi e seguito con attenzione ogni suo movimento.
«Posso?», le domandò indicando sia la
poltroncina vuota che il giornalino su di essa. La ragazzina
annuì col capo e una ciocca di capelli le scivolò
sugli occhi, ma la scostò subito con un gesto automatico.
Dylan prese il giornalino e sospirò sedendosi sulla
poltroncina, poi fissò ancora per un minuto la foto sulla
copertina patinata. Aveva creduto che quella fosse la migliore, ma fu
costretto a ricredersi, anche perché rischiò di
collassare quando vide le altre stampate sulle pagine interne,
accompagnate da un misero articolo scritto a caratteri microscopici che
spiegava l’uscita paparazzata di Tom Kaulitz, il chitarrista
dei Tokio Hotel nonché il conquistatore numero uno della
band, e quella che si presupponeva fosse la sua nuova ragazza.
Dylan si morse le labbra vedendo la sua Grace trasformata in quel modo
e buttata in pasto ai paparazzi, ma era anche così bella
– e sexy – e felice… non
l’aveva mai vista così.
Per un attimo si odiò perché non era riuscito a
farla innamorare di lui, odiò Tom perché
gliel’aveva rubata – e aveva tutto quel ben di Dio
tutto per sé – e odiò Grace
perché aveva scelto il chitarrista al posto suo. Fu solo un
attimo, perché poi si disse che non era colpa sua se Grace
non provava quel tipo di amore nei suoi confronti, non era colpa di Tom
se era innamorato di lei, né di Grace se si era innamorata
del chitarrista ed era felice con lui. Per quanto gli sarebbe piaciuto
poterla rendere felice e si sentisse frustrato per non esserci mai
riuscito, doveva ammettere che ne valeva la pena, se il risultato era
vedere quel sorriso sul suo viso e quella luce nei suoi occhi.
Si girò verso la ragazzina al suo fianco e trovò
i suoi occhi intenti a scrutarlo con aria sospetta.
«Carini, no?», le domandò tirando un
sorriso.
La ragazzina assottigliò gli occhi e bofonchiò:
«Sì, certo».
«Sei una fan dei Tokio Hotel?». Lei
annuì e Dylan ridacchiò.
«Immaginavo».
«Che cosa ci trovi di tanto divertente?»,
berciò. «Quella è una puttana, lo si
vede lontano un miglio. Non è degna di stare accanto a
Tomi».
Dylan, scioccato, strabuzzò gli occhi. Si disse che doveva
controllarsi, per il bene di Tom e Grace che ancora godevano di un
certo silenzio, ma non riuscì proprio a trattenersi nel
dire: «E chi sarebbe degna di stare accanto a Tomi?».
La ragazzina sollevò le sopracciglia e fece schioccare la
lingua contro il palato, accavallando le gambe.
«Non capisco perché tu, e presuppongo altre fan
che avranno già visto queste foto, debba darle della
puttana: non la conosci nemmeno!».
«Non mi serve affatto conoscerla per capirlo, basta
guardarla! Non è neppure tanto bella!»,
strillò, strappandogli il giornalino dalle mani ed iniziando
a stracciare le pagine incriminate.
«Tu sei pazza», mormorò incredulo,
alzandosi e lasciandola alla sua follia.
Si allontanò dalla sala d’aspetto e si
avvicinò ai gate, controllando a che punto era
l’aereo proveniente da Washington, D.C.: era atterrato.
Il pensiero di riabbracciare la sua cara sorellina cancellò
momentaneamente lo shock provocatogli da quell’incontro
spiacevole con una fan pazza dei Tokio Hotel, di cui fino ad allora
aveva dubitato l’esistenza. Ebbene, non erano solo leggende
metropolitane.
All’improvviso sentì uno strillo acuto e vide la
stessa fan pazza correre dall’altra parte della sala con il
cellulare fra le mani. Non fece in tempo a raggiungere il proprio
obiettivo che un armadio grande e grosso la bloccò, la
sollevò di peso e la portò via, chissà
dove. Solo allora Dylan ebbe il tempo materiale per riconoscere i due
ragazzi incappucciati e con gli occhiali da sole che avevano creato
tanto scompiglio negli ormoni di quell’adolescente: Bill e
Tom dei Tokio Hotel.
Si ricordò della loro partenza per New York e lì
per lì non seppe se ringraziare o maledire il ritardo del
volo di sua sorella.
«Non ne vedevo una così da un po’ di
tempo», disse Bill con l’accenno di un sorriso,
mentre lui, suo fratello e il loro stuolo di bodyguards gli passavano
accanto senza nemmeno accorgersi di lui. O almeno così parve
all’inizio, perché dopo qualche secondo Tom si
voltò e lo guardò, realizzando che sì,
quello era veramente Dylan.
«Cazzo, anche qui ci incontriamo?», gli
domandò, trattenendo una risata fra le labbra.
«Che ci fai a quest’ora
all’aeroporto?».
«Sto aspettando mia sorella; è venuta a trovarmi
da Washington, D.C.», rispose e controllò la
reazione di Bill al loro incontro: sembrava assorto nei propri
pensieri, non sorrideva. Non fu molto incoraggiante, ma Dylan si fece
forza e gli sorrise, sollevando una mano. «Ciao,
Bill».
«Ciao», ricambiò incerto il saluto.
Dylan avrebbe pagato oro per vedere i suoi occhi oltre le lenti scure
degli occhiali, per vedere che cosa nascondeva e cosa pensava.
«Io inizio ad andare», aggiunse il frontman
guardando il gemello, quando si accorse dello sguardo insistente e
dell’espressione rammaricata di Dylan.
Tom annuì e lo guardò allontanarsi e passare
oltre i metal detector, poi sospirò voltandosi verso Dylan,
a cui lanciò un’occhiata fulminante mentre
incrociava le braccia al petto.
«Prima provi a fottermi la ragazza, poi rendi un inferno la
vita di mio fratello. Dimmelo che vuoi farti odiare da me».
Il poliziotto avrebbe voluto ribattere dicendo che era stato lui a
fottergli la ragazza per primo, ma alla fine scosse il capo,
sconsolato, e sussurrò: «Mi dispiace».
Allora Tom, a disagio e in pena per lui, gli diede una pacca sulla
spalla. «O forse sei solo masochista, buttandoti fra le
braccia della persona sbagliata e rifiutando quelle che potrebbero
darti tutto».
«Mi stai dicendo di provarci con tuo fratello?»,
disse a mezza voce, impappinandosi un paio di volte, incredulo.
Tom diventò paonazzo e scosse il capo con frenesia.
«Non intendevo dire… insomma, era solo…
Ah, lasciamo perdere», sbuffò.
Una massa di persone si avvicinò ai gate d’uscita
e Dylan individuò quasi subito sua sorella minore, la quale
gli rivolse un enorme sorriso e lo salutò agitando entrambe
le braccia appena incrociò il suo sguardo. Era ancora una
bambina, nonostante avessero solo tre anni di differenza.
«Sta arrivando mia sorella, forse è meglio che
tu…».
«Oh sì, certo, vado. Bill mi starà
aspettando…».
«Già».
«Okay, allora…».
«Ah, come sta Grace?», gli domandò
all’improvviso Dylan, accigliandosi.
Tom si lasciò scappare un sorriso malinconico.
«Era ancora un po’ scossa e probabilmente ha preso
freddo… ma si riprenderà».
«Non ti dispiace se la vado a trovare, vero? Abbiamo tante
cose di cui parlare e su cui chiarirci…».
«No, non dovrebbe dispiacermi», rispose arricciando
il naso. «Ma se vengo a sapere che tu…».
Dylan scoppiò in una risatina piuttosto nervosa.
«Mi è arrivato il messaggio. Ora vai, o
l’aereo partirà senza di te».
Il chitarrista inarcò le sopracciglia e lo salutò
con un gesto della mano. Girandosi vide di sfuggita una bella ragazza
dai capelli neri, gli occhi e i tratti del viso simili a quelli di
Dylan: sua sorella. Le diede un’occhiata di sfuggita mentre
si gettava fra le braccia del poliziotto chiamandolo
«fratellone» e sogghignò incrociando lo
sguardo geloso e protettivo di Dylan. Quindi si voltò e
superò il metal detector.
***
Grace, interamente
vestita sotto le coperte, osservava un punto indefinito sul pavimento
inondato dalla luce mattutina, con gli occhi socchiusi che le dolevano
e le bruciavano.
Aveva sonno, ma non riusciva ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo a
causa di tutti i pensieri e le immagini che le turbinavano nella testa.
A partire da quella del corpo senza di vita di Doc Mahkah, prima
galleggiante nell’acqua chiazzata del rosso del suo stesso
sangue, poi trasportato su una barella, avvolto in un sacco nero. Se lo
immaginò persino steso su un tavolo metallico, in un
obitorio freddo e sterile, mentre il coroner si apprestava a fargli
l’autopsia. All’improvviso aprì i suoi
occhi scuri e con la voce grave e gracchiante che aveva sentito
l’unica volta che era riuscita a mettersi direttamente in
contatto con quelli dell’organizzazione, le disse:
«È colpa tua se sono qui».
Grace sobbalzò nel letto e riprese a tremare come la notte
precedente, soltanto che quella volta non c’era Tom a
riscaldarla e a farla calmare. Strinse i denti, girandosi sotto il
copriletto, e lottò contro le lacrime. Non sarebbe mai
riuscita a vincerle, se non fosse stato per sua madre che, bussando
alla porta della sua stanza, la distrasse da quel dolore.
La donna non aspettò una sua risposta prima di entrare. Il
suo volto esprimeva tutta la dolcezza e la comprensione del mondo, i
suoi occhi attenti erano tristi, ma si sforzò comunque di
sorriderle per infondere alla figlia un po’ di forza.
«Ti ho portato del tè», le disse
sollevando di un poco la tazza fumante che aveva tra le mani, mentre si
avvicinava al bordo del suo letto.
Grace si tirò su a sedere, con le ginocchia strette al
petto, e Melanie le passò la tazza con cautela, poi si
sedette di fronte a lei. La guardò per una ventina di
secondi in silenzio, spostando lo sguardo dal sul suo viso stanco e
pallido ai suoi occhi spenti, alle sue mani che stringevano
nervosamente la ceramica della tazza, nonostante scottasse ancora.
«Hai fatto quello che hai potuto, tesoro. Non è
colpa tua».
Ma la ragazza non reagì nemmeno a quelle parole di conforto
che, al contrario, la fecero allontanare ancora di più.
La donna capì che era il caso di lasciarla sola e si
alzò dal letto con un grande peso sul cuore.
Si era appena lasciata la camera alle spalle e stava percorrendo il
corridoio per tornare in cucina, quando sentì la porta
sbattere e i passi leggeri di Grace dietro di sé. Si
voltò per capire cosa stesse succedendo, ma la ragazza
l’aveva già superata, lasciandola di stucco, e si
stava infilando la giacca di pelle marrone.
Non le disse dove stava andando: si aggrappò con forza alla
maniglia della porta di casa, l’aprì ed
uscì di corsa.
***
Era stato strano vedere
Dylan, anche se strano
non era proprio il termine giusto per esprimere ciò che
aveva provato mentre il suo stomaco si accartocciava come una pallina
di carta straccia.
Ci aveva provato in ogni modo a cancellarlo dalla sua testa, ma da
quando, quella fottuta sera, l’aveva invitato a bere qualcosa
con lui e avevano trascorso insieme tutto quel tempo a parlare, qualche
rotellina nel suo cranio si era inceppata solo come un registratore in
palla poteva fare, mostrandogli sempre la stessa immagine ogni volta
che chiudeva gli occhi e provava a rilassarsi: la sua.
Vederlo e sentire di nuovo la sua voce salutarlo era stato come una
pugnalata in pieno petto e nello stesso momento in cui
l’aveva percepita si era odiato, perché per quanto
ci provasse a dimenticare ciò che provava per lui, era tutto
inutile. E Dylan non gli rendeva di certo il lavoro meno arduo. Il modo
in cui l’aveva guardato, con quel sorriso tenue e lo sguardo
malinconico… che cosa stavano a significare? Che provava
pena per lui? Beh, non aveva bisogno di essere compatito da nessuno,
tantomeno da lui, che lo aveva rifiutato e gli era bastato un «Amici
come prima?» per
uscirne in bellezza. O forse era qualcos’altro? Ma che altro
poteva essere, Bill non riusciva proprio a capirlo, andava oltre ogni
sua fantasia mentale.
«Ehi, va tutto bene?».
La voce del suo gemello, seduto accanto a lui, lo sbalzò
fuori da quegli arrovellati pensieri e fu quasi un sollievo,
perché gli stava venendo mal di testa e con un video da
girare non era proprio ciò che ci voleva.
«Oh sì, scusami». Da quando era salito
sul loro jet privato, poco dopo rispetto a lui, non l’aveva
minimamente calcolato. «Ero sovrappensiero».
Tom sospirò e affondò ancora un po’ nel
sedile di pelle, chiudendo gli occhi con le mani unite sopra lo
stomaco.
«A cosa pensavi?».
Bill esitò a rispondere e quella fu la prova che
confermò la teoria del chitarrista, che continuò:
«Ho capito. Vuoi sapere cosa mi ha detto?».
«Non voglio sapere un bel niente», disse Bill
stringendo i denti, mentre il suo viso si arrossava. «E tu
hai cannato in pieno».
Tom accennò un sorriso. Certo,
come no.
«Stavo pensando a quello che mi hai raccontato
prima», aggiunse ancora il frontman, posando lo sguardo fuori
dall’oblò: stavano attraversando un banco di
nuvole.
Quando Tom era tornato a casa, dopo aver accompagnato Grace, aveva
trovato suo fratello nella sua camera, che come un bravo investigatore
aveva trovato la prova delle loro menzogne – la tuta ancora
umida di Grace – e aveva costretto Tom a confessare. Gli
aveva raccontato che cos’era successo quella sera, di come
dal Paradiso fossero stati catapultati nell’Inferno; dalla
sensazione di felicità assoluta che aveva provato mentre
mangiava sushi con Grace oppure mentre facevano l’amore, alla
più totale disperazione e alla paura accecante che si era
trovato a vivere quando l’aveva vista allontanarsi da lui con
un’intera squadra di agenti dell’FBI al seguito,
quando aveva sentito i primi colpi d’arma da fuoco e aveva
visto le riprese della telecamerina che aveva fra i vestiti
interrompersi; di come si fosse sentito un completo idiota per essersi
arrabbiato così tanto con lei e del sospiro di sollievo che
gli aveva davvero rinfrancato l’anima quando
l’aveva vista bagnata ed infreddolita, ma viva.
Se provava a rievocare quelle orribili sensazioni stava ancora male,
tanto da doversi impedire di soffermarvisi troppo a lungo.
«Mi dispiace che la vostra serata sia stata rovinata in
questo modo», concluse Bill, davvero rammaricato,
stringendogli il braccio.
«Già…», soffiò
Tom, sentendosi improvvisamente stanco, come se il peso di tutto
ciò che aveva dovuto affrontare nelle
ventiquattr’ore precedenti fosse ripiombato sulle sue spalle.
La stretta sul suo braccio divenne una lieve carezza e il maggiore
sollevò il capo per incontrare lo sguardo amorevole di Bill,
il quale mormorò avvicinandosi al suo orecchio:
«Sono molto orgoglioso di te».
«E perché?», chiese piano Tom,
aggrottando le sopracciglia.
Bill si lasciò andare ad una risatina.
«Perché finalmente stai crescendo; stai capendo
che cosa vuol dire amare veramente una persona, in tutte le sue
sfaccettature, nonostante tutte le difficoltà che ti si
presentano davanti. Perché non stai scappando, ma stai
lottando per lei».
Tom sorrise e si allontanò dal gemello per guardarlo negli
occhi. «Hai detto bene, per
lei. Sono sempre stato
così, dovevo solo trovare la persona giusta».
«Pff, sei sempre il solito sbruffone»,
brontolò Bill, anche se con un sorrisetto divertito sulle
labbra.
Il chitarrista guardò suo fratello voltare il capo verso il
finestrino ed osservò il suo viso, nonostante lo vedesse di
profilo, tornare lentamente serio e concentrato, immerso nei propri
pensieri.
***
«Ma come,
vengo a trovarti così poche volte, ti lamenti sempre per
questo, e una volta che vengo devi uscire?».
«Mi dispiace, davvero», disse Dylan, arretrando
come un gambero mentre cercava una scusa convincente da usare con sua
sorella.
«È una questione di vita o di morte?»,
gli domandò ancora, puntandogli un dito contro.
«Se non è così, Felix Carlos Leon
–».
Dylan mise le mani avanti e urlò: «Okay, okay,
fermati! Sai quanto odio quando mi chiami con tutti i miei
nomi!». Sua sorella fece un sorrisetto, mentre lui sospirava
e aggiungeva, con più calma: «È davvero
importante, si tratta di una mia cara amica e
devo…».
«Ah, lo sapevo che c’entrava una
ragazza!».
«Posso andare?», la supplicò il
poliziotto, stanco.
«Va bene, sei libero», rispose dolcemente la
ragazza.
Dylan la ringraziò soffiandole un bacio dalla mano, poi
corse fuori di casa con il giubbotto sottobraccio.
Raggiunse la sua auto e guidò più veloce che
poté verso il porto, dove era sicuro al novantanove percento
di trovarvi Grace.
Parcheggiò l’auto alla bell’e meglio sul
ciglio della strada, sperando di non beccarsi una multa, e nel
parcheggio dietro il Marina Hotel vide il fuoristrada della detective,
cosa che lo fece sospirare di sollievo. Camminò svelto,
zigzagando fra le auto della polizia e i laboratori ambulanti della
scientifica che si trovavano ancora sul posto dalla notte precedente,
mostrò il distintivo agli agenti che lo fermarono ad un
passo dall’area circoscritta dal nastro giallo e poi lo
oltrepassò passandoci sotto.
La vide all’inizio della passerella in mezzo alle due barche
che avevano fatto da sfondo all’assassinio di Doc Mahkah.
Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni e con la testa inclinata
leggermente verso sinistra guardava un po’ il cielo sereno e
un po’ l’oceano di fronte a lei che luccicava ai
raggi del sole, persa nei suoi mille ragionamenti.
C’era qualcosa di masochista nel voler tornare nel luogo in
cui aveva assistito ad un omicidio dopo così poco tempo, ma,
da quello che ne sapeva, Grace aveva sempre fatto così,
persino quando l’omicidio era stato quello di suo padre: era
tornata subito dopo, quando ormai la scena del crimine era quasi del
tutto pulita, e ci era rimasta per un bel po’, in silenzio a
pensare. (E non aveva cambiato ufficio quando aveva deciso di
continuare la sua attività).
Tornare nel luogo in cui una vita si era spenta era fonte di coraggio
per Grace, per quanto potesse sembrare assurdo, e l’aiutava a
pensare meglio a come riscattare quella stessa vita, spezzata
ingiustamente.
Si avvicinò con calma e una volta al suo fianco
seguì la traiettoria del suo sguardo, accennando un sorriso.
«Stai diventando prevedibile».
«Non ho bisogno di nascondermi, in questo momento»,
rispose Grace con voce pacata. «Mi cercavi?».
«Volevo solo accertarmi che stessi meglio».
La ragazza voltò il viso verso di lui e non ci fu bisogno di
parole. Dylan aprì le braccia e Grace vi si
rifugiò per un momento, accoccolata con la testa sotto il
suo mento.
«Ho visto Tom stamattina, all’aeroporto, e anche le
foto che i paparazzi vi hanno scattato ieri sera. Non è
tutto però! Pensa che ho avuto persino il piacere di
conoscere una fan esagitata che… ah, lasciamo perdere.
Comunque le foto erano davvero strepitose. O forse eri soltanto tu ad
esserlo».
Grace si scostò dall’abbraccio e lo
guardò di sbieco, ringraziandolo. Non le andava di parlare
con lui di quello che era successo con Tom quella sera, strano ma vero
se ne vergognava, anche se non era proprio quello il sentimento che
provava: era una specie di gelosia che la legava a quelle immagini,
quelle sensazioni, tanto che avrebbe preferito vivamente celarle dentro
di sé per il resto della sua vita.
«Come mai eri all’aeroporto?», gli
domandò per cambiare argomento, tornando a fissare
l’orizzonte con gli occhi socchiusi a causa del suo bagliore
accecante.
«Mi sorella è venuta a trovarmi da Washington,
D.C.».
«Dovresti stare con lei, invece di preoccuparti tanto per
me».
Dylan sorrise e si infilò le mani nelle tasche dei
pantaloni. «È questo che adoro della nostra
amicizia: possiamo anche litigare e mandarci all’inferno
continuamente, ma alla fine ci saremo sempre l’uno per
l’altra».
Fece una breve pausa, che Grace sfruttò per osservare il suo
profilo sereno: si era fatto la barba e rifinito il pizzetto, cose che
faceva solamente in rari casi, per esempio quando qualcuno fra
l’infinità dei suoi parenti gli faceva visita. O
quando sapeva che l’avrebbe incontrata. Quel pensiero la fece
sorridere.
«A proposito, volevo scusarmi per come mi sono comportato con
te per la questione di Bill. Ma ero così confuso, lo sono
ancora e…».
«Anche io ti devo delle scuse, Dylan. Quella volta ci sono
andata giù un po’ pesante, non avrei dovuto dirti
quelle cose sulla divisa e il fatto che fosse stretta per un
ga–».
Il poliziotto chiuse gli occhi e sollevò una mano per poi
sventolarla. «È acqua passata ormai. Ti chiedo
scusa anche per averti trattata così duramente quando
Crawford ti ha chiesto di raccontargli tutta la storia del caso che
avevi abbandonato. Non sarei dovuto accanirmi in quel modo contro di te
e tirare in mezzo tuo padre, mi dispiace tanto». La
fissò e la scoprì meditabonda, con la fronte
increspata. «Grace?».
«Ma davvero litighiamo così spesso?».
«Vedi? Te l’avevo detto!».
Si concessero una risata e poi si incamminarono verso le loro auto.
«Che hai intenzione di fare ora?», le
domandò Dylan una volta raggiunto il suo fuoristrada.
Grace si appoggiò ad una fiancata e tirò fuori
una sigaretta dal suo pacchetto malconcio, offrendone una al
poliziotto, che rifiutò con un cenno del capo.
«Hai dormito stanotte? Hai una pessima cera, non dovresti
fumare».
L’investigatrice scrollò le spalle.
«Avrò tempo per dormire, visto che Tom non
c’è». Gli rivolse un sorrisino e Dylan
schioccò la lingua al palato. Un punto per Grace.
«Comunque penso che andrò a fare un sopralluogo a
casa di mamma. Sono anni che non ci vado, ma non posso starmene ancora
con le mani in mano. Magari con un po’ di fortuna
riuscirò a capire che cosa cercavano».
«Se hai bisogno di una mano…».
«Lo so, grazie».
Neanche a metà sigaretta non ne sentì
più il gusto a causa di ciò che
l’aspettava quel pomeriggio e fu costretta a gettarla a
terra.
«Tu invece, che intenzioni hai?».
«Riguardo a cosa?», domandò Dylan,
mentre osservava il mozzicone di sigaretta che la ragazza aveva appena
schiacciato con una sneaker.
«Immagino che stamattina all’aeroporto tu non abbia
visto soltanto Tom».
Dylan sollevò la testa di scatto e la guardò
negli occhi: sembravano… dolci, sì. Comprensivi
come quelli di una mamma.
«Te l’ho letto in faccia che l’avevi
rivisto e che la cosa non ti ha lasciato indifferente. Dylan, io credo
che tu dovresti... provarci. Non solo a dare una chance a Bill, ma
anche a te stesso».
Rimase per qualche istante in silenzio, sfuggendo al suo sguardo, e gli
tornarono in mente lo sguardo di Bill che non aveva visto a causa degli
occhiali da sole firmati che portava sul viso, la sua voce distaccata e
le parole di Tom. Tra lui e Grace, non sapeva più chi ce la
stesse mettendo tutta per farlo sentire uno stupido. E Bill…
oh, Bill… Gli faceva così male saperlo triste
come gliel’avevano descritto le parole e gli occhi di Tom!
«Io… ci penserò», rispose
infine, seppure ancora incerto. «Ma non so se lui ci
sarà ancora».
Grace assottigliò le labbra per non fargli notare quanto
fosse a disagio di fronte a quelle sue incertezze; lo attirò
in un abbraccio e gli diede delle lievi pacche di conforto sulla
schiena.
***
Rivedere dopo
così tanto tempo Georg e Gustav, che li aspettavano
già sul set, gli aveva fatto capire quanto in
realtà gli fossero mancati. Peccato che il regista non aveva
voluto sentire ragioni e, sostenuto da David, li aveva messi subito al
lavoro.
«Avrete avuto tutto il tempo per parlare dopo le
riprese!», aveva detto, azzittendo qualsiasi loro protesta.
Il set era molto meglio di quanto potesse immaginare e dovette dare
ragione a Grace: in quell’ospedale in via di ristrutturazione
c’era un bel po’ di atmosfera, con tendoni di
cellophane ovunque, muri sventrati, scrostati, e impalcature.
Quel giorno si concentrarono sulle prove, durante le quali girarono un
paio di scene per il backstage e alcune per un nuovo episodio della TH
TV, e poi su un breve photoshoot.
Le ore erano volate e fra una cosa e l’altra, tra cui anche i
post sulla BTK App
per tenere sempre aggiornati gli Aliens
in fibrillazione per il loro ritorno sulla scena musicale, si era
completamente scordato di avvisare Grace del suo arrivo a New York. Una
volta in auto, diretti verso l’hotel in cui avrebbero
pernottato in quei quattro o cinque giorni, tirò fuori il
cellulare dalla tasca dei jeans e la chiamò.
Uno, due, tre squilli, poi scattò la segreteria telefonica.
«Rispetto a Los Angeles qui siamo tre ore avanti,
vero?», domandò Tom meditabondo, volgendosi verso
il fratello.
«Esatto», rispose il loro autista, lanciandogli un
sorriso attraverso lo specchietto retrovisore.
«Grace non mi risponde».
Bill sbuffò e guardò le luci che scorrevano
ipnotiche fuori dal finestrino. «Non avrà sentito
il cellulare».
Il gemello aprì la bocca per obbiettare, ma lui lo
precedette: «Non è detto che le debba essere per
forza successo qualcosa, perciò adesso rilassati».
Il chitarrista annuì, anche se non convinto, e
pensò che se era così preoccupato per la sua
incolumità in quel momento, non voleva nemmeno immaginare
quello che avrebbe provato quando sarebbero partiti per il tour e
sarebbero stati lontani da casa per mesi e mesi.
Giunsero al loro hotel a cinque stelle, il Crowne
Plaza a Times Square, e
decisero che si sarebbero incontrati tutti al bar poco prima di cena,
poi ognuno si rintanò nella propria camera.
Tom si lanciò sul letto, le palpebre così pesanti
che avrebbe voluto abbandonarsi al sonno. I suoi pensieri viaggiarono
di nuovo verso Grace e quando sfiorarono la sua figura
all’improvviso schizzò seduto sul materasso, col
cellulare fra le mani. Controllò sullo schermo: ancora non
aveva ricevuto una sua chiamata.
Rimase un po’ a chiedersi che fine avesse fatto, ma presto si
ricordò della chiavetta USB che la madre della ragazza gli
aveva dato.
Accese il suo PC portatile e la infilò in una delle varie
porte. Ciò che vi trovò dentro lo fece sorridere
addolcito: foto di lui e Grace prima del loro appuntamento, scattate da
Melanie, ma non solo, c’erano anche foto di Grace da
piccolina, immortalata in mille pose e con mille emozioni diverse
dipinte sul suo visetto punteggiato di efelidi ed accarezzato dai
capelli ancora lunghi fino alla schiena.
Grace che correva felice in un prato, che rideva
sull’altalena, che guardava fisso l’obbiettivo con
una lacrima che le scorreva su una guancia o che imbronciata gli dava
le spalle… Era bellissima già da bambina e
scorrendo quelle foto, ammaliato, pensò per la prima volta
in vita sua alla possibilità di diventare padre.
Arrossì sulle guance a quel pensiero, ma non negò
il fatto che avrebbe tanto desiderato creare una bambina con la stessa
bellezza della piccola Grace.
L’ultima foto dell’album che Melanie gli aveva
affidato fu quella che lo colpì più di tutte.
Ancora una volta la protagonista indiscussa era Grace, anche se insieme
a lei c’era un uomo che poteva essere soltanto suo padre.
Aveva i capelli neri come i suoi, gli occhi dello stesso verde
penetrante, anche se erano velati da un sottile strato di malinconia e
di fatica, come il suo viso, segnato dal tempo. Restava comunque un
uomo di bell’aspetto e tutto sommato giovane, dalle spalle
possenti e lo stesso sorriso che poteva definirsi solare quanto
fragile. Proprio come quello che si era abituato a vedere sulle labbra
di Grace. Tom capì che entrambi nella loro vita avevano
sofferto, e tanto.
Si abbandonò completamente allo schienale della poltrona
girevole, si portò le mani dietro la nuca e fissò
per diversi istanti lo schermo del PC, fino ad imparare ogni minimo
particolare di quell’immagine, a partire
dall’espressione di pura gioia presente sul viso di quella
bambina che ancora non conosceva il significato della parola
«sofferenza» e che avvolgeva il collo del suo
papà con un affetto visibile da chiunque.
Mentre ripensava alla sua Grace, quella che aveva conosciuto quando
sulle spalle aveva già il peso della sofferenza peggiore di
tutte – quella della perdita di una persona cara, –
un peso che era persino capace di togliere luminosità ai
suoi occhi, sentì il proprio cellulare suonare sul letto. Si
voltò per prenderlo e senza nemmeno guardare chi fosse
accettò la chiamata, rimanendo però in silenzio.
«Pronto? Tom, ci sei?».
«Per te, sempre».
Al silenzio proveniente dall’altra parte il chitarrista
capì di averla sorpresa ed accennò un sorriso.
«Beh, a questo punto dovresti dire qualcosa», la
incalzò dopo qualche secondo.
«Mi sono innamorata di un idiota».
Tom gettò la testa all’indietro e
scoppiò a ridere, contagiandola. «Puoi fare di
meglio, ne sono certo».
«Mi hai preso alla sprovvista, tutto qui».
«Spero di riuscire a farlo sempre».
«Che ti succede, Tom? Sei fin troppo sdolcinato».
Il chitarrista posò di nuovo lo sguardo sulla foto ancora
aperta sullo schermo del PC e sorrise.
«Niente, mi manchi», rispose, mentre portava la
freccetta sulla X rossa nell’angolo a destra.
Con un clic la foto si dissolse.
***
Era contenta che il set
gli fosse piaciuto e che le cose stessero andando bene, anche se
iniziava già a mancargli. Quella sera avrebbe proprio avuto
bisogno di un suo abbraccio, uno di quelli stretti, capace di farle
dimenticare tutto il resto.
«Tesoro…».
Grace sollevò gli occhi dalla tavola che stava
apparecchiando per due ed osservò sua madre ai fornelli,
girata di spalle.
«Posso sapere dove sei stata oggi? Mi sono davvero
preoccupata».
L’investigatrice sospirò e scosse il capo.
«Non avresti dovuto, lo sai. So badare a me stessa».
Aprì una delle ante sopra la cucina e tirò fuori
una confezione di pane, la aprì e ne tirò fuori
una fetta per iniziare a sbocconcellarla.
«Sono andata dove ieri hanno ucciso Doc Mahkah»,
rispose dopo qualche altro secondo di silenzio. «Ho visto
anche la camera dell’hotel in cui era appostato il cecchino,
ma non ho trovato nulla di più rispetto a quello che aveva
già trovato la scientifica. Poi sono andata a casa
tua».
Melanie si immobilizzò sul posto, compresa la mano che
teneva il mestolo di legno con cui stava mescolando il sugo in padella.
«Anche lì è stato un buco
nell’acqua. Non ti venivo a trovare da anni e non posso
sapere se quelli hanno preso qualcosa, puoi farlo solo tu. Prima o poi
dovrai tornarci…».
«Prima o poi lo farò»,
balbettò la madre, con tono nervoso. Aveva ancora troppa
paura, Grace lo capì al volo.
Si passò le mani sul viso, i gomiti poggiati bellamente sul
tavolo. «Tu sei proprio sicura di non sapere se volevano
qualcosa di più da te?».
«Io… io non lo so, Grace, non lo
so…».
«Ci deve pur essere un collegamento, non posso credere che ti
abbiano aggredita in quel modo con l’unico scopo di mettermi
paura. Eppure non vedo nemmeno quale collegamento potrebbe esserci:
avrebbero dovuto saperlo che tu e papà siete separati da
anni…».
Melanie si irrigidì di nuovo. «Tuo
padre…».
Grace sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene, ma si
alzò di scatto dalla sedia e raggiunse la madre,
afferrandola per un braccio. La donna la guardò con le
lacrime agli occhi.
«Qualche settimana prima di morire tuo padre è
venuto a trovarmi».
«Che cosa?!», gracchiò, il cuore che le
batteva a velocità folle nel petto.
«Credevo lo sapessi, l’avevo detto alla polizia
quando mi avevano interrogata. Sono passati così tanti anni,
non mi è mai venuto in mente prima
d’ora…».
Grace mollò bruscamente la presa sul suo braccio e si
portò le mani dietro il collo, ridotto ad un fascio di nervi
tesi. Camminò verso il salotto, le gambe rigide e allo
stesso tempo vogliose di correre via da tutta quella merda.
Sua madre la raggiunse poco dopo e la guardò con gli occhi
grandi e preoccupati.
«Grace, tesoro…».
«Lasciami, lasciami stare», berciò la
ragazza, alzando entrambe le mani strette a pugno, con il desiderio di
farle schiantare contro qualcosa o qualcuno.
«Mi dispiace, mi dispiace…».
«Mamma, smettila!», strillò, mentre il
suo viso si arrossava.
Strappò la giacca di pelle dall’appendiabiti, se
la infilò e corse alla porta. Sua madre provò a
fermarla, anche trattenendola con un abbraccio da dietro, ma la ragazza
si liberò e corse fuori dall’appartamento, per poi
fiondarsi giù dalle scale. Entrò nel suo
fuoristrada ed avviò il motore, premette
sull’acceleratore con rabbia e si allontanò dal
suo condominio.
Vagò per diversi isolati, senza una meta, prima di rendersi
conto che un’auto di grossa cilindrata la stava seguendo da
un pezzo. Strinse più forte il volante tra le mani e
sbuffò, al limite di un esaurimento nervoso.
Che giornata di merda.
Provò ad intravedere chi ci fosse alla guida, ma
l’interno dell’abitacolo era troppo buio.
Sbuffò e pestò il piede
sull’acceleratore con più forza, superando una
fila di auto in coda ad un semaforo rosso. Svoltò
bruscamente a destra, tanto che le gomme stridettero in un modo osceno
sull’asfalto, e una volta esaurita la serie di clacson
rivolta contro di lei si girò per vedere se la stessero
seguendo ancora. Purtroppo dovette riconoscere che il suo inseguitore
se la cavava, perché non era riuscita a seminarlo.
Mentre pensava alla prossima mossa da fare per levarselo dai piedi,
udì il colpo di uno sparo.
«Merda», biascicò, quando il parabrezza
posteriore esplose in mille pezzi di vetro.
«Okay, le cose si stanno mettendo male. Decisamente».
Sfrecciò accanto ad un teatro e sfruttò
quell’occasione per guardare il viso del proprio inseguitore
alla luce delle insegne al neon. Appena lo riconobbe sbiancò.
Un nuovo colpo di pistola la fece sobbalzare e il cellulare, che aveva
estratto dalla tasca dei jeans, rischiò di caderle. Alla
fine riuscì a selezionare il numero di Dylan dal registro
delle chiamate e premette il tasto verde.
«Rispondi cazzo, rispondi».
Un proiettile si schiantò contro il parabrezza di fronte a
lei, crepandolo dall’interno, e Grace si afflosciò
sul sedile per proteggersi meglio la testa.
«Pronto?».
«Con calma, eh! Qui mi stanno solo sparando
addosso!».
«Cosa?! Grace, che cosa cazzo…».
«C’è il nipote di Doc Mahkah che mi sta
inseguendo con l’auto e mi sta sparando addosso! Sono
fortunata che è sempre stato una sega con la pistola,
però non posso continuare così a lungo!
C’è anche la possibilità che qualche
civile…».
«Okay, avverto subito la centrale. Dove sei?».
«Lo sto portando dalle tue parti».
«Oh, fantastico. Lo dici tu a mia sorella?».
«Giuro che se ne esco illesa le manderò dei fiori
per ringraziarla. Ora muoviti!».
Grace gettò il cellulare sul sedile del passeggero e
sterzò a destra aumentando ancora la velocità,
sperando che il suo caro fuoristrada non l’abbandonasse
proprio in quel momento. Diede il meglio di sé per
seminarlo, ma Kenelm, il nipote di Doc Mahkah, conosceva ogni angolo di
Los Angeles ed era molto più bravo a guidare che a sparare.
Riuscì ad intrattenerlo ancora per un po’ e a non
farsi colpire in punti critici del fuoristrada, come ruote, specchietti
e parabrezza, poi per fortuna arrivarono i rinforzi: due volanti della
polizia, a sirene spiegate, comparvero dietro l’auto del suo
inseguitore e gli intimarono di fermarsi e di arrendersi, ma il nipote
di Doc Mahkah non sembrava intenzionato a fare nessuna delle due cose
e, anzi, messo alle strette decise di tentare il tutto per tutto,
accelerando ed affiancando l’auto di Grace.
L’investigatrice incontrò per un istante il suo
sguardo cieco di rabbia, poi vide la canna della pistola, il suo fondo
nero come la pece, ed ebbe davvero paura di morire.
Il suo istinto agì prima del suo cervello: premette il piede
sul freno e il suo fuoristrada inchiodò così
forte che temette di venire sbalzata fuori dall’auto, ma la
cintura la tenne stretta al sedile. L’auto del nipote di Doc
Mahkah andò avanti ancora per una decina di metri, incapace
di reagire a quella sorpresa, e venne subito raggiunta da una volante
della polizia, dalla quale un agente sparò un colpo. Grace,
irrigidita sul sedile, guardò l’auto del suo
inseguitore che sbandava e poi si schiantava in un negozio di fiori che
stava per chiudere, infrangendo la vetrina con un rumore sordo.
La detective rimase con lo sguardo fisso sui vasi e il banchetto di
fiori rovesciati all’esterno del negozio,
sull’acqua che scivolava sul marciapiede fino a sfociare
nella strada, poi si tolse la cintura con mani tremanti e scese dal
fuoristrada con le gambe rigide come manici di scopa per correre dal
nipote di Doc Mahkah.
Raggiunse l’auto accartocciata su se stessa e col parabrezza
sfondato e si chinò sul finestrino del guidatore,
guardò all’interno e vide un ragazzo di nemmeno
vent’anni che grondava sangue dal viso a causa di diversi
tagli e in modo più copioso dal collo, dove gli si era
conficcato un pezzo di vetro. Avvicinò una mano per fare
qualcosa, qualsiasi cosa per bloccare l’emorragia, ma si
ricordò in tempo che avrebbe potuto peggiorare soltanto le
cose, quindi stringendo i denti si costrinse ad osservarlo e a sperare
che l’ambulanza arrivasse presto.
«Andrà tutto bene, andrà tutto
bene», gli sussurrò più volte, con una
voce che non era la sua, così grave e nervosa.
Il ragazzo la guardò con gli occhi vacui, animati da una
piccola luce insita in fondo alle pupille nere, e provò a
dire qualcosa, ma gorgogliò come se fosse sul punto di
annegare nel suo stesso sangue, di cui un rivolo scarlatto gli
scivolò lungo il mento dall’angolo della bocca.
Grace distolse immediatamente lo sguardo, da perfetta vigliacca, e si
sollevò quando sentì le sirene
dell’ambulanza uggiolare in fondo alla strada. In quel
momento notò anche un’auto a lei familiare
fermarsi in mezzo alle due volanti della polizia. Si sentì
subito sollevata e al contempo priva di forze vedendo Dylan scendere,
sbattere la portiera chiudendola e correre verso l’auto
infilata nel negozio di fiori.
I loro sguardi si incrociarono e il poliziotto corse più
forte, fino a travolgerla in un abbraccio con cui le trasmise tutta la
potenza del suo corpo, che le fece male ma che fu l’unica
ancora di salvezza che in quel momento aveva a portata di mano, oltre
al pensiero di Tom che probabilmente, al sicuro nella sua camera
d’albergo a cinque stelle, stava già dormendo.
«Va tutto bene, è tutto finito», le
sussurrò con le labbra premute contro il suo orecchio,
mentre osservava il negozio distrutto e pensava che non era proprio il
caso di regalare a sua sorella un mazzo di fiori.
Grace lo ringraziò mentalmente, con gli occhi lucidi rivolti
verso il cielo scuro, perché era esattamente ciò
che avrebbe voluto sentirsi dire.
***
«Vai
a casa, non c’è bisogno che tu stia
qui». Dylan sospirò e le allontanò le
unghie dalla bocca. «Stanno facendo tutto il possibile per
lui».
Grace distolse lo sguardo di per sé distratto e si
infilò entrambe le mani in tasca.
«Tu perché sei ancora qui?», gli
domandò con tono piatto, anche se sapeva già la
risposta.
Dylan, per nulla sorpreso, sorrise. «Solo l’affetto
smisurato che nutro per una certa persona potrebbe trattenermi per ore
in ospedale solo per avere qualche informazione su un ragazzo che, per
quanto mi riguarda, avrebbe potuto benissimo…».
«Non dirlo, Dylan. Non dirlo, non lo pensi davvero».
Il poliziotto si appoggiò con aria arrendevole al muro alle
sue spalle. «Hai già chiamato Tom?».
Grace scosse lievemente il capo.
«Vuoi che lo faccia io?».
«Lascia stare. A quest’ora starà
già dormendo e so che si preoccuperebbe per niente,
impedendo a tutti di fare un lavoro decente per il nuovo video. Glielo
dirò quando non avrà altre cose più
importanti a cui pensare».
«Sei sicura che non si arrabbierà?», le
domandò il poliziotto.
Grace scrollò piano le spalle. Dylan non approvava, glielo
leggeva negli occhi, ma lei conosceva Tom quel tanto che bastava a
convincerla che quella fosse la scelta migliore. Per entrambi.
«Andiamo a casa, Grace», la pregò Dylan,
posandosi due dita sulle palpebre pesanti.
«Non riuscirei a dormire, tanto vale…».
«Perché allora non andiamo a bere
qualcosa?».
Grace lo guardò per qualche secondo e alla fine cedette.
«Okay, ma il primo giro lo offro io».
Anche quella sera aveva dimostrato che ci sarebbe sempre stato per lei,
ogni volta che ne avesse avuto bisogno, e in qualche patetico modo
doveva pur ricambiare.
__________________________________________
Buonasera! :D
Beh, è proprio vero che i guai non si stancano mai di dare
la caccia a Grace xD Ma andiamo con ordine u.u
Tom e Bill sono partiti per New York, dove gireranno il loro nuovo
video (tra l'altro video che ricorda vagamente quello di "Monster" dei
Paramore xD), e... attenzione, attenzione ai pensieri di Tom quando ha
guardato le foto all'interno della chiavetta USB che gli ha dato la
mamma di Grace! Inoltre ha anche visto il padre della detective, il
famoso Mitch Schneider :')
E adesso odiatemi pure, ma mi sono divertita un casino a scrivere di
Dylan e della fan pazza che ha dato della "poco di buono" a Grace xDD
La cosa più buffa è che ce ne sono di persone
così! E a me piace dipingere le cose in modo realistico u.u
(Quindi prendetela con auto-ironia, ragazze ;D)
A proposito di Dylan! Lui e Bill si sono incontrati di sfuggita
all'aeroporto! Voi che cosa ne pensate? Sono proprio curiosa di sapere
che cosa frulla nelle vostre testoline *-*
E ora veniamo alla parte più seria: Grace ci è
rimasta sotto per la morte di Doc Mahkah, ma questo non bastava,
perchè ci si è messo pure suo nipote a darle la
caccia. E poi, e poi... Melanie le ha confessato che suo padre era
andato a trovarla poche settimane prima di morire! Che sia uno
spiraglio di luce tra le tenebre? Staremo a vedere... Dovete solo
aspettare domenica prossima ;)
Ringrazio le anime pie che hanno commentato lo scorso capitolo - e a
questo proposito mi chiedo, vista la drastica diminuzione di
recensioni, se sto sbagliando qualcosa: sono troppo lunghi i capitoli,
la storia non vi piace più...? E' importante però
che lo si dica, altrimenti come faccio a migliorarmi e a venirvi
incontro? ;)
Ringrazio anche chi ha letto soltanto e chi ha messo questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate :)
Vi auguro uno straordinario 2013, ci vediamo il prossimo anno! xD Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 18 *** Capitolo 17 ***
Capitolo 17
Molly si
guardò per l’ennesima volta allo specchio,
chiedendosi se il suo abbigliamento fosse adeguato per il suo primo
giorno di scuola.
Sbuffò e si portò le mani nei capelli, coi nervi
a fior di pelle.
Come se non bastasse, ci si era messa pure Grace, quando la sera prima
le aveva detto che non poteva accompagnarla a scuola perché
il suo fuoristrada era ancora dal meccanico, oltre al fatto che quel
giorno sarebbero anche tornati Bill e Tom da New York e quindi sarebbe
dovuta andare all’aeroporto. E ora con chi avrebbe sfogato
tutte le sue ansie, le sue stupide paure?
Qualcuno bussò alla porta con mano leggera.
«Avanti», mugugnò Molly, voltandosi
subito verso lo specchio, attraverso il quale vide suo padre
affacciarsi alla sua camera e sorriderle.
«Tesoro, sei pronta?».
«Sì, quasi…».
«Bambina, farai tardi se continui a cambiarti i
vestiti».
«Non ti preoccupare papà, arriverò in
perfetto orario. L’autista è già
fuori?».
«In realtà no».
Molly si girò di scatto e lo guardò con gli occhi
sgranati. «E dov’è? Non starà
mica male, vero? Oh mio Dio, oh mio Dio, sarà un
disastro!».
Mr. Delafield si avvicinò. «Tesoro, tesoro
calmati». Le prese il viso fra le mani e le rivolse un
sorriso rassicurante. «L’autista non
c’è perché ti accompagno io a
scuola».
«C-Come?».
Il padre ridacchiò e le sistemò una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. «Forza,
sbrigati».
Molly non se lo fece ripetere due volte: afferrò la borsa
con tutti i libri necessari e lo seguì con passo rapido,
nonostante quasi non sopportasse il peso che si era caricata sulla
spalla destra. Non era decisamente abituata, di solito le cose gliele
portavano gli altri, ma quella volta non chiese aiuto a nessuno. Doveva
imparare a cavarsela da sola, d’ora in avanti. Era
l’unica cosa che aveva iniziato a capire.
Entrò nell’auto elegante di suo padre, seduta sul
sedile del passeggero, e sorrise tra sé. Erano
così rare le volte in cui stava seduta di fianco al
guidatore! Solo allora si rese conto di ciò che si era
sempre persa: la strada che scorreva sotto le ruote sembrava essere
inghiottita dall’auto, come se non ci fosse nulla di
più potente di lei.
«Bambina, lascia che ti dica una cosa», disse suo
padre ad un certo punto, senza schiodare gli occhi dal parabrezza.
«Mi dispiace non essermi accorto prima di ciò che
tu provavi in silenzio, dei tuoi desideri inespressi. La mia
è stata un’enorme mancanza, perché
dopotutto è quello che un genitore dovrebbe essere in grado
di fare. Permettimi di chiederti scusa».
Per quanto sorpresa e commossa dalle sue parole, trovò la
forza per dire con tono deciso: «Non ce
n’è bisogno papà, davvero».
«Voglio che d’ora in poi ci sia un rapporto
migliore fra noi, che la nostra sia una vera famiglia.
Quindi… non esitare, se un giorno ti servirà
aiuto: io ci sarò per te e farò del mio meglio
per darti qualche consiglio».
Molly annuì e guardò fuori dal finestrino,
chiedendosi perché suo padre le stesse dicendo tutto questo.
«Sono orgoglioso di te, bambina, e l’unica cosa che
posso ancora desiderare e pretendere da te è che tu sia
felice, che tu segua i tuoi sogni fino in fondo, senza mai voltarti
indietro né rimpiangere le scelte fatte, perché
ogni scelta fatta in buona fede non sarà mai sbagliata, te
lo assicuro. Sbagliare è umano, bambina, ma non devi mai
aver paura di rialzarti e di riparare al tuo errore, devi combattere
per ciò in cui credi, per ciò che
desideri».
«Papà, ma
perché…?».
Mr. Delafield fermò l’auto e si girò
verso di lei, con un sorriso dolce sulle labbra. «Un giorno
capirai il motivo per cui ti ho detto queste parole, capirai che il tuo
vecchio non era ancora impazzito del tutto».
Molly accennò un sorriso divertito e si sporse per baciarlo
sulla guancia. Quindi posò la mano sulla maniglia della
portiera e rimase a fissare il rosone dai vetri arancioni infossato nel
bel mezzo della facciata candida, sotto il nome della sua nuova scuola:
Notre Dame High School. Nel pronunciarlo in labiale un brivido le corse
su per la schiena.
«Vuoi che ti accompagni dentro?», le chiese suo
padre, distraendola.
«No, grazie», si sforzò per sorridergli.
«Penso di potercela fare».
«Va bene, allora… buona giornata,
tesoro».
«Anche a te, papà. Ciao».
Scese dall’auto e dopo aver scambiato con lui
un’ultima occhiata attraverso il finestrino, si
avviò verso le grandi porte vetrate.
Passò di fianco a molti altri studenti, che chiacchieravano
incuranti, e poté notare brevemente che alcuni indossavano
delle magliette con il nome della scuola stampato sopra, una cosa che
le fece un po’ ribrezzo. Non sollevò quasi mai lo
sguardo, per paura che qualcuno potesse chiederle qualcosa e dunque
farle fare brutta figura.
Appena fu dentro le mura scolastiche si sentì un
po’ meglio, come se avesse superato il fronte nemico, ma fu
solo un attimo: molti ragazzi e ragazze, radunati nello spazio
circolare in cui convergevano diversi corridoi stipati di armadietti,
puntarono gli occhi su di lei e le fecero desiderare di essersi messa
qualsiasi altra cosa presente nel suo armadio.
Rossa come un peperone si orientò verso la segreteria e una
volta di fronte al bancone laccato una donna corpulenta, sui
cinquant’anni, le rivolse un sorriso affettuoso, simile a
quello di sua zia. Molly si ritrovò a ricambiare senza
nemmeno accorgersene.
«Posso aiutarti, cara?».
«Sì, mi chiamo Molly Delafield, sono
nuova».
«Oh, ma certo! Il preside mi aveva informata, qui da qualche
parte dovrei avere il tuo materiale… Aspetta un
secondo».
Molly annuì e nell’attesa il suo sguardo
spaziò sulle pareti alle sue spalle: sulle bacheche erano
appesi diversi volantini con le attività extracurricolari e
quelle sportive. Venne così a scoprire che la Notre Dame
High School aveva un team di basket, uno di football, uno di baseball e
uno di pallavolo. Insomma, avrebbe dovuto abituarsi a vedere un sacco
di sportivi e a sentirsi una piccola imbranata a confronto.
C’era anche una banda musicale e appena ne lesse il nome ne
rimase sorpresa, perché era davvero una delle bande
più famose, tanto da aver fatto la sua comparsa in diverse
parate di importanza nazionale: la Irish
Knight Marching Band. Peccato
che lei non sapesse suonare nemmeno uno strumento.
La sua attenzione fu colpita allora da un altro volantino, intitolato
«The Knight»
e con due colonne di parole scritte in caratteri minuscoli, tanto che
dovette avvicinarsi per capire di che cosa si trattasse.
Riuscì a leggere solo le prime righe, perché la
signora della segreteria la chiamò, ma furono sufficienti
per farle intuire che doveva essere un articolo sul giornalino della
scuola, che aveva avuto chissà quale riconoscimento. Non
aveva mai avuto l’ambizione di diventare una giornalista,
però poteva essere l’unica opportunità
per ricevere qualche credito scolastico…
«Ecco qui», disse la donna, porgendole una serie di
fogli. «Questa è la piantina della scuola, su cui
sono indicate tutte le classi. Dovrebbe servire per non far perdere i
nuovi arrivati, ma non so come mai alla fine si perdono
sempre».
«Oh, ottimo», disse Molly, stiracchiando un sorriso.
«Non ti preoccupare, cara, troverò qualcuno che ti
possa accompagnare», le fece l’occhiolino.
«Quest’altro foglio è l’orario
delle tue lezioni. Dal prossimo semestre potrai anche decidere di
cambiare corsi o di seguirne degli altri».
«Benissimo. Questo invece che
cos’è?».
«Su quel foglietto c’è scritto il numero
del tuo armadietto e la combinazione numerica per aprirlo. Mi
raccomando, non perderla, è molto importante».
«Farò attenzione».
Si scambiarono un sorriso e proprio in quel momento la campanella
decretò l’inizio delle lezioni. Gli studenti si
affrettarono a raggiungere le loro aule e la signora
dall’altra parte del bancone alzò la testa per
cercare qualcuno disponibile ad aiutarla. Adocchiò una
ragazza, ma appena la riconobbe sospirò e mormorò
tra sé: «Speriamo sia di buon umore»,
poi la chiamò a gran voce. La ragazza si fermò e,
anche se un po’ scocciata, si avvicinò.
«Sheila, ti va di farmi un favore?».
La ragazza, dai capelli neri tagliati a caschetto e gli occhi blu,
sollevò un sopracciglio. «Ho come la sensazione
che dovrò farlo comunque, quindi…».
«Potresti accompagnare Molly in classe?». La donna
sbirciò sul foglio che la ragazzina teneva tra le mani.
«In prima ora ha… inglese».
«Uhm, d’accordo, anche io ho inglese. Da questa
parte».
Sheila si girò e Molly fu costretta a seguirla,
perché non le aveva dato nemmeno il tempo di ringraziarla e
aveva il presentimento che non le sarebbe importato se fosse rimasta
indietro.
«Ahm…», balbettò Molly, nel
tentativo di intavolare una specie di dialogo tra loro.
«Allora tu ti chiami Sheila, vero? Molto piacere, il mio nome
è Molly».
«Piacere», rispose Sheila, stringendole mollemente
la mano che le aveva offerto.
La bionda la fissò mentre camminava spedita verso la porta
già chiusa di un’aula e ci rimase male quando
Sheila quasi si dimenticò della sua presenza una volta
entrata nella classe. Molly, rimasta sola, incontrò i visi
di quelli che sarebbero stati i suoi nuovi compagni ed
arrossì.
«Scusi signorina, ma lei
è…?», domandò
l’uomo di mezza età seduto alla cattedra. Il
professore di inglese.
«Molly. Molly Delafield».
Un improvviso silenzio avvolse l’intera aula, facendola
irrigidire sul posto. Aveva detto qualcosa di sbagliato?
Il professore controllò l’elenco sul registro e
trovò il suo nome, aggiunto di sbieco su un lato.
«Oh sì, eccola qui, signorina Delafield. Si scelga
pure un posto».
Molly adocchiò un posto libero accanto ad una ragazza carina
e sorridente e fece per andarsi a sedere, sperando che dietro
quell’apparente normalità non si celasse una nuova
Sheila, quando il prof aggiunse: «Ah, benvenuta alla Notre
Dame High School».
Lo ringraziò con un lieve cenno del capo e un sorrisino e
finalmente raggiunse il suo banco. Si presentò alla sua
vicina, Breanne, trovandola normale come aveva sperato che fosse, e poi
ascoltò con attenzione l’appello per iniziare a
memorizzare e ad associare i nomi alle facce che da lì in
avanti avrebbe visto tutti i giorni.
«Sheila Young?».
Molly si voltò verso la sua accompagnatrice e la vide alzare
pigramente la mano.
«Signorina Sheila Young? È assente per
caso?».
Molly capì che il professore pretendeva che Sheila dicesse
«Presente», perché era certa che
l’avesse vista.
Un ragazzo dai riccioli biondi, seduto ad uno degli ultimi banchi dalla
parte opposta dell’aula si girò verso Sheila e la
guardò con un sogghigno che non piacque per nulla a Molly.
«Moody,
Moody
devi dire “Presente!”».
Molly si lasciò andare ad una smorfia, anche se la
curiosità per quel soprannome le pungolava lo stomaco, e
spostò lo sguardo su Sheila, che strinse i pugni e
all’ennesimo richiamo del professore sibilò:
«Presente».
«Ci voleva tanto, signorina? Un po’ di educazione,
per amor del cielo…», e continuò a
borbottare tra sé per un po’, fino a quando non
riprese a fare l’appello.
Molly incrociò lo sguardo del ragazzo dai riccioli biondi e
lui ammiccò. Ancora non sapeva che quello sarebbe stato solo
il primo dei tanti tentativi di Nigel Hall di risultarle simpatico,
anzi… attraente.
***
Seduti
nell’auto di Dylan, lui e Grace fumavano una sigaretta, la
mano che usavano per tenerla tra le dita fuori dai finestrini.
«Non ci posso credere, non gli hai detto nulla per ben cinque
giorni. Tu sei matta, matta».
La detective osservò l’amico poliziotto. Si
preoccupava più lui di lei e, chissà, forse
faceva bene.
«Tu pensa alle tue
gatte da pelare, ché delle mie mi occupo io».
«Ti riferisci a Bill?», domandò Dylan,
mentre lo stomaco gli si annodava all’altezza del petto.
Grace aspirò una boccata di fumo ed annuì, poi
gettò il mozzicone fuori dal finestrino.
«Bill… non è semplicemente una gatta da
pelare, è molto di più. Rappresenta una scelta
che, anche se non l’ho ancora presa, mi ha già
cambiato radicalmente la vita, che io lo voglia oppure no. Ti ho
raccontato che non ho mai avuto la forza di confidarmi con
Oswin?».
«No».
Dylan posò lo sguardo nel suo e le rivolse un sorriso
impacciato. «Sì, è più grave
di quello che pensavi, se non sono riuscito a parlarne nemmeno con il
mio partner, il mio migliore amico. Sai quante volte ci siamo salvati
la pelle a vicenda, no? Quante volte ho avuto paura di perderlo durante
una sparatoria… Beh, la volta in cui ho avuto in assoluto
più paura è stata quando volevo confidarmi con
lui e ho cercato di immaginare la sua reazione. E non ce l’ho
fatta».
L’investigatrice sospirò stancamente, gli occhi
colmi di solidarietà, e gli passò una mano sulla
nuca. Non ci fu bisogno di parole, i loro occhi e i loro gesti
parlarono da sé.
«Il loro aereo sta per atterrare»,
mormorò prima di accennare un sorriso e scendere
dall’auto.
Dylan la raggiunse sul marciapiede e camminò al suo fianco
sino all’entrata del Los Angeles International Airport,
cercando di trovare dentro di sé il coraggio per uscire
dalla situazione di stallo in cui si trovava da quel maledetto giorno
in cui aveva detto chiaramente a Bill che non avrebbero potuto essere
nient’altro che amici.
Enorme, caotico, il più trafficato del mondo, addirittura
labirintico per chi non era del posto, ma Grace adorava
l’aeroporto di Los Angeles. Le piacevano il Theme Building,
la sua forma di disco volante atterrato sulle quattro zampe; le luci
colorate che di notte lo rendevano davvero simile ad una navicella
spaziale pronta a partire per altre galassie; il ristorante sospeso nel
vuoto da cui si poteva godere la vista di tutto l’aeroporto.
Ma la cosa che le piaceva più di tutte era osservare i mille
visi diversi di tutti i turisti, gli uomini d’affari, le
hostess e gli steward che incontrava lungo la sua strada. Era come
entrare in un piccolo mondo, in cui vi erano mescolate tutte le etnie e
le culture immaginabili.
All’improvviso notò un viso a lei molto familiare,
che le fece battere in modo strano il cuore nel petto, mentre un
sorriso si allargava sul suo viso, illuminandolo.
Il ragazzo, colpito dalla stessa malattia fulminante,
aumentò il passo, quasi si mise a correre per raggiungerla
più in fretta, e quando fu a pochi centimetri da lei non
seppe come manifestare la sua gioia. Le era mancata così
tanto! Si gettò una rapida occhiata intorno e, non vedendo
nessuno munito di macchina fotografica, le prese il volto fra le mani e
la baciò appassionatamente sulle labbra.
Grace si aggrappò a lui, allacciando le braccia intorno al
suo collo, e ricambiò il bacio con impazienza, mossa da una
voglia vorace di lui.
Quando si scostarono l’uno dall’altra, dopo un
ultimo bacio morbido, si guardarono negli occhi e trattennero una
risata.
«Era da cinque giorni che volevo farlo, insieme ad un paio di
altre cose…», disse Tom, cingendole la vita.
«Ah sì? Dopo me le spieghi, le altre
cose…».
«Mi offenderei, se non me le lasciassi spiegare».
«Mi sei mancato, sai?».
Tom arrossì impercettibilmente sulle guance e per non
rimanerci troppo sotto rispose: «Mi pare ovvio!».
Grace gli pizzicò il braccio, anche se aveva letto nei suoi
occhi tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dirle. Si
voltò verso Bill e lo vide qualche passo indietro, con lo
sguardo fisso di fronte a sé, proprio dove
c’era… Spostò di poco lo sguardo e vide
Dylan nella stessa identica situazione, anche se lui ad un certo punto
si morse nervosamente il labbro inferiore ed abbassò il
viso.
«Ehi, che ci fai tu qui?», domandò Tom,
accorgendosi solo allora della presenza del poliziotto.
«Mi ha accompagnata qui», rispose frettolosamente
Grace, per poi andare da Bill a salutarlo a dovere, con un bacio sulla
guancia e tutto quello che riuscì a venirle in mente pur di
distrarlo. Aveva avuto come la sensazione che se non lo avesse fatto
sarebbe crollato, in qualche modo.
«In che senso?», chiese ancora Tom, inarcando le
sopracciglia.
La detective prese il cantante per un braccio e il chitarrista per
l’altro, rimproverando quest’ultimo mentre si
avviavano verso l’uscita: «Quante domande, Tom! Su
forza, andiamo».
Giunti all’auto, i gemelli si fermarono un passo indietro
rispetto a Grace e Dylan, che avevano già aperto portiera e
bagagliaio.
«Che fine ha fatto il tuo fuoristrada?»,
tornò all’attacco Tom, sempre più
sospettoso.
Grace sospirò. «È momentaneamente dal
meccanico».
«Te l’avevo detto che era un catorcio, che prima o
poi avrebbe ceduto!».
«Già, hai proprio ragione», rispose
Grace facendo fatica a stirare un sorriso.
Tom la osservò per qualche secondo, già seduta
sul sedile posteriore, poi spostò lo sguardo su Dylan,
attirato dal suo comportamento: aveva scosso il capo con fare
sconsolato e aveva sospirato.
Lo raggiunse, trascinando la sua valigia, e gli chiese: «Che
cos’ha Grace?».
«Assolutamente niente».
«Certo. Mi sta nascondendo qualcosa, non è
vero?».
Dylan lo fissò negli occhi, gli rubò il manico
della valigia dalla mano e con una rapida mossa, come se lo facesse per
mestiere, la infilò nel portabagagli.
«Grazie dell’aiuto, come al solito»,
bofonchiò il chitarrista, lasciando il posto a suo fratello
Bill, silenzioso e più cauto che mai.
Non ci voleva un genio per capire che la presenza di Dylan lo metteva a
disagio. Per quale motivo Grace gli aveva fatto questo?
«Lascia, faccio io», disse Dylan con tono gentile,
senza però sporgersi per prendere il bagaglio del frontman.
Bill lo tirò su da solo, ignorando il suo aiuto, ma proprio
quando stava per farcela il sudore che aveva sulle mani glielo fece
scivolare via e Dylan dovette intervenire perché non cadesse
a terra. Le loro mani inavvertitamente si sfiorarono ed entrambi
arrossirono, anche se non osarono guardarsi in viso.
«Grazie», mormorò Bill, prima di
scappare a rintanarsi accanto a Grace, rubando il posto al gemello, che
a quel punto si trovò seduto sul sedile del passeggero,
accanto a Dylan.
Uno strano silenzio li avvolse per i primi dieci minuti di viaggio,
fino a quando Tom non riuscì più a resistere e
dopo essersi schiarito la voce si rivolse a Grace:
«Cos’hai detto che è successo al tuo
fuoristrada?».
«Non l’ho detto», rispose lei.
Il chitarrista si voltò, irritato. «È
un segreto di stato o posso saperlo?».
Dylan ebbe paura che Grace potesse tirare fuori la sua Glock e
sparargli un colpo in fronte.
«Te lo dico dopo, tanto non c’è fretta.
Piuttosto, raccontatemi tutto! Alla fine il video è venuto
bene?».
Il poliziotto, sollevato, si lasciò andare un sorriso. Gli
interni della sua auto erano salvi.
«Sì, siamo soddisfatti», rispose Bill.
Erano le prime parole che diceva con voce sicura e per questo
alzò gli occhi, cercando quelli di Dylan, a conferma dei
suoi timori. E, in effetti, erano lì, riflessi sullo
specchietto retrovisore, che lo osservavano.
Dylan parcheggiò di fronte al giardino sul retro di Villa
Kaulitz e scese dall’auto per aiutare i gemelli a scaricare i
loro bagagli.
Camminò accanto a Grace fino alla veranda, dove Tom si
fermò a cercare le chiavi nelle tasche dei jeans, e in quel
breve momento tornò con la mente alla sera della festa in
onore del ritorno a casa del chitarrista; a quella stessa veranda
illuminata, colma di puff e cuscini, dove lui e Bill avevano parlato.
Il poliziotto sollevò gli occhi sulla figura alta e snella
del cantante e scorse nel suo sguardo una luce meno intensa, come se
fosse stata affievolita dal velo dei ricordi. Chissà se
anche lui stesse pensando proprio a quel
ricordo.
Tom finalmente trovò le chiavi e Grace gli concesse un
applauso: ancora un po’ e avrebbero fatto la muffa!
Bill entrò in casa dopo il gemello, senza rivolgere nemmeno
uno sguardo né a Dylan né a Grace, e i due si
guardarono con occhi dispiaciuti. Forse la detective aveva fatto una
cosa davvero sbagliata, aveva davvero fatto soffrire Bill chiedendo
aiuto a Dylan… Mai, mai avrebbe pensato che la situazione
fosse così grave fra loro due: non si erano detti nemmeno
una parola!
«Che fate voi due, restate fuori?»,
domandò Tom, sporgendosi oltre la porta finestra, sul viso
un’espressione un po’ incuriosita.
«No… lo stavo salutando», disse Grace,
dopo un fugace sguardo d’intesa con il poliziotto.
«Ah. Pensavo ti fermassi qui a pranzo».
Dylan, come la stessa Grace, sgranò un poco gli occhi: Tom
era impazzito o che cosa?
«No, io devo… Ho un mucchio di scartoffie sulla
scrivania e non vorrei disturbare, ecco. E poi sarete stanchi,
vorrete…».
Il chitarrista si lasciò scappare un sorriso sornione.
«Quello stanco, a guardarti in faccia, sei tu. E poi non dai
alcun disturbo, vero Bill?!».
Il silenzio proveniente dall’interno della villa fece
vacillare il chitarrista, che per non mostrare la smorfia che si
impadronì della sua bocca si passò una mano sul
naso.
«No, certo che no».
La sorpresa di sentire quelle parole, uscite dalle labbra di Bill, fu
generale. Tom fu il primo a riprendersi e sorrise radioso, fissando gli
occhi in quelli di Dylan e dicendo: «Bene, allora ti sei
convinto a restare?».
«O-okay, va bene…».
«Fantastico! Ci sarà da divertirsi!».
Dylan guardò l’investigatrice con un bagliore di
preoccupazione negli occhi. Lei stiracchiò un sorriso
nervoso, senza sapere che dire per rassicurarlo, ed entrò in
casa. Il poliziotto rimase ancora qualche secondo sulla soglia, quindi
respirò profondamente e si decise a varcarla e a chiudersi
la porta vetrata alle spalle.
***
Le ore di lezione
trascorsero più o meno velocemente, forse perché
aveva ascoltato poco o niente di ciò che avevano spiegato i
professori, troppo affascinata dal nuovo ambiente che la circondava,
compresi i suoi compagni di classe.
Non avrebbe mai immaginato che la scuola sarebbe stata così
divertente!
Aveva già fatto amicizia con un paio di ragazze, su cui
aveva fatto immediatamente colpo – da quanto avevano detto
loro – mentre l’unica persona che avrebbe voluto
conoscere un po’ meglio, spinta da un’attrazione
irrazionale, continuava a non prestarle attenzione, del tutto
indifferente alle persone che le stavano intorno e con quel suo viso
teso ed arrabbiato. Forse se l’era presa per il comportamento
di Nigel di quella mattina… Lo stesso Nigel che in mensa la
invitò a sedersi al suo tavolo.
Molly si guardò intorno, un po’ spaesata con il
suo vassoio fra le mani, e vide Sheila seduta da sola ad un tavolo in
giardino.
«Allora, vieni o no?!», domandò Nigel
con tono impaziente, anche se sul viso aveva stampato il suo solito
sorrisino strafottente.
Molly raggiunse il tavolo del ragazzo strisciando un po’ i
piedi a terra, non del tutto convinta di ciò che stava
facendo: aveva come un peso nel petto, che le impediva di sentirsi a
posto con la coscienza.
«Per chi non la conoscesse, lei è Molly Delafield.
Questo è il suo primo giorno, quindi vediamo di farla
sentire a suo agio!», esclamò lui, per poi farle
l’occhiolino.
Dai loro discorsi, e in parte dal loro abbigliamento, si accorse presto
che tutti i ragazzi e le ragazze seduti intorno a quel tavolo erano
degli sportivi, cosa che non la fece sentire affatto a suo agio. Lei
non sarebbe stata buona nemmeno per fare la mascotte!
Ad un certo punto voltò il capo e gettò uno
sguardo al tavolo di Sheila, al quale si era seduto un ragazzo dai
capelli neri e lunghi, con gli occhiali rotondi che gli cadevano spesso
sulla punta del naso. Per un attimo i loro sguardi si incontrarono e
Molly, colta in flagrante a fissarli, arrossì e si
girò di scatto.
«Ehi Molly, hai impegni questo sabato?», le
domandò Nigel, scostandosi dalla fronte dei riccioli
ribelli.
Per la prima volta la ragazza ebbe la certezza che ci stesse provando
con lei e la cosa la fece vergognare, anche se avrebbe dovuto essere
felice di aver attirato l’attenzione di uno dei ragazzi che,
pur essendo solo al primo anno, era già nel club dei
più popolari della scuola.
«Ehm… no, non penso di averne», rispose
titubante.
«Perfetto! Allora verrai sicuramente a vedermi
giocare!». Le scoccò un sorriso seducente e si
alzò in piedi, tenendo il suo vassoio vuoto fra le mani.
«Alle dieci in punto, mi raccomando».
Molly annuì con un cenno del capo e lo guardò
rientrare nella struttura scolastica dopo aver abbandonato il vassoio
sopra quello di un altro ragazzo del primo anno; questo lo
fissò con odio, ma alla fine fece finta di nulla e lo mise a
posto assieme al suo.
Quando la pausa pranzo finì e furono tutti costretti a
rientrare per le ultime due ore di lezione, Molly controllò
sul suo foglio e scoprì che l’aspettavano due ore
di matematica. Presa com’era a controllare la cartina per
capire dove fosse l’aula in cui doveva andare,
andò a sbattere contro il braccio di un ragazzo alto almeno
due spanne in più di lei, la pelle dello stesso colore dei
chicchi di caffè e gli occhi simili a due pozzi scuri e
tristi, dietro i quali si celava però un guizzo di
luminosità.
«Scusami, non l’ho fatto apposta»,
balbettò imbarazzata, ancora impressionata dai muscoli che,
nello scontro, aveva sentito sotto la maglietta del ragazzo.
Grazie ad un sorriso, seppur appena accennato, i suoi denti parvero
brillare in contrasto con la sua pelle scura. «Non
c’è problema».
La biondina lo guardò andare via e, rendendosi conto che non
c’era quasi più nessuno in corridoio e rischiava
di arrivare davvero in ritardo, urlò:
«Ehi!».
Il ragazzo si girò e la guardò con un
sopracciglio sollevato. Lentamente, leggendo l’imbarazzo sul
suo viso, diventato rosso come un peperone, si sciolse in un sorrisino.
La raggiunse con un paio di lunghi passi, sbirciò il foglio
che teneva tra le mani e la prese per un gomito, trascinandosela dietro.
«Tu devi essere quella nuova», esordì.
«Da cosa l’hai capito?». Entrambi
ridacchiarono.
«Succedono così poche cose interessanti qui che
ogni cosa può diventare l’argomento del giorno e
fare il giro di tutta la scuola».
«Oh, fantastico».
«È una cosa che odio, questa. Ma penso che ti
abituerai presto, nonostante il tuo cognome sia Delafield».
Molly lo fissò e liberò il gomito dalla sua
stretta, mettendosi sulla difensiva. «Che cosa vuoi dire? E
poi… come fai a sapere il mio cognome?».
Il ragazzo scosse il capo, un sorriso amaro steso sulle labbra.
«Te l’ho detto, sei l’argomento del
giorno. E poi molti ragazzi qui hanno genitori che lavorano nello
stesso ambiente di tuo padre, anzi… direi che ne sono alle
dipendenze. Per questo sei un ancora di più sulla bocca di
tutti».
La ragazza rimase a riflettere su quelle parole per un po’,
mentre ascoltava il riecheggiare dei loro passi sul pavimento lucido
del corridoio.
Pensò al silenzio che aveva seguito il suo cognome quella
mattina, alle ragazze su cui aveva fatto subito colpo, a Nigel che la
invitava al tavolo dei ragazzi popolari… Era tutto a causa
di suo padre?
«Mi dispiace avertelo fatto capire in questo modo, ma
è così che va da queste parti», disse
il ragazzo, sconsolato.
«È successo anche a te con tuo padre?»,
domandò Molly, guardando dritto di fronte a sé,
con le parole del suo caro papà che le riempivano di nuovo
la mente.
Il ragazzo esitò qualche secondo, poi mormorò:
«Qualcosa del genere».
Molly alzò di scatto il capo, preoccupata di aver detto
qualcosa di sbagliato, ma il ragazzo le indicò la porta di
fronte a loro.
«Quella è la tua classe. Faresti meglio a
sbrigarti, la lezione è già iniziata».
Detto questo si girò ed iniziò a percorrere il
corridoio in senso inverso, senza nemmeno salutarla.
«Grazie!», esclamò Molly. Lui non si
voltò, alzò semplicemente la mano.
Era già con la mano sul pomello, quando cambiò
idea e disse ancora: «Comunque io sono Molly!».
Il ragazzo allora si fermò, volse il capo verso la sua
direzione ed accennò un sorriso, il più dolce che
gli avesse visto fare.
«Aiden», si presentò,
dopodiché si voltò definitivamente e scomparve
alla sua vista.
Aiden. Se lo
ripeté nella testa diverse volte, giungendo alla conclusione
che fosse un nome bellissimo.
Molly entrò in classe con un sorriso ebete sulle labbra,
chiedendo scusa al professore di matematica per il ritardo. Grazie al
fatto che era il suo primo giorno riuscì a scamparla,
peccato che i posti fossero già tutti occupati e fu
costretta a sedersi lontana dalle ragazze che già conosceva,
trovandosi di fianco al ragazzo che aveva visto a mensa con Sheila.
Imbarazzata pensò di ignorarlo, ma ad un certo punto fu
costretta a ricambiare il suo sguardo insistente.
Il ragazzo, con un gesto automatico, si tirò su gli occhiali
che gli erano scivolati sul naso e gettò uno sguardo al prof
voltato di spalle che scriveva un’espressione alla lavagna,
poi bisbigliò: «Bentley Simmons, piacere di
conoscerti».
Molly tentennò un paio di secondi prima di stringere la mano
che le aveva offerto, mentre ripensava a ciò che aveva
appena realizzato, ossia che alcune persone si erano avvicinate a lei
solo a causa del suo cognome, del conto in banca e
dell’importanza di suo padre.
«Molly Delafield, piacere mio».
Il ragazzo, quello che sembrava in tutto e per tutto il tipico nerd
della scuola che aveva visto in diverse fiction per adolescenti, le
rivolse un sorriso che la costrinse a ricredersi: aveva dei denti
perfetti – niente apparecchio – e quando sorrideva
il suo viso si illuminava, rendendolo bello e pulito. Molly
pensò subito che se si fosse tagliato capelli e si fosse
tolto gli occhiali sarebbe stato davvero un ragazzo su cui avrebbe
fatto volentieri un pensierino.
«So che è il tuo primo giorno. Come ti sei trovata
fino ad adesso? Prima ho visto che eri seduta con Nigel e i suoi
amici». Nel pronunciare il nome di Nigel il suo viso si era
accartocciato in una smorfia: non doveva nutrire molta simpatia verso
di loro.
Molly si strinse un po’ nelle spalle e si
afflosciò sulla sedia. «È presto per
dirlo. Devo ancora inquadrare le persone che mi stanno attorno e capire
di chi fidarmi e di chi no».
«Saggia decisione».
«Grazie, Bentley».
«Chiamami pure Ben».
«Okay».
Passarono alcuni minuti in silenzio, a copiare quelli che secondo Molly
non potevano essere altro che geroglifici e che, al contrario, Ben
scriveva rapidamente sul suo quaderno. Ad un certo punto
proseguì addirittura da solo, senza attendere la spiegazione
del professore, facendo rimanere Molly a bocca aperta. Non
c’erano dubbi, era proprio portato per quella materia.
Quando finì controllò sul libro che il risultato
coincidesse, poi si voltò verso la ragazza e
sussurrò: «Stamattina hai conosciuto Sheila,
allora».
Un lampo di preoccupazione le illuminò gli occhi azzurri.
«Non ti preoccupare, non voglio sapere che cosa ne pensi di
lei; sarebbe anche stupido, perché non la conosci per
niente. Però, ecco…»,
sospirò e scosse il capo, come rassegnato. «Lascia
perdere».
«No, continua per favore. Sai, mi piacerebbe conoscerla
meglio, ma oggi sembrava di pessimo umore e
allora…».
Ben levò di scatto gli occhi castani e leggermente a
mandorla su di lei, più luminosi che mai, ed abbassando
ancora di più la voce esclamò:
«Davvero?».
Molly annuì col capo e contemporaneamente scosse le spalle,
ricambiando il sorriso.
«Se davvero vuoi conoscerla meglio devi essere paziente,
molto paziente, ma vedrai che ne varrà la pena. Sheila
è una ragazza fantastica».
Sorrise, intenerita, e dentro di sé promise che avrebbe
seguito il suo consiglio.
«Spero solo che tu non abbia già avuto
l’onore di sentire delle brutte voci sul suo
conto», disse Ben, mordicchiandosi nervosamente il labbro.
Molly pensò al nomignolo con il quale Nigel si era rivolto a
lei quella mattina e sorrise a Bentley: «Anche se fosse, io
non bado molto alle voci di corridoio».
Il ragazzo la fissò con gli occhi grandi e il suo sorriso si
allargò ancora di più. Posò il gomito
sul banco e si tenne il viso con la mano, poi sospirò e
disse con voce sognante: «Oh, dove sei stata per tutto questo
tempo?».
Molly ricambiò il suo sguardo, senza sapere bene come
prendere quelle parole, ma alla fine si sciolsero entrambi in una
risatina.
Quando finalmente le lezioni finirono, Ben e Molly uscirono
dall’aula quasi per ultimi e la ragazza, vedendo Nigel che
correva con dei suoi amici verso gli armadietti, si ricordò
all’improvviso del suo invito.
«Ben».
Il ragazzo si girò verso di lei e la guardò con
cipiglio perplesso. «Qualcosa non va?».
«Nigel mi ha invitato a vederlo giocare, questo sabato. Credo
però che abbia dato per scontato che io sappia quale sia lo
sport che pratica».
Bentley roteò gli occhi al cielo, sbuffando.
«Tipico di lui: crede di essere sempre al centro
dell’universo! Comunque gioca nella squadra di baseball della
scuola».
«Oh».
«Non ti piace il baseball?».
«Non particolarmente. Vuoi venire con me?».
Ben scoppiò in una fragorosa risata, tirando la testa
indietro. «Oh no, tesoro! Io ho di meglio da fare! Comunque
potresti chiederlo a Sheila», sorrise, «lei
è un’appassionata».
Molly annuì e finalmente uscirono dalla scuola. Alzando lo
sguardo sul cielo limpido e il sole che rendeva tutto più
brillante si disse che come primo giorno di scuola non era stato
malaccio.
***
Non pensava che
invitare Dylan a pranzo avrebbe portato all’imbarazzante
silenzio che aveva accompagnato quasi tutto il tempo che avevano
passato seduti intorno al piccolo tavolo della cucina – un
proseguimento del piano da lavoro. Per non parlare poi della tensione
che si poteva tagliare a fette! Ma per quanto riguardava
quest’ultima, Tom era certo, se lo sentiva, che fosse causata
anche dallo strano comportamento di Grace: gli stava nascondendo
qualcosa e non vedeva l’ora di essere solo con lei per
metterle un po’ di pressione e farla confessare.
Quello che avrebbe voluto, ciò che aveva sperato facendo
rimanere il poliziotto, era che lui e il suo fratellino si chiarissero
o almeno tornassero ad avere un rapporto civile. Se n’era
accorto benissimo che Bill soffriva a causa sua, che non avrebbe mai
voluto allontanarlo da sé così tanto, ma non
aveva potuto fare altrimenti: si vergognava per quello che aveva
provato nei suoi confronti, del suo comportamento da ragazzino senza
difese quando Dylan gli aveva chiesto se sarebbero rimasti amici come
prima.
Amici come prima. Certo, come no!
Ogni tanto aveva provato ad intavolare una conversazione, ma
l’unica che gli aveva dato retta, che voleva scacciare via
quel silenzio, era stata Grace. Dopo un paio di tentativi finiti male
però anche lei si era arresa ed era stata taciturna come
Bill e Dylan i quali, seduti l’uno di fronte
all’altro, non avevano mai aperto bocca né
sollevato gli occhi dal loro piatto.
«Okay, credo di aver…», il poliziotto si
bloccò bruscamente, trovandosi gli sguardi di Tom e Grace
addosso. Non quello di Bill.
«È meglio che me ne vada», concluse
stancamente. Sistemò le forchette nel piatto ancora mezzo
pieno e si alzò dallo sgabello, facendolo strisciare sul
pavimento.
«Grazie ancora per il pranzo», disse lanciando un
cenno del capo in direzione del chitarrista, il quale riuscì
soltanto a balbettare: «Sei sicuro di…?»
prima di essere interrotto da un’espressione afflitta di
Dylan. Tom ne fu duramente colpito, sembrava che volesse dirgli di
smettere di sparare contro chi si era già arreso.
Lo guardò uscire dalle porte vetrate, diretto verso
l’auto parcheggiata oltre il giardino sul retro, e
all’improvviso con la coda dell’occhio vide Bill
alzarsi e corrergli dietro.
«Ma che…?», biascicò e fece
per alzarsi a sua volta, ma Grace lo precedette e gli
afferrò la mano, tenendola ferma sul tavolo.
«Lasciali soli. È quello che volevi,
no?».
Tom la fissò negli occhi intensamente e vi lesse che per
nessuna ragione al mondo lo avrebbe lasciato andare a disturbarli, non
proprio ora che Bill sembrava deciso a chiudere, in un modo o
nell’altro, quella storia. Ovviamente non ci sarebbe andato,
ma decise di sfruttare quell’occasione per ottenere
ciò che desiderava sapere.
«Solo se tu mi dici che cosa diavolo mi stai
nascondendo».
Grace lo guardò come se fosse un pericoloso pregiudicato e
Tom deglutì, tentando di nascondere la sensazione di essere
appena stato scoperto a bluffare.
«Sei un pessimo ricattatore, lasciatelo dire»,
disse la detective, lasciandosi andare ad un sorrisino. Si
alzò dallo sgabello e si sistemò la maglietta
lungo i fianchi, poi indicò il salotto con un rapido cenno
della testa. «Ma ti accontenterò, visto che ci
tieni tanto».
Tom annuì e sospirò lievemente, seguendola e non
potendo fare a meno di guardarle il sedere.
Si sedettero su uno dei divanetti in pelle nera a due posti nel secondo
salotto, quello sotto il soppalco nonché quello
più appartato.
Grace posò i piedi, avvolti dalle calze grigie, sul tavolino
basso e rimase in silenzio per qualche secondo, giusto il tempo di
riordinare le idee; poi iniziò: «Il mio
fuoristrada ha rischiato di finire da uno sfasciacarrozze, ma per
fortuna Dylan ha chiamato un suo amico meccanico che mi ha proposto un
prezzo ragionevole per cambiare il parabrezza anteriore e quello
posteriore, crepati o addirittura infranti, il fanalino posteriore
rotto e sistemare la fiancata sinistra sverniciata ed
ammaccata…».
«Mio Dio, ma che cosa diavolo gli è
successo?». Aveva gli occhi sgranati, increduli.
«No, non dirmelo: hai fatto un incidente e non mi hai detto
niente! Come hai potuto?!».
Grace si morse un sorrisino e scosse il capo, fissandosi le dita dei
piedi. «Non ho fatto un incidente, Tom. Ti ricordi di Doc
Mahkah, vero? Beh, suo nipote ha cercato di farmi fuori».
Approfittando del suo silenzio, provocato dallo shock e dalla rabbia
che lentamente gli stava bruciando le vene fino a raggiungergli il
cervello, gli raccontò che era successo la sera dello stesso
giorno in cui lui era partito, poco dopo la loro chiacchierata a
telefono; che era uscita di casa per sbollire il nervosismo provocato
dalla scoperta tardiva che suo padre aveva visto sua madre poco prima
di morire e che appena si era messa al volante si era accorta
dell’auto che la inseguiva, fino a scoprire che
c’era proprio Kenelm alla guida, desideroso di vendicare la
morte di suo zio. Gli disse anche che alla fine l’aveva
scampata e che il ragazzo era finito in ospedale dopo essersi
schiantato contro la vetrina di un negozio di fiori, rischiando di
morire dissanguato.
Stava per concludere dicendo che le sue condizioni si erano
stabilizzate, ma Tom, rosso in viso, non glielo permise, urlando:
«Ma che cosa cazzo ti è passato per la testa?!
Perché non mi hai chiamato subito, hai rischiato la
vita!».
Grace lo osservò e con estrema calma nella voce rispose:
«Sì, è vero, ma non è
successo».
«Che cazzo vuol dire?! Questo non ti autorizzava a non
informarmi!». Tom digrignò i denti e si
alzò di scatto dal divano, si strinse le braccia al petto, i
pugni serrati e le nocche bianche.
«Non volevo che ti preoccupassi per niente e che ti rovinassi
la visita di New York, è una città davvero
fantastica. Inoltre questo avrebbe influito negativamente sul tuo
lavoro: non avresti dato il massimo e il video non sarebbe venuto bene
come mi hai raccontato, entusiasta».
Il chitarrista rimase in silenzio e non diede segno di volerla degnare
di uno sguardo.
Grace si alzò e si mise alle sue spalle, posandogli
delicatamente le mani sui fianchi ed adagiando le labbra sulla sua
scapola. Quindi mormorò: «Sbaglio, Tom?».
Lui aprì la bocca per risponderle, ma in quel momento Bill
entrò trafelato nel soggiorno, facendo scorrere la porta
vetrata solo quel tanto che bastava per farlo passare. Fugacemente
incontrò gli sguardi del fratello gemello e della detective,
ma senza dare loro il tempo di dire nulla corse su per le scale e
sparì oltre il soppalco.
Tom si liberò della debole stretta di Grace e lo
seguì, privandola di una risposta e lasciandola sola in
salotto, dal quale si spostò quasi subito per andare in
veranda, bisognosa di una sigaretta.
Vide Dylan correre verso la sua auto, entrarvi e sgommare
sull’acciottolato, alzando un gran polverone.
Aspirò avidamente le prime boccate di fumo, mentre un
pensiero le faceva storcere le labbra in un sorrisino: sembrava che
quel giorno tutti preferissero scappare, invece di affrontare i
problemi. Lei compresa.
***
Con le spalle contro la
porta della sua camera da letto, sentì i passi pesanti di
suo fratello Tom sulle scale. Probabilmente lo stava raggiungendo per
chiedergli che cosa fosse successo e non voleva, non voleva proprio
parlarne, anche perché… Dio, come glielo avrebbe
detto? «Non è successo niente, Tom, Dylan mi ha
soltanto baciato». Così, glielo avrebbe detto così?
Lo sentì avvicinarsi, poi i suoi passi si arrestarono
proprio fuori dalla sua porta.
Bill si lasciò cadere sulla poltroncina lì
accanto e chiuse gli occhi, posandosi una mano sulla fronte. Gli
scivolò sul profilo del naso, arrivò alle labbra
e le sfiorò con le dita, sentendo su di esse ancora quelle
del poliziotto, il loro sapore inqualificabile.
«Dylan,
aspetta!».
Il poliziotto si voltò con un’espressione stupita
dipinta sul viso. Bill avrebbe voluto concedersi un sorriso,
perché era davvero dolce così frastornato.
Peccato che non ci sarebbe riuscito, sapendo che in parte era colpa
sua, del suo comportamento distaccato.
Non sapeva perché non aveva fatto storie quando Tom aveva
proposto a Dylan di restare a pranzo, ma lentamente ci era arrivato,
durante il silenzio che li aveva avvolti mentre mangiavano: non poteva
impedirsi di essere ancora attratto da lui e in qualche modo aveva
concesso al suo cuore un piccolo sollievo, dando il suo consenso.
Il perché invece gli fosse corso dietro quando
l’aveva visto alzarsi in quel modo da tavola, consapevole che
ancora una volta fosse sua la colpa, gli era ancora un po’
sfocato nella mente, ma non doveva allontanarsi molto dalle precedenti
supposizioni.
«Bill, non ce n’è bisogno, davvero. Ho
capito benissimo», disse Dylan ad un tratto, con un sorriso
affranto.
«Cosa, cosa hai capito?».
Il poliziotto scrollò lievemente le spalle.
«Sarebbe meglio che non ci trovassimo più negli
stessi posti, lo vedi che cosa succede ogni volta».
Il cantante ridacchiò e scosse il capo. «Non hai
capito proprio niente, come immaginavo». Fissò gli
occhi castani nei suoi più scuri e disse: «Volevo
dirti che mi dispiace».
«Scusa, che hai detto?».
«Mi dispiace per come mi sono comportato le ultime volte in
cui ci siamo visti e per prima. Sono stato proprio come un bambino,
così infantile… Ma il fatto è che non
ce la faccio, non riesco a comportarmi da amico con te, come se non
fosse successo nulla. E poi… non posso mentire a me stesso,
dirmi che tu non mi piaci, perché…
perché tu mi piaci, Dylan, e adesso mi troverai
così cocciuto ed egocentrico, ma non riesco ad accettare che
tu mi abbia liquidato con una frase così stupida e che io ti
abbia pure dato retta! Insomma, sapevo benissimo che non sarebbe stato
possibile per me, per come sono fatto, ma… non so cosa
pensavo di fare, se volevo dimostrare a me stesso di essere forte, di
riuscire a passarci sopra e a dimenticarti… Il fatto
è che non lo sono, non lo sarò
mai…».
Nel suo campo visivo, all’improvviso, comparvero anche le
scarpe di Dylan e alzò di scatto il capo, rendendosi conto
che il poliziotto si era avvicinato e in quel momento gli stava davanti
e gli sorrideva debolmente, gli occhi più luminosi del
solito. Li aveva visti brillare in quel modo solo per Grace e questo lo
fece arrossire, senza contare la pochissima distanza che
c’era fra i loro visi.
«La finisci di parlare?», gli sussurrò.
Bill annuì rapidamente con la testa e il sorriso di Dylan si
addolcì. Si avvicinò e, anche se un po’
titubante, posò le labbra sulle sue, sfiorandogli la
mandibola con il pollice.
Fu un semplice bacio a stampo, ma non affatto innocuo; non per le
terminazioni nervose e il cuore di Bill, almeno, che impazzirono e lo
fecero sentire come se qualcuno gli avesse appena appiccato un fuoco
dall’interno.
Del tutto istintivamente si scostò ed incrociò
gli occhi di Dylan, sorpreso e scombussolato quanto lui.
Il poliziotto boccheggiò, forse alla ricerca di qualche
parola che non trovò; Bill fece un passo indietro e si
voltò per rifugiarsi all’interno del salotto.
Incontrò subito gli sguardi di suo fratello gemello e di
Grace e capì che doveva essere successo qualcosa anche tra
loro, vista l’espressione cupa di Tom; ciononostante non si
fermò ad indagare molto, corse verso le scale e
salì al piano superiore.
«Maledizione», biascicò Tom oltre la sua
porta, facendolo tornare in sé.
Bill si alzò dalla poltrona e posò
l’orecchio sul legno per capire cosa stesse facendo, poi
aprì piano la porta e sbirciò in corridoio: aveva
già raggiunto la sua camera e si apprestava a chiudercisi
dentro con un tonfo sordo.
Si chiese se non fosse il caso di andare da lui a confortarlo, ma alla
fine scosse il capo e si sdraiò sul letto, gli occhi puntati
sul soffitto. Era troppo agitato anche solo per pensare di occuparsi di
problemi non suoi. Con un sorrisino sulle labbra pensò che
probabilmente Tom era giunto alla stessa conclusione.
***
«Tesoro,
torni a casa per cena?».
Grace sospirò e continuò a fare zapping, il
cellulare incastrato tra l’orecchio e la spalla.
«Non lo so proprio, mamma. Il problema è che non
saprei come tornare: Dylan è andato via, Bill è
chiuso in camera sua ed è meglio non
disturbarlo…».
«Perché non lo chiedi a Tom? Mi piacerebbe molto
averlo a cena stasera! Così mi racconta
com’è andata a New York!».
«Mmm… meglio di no, non è
serata».
«Avete litigato, non è così?».
Nonostante gli anni che avevano passato lontane, sua madre riusciva
sempre a capire cosa le passasse per la testa, cosa la preoccupasse o
cosa la rendesse felice. Si domandò se quello fosse un
superpotere di tutte le mamme del mondo oppure un’esclusiva
che possedeva solo la sua.
Il giorno dopo che il nipote di Doc Mahkah l’aveva quasi
fatta fuori, si era svegliata e l’aveva trovata seduta al suo
fianco, che le accarezzava dolcemente i capelli. Si erano chieste scusa
a vicenda per ciò che era successo e tutto si era risolto,
senza ulteriori complicazioni – anche perché Grace
non le avrebbe sopportate, non ancora, non altre.
«Per favore, tesoro, fate pace».
La detective si lasciò scappare una risata: si preoccupava
più sua madre di lei, sicura che il tempo di sbollire la
rabbia e Tom ci avrebbe messo una pietra sopra.
«Rilassati, mamma. Non è nulla di grave».
«Se lo dici tu… Allora io cucino lo stesso anche
per te e ti lascio tutto nel microonde, così almeno se
torni…».
«Va bene, grazie».
Una volta chiusa la chiamata, pensò di chiamare Dylan, ma
poi ci rinunciò: quando avrebbe voluto parlarne lo avrebbe
fatto, era inutile mettergli pressione, soprattutto se il suo
comportamento era legato a Bill, un argomento così delicato.
Allora le venne in mente Molly, a cui aveva scritto la sera precedente
per avvisarla che non l’avrebbe accompagnata a scuola. Il suo
primo giorno di scuola superiore, in una scuola vera! Oh, doveva
assolutamente sapere come se l’era cavata.
Dopo due soli squilli, la ragazzina milionaria che le aveva fatto
conoscere Bill e Tom rispose: «Pronto?».
«Ehi Molly, sono io».
«Oh, Grace, ciao! Distratta com’ero, non ho
guardato chi fosse sul display. Tutto bene?».
«Diciamo di sì».
«Hai litigato con Tom? Accidenti, è appena
tornato!».
Grace sgranò un po’ gli occhi, stupefatta. Forse
non era sua madre ad avere i superpoteri, erano lei e Tom quelli fin
troppo prevedibili.
«Beh… Parlami di te, piuttosto! Ho chiamato per
sapere com’era andato il tuo primo giorno di
scuola!».
Molly rimase in silenzio per qualche secondo, come se ci stesse
pensando su. «Molto… travolgente, credo sia
l’aggettivo giusto».
«In che senso?».
«La scuola è bella, anche se è quasi un
labirinto. I professori mi sono sembrati piuttosto accettabili, noiosi
come me li immaginavo. Ho già conosciuto un paio di ragazzi
e di ragazze, ma non mi sbottono troppo: li conosco troppo poco per
dare loro delle valutazioni».
«Molly, ma alle persone non si danno le
valutazioni… non si smette mai di conoscere chi ti sta
attorno».
«A proposito di questo, tu che sei del mestiere, se volessi
trovare rapidamente delle informazioni su alcuni miei compagni di
classe dove dovrei andare secondo te?».
Grace, spiazzata, boccheggiò per qualche istante. Poi disse:
«Molly, non credo che…».
«Oh su, non voglio sapere vita, morte e miracoli! Pensavo di
andare a cercare sul sito della scuola, è una buona
idea?».
«Ahm… sì, certo».
«Perfetto, grazie Grace. Adesso devo scappare, ci sentiamo
presto!», schioccò un bacio
all’apparecchio e la comunicazione si interruppe bruscamente,
lasciando la detective con un palmo di naso.
Guardò il proprio cellulare nella mano e scosse lentamente
il capo, incredula. Lentamente però un sorriso le
incurvò le labbra all’insù: anche lei
alla sua età si era divertita ad indagare sulle vite dei
suoi compagni, almeno fino a quando suo padre non l’aveva
scoperta e le aveva spiegato che si traeva più soddisfazione
dallo scegliere i propri amici imparando a conoscerli col tempo.
«A cosa stai pensando?».
Grace si passò una mano sulla guancia e la posò
sulla bocca, appoggiandosi allo schienale del divano con il gomito. I
suoi occhi ridenti e lucidi bastavano, non era necessario che vedesse
quel sorriso incerto e tremante che le compariva ogni volta che pensava
a suo padre.
Bill finì di scendere le scale e si sedette pigramente
accanto a lei, rubandole il telecomando di mano.
«Ho chiamato Molly», rispose infine, quando sul suo
viso non vi fu più alcuna traccia di malinconia.
«Le ho chiesto del suo primo giorno di scuola».
«Oh, giusto! Com’è andata,
cos’ha detto?».
«In realtà non mi ha raccontato molto, ma credo
che si sia già ambientata piuttosto bene».
«Sono contento per lei». Accennò un
sorriso e scrollò le spalle. «Io ho sempre odiato
andare a scuola».
Grace fissò il suo profilo e le parve sereno, fin troppo.
Capì che era solo una facciata, costruita solo come il
cantante nonché leader dei Tokio Hotel sapeva fare.
La voglia di sapere che cosa fosse successo tra lui e Dylan era tanta,
ma quello che l’aveva fermata prima di chiamare il suo amico
poliziotto la fermò anche quella volta: non voleva che
pensasse che lo stesse forzando a parlare.
Gli posò una mano sulla spalla e sorrise incoraggiante,
lasciandolo un po’ sbigottito. Quindi si alzò dal
divano e si stiracchiò la schiena, tirando le braccia sopra
la testa.
«Tom ha intenzione di rimanere chiuso in camera sua ancora
per molto?».
Bill alzò le mani, come se davvero non sapesse come
funzionava la testa del suo gemello. Grace lasciò perdere e
salì le scale lentamente, senza fretta. Camminò
lungo il corridoio e raggiunse la porta della camera del chitarrista,
alla quale bussò con le nocche.
«Tom, lo so che sei lì dentro,
rispondimi». Non ricevette alcuna risposta e si
appoggiò con la spalla allo stipite, sbuffando leggermente.
«Sei così tanto arrabbiato con me, tanto da non
rivolgermi nemmeno la parola? Vuoi che ti chieda scusa? Pensavo solo di
fare la cosa migliore per te, non volevo che qualcosa ti turbasse e ti
rovinasse il soggiorno newyorkese. Insomma, l’ho fatto per te
e se ho fatto male okay, posso anche dire che mi dispiace,
ma… Tom, per favore, è inutile che ti comporti in
questo modo».
Stanca di parlare con una porta, prese la maniglia ed abbassandola si
rese conto che era aperta. Sbirciò all’interno e
vide Tom steso a pancia in giù sul letto, con le braccia
sotto il cuscino e la schiena nuda.
Roteò gli occhi al cielo e si portò una mano alla
fronte, dicendosi che aveva parlato da sola – si era pure
scusata! – per niente. Allo stesso modo però
sorrise addolcita e salì sul letto a quattro zampe. Si
accoccolò al suo fianco e gli accarezzò il viso
con la punta delle dita.
Tom provò in tutti i modi a reprimere il sorrisino beffardo
che gli si disegnò sulle labbra, ma non ci riuscì
e Grace gli tirò uno schiaffetto sulla spalla.
«Sei un idiota, ecco cosa sei!».
La intrappolò in un abbraccio, impedendole di saltare
giù dal letto com’era sua intenzione, ed
aspettò che si calmasse un po’ e tornasse a
sdraiarsi sul letto prima di sussurrarle all’orecchio:
«Come mai ci hai messo così tanto?».
«Come? Pensavo che volessi stare un po’ solo a
sbollire la rabbia».
«Okay, ma due ore sono un po’ troppe per sbollire
la rabbia! Già dopo una non sapevo più cosa
fare!».
Grace lo fissò con sguardo tagliente. «Aspettavi
che venissi io, che ti facessi le mie scuse?! Sei
davvero…».
«Cosa?», mormorò suadente,
accarezzandole le labbra.
«Ne parliamo dopo», soffiò la ragazza
prima di cingergli il collo con le braccia e baciarlo con trasporto.
_______________________________
Buonasera
gente! :)
Allora, questo è il primo vero capitolo in cui vediamo Molly
in azione! E' emozionante :') Il suo primo giorno di scuola
è stato davvero "travolgente" e chissà che cos'ha
in mente di fare, dicendo che vuole sapere qualcosa di più
dei suoi compagni... Intanto abbiamo conosciuto un po' Sheila, Ben,
Nigel e dulcis in fundo Aiden. Che ve ne pare?
Nel frattempo, Bill e Tom sono tornati a Los Angeles e ad aspettarli
non c'era solo Grace, ma anche Dylan! Rimasto a pranzo dai Kaulitz e...
avete capito bene, ragazze *^* Ebbene sì, lui e Bill si sono
baciati. E ora che succederà? Sono dannatamente curiosa di
sapere che ne pensate xD
E per quanto riguarda Grace e Tom? Lei gli ha finalmente confessato
ciò che le è capitato con Kenelm e lui non l'ha
presa benissimo... almeno fino ad un certo punto! xD Che ci possiamo
fare, il mio Tom immaginario è fatto così u.u
Aspetto di leggere le vostre recensioni, se ce ne saranno, e ringrazio
di cuore coloro che ne hanno scritta una allo scorso capitolo! Grazie
mille :3
Un grazie va anche a chi ha letto soltanto e messo questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate!
A domenica prossima, un bacio! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 19 *** Capitolo 18 - Parte 1 ***
Capitolo
18 – Parte 1
“I
wanna break down
You don't understand the damage you've done now
Let me remind you that boys don't cry
Isn't it clear that I need treatment?”
(Treatment
– Labrinth)
Entrò nella
centrale di polizia con un bicchiere di caffè super forte
fra le mani, pronto a trascorrere sveglio l’ennesima nottata.
Odiava i turni di notte, ma quella volta era contento di mettersi a
lavorare, nonostante gli toccassero un bel po’ di scartoffie:
almeno non si sarebbe girato e rigirato nel letto senza riuscire a
prendere sonno e non avrebbe pensato alla cazzata che non era proprio
riuscito a non fare. Perché sì, era stato
più forte di lui, un istinto che aveva schiacciato quella
poca razionalità presente nella sua testa, che da ore
continuava ad urlargli contro improperi orribili, facendolo sentire
addirittura più merda di quanto non si sentisse
già di suo.
Era arrivato presto, tanto che quando Oswin spalancò la
doppia porta e lo vide esclamò: «Cristo, Dylan!
L’unica volta che sei arrivato in anticipo al lavoro
è stata quando sei stato a letto con Grace, quindi devo
presumere che sia successo qualcosa della stessa importanza!».
Si lasciò cadere sulla sua sedia girevole e posò
i piedi incrociati sull’angolo della scrivania, posando lo
sguardo su di lui, in attesa che si confidasse.
«Dopo andiamo ad allenarci un po’?».
La richiesta spiazzò Oswin, il quale tirò
giù i piedi con un tonfo e scivolò accanto al
partner con la sedia.
«Tu vuoi andare in palestra a notte fonda? Dio mio, che ti
è capitato?».
Dylan evitò il suo sguardo e continuò a stendere
il verbale che aveva iniziato, proprio come se non l’avesse
sentito.
«Okay, è più grave di quello che
pensavo», disse Oswin, più a se stesso che al
partner.
Si allontanò e, di nuovo alla sua scrivania, posò
le braccia sul ripiano, indeciso se imitarlo o meno a sfoltire un
po’ il plico di scartoffie che aveva nel proprio
portadocumenti. Alla fine non resistette e si voltò di nuovo
verso l’amico.
«Ci hai provato con Grace, il suo ragazzo ha assistito e ve
le siete date di santa ragione? Però tu non hai neanche un
segno, vuol dire che ci hai messo poco a metterlo al
–».
«Grace non c’entra un cazzo», lo
interruppe bruscamente, lasciandolo di stucco. Fece cadere la penna
sulla scrivania e fissò gli occhi scuri ed arrossati in
quelli di Oswin. «Non ho mai voluto riconquistarla, non sono
più innamorato di lei da un pezzo. Il motivo vero per cui mi
comporto in modo strano da un paio di settimane a questa parte
è che Bill, il fratello gemello di Tom, che è il
fidanzato di Grace, mi ha detto di essere attratto da me. Tutto
normale, diresti, se la cosa si chiudesse qui! Ma no, no! Il fatto
è che anche io mi sono accorto di essere attratto da lui! E
oggi sai cos’è successo? L’ho baciato!
Meraviglioso, no?».
Oswin, scioccato, boccheggiò. Poi, senza dire nemmeno una
parola, iniziò a lavorare alle sue scartoffie, il viso fin
troppo vicino ai fogli su cui scriveva con tratti nervosi.
Dylan, ancora un po’ affannato per tutte le parole che aveva
lasciato traboccare in modo incontrollato, sentì un
sorrisino maligno impadronirsi del suo viso.
Sì,
è così che ci si comporta. Bravo, Oswin.
Avrebbe
sputato a terra schifato, se solo avesse potuto. Allora
tornò al suo verbale, ma prima sollevò lo sguardo
sugli altri suoi colleghi, seduti alle scrivanie, che avevano sentito
tutto. Li guardò negli occhi uno per uno, senza tirarsi
indietro, e provò una malsana soddisfazione quando si
accorse che tutti, nessuno escluso, abbassavano la testa per primi.
***
Il tramonto era
già passato da un po’, la tipica sfumatura rosea
aveva lasciato spazio ad un violetto che preannunciava
l’arrivo della luna in cielo, e nella stanza era calata una
piacevole oscurità.
Seduto a gambe incrociate sul letto, accarezzò con la punta
delle dita la schiena nuda di Grace, disegnando cerchi immaginari sulla
sua pelle che in pochi attimi si ricoprì di brividi. Le
lenzuola le si erano arrotolate intorno alla vita, lasciandola in gran
parte scoperta.
«Abbiamo lasciato Bill giù da solo»,
disse la detective, sospirando.
Tom fece l’ultimo tiro e poi spense la sigaretta nel
portacenere sul suo comodino, lasciando il mozzicone accartocciato su
se stesso. Soffiò la boccata di fumo verso il soffitto e
disse: «Anche se gli fossimo rimasti accanto non avrebbe
parlato comunque di quello che è successo con
Dylan».
Grace si sistemò meglio il cuscino sotto la testa e
lasciò che Tom le spostasse una ciocca di capelli neri
dietro l’orecchio.
«Secondo te cos’è successo?»,
gli chiese abbassando di un tono la voce.
Il chitarrista si strinse un po’ nelle spalle. «Non
riesco nemmeno ad immaginarlo. Mi fa ancora uno strano effetto pensare
a Bill… con un ragazzo, ecco».
La detective si tirò su seduta al suo fianco, portandosi le
lenzuola fin sotto le ascelle, e posò il mento sulla sua
spalla per accarezzargli la guancia con alcuni bacetti.
«Spero solo che le cose si risolvano una volta per tutte:
è da troppo tempo che non vedo Bill sorridere
veramente».
«Sì, l’ho notato anche io. E posso
assicurarti, che tu ci creda o no, che per Dylan è la stessa
cosa. Sono settimane che è inquieto, sempre in conflitto con
se stesso… immagina il suo shock quando ha capito di
ricambiare i sentimenti di Bill, lui che è sempre stato
attratto dalle belle ragazze…».
Tom voltò il viso verso il suo, a pochissimi centimetri di
distanza. «Ti stai vantando di essere una bella
ragazza?».
Grace ricambiò il suo sguardo e lentamente un sorriso
malizioso si fece spazio sulle sue labbra, subito catturate da quelle
di Tom, che le baciarono e le stuzzicarono con piccoli morsi.
«Non lo sono, per caso?».
«Oh sì, lo sei eccome»,
mormorò, infilandole anche una mano fra i capelli.
«Allora Dylan ha buon gusto. E bisogna essere davvero ciechi,
per non accorgersi che anche lui è davvero un
–».
«Shhh, non osare dire queste cose nel mio letto».
La detective ridacchiò e salì sulle sue gambe, le
mani di Tom strette saldamente sui suoi fianchi. Gli
accarezzò la bocca con un dito e bisbigliò:
«Cos’è, dubiti delle tue
capacità?».
«Perché, diresti davvero che Dylan è
più bravo di me a letto?».
«Beh, obiettivamente…»,
cantilenò Grace con gli occhi rivolti verso il soffitto, ma
lui la interruppe.
«Sai come mi chiamavano, ai tempi d’oro? Lo sai,
come?».
«Sexgott,
sì, lo so, ma l’hai detto anche tu, ai
tempi d’oro…
io ancora non c’ero», gli sussurrò
all’orecchio.
«Ah è così? Se facessi uscire il
diciassettenne che è in me una volta finito non riusciresti
nemmeno ad alzarti».
Grace rise di cuore, avvolgendogli le braccia intorno al collo. Quindi
posò la fronte contro la sua, occhi negli occhi.
«Peccato per Dylan, ma mi sono innamorata proprio di te e,
ahimè, l’amore è
cieco…».
«Adesso mi hai stancato!». La fece cadere sul letto
e Grace, che non ebbe tempo di difendersi, scoppiò a ridere.
«No, ti prego, il solletico no, Tom!».
«Così impari a prendermi in giro!».
Dopo molte risate, caddero entrambi sul letto, stremati e col fiatone,
i volti arrossati.
«Quanto sei idiota», esalò Grace,
tirandogli un manrovescio sul petto ed asciugandosi gli occhi con
l’altra mano.
Sentirono il rumore di un motorino che si avvicinava e dopo qualche
minuto il suono del campanello al piano di sotto.
«Fantastico, Bill ha ordinato la pizza!»,
esultò Tom, alzandosi in piedi di scatto ed iniziando a
rivestirsi.
Grace rimase ad osservarlo, poi scosse il capo e sorrise. Ah,
uomini!
Una volta vestita anche lei, scesero insieme al piano inferiore e
videro Bill pagare il ragazzo della pizzeria. Tom andò
subito in cucina a sbirciare dentro ogni cartone.
«È inutile, Tom. Sono tutte uguali!»,
disse Bill quando ebbe chiuso la porta di casa.
«Come sono?», domandò incuriosita Grace,
mentre con rapidi movimenti delle mani si rifaceva la coda sulla nuca.
«Alle verdure grigliate», rispose Tom.
Grace sorrise. «Uhm, poteva andare peggio».
Affamata com’era poi, avrebbe mangiato davvero di tutto!
Si piazzarono tutti e tre sul divano, davanti allo schermo piatto della
televisione. Trovarono un film carino, anche se già
iniziato, ed esso fu la scusa perfetta per non intavolare nessuna
conversazione, anche se i motivi erano ben altri: Bill non era
particolarmente loquace a causa di quello che era accaduto con Dylan,
Grace avrebbe tanto voluto chiedergli di confidarsi ma non osava, e Tom
semplicemente sapeva come stavano le cose, conosceva fin troppo bene il
suo gemello ed accettava il silenzio di buon grado, concentrato sulla
sua pizza.
Praticamente trascorsero tutta la serata in quel modo, dato che dopo
aver finito di cenare e di guardare il film si salutarono ed ognuno si
rintanò nella sua camera. L’unico momento in cui
si poteva dire che avessero avuto modo di parlare normalmente fu quando
Tom si ricordò del nuovo caso a cui Grace gli aveva detto di
star lavorando.
«Hai un nuovo caso?», domandò Bill,
incuriosito. «Spero non si tratti di qualcosa di
pericoloso».
Grace guardò Tom di sfuggita e rispose: «No, non
dovrebbe essere pericoloso. Un uomo mi ha semplicemente chiesto di
tenergli d’occhio la moglie – crede che lo stia
tradendo – e nel caso di portargli qualche prova».
«Oh, che cosa triste ingaggiare un detective privato per cose
come queste…».
«Già».
«Odio, odio non avere il mio fuoristrada»,
bofonchiò Grace, sfilandosi la maglietta e prendendo al volo
quella che Tom le lanciò. Era enorme, una di quelle che Tom
si era sempre messo fino a qualche anno prima, e su di lei aveva lo
stesso aspetto di una camicia da notte.
Quando anche Tom finì di cambiarsi (ovvero di indossare solo
un paio di pantaloncini), la raggiunse sul letto e la strinse in un
abbraccio, facendole posare il capo sulla sua spalla.
«Mi dispiace per quello che è successo, devi
esserti spaventata», le disse e le accarezzò la
fronte con le labbra.
Grace nascose il collo fra le spalle. «Il bello è
che io volevo bene a Doc Mahkah, eravamo amici, e mi ha davvero fatto
male vedere con quanto impegno Kenelm voleva vendicarlo, dando a me
tutta la colpa. Ma forse ha ragione, se io non l’avessi quasi
costretto ad incontrarmi probabilmente sarebbe ancora
vivo…».
«Shhh», le posò un dito sulle labbra e
la guardò negli occhi. «Tu non hai nessuna colpa,
Grace, nessuna. E non hai diritto di replica».
Grace si morse un debole sorriso e strinse un po’ di
più Tom a sé, mentre sentiva il sonno sotto le
palpebre allungarsi come un’ombra su tutto il suo corpo.
«Adesso come sta il ragazzo?».
«Sono andata a trovarlo un paio di giorni fa e le sue
condizioni erano stabili, anche se ha rischiato parecchio: quando ha
fatto l’incidente un vetro gli ha quasi reciso la
carotide».
«E gli hai parlato?».
«No, ancora no… non penso ci sia molto da dire,
comunque. Aveva i suoi motivi e lo rispetto».
«Ti ha quasi ucciso e lo rispetti?!».
Grace lo guardò negli occhi, seriamente. «Forse il
modo in cui voleva ottenere giustizia per suo zio non è
corretto, ma sai… non è facile. A volte mi chiedo
che cosa farei io se mi trovassi di fronte alla persona che ha ucciso a
sangue freddo mio padre e… non lo so, non lo so se la
ripagherei con la stessa moneta oppure lascerei la giustizia alla
legge. Non ne ho idea».
Tom rimase a fissare il soffitto, in silenzio, e dopo qualche minuto le
posò un bacio sulla fronte. «Sono certo che
faresti la cosa giusta. Ora però è meglio se
andiamo a dormire, che ne dici?».
«Uhm, okay», annuì e si
lasciò andare ad uno sbadiglio, stiracchiandosi mentre Tom
raggiungeva l’abat-jour sul comodino e la spegneva, facendo
piombare la stanza nell’oscurità in cui era
avvolta anche il resto della villa.
«Buona notte, Grace».
«Buona notte, Tom». Gli posò un delicato
bacio sulla bocca e sospirò, infilando una mano sotto il
cuscino e chiudendo gli occhi.
Stava per assopirsi, o forse si era semplicemente risvegliata grazie al
suo sonno leggero, quando sentì il rumore di una vibrazione
sul comodino del chitarrista. Aprì gli occhi e vide un
fascio di luce azzurrognola provenire dal suo cellulare ed illuminare
la parete bianca.
«Tom», lo chiamò con voce gracchiante,
posandogli una mano sulla spalla. «Tom,
c’è la tua amante che ti cerca».
«Amante?
Che amante?», bofonchiò lui.
«Se non ce l’hai, allora chi potrebbe scriverti a
quest’ora?».
Il chitarrista finalmente si voltò e tastò il
comodino con la mano, raggiunse il cellulare e per poter leggere sul
display strizzò gli occhi, infastiditi dalla luce.
«Un SMS», la informò. Lo aprì
e lo lesse ad alta voce: «Ciao
Tom, sono Dylan. Domani mattina alle otto e mezza ti passo a prendere e
ti porto nella palestra dove mi alleno, ti va?».
Entrambi confusi, non parlarono per un po’. Tom rilesse il
messaggio diverse volte e infine sbottò: «Come fa
Dylan ad avere il mio numero?».
«Ahm…». Grace accartocciò il
viso ed inspirò tenendo i denti serrati, un occhio
semiaperto. «Gliel’avevo dato io qualche tempo fa,
così se fosse successo qualcosa avrebbe potuto
contattarti… Mi sono dimenticata di dirtelo».
Tom ci passò sopra senza fare ulteriori storie e
pensò a come interpretare il contenuto dell’SMS.
«Perché Dylan vuole che vada con lui in palestra?
E poi alle otto e mezza! Non può dormire come tutte le
persone normali?».
Grace gli posò una mano sulla guancia e gli girò
il viso verso il suo, in modo che la potesse guardare negli occhi.
«Ti dice niente Dylan-Bill-tu-fratelli
gemelli…?».
«Tu pensi davvero che Dylan voglia parlare di quello che
è successo con Bill con
me? Perché proprio
io, non capisco. Non può essere soltanto perché
sono il fratello gemello di Bill, sarebbe anche stupido da parte sua:
se prova a dire solo qualcosa di brutto su di lui giuro che
è la volta buona che…».
«Ho afferrato il concetto», lo interruppe.
«Forse vuole parlarne con un suo simile, un maschio che
può capire il suo sconvolgimento… Ma che ne
so», sbuffò e ficcò la testa sotto il
cuscino. «Metti via e torniamo a dormire, ci penseremo domani
mattina».
«Buona idea», rispose Tom nel bel mezzo di uno
sbadiglio.
Lasciò il cellulare sul comodino e si accoccolò
al suo fianco, avvolgendole le braccia intorno alla vita, pronto a
tornare nel mondo dei sogni, quando si rese conto di non avergli
risposto. Ormai animato dalla curiosità di sapere che cosa
volesse veramente Dylan da lui, prese il cellulare e scrisse un
lapidario «OK», poi premette invio.
***
Bill, immerso nel
silenzio della sua camera da letto, non riusciva a dormire e per questo
guardava il soffitto, pensando ininterrottamente a quello che era
successo quella mattina con Dylan.
L’aveva baciato… Dio, ancora non ci credeva.
Più ci pensava, meno riusciva a trovare un motivo plausibile
per cui il poliziotto avrebbe dovuto baciarlo. Che cos’era
cambiato nel corso di quelle settimane? Che quei sorrisi e quegli
sguardi malinconici che da un po’ di tempo gli rivolgeva e
che lui aveva interpretato come pietosi, fossero in realtà
di scuse e di pentimento? Era possibile che Dylan avesse cambiato idea,
che volesse provarci?
A quell’ipotesi Bill sentì il proprio viso andare
in fiamme, mentre il suo stomaco tremava piacevolmente.
Si girò su un fianco sotto le lenzuola, verso le finestre.
Guardò il cielo scuro illuminato dalla luce della luna e
dopo qualche secondo percepì un altro sentimento venire a
galla, afferrandogli la gola: Dylan non poteva cambiare idea quando e
come voleva, non poteva decidere anche per lui, giocare con i suoi
sentimenti, né poteva prima rifiutarlo e poi pretenderlo a
sua disposizione. Anche per quel motivo si era allontanato dal suo
bacio, perché lui aveva messo le sue carte in tavola, gli
aveva spiegato com’era la sua situazione, ma
Dylan… Dylan non l’aveva fatto, non aveva spiegato
né come né perché avesse cambiato
idea. L’aveva solo baciato.
Baciato. Dylan
l’aveva baciato e non ne aveva fatto parola con Tom, suo
fratello gemello. Non voleva fare lo stesso errore che aveva fatto la
prima volta, non dicendogli nulla dei suoi sentimenti, però
non ce l’aveva proprio fatta. Quel bacio era qualcosa di
ancora troppo vivido dentro di lui, ogni volta che ci ripensava un
fuoco gli esplodeva nelle membra, e allo stesso tempo era troppo
criptico ed irrazionale, perché immotivato da parte di Dylan.
Forse il poliziotto aveva sperato che con quel bacio capisse quello che
voleva comunicargli, non potendolo fare a parole, ma forse lo aveva
giudicato fin troppo intuitivo, dato che non aveva la minima idea di
come interpretarlo.
E ora, come si sarebbe comportato quando l’avrebbe rivisto?
Ogni volta che lo incontrava il suo cervello andava nel pallone, non
riusciva a concretizzare nulla di ciò su cui poteva aver
riflettuto per ore ed ore; tutto perdeva consistenza, c’era
solo Dylan, i suoi occhi scuri e il suo sorriso.
Sognava il grande amore e lo osannava da chissà quanti anni
– ormai aveva perso il conto – ma ogni volta si era
dimenticato di quanto in realtà fosse complicato e doloroso.
Non bastava soltanto trovarlo, bisognava farlo nascere.
***
Bzzzz. Bzzzz. Bzzzz.
Grace
aprì gli occhi e sollevò un po’ la
testa dal cuscino per guardare in direzione del comodino di Tom. Ci
aveva visto giusto: ancora una volta era il suo cellulare che vibrava.
Borbottò parole senza senso, infastidita, e si
voltò dall’altra parte. Con un occhio semiaperto
notò il cielo terso e luminoso, ancora avvolto dai chiarori
dell’alba, e si chiese chi potesse chiamarlo a
quell’ora di mattina.
«Merda, Dylan», biascicò e radunando le
poche forze che il brusco risveglio non le aveva prosciugato,
rotolò sopra il corpo di Tom, che reagì con una
smorfia ed uno sbuffo. Afferrò il cellulare allungando il
braccio e riconobbe il numero sul display, allora se lo
portò all’orecchio.
«’giorno», mugugnò, mentre con
una mano si massaggiava un occhio.
«Oh, buongiorno Grace. Hai per caso notizie del tuo
fidanzato?».
Grace guardò il viso di Tom sotto al suo e scosse lievemente
il capo. «Non posso credere che tu l’abbia chiamato
il mio fidanzato».
«E come dovrei chiamarlo?».
«Lascia perdere, d’altronde a momenti non riesco
nemmeno io a credere che io stia con uno come lui». Si
lasciò scappare un sorrisino, posando un bacetto sul naso
del bell’addormentato. «Comunque è qui
sotto di me, probabilmente gli sto schiacciando la cassa toracica e tra
poco si sveglierà perché non riesce a respirare
correttamente».
«Fantastico. Io sono qua sotto già da un
po’».
«Okay, ti vengo ad aprire».
Dylan provò a dire qualcosa, ma lei non gliene diede il
tempo materiale e pose fine alla chiamata. Lasciò il
cellulare tra le lenzuola e posò la testa
nell’incavo della spalla di Tom, accarezzandogli il collo con
la punta delle dita.
«Tom. Tom, svegliati. Credo che tu debba andare in palestra
ad allenare questo tuo bel fisico».
Il chitarrista mugugnò e fece per girarsi, ma si
trovò bloccato sotto il peso di Grace.
«Devo proprio?», chiese, le corde vocali ancora
addormentate.
«Avresti dovuto pensarci prima di accettare la proposta di
Dylan».
«E tu come…?». Tom sbuffò con
un mezzo sorriso sulle labbra. «Lasciamo stare».
«Ecco, meglio non mettersi contro un’investigatrice
privata». Lo baciò sulla guancia, poi
sull’angolo della bocca e infine sulle labbra, posando le
mani ai lati del suo viso.
«Forza, muoviti. Ti sta aspettando», lo
esortò quando si staccò da lui e si
sollevò per scendere dal letto ed andare ad aprire a Dylan.
Raggiunse la porta e prima di uscire in corridoio si voltò
un’ultima volta ad osservarlo: aveva richiuso gli occhi e
sembrava che si fosse riaddormentato. Grace trattenne una risata fra le
labbra e gli concesse ancora qualche minuto. Nel frattempo sarebbe
andata a controllare Bill nella sua camera.
Camminò lungo il corridoio e una volta di fronte alla stanza
del cantante si accostò alla porta con l’orecchio
ed ascoltò se vi fossero rumori provenienti
dall’interno, ma l’unica cosa che sentì
fu il silenzio profondo e piacevole della mattina presto, ancora
soffuso in tutta la casa. Così abbassò lentamente
la maniglia ed aprì la porta quel tanto che bastava per
poter sbirciare all’interno: Bill dormiva ancora, sdraiato
sul fianco sinistro, e il suo viso sembrava sereno, come se nessuna
preoccupazione lo attraversasse.
Grace sorrise rincuorata. Almeno
nei sogni ha un po’ di pace.
Chiuse delicatamente la porta alle sue spalle e si ricordò
di Dylan. Attraversò il soppalco in fretta e corse
giù dalle scale, aprì il cancello che permetteva
l’accesso al giardino sul retro e grazie alle porte vetrate,
di cui aveva arrotolato le veneziane, riuscì a scorgere il
poliziotto uscire dall’auto di servizio e percorrere il
vialetto nella sua direzione.
Gli aprì e lui la salutò con un sorriso
affettuoso, ma debole. Aveva occhiaie più scure del solito,
segno che non dormiva una notte intera da tempo, e un accenno di barba
sulle guance e sul mento. Per finire, indossava ancora
l’uniforme. Grace capì subito che finito il turno
in centrale non era nemmeno passato da casa.
Sospirò e si fece da parte per farlo entrare in salotto,
fissandolo con sguardo apprensivo.
«Che c’è?», domandò
lui con un sorrisino nervoso sulle labbra.
«Hai un aspetto orribile, Dylan».
«Lo devo prendere come un complimento?».
«Non scherzare, sono seria».
I suoi occhi si adombrarono improvvisamente, facendo notare ancora di
più la stanchezza che vi giaceva sul fondo.
«Se la metti così, allora ti dico di non
preoccuparti per me e che una madre ce l’ho
già».
Grace gli tirò un pugnetto contro la spalla e si
voltò per preparare un po’ di caffè. Ne
avevano tutti bisogno.
***
Bill si
svegliò, ma non aprì gli occhi, ancora troppo
pesanti ed assonnati, il corpo e i sensi intorpiditi. Ciononostante,
riuscì subito a capire che c’era qualcuno nella
sua camera, o almeno che qualcuno lo stava osservando.
Sollevò lentamente una palpebra, l’occhio gli
bruciò e gli lacrimò un poco, ma
riuscì a distinguere fra le ciglia la porta socchiusa e il
viso di Grace, che lo osservava con un sorriso morbido e sereno sulle
labbra. Per un attimo rivide sua madre che ogni sera si affacciava
nella loro stanza e controllava se lui e Tom stessero veramente
dormendo. Ogni volta sorrideva in quel modo e gli sussurrava dolcemente
la buona notte.
Sentì la porta richiudersi piano e allora si girò
supino, espirò lentamente l’aria che aveva
trattenuto fino ad allora nei polmoni e si strofinò gli
occhi, poi guardò il soffitto.
Quanto tempo era passato, da quando sua madre vegliava persino sul loro
sonno… Ora vivevano da soli, dall’altra parte del
mondo, la vedevano pochissimo e anche se l’avessero vista
tutti i giorni tra loro non ci sarebbe stato lo stesso rapporto che
avevano quando erano ancora bambini.
La malinconia lo invase e si sentì la persona più
sola dell’universo, ma bastò poco per spazzare via
tutto quanto; precisamente, bastò una voce maschile che
associò a Dylan.
Coi sensi improvvisamente vigili prestò più
attenzione, ma non sentì più nulla.
Sono un idiota, si disse immergendo
la faccia nel cuscino, convinto che fosse stato solo uno scherzo di
cattivo gusto della sua mente.
***
Mentre riempiva una
tazza per sé ed una per Dylan, Tom si affacciò
dal parapetto e li chiamò. Entrambi si affacciarono nel
salotto, con le labbra già umide di caffè, e
lo guardarono con fare
interrogativo.
Il chitarrista sorrise furbetto. «Hai un aspetto orribile,
sai?».
«Sì, me l’ha già fatto
notare», rispose il poliziotto, indicando la detective con un
cenno del capo e rivolgendole poi uno sguardo dolce.
«Hai preso tutto?», gli domandò poi.
Tom sollevò la borsa che aveva appoggiato accanto ai suoi
piedi.
«Il costume ce l’hai?».
«Che costume?»,
chiese strabuzzando gli occhi. Grace se la ridacchiò sotto i
baffi.
«Io di solito dopo l’allenamento faccio un
po’ di idromassaggio, ma se vuoi possiamo
anche…».
«Oh, io e Bill adoriamo
l’idromassaggio!», esclamò felice come
un bambino, per poi pentirsene subito: perché aveva nominato
suo fratello? Gli occhi del poliziotto si erano immediatamente velati,
come se all’improvviso avesse perso la vista.
Tutto sommato però si riprese presto e disse: «Ti
aspetto qui».
Tom annuì e scomparve in corridoio. Dylan abbassò
gli occhi su Grace ed aprì la bocca, ma lei non lo
lasciò parlare e, appoggiandosi allo stipite della porta con
una spalla, gli indicò un punto oltre l’ampio
salotto: «Giri l’angolo e la prima porta sulla
destra è il bagno».
Bevve un sorso di caffè e gli strizzò
l’occhio, al quale Dylan ricambiò con un sorriso
complice.
***
Aprì gli
occhi di scatto, si levò le coperte di dosso e corse alla
porta. L’aprì pian piano e sbirciando in corridoio
vide suo fratello appoggiato alla ringhiera del soppalco che dava sul
salotto, mentre esclamava: «Oh, io e Bill adoriamo
l’idromassaggio!».
Si irrigidì al pesante silenzio che seguì quella
frase e riuscì a sentire solo il proprio cuore correre, i
battiti che gli pulsavano nelle orecchie.
«Ti aspetto qui», rispose la stessa voce che aveva
udito prima di assopirsi di nuovo. Quella volta non poteva sbagliarsi e
dire che fosse frutto della sua mente: era proprio la voce di Dylan.
Vide Tom annuire ed incamminarsi velocemente verso la sua direzione. Si
appiattì contro la porta e per paura di essere scoperto ad
origliare trattenne persino il fiato, i battiti del suo cuore che
continuavano ad aumentare velocità.
Sentì i passi di suo fratello arrestarsi improvvisamente, ma
fu solo un attimo. Quando percepì la porta sbattuta della
camera accanto si affrettò ad uscire e corse nel corridoio,
si accostò al muro e gettò una rapida occhiata al
salotto sottostante: Grace era appoggiata allo stipite della porta
della cucina e di fronte a lei c’era Dylan, che la osservava
con un’espressione indecifrabile sul viso stanco e sciupato.
La detective mosse piano la testa, come ad indicare qualcosa alle
spalle del poliziotto, e disse: «Giri l’angolo e la
prima porta sulla destra è il bagno».
Dopodiché si avvicinò alle labbra la tazza che
teneva fra le mani e bevve un sorso di quello che, grazie al profumo
che aleggiava nell’aria, identificò come
caffè. Gli fece anche l’occhiolino, ma purtroppo
Bill non seppe come ricambiò Dylan, visto che gli dava le
spalle.
Sentì un rumore provenire dalla camera in fondo al
corridoio, quella di suo fratello, e si affrettò a tornare
nella sua, nella quale si chiuse senza fare alcun rumore. Quindi si
appoggiò al legno chiaro della porta con le spalle e
respirò profondamente, abbassando le palpebre su quelle
lacrime che gli bruciavano negli occhi.
***
Tom scese in salotto e
trovò Grace appollaiata sulla chaise-longue in pelle nera di
solito usata da Bill, con la sua tazza di caffè ormai vuota
fra le ginocchia.
Le passò una mano tra i capelli e dopo aver incrociato il
suo sguardo un po’ assente le posò un bacio sulle
labbra.
«A che cosa stai pensando?».
L’investigatrice si riscosse e gli regalò un breve
sorriso. «Pensavo al mio nuovo caso, quello di cui abbiamo
parlato ieri con Bill».
«Quello del tradimento?».
«Esatto. Il mio cliente vuole che il lavoro sia svolto in
fretta perché non può più vivere con
l’ansia di essere tradito e di non esserne certo, ma io non
ho ancora il fuoristrada e non so proprio come fare».
Tom scrollò le spalle. «Chiedi a Bill se ti presta
la sua auto, tanto io e lui andiamo sempre in giro insieme e
c’è la mia».
Grace lo fissò con tanto d’occhi e posò
la tazza sul tavolino poco distante. «Perché non
posso usare la tua? Hai paura che te la rovini?».
«Col lavoro che fai… hai più
probabilità di una donna qualsiasi di distruggermela,
no?».
«Sei proprio uno stronzo», mugugnò
tirandogli dei pugnetti sulla spalla, per poi scoppiare a ridere quando
lui la travolse in un abbraccio e provò a baciarla, trovando
solo le sue guance, il suo mento e il suo collo.
«Dylan dov’è?»,
domandò il chitarrista mentre, sporto con il busto su di
lei, le scostava i capelli dal viso.
«In bagno. A proposito…»,
abbassò un po’ il volume della voce,
«Devo dire qualcosa a Bill?».
«Di me e Dylan che andiamo insieme in palestra?».
Tom sbuffò meditabondo e si risollevò per
guardare fuori dalle porte vetrate. «Qualcosa già
sa, credo abbia origliato quando mi sono affacciato dal
soppalco».
«Come fai a saperlo?».
Tom sogghignò e la guardò con gli occhi luminosi.
«Beh, ho notato che quando sono passato accanto alla sua
camera la porta era chiusa, poi quando sono tornato indietro per
prendere il costume l’ho vista socchiusa».
Grace, sinceramente colpita dalla sua attenzione per i particolari,
sorrise con una punta di orgoglio. Lo raggiunse e gli avvolse le
braccia intorno alla vita, alzandosi in punta di piedi per poterlo
baciare sul naso. «Potresti farmi da assistente detective,
ormai».
«Mi piacerebbe, ma… sto bene
così».
«Comunque l’ho notato anche io», disse
ancora Grace, voltandosi e tornando alla chaise-longue.
Tom strabuzzò gli occhi. «Come?».
«Quando tu sei andato in camera per prendere il costume,
appunto, l’ho visto lassù, nascosto dietro la
parete, che osservava ed ascoltava me e Dylan».
«Non è mai stato bravo a nascondersi»,
commentò il gemello, abbassando gli occhi, improvvisamente
velati da una strana malinconia.
«Bill è così goffo quando si tratta
delle persone a cui vuole bene o a cui tiene… Cieco quando
c’è da scorgerne i difetti, sordo quando
bisbigliano cose cattive alle sue spalle, silenzioso e chiuso in se
stesso quando soffre. Non voglio che stia male, è una cosa
che non ho mai tollerato. E se andare con Dylan in palestra
servirà a capire che intenzioni ha con il mio fratellino,
beh… sono pronto».
Grace, presa la sua tazza, gli posò una mano sul braccio, in
segno di conforto e sostegno. Gli sorrise incoraggiante e gli
accarezzò una guancia, teneramente. «Magari avessi
avuto un fratellone come te».
Un sorriso appena accennato aprì uno spiraglio sul volto
ancora un po’ scuro di Tom, il quale le posò le
mani sul collo e la baciò sulle labbra. Sapevano di
caffè e allo stesso tempo erano dolci, le più
dolci e morbide che avesse mai assaggiato, perché erano
della ragazza di cui si era innamorato. Non che non si fosse mai
innamorato prima, ma Grace… sentiva che lei era quella
giusta, quella con cui passare il resto della vita. Non
l’aveva capito subito, né l’aveva mai
pienamente realizzato come in quel preciso momento.
L’improvvisa sicurezza con cui aveva sfiorato quel pensiero
gli fece tremare il cuore, ma in modo piacevole.
«Ti amo», le sussurrò a pochi centimetri
dalla sua bocca, gli occhi ancora chiusi.
Grace stava per rispondere, quando sentirono qualcuno alle loro spalle
schiarirsi la voce. Dylan.
«Scusate…», disse, parecchio
imbarazzato. Indicò il giardino, senza osare guardarli negli
occhi. «Aspetto in auto».
«Ciao Dylan», lo salutò Grace, con un
sorriso idiota sulle labbra.
Il poliziotto ne rimase parecchio colpito, ma non disse nulla e si
avviò lungo il vialetto.
«Mi raccomando, lo voglio ancora tutto intero!».
Alzò il pollice nella sua direzione e le sorrise, poi fece
il giro dell’auto ed entrò
nell’abitacolo.
«Credo di dover andare», disse Tom sospirando.
«Allora… dico la verità a
Bill».
Il chitarrista annuì e la guardò negli occhi
intensamente. «Lo lascio nelle tue mani».
«Stai tranquillo, me ne occupo io».
«Se vai al lavoro… stai attenta. Magari la moglie
è una psicopatica e…».
Grace gli tappò la bocca, ridendo. «Smettila di
dire fesserie e vai, o non arriverete più!».
Le rubò un ultimo bacio, poi uscì e con una
piccola corsetta attraversò il giardino, chiuse il cancello
alle sue spalle ed entrò nell’auto di servizio di
Dylan.
Grace li guardò andare via sollevando un po’ di
polvere sullo sterrato. Quindi fece per andare in cucina a sistemare le
tazze che avevano usato per bere il caffè, ma il rumore di
una porta sbattuta la fece sobbalzare. Si avvicinò alla
rampa di scale che portavano al soppalco e sentì una serie
di passi pesanti lungo il corridoio, come se qualcuno stesse correndo
verso di lei.
«Bill?», domandò salendo i primi due
gradini.
Il cantante comparve all’improvviso, facendola spaventare. Si
aggrappò con forza alla ringhiera che dava sul salotto e
fissò gli occhi gonfi ed arrossati in quelli della
detective, la quale percepì un brivido attraversarle la
schiena.
Aveva un aspetto orribile, non l’aveva mai visto
così prima d’ora: così sconvolto,
così arrabbiato.
«A che gioco sta giocando?», urlò Bill.
La sua voce era decisamente furiosa, ma era anche sofferente, come se
qualcuno lo avesse appena attaccato alla gola. «Dimmelo,
Grace! A che cazzo di gioco sta giocando Dylan?!».
L’investigatrice provò a calmarlo, senza alcun
risultato. Sembrava sull’orlo di una crisi isterica, si
muoveva nervosamente e stringeva la ringhiera con tanta forza da farsi
male alle dita. Allora salì velocemente le scale e lo
travolse in un abbraccio. Si gettò addosso a lui
più forte che poté, come se volesse immobilizzare
un animale feroce e ferito – ciò che era in quel
momento.
Bill vacillò, tanta era stata la
potenza di Grace, e fece qualche passo
indietro, completamente spiazzato. Poi si stabilizzò,
capì quello che era successo e le lacrime gli solcarono le
guance, inarrestabili, mentre violenti singhiozzi gli squassavano la
schiena.
La detective lo strinse forte a sé e lo cullò,
accarezzandogli la nuca e i capelli ancora un po’ arruffati.
«Shhh, va tutto bene, si sistemerà
tutto», mormorò ed entrambi si aggrapparono
disperatamente a quelle parole. Per ora non avevano altro.
***
Non ci avevano messo
molto ad arrivare alla palestra in cui si allenava Dylan. Si trovava in
periferia, nelle vicinanze della stazione di polizia in cui lavorava.
Durante il tragitto si erano scambiati poche parole, entrambi a disagio
per la situazione in cui si trovavano. Come d’abitudine in
quel tipo di frangente, avevano discusso del tempo atmosferico. Avevano
sentito che sarebbe venuto a piovere nei prossimi giorni e si erano
lamentati della malinconia e della noia che il tempo uggioso portava,
per non parlare poi del traffico!
«È l’unica cosa che odio di Los Angeles,
il traffico», aveva detto Tom, mentre erano fermi ad un
semaforo.
«In Germania com’è?».
«Ce n’è molto ma molto di
meno… Pensa che una volta qui siamo rimasti in coda per tre
ore e abbiamo dovuto rimandare l’appuntamento dal tatuatore!
Cose così in Germania capitano solo se cade un metro di
neve».
Dylan aveva ridacchiato e Tom l’aveva guardato di sbieco,
chiedendo: «Che cos’è che ti fa tanto
ridere?».
«La neve… Io non l’ho mai vista.
Com’è?».
«È neve, come vuoi che sia? Bianca, fredda, ci fai
i pupazzi di neve o le palle da lanciare addosso agli amici…
cose così».
Dylan aveva sorriso, annuendo, e aveva pensato che un giorno, costi
quel che costi, avrebbe tirato una palla di neve addosso a qualcuno.
Lasciarono l’auto nel parcheggio sotterraneo e una volta
prese le borse salirono le scale e raggiunsero l’entrata
della palestra.
Dylan lo guardò negli occhi e gli sussurrò alla
svelta di lasciar parlare lui, poi lo precedette ed appoggiò
le braccia al bancone dietro il quale stava una ragazza carina, ma col
viso un po’ squadrato e fin troppo muscolosa.
«Ehi, ciao bellezza», disse Dylan e Tom
capì che lui non avrebbe dovuto essere lì. A
confermarglielo, fu la stessa ragazza che gli gettò una
rapida occhiata e poi si chinò un po’ verso Dylan,
masticando una grossa gomma rosa.
«Lo Stato ti fa già un grande favore non facendoti
pagare l’iscrizione a questa palestra perché sei
uno sbirro, non pensare che tu possa portare qui i tuoi amici come e
quando vuoi ad usufruire del tuo status».
«Ma dai, bellezza, lo sai che io…».
Si tirò indietro un boccolo biondo ossigenato,
interrompendolo: «Ti ho già detto di non chiamarmi
bellezza».
Dylan sospirò, poi all’improvviso un angolo della
sua bocca si sollevò e le disse sottovoce di farsi
più vicina. La ragazza, anche se sbuffando, gli porse
l’orecchio. Tom notò come la sua pelle cambiasse
colore man mano che Dylan le parlava: dal terra del fondotinta
passò al rosso fuoco causato dall’imbarazzo.
«Allora, come la mettiamo?», le domandò
il poliziotto alla fine, aggrottando la fronte con fare vittorioso.
«E va bene», acconsentì digrignando i
denti.
Dylan si voltò verso Tom e lo prese per un gomito,
accompagnandolo verso gli spogliatoi.
«Ma questa è l’ultima volta, stanne
certo!», concluse la ragazza, urlandogli dietro.
«Grazie, bellezza!», urlò lui di
rimando, alzando una mano.
Tom non ebbe l’occasione di chiedergli che cosa le avesse
detto per farla cedere, perché solo durante il tragitto per
raggiungere gli spogliatoi avevano incontrato parecchi colleghi di
Dylan che l’avevano salutato, seppure con qualche
tentennamento – o almeno così parve a lui. Ci fu
un solo “temerario” che lo fermò per
chiedergli come stesse e in che quartiere dell’Eastside
stesse lavorando in quel periodo.
Tom si appuntò mentalmente di chiedergli anche il motivo di
tutta quella paura nel rivolgergli la parola.
Dylan lanciò la propria borsa su una panchina libera ed
iniziò a togliersi la camicia dell’uniforme,
slacciando velocemente i bottoni. Tom, che era già in tuta e
nella borsa aveva il cambio per dopo, si sedette poco distante da lui e
lo osservò. Il suo viso si era improvvisamente oscurato, i
suoi occhi velati e diverse rughe d’espressione gli solcavano
la fronte.
«Spero tu non ti sia creato dei problemi solo per farmi
venire qui gratis», disse allora, per smorzare la tensione e
distrarlo da ciò che sembrava turbarlo tanto.
«Uhm? Oh no, nessun problema», rispose Dylan,
mentre apriva un armadietto numerato e ci metteva dentro il cellulare,
il portafoglio, le chiavi dell’auto e quelle di casa.
«Tu puoi usare questo qui di fianco se ti serve»,
gli disse aprendoglielo.
Tom allora lo imitò, ma non abbandonò
l’argomento. «Che cosa le hai detto per
convincerla?».
Dylan accennò un sorriso e si infilò una
maglietta grigia e piuttosto aderente. «Le ho semplicemente
detto che sarei andato a dire a tutti che si fa di steroidi».
Tom strabuzzò gli occhi. «Cioè,
l’hai minacciata?!».
«Non essere così tragico! Non l’avrei
mai fatto. Comunque lei tiene molto al suo fisico, se qualcuno
scoprisse che si fa di steroidi…»,
corrugò la fronte e finì di cambiarsi,
infilandosi un paio di pantaloncini.
Tom vide passare davanti a loro, oltre le due file di armadietti che li
costeggiavano, due uomini, forse anche loro colleghi di Dylan, che li
guardarono e subito si misero a parlottare fra loro, sorpresi quanto
indignati.
Quando li perse di vista, il chitarrista aprì la bocca per
chiedere al poliziotto che cos’avessero tutti contro di lui,
ma proprio Dylan disse: «Bene, io sono pronto.
Andiamo?».
Tom lo fissò, domandandosi se lui si fosse accorto degli
sguardi che tutti gli rivolgevano, poi annuì con un sorriso
mesto sulle labbra.
Entrarono nella sala con le macchine, una delle più grandi
che Tom avesse mai visto, e per un attimo rimase ad osservare tutti gli
omoni muscolosi che si stavano allenando ai pesi, piuttosto che con
altre strane attrezzature di cui non immaginava nemmeno
l’esistenza.
«Vuoi startene lì impalato ancora per
molto?», gli domandò Dylan divertito, facendolo
tornare alla realtà.
Tom arrossì e provò a nasconderlo masticando un
insulto, poi lo raggiunse e discussero sulla scelta delle macchine con
cui allenarsi. Alla fine non riuscirono a giungere ad un compromesso:
ognuno avrebbe fatto quelle che riteneva più congeniali a se
stesso.
Iniziarono ad allenarsi, tenendo come ritmo due minuti per macchina
– semmai ci sarebbero tornati su più avanti
– e Tom lo osservò più o meno per tutto
il tempo, notando con quanta forza e determinazione si allenasse, senza
badare a nient’altro. Non era solo forza quella che ci
metteva, a suo avviso, ma anche una certa dose di rabbia e
frustrazione. Era certo che se Dylan avesse avuto a disposizione un
sacco da boxe – al momento tutti occupati –
l’avrebbe distrutto.
Ad un certo punto si rese conto che Dylan si era voltato a guardarlo. I
loro sguardi si incatenarono e il poliziotto, con fare arrendevole, si
avvicinò a lui, apparentemente per fare degli esercizi con i
pesi, in realtà per iniziare la conversazione che temeva
tanto quanto ne aveva bisogno. D’altronde era il motivo per
il quale aveva chiesto a Tom di andare con lui in palestra, per parlare.
«Bill ti ha già detto quello che è
successo?», gli domandò all’improvviso e
con tono distratto, anche se pronunciare quella frase gli era costata
molta fatica e tutt’ora sentiva il sudore bagnargli la
schiena. Aumentò il ritmo con i pesi.
Tom, seduto comodamente sulla leg-press, in pausa, guardò il
soffitto illuminato da strisce di luci al neon con espressione
meditabonda, poi si voltò verso di lui ed accennò
un sorrisino più amaro di quello che avrebbe voluto.
«Non ho ancora avuto l’onore di esserne informato,
no».
Dylan posò i pesi e si sollevò la maglietta per
asciugarsi il viso imperlato di sudore. Tom poté vedere la
tartaruga scolpita sul suo ventre e gli tornarono alla mente le parole
che Grace scherzosamente aveva detto adulando l’aspetto
fisico del poliziotto. Col viso arrossato, un po’ di gelosia
e un po’ di imbarazzo, tolse la sicura ed iniziò a
spingere su e giù coi piedi la pressa caricata con venti
chili.
«Vuoi prima la sua versione dei fatti?».
«Non penso che faccia molta differenza», rispose il
chitarrista, un po’ affaticato. «Però
più che raccontarmelo, sembra che tu voglia confessarti e
sappi che io non sono proprio la persona adatta. Ci sono i preti per
questo tipo di cose».
Il poliziotto respirò profondamente ed abbassò
gli occhi, giusto il tempo di trovare la determinazione che lo aveva
sempre contraddistinto sul lavoro. «Non penso di aver fatto
alcun peccato, se questo è quello che credi. Piuttosto,
vorrei soltanto parlarne con qualcuno, qualcuno che non sia Grace, e la
prima persona che mi è venuta in mente sei stato
tu».
Tom si fermò di colpo e mise velocemente la sicura, con la
paura che la pressa potesse cadergli addosso e schiacciargli le
ginocchia contro il torace. Si tirò su, coi muscoli dei
polpacci ancora un po’ tremanti per lo sforzo, e
guardò Dylan negli occhi, più serio che mai.
«Io?», si indicò, scettico.
«Io sarei la prima persona che ti è venuta in
mente dopo Grace? Scommetto che hai fior di amici nella polizia! Per
esempio, come si chiamava il tuo partner?
Aspetta…».
«Oswin», gli suggerì.
«Ecco, lui! Perché non ne hai parlato con
lui?».
Il sorrisino teso ed intriso di malinconia del poliziotto lo
colpì, tanto che per un attimo si maledì per aver
pronunciato quelle parole in modo così brutale.
Dylan appoggiò i pesi al loro posto, si asciugò
ancora una volta il viso e si sedette sulla macchina accanto a quella
su cui era seduto Tom. Si guardò intorno e appena
incrociò gli occhi di un suo collega, questo li
spostò immediatamente.
«Hai notato come tutti quelli che mi vedono evitano di
guardarmi in faccia?».
Tom, che aveva seguito il suo sguardo per tutto il tempo,
annuì lentamente, mentre qualcosa gli mordeva lo stomaco.
Eccome, eccome se se n’era accorto!
Il poliziotto appoggiò i gomiti alle ginocchia e si
chinò un po’ in avanti per potergli parlare a
bassa voce.
«Stanotte, era appena iniziato il mio turno alla centrale, ho
detto ad Oswin quello che era successo quel pomeriggio con Bill. Ho
fatto una specie di scenata a dir la verità e parecchi dei
miei colleghi mi hanno sentito. A quanto vedi, le notizie si diffondono
velocemente. Se poi si tratta di un poliziotto gay, la cosa
è ancora più rapida».
«Ma tu non sei…», provò a
ribattere il chitarrista, ma si interruppe. Come poteva dire che Dylan
non fosse gay, se provava qualcosa per suo fratello? La loro situazione
era complicata e lui conosceva Dylan abbastanza da dire che era stato
un cambiamento repentino e scioccante, ma per chi invece era estraneo a
tutto? Si mise nei panni dei suoi colleghi e si disse che avrebbe
pensato subito che era gay.
«Vedi, è matematico», disse Dylan con un
sorrisetto strafottente. «E Oswin non si è
comportato diversamente».
Tom levò lo sguardo, stupefatto. «Cosa? Non ci
credo».
«È la verità. Si è rifiutato
di guardarmi per tutta la durata del turno». Si
alzò e si diresse verso la panca addominali. «Dire
che da lui non me lo sarei mai aspettato è dir
poco».
Il chitarrista restò muto per un po’, con lo
sguardo fisso su Dylan che si sollevava con le mani dietro la nuca e
che con i gomiti si toccava le ginocchia.
Alla fine si alzò e lo raggiunse, si appoggiò al
muro con una spalla, le braccia incrociate al petto, e disse:
«Cosa hai visto nei suoi occhi?».
Dylan lo guardò confuso, rimanendo stupito dalla luce che
come una fiamma gli brillava nello sguardo. Sul viso aveva
un’espressione che incuteva un po’ di soggezione,
c’era qualcosa di perverso e di sofferente
nell’angolo destro della sua bocca, sollevato
all’insù come se fosse un mezzo sorriso mal
riuscito.
«Io… ho letto vergogna e forse anche una punta di
disprezzo, non ne sono sicuro. Ma la prima cosa che ho pensato
è che mi stesse giudicando come un “finocchio di
merda”, senza offesa».
Tom parve soddisfatto della risposta e il suo sorriso si
allargò in modo naturale. «Strano che tu abbia
usato proprio quest’espressione: è quella che io e
Bill ci sentivamo dire in continuazione quando avevamo undici anni. E
non perché lo eravamo o avevamo fatto qualcosa che potesse
farlo credere – e che, anche se fosse, non sarebbe stato
sbagliato in ogni caso. Solo perché eravamo diversi e ci
distinguevamo dalla massa».
Dylan, scioccato, si mise a sedere e guardò quel ragazzo
duro ed orgoglioso di sé ora quasi sull’orlo delle
lacrime, con gli occhi rivolti verso la finestra. Ancora una volta,
riuscì a colpirlo profondamente.
«Ogni giorno non potevamo passare in mezzo ai nostri compagni
in corridoio senza essere insultati da qualcuno, senza essere guardati
in modo sprezzante. Quante volte, fuori dalla scuola, ci siamo messi a
correre sotto la pioggia o sotto la neve per non venir picchiati dai
bulli, solo perché dicevano che eravamo strani e ci
chiamavano “finocchi di merda”? Quante
volte… quante volte sono tornato a casa sporco di terra e di
sangue, con i lividi sulle braccia e sulla schiena per le botte che
avevo preso anche per Bill, per difenderlo? E noi ci chiedevamo che
cosa avessimo fatto di male per meritarci tutto quello… E
ogni volta la risposta era: niente».
Dylan aprì la bocca per dire qualcosa, ma non
uscì alcun suono. Non sapeva nemmeno che cosa dire! Non
conosceva nulla, in effetti, del vero passato di quei due gemelli
esuberanti che erano entrati nella sua vita come un tornado a causa di
Grace. Non ne sapeva nulla e non avrebbe mai immaginato una storia
così tormentata alle loro spalle. E quello che
più lo sconvolgeva era la sensazione che quella che gli
aveva appena raccontato Tom fosse solo una piccola parte di tutto
ciò che avevano dovuto passare prima di arrivare fino a dove
erano adesso.
«Nonostante questo», riprese senza più
lacrime negli occhi, «io e Bill abbiamo sempre saputo chi
eravamo e abbiamo sempre affrontato tutto a testa alta. A volte abbiamo
sbagliato, abbiamo reagito in modi completamente diversi…
Sai a quanti anni ho perso la verginità?».
Dylan arrossì per la domanda e non era sicuro di volerlo
sapere, di volersi imbattere in qualcosa di più grande di
lui, ma alla fine scosse il capo con serietà.
«Oh, ero solo un ragazzino. Tredici anni? Sì,
credo tredici. Con una ragazza più grande, una un
po’ spostata credo. Quando l’ho raccontato a Bill,
lui mi ha dato del pazzo. E sai che cosa gli ho risposto io?».
Dylan scosse ancora il capo e Tom contorse di nuovo la bocca in quel
mezzo sorriso maligno.
«Magari i nostri
compagni adesso la smetteranno di dire che sono un finocchio.
Gli ho detto proprio così, me lo ricordo
nitidamente». Tom si sedette accanto a lui con uno scatto
rapido, che lo fece quasi sussultare. «Capisci? Mi sono
fottuto la mia prima volta con una che… solo
perché volevo che i nostri compagni smettessero di chiamarci
in quel modo. Questa cosa… mi ha segnato così
tanto che quando siamo diventati famosi con i Tokio Hotel e abbiamo
iniziato a fare concerti, a girare per la Germania e poi per
l’Europa… io ho continuato. E dentro di me, ogni
volta che mi fermavo a riflettere e non riuscivo più a
contare tutte le ragazze che mi ero scopato e che non valevano nulla
per me, dicevo: Adesso che
cosa direbbero quei pezzi di merda?».
Il poliziotto lo fissò in silenzio, poi sentì se
stesso dire piano: «Ma adesso tu non sei
così». Non aveva nemmeno pensato di dire quelle
parole.
«No, grazie a Dio!», disse e si passò
una mano sul viso, ridacchiando. «Bill, come avrai capito,
non ha mai approvato il mio comportamento. Il fatto è che
lui è sempre stato più forte, sempre, e io non me
ne sono mai accorto. Essere forti non significa prendersi anche le
botte che sarebbero spettate a tuo fratello ed uscirne piuttosto bene,
l’ho capito solo col passare del tempo. Me
n’è servito fin troppo, se devo essere
sincero… Ho capito me stesso solo qualche anno fa,
finalmente ho capito chi ero veramente».
Dylan, le spalle ricurve come se un po’ del peso che Tom si
era sempre tenuto da solo sulle spalle fosse caduto su di lui,
guardò il pavimento e rifletté su tutto
ciò che gli aveva raccontato, in via del tutto spontanea.
«Perché?».
«Uhm?». Tom sollevò il capo e lo
fissò.
«Perché mi hai detto tutte queste cose?».
«Mi sono lasciato un po’ andare, dici? Erano anni
che non ne parlavo con qualcuno. Forse avevo bisogno anch’io
di sfogarmi un po’. Forse volevo solo dirti che non devi
ascoltare quello che dicono gli altri, ma te stesso. Però
non vorrei filosofeggiare troppo, non è decisamente il mio
mestiere».
Si alzò dalla panca tenendo le mani sulle ginocchia e si
guardò intorno, alla ricerca della prossima macchina con cui
allenarsi.
«Che cosa mi consigli, qualcosa per i pettorali?»,
si tastò il petto, all’altezza dei capezzoli.
«Sarebbe un incubo se da vecchio mi trovassi con le tette
flosce».
Dylan lo guardò e non riuscì a trattenere una
risata, a cui si unì anche il chitarrista.
Seduto alla Lat machine, quella per i muscoli dorsali, Dylan gli
raccontò tutto quello che era successo con Bill e poi con
Oswin, con tutti i dettagli che riuscì ad inserire nella
propria narrazione. Quando finì si sentì
svuotato, più leggero, e per questo accennò un
sorriso a Tom, che in silenzio non aveva mai distolto lo sguardo da
lui. O era davvero un ottimo ascoltatore quando voleva oppure aveva
dovuto concentrarsi per forza, altrimenti non avrebbe capito niente
dato che il suo inglese-americano ogni tanto si mescolava alla sua
lingua madre, lo spagnolo.
«Quindi vi siete baciati, tutto qui»,
esclamò alla fine il chitarrista, le braccia incrociate al
petto.
«Beh, dici niente», borbottò il
poliziotto, portando con più forza la sbarra di fronte al
petto.
«Sto cercando di immaginare un motivo per cui Bill si sia
spostato, perché ormai mi è chiaro che gli piaci
ed aspettava solo che tu ti facessi avanti, ma non riesco… A
meno che…».
«Che cosa?».
«Non so, magari è una
cavolata…».
Dylan gli disse qualcosa, «Dimmelo comunque» o una
cosa del genere, ma Tom non gli prestò molta attenzione
perché Oswin, proprio quell’Oswin,
il partner sul lavoro di Dylan, era appena entrato nella sala e li
aveva già avvistati. Il chitarrista notò subito
la sua espressione stupefatta e gli venne voglia di rispondere con una
smorfia di disgusto per come Dylan gli aveva detto che aveva reagito
quando si era confidato con lui, ma alla fine lasciò perdere
e disse semplicemente al poliziotto: «Abbiamo
compagnia».
Dylan, colpito dalla severità del suo sguardo, si
voltò e vide Oswin che si avvicinava a loro.
«Oh perfetto», bofonchiò e si
alzò dalla macchina, asciugandosi le mani sudate sui
pantaloncini.
Oswin li raggiunse e rivolse un breve sorriso ad entrambi.
«Ciao Dylan, ciao… Tom, giusto?».
«Sì», disse il chitarrista,
stringendogli la mano.
«Piacere, io sono Oswin, il…».
«Sì, sa chi sei», lo interruppe Dylan e
il compagno gli rivolse uno sguardo duro, quasi di rimprovero per la
sua maleducazione.
Tom decise che non era proprio il caso di restarsene lì e
disse, rivolgendosi a Dylan: «Vado a cambiarmi. Tanto abbiamo
finito, vero?».
«Sì, vai pure. Ci vediamo
nell’idromassaggio».
Gettò uno sguardo di saluto ad Oswin, il quale
ricambiò con un cenno del capo, poi si allontanò.
Una volta negli spogliatoi, aprì l’armadietto in
cui aveva lasciato la borsa e i suoi effetti personali. Prese
l’asciugamano e se lo passò sul viso e sul collo,
quindi prese il cellulare e controllò di non aver ricevuto
chiamate.
Stava per chiamare Grace e sapere se avesse già avuto modo
di parlare con Bill, quando un uomo che aveva visto poco prima
allenarsi alle macchine aprì un armadietto non lontano dal
suo e gli rivolse la parola, incuriosito: «Tu sei un amico di
Dylan?».
«Sì, e allora?», domandò Tom,
arricciando il naso come se avesse già sentito le battute
seguenti.
«Io starei attento, se fossi al tuo posto: gira voce che sia
diventato gay!».
Tom digrignò i denti e ricacciò
l’asciugamano nella borsa, respirando profondamente.
«E dove sta il problema?», domandò nel
modo più tranquillo possibile.
«Oh, scusa amico, non credevo che anche
tu…».
«Io non sono gay, ma non capisco comunque dove stia il
problema nell’esserlo!», gridò e si
girò, il viso arrossato e le vene gonfie sul collo.
«Ehi, datti una calmata», rispose bruscamente
l’uomo, rivolgendogli uno sguardo truce.
«Mike, è tutto a posto?», chiese un
altro uomo comparso all’improvviso oltre le due file di
armadietti, guardando prima l’amico e poi lui.
Per un attimo Tom ebbe paura che quel Mike rispondesse di no e, insieme
all’amico, gliele suonassero di santa ragione, ma
l’uomo respirò a fondo e disse:
«Sì, tutto a posto. Adesso arrivo».
Dopodiché si voltò, prese la sua borsa
dall’armadietto, che chiuse sbattendone l’anta di
metallo, e raggiunse l’amico.
Tom attese che voltasse l’angolo, poi si lasciò
andare ad un respiro di sollievo e si sedette sulla panchina dietro di
lui, i gomiti sulle ginocchia e l’asciugamano intorno al
collo.
Idiota, che ti
è preso?
si disse e chiuse gli occhi, ma rivide soltanto i suoi vecchi compagni
di scuola che prendevano in giro sia lui che Bill, insinuando proprio
che fossero gay.
Scosse il capo con vigore per mandar via quelle immagini che gli
avevano affollato la mente e tornò al suo proposito
iniziale: chiamare Grace.
_______________________________________
Buongiorno!
:D
Come avete intuito, questo capitolo era tanto lungo da costringermi a
dividerlo in due parti. Che ve ne pare della prima? ;)
Abbiamo visto un Tom diverso, a tratti più maturo (e ci
tengo a precisare ancora una volta che tutto quello che scrivo sui
Tokio Hotel, sui gemelli, ecc. è solo frutto della mia
fantasia e non intendo dare loro caratteristiche che nella
realtà magari nemmeno hanno; quindi, anche la storia della
loro infanzia, della prima volta... tutta roba mia, una specie di
teoria che mi sono fatta u_u). Ma un Tom anche protettivo nei confronti
del suo gemello, sempre più convinto dell'amore che prova
per Grace e soprattutto si è anche dimostrato un buon amico
per Dylan - chi l'avrebbe mai detto? xD - al contrario di Oswin.
Per quanto riguarda Dylan, per lui è tutto complicato e
confuso... spero di aver reso bene l'idea del suo sconvolgimento
interiore, anche se mi rendo conto che ne so ben poco in merito. Penso
comunque che sia davvero una cosa, capire di essere "diversi" (tra
virgolette perchè essere chiamati gay, lesbiche, bisex,
etero, per me non fa alcuna differenza: l'amore è amore!) da
come si pensava di essere, sbatterci la testa contro come ha fatto
Dylan, non deve essere sicuramente facile e si deve essere fragili....
Beh, detto questo (mia opinione personale, spero di non aver fatto
strafalcioni) anche Bill non se la passa benissimo e tra una settimana
vedremo come Grace si è occupata di lui! :)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, anche questo è
nella mia Top 10 dei preferiti, e ringrazio coloro che hanno sempre
tempo di lasciare una recensione! Grazie di esserci sempre,
è importante avere i vostri pareri :) Ringrazio tuttavia
anche chi legge soltanto e chi ha messo questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate.
(Bene, ho scritto un poema. Chiedo perdono ._.) A domenica prossima,
un bacione! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 18 - Parte 2 ***
Capitolo 18 –
Parte 2
Grace, col suo laptop
sulle gambe, ascoltò il rumore del risucchio che Bill stava
facendo. Lo guardò con la coda dell’occhio e lo
vide sforzarsi con la cannuccia fra le labbra per catturare sino
all’ultima goccia del suo caffè alla cannella.
«Ti do’ fastidio?», domandò il
cantante, accorgendosi del suo sguardo.
«No. Speravo soltanto che prima o poi capissi da solo che
è finito».
Bill ridacchiò ed incastrò il bicchiere di carta
vicino al cambio, dove c’era già quello di Grace.
«Dobbiamo stare qui ancora per molto?», le
domandò dopo qualche secondo di silenzio.
Grace sorrise. «Te l’avevo detto che ti saresti
annoiato».
«È vero, ma non pensavo che fosse così
noioso pedinare qualcuno!».
«Che cosa ti aspettavi, precisamente?».
«Che ne so… qualche inseguimento spericolato,
qualche cosa di più movimentato, insomma!».
«Beh, mi dispiace molto di aver deluso le tue aspettative.
Però almeno hai avuto la possibilità di
sperimentare che cosa provavo io quando ero pagata per seguirvi ovunque
andavate».
«Io sarei morto di noia, credo».
Si scambiarono uno sguardo e non poterono fare a meno di ridere.
Grace era felice di averlo portato con sé al lavoro:
sembrava stare meglio, che si fosse ripreso dal crollo di nervi che
aveva avuto quella mattina.
«Calmati
Bill, per favore».
Il cantante, ancora squassato dai singhiozzi che non ne volevano sapere
di lasciarlo respirare correttamente, si lasciò condurre
fino al divano letto del soppalco, su cui Grace lo fece sedere con
delicatezza, ancora tenendolo stretto a sé.
«Ehi, la vuoi smettere di piangere? Non serve a
nulla…».
«Lo so», mugugnò Bill, stropicciandosi
il viso e tirando su col naso proprio come un bambino. «Ma
è l’unico modo che ho per sfogarmi».
«Okay, allora sfogati una volta per tutte, perché
non ho intenzione di vederti ridotto in questo stato un’altra
volta. Mi hai fatto così spaventare…».
«Scusa, non volevo».
Grace gli rivolse un sorriso dolce e gli passò una mano fra
i capelli. «Adesso va un po’ meglio?».
Lui annuì con un cenno del capo.
«Ti va di raccontarmi che ti è preso?».
«Io… sono stanco, nervoso, in
subbuglio… voglio che le cose con Dylan si stabilizzino, in
un modo o in un altro, perché così non posso
più andare avanti».
Dopo un po’ di silenzio, giusto il tempo di soffiarsi il naso
con un fazzoletto e riordinare le idee, il frontman iniziò a
raccontare le cose dall’inizio, partendo cioè da
quello che era successo il giorno prima: il loro bacio. Le
raccontò della sua reazione, dei suoi successivi
ragionamenti, della sua felicità in contrasto con la
frustrazione di sentirsi un po’ il suo pupazzo, con cui
giocare solo quando voleva lui… Quando finì, si
sentì svuotato e si lasciò andare ad un sospiro,
accucciandosi con la testa sulla spalla della detective, che prese ad
accarezzargli i capelli su una tempia.
«Ora capisco molte cose», mormorò lei,
un sorriso mesto sulle labbra. «Dovete parlarne, è
l’unica cosa che potete fare. Lui deve trovare la forza per
spiegarti i suoi sentimenti, provare a fare chiarezza dentro di
sé…».
«Ecco», approvò con un mugugno.
«E tu, invece, devi cacciare sotto le scarpe questo tuo fare
da dodicenne alla prima cotta ed agire in modo razionale, senza fare
scenate e senza vuoti
di memoria improvvisi. Hai capito? Nemmeno tu puoi più
permetterti di giocare, è una cosa seria».
«Ma è lui, è lui che mi mette nel
pallone e non ci capisco più niente!».
Grace lo guardò negli occhi e gli soffiò un
po’ d’aria in faccia, facendogli chiudere gli
occhi. «Devi iniziare a tenere a bada i tuoi ormoni
impazziti, allora».
«Fosse facile…».
«Oh, so che ce la farai benissimo. D’altronde sei
il fratello di Tom, devi pur somigliargli in qualche modo!».
«Perché, lui tiene a bada i suoi ormoni
impazziti?».
Grace si morse le labbra. «Okay, forse non nel senso che
pensi tu, ma… Insomma Bill, devi tirar fuori
l’uomo che è in te ed affrontare la questione una
volta per tutte, senza scappare o dimenticarti persino come ti
chiami».
«Va bene, ci proverò. Ma ora mi spieghi che cosa
significa che Tom e Dylan sono andati in palestra insieme?!».
«Comunque ancora un
po’ di pazienza e se le informazioni che il signor Phillips
mi ha dato sono corrette, sua moglie dovrebbe iniziare la pausa pranzo
tra dieci minuti», spiegò la detective.
«E noi che cosa dovremmo fare, guardarla mentre
mangia?».
Grace si voltò verso il cantante e per un attimo
adorò l’espressione ingenua che gli si era dipinta
sul viso, rendendolo anche un po’ buffo. Poi disse,
trattenendo a stento una risata: «Oh insomma, Bill, non sai
proprio niente sui tradimenti? È stato dimostrato
statisticamente che almeno un adulterio su
tre viene consumato fra mezzogiorno e mezzo e le due e mezzo del
pomeriggio, cioè
l’ora in cui si stacca dal lavoro per andare a
pranzare».
«Veramente? È assurdo! E non si mangia?».
Grace sgranò gli occhi, incredula: la sua unica
preoccupazione era davvero la rinuncia del pranzo? Scoppiò a
ridere di gusto, passandogli una mano fra i capelli e poi sulla guancia.
«Sei adorabile, Bill».
Il cellulare dell’investigatrice iniziò a vibrare
sul cruscotto, producendo un rumore secco e fastidioso. Bill glielo
passò e Grace sorrise dopo aver letto il nome di Tom sul
display. «È tuo fratello», disse, poi
rispose: «Ehi».
Bill si avvicinò al suo orecchio per sentire la
conversazione, cosa che fece sorridere la detective.
«Ciao Grace, tutto bene?».
«Sì, tutto okay. Tu, hai già finito di
allenarti o ci hai rinunciato?».
«Ah-ah, spiritosa… Mi sono preso una pausa, anzi
è stato Oswin ad interromperci a dire la
verità… è una lunga storia, ti
racconterò meglio a casa».
«Uhm, va bene. Ma…», gettò
un’occhiata al frontman, che chiuse gli occhi ed
annuì mestamente, dandole il suo consenso di parlare di
Dylan. «Lui
come sta?».
«Eh… è un po’ complicata la
situazione, in realtà. Non se la sta passando affatto bene,
questo è certo. Non solo per Bill, ma anche per
un’altra cosa che è successa al lavoro da lui che
ti racconterò…».
«Niente di grave, mi auguro».
«Non so per cosa intendi tu per grave,
però… pff, appena arrivo a casa ti racconto
tutto, davvero».
«Non so se sto a pranzo da voi, ho preso l’auto di
Bill e ho già iniziato il pedinamento, quindi…
Però stasera mamma vi vuole a cena, non potete
rifiutare».
«E va bene, ci saremo… Ma allora sei
già per strada? Stamattina hai parlato con Bill, come
stava?».
«Sì, io…».
«Ciao Tomi!», lo salutò il frontman,
avvicinando la bocca al microfono del cellulare.
Il silenzio che ne susseguì fece gelare il sangue nelle vene
di Grace, la quale guardò il cantante con un misto di
rimprovero e di paura negli occhi.
«Grace, tu hai portato Bill a fare un
pedinamento?», domandò Tom con voce pacata, fin
troppo pacata.
«Ehm… sì. Ma me l’ha chiesto
lui, non voleva restare a casa da solo! E poi non
c’è di che preoccuparsi, non gli
succederà niente, hai la mia parola!».
«Passamelo», sussurrò Bill stendendo una
mano verso di lei. Grace gli passò volentieri il cellulare e
si strofinò le mani sui jeans, lo sguardo fisso di fronte a
sé.
«Ciao Tom», disse Bill non appena ebbe il cellulare
premuto contro l’orecchio. «Grazie. Grazie
mille».
Grace provò ad ascoltare quello che gli rispose Tom, ma non
ci capì molto e allora si occupò del laptop che
aveva ancora sulle gambe, dove aveva aperto il documento Word del caso
Phillips. Rilesse ancora una volta le informazioni principali, facendo
mente locale dei prossimi possibili spostamenti della signora Phillips,
quando finalmente Bill rispose: «Davvero Tom, non ti
preoccupare troppo per me, non mi capiterà niente con Grace,
te lo posso assicurare: mi sto annoiando a morte!». Entrambi
ridacchiarono. «Ah, mi dispiace non averti detto subito
quello che era successo con Dylan, ma… prometto che dopo ti
racconterò tutto. Sì. Va bene, ciao Tomi.
Ciao». Pose fine alla chiamata e passò il
cellulare a Grace. «Ti saluta», le disse sorridendo.
«Era arrabbiato con me?».
«No, stai tranquilla».
Bill portò lo sguardo oltre il parabrezza e vide una donna
dai lunghi capelli castani, raccolti in una coda alta, uscire
dall’edificio in cui si trovavano gli uffici
dell’impresa per cui lavorava come impiegata.
«Ehi, ma quella non è la donna che stiamo
pedinando?».
Grace si voltò di scatto, seguì la traiettoria
del suo sguardo e le bastò un’occhiata per
rispondere in maniera affermativa. Chiuse il laptop e lo
passò a Bill per prendere la macchina fotografica che aveva
a portata di mano e fare qualche scatto, giusto per eventualmente
ricostruire il percorso della signora Phillips. Quindi fece manovra per
uscire dal parcheggio e mantenendo una distanza di sicurezza
seguì l’auto della donna.
«Dove credi stia andando?», domandò Bill
dopo un po’, sempre più incuriosito.
Grace scosse il capo, tamburellando le dita sul volante di pelle.
«Troppo lontano per trascorrere una normale pausa
pranzo».
«Magari il suo ristorante preferito è
dall’altra parte della città»,
provò a difenderla il cantante, nonostante sentisse di star
camminando su un terreno molto friabile.
Ancora una volta, il suo atteggiamento fece sorridere la detective.
Magari fosse stato davvero così! Purtroppo la signora
Phillips lasciò l’auto nel parcheggio di un hotel,
anche se un hotel a quattro stelle molto rinomato, ed entrambi persero
le speranze che fosse innocente.
Grace fece il giro dell’isolato per non dare sospetti e alla
fine parcheggiò l’Audi all’incrocio
della via in cui si trovava l’hotel.
«Allora», esordì voltandosi verso il
cantante e guardandolo negli occhi.
«Me ne sto qui buono, ho capito», la precedette
lui, annuendo mestamente col capo.
Grace sorrise e gli accarezzò una guancia. «Bravo.
Non dovrebbe succedere nulla di particolare, ma se per caso dovessi
notare qualcosa di strano non esitare a mandarmi un SMS. Lo stesso
farò io se mi capitasse qualche imprevisto. Siamo
intesi?».
«Intesi».
«Okay».
Grace scese dall’auto, lasciando le chiavi al cantante, e
risalì la strada con le mani nelle tasche, guardandosi
intorno. Si fermò di fronte l’entrata
dell’hotel e notò che il palazzo di fronte aveva
molte finestre che davano sulla strada e da cui, quindi, si sarebbe
potuto, con le attrezzature giuste, guardare proprio
all’interno delle camere dell’hotel.
Finalmente entrò nella hall dell’albergo e si
guardò intorno, ammirando gli arredi e il tipo di persone
che lo frequentavano. Sicuramente non le stesse che avrebbe trovato in
un motel, ma nemmeno quelle che appartenevano alla cerchia sociale
della signora Phillips: lei era una semplice impiegata e suo marito non
guadagnava di certo così tanto da potersi permettere il
lusso di pagare una camera in un hotel a quattro stelle
chissà quante volte a settimana a sua moglie. Ciò
che ne dedusse fu che probabilmente era il suo amante a pagare per lei.
«Buongiorno signorina, posso aiutarla?».
Grace si voltò verso il receptionist dietro il bancone,
ricambiò il suo sorriso cordiale e si avvicinò.
«Salve, è lei il capo ricevimento?».
«Sì, proprio io», rispose lisciandosi la
cravatta sul petto.
«Oh, dev’essere il mio giorno fortunato! Volevo
chiederle qualche informazione su questo hotel, se non le dispiace. Sa,
ho visto il vostro sito Web e mi è stato consigliato da
molti amici, lodato per l’eleganza e per l’ottima
ospitalità, ma io non vado mai in un posto senza prima
essermi accertata che tutto corrisponda alla
realtà… come dire, se non vedo non
credo».
L’uomo si gonfiò il petto di tutti quei
complimenti e persino le sue gote si fecero più rosse, manco
fossero stati rivolti a lui.
«Sarò ben felice di rispondere a qualsiasi sua
domanda, signorina».
Grace lo tempestò davvero di domande, chiedendogli tutto
ciò che le veniva in mente e lasciandosi trasportare
tranquillamente in quella conversazione che serviva solo per farle
guadagnare tempo e qualche simpatia. Arrivò persino ad un
certo punto chiedendosi per quanto avrebbe ancora potuto reggere quella
commedia, in attesa che la signora Phillips le desse una chance di
sapere in che stanza fosse senza chiedere direttamente al capo
ricevimento, cosa che l’avrebbe messa in antipatia
perché erano informazioni riservate.
Non ne poteva proprio più, quando il telefono dietro il
bancone squillò e l’uomo rispose. Fu una
conversazione breve, durante la quale lui aveva detto
pressoché un paio di parole e l’aveva sempre
guardata sorridendo. Una volta terminata, si scusò ancora e
chiamò un numero interno.
«La signora Phillips mi ha chiamato perché non
è ancora arrivato il servizio in camera, è
successo qualcosa?».
Grace, nonostante fosse estremamente più attenta, prese una
brochure dell’hotel e la sfogliò svogliatamente.
«Uhm, fate in fretta. Sì, camera 409! Sono mesi
che viene qui, ancora non l’hai imparato? Va bene, ciao,
ciao». Posò la cornetta e le rivolse
l’ennesimo sorriso, dicendo: «Mi scusi signorina,
sono cose che capitano però».
«Ma certo, si figuri… Senta, non ho proprio potuto
fare a meno di ascoltare e…», fece finta di
guardarsi intorno, allarmata, poi si avvicinò
all’uomo sporgendosi sul bancone. «Lei ha detto che
questa signora Phillips viene qui da mesi, mi pare un po’
strano… non è che in questo hotel ci sono
servizi, sa cosa intendo, per adulti…».
«Oh! Oh no, no assolutamente signorina! Il nostro
è un hotel molto prestigioso, non permetteremmo mai che vi
fossero cose del genere…».
«No, perché sa, adesso anche questi servizi
costano e sono veramente molto discrete le signorine
che…».
«No, le assicuro al cento per cento che il nostro albergo non
si è mai macchiato di questa fama».
«Questo mi rincuora», gli sorrise.
«Allora grazie infinite, davvero. Riceverà
sicuramente una mia prenotazione, mi ha proprio conquistata.
L’albergo, ovviamente».
«Non avevo dubbi, signorina! Grazie a lei e buona
giornata!».
Uscì dall’hotel sbattendosi la piccola brochure
sul palmo aperto della mano, un sorriso soddisfatto sulle labbra.
Tornò a passo svelto alla macchina e trovò Bill
che stava ascoltando annoiato delle canzoni alla radio. Non appena la
vide sobbalzò e le rivolse uno sguardo assassino.
«Quanto diavolo ci hai messo?! Stavo iniziando a temere che
ti fosse successo qualcosa!».
«Scusami, mi ci è voluto un
po’», rispose chiudendo la portiera e sistemandosi
il laptop sulle gambe.
Aprì il motore di ricerca, cercò il sito
dell’hotel e confrontò la piccola planimetria
dell’albergo stampata sulla brochure con quella ingrandita
sul PC.
«Che cosa stai guardando?», domandò
Bill, sporgendosi.
«Con un po’ di fortuna,
magari…», biascicò lei in risposta, per
poi rivolgergli uno sguardo luminoso. «La stanza della
signora Phillips si trova al quarto piano e ha una finestra che
dà proprio sulla strada. Hai capito cosa vuol
dire?».
«Uhm… no».
Grace sbuffò lievemente, poi gli spiegò:
«Di fronte all’hotel c’è un
condominio, non troppo alto, da cui posso sperare di poter fare qualche
foto all’interno della camera!».
Bill si sistemò meglio sul sedile, guardando
l’auto parcheggiata di fronte alla loro in silenzio.
«Grace, ma sei sicura che fare l’investigatrice
privata sia legale?».
La detective accennò una risata. Girò le chiavi
nel cruscotto e il motore dell’Audi prese vita con un dolce
ruggito. Quell’auto era davvero bella, ma quanto le mancava
il suo fuoristrada!
Raggiunse il retro dell’edificio di fronte
all’hotel, scese dall’auto e prese dai sedili
posteriori la borsa con tutta la sua attrezzatura.
«Bene. E adesso io che cosa dovrei fare?», chiese
il cantante, sceso a sua volta dall’auto per sgranchirsi un
po’ le gambe.
«Vai a casa, ovvio».
Bill strabuzzò gli occhi. «Come? Ti dovrei
lasciare qui da sola?».
«Devo solo fare delle foto, ti annoieresti da morire e mi
annoierei anche io nel sentire le tue lamentele».
Gli accarezzò affettuosamente una guancia, passandogli
accanto per raggiungere la scala antincendio che portava fino al tetto
piatto dell’edificio.
«Come farai per il ritorno?».
«Oh, un modo lo troverò, non ti preoccupare. Ora
vai».
Ancora un po’ indeciso sul da farsi, la guardò
salire la prima rampa di scale fino a quando Grace non gli sorrise e
mosse la mano per incitarlo ad andare. Allora Bill sbuffò,
salì in macchina ed uscì dal vicolo.
Grace, più tranquilla, salì sul tetto e si
sedette di fronte al parapetto, contò le finestre e
localizzò quelle del quarto piano, poi prese la macchina
fotografica che aveva ancora al collo e con un po’ di zoom
riuscì a localizzare quella della stanza della signora
Phillips, la quale, sdraiata sul letto in solo completo intimo, aveva
un braccio steso verso il proprio amante.
Grace scattò qualche foto, cercando di essere il
più precisa possibile nel prendere il viso della signora
Phillips, e nel farlo si accorse del bel sorriso che aveva stampato
sulle labbra. Sembrava davvero felice.
«E dai, fatti vedere», disse ad un certo punto,
aspettando che l’amante facesse la sua comparsa
nell’inquadratura per poterlo immortalare.
Quando finalmente comparve, Grace rimase un po’ sbigottita.
Una ragazza. Una bella ragazza, con i capelli tinti di un biondo
così chiaro da sembrare bianchi e la pelle caffellatte. La
signora Phillips tradiva il marito con una ragazza.
***
Se le bolle
dell’idromassaggio avevano rilassato tutti i suoi muscoli,
quelle nel suo cervello, in ebollizione dopo la chiacchierata con
Oswin, non avevano intenzione di dargli tregua.
Continuava a ripensare a quello che si erano detti, alle sue patetiche
scuse, alle sue espressioni che nonostante stesse cercando il suo
perdono manifestavano comunque l’imbarazzo che provava quando
qualcuno che entrambi conoscevano passava e li vedeva intenti a
discutere. Durante la loro breve chiacchierata si era così
incazzato che aveva capito all’istante che la sua giornata,
già pessima, era stata irrimediabilmente rovinata, tanto che
l’unica cosa che poteva sperare ancora di fare era gettarsi
sul letto e dormire fino all’inizio del suo turno.
«Posso mettere la sirena? Ti prego, solo due
minuti!».
Dylan sbuffò per l’ennesima volta, ma gli
scappò anche una risatina. Tom lo stava facendo apposta, ne
era sicuro, e avrebbe voluto ringraziarlo per il tentativo, ma il suo
umore era così a terra che nulla sarebbe stato in grado di
risollevarlo.
«A meno che tu non voglia rischiare di trascorrere la serata
in centrale, te lo sconsiglio vivamente».
Tom scosse il capo, sospirando. «Solo perché
questa sera devo andare a cena dalla madre di Grace,
altrimenti…».
Gli tornò alla mente la scena che aveva visto quella
mattina: loro due in salotto, abbracciati, Tom che sussurrava qualcosa
all’orecchio di Grace e lei che sorrideva
sognante… Ed arrossì, rendendosi anche conto che
non aveva mai parlato di lei col suo ragazzo. Insomma, era uno dei suoi
migliori amici, avrebbe dovuto… sì, dirgli
qualcosa del tipo: “Trattala bene o ti uccido”, ma
non ne aveva mai avuto l’occasione, visto che il suo rapporto
con Tom era sempre stato di tipo conflittuale fino a qualche tempo
prima. Che fosse il momento di affrontare l’argomento?
«Allora… è una cosa seria,
eh?», disse, interrompendo bruscamente il monologo di Tom a
proposito dei paparazzi che sarebbero andati matti vedendolo guidare
l’auto di servizio di un poliziotto.
«Cosa intendi per seria? Se il tuo scopo finale è
quello di chiedermi quando le chiederò di sposarmi, sappi
che…».
«Ehi, quanta fretta!».
Dylan si lasciò andare ad una risata, notando il suo
nervosismo. Era così atipico in lui… Forse
perché aveva visto parte del vero Tom solo quella mattina,
ma era una visione davvero insolita.
«Davvero hai pensato che ti avrei chiesto una cosa del
genere?».
«Beh, si sa come siete voi messicani... legati alle
tradizioni».
Dylan lo guardò con le sopracciglia sollevate. Si stava
palesemente arrampicando sugli specchi, ma dirglielo non avrebbe fatto
altro che peggiorare la situazione e non era il caso. Quindi,
esclamò: «Sai, era da tempo che non vedevo Grace
così felice. Credo che derivi dal fatto che abbia trovato
dei punti fermi nella sua vita, cosa che da quando suo
padre… Insomma, prima di conoscerti era a dir poco
sregolata: lavorava quasi sempre (quando aveva dei casi),
perciò era sempre fuori casa, mangiava dove capitava,
dormiva solo quando ne sentiva la necessità…
Anche io la sentivo a malapena, a causa dei suoi ritmi. Adesso
è diversa, è come se avesse cambiato
priorità ecco. La sua vita gira intorno ad un altro asse, un
altro sole, e ho la sensazione che se venisse a mancare…
crollerebbe di nuovo».
«Che… che cosa stai tentando di dirmi, Dylan? Che
io sono il suo sole, adesso? Ho dovuto sudare sette camicie prima di
riuscire ad entrare nella sua vita come volevo io, per far
sì che la nostra fosse una storia normale per quanto le
nostre vite ce lo permettessero… E adesso tu mi dici che
sarei fondamentale per la sua felicità? Certo, anche io ci
starei parecchio male se di botto mi lasciasse,
però…».
«Però tu non hai alle spalle ciò che ha
passato lei».
«Anche io ho perso mio padre», ribatté
subito Tom, stringendo il volante tra le mani.
«È stato assassinato? Sei andato nel suo ufficio
come ogni pomeriggio, ignaro di tutto, e l’hai trovato in una
pozza di sangue con una pallottola conficcata nel cranio? Ti sei
macchiato la maglietta del suo sangue mentre ti costringevi a non
vomitare? Hai tenuto fra le braccia la persona che amavi di
più al mondo, l’unico punto fisso della tua vita,
fino a quando non è arrivata la polizia?». Dylan
lo guardò apprensivo. «Mi dispiace per tuo padre,
Tom, ma non penso proprio che tu possa fare paragoni».
Il chitarrista era pallido e allo stesso tempo delle gocce di sudore
gli imperlavano la fronte. Non avrebbe mai voluto che Dylan gli
raccontasse come il padre di Grace fosse stato ucciso e come lei, sua
figlia, l’avesse trovato, ma l’aveva fatto e, ci
avrebbe scommesso, non sarebbe riuscito a dormire quella notte.
Il suo silenzio scioccato valse più di mille parole, infatti
Dylan capì di aver esagerato ed appoggiò la
tempia contro il finestrino, dicendo: «Mi dispiace di averti
detto queste cose, probabilmente non ne avevo nemmeno il diritto.
Quello che volevo fare era soltanto dirti di non farla soffrire, ma il
mio tentativo è stato pessimo».
Il volto di Tom si accartocciò e prese colore.
«L’ultima cosa che vorrei è farla
soffrire, non c’era bisogno che tu…».
«Lo so, lo so. Ho visto come la guardi».
Tom annuì, anche se non pienamente sicuro di aver afferrato
il significato nascosto di quelle parole.
«Per quello che mi hai detto su suo
padre…».
«Dimenticatelo».
«Oh credimi, se potessi l’avrei già
fatto. Comunque credo che prima o poi avrei dovuto saperlo, tanto vale
che tu me l’abbia anticipato, almeno saprò come
affrontare il dolore di Grace quando e se me lo vorrà
raccontare».
Dylan accennò un sorriso, contento che l’avesse
presa dal verso giusto. Poi cercò il suo sguardo.
«Pronto?».
«Pronto
per cosa?», domandò Tom, confuso.
Dylan accese la sirena.
***
Grace, approfittando
della bella giornata di sole, decise di non prendere un taxi e di farsi
invece una camminata fiancheggiando le vie dello shopping, come al
solito gremite di gente e di turisti.
La borsa a tracolla contenente il laptop e la macchina fotografica le
sbatteva continuamente sul fianco e quando ripensava alla reazione che
aveva avuto quando aveva scoperto che la signora Phillips tradiva il
marito con una ragazza, di pura sorpresa e sbigottimento, la sentiva
sempre più pesante sulla spalla. Era vero, non se lo sarebbe
mai aspettato dall’anonima signora Phillips, una donna come
tante altre con una bella casa, un figlio sedicenne e un lavoro
normalissimo, ma non era quello il motivo che la faceva sentire
così a disagio. Continuava a pensare a come avrebbe fatto a
dirlo a suo marito, un uomo tutt’altro che gay e che, per
quel poco che lo conosceva e per ciò che le diceva il suo
istinto, non avrebbe preso affatto bene un’umiliazione del
genere. Sua moglie non lo aveva solo tradito…
l’aveva tradito con una donna!
Avrebbe dovuto chiamare il signor Phillips per aggiornarlo sul lavoro
che aveva svolto fin’ora, ma sentiva di aver bisogno di
pensarci, di un altro po’ di tempo per autoconvincersi che il
suo compito era solo quello di fare ciò per cui
l’aveva pagata, ossia scoprire se sua moglie lo tradisse, e
che quello che sarebbe successo dopo non era un problema suo.
Posso sempre dire al
signor Phillips che non ho ancora l’auto, oppure che sua
moglie per ora non ha fatto nulla di male…
Stava
ancora rimuginando sulla questione, quando si accorse di essere
arrivata a destinazione. Respirò profondamente per farsi
coraggio e poi entrò nell’ospedale.
C’era stata così tante volte nell’ultimo
periodo che non ebbe nemmeno bisogno di chiedere alle infermiere in che
reparto fosse la persona che cercava, andò a passo sicuro e
raggiunse la sua stanza condivisa in poco tempo.
Quella volta non era solo, al suo fianco c’era quella che
molto probabilmente doveva essere sua madre, anche se era una signora
piuttosto anziana, con i capelli grigi. Grace rimase a guardarlo da
lontano per un attimo, fino a quando sia lui che sua madre non si
accorsero di lei.
La donna si alzò in fretta, riconoscendola, e
baciò la mano del figlio diverse volte, poi strinse fra le
mani il piccolo crocifisso d’oro che portava al collo e si
allontanò, anche se prima le rivolse uno sguardo dolce ma
infinitamente stanco. La detective ebbe come la sensazione che
dimostrasse più anni di quanti ne avesse realmente, come se
tutto ciò che aveva vissuto avesse velocizzato
l’arrivo della vecchiaia. Ricambiò il sorriso con
un po’ d’incertezza, poi si decise a raggiungere il
letto di Kenelm.
Aveva ancora un grosso cerotto sulla gola, dove gli si era conficcato
un pezzo di vetro quando si era schiantato contro quel negozio di
fiori, e altri sparsi sul viso.
Lo sguardo di Grace si posò sul suo polso ammanettato alla
sbarra del letto e le nacque un sorriso desolato sul viso, mentre il
nipote di Doc Mahkah la guardava impassibile.
«Sono passata solo per vedere come stavi», gli
disse dopo qualche altro secondo di silenzio. «E per dirti
che mi dispiace per quello che è ti è
successo».
Kenelm a quell’affermazione sgranò un
po’ gli occhi, incredulo. «Come?»,
gracchiò a fatica.
Grace sospirò e si sedette dove fino a poco prima era stata
seduta la madre del ragazzo. «Mi dispiace soprattutto che tu
abbia creduto che sia stata io a provocare la morte di tuo zio. Sai,
io… tenevo a Doc, per quanto possa sembrare assurdo. Diciamo
che ci aiutavamo a vicenda».
Si strinse nelle spalle ed incrociò lo sguardo spaesato e
lucido di Kenelm. Grace accennò un sorriso.
«Volevi vendicare la sua morte e ti capisco benissimo, puoi
credermi. Ma hai sbagliato persona: io ero davvero l’ultima
che potesse volere la sua morte. Mi sarebbe piaciuto venire al suo
funerale… ma non importa».
Si alzò dalla sedia e si infilò le mani nelle
tasche, sentendosi all’improvviso più leggera. Gli
rivolse un altro fugace sorriso, dicendo: «Sarà
meglio che vada, ora. Spero che tu ti riprenda presto».
Stava per uscire in corridoio ed incamminarsi verso le scale, quando da
dentro la stanza sentì Kenelm dire più forte che
poteva: «Chi l’ha ucciso, allora?».
Grace si fermò e le parve che anche il suo cuore si fosse
fermato un attimo, il tempo di un’illuminazione.
Tornò dentro e posò le mani sulla sbarra del
letto, chinandosi sul viso di Kenelm.
«Le stesse persone che hanno ucciso mio padre»,
rispose frettolosamente. «Kenelm, so che tuo zio aveva
cercato di tenerti il più lontano possibile dalla sua vita,
voleva che tu frequentassi il college, ma… tu ogni tanto
stavi con lui, sapevi quello che succedeva nella sua gang,
vero?».
Il ragazzo annuì, anche se disorientato.
«Anche in quest’ultimo periodo? Il grande scambio
di droga tra le due gang concorrenti di Doc che doveva avvenire
all’Halo.
Tu ne sapevi niente?».
«Zio… sì, zio mi aveva raccontato
qualcosa, ma non aveva… voluto che andassi. Troppo
pericoloso».
«Ho bisogno di sapere tutto quello che sai».
Kenelm la guardò assottigliando gli occhi, soppesando se
fidarsi o meno, quando Grace posò le dita sulle manette che
portava e, accartocciando il viso, disse: «Tutto quello che
sai. In cambio ti farò avere uno sconto di pena».
Aspettò che annuisse, più intimidito che
realmente convinto della validità della sua proposta, poi
uscì dalla stanza e percorse in fretta il corridoio.
***
«Mamma, sono
a casa!».
«Finalmente!», gridò lei dalla cucina,
mentre altre voci si univano alla sua.
Grace entrò in salotto e con tanto d’occhi
guardò Bill, Tom e persino Molly seduti sul divano di casa
sua, che guardavano tranquillamente la TV.
«Com’è possibile, sono davvero
l’ultima?».
«A quanto pare», ridacchiò Tom,
stiracchiandosi.
Aveva un sorriso sereno sulle labbra, lo stesso che aveva anche Bill:
Grace intuì che dovevano aver fatto una lunga chiacchierata,
una volta a casa.
«Scusate, mi sono trattenuta in ufficio più tempo
del previsto. Vado a cambiarmi e arrivo subito, faccio in un
attimo».
Grace si chiuse la porta della camera alle spalle e si immerse ad
ascoltare il silenzio con gli occhi chiusi. E lei che aveva sperato di
rilassarsi sotto il getto caldo della doccia prima che arrivassero gli
ospiti di sua madre! Ne avrebbe avuto davvero bisogno, quella giornata
era risultata più stancante del previsto, soprattutto a
causa del suo incontro con Kenelm, il quale le aveva dato una nuova
speranza di fare un passo avanti nel caso più importante di
tutti, ma anche tante preoccupazioni che tornavano ad affollarle la
mente. Poi pensò che gli ospiti di sua madre erano Bill, Tom
e Molly, suoi amici, persone che l’avrebbero capita al volo e
non avrebbero fatto troppe domande, e allora si rilassò.
Si cambiò in fretta, infilandosi i pantaloni di una tuta e
una maglietta un po’ scolorita che indossava sempre in casa,
poi passò in bagno a rinfrescarsi il viso e raggiunse gli
altri, già pronti per andare a tavola.
Sua madre come al solito aveva esagerato, tanto che avrebbero mangiato
avanzi per almeno una settimana, però era felice di vederla
sorridente e così incline alle chiacchiere: doveva sentirsi
così sola quando lei stava fuori tutto il giorno per lavoro
oppure non tornava a cena per stare con Tom… Grace si
appuntò mentalmente di passare un po’
più di tempo con lei, d’ora in avanti.
«Ah, tesoro, come sta andando a scuola? Ti trovi
bene?», domandò Melanie a Molly, servendole nel
piatto ancora un po’ di verdure alla griglia.
«Oh sì, anche io sono molto curioso!»,
si aggregò Bill, puntando gli occhi su di lei.
«Beh… bene, direi. Devo ancora abituarmi ai
compiti a casa, davvero odiosi, ma per il resto va tutto
bene!».
«I tuoi compagni, come sono? Ci sono dei ragazzi
carini?».
«Mamma!», la rimproverò Grace, mentre
Molly arrossiva, non facendo altro che aumentare la
curiosità di Melanie, che la punzecchiò ancora un
po’.
«Sì, devo dire che ci sono molti ragazzi carini,
ma li conosco solo di vista…», rispose la
ragazzina, in evidente imbarazzo. All’improvviso
però corrugò la fronte ed aggiunse: «A
parte un ragazzo di nome Nigel che credo ci stia provando con me: mi ha
invitato a vederlo giocare a baseball, domani mattina».
«Non ne sembri entusiasta», fece notare Tom,
ridacchiando.
«Uhm, il baseball non mi piace
granché…».
«E nemmeno Nigel, dì la
verità», disse Grace, prendendo il bicchiere
d’acqua.
Molly la guardò a bocca aperta, la sua espressione parlava
da sé: “Come hai fatto a capirlo?”.
«Ti conosco troppo bene, ormai», le sorrise.
«Piuttosto, qual è il motivo per cui vai alla
partita?».
Molly si imbronciò. «Non verrò mai al
cinema con te, capisci sempre tutto in anticipo».
Tutti scoppiarono a ridere, contagiando anche la stessa Molly, la
quale, dopo qualche tentativo di cambiare discorso, fu costretta a
confessare: «In realtà Nigel non mi ha dato molta
scelta, però ci vado perché voglio fare amicizia
con Sheila, una mia compagna. Le ho chiesto se poteva venire con me e
ha accettato, anche perché deve fare delle foto per il
giornalino della scuola».
«Nient’altro?», domandò ancora
Grace, fissando tranquillamente il piatto di fronte a lei. Molly scosse
il capo, facendo la stessa cosa. «E le ricerche di cui mi
avevi parlato, hanno portato a qualcosa?».
«Quali ricerche?», domandò Bill.
«Voleva fare la piccola detective e scoprire alcune cose sui
suoi compagni di classe», spiegò brevemente Grace,
ridacchiando e facendo arrossire Molly. «Allora, come sono
andate?».
«Non ho scoperto molto», rispose la ragazzina
stizzita. «Solo che Sheila collabora al giornalino della
scuola come fotografa, mentre Ben si occupa della grafica, gioca a
basket e si è già iscritto alle gare di
matematica; Nigel è il capitano della squadra di baseball e
nelle classifiche di popolarità ha un posto
invidiabile… Ah, ho anche scoperto suo padre è
alle dipendenze di mio padre, ma non è l’unico
caso». Si guardò intorno, rendendosi conto
dell’innaturale silenzio che si era creato, ed
accennò un sorriso.
«Nient’altro».
In realtà aveva anche scoperto che Aiden giocava nella
stessa squadra di baseball di Nigel, ma non voleva parlare di lui:
Grace, avendo già intuito che stava celando qualcosa,
avrebbe sicuramente capito che l’altro motivo per cui andava
alla partita era proprio per vedere lui e sarebbe venuta a galla la
cotta colossale che si era presa per quel ragazzo che a malapena
conosceva.
«Bene, tesoro, sono proprio contenta che tu ti stia
ambientando», disse la signora Moore, accarezzandole un
braccio. Quindi posò gli occhi sulla figlia.
«Grace, la tua giornata com’è andata
invece?».
La detective si strinse il collo nelle spalle. «Sono andata
avanti con il caso del signor Phillips, ho pedinato un po’
sua moglie, fatto qualche foto… nulla di
interessante».
Bill spalancò gli occhi. «Come sarebbe a dire, non
hai capito chi è l’amante?».
Grace provò a distogliere lo sguardo, ma
intercettò quello di Tom, al quale bastò un
secondo per capire che Grace avrebbe voluto cambiare argomento.
«Anche se l’avesse capito, a te che te ne importa?
Non lo conosci nemmeno», disse il chitarrista, proprio col
fine di aiutare Grace. Poi chiese, per essere sicuro che Bill non vi
tornasse più sopra: «Come mai sei dovuta rimanere
così tanto in ufficio?».
La detective lo ringraziò con lo sguardo, pulendosi la bocca
con il tovagliolo. «Mi sono messa a sviluppare le foto
e…».
«In ufficio hai una camera oscura?»,
domandò Molly, sorpresa. «Non lo
sapevo!».
«Non è una vera e propria camera oscura,
è il bagno», rispose Grace, ridendo.
«Dicevo, sono anche andata in ospedale da Kenelm, il nipote
di Doc Mahkah».
«Oh, come sta?», domandò Melanie,
alzandosi ed iniziando ad impilare i piatti vuoti.
«Bene, si sta riprendendo in fretta».
«Menomale».
Tom la osservò sorridere rincuorata e si disse che doveva
pensarla proprio come la sua Grace: nonostante quel ragazzo avesse
tentato di farle del male, erano felici che stesse meglio.
«Bill e Tom hanno portato il gelato, chi lo
vuole?», esclamò Melanie all’improvviso,
con tono gioioso.
Bill e Molly alzarono subito la mano e Tom ridacchiò
definendoli due bambini, ma si ammutolì non appena vide
Grace con le mani a reggerle il viso e gli occhi spenti, immersi
nell’acqua che aveva nel bicchiere. Si convinse del tutto che
doveva esserle successo qualcosa e non vedeva l’ora di stare
da solo con lei per scoprire di cosa si trattasse.
«Resti qui a
dormire, stanotte?».
Tom voltò il capo verso di lei e la guardò
attentamente, soffermandosi sulla sua espressione neutra e sui suoi
occhi in cui si intravedeva il riflesso della televisione di fronte a
loro.
L’aveva detto sottovoce, con il viso posato sulla sua spalla,
ma le sue guance presero colore comunque e si voltò a vedere
se Melanie avesse reagito in qualche modo. Grace se ne accorse e
soffocò una risata. Perlomeno l’aveva fatta
sorridere.
«Fino a prova contraria questa è casa mia, decido
io chi deve stare a dormire», disse ancora a bassa voce,
posandogli un bacio sulla gola.
«Cos’è che confabulate voi
due?», domandò Bill, mentre Molly al suo fianco
sbadigliava vistosamente.
«Niente, niente», si affrettò a
rispondere Tom, impacciato. Il cantante gettò uno sguardo a
Grace, la quale ricambiò sollevando gli occhi al cielo.
«Forse è meglio che me ne torni a casa, domani
mattina ho appuntamento dal parrucchiere», disse Molly,
distogliendo l’attenzione di Bill dal fratello gemello.
«Devi andare dal parrucchiere per la partita di
baseball?».
Doveva dire la verità: Grace si divertiva un mondo a
punzecchiarla, soprattutto quando sapeva per certo che le stava
nascondendo qualcosa.
Molly arrossì e si alzò in piedi con fare
nervoso. «No, non ci vado per la partita! È
l’appuntamento mensile di mia madre, io
l’accompagno».
Grace continuò a ridere sotto i baffi. «Ah, ho
capito…».
«Okay, allora dovremmo tornare a casa anche noi»,
disse Bill cercando il consenso del fratello, che non
arrivò. Grace allora prese la parola e disse a voce alta, in
modo tale che anche sua madre, in cucina a prepararsi una tisana,
sentisse: «Tom resta qui a dormire».
«Oh. Va bene», rispose Bill, anche lui preso in
contropiede.
Melanie uscì proprio in quel momento dalla cucina e con un
sorrisino malizioso diede la buona notte a tutti, gettando uno sguardo
particolarmente esplicito a Tom, il quale, per sua sfortuna,
provò una vampata di calore sul viso.
Poco dopo Molly e Bill uscirono di casa e i due
“piccioncini” rimasero soli. Grace spense la TV e
condusse il chitarrista in camera sua.
«Grace…».
Gli diede le spalle e si fece scivolare giù dai fianchi i
pantaloni della tuta, rispondendo distrattamente:
«Sì?».
Tom provò a concentrarsi, ma per un momento gli parve di
aver dimenticato ciò che voleva dirle. Quando
riuscì a ricordarlo, uscendo da quella specie di ipnosi, si
avvicinò al letto e disse:
«C’è qualcosa che non va? È
successo qualcosa?».
Grace levò lo sguardo, con le mani sui bordi della
maglietta, e cedette, sospirando. Gli raccontò tutto quello
che le frullava nella testa, a partire dall’amante della
signora Phillips e la sua decisione di tirare un po’ alla
lunga la questione con il suo cliente, fino a giungere al suo incontro
con Kenelm, alla loro chiacchierata e al fatto che forse si stava
aprendo una porta per una possibile svolta nel caso in cui non era
coinvolto solo suo padre, ma tutti loro. Tutto dipendeva da Kenelm, da
ciò che sapeva della sparatoria all’Halo,
delle persone che l’avevano provocata e di quelle stesse
persone che quasi sicuramente avevano avuto rapporti con Doc Mahkah per
giungere a lei.
Tom, che aveva ascoltato tutto il suo sfogo in silenzio, quando la vide
svuotata e stanca, oltre che di nuovo preoccupata, la strinse fra le
braccia e la fece stendere al suo fianco sul letto, avvolti dal buio
della notte.
«Dimmi qualcosa Tom, dimmi che tutto si sistemerà
presto. Sto iniziando a sperare solo che finisca il prima possibile,
senza curarmi del come. Questo mi spaventa, perché voglio
più di qualsiasi altra cosa dare giustizia a mio padre, ma
mi spaventa di più pensare di vivere ancora per molto con la
paura che accada qualcosa alle persone che amo».
Le parole di Dylan riecheggiarono nella mente di Tom e fu certo del
fatto che fossero vere: le priorità di Grace erano davvero
cambiate, tanto da mettere in secondo piano il desiderio di giustizia
per suo padre. Con un brivido di freddo lungo la schiena
ricordò anche il racconto di come lei l’aveva
trovato morto, ma lo scacciò più in fretta che
poté.
«Sono certo che li prenderai presto, che tuo padre
avrà la giustizia che merita e che noi
vivremo…».
«…tutti felici e contenti?». Grace
accennò un sorriso, nonostante avesse gli occhi umidi di
lacrime.
Tom le accarezzò i capelli, sistemandoglieli dietro
l’orecchio. «Esatto. Ne sono più che
sicuro».
La detective gli accarezzò una guancia e gli posò
un bacio sulle labbra, assaporandone il sapore e soffermandosi
soprattutto sul suo labbro inferiore, sul suo piercing.
Tom ad un certo punto la interruppe per esclamare: «Ma
davvero la moglie del tuo cliente è lesbica?».
Grace lo guardò per capire se stesse dicendo sul serio e
rise quando lo vide divertito come se gli avesse appena raccontato una
barzelletta.
«Io, se scoprissi che mia moglie mi tradisce per una donna,
credo che mi incazzerei di brutto».
«Già, penso che anche il signor Phillips
reagirà così non appena lo verrà a
sapere», rimuginò la detective.
«È per questo che voglio far passare un
po’ di tempo, per essere sicura che non sia una cosa
occasionale ciò che ho visto oggi. La ragazza con cui era,
era davvero giovane… magari…».
«Credi che la signora Phillips si sia rivolta a qualche
agenzia di questo tipo e che lei non sia la sua amante
fissa?».
Grace lo guardò stupita. «E tu che ne sai
dell’esistenza di certe agenzie? Ne
hai…?».
«No!», la interruppe subito. «Guardo
anche io C.S.I. ogni tanto! E poi ti pare che io, Tom Kaulitz, abbia
bisogno di rivolgermi a queste agenzie?».
La detective sollevò il sopracciglio e si trattene a stento
dallo scoppiargli a ridere in faccia. Era così divertente,
quando si credeva l’uomo più bello del mondo con
milioni di ragazze ai suoi piedi, pronte a soddisfare ogni suo
desiderio!
«Allora, credi davvero che io…?».
«No, Tom, no», lo rassicurò dandogli un
bacetto sulle labbra. «Sai a cosa stavo pensando, a cena? Che
è stata una vera fortuna che io abbia mandato via Bill prima
di fare le foto all’amante della signora Phillips…
Pensa che situazione imbarazzante!».
«Perché?».
«Beh… non credo che avrebbe fatto piacere a Bill
tornare sulla questione… sessualità, ecco. Ah, ma
con Dylan? Raccontami tutto».
Tom le raccontò della loro sessione in palestra, dove aveva
avuto modo di vedere con i suoi occhi ciò che Dylan avrebbe
dovuto subire da quel giorno in avanti a causa della scenata che aveva
fatto con Oswin, il suo partner, di cui si fidava e che, in poche
parole, gli aveva voltato le spalle proprio in un momento
così delicato, per colpa di stupidi pregiudizi. Le
raccontò dunque quello che era successo tra Dylan e Oswin,
cosa che aveva fatto molto soffrire il poliziotto, come se la
situazione complicata che si era creata con Bill non bastasse.
Omise di raccontarle, invece, la parte in cui era stato lui a sfogarsi
con Dylan, offrendogli una chiara visione della sua adolescenza, il
periodo peggiore che avesse vissuto dopo la separazione dei suoi
genitori, e la parte in cui il poliziotto gli aveva detto di non far
soffrire Grace, o almeno ci aveva provato, aggiungendo a quella specie
di predica la spiegazione dettagliata di come lei avesse trovato suo
padre morto nel suo ufficio.
«Tom? Ehi, Tom, ci sei?».
Il chitarrista scosse il capo per togliersi dalla mente
l’immagine di Grace china sul corpo senza vita di suo padre,
il viso e le mani macchiate di sangue, e fissò i suoi occhi
verdi luminosi. «Hai detto qualcosa?».
«Sì, ti ho chiesto se davvero Dylan ti ha fatto
guidare la sua auto e ha messo pure la sirena».
«Ah, sì…», si accinse a
rispondere, ma Grace lo interruppe, non più interessata
all’argomento, e gli chiese: «A cosa stavi
pensando? Eri così assorto!».
«A niente… ero andato in fissa».
«Sì, certo… Secondo me stavi ancora
pensando alle signorine
delle agenzie di quel tipo. Ho ragione?».
«No, no che non hai ragione».
«Dai Tom, ammettilo! Giuro che non mi arrabbio!».
«Ma ti dico che non è vero! E poi
l’unica signorina
che mi interessa non la posso trovare in nessuna di quelle agenzie,
quindi…».
«Oh…», Grace sorrise maliziosa e gli
prese il volto fra le mani, baciandolo con passione. Pian piano quella
stessa passione la travolse, portandola a sdraiarsi cavalcioni su di
lui e a togliergli la maglietta.
«Ehi, ehi», mugugnò Tom sulle sue
labbra, prendendole le mani nelle sue.
«C’è tua madre di
là!».
«E allora? Siamo grandi e vaccinati, è anche
normale che…».
«Sarà anche così, ma non mi
va’ che… Hai capito».
Grace, scioccata, rotolò nella sua parte di letto e
guardò il soffitto con le mani intrecciate sullo stomaco.
«Sicuro che sia per questo motivo? Nel senso, non ti facevo
così… però posso anche accettarlo.
Basta che tu non stia usando mia madre come scusa,
altrimenti…».
«Per quale altro motivo non dovrei fare l’amore con
te?», le sussurrò suadente all’orecchio,
o almeno ci provò, perché l’immagine di
Grace macchiata del sangue di suo padre, quella che non gli aveva
permesso di lasciarsi andare, era ancora lì davanti ai suoi
occhi.
«Non lo so, dimmelo tu».
Tom le avvolse un braccio intorno alla vita e le baciò il
collo, respirando profondamente.
Lei gli diede le spalle, senza però liberarsi dal suo
abbraccio, e mormorò: «Buonanotte, Tom».
Il chitarrista rispose con un po’ di dispiacere nella voce,
poi chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi.
Una Grace diciassettenne, a qualche metro da lui, si voltò e
gli sorrise, invitandolo a seguirla. Si soffermò a guardarla
con attenzione, notando che le sue forme da donna erano in pieno
sviluppo, che aveva qualche chilo di troppo, specialmente sulle cosce,
e che il suo viso aveva ancora un che di adolescenziale, incorniciato
dai capelli portati più lunghi, anche se sempre raccolti in
una coda fatta distrattamente sulla nuca.
Tom si decise finalmente a seguirla e solo quando si fermò
di fronte ad un edificio lo riconobbe come il condominio in cui si
trovava il suo ufficio. Il cuore iniziò a corrergli
più velocemente nel petto mentre saliva le scale dietro di
lei e gli sembrò di perdere un battito quando lesse la
scritta «Schneider Investigations» sul vetro
zigrinato della porta.
La Grace diciassettenne gli rivolse uno sguardo intenso prima di aprire
la porta e di entrare. Quasi immediatamente la sentì urlare,
così forte che Tom si dovette portare le mani sopra le
orecchie mentre le lacrime gli salivano agli occhi, già
consapevole di ciò che avrebbe trovato dentro
l’ufficio: Mitch Schneider, suo padre, morto assassinato.
Grace smise improvvisamente di gridare e al posto delle urla Tom
sentì solo i suoi singhiozzi e i suoi gemiti, che lo fecero
soffrire ancora di più, se possibile. Per questo
entrò nell’ufficio e si pietrificò di
fronte alla scena che si trovò di fronte: Grace,
inginocchiata nel bel mezzo della pozza di sangue, teneva stretto fra
le braccia il corpo inerte di suo padre, il quale aveva un foro di
proiettile nel bel mezzo della fronte e gli occhi verdi vitrei che
sembravano fissarlo. La Grace diciassettenne sollevò di
scatto il capo e lo fissò in lacrime, il mento macchiato di
sangue e l’espressione più fragile e smarrita che
avesse mai visto nello sguardo di qualcuno.
«Tom», lo chiamò, ma senza muovere le
labbra. Il chitarrista non seppe cosa fare, se fare un passo avanti ed
aiutarla oppure andare via, scappare da quel dolore più
grande di lui, impossibile da sanare.
«Tom», lo chiamò ancora e ancora, fino a
quando non si coprì le orecchie con le mani e chiuse gli
occhi con forza.
Quando li riaprì, quasi di scatto, vide sopra di
sé il volto di Grace, la sua Grace, illuminato dalla debole
luce della luna, che lo chiamava scrollandogli leggermente le spalle.
«Grace», esclamò e si tirò su
di scatto, stringendola in un abbraccio. «Grace, Grace, stai
bene».
«Certo che sto bene. Tu come stai? Continuavi ad agitarti,
hai fatto un incubo?».
Tom annuì, tentando di non far riaffiorare le immagini di
quel brutto sogno e cacciando indietro le lacrime che gli gonfiarono
gli occhi. Grace gli massaggiò la schiena con entrambe le
mani e gli posò un lieve bacio sulla guancia.
«Va tutto bene adesso, è passato».
Ci volle ancora un po’ perché Tom ne fosse
pienamente convinto e si tranquillizzasse, e quando riuscì a
liberarsi dalla sua morsa d’acciaio Grace andò in
cucina a prendergli un bicchiere d’acqua. Tornata in camera,
vide che aveva il cellulare tra le mani, il cui display gli illuminava
il viso in modo quasi spettrale.
«Che cosa stai guardando?», gli domandò
con tono carezzevole, anche se era un po’ preoccupata dal suo
strano comportamento.
Tom voltò il cellulare e glielo mise sotto gli occhi,
permettendole di vedere la foto che era andato subito a cercare per
scacciare le tormentate immagini dell’incubo.
Grace si portò una mano alla bocca, trattenendo il respiro.
Come faceva Tom ad avere quella foto? Perché
gliel’aveva fatta vedere, aprendo una cicatrice nel suo
cuore?
Il chitarrista le levò di mano il bicchiere
d’acqua, che stava stringendo fin troppo forte, e lo
posò sul comodino, poi le accarezzò una guancia,
chinandosi per baciarle la tempia.
«Tua madre mi ha dato alcune foto di te da piccola prima che
partissi per New York, tra cui anche questa. È la mia
preferita, per questo motivo ce l’ho sul cellulare.
L’incubo che ho fatto… riguardava voi
due», indicò padre e figlia nella foto.
«Ho sognato il momento in cui l’hai
trovato… assassinato nel suo ufficio».
Grace si lasciò scappare un singhiozzo dalle labbra e non
riuscì più a trattenere le lacrime, che le
scivolarono sulle guance e si depositarono sotto il suo mento. Una di
esse cadde persino sullo schermo ancora illuminato del cellulare,
rendendo acquoso il viso di suo padre.
Non volle sapere perché sua madre gli avesse dato quelle
foto, non volle sapere come Tom avesse scoperto come aveva trovato suo
padre.
Non volle sapere semplicemente nient’altro che non
c’entrasse con le sue braccia strette intorno alla schiena,
tanto forte da non farla nemmeno respirare, e con l’incavo
della sua spalla che accoglieva così volentieri tutte le sue
lacrime.
_______________________________
Buongiorno!
:)
Allora, che ve ne pare di questa seconda parte? Spero che non abbia
deluso le aspettative!
La parte migliore, secondo me, è proprio l'ultima scena,
anche se ci sono diverse cose da sottolineare, tra cui la reazione di
Bill all'uscita di Tom con Dylan, il tradimento accertato della signora
Phillips - con una donna - e il modo in cui Tom ha scoperto come Grace
abbia trovato morto suo padre. Un bel po' di cose, insomma! Ma tutte
più o meno legate al mondo dell'investigazione. Per il
romanticismo, ci sarà tempo ;)
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, ancora
una volta, e chi ha letto soltanto. Inoltre, un saluto anche a chi ha
messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate, per mia immensa
gioia :)
Un bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 19 ***
Capitolo
19
“So tell me your secrets and ask me
your questions
Oh, let’s go back to the start. […]
Nobody said it was easy, it's such a shame for us to part
Nobody said it was easy, no-one ever said it would be so hard
Oh, take me back to the start”
(Scientist
– Coldplay)
Uscite dal parrucchiere, Molly
e sua madre salirono sulla limousine che le stava attendendo fuori dal
salone. Si sedettero una di fronte all’altra e mentre la
signora Delafield si controllava e ricontrollava i colpi di sole appena
fatti, Molly guardò l’ora sull’orologio
d’argento e placcato di piccoli Swarovski – il
più modesto che aveva – che portava al polso, poi
posò lo sguardo fuori dal finestrino, sperando che sua madre
si fosse dimenticata dell’impegno che aveva preso con Nigel.
Sarebbe andato tutto bene se fosse stata in grado di autocontrollarsi,
ma purtroppo il suo nervosismo la tradì.
«Tesoro, credi davvero che stia bene? A me sembra che alcuni
non siano venuti…».
«Vanno benissimo, mamma, non ti preoccupare».
La signora Delafield la guardò con cipiglio perplesso, fino
a quando la figlia non se ne accorse e la guardò negli
occhi, specchio dei suoi.
«Molly, va tutto bene? Continui a morderti le labbra, lo sai
che poi ti si screpolano?».
«Sì, sì… va tutto
bene».
La donna chiuse di scatto lo specchietto che aveva in mano e lo
infilò nella borsetta di Louis Vuitton, direzionando tutta
la propria attenzione verso la figlia.
«Invece sono convinta del contrario. Sembri agitata, ma non
capisco per quale motivo. Oh, forse è per la partita di
baseball a cui sei stata invitata? A che ora è, a
proposito?».
Molly sospirò e portò di nuovo gli occhi sul
paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. «Alle
dieci».
«Oh, ma è tra poco!».
«Non è vero, manca ancora
mezz’ora…».
«Autista!».
La ragazzina sgranò gli occhi e sobbalzò
all’urlo di sua madre, capendo ciò che voleva
fare. Provò a dissuaderla, ma mai nessuno era riuscito a
dissuadere la signora Delafield, nemmeno suo padre, quindi al primo
tentativo fallito si arrese.
«Prima di tornare a casa potremmo accompagnare la mia piccola
Molly alla sua scuola? Grazie». Sua madre si voltò
verso di lei, raggiante. «Visto? Così non devi
tornare a casa per poi riuscire!».
La sua idea iniziale, in realtà, era proprio quella di
tornare a casa per indossare qualcosa di un po’
più alla mano, ma soprattutto per cambiare l’auto
che l’avrebbe lasciata scendere proprio di fronte alla
scuola; ora però non le restava altro da fare che pregare
che si bucassero tutte e quattro le gomme della limousine.
Una decina di minuti più tardi, Molly scorse in lontananza
la facciata con il rosone colorato della Notre Dame High School e
sentì un groppo formarsi nella sua gola. La situazione
diventò ancora più critica quando vide tutti quei
ragazzi presenti sul piazzale della scuola, i quali aspettavano di
raggiungere insieme il campo da baseball, e in mezzo a loro
c’era anche Sheila.
Era appena scesa dall’auto di suo padre, una Mercedes-Benz
più che dignitosa ma che a confronto della limousine della
signora Delafield sembrava un catorcio, e lo stava salutando, quando il
suo sguardo fu catturato proprio dalla lunghissima limo bianca che
aveva appena parcheggiato sull’altro lato della strada.
Molly incrociò gli occhi di Sheila e vi fuggì
subito, vergognandosi come non mai della sua esagerata ricchezza. Solo
dopo qualche secondo si ricordò che i finestrini erano tutti
oscurati.
«Tesoro? Ti senti bene?».
Molly alzò il viso verso sua madre e, rendendosene conto
solo successivamente, le lanciò uno sguardo fulminante. La
signora Delafield spalancò la bocca, scioccata, ma non fece
in tempo a dire nulla alla figlia perché, senza aspettare
l’autista, aveva aperto da sé la portiera ed era
scesa, sbattendosela poi alle spalle. Attraversò la strada
di corsa, la borsa appesa ad un braccio e il viso rivolto verso terra,
dove avrebbe voluto stendersi per farsi investire piuttosto che avere
tutti quegli sguardi sbalorditi addosso.
Quando raggiunse Sheila, sollevò gli occhi timidamente ed
accennò un sorriso. «Sono in ritardo?»,
chiese.
Sheila negò col capo, gli occhi ancora sgranati.
«B-Bella macchina».
Molly fece finta di non aver sentito ed ampliò il proprio
sorriso, ottenendo però l’effetto opposto: invece
di sembrare rilassata, infatti, manifestò tutta
l’agitazione e il disagio che stava provando.
«Andiamo?».
La sua compagna annuì e salutò suo padre
un’ultima volta, poi insieme si avviarono verso i campi
sportivi che si estendevano a perdita d’occhio dietro
l’edificio scolastico.
Arrivarono al diamante d’erba e terra rossa e videro i
giocatori delle due squadre avversarie effettuare il riscaldamento.
I Notre Dame Knights, in divisa bianca a strisce
fini blu con rifiniture in giallo e con i cappellini blu scuro, avevano
un nutrito pubblico, essendo in casa, e Sheila e Molly faticarono molto
a trovare dei posti liberi sugli spalti, ma alla fine, grazie al suo
ruolo di fotografa, Sheila riuscì a risolvere il problema,
ottenendo dei posti quasi in prima fila, vicini alle panchine dei
giocatori.
Non ci poteva essere posto peggiore per Molly, la quale avrebbe voluto
stare il più lontano possibile da Nigel. In compenso,
però, avrebbe goduto anche della visione di Aiden.
Lo vide riscaldarsi insieme a tutti gli altri suoi compagni e per un
attimo che parve eterno i loro sguardi si incrociarono, facendo mancare
un battito alla ragazza. Quella linea invisibile che li aveva uniti si
spezzò bruscamente quando un altro ragazzo entrò
nel campo visivo di Molly, la quale alzò lo sguardo irritata
e dovette mordersi la lingua e sforzarsi di sorridere.
«Ehi, sei venuta! Mi fa davvero molto piacere».
«Anche a me, Nigel». Sollevò il palmo
della mano, con fare incerto. «Vinci per noi!».
Il ragazzo ridacchiò e invece di batterle il cinque si
chinò su di lei e le stampò un bacio sulla
guancia, facendola arrossire da capo a piedi e provocando
l’irritazione di qualche ragazza smorfiosa dietro di loro.
«Fai il tifo per me», le sussurrò
all’orecchio prima di scostarsi e di correre di nuovo in
campo al fischio del suo allenatore.
Sheila fischiò fra i denti e Molly si voltò verso
di lei, ancora rossa d’imbarazzo. «Prima la
limousine, ora questo… vuoi proprio sconvolgermi
oggi».
Molly aprì la bocca per dire che lei non c’entrava
niente, che non gli aveva mai dato tutta quella confidenza, che lui se
l’era semplicemente presa, ma per qualche motivo non
riuscì ad emettere alcun suono. Anzi no, un motivo
c’era: Aiden la stava guardando, probabilmente aveva visto
anche la scena precedente, e questo la fece pietrificare sul posto.
«Non sei di molte parole oggi, eh? Vado a fare qualche
foto».
Sheila si alzò dagli spalti e si allontanò lungo
i bordi del campo per scattare foto da diverse angolazioni.
***
Tom si svegliò e
spostò subito la mano sul letto, alla ricerca di Grace. Dopo
un po’ di tentativi andati a vuoto si decise ad aprire gli
occhi e constatò che lei non c’era.
Sbuffò, portandosi il suo cuscino sul viso e respirandone
tutto il profumo, quindi si alzò ed aprì la porta
della camera per sporgersi con la testa in corridoio. Non
sentì alcun rumore, tantomeno vide qualcuno, ma non essendo
a casa sua non voleva fare figuracce, così prese almeno i
jeans e se li infilò prima di uscire dalla camera.
Ciabattò fino al bagno, dove si sciacquò la
faccia con un po’ d’acqua fresca. Riflettendoci,
capì che odiava svegliarsi senza Grace accanto.
Camminò piano lungo il corridoio, continuando a sbuffare e a
pensare ai possibili motivi che l’avevano portata ad alzarsi
prima di lui, convincendosi sempre di più che non era un
buon segno e di sicuro non l’avrebbe trovata in cucina
intenta a preparargli la colazione, con un enorme sorriso sulle labbra.
Arrivato nel salotto deserto, fece il giro del divano per sbirciare in
cucina e vide Melanie seduta al tavolo, che stringeva fra le mani una
tazza di ceramica, lo sguardo fisso su un punto del tavolo.
La osservò attentamente, sapendo di non essere visto, e
ancora una volta vide molto della sua Grace in lei: la stessa
espressione smarrita di quando si immergeva nei suoi pensieri, lo
stesso modo di stringere le dita intorno agli oggetti per il
nervosismo, le spalle incurvate che sembravano sorreggere un peso
insostenibile.
La sua mente gli fece il brutto scherzo di immaginarsi il padre di
Grace seduto di fronte a Melanie, che le accarezzava il dorso di una
mano sorridendole mestamente, nel suo completo da marine pulito e
stirato. E vide anche una piccola Grace, di cinque o sei anni, seduta a
capotavola, che li guardava entrambi avvertendo che qualcosa non
andava. Cercava di parlare, di chiedergli direttamente che cosa, ma non
ne trovava mai il coraggio. La visione continuò fino a
quando Melanie non si portò le mani sul viso bagnato di
lacrime, la schiena squassata da violenti singhiozzi. Allora sia la
figura di Mitch Schneider che quella della piccola Grace svanirono e
Tom capì che quella era la realtà: Melanie stava
davvero piangendo.
Non sapeva proprio cosa fare, ma gli venne spontaneo avvicinarsi per
capire se poteva aiutarla. Si schiarì la voce, a disagio, e
la donna sobbalzò, colta di sorpresa.
«Oh Tom, sei tu…». Tirò su
col naso e si passò le mani sotto gli occhi, asciugandosi le
lacrime alla bell’e meglio. «Credevo
dormissi».
«Mi sono svegliato poco fa».
Melanie annuì con un cenno del capo e si alzò con
la tazza fra le mani tremanti. Tom le andò incontro e
posò le mani sulle sue, senza nemmeno riflettere. La donna
sollevò gli occhi ancora umidi ed arrossati a causa del
pianto e lui provò a sfuggire al suo sguardo, ma non ci
riuscì. Non provò nemmeno a mettersi nei suoi
panni per capire tutto il dolore e le difficoltà che aveva
dovuto affrontare, non serviva: ce le aveva davanti, proprio nei suoi
occhi scuri.
«Io ho… Mi sono rovinata la vita con le mie stesse
mani», mormorò con la voce spezzata da flebili
singhiozzi.
Tom riuscì a toglierle la tazza dalle mani e la
posò sul tavolo, poi le avvolse delicatamente le braccia
intorno alla schiena. Melania si appoggiò con la guancia
alla sua spalla, trattenendo a stento le lacrime.
«Pensavo di fare la cosa più giusta per Grace, di
donarle un futuro migliore, senza pericoli, quando chiesi a Mitch la
separazione, invece… è stata la nostra fine.
Tutto è andato a rotoli da quel giorno e io… non
me lo perdonerò mai, mai… Mi manca
così tanto…».
Tom sospirò e le massaggiò delicatamente la
schiena con una mano, poi si scostò per guardarla in viso e
chiederle: «Ora Grace dov’è?».
«Non me l’ha detto».
«Faccio un paio di telefonate, vedo se la trovo».
Tom sciolse l’abbraccio e si avviò verso il
salotto, sentendo il profumo di Melanie abbandonarlo.
«Ti preparo del caffè?».
Il chitarrista le rivolse un breve sorriso, annuendo.
«Un’ultima cosa, Tom…».
Si girò e fu catturato dagli occhi di Melanie, la quale lo
guardò intensamente dicendo: «Grazie».
Tom scrollò il capo e le diede le spalle senza rispondere.
Si sedette sul divano e scorse la rubrica del cellulare: prima
chiamò lei, ma come sospettava non gli rispose. Allora
chiamò Bill, chiedendogli se magari era andata a confidarsi
da lui. Purtroppo però Bill si era appena svegliato, quindi
non l’aveva vista. Tentò con Dylan, ma nemmeno lui
seppe dargli una buona notizia; anzi, fu lui a fargli mille domande,
preoccupato. Non riuscendo ad aggirare il discorso, gli chiuse il
telefono in faccia, passando all’ultimo tentativo che gli
restava da fare: Molly.
Dopo tre squilli, la ragazzina milionaria rispose a bassa voce:
«Pronto, Tom?».
«Sì, ciao Molly. Scusa se ti disturbo,
ma…».
«Nessun disturbo, te lo posso assicurare! Anzi, grazie mille,
senza la tua chiamata… Lascia stare. Dicevi?».
«Hai per caso visto Grace? Io non riesco a trovarla, non mi
risponde al cellulare».
«No, mi dispiace».
«Non è che potresti… provare a
chiamarla? Chissà, magari a te risponde».
«Uhm, okay. Se scopro qualcosa ti chiamo».
«Grazie mille, Molly».
«Figurati! Ma è successo qualcosa?».
Tom sospirò, massaggiandosi gli occhi con le dita.
«È una lunga storia…».
«Oh, più mi tieni al telefono meglio è,
ma… forse non ti va neanche di raccontarla, vero?».
«Vero. Ci sentiamo più tardi Molly, grazie
ancora».
«Di niente Tom, ciao».
«Ciao, ciao».
Lanciò il cellulare sul tavolo e si appoggiò allo
schienale del divano portandosi le mani dietro la nuca, gli occhi
socchiusi. Sentì dei passi leggeri alle sue spalle e si
voltò, soffermandosi a guardare Melanie che si avvicinava
con una tazza di caffè fumante fra le mani. Gliela diede con
un sorriso incerto sulle labbra, poi si sedette al suo fianco
stringendosi nel suo stesso abbraccio.
«L’hai trovata?», gli domandò
dopo qualche secondo di silenzio.
«No, nessuno sa dove possa essere».
«Io un’idea ce l’avrei».
Tom, più attento che mai, la fissò in attesa che
continuasse.
«Ma se fosse così… vorrebbe restare
sola».
***
Uscì dal cimitero
con gli occhi bassi, gonfi di pianto e coperti da un paio di grossi
occhiali scuri. Si massaggiò il naso e sollevò il
viso verso il cielo limpido, lasciando che il calore del sole le
baciasse la pelle e il vento profumato di salsedine le riempisse
piacevolmente i polmoni.
Si diresse verso il suo amato fuoristrada, ritirato dal meccanico
proprio quella mattina, ed accennò un sorriso quando
posò una mano sopra il cofano, accarezzandolo con lo stesso
amore che aveva provato quando suo padre glielo aveva regalato per i
suoi sedici anni. Anche per questo non avrebbe mai potuto rinunciarvi,
come Tom le aveva consigliato più e più volte di
fare: vi era troppo legata.
Tom…
Chissà che cosa starà facendo. Sospirò pensando a
lui, a quello che era successo quella notte, alla sua codardia.
Si sedette al posto di guida ed aprì il portaoggetti,
scorgendo la sua Glock e il suo cellulare che vibrava. Lo
tirò fuori e lesse proprio il nome di Tom sul display. Non
era ancora pronta ad affrontarlo, a parlargli di suo padre, del suo
dolore più grande, quindi aspettò che il
cellulare smettesse di vibrare nella sua mano, poi lo lasciò
sul sedile e mise in moto.
Non voleva tornare a casa, sia perché probabilmente Tom era
ancora là, sia perché dopo la chiacchierata di
quella mattina con sua madre preferiva di gran lunga starsene fuori,
guidare fino a finire la benzina, senza meta, come si sentiva in quel
momento, oltre che sola. Ma, d’altra parte, non voleva
parlare con nessuno.
Con la radio accesa e il vento fra i capelli, guidò fino a
raggiungere la spiaggia.
Era una bella giornata, i valori sulla colonnina di mercurio erano
più alti del solito, ma erano pochi coloro che avevano avuto
la sua stessa idea: c’erano due ragazze coi loro cani che
stavano facendo jogging, un anziano signore seduto su una panchina sul
lungomare che si godeva la vista dell’oceano e una mamma ed
un papà con un bambino piccolo, il quale non faceva altro
che correre con le sue gambette corte per acciuffare dei gabbiani.
Grace si sedette sulla sabbia e guardò la famigliola per
parecchio tempo, fino a quando non la superarono e il padre prese il
bimbo sulle spalle, facendolo ridere con le braccia alzate verso il
cielo, ora così vicino.
La detective non poté non pensare che una volta anche lei,
sua madre e suo padre erano stati una famiglia felice e spensierata e,
ancora, ripercorse con la mente ciò che si erano dette lei e
sua madre poco meno di un’ora prima.
«Tesoro, sei già sveglia?».
Grace non si girò, continuò a guardare fuori
dalla finestra il sole che batteva sui tetti degli altri edifici e si
rifletteva sui vetri a specchio dei grattacieli di Los Angeles.
«Grace, va tutto bene?».
Quella volta non poté ignorare sua madre e si
voltò un po’ con il busto, quel tanto che bastava
per guardarla negli occhi. La vide irrigidirsi, forse a causa della sua
espressione seria e al contempo arrendevole, stanca.
«Perché hai dato quelle foto a Tom?».
Melanie si riempì una tazza di ceramica di caffè
e ci mise qualche secondo per elaborare la risposta da dare alla
figlia.
«Credi che non mi sia accorta del tuo dolore? Tu, proprio
come me, non l’hai ancora superato e pensavo che avresti
potuto parlarne con lui… Prima o poi avresti dovuto farlo
comunque».
«Certamente, ma avrei voluto decidere io il momento opportuno
per parlargliene. Come ti sei permessa di decidere per me?».
«L’ho fatto per il tuo bene, amore…
Quand’è stata l’ultima volta in cui ne
hai parlato con qualcuno, in cui hai dato sfogo a tutta la tua
sofferenza? Tenerla dentro…».
«Non è una cosa che ti riguarda!»,
sbottò Grace, sbattendo la sua tazza vuota sul tavolo.
«E tra tutti, non penso proprio che tu sia la persona adatta
a farmi questo discorso! Tu hai anestetizzato il dolore con
psicofarmaci per anni, anni! Hai mandato a puttane la tua vita, hai
mandato a puttane anche la mia di vita, non avendo più un
modello femminile da seguire, e adesso che ci siamo ritrovate fai
queste stronzate? Io… non ero pronta, non ero pronta ad
affrontare tutto questo schifo con Tom!».
Grace guardò negli occhi sua madre, quando lei li
alzò, e li trovò lucidi di lacrime, ma non
provò nemmeno un minimo di compassione, non in quel momento.
«Pensavo di fare la cosa giusta per
te…», mormorò con voce spezzata Melanie.
«Quante volte ho sentito questa frase…»,
rise piano, una risata piena di amarezza e rammarico.
«Pensavi di fare la cosa giusta per me anche chiedendo la
separazione, allontanando papà e il suo lavoro dalla mia
vita perché lo credevi pericoloso, quando hai capito che mai
lui lo avrebbe lasciato. E lo sai perché? Lo sai, mamma?
Finalmente l’ho capito, dopo che anche io sono stata messa di
fronte alla possibilità di mollare tutto: questo lavoro o lo
si lascia di propria volontà, oppure lo si fa fino alla
morte».
Melanie si portò una mano alla bocca e si
appoggiò allo schienale di una sedia, le gambe che stavano
per cederle, ma Grace concluse senza pietà: «Sono
orgogliosa di mio padre, perché ha messo in gioco la sua
vita per il suo desiderio di giustizia ed ha accettato che tu ti
allontanassi con me, perché ci amava. Il fatto è
che lui stesso ci avrebbe allontanate, se avesse avvertito dei pericoli
per noi, invece tu… l’hai lasciato solo
perché avevi paura, la paura ha sovrastato il tuo amore per
lui e… non lo capirò mai, mai».
Sua madre ebbe la forza di spostare la sedia a cui si era appoggiata e
di sedersi, evitando di svenire. Si coprì il viso con
entrambe le mani, scostando i capelli, e rimase in silenzio, un
silenzio così pesante che sembrò soffocare Grace.
Perché non diceva niente, perché non ribatteva
indicandole le sue ragioni, perché almeno non ci tentava?
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso e Grace, pur
consapevole di essere stata molto dura, si sentì invadere da
una rabbia cieca, una rabbia che a malapena riuscì a
controllare, dirigendosi con passo pesante verso l’ingresso
ed uscendo dall’appartamento sbattendosi la porta alle spalle.
Il cellulare che iniziò a vibrarle nella tasca dei jeans la
fece tornare alla realtà, alla sabbia sotto i palmi delle
mani, al sole che le scaldava il petto sotto la maglietta nera, al
vento fresco che le scompigliava i capelli corti.
Guardò il display
illuminato e lesse il nome di Molly. Si domandò se non fosse
stato Tom ad avvertirla e a chiederle di provare a chiamarla, ma
preferì non farsi troppe domande e rispose.
«Pronto?».
«Grace! Ehi, va tutto bene?».
Si portò gli occhiali da sole sulla testa e
lasciò che il sole l’accecasse, mentre si
strofinava il viso con il dorso di una mano.
«Alla grande. Tu, com’è andata alla
partita?».
«Oh, sapessi!», rispose, un tantino esasperata.
«Si tratta di quel ragazzo… Nigel?».
«Ora non posso parlartene, sono con lui», le
confessò a bassa voce e Grace riuscì a sorridere,
stupefatta. «Ti racconterò tutto più
tardi, okay?».
«Certo, non vedo l’ora».
Ci furono dei secondi di silenzio, nei quali la detective
sentì più forte la sensazione che Tom
c’entrasse qualcosa anche con la telefonata di Molly.
Infatti, quando la ragazzina ruppe il silenzio, la sua voce aveva
assunto una sfumatura preoccupata:
«Grace…».
«Ascolta, Molly, dì a Tom di non preoccuparsi, che
lui non c’entra niente, che sono io il problema. Ho solo
bisogno di un po’ di tempo, digli così. E che mi
dispiace per essere sparita in quel modo».
«D’accordo», sospirò.
«Mi raccomando però, non fare cavolate».
Grace accennò un sorriso. «Hai la mia
parola».
Terminò la chiamata e fece un respiro profondo riponendo il
cellulare nella tasca dei jeans. Poi si lasciò cadere
all’indietro, incrociando le braccia dietro la nuca, e chiuse
gli occhi concentrandosi solo sul calore della sabbia sotto la
maglietta e quello del sole sul viso, stuzzicato anche dal vento
profumato alla salsedine.
Sarebbe rimasta lì così per ore, a non pensare a
niente, ma ad un tratto delle risate le fecero aprire gli occhi e
voltare il viso verso la sua sinistra. Non si sarebbe mai aspettata di
incontrarla così, per caso, ma pensandoci l’hotel
in cui la signora Phillips tradiva il marito non era tanto distante da
quella spiaggia. Probabilmente la sua giovane e bella amante, che in
quel momento correva in riva al mare trascinandosela dietro,
l’aveva convinta ad uscire un po’
all’aria aperta per godersi il sole e la brezza
dell’oceano.
Guardandole ed accorgendosi della felicità che illuminava i
loro volti ed ampliava i loro sorrisi, Grace si chiese se fosse la cosa
giusta prendere il cellulare e fotografarle per procurarsi ulteriori
prove sulla relazione extra-coniugale della signora Phillips, da
mostrare poi a suo marito. La risposta era sì,
perché era il suo lavoro e non poteva nemmeno aggrapparsi
alla scusa dell’essere in servizio o meno, perché
non aveva orari, ma decise di non farlo: erano così felici,
stavano vivendo forse uno dei momenti più belli della loro
vita, ed immortalarlo per usarlo come prova, in quel particolare
momento, attraversata da tutti i sentimenti del caso, le sembrava un
sacrilegio.
Così si limitò a guardarle di nascosto, sperando
per loro che quello non fosse l’ultimo dei bei momenti
passati insieme, ma che potessero viverne molti altri anche dopo che il
signor Phillips avesse staccato un assegno intestato a Grace Schneider.
***
Molly, terminata la breve
conversazione con Grace, voltò il capo verso il tavolino
della gelateria a cui era seduto Nigel ed incrociò il suo
sguardo. Sorridendo imbarazzata, alzò un dito come a voler
dire: «Ancora un minuto». Lui ricambiò,
stringendosi il collo fra le spalle, e tornò a leccare il
suo cono al fiordilatte. La ragazzina sospirò ed
inviò velocemente un messaggio a Tom, scrivendogli
esattamente quello che Grace le aveva detto di dirgli. Quindi
tornò a passo incerto da Nigel e dalla sua coppetta alla
fragola.
«Tutto a posto?», le domandò, sembrando
veramente interessato.
Lei annuì distrattamente con un cenno del capo.
«Tu, invece? Ti fa ancora male?».
Nigel si tolse il ghiaccio istantaneo dallo zigomo destro e
girò il viso per farle vedere meglio il livido.
Molly lo osservò per qualche secondo ed accennò
un sorriso: «Si sta già sgonfiando. Mi spieghi
esattamente come te lo sei procurato?».
Il ragazzo si dipinse un sorriso affascinante sulle labbra, ma non
poté nascondere il rossore che si impadronì delle
sue guance dicendo: «Hai presente Aiden? Quello che il coach
ha fatto entrare quando io mi sono distratto al terzo strike e sono
stato eliminato? Ecco, diciamo che negli spogliatoi, a partita finita,
c’è stato uno scambio di battute, quel bastardo ha
reagito male e mi ha tirato un pugno». Una smorfia rabbiosa
gli accartocciò il viso in un modo che fece paura alla
ragazza, ma Nigel la cancellò presto e tornò a
sorridere, concludendo: «Per sua sfortuna il coach
è intervenuto e non giocherà alla prossima
partita».
Il cuore di Molly aveva iniziato a battere furiosamente appena Nigel
aveva pronunciato il nome di Aiden e ancora di più quando le
aveva raccontato che gli aveva tirato un pugno. Nonostante avesse la
prova di fronte ai suoi occhi, Molly aveva pensato per prima cosa ad
Aiden, certa che la versione di Nigel non fosse del tutto compatibile
con la realtà dei fatti. Quel ragazzo a pelle non le era mai
piaciuto e per qualche motivo continuava a non piacerle.
Perciò, quando il suo cuore tornò ad avere delle
pulsazioni più o meno regolari, gli chiese: «Ma
che cosa vi siete detti, di preciso?».
Nigel le rivolse il suo solito sorriso sfrontato e sensuale,
avvicinandosi un po’ di più al suo viso. Molly
impallidì, chiedendosi se non volesse provare a baciarla di
nuovo: quella volta probabilmente non ci sarebbe stata la suoneria del
suo cellulare a salvarla in corner!
Ma lui rispose semplicemente alla sua domanda, a bassa voce:
«Io gli ho detto che non doveva montarsi troppo la testa,
anche se era riuscito a portare il team alla vittoria,
perché se io non mi fossi distratto a causa tua, dolcezza,
rapito dalla tua bellezza…», le sfiorò
il collo con un dito e Molly arrossì, deglutendo
rumorosamente. «Sarei riuscito benissimo a fare un fuori
campo e lui non avrebbe nemmeno giocato».
«E lui… lui ti ha tirato un pugno per
questo?», balbettò, ancora sconvolta a causa del
suo gesto.
Nigel ridacchiò e si allontanò, addossandosi allo
schienale della sedia di metallo e portandosi un braccio dietro la
testa.
«Davvero, per così poco! Ah,
l’invidia…».
Non ci credeva, non ci credeva nemmeno un po’. Non ce lo
vedeva proprio Aiden picchiare Nigel per un motivo così
banale, mettendosi nei guai con le sue stesse mani e in modo
così stupido. Doveva esserci dell’altro, oppure la
versione che Nigel le stava dando era alterata dal suo punto di vista.
«Toh guarda, eccolo là!»,
gridò ridendo il ragazzo, passandosi una mano tra i riccioli
biondi ed indicando Aiden dall’altro lato della strada, in
sella alla sua bicicletta nera.
Molly si girò, nonostante fosse imbarazzata fino
all’inverosimile, ed incrociò per caso lo sguardo
di Aiden, profondo e penetrante. In quei due pozzi scuri lesse rabbia,
ma anche uno strano dispiacere che non riuscì a spiegarsi e
che le lasciò un macigno sul petto.
«Adesso non fai più lo sbruffone,
stronzo!», gridò ancora Nigel, pronto ad alzarsi
dalla sedia, ma Molly gli prese subito il braccio e lo trattenne seduto
al suo fianco.
«Basta, per favore, smettila».
Il ragazzo la guardò stupefatto, ma poi le sorrise
compiaciuto. «Solo perché me lo chiedi tu, Molly.
Non esistono più ragazze come te!».
L’aveva detto ad alta voce, in modo tale che anche Aiden,
fermo al semaforo, potesse sentire.
All’improvviso Nigel si chinò su di lei, portando
una mano fra i capelli sulla sua nuca, e la baciò sulle
labbra con prepotenza. Molly infatti rimase immobile, con gli occhi
spalancati, e oltre la spalla di Nigel vide Aiden sgranare un
po’ gli occhi e sbuffare con un sorrisetto amaro sulle
labbra, poi il semaforo divenne finalmente verde e poté
sfrecciare via senza guardarsi più indietro.
Allora Molly parve risvegliarsi da un incantesimo e riuscì
ad allontanare Nigel da sé, spingendolo via con le mani sul
suo petto. Il ragazzo la guardò spaesato e Molly
fuggì subito dal suo sguardo, abbassando il viso verso i
pugni stretti sulle ginocchia, per non mostrargli gli occhi lucidi di
lacrime. Voleva solo andarsene da lì, andarsene e non
vederlo mai più. E fu proprio quello che fece: si
alzò di scatto dalla sua sedia e in silenzio si
incamminò verso il marciapiede.
«Molly, dove vai? Molly!». Nigel la rincorse e la
prese per un polso, facendola voltare bruscamente verso di lui.
«Lasciami andare», mugugnò senza
guardarlo negli occhi.
«Molly, ma che cosa ti prende?».
La ragazza si divincolò, dicendo più forte:
«Ho detto di lasciarmi andare, lasciami!».
Un’Audi bianca si accostò ai due sul marciapiede
di fronte alla gelateria e quando il finestrino del passeggero si
abbassò Molly ebbe un tuffo al cuore, sentendosi la ragazza
più fortunata dell’universo.
«Ehi, c’è qualche problema?»,
disse Bill con la voce e l’espressione più dure
che potesse fare nel tentativo di intimidire Nigel: il cantante non
avrebbe potuto far del male nemmeno ad una mosca, ma il suo aspetto
– in particolare i muscoli sulle braccia e i tatuaggi
– poteva trarre in inganno in quel senso.
«No, nessun problema», rispose Nigel stizzito.
«Allora lasciala andare e tornatene a casa dalla mamma.
Ora».
Con un grugnito Nigel lasciò andare il polso di Molly,
già arrossato, e la ragazzina si fiondò subito
contro la portiera che Bill le aveva preventivamente aperto
dall’interno. Una volta dentro l’abitacolo, al
sicuro, Bill fece ruggire il motore dell’Audi e si
allontanò più in fretta possibile.
Avevano distanziato la gelateria di qualche isolato, quando il cantante
le posò una mano sul ginocchio, mormorando carezzevole:
«Va tutto bene?».
Molly scosse il capo, non riuscendo ad impedire che alcune lacrime le
scivolassero ardenti sulle guance.
Bill sospirò, stringendo con più forza il volante
fra le mani, e disse ancora piano: «Ti porto a
casa».
Il frontman dei Tokio Hotel parcheggiò l’auto
accanto ai garage in cui erano custodite diverse d’auto
d’epoca di Mr. Delafield, poi si voltò verso
Molly, la quale lo stava guardando con gli occhi arrossati e ancora
umidi di lacrime.
«Ti dispiace rimanere un po’ con me?
Io…».
Bill le sorrise teneramente, passando una mano fra i suoi capelli
biondi, quel giorno acconciati in morbidi boccoli. «Ma certo.
Mi devi ancora la rivincita a Just dance».
Riuscì a strapparle un sorriso, ma la ragazzina milionaria
gli gettò comunque le braccia al collo con una stretta quasi
soffocante.
«Menomale che sei arrivato tu, che sei passato di
lì proprio in quel momento…».
«Non ti sarebbe capitato nulla di male, Molly».
La ragazza annuì, sciogliendo l’abbraccio e
lasciandosi accarezzare una guancia.
«Forza, entriamo».
Uscirono dall’auto e Molly trasse un respiro profondo,
cercando di cancellare dal viso ogni segno lasciato dalle lacrime: non
voleva che il maggiordomo o la governante si preoccupassero e andassero
ad avvisare i suoi genitori, non avrebbe saputo cosa dirgli.
Come previsto, il maggiordomo li accolse subito all’ingresso,
ma Molly lo liquidò in fretta, dicendogli che non voleva
essere disturbata, quindi prese Bill per il braccio e se lo
trascinò dietro fino alla taverna, dove si sedettero su un
divano di pelle bordeaux, quello di fronte alla TV al plasma.
«Vuoi parlare di quello che è
successo?», domandò Bill ad un certo punto, con
tatto.
Molly sospirò e scosse lievemente il capo. «Non ti
offendere, Bill, ma l’unica persona con cui vorrei parlare in
questo momento è Grace».
«No che non mi offendo», rispose sorridendo.
«Vuoi che la chiami e le dica di venire qui?».
«No… la chiamo io».
«D’accordo. Allora io chiamo Tom e lo avviso che
sono qui, ci metto solo due minuti».
Molly annuì e lo guardò mentre si alzava e si
dirigeva verso la cantina dei vini per poter parlare col gemello. Nel
frattempo, lei tirò fuori il cellulare dalla borsa e
chiamò Grace, incrociando le dita perché
rispondesse.
Nonostante le avesse voltato il capo dall’altra parte nel
momento meno opportuno, anche quella volta la dea della fortuna fu
dalla sua parte.
«Pronto?».
***
«Ah, quindi non
così… ma così. Ho capito, ho
capito».
«Allora riprova, dai».
Tom si stava accingendo a riprovare il pezzo che Melanie aveva
perfezionato con una semplice e piccola aggiunta, quando
sentì il proprio cellulare suonare alle sue spalle.
La voce gracchiante di David, dall’altra parte del vetro,
intonò: «Tom, quante volte ti ho
detto…».
«Lo so, lo so, ma non potevo spegnerlo!». Poi il
chitarrista – in quel momento anche pianista – si
rivolse a Melanie, sussurrando: «Un attimo solo, è
mio fratello».
Uscì dalla stanza insonorizzata e si portò il
cellulare all’orecchio, rispondendo trafelato.
«Finalmente! Ce ne hai messo di tempo!».
«Scusa, ero in studio di registrazione».
«In studio di registrazione? A fare che cosa,
scusa?».
«Ci sono venuto con Melanie, sai per quelle lezioni di
piano…?».
«Ah, sì, mi ricordo!».
«Uhm. Perché hai chiamato? Notizie di
Grace?».
«In realtà no. Volevo solo avvisarti che sono a
casa di Molly, è successo un mezzo casino
e…».
«Che casino? Spiegati meglio».
«In pratica stavo andando a prendermi qualcosa da mangiare,
quando l’ho vista con un ragazzo che la stava tenendo con
forza per un polso e sono intervenuto. Era ed è a dir poco
sconvolta e mi ha chiesto di restare un po’ con lei. Ah, ha
detto che chiamava Grace, vuole parlarne solo con lei».
«Quindi… quindi è probabile che venga
lì?».
«Può darsi, non ne ho idea…».
«Okay, allora… ci vediamo tra poco».
Non gli lasciò nemmeno il tempo di rispondere e chiuse la
chiamata, tornando in studio di registrazione per avvisare David e
Melanie del cambio di programma. Il manager all’inizio
protestò, ma alla fine lo lasciò andare.
«La riporto a casa, va bene?», domandò
Tom mentre si metteva al volante della sua Audi.
«Sì. Tu vai da Grace?».
Tom mise la retro e portò un braccio dietro il poggiatesta
del passeggero per fare manovra, rispondendo: «No, ma spero
di incontrarla dove sto andando».
«Ne ero sicura».
Il chitarrista osservò Melanie e notò il sorriso
candido che le aleggiava sulle labbra. La donna, accorgendosi del suo
sguardo perplesso, si portò una mano di fronte alla bocca
per reprimere una risatina.
«Hai gli occhi che ti brillano quando si tratta di
lei».
Tom in risposta si concentrò sulla strada, meditabondo.
Fu distratto ancora una volta dal sussurro dalla madre della ragazza
che amava, con il viso rivolto verso il finestrino.
«È la stessa cosa che succede a lei quando pensa a
te».
***
«Grace…
per favore, vieni subito, ho bisogno di te».
Continuava a sentire
quelle parole infilzarle il cranio come coltelli affilati e
più il dolore aumentava più premeva
sull’acceleratore, col vento che entrava dai finestrini che
le frustava i capelli scompigliati sul viso. Ma non vi badò
e continuò a guidare il più veloce che
poté per raggiungere Molly nel minor tempo possibile,
chiedendosi cosa mai potesse essere successo di così grave
per sconvolgerla così tanto. Quando l’aveva
sentita al cellulare sembrava che il mondo le fosse crollato addosso ed
era grave, molto grave, se a provare quella sensazione era una
ragazzina milionaria di nemmeno quindici anni.
Suonò il clacson ancora prima di parcheggiare malamente il
fuoristrada di fronte all’enorme cancello
all’entrata del giardino della villa, ma nessuno
capì il suo intento e dovette scendere per citofonare e
farsi aprire. Dopodiché schizzò
all’interno della proprietà privata. Appena
arrivò nel vialetto, però, vide due Audi di sua
conoscenza parcheggiate l’una accanto all’altra ed
istintivamente inchiodò, sgommando sul ciottolato.
Si domandò se Molly non avesse recitato una parte sotto
richiesta del suo idolo, ma il pensiero la fece rabbrividire, oltre che
vergognare un po’: Molly non avrebbe mai fatto una cosa del
genere e poi era davvero troppo scossa per fingere solamente. Quindi,
dedusse che l’unico motivo per cui anche Tom si trovava
lì era perché suo fratello l’aveva
avvisato dell’accaduto e lui lo aveva raggiunto. Se poi aveva
un doppio fine, oltre all’interessamento per
Molly… Grace evitò semplicemente di vagliare
quella possibilità.
Ad accoglierla sulla soglia quella volta c’era la governante,
una donna sui quarant’anni, dai tratti somatici ispanici e
un’espressione cordiale. La detective si fece dire dove
poteva trovare Molly, spiegando che sarebbe andata da sola, senza che
lei l’accompagnasse, e la governante, anche se un
po’ titubante, la lasciò fare.
Grace ricordò la strada che portava fino alla taverna e
già quando attraversò la cantina dei vini
sentì le voci di Bill e Tom che discutevano su quello che il
minore aveva visto quando era intervenuto. Quindi non era un piano
architettato da Tom per incontrarla… Ne aveva dubitato solo
un attimo, ma trasse comunque un sospiro di sollievo.
«Ehi, Molly».
La ragazzina e i due gemelli si voltarono di scatto verso la direzione
da cui proveniva la sua voce e Grace incontrò immediatamente
lo sguardo di Tom, ma altrettanto velocemente lo evitò.
«Menomale che sei arrivata», mormorò
Molly correndo verso di lei e gettandole le braccia al collo.
«Tranquilla, va tutto bene». Le
accarezzò la schiena e la guardò in viso
prendendole le spalle fra le mani. «Raccontami
tutto».
Molly annuì con un cenno del capo. «Andiamo in
camera mia».
La prese per mano e dopo aver gettato uno sguardo a Bill e Tom alle sue
spalle, come fece di sfuggita anche Grace, si diressero insieme verso
le scale che portavano al piano superiore.
Quella di Molly era la stanza più raffinata e lussuosa che
avesse mai visto. Il soffitto, come tutti quelli della villa, era
adornato da preziosi affreschi, al centro dei quali pendeva un
lampadario di cristalli rosa. Il letto sontuoso, a baldacchino e dalle
coperte di velluto, occupava buona parte della stanza, talmente era
grande, e il suo lato destro dava su una parete formata interamente da
vetrate e sul balcone, in quella che, vista da fuori, era la forma
centrale e bombata della facciata della villa.
Di fronte al letto poi c’era un piccolo salottino formato da
un set di poltrone pregiate e puff ricamati – c’era
persino un divano in stile triclinio romano! – tutti disposti
intorno ad un piccolo camino d’abbellimento.
Ovviamente non potevano mancare il bagno privato e la stanza adibita a
guardaroba, che Grace identificò subito con le porte chiuse
ai lati del letto.
Molly si sedette a gambe incrociate sul materasso alto ed
invitò Grace a fare lo stesso, la quale si tolse le scarpe
per non sporcare.
Una volta l’una di fronte all’altra,
però, Molly rimase a lungo col viso abbassato, come se si
vergognasse di qualcosa, e Grace fu costretta a portarle una mano sotto
il mento per farglielo sollevare.
«Ehi, mi vuoi spiegare che cos’è
successo?», le domandò con voce pacata,
carezzevole.
Le lacrime tornarono a pungerle gli occhi e balbettò:
«Io… Nigel… Mi sento così
stupida, è normale?».
«Non posso risponderti, se non mi spieghi».
«Temo… temo di non averti detto tutto,
l’ultima volta che ci siamo viste, a proposito dei miei primi
giorni di scuola».
Grace socchiuse gli occhi ed annuì lentamente col capo.
«Lo avevi già capito, ecco»,
mormorò la ragazzina, ridacchiando amaramente. «Mi
dispiace, non so perché l’ho fatto,
io…».
«Lui chi è?».
Molly levò lo sguardo e ad attenderla trovò il
sorriso dolce di Grace, quello che le dava un infinito senso di materno.
Le raccontò così di Aiden, quel ragazzo dalla
pelle scura, il sorriso brillante e gli occhi profondi come pozzi, e
del loro primo incontro, quando lui l’aveva accompagnata alla
sua classe prima che arrivasse in ritardo alla lezione di matematica e
le aveva consigliato di guardarsi bene le spalle, di scegliere
accuratamente le persone di cui poteva fidarsi, perché il
suo cognome faceva gola a molti e molti erano intenzionati a sfruttare
la sua amicizia proprio per l’importanza e i soldi di suo
padre.
Ovviamente Molly non era rimasta indifferente ad un ragazzo del genere,
infatti si era presa subito un enorme cotta per lui, tanto che aveva
trovato nella partita di baseball a cui Nigel l’aveva
invitata l’occasione perfetta per vederlo. Purtroppo
però, le cose si erano evolute in maniera diversa, con
un’azzuffata tra Nigel e Aiden negli spogliatoi e il primo
che le aveva proposto di andare a prendere un gelato insieme.
Molly spiegò a Grace perché aveva accettato
l’invito: un po’ perché aveva ceduto
alle sue avances e un po’ perché era curiosa di
capire che cosa gli fosse successo; inoltre, voleva sfruttare
l’opportunità per chiedere a Nigel qualcosa su
Aiden, ma non aveva fatto in tempo né aveva potuto farlo
perché le aveva detto che era stato proprio lui a fargli
quel livido sul viso, tirandogli un pugno.
Espose i fatti come l’aveva fatto Nigel, aggiungendovi
però le sue personali considerazioni, poi terminò
il suo sfogo con ciò che era successo poco prima che Bill
intervenisse: il bacio di Nigel, Aiden in bicicletta che aveva visto
tutto, la sua tentata fuga.
Quando il silenzio tornò sovrano nella stanza, Molly
sentì il cuore batterle furiosamente nel petto e si
sentì svuotata, sfinita, ma anche appesantita da una grande
malinconia. Si portò le mani al viso e si piegò
in avanti, trovando la spalla di Grace a sorreggerla.
«Perché sei così triste,
piccola?», le sussurrò all’orecchio la
detective, accarezzandole i capelli sulla schiena.
«Perché ho dato il mio primo bacio a Nigel, un
ragazzo che non mi piace… e Aiden, lui… lui ha
visto tutto e il modo in cui mi ha guardata… È
stato orribile».
Grace sospirò e posò il mento sulla sua testolina
bionda. «Prima cosa, tu non hai dato il
tuo primo bacio: Nigel te lo ha rubato». Le
sollevò delicatamente il viso per poterla guardare negli
occhi e sorriderle. «Seconda cosa, dovresti parlare con
Aiden».
A quell’affermazione l’espressione di Molly divenne
quella di un cadavere: pallida e vuota. Poi il panico prese il
sopravvento, facendola strillare: «Cosa?! No, no, no! Non
potrò mai più parlare con lui, non dopo quello
che è successo!».
«Molly, calmati… Spiegami di che cos’hai
paura».
«Di cos’ho paura?! Di… di
tutto!».
«Ma dovrai pur parlare con lui per sapere che
cos’è successo veramente tra lui e Nigel in quegli
spogliatoi… L’hai detto anche tu che non credi
alla versione di Nigel».
«È vero, ma non posso chiederlo ad Aiden! Come
posso…?».
Grace aprì la bocca per parlare, ma Molly quella volta la
interruppe sul nascere e con un’aggressività che
la detective non si sarebbe mai aspettata.
«Tu alla mia età saresti andata a parlare con il
ragazzo che ti piaceva, dopo che il suo peggior nemico ti aveva
baciata? Non penso proprio! Tu hai problemi di dialogo persino con il
ragazzo che ami e che ricambia i tuoi sentimenti!».
Nonostante fosse profondamente scossa a causa di quelle parole, il suo
viso continuò ad essere una maschera inespressiva. Ma Grace
sapeva che presto si sarebbe crepata, mostrando tutti i sentimenti
contrastanti che le si erano scatenati dentro come una tempesta. Per
questo si alzò dal letto e lentamente raggiunse il balcone
che dava sullo sterminato e fiorente giardino della villa.
Tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne prese una
direttamente con le labbra, lasciando che penzolasse mentre recuperava
l’accendino. Poi si voltò e guardò
Molly, ancora sul letto. Si accorse subito che era mortificata,
consapevole di quello che aveva detto, ma non le risparmiò
– non ne sarebbe stata in grado – la voce priva di
emozioni con cui le domandò: «Ai tuoi non
disturba, se fumo qui?».
Molly scrollò il capo, abbassando lo sguardo.
«Perdonami, Grace».
L’investigatrice privata si fece cadere sul naso gli occhiali
da sole che aveva sulla testa, infastidita dal sole, e fece in tutta
calma un paio di tiri, poi si appoggiò con la schiena al
cornicione e si rivolse alla ragazzina all’interno della
stanza.
«Sono io quella da perdonare, Molly. Non ho mai saputo cosa
volesse dire essere un’adolescente normale. Il mio primo
bacio l’ho dato a sedici anni, ma il lavoro di mio padre mi
ha impedito di viverlo come avrei voluto. A volte penso che abbia
contaminato come un veleno la mia vita, a volte lo penso davvero.
«Un anno dopo è morto, o meglio l’hanno
assassinato, e diciamo che quando ti capita una cosa del genere
l’amore adolescenziale è l’ultimo dei
tuoi problemi».
Molly, con le lacrime agli occhi, si fiondò fra le sue
braccia e la strinse forte a sé. «Scusami,
scusami».
La detective sollevò la mano con cui teneva la sigaretta,
per non bruciarla, e ricambiò l’abbraccio,
posandole le labbra sui capelli.
«Non fa niente, tranquilla. Volevo solo essere
d’aiuto, ma come al solito ho guardato la situazione
dall’unico punto di vista che conosco, quello della
detective».
«Non è vero», ribatté,
immergendo gli occhi fieri e determinati nei suoi. «Non sei
solo una detective. Sei un’amica, la migliore che io possa
desiderare, e una compagna perfetta, come saprebbe spiegare
Tom».
Grace ridacchiò, alzando il viso verso il sole.
«Tom… Tom potrebbe avere tutte le ragazze del
mondo, molto più perfette di me, credimi».
«Ma per lui lo sei, sei perfetta,
perché ti ama».
La detective tornò a guardare gli occhi cerulei della
biondina e le venne quasi voglia di piangere di nuovo, scoprendosi
così fragile per l’ennesima volta. Ma si fece
forza e riuscì a sorriderle di cuore, sfiorandole la fronte
con le dita per sistemarle i capelli biondi.
«Ti voglio bene, Molly».
Il suo viso si illuminò come i suoi denti bianchi fecero la
loro comparsa. «È a questo che servono le amiche,
no? A sostenersi nel momento del bisogno. Questa volta sono io a non
essere preparata, lo sai».
«Sì, lo so», sorrise. «E
potrebbe anche non essere così, ma per quanto mi riguarda
sono totalmente d’accordo con te».
***
«Dove si saranno
cacciate quelle due?», borbottò Tom, stringendo
nervosamente il telecomando Wii tra le mani e
guardandosi alle spalle ancora una volta, sperando di vederle scendere
dalle scale che collegavano la taverna al piano superiore.
«A raccontarsi tutti i loro problemi e a darsi consigli, come
fanno tutte le amiche normali», rispose Bill, il quale
però aggiunse subito dopo: «Anche se loro non sono
propriamente normali, come amiche. Insomma, non le
trovi anche tu una strana coppia? Da un lato una ragazzina milionaria
che ha sempre vissuto isolata in questa villa, frequentando solo
limousine e negozi griffati, con l’unica compagnia del
maggiordomo e della governante; dall’altro
un’investigatrice privata con un tormentato e doloroso
passato alle spalle, abituata a mille pericoli, al sangue e alle
ingiustizie. Sono così diverse! Eppure entrambe non hanno
mai avuto un’adolescenza normale».
«Chi, tra noi, l’ha avuta?», disse Tom
sarcastico, ma con la voce graffiata da un antico dolore: anche la loro
giovinezza era stata strappata via dal mondo in cui si erano trovati
catapultati all’improvviso.
«Già, hai ragione».
Bill abbandonò il suo telecomando Wii
sul divano, stiracchiandosi come un gatto con le braccia dietro la
testa. Tom imitò il fratello, solo con fare più
burbero, ed appoggiò i gomiti sulle ginocchia, prendendosi
il viso fra le mani.
Nessuno dei due aveva più voglia di giocare a Formula
1, decisamente.
«Pensandoci, anche tu e Grace siete piuttosto diversi.
Ovviamente io l’avevo capito subito che sarebbe nato qualcosa
tra voi, ma mai avrei immaginato che questo qualcosa sarebbe stato
tanto forte e così duraturo. Vi siete proprio trovati,
completati l’un l’altro… Non so come
spiegarlo con altre parole».
Tom biascicò qualcosa dietro le mani che gli coprivano il
viso, risultando incomprensibile al gemello, il quale si sporse verso
di lui chiedendogli di ripetere.
Il chitarrista si sollevò di scatto, visibilmente stanco.
«Ho detto che però è tremendamente
difficile».
Sconvolto, Bill sgranò gli occhi.
«C-Come?».
«Cosa credi, che l’amore sia tutto rose e fiori?
Bill, a volte… a volte mi sveglio alla mattina, quando per
esempio non la trovo al mio fianco o quando so che la sera prima
abbiamo litigato, e rimpiango le ragazze facili per cui non provavo
niente e che non mi davano alcun problema».
«Tu non puoi… Stai dicendo sul serio?».
Lo sguardo che gli rivolse lo fece morire: possibile che suo fratello
provasse quei sentimenti, nonostante il suo amore per Grace fosse
quello più vero e forte che avesse mai nutrito per una
ragazza? Davvero amare una persona, amare veramente, era
così complicato?
«Sì, ogni tanto lo penso e mi dico:
“Basta, sono stanco dei problemi, non ne voglio
più”. Ma poi…», un piccolo
sorriso, ma dolcissimo, gli si dipinse sulle labbra. «Poi
basta un bacio, un sguardo, un sorriso di Grace e penso che non vorrei
nessun’altra al mondo, che mi annoierei a morte senza i
problemi che ci caratterizzano, senza i nostri ricordi che ci
tormentano. Senza di lei sarei inghiottito da quei ricordi,
è questa la verità. E per lei li combatto, per noi».
Bill, commosso, non si rese nemmeno conto delle voci sempre
più vicine di Grace e Molly, provenienti dalle scale. Se ne
accorse soltanto quando vide suo fratello alzare il capo in quella
direzione, ancora con quel sorriso sul volto. Solo allora si
girò anche lui e vide Grace con le mani posate sulle spalle
di Molly. Sorridevano, ma i loro non erano sorrisi colmi di
divertimento, piuttosto sorrisi sollevati, come se le loro anime
avessero appena smesso di piangere e avessero trovato finalmente
conforto.
«Ehi, ce l’avete fatta!»,
esclamò il frontman. «Stavo iniziando ad
annoiarmi, battendo Tom in continuazione!».
«Non dire stronzate, eravamo pari!», rispose a tono
il gemello, per poi lasciarsi andare ad un sorrisino.
Tom incrociò quasi per caso lo sguardo di Grace e
sentì il cuore tremare, incontrando i suoi occhi verdi di
nuovo limpidi, sereni come il cielo dopo la peggiore delle tempeste.
La detective quella volta non si sottrasse al suo sguardo, anzi lo
ricambiò con un lieve sorriso sulle labbra, fino a quando
non socchiuse gli occhi in un segnale segreto che solo lui poteva
interpretare, per poi rivolgersi a Molly, scherzando sulla sua quasi
inesistente capacità di sintesi.
Tom dentro di sé trasse un sospiro di sollievo, certo che
presto tutto tra lui e Grace si sarebbe sistemato.
***
Parcheggiò il
fuoristrada di fronte al giardino sul retro della villa dei Kaulitz ed
aspettò che Tom e Bill parcheggiassero le loro Audi nel
garage e poi che il maggiore la raggiungesse con una corsetta.
Lo guardò entrare e sedersi sul sedile del passeggero.
Quando chiuse la porta con un tonfo Tom sorrise e Grace
ricambiò dolcemente ancor prima che dicesse: «Devo
dire che mi è mancato, questo vecchio catorcio».
Si voltò verso Grace, socchiudendo gli occhi vedendo la sua
mano alzata pronto a colpirlo sul braccio, ma si trovò a
chiuderli del tutto, con un’infinita pace nel cuore,
ricevendo una carezza sulla guancia. Portò la mano su quella
di Grace e la tenne ferma lì sul lato sinistro del suo viso
per un bel po’, godendosi quel silenzio ricco di
tranquillità e il calore che provava in mezzo al petto.
«Ti ricordi… ti ricordi quando passavamo le ore a
parlare qui dentro?», sussurrò la detective, le
labbra arricciate a trattenere un sorrisino divertito.
«Certo che mi ricordo. L’ultima volta che
l’abbiamo fatto tu per me eri ancora Helen».
«È vero. Uno dei ricordi più belli che
ho è quando abbiamo dormito insieme, l’uno accanto
all’altra».
«Sì, a parte il mal di schiena».
I loro sguardi si incontrarono e scoppiarono a ridere insieme, una
risata lieve, lontana, ma intrisa di tenerezza.
«È per questo che non vuoi lasciare in garage
questo catorcio? Per i ricordi?», le chiese Tom, passandole
una mano fra i capelli e sistemandoglieli dietro l’orecchio.
Grace abbassò gli occhi ed annuì con un gesto del
capo. Poi fece un respiro profondo per farsi coraggio e senza guardarlo
negli occhi disse: «Mentirei, se ti dicessi che avrei voluto
parlartene io, della morte di mio padre. A dire il vero non credo di
essere ancora pronta per affrontare questo discorso,
però… non c’è molto altro da
dire, solo se… se hai qualche domanda, magari potrei provare
a…».
Tom l’attirò a sé e le posò
le labbra sulla fronte.
Per un primo momento il suo gesto la lasciò di stucco, ma
Grace ci mise poco a rifugiarsi nel suo petto, avvolgendogli le braccia
intorno alla schiena, sentendosi nel luogo più sicuro del
mondo.
«Voglio che tu me ne parli soltanto quando sarai pronta,
okay? Non devi sentirti costretta, non è quello che voglio.
Tutti hanno i propri demoni e ci vuole tempo, per sconfiggerli. A patto
che ci si riesca».
Grace chiuse gli occhi e sospirò rincuorata, stringendosi un
po’ di più a lui. «Tom?».
«Uhm?».
«Possiamo rivivere il momento in cui ho iniziato ad
innamorarmi di te?».
Il chitarrista si scostò per guardarla negli occhi,
tenendole il viso fra le mani, e le sfiorò le labbra in un
bacio. Grace gli accarezzò il collo e contribuì,
socchiudendo le labbra per lasciare che le loro lingue si incontrassero
e dessero il via alla loro danza.
Lentamente Tom lasciò scivolare una mano lungo il corpo
snello e sinuoso della ragazza, raggiungendo il fianco e poi la coscia.
Allora la spinse a salirgli sopra le gambe, a cavalcioni.
Tirò giù la maniglia ed abbassò
bruscamente il sedile, stringendo forte Grace al petto.
Si allontanò dolcemente dalle sue labbra e fissò
gli occhi nocciola in quelli verdi di lei, accennando un sorriso.
«Questo non c’era, nel momento in cui hai iniziato
ad innamorarti di me. Perché hai iniziato a farlo quando
abbiamo dormito qui dentro, vero?».
«Come facevi a saperlo?», balbettò
Grace, stupita.
«Oltre al fatto che me l’hai fatto capire
prima… Credo che sia successa la stessa cosa a me, quella
volta».
La detective ridacchiò e lo baciò ancora,
strusciandosi con calma sopra di lui.
«Che sarà mai, possiamo pure farla qualche
modifica…».
Tom sorrise e le sfilò la maglietta.
La vibrazione del suo cellulare la svegliò
all’improvviso, facendole alzare il capo così in
fretta che per un momento vide girare tutto intorno a sé.
Quando si riprese, vide il cellulare spostarsi sui tappetini dei sedili
posteriori. Lo afferrò sporgendosi con il busto in avanti,
stando attenta a non svegliare Tom sdraiato sotto di lei, e lesse il
nome di sua madre sul display.
«Pronto?», rispose con voce roca, ancora assonnata.
Se la schiarì tossendo un paio di volte, con
l’unico risultato di non sentire quella flebile di Melanie
dall’altra parte.
«Mamma, non ho sentito. Che hai detto?». Ma la
comunicazione si interruppe all’improvviso.
Grace rimase ad ascoltare il tu-tu-tu-tu per
qualche secondo, poi lanciò il cellulare sui sedili
posteriori e fissò Tom ad un palmo dal suo viso.
«Tom? Ehi… Mi dispiace svegliarti, ma
c’è un’emergenza».
Il chitarrista strinse gli occhi, accartocciando anche il resto del
viso in una smorfia, e le infilò una mano fra i capelli.
«Mi stai perforando la milza, credo».
Grace sollevò subito il gomito, scusandosi, ed
afferrò la maglietta, se la gettò addosso per
coprire il reggiseno e si spostò sul sedile del conducente
per infilarsela e rifarsi la coda sulla nuca.
«Hai detto che c’è
un’emergenza? Quale?», chiese Tom, con tutta
l’intenzione di riappisolarsi.
«Mi ha chiamata mia madre, ma non sono riuscita a capire
nulla e ho paura che le sia successo qualcosa. Era a casa
l’ultima volta che l’hai vista?».
«Sì, io… l’ho portata a casa
prima di andare da Molly».
Grace si voltò verso di lui e lo scrutò con fare
indagatore. «Mi stai dicendo che prima siete stati da qualche
altra parte? Da soli?».
Tom aprì gli occhi e ricambiò lo sguardo, capendo
quasi subito che Grace aveva interpretato male il significato delle sue
parole o ne stava cogliendo il senso sbagliato.
«Non è come pensi! Siamo solo andati in studio di
registrazione! Sai, per quelle lezioni di piano che tu
l’avevi spinta a darmi… Stamattina era parecchio
giù di corda, dopo la discussione con te, quindi
l’ho portata da David per distrarsi un po’. Tutto
qua».
«Perfetto, ora sei diventato il consolatore di mia
madre», borbottò la detective. «Comunque
che hai intenzione di fare, vuoi stare lì mezzo nudo ancora
per molto?».
«Non vuoi che venga con te?», chiese, stupito e
anche un po’ preoccupato.
«No, è meglio di no».
«Sei arrabbiata perché io e tua
madre…».
«No, idiota», gli sorrise e si sporse su di lui per
posargli un bacio sulle labbra. «Voglio solamente andare da
sola. Sfrutteremo l’occasione anche per chiarirci, va
bene?».
Tom annuì con un gesto del capo e indossò il suo
maglioncino grigio, poi si tirò su e le prese il volto tra
le mani per baciarla un’ultima volta.
«Chiamami dopo».
Uscì dal fuoristrada accorgendosi che la sera aveva
già preso il sopravvento sul giorno. Il cielo, tuttavia,
aveva ancora la sfumatura rossastra tipica del tramonto.
Entrò nel giardino sul retro e, raggiunto il porticato, la
guardò mentre accendeva i fari e percorreva il vialetto in
retromarcia, alzando un bel po’ di polvere. Quando si
allontanò e scomparve alla sua vista, entrò in
casa con l’animo sereno, convinto di amarla come non aveva
mai amato nessun’altra.
***
Aveva fatto le scale di corsa,
per questo entrò nel suo appartamento con il fiatone. Si
gettò una rapida occhiata intorno e, dato il silenzio,
apprese che sua madre non c’era. Ma dove poteva essere andata?
Si portò una mano sulla fronte, appoggiandosi al bracciolo
del divano, e ripensò velocemente alla loro discussione di
quella mattina, sentendosi infinitamente in colpa.
Con un sospiro tornò in piedi per andare a bere un bicchier
d’acqua in cucina. Aprì l’acqua del
rubinetto e la lasciò scorrere per qualche secondo, quando
si accorse degli articoli di giornale sparpagliati sul tavolo. Si
avvicinò per esaminarli e senza nemmeno toccarli
capì che trattavano tutti dello stesso avvenimento: un
brutale pestaggio nella periferia di Los Angeles, probabilmente un
furto andato male. Già, quella era la versione che la
polizia aveva dato alla stampa. La realtà era ben diversa e
Grace la conosceva bene.
Abbassò la leva del rubinetto con un pugno e
schizzò fuori dall’appartamento, quella volta
sapendo perfettamente dove trovare sua madre.
Parcheggiò il fuoristrada a ridosso del marciapiede,
nonostante il rischio di prendersi una bella multa.
Percorse il vialetto a passo svelto e vide il nastro che gli agenti
della scientifica avevano applicato alla porta strappato. Qualcuno era
entrato nella casa, ora più che mai silenziosa.
Fece un respiro profondo, portando una mano al calcio della sua Glock
dietro la schiena, ed entrò di soppiatto.
La gran parte delle luci erano spente e il buio che era iniziato a
calare fuori dalle finestre non aiutava di certo la vista, senza
contare il fatto che c’era ancora la baraonda lasciata dagli
aggressori di sua madre.
Perché
sei venuta qui da sola, mamma, perché? si domandò la
detective affranta, odiandosi ancora una volta per la scenata che le
aveva fatto quella stessa mattina.
Strisciò lungo il muro del corridoio e cambiò
lato per poter avere una visuale migliore del salotto, illuminato solo
dalla piccola lampada da lettura posata sul tavolino accanto al divano.
Sua madre era china a terra, che cercava tenacemente di levare il
sangue secco dal pavimento – il suo stesso sangue –
armata soltanto di una spugna e di una bacinella d’acqua.
Grace abbassò la pistola e la infilò alla
cintura, sotto la giacca di pelle, e lentamente fece qualche passo
all’interno del salotto, stando attenta a non pestare i fogli
scritti a mano, i vecchi spartiti musicali e i libri sparpagliati sul
pavimento.
Raggiunse sua madre, la quale non la degnò nemmeno di uno
sguardo, ossessionata da quella chiazza di sangue che non voleva
saperne di sparire, e quando le fu di fronte si inginocchiò
e posò le mani sulle sue braccia, fermando i suoi movimenti
meccanici. Melanie sollevò di scatto il viso stanco e
contratto in una smorfia di dolore ed immerse gli occhi in quelli della
figlia. Grace fu colpita duramente dalla loro espressione fragile e
allo stesso tempo un po’ folle, dovuta sicuramente allo shock
che doveva aver provato rientrando, per di più da sola,
nella casa dove era stata aggredita.
«Mamma…».
La donna accennò un sorriso, mentre le lacrime le scavavano
le guance. «Hai visto? Alla fine ce l’ho fatta:
sono tornata a casa».
Grace distolse lo sguardo per un attimo, poi
l’aiutò ad alzarsi, levandole di mano la spugna
bagnata, e la condusse in cucina, dove la costrinse a sedersi.
Mentre aspettava che l’acqua del tè bollisse, la
detective andò in bagno ed aprì tutte le ante dei
mobili fino a quando non trovò ciò che cercava.
Quando tornò in cucina, vide sua madre ai fornelli che
versava l’acqua calda e profumata in due tazze, che poi
portò al tavolo.
Aspettò che sua madre tornasse a sedersi, poi si
accostò a lei e si versò due pillole bianche sul
palmo della mano, avvicinandogliele alla bocca. Melanie le
osservò a lungo, poi annuì con un cenno del capo,
asciugandosi il viso e tirando su col naso. Le prese tremando e se le
posò sulla lingua, inghiottendole con un po’ di
tè caldo.
«Vieni, dai», sussurrò carezzevole la
detective, prendendola sotto braccio.
L’accompagnò fino alla sua camera da letto, la
più intatta tra le stanze della casa, e
l’aiutò a stendersi sul materasso, rimboccandole
il lenzuolo sotto al mento. Melanie chiuse gli occhi, già
intontita dai sonniferi, ma cercò la mano della figlia per
stringerla forte. Grace non si tirò indietro e
ricambiò la stretta, accarezzandone il dorso con
l’altra mano.
«Scusami per quello che ti ho detto oggi, per tutto quello
che ti ho fatto, per tutta la sofferenza che ti ho provocato. Ti voglio
bene, mamma».
Melanie si era già addormentata, ma Grace ebbe comunque
l’impressione che quello dipinto sulle sue labbra fosse un
sorriso più o meno sereno.
Si alzò dal letto e socchiuse delicatamente la porta, poi
tornò in salotto a finire il lavoro iniziato da sua madre.
Strofinò il pavimento a più non posso, usando
così tanti prodotti da rischiare
un’intossicazione, fino a quando non riuscì a
togliere il sangue incrostato dal pavimento. Quando finì si
sedette al centro del salotto, sul tappeto, ed osservò
quella serie infinita di libri capovolti, sventrati e lacerati volati
giù dalla libreria. Avevano cercato davvero dappertutto. Ma
che cosa, che cosa?
Ricordò la sera in cui sua madre le aveva rivelato che
appena due settimane prima di essere assassinato suo padre era andato a
trovarla e si domandò se in quell’occasione lui
non avesse lasciato qualche indizio per la polizia… o per
lei.
Animata da quella speranza, seppure flebile, gattonò fino a
raggiungere il primo mucchio di libri. Li controllò uno per
uno, soffermandosi ad osservare le copertine, i titoli, e cercando di
ricordare qualche possibile collegamento.
Le ore trascorsero velocemente e quando si fermò per una
piccola pausa aveva sistemato la gran parte dei libri, quelli
già controllati, nella libreria. Si strofinò gli
occhi, stanchi ed arrossati per il sonno e lo sforzo della lettura, e
solo in quel momento si ricordò di Tom: gli aveva promesso
che lo avrebbe chiamato più tardi…
Tirò fuori il cellulare e vide che le aveva scritto tre
messaggi e non aveva risposto a molte sue chiamate. Stava per inoltrare
la chiamata, quando le cadde l’occhio sull’ora: era
notte fonda, probabilmente stava dormendo e non voleva svegliarlo. Gli
avrebbe spiegato la situazione la mattina dopo, avrebbe capito di
certo.
Fece qualche passo per sgranchire le gambe e la sua attenzione fu
catturata da una fotografia posta sul mobile accanto alla libreria. Suo
padre l’aveva scattata al mare, quando lei e sua madre erano
riuscite finalmente a far volare il loro aquilone nel cielo terso.
La sollevò con un sorriso dolce fra le labbra, ma prendendo
la cornice fra le mani si accorse di un angolo bianco che usciva fuori
dal retro del portafoto. Incuriosita, l’aprì e
trovò ciò che non avrebbe mai immaginato di
trovare: una polaroid, dove però quella volta i soggetti in
posa erano sua madre e suo padre, nel pieno della loro giovinezza,
tutti imbacuccati sotto la neve. Guardandola ancora meglio,
notò sullo sfondo un monumento che riconobbe subito: la
Porta di Brandeburgo.
Toc toc.
Suo padre
aprì la porta e mise la testa dentro la sua camera.
«Tesoro, posso entrare?».
«Ormai è come se fossi già
dentro», rispose Grace, scrollando le spalle con un sorriso
sulle labbra, allontanandosi dalla scrivania sulla sua poltrona
girevole.
Mitch si sedette sul letto della figlia ed appoggiò i gomiti
sulle ginocchia, unendo le mani di fronte a sé.
«Va tutto bene?», gli domandò la
ragazza, notandolo un po’ strano.
In effetti era da un po’ di tempo, da quando lavorava a quel
caso che sembrava tanto importante, che il suo comportamento sfiorava
spesso l’incomprensibile.
«Nella norma. Senti, tesoro… Devo andare via per
un po’».
Grace si voltò di scatto, improvvisamente attenta, e lo
fissò con gli occhi sbarrati. «E dove
vai?».
Mitch le sorrise e le accarezzò il mento con un dito.
«È un viaggio di lavoro, starò via solo
una settimana».
«È pericoloso o posso accompagnarti?»,
gli chiese con una smorfia, già a conoscenza della sua
risposta. Ma suo padre la sorprese.
«Ti prometto che quando questo caso sarà chiuso e
mi prenderò una vacanza partiremo, solo io e te. E torneremo
alle nostre origini».
Grace corrugò la fronte, stranita. «Le
nostre… origini?».
Mitch sorrise raggiante, alzandosi e andando alla porta.
«Sì. È molto importante ricordare chi
si è, tornare nei posti in cui si è
nati… È confortante. Soprattutto nei momenti
difficili».
Il cuore le batteva all’impazzata nel petto e dovette sedersi
sul divano per non vacillare di fronte a quel ricordo così
chiaro e vivido, tornato a galla all’improvviso dal profondo
della sua memoria.
Possibile che tutte quelle ricerche, sia da parte degli aggressori di
sua madre sia da parte sua, fossero state vane? Possibile che la
risposta a tutte le sue domande stesse proprio in quella vecchia
fotografia, nascosta all’ombra di un’altra?
Possibile che per risolvere il caso di suo padre e dargli giustizia
dovesse tornare davvero alle sue origini?
Tornò a guardare la polaroid che teneva ancora fra le mani e
ne osservò lo sfondo con attenzione, chiedendosi se il
discorso che suo padre le aveva fatto a diciassette anni e quella foto
fossero collegate, se quest’ultima fosse l’indizio
che le aveva lasciato per concludere il suo lavoro.
Davvero Berlino era la soluzione
dell’enigma?
_______________________________
Ta-da-da-dààààn!
Allora, buongiorno :) Come state? Spero bene! Io un po' stanca, ma
tutto sommato okay.
Questo capitolo è decisivo, come avrete notato... Dopo
quello che è successo tra Tom e Grace in quello precedente,
abbiamo avuto la "soluzione" e... che ne pensate? Dal mio punto di
vista sono dannatamente teneri e Grace è così
fragile, nonostante tutta la forza che tira fuori nei momenti
più impensabili... Menomale che c'è Tom ;)
Lui è stato d'aiuto anche a Melanie, da cui Grace ha preso
questa fragilità, e abbiamo avuto ancora una volta una
visione del suo passato... E' riuscita anche a tornare a casa sua, a
suo rischio e pericolo e permettendo a Grace di trovare quella
polaroid... Chissà se Berlino sarà davvero la
soluzione!
Per quanto riguarda la nostra Molly, invece... si prospetta il
triangolo con Aiden e Nigel? xD Che ne pensate di loro due? Sono
curiosa! :P
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e chi ha
messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate e chi ha letto
soltanto!
E... vi aspetto e noi ci vediamo la settimana prossima (oltre che sulla
mia pagina facebook _Pulse_
EFP )! ;D
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 20 ***
Capitolo 20
«Deve essere proprio
un’occasione più unica che rara, quella che vi
vede intenti a cucinare qualcosa, vero?».
Tom si voltò verso Grace e ridacchiò, la bocca
piena di spaghetti di soia. Bill invece si lasciò andare
liberamente, mentre si alzava da tavola per prendere una nuova
bottiglia di birra.
«Ma a me piace cucinare!», disse il chitarrista,
una volta inghiottito.
«Ah, peccato che non lo fai mai…».
«Senti chi parla», sbuffò lui,
sventolando una mano.
Gli tirò un manrovescio sul petto, lasciando le bacchette
dentro la sua scatola di spaghetti ai gamberetti. «Ehi, io
sono un’ottima cuoca! Cucinavo sempre…
prima».
L’atmosfera divenne all’improvviso pesante, carica
di imbarazzo e disagio per l’ennesimo ricordo legato al padre
di Grace venuto a galla, e Bill si appoggiò al lavello per
bere direttamente dal collo della bottiglia ghiacciata.
«Beh, sai cosa ti dico? Accetto la sfida»,
esordì l’impavido Tom all’improvviso,
rompendo il silenzio.
La detective sgranò un po’ gli occhi, confusa.
«Tu… tu cosa?».
«Sì, facciamo una gara! Qualcuno farà
da giudice e deciderà chi è più bravo
in cucina!».
Bill sorrise divertito di fronte all’espressione
elettrizzata, tipica di un bambino, dipinta sul volto di suo fratello.
«Sei pazzo, Tom».
«Sì, perché vai incontro ad una
sconfitta certa!», ribatté Grace, incrociando le
braccia al petto, certa delle proprie capacità culinarie.
«Credi di avere già la vittoria in tasca, eh?
Vedrai, ti farò pentire di avermi sottovalutato!».
Le avvolse un braccio intorno al collo e con una mano le
scompigliò i capelli, facendola urlare indispettita mentre
lui se la rideva di gusto.
Quel momento di gioia spensierata fu interrotto dallo squillo del
cellulare del chitarrista, che lo costrinse ad alzarsi per rispondere.
«È David», spiegò sottovoce,
per poi spostarsi in salotto per parlare più tranquillamente
col management.
La detective finì di sistemarsi la coda, sfatta per colpa di
Tom, poi si alzò ed iniziò a sparecchiare la
tavola, schiacciando le scatolette di alluminio vuote e spezzando le
bacchette non più utilizzabili.
Prese due nuvole di drago tra quelle avanzate: una la
sgranocchiò lei, l’altra la portò a
Bill e sorridendo lo imboccò come un neonato. In compenso
però gli rubò la bottiglia di birra che teneva in
mano e bevve un sorso appoggiandosi all’isola della cucina,
vicino a lui. L’occhio le cadde inavvertitamente sulla
profonda scollatura della canottiera che indossava, la quale gli
lasciava i fianchi completamente scoperti: su quello sinistro Bill
aveva il tatuaggio forse più grande tra tutti quelli che
aveva, formato da due frasi scritte con un carattere elaborato ed
intrecciate tra loro.
«Non smettiamo mai di gridare. Torniamo
all’origine», sussurrò tra
sé la detective, ma Bill la udì comunque e si
voltò incuriosito verso di lei.
«Ti piace?», le domandò sorridente.
Grace annuì con fare distratto, avendo come la sensazione
che la seconda frase potesse tatuarsi all’improvviso sulla
sua fronte.
Ebbene, non aveva ancora fatto parola con nessuno del passo avanti
– se poteva essere davvero chiamato così
– che aveva fatto nelle indagini, trovando quella vecchia
polaroid nascosta nella cornice di un’altra fotografia a casa
di sua madre. Nemmeno con Tom. Prima o poi avrebbe dovuto farlo e a
quel punto sperava decisamente prima che poi, perché aveva
notato che non riusciva più a tenergli nascosto nulla,
soprattutto se si trattava di una cosa di tale importanza: ogni volta
che lo faceva si sentiva sporca e i sensi di colpa la divoravano.
«Ehi, Grace, va tutto bene?».
La detective levò di scatto lo sguardo e trovò
subito quello di Bill, premuroso e gentile, ad accoglierla.
Provò a rivolgergli un sorriso e in qualche modo ci
riuscì.
«Sì, mi ero solo incantata».
A quel punto Tom rientrò in cucina con il cellulare stretto
in mano, un’espressione che la diceva lunga sul tipo di
conversazione che doveva aver intrattenuto con David.
«Domani mattina riunione», comunicò
lapidario, dirigendosi al tavolo per mangiare anche lui una nuvola di
drago.
«Avete parlato per dieci minuti e vi siete detti solo
questo?», chiese Bill, con il suo adorabile sopracciglio
sollevato.
Tom annuì e scrollò le spalle contemporaneamente.
Poi incrociò lo sguardo di Grace e il suo viso si distese un
poco, anche grazie alla comparsa di un piccolo sorriso.
«Ti va di andare a fare una passeggiata?».
Grace e Bill si scambiarono un’occhiata, entrambi sconvolti
dalla richiesta insolita di Tom, e alla fine il frontman
alzò le braccia al cielo e le lasciò subito
cadere lungo i fianchi.
«Prima la gara di cucina, adesso la passeggiata al chiaro di
luna! Va bene che è San Valentino,
però…». Bill si interruppe bruscamente
notando l’espressione sconvolta di Grace, ma ben presto un
sorriso divertito gli si dipinse sul viso. «A volte mi chiedo
dove vivi, Grace. Oggi è la festa degli innamorati,
sì! E tu te ne sei dimenticata».
Grace, ancora a bocca aperta, si voltò verso Tom, il quale
non aveva accennato a nulla del genere per tutto il giorno. Quindi
arricciò le labbra per trattenere una risata e lui fece lo
stesso, prendendola per mano e trascinandosela dietro.
Non conosceva quel posto,
doveva ringraziare Tom per averglielo fatto scoprire in tutta la sua
naturale bellezza: un sentiero a ridosso della costa, dal quale si
poteva vedere l’oceano e raggiungere comodamente la spiaggia.
Molto suggestivo per le coppiette innamorate e utile per chi, come Bill
e Tom, aveva dei cani da portare frequentemente a spasso.
Grace si portò le mani dietro la nuca e trasse un lungo
respiro profondo, chiudendo gli occhi mentre il profumo di salsedine le
entrava nei polmoni.
«Stai ancora pensando al fatto che oggi è San
Valentino?», le domandò Tom, il quale passeggiava
tranquillo al suo fianco, nonostante il suo cane volesse raggiungere un
gruppo di cespugli, attirato forse da qualche animaletto.
«Personalmente è una festa che odio. Che senso ha?
Le persone innamorate non dovrebbero avere un giorno segnato sul
calendario per farsi dei regali».
«Sono d’accordo con te. Tanto che me
n’ero di nuovo dimenticata».
Il chitarrista ridacchiò. «Allora a che
pensavi?».
«A troppe cose», confessò Grace.
«Non c’è un modo per mettere il cervello
in stand-by? Mi sto rovinando il momento romantico con il mio
fidanzato!». Si aggrappò al suo braccio,
sfarfallando le ciglia, e Tom scoppiò a ridere, sollevato
che il buio della notte impedisse alla detective di constatare che era
arrossito.
«Magari ci fosse… servirebbe tanto anche a
me», replicò il chitarrista.
«Sei in pensiero per la riunione di domani?».
«Non per la riunione in sé, ma per ciò
che verrà dopo. Vedi, l’argomento del giorno
sarà la promozione del nuovo album e fare promozione vuol
dire viaggiare e viaggiare comporta che io e te
non…».
Grace si allontanò da lui e si sedette su una panchina, gli
occhi rivolti verso l’oceano sulla cui superficie increspata
si rifletteva la luce della luna, facendolo sembrare ricoperto di
scaglie argentate.
«È il tuo lavoro, dovresti esserci abituato
ormai», gli disse accennando un sorriso.
Tom si abbandonò al suo fianco, avvolgendole le spalle con
un braccio e facendo accucciare il cane ai suoi piedi.
«Sì, ma non sono abituato a stare lontano da
te. E solo il pensiero che ti possa accadere qualcosa mentre
io sono via…». Le accarezzò una guancia
col pollice, gli occhi fissi nei suoi.
«Non posso prometterti che mi terrò fuori dai
guai, ma ci proverò», gli sussurrò, per
poi stampargli un bacio sulle labbra. «Io posso stare
tranquilla, invece? Niente scappatelle con qualche tua fan?».
«Ma che, scherzi?!».
Grace scoppiò a ridere, contagiandolo, e si
appoggiò alla sua spalla con la testa, stringendosi a lui e
lasciando che le accarezzasse i capelli.
«Vuoi sapere, invece, che cosa farò io
domani?». Tom annuì e Grace proseguì:
«Per prima cosa andrò dal signor Phillips per
chiudere il suo caso: non posso più farlo
aspettare».
«Finalmente ti sei decisa?».
«Già… Ormai è chiaro che
quella ragazza non è un’amante occasionale della
signora Phillips. Anzi, sembrano proprio innamorate».
«Ti preoccupa ancora la reazione di suo marito, non
è così?».
«Esatto. Ho la sensazione che non reagirà affatto
bene e raramente il mio istinto fallisce».
«Che cos’hai intenzione di fare, di
pedinarlo?».
Grace sospirò stancamente e tirò fuori dalla
tasca della giacca il suo pacchetto di sigarette. «Non lo
so… Ho il terrore che possa fare qualcosa di folle, ma non
posso controllarlo per il resto della mia vita!».
«Appunto. Lo so che è brutto da dire, ma
forse… forse dovresti fregartene, ecco. Tu hai fatto quello
che ti ha chiesto, il resto non è più un problema
tuo».
La detective si accese la sigaretta fra le labbra, proteggendo la
fiamma dal vento con una mano, poi accese anche quella che nel
frattempo aveva offerto a Tom.
«Forse hai ragione», disse, anche se incerta.
Tom le sorrise e soffiò una boccata di fumo verso
l’alto. «Poi hai altri programmi per la
giornata?».
«In realtà sì», ammise Grace,
annuendo lentamente col capo. Era arrivato il momento. «Avevo
intenzione di… di andare a parlare con Dylan e
l’agente Crawford».
«A proposito di cosa?».
Tom, non ottenendo subito una risposta, si irrigidì e tolse
il braccio dalle spalle della detective, guardandola con un misto di
preoccupazione ed irritazione negli occhi. «Grace, mi hai
tenuto all’oscuro di qualcosa?».
«È… è solo
un’ipotesi, ma forse…»,
balbettò fino ad interrompersi del tutto, portandosi una
mano sulla fronte.
«Guardami negli occhi e dimmi che cos’hai
scoperto», le disse con un tono di voce pacato, prendendole
il mento fra le dita per far incrociare i loro sguardi.
«Berlino», si limitò a dire la detective.
Tom corrugò la fronte, confuso. «Berlino? Che
c’entra Berlino?».
«Mio padre è nato a Berlino e l’altro
giorno, quando mia madre è andata a casa sua e io
l’ho raggiunta, ho trovato una vecchia polaroid nascosta
dietro un’altra foto incorniciata».
«Continuo a non capire».
Grace socchiuse gli occhi e sospirò.
Si
svegliò lentamente, le narici punzecchiate
dall’odore intenso del caffè, e vide sua madre
seduta sulla poltrona di fronte al divano su cui si era sdraiata
all’alba di quella mattina, distrutta. Tra le mani aveva la
polaroid che aveva trovato e la stava osservando con gli occhi umidi di
lacrime.
Quando si accorse dello sguardo della figlia, Melanie si
portò la fotografia al petto e disse con la voce spezzata
dal pianto: «Tuo padre non se ne separava mai. Dove
l’hai trovata?».
Grace, all’improvviso lucida, si chiese se fosse il caso
mentirle. Alla fine optò per dirle la verità.
La donna si alzò lentamente e raggiunse la fotografia
incorniciata sul mobile accanto alla libreria.
L’accarezzò con le dita ed accennò un
sorriso dolente.
«Quella sera», disse, «quando tuo padre
venne a trovarmi, prese in mano questa stessa fotografia e disse che
gli sarebbe piaciuto averla. Io gli ho detto di no perché
era una delle poche cose che ancora avevo di te».
Grace si alzò dal divano e raggiunse la madre per
abbracciarla delicatamente, lasciando che scoppiasse a piangere contro
la sua spalla. Osservò la fotografia che le aveva preso
dalle mani ed ebbe come la sensazione che un altro tassello del puzzle
avesse trovato finalmente il suo posto: suo padre aveva nascosto la
polaroid in quella foto con la speranza che un giorno lei la trovasse e
continuasse a seguire la sua pista.
Tom voltò la polaroid verso la luce della luna per poterla
vedere meglio, poi la ridiede a Grace, che la nascose subito nella
tasca interna della giacca.
«Quindi… quindi pensi che un viaggio a Berlino
possa condurti a qualche risposta sul caso?».
«È quello che spero».
«E se non trovassi niente?».
Grace sorrise. «Avrò visitato la città
natale di mio padre come una normalissima turista».
«E ci andresti da sola?».
Osservò Tom e per l’ennesima volta colse nella sua
espressione corrucciata la preoccupazione che potesse capitarle
qualcosa di male.
Grace si accucciò ancora contro il suo petto e gli
posò un bacio sulla mano del braccio che le avvolgeva il
collo.
«Sarebbe bello se, per una fortunata coincidenza, voi
iniziaste a promuovere il vostro nuovo album proprio dalla Germania,
non trovi?».
***
Entrò nello studio
del signor Phillips e l’uomo chiuse la porta, poi si diresse
dietro la sua scrivania, invitandola ad accomodarsi su una delle due
poltrone di fronte ad essa.
Grace si sedette, nonostante il disagio e il nervosismo, e girandosi
per sistemare la borsa a tracolla sullo schienale vide una teca di
cristallo in cui erano collezionate una serie di pistole, partendo da
pezzi rari ed antichi fino ad arrivare a modelli invece più
recenti ed estremamente curati. Deglutì, lo stomaco ancora
più contratto in quella fastidiosissima morsa, e il
contenuto della sua borsa parve aumentare di qualche tonnellata.
«Allora, non ha niente per me?», le
domandò l’uomo, piantandole i suoi irritanti occhi
azzurri addosso.
Grace sospirò e socchiudendo gli occhi infilò una
mano nella borsa per tirar fuori il pacco destinato al suo cliente. Lo
sbatté con poca delicatezza sul piano della scrivania e il
senso di pesantezza che le aveva schiacciato il petto fino a quel
momento svanì, immediatamente rimpiazzato però da
un lieve senso di colpa che la fece sentire una specie di traditrice.
Il signor Phillips aprì la busta marrone ed
osservò una per una le foto che ritraevano sua moglie con la
sua giovane amante, sotto lo sguardo attento di Grace che non perse
nemmeno un mutamento d’espressione dell’uomo, il
quale contro ogni aspettativa si rivelò più calmo
del previsto. Forse si sbagliava, forse si era sempre sbagliata, e non
doveva temere che potesse far del male a sua moglie per il suo
tradimento. Eppure il suo istinto di rado falliva… Decise di
provocarlo un po’ per vedere la sua reazione.
«Aveva ragione lei: sua moglie la tradisce. E da un
po’, direi. Ma chi se lo sarebbe mai immaginato che la
tradisse con una donna! Stentavo a credere ai miei occhi quando le ho
viste insieme nella camera d’albergo. Mi tolga una
curiosità: lei non si è mai accorto di
questa… tendenza di sua moglie? Uhm?».
«No, mai».
Il signor Phillips la incenerì con lo sguardo, ma fu
l’unica reazione d’irritazione e rabbia che
manifestò. Così Grace lasciò perdere
la sua commedia e sospirò, dicendo: «Oltre alle
foto, troverà un foglio in cui ho segnato i luoghi e le
fasce orarie in cui sua moglie e la sua amante si sono incontrate
durante la settimana. È molto probabile che rimangano le
stesse anche per il futuro, nel caso…».
«Ho capito, grazie», la interruppe, aprendo
bruscamente un cassetto della scrivania, da cui tirò fuori
un blocchetto d’assegni. Prese una penna, compilò
velocemente un foglietto e lo strappò, porgendoglielo.
«Ecco a lei».
«Signor Phillips…».
«C’è qualcosa che non va? Non era quella
la cifra che avevamo pattuito?».
«No, la cifra è giusta»,
accennò un sorriso sollevando l’assegno.
«Solo… conosco degli specialisti che saprebbero
aiutare lei e sua moglie a superare questo momento
e…».
Non la fece finire nemmeno quella volta, ribattendo con tono di voce
aspro e un’espressione contrariata, ma nel limite
dell’educazione.
«Lei è molto gentile, ma quello che passeremo io e
mia moglie da qui in avanti non è più affar
suo».
«Sì, lo immaginavo», mormorò
Grace alzandosi dalla poltrona e sistemandosi la borsa a tracolla sulla
spalla.
«L’accompagno alla porta».
«Non ce n'è bisogno, conosco la strada».
Detto questo uscì dallo studio senza guardarsi indietro e
una volta sul vialetto si strinse il collo fra le spalle, arrendendosi
al fatto che non poteva fare più niente per aggrapparsi al
suo istinto ed agire di conseguenza.
«E dai, merda, no!».
Grace corrugò la fronte udendo quelle imprecazioni soffocate
e, incuriosita, si appostò all’angolo della
facciata della villetta: sotto una finestra c’era un ragazzo
di quindici, sedici anni al massimo, con una sigaretta fra le labbra,
che provava e riprovava a far funzionare il suo accendino, senza
successo.
La detective si avvicinò a lui sorridendo, ma il ragazzo si
spaventò comunque e cadde culo a terra sull’erba.
Grace ridacchiò e gli porse il suo accendino.
«Oh. Grazie».
Il ragazzo si accese la sigaretta e si rilassò, lasciando
pure che la detective si sedesse al suo fianco, imitandolo.
«Tuo padre non sa che fumi, eh?».
«Assolutamente no», rispose il ragazzo, con un
sorrisino sulle labbra. «Se lo scopre mi scortica
vivo».
Il ricordo del giorno in cui aveva fatto il suo primo tiro le
pungolò il cuore: lei, al contrario di
quell’adolescente, era subito stata scoperta da suo padre, a
causa della quantità esagerata di profumo che una sua
compagna di scuola le aveva spruzzato addosso per coprire la puzza di
fumo. Era entrata nel suo ufficio ed era bastato uno sguardo per farle
capire che non l’avrebbe mai e poi mai fregato, che non
approvava e che la trovava buffa nel suo voler essere grande a tutti i
costi.
«Uhm, non male come metafora», disse quando
riuscì a tornare alla realtà.
«Manterrò il segreto».
«Tu sei l’investigatrice privata che ha ingaggiato
per scoprire se mamma lo tradisce, vero?».
Grace lo osservò e le bastò uno sguardo per
capire che sapeva già tutto. «Sì. Il
mio lavoro è finito oggi, però. Tu sapevi che tua
madre tradisce tuo padre?».
Il ragazzo annuì, facendo un avido tiro alla sigaretta.
«Se fossi in lei, farei la stessa cosa. Mio padre
è una specie di tiranno e se mamma è felice con
un’altra persona, sono felice per lei».
Grace spense la sigaretta, ma tenne il mozzicone in mano in attesa che
anche il ragazzo terminasse la sua. Prese anche il suo e fece per
andarsene, sorridendogli, quando si voltò di nuovo e
cercò nella tasca della giacca uno dei suoi biglietti da
visita. Li usava così raramente che non sapeva nemmeno dove
fossero! Quando li trovò, ne porse uno al ragazzo ancora
accucciato sotto la finestra.
«Per qualsiasi cosa… qui c’è
il mio numero di cellulare».
Il ragazzo annuì debolmente e la ringraziò, sia
per l’accendino che per il biglietto da visita, poi la
guardò andare via e gettare i due mozziconi di sigaretta in
una grata al lato del marciapiede.
***
Molly
sollevò il capo per spingere con forza la porta vetrata e
non appena fu dentro l’atrio della scuola si sentì
più che osservata. Imbarazzata, si guardò
fugacemente intorno e vide alcune ragazze parlottare, indicando una
delle pagine del giornalino scolastico.
Molly, decisa a non arrivare in ritardo alla lezioni – o
forse solo desiderosa di stare sola, senza mille occhi addosso
– si affrettò a raggiungere il suo armadietto,
camminando a testa bassa. In corridoio però
afferrò una copia del Knight e si
irrigidì del tutto quando, sfogliandolo velocemente, si
imbatté in una foto che immortalava Nigel Hall, capitano del
team di baseball della Notre Dame, che la salutava con un sorriso
ammiccante ed un occhiolino. Il titolo, più che
provocatorio, come tutto il resto dell’articolo, vaneggiava
su come la nuova arrivata avesse già conquistato il cuore di
uno dei ragazzi più popolari. Erano persino quotati ad
essere la coppia più popolare
dell’anno, con i cognomi importanti che si trovavano.
Le lacrime le punsero gli occhi, ma grazie alla rabbia che
iniziò a circolarle nelle vene riuscì a
trattenersi, ficcando malamente la copia del giornalino nella borsa.
Aprì il suo armadietto e si trovò davanti un
mazzo di rose che fece mormorare d’invidia un paio di ragazze
che stavano camminando dietro di lei. Lo tirò fuori e
trovò il bigliettino che le accompagnava:
Mi
dispiace per quello che è successo sabato, ho rovinato tutto.
Mi dai un’altra chance?
Nigel
Trattenne un urlo frustrato e
gettò biglietto e mazzo di rose direttamente nel cestino,
suscitando scalpore in tutti quelli che avevano assistito alla scena,
tra cui anche un paio di compagni di squadra di Nigel. Molly se ne
fregò altamente e si diresse a passo spedito verso la sua
aula, che trovò vuota. O quasi.
Al tonfo della porta, il ragazzo rivolto verso le grandi finestre che
davano sul giardino interno all’edificio scolastico, quello
adibito a parco e a mensa all’aperto, si voltò
sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Buongiorno, Molly».
La ragazzina sbuffò col naso, lasciando cadere la borsa a
tracolla accanto al suo banco. «Ben».
Il ragazzo si avvicinò a lei, dato che nel frattempo si era
seduta nascondendo la testa fra le braccia in attesa del suono della
campanella, e notò un angolo del Knight
uscire fuori dalla sua borsa.
«Quindi… l’hai visto. Mi dispiace,
Molly, davvero…».
«E io che volevo diventare sua amica. Perché ha
fatto una cosa del genere, perché?!», gli
urlò contro, gli occhi umidi di lacrime. Tirò
fuori la pagina di giornale che la interessava in prima persona e la
sbatté sul banco. «Che bisogno c’era di
pubblicare una foto del genere?».
«Sheila non c’entra niente, io e lei abbiamo
tentato di…».
Ma Molly non volle sentire ragioni e lo interruppe, gridando:
«Adesso sanno tutti di me e Nigel e io… io odio
questa scuola, odio tutti qui dentro!».
Incrociò gli occhi castani di Ben, che la scrutavano
inespressivi, e si sentì morire lentamente. Era una bugia,
una bella e buona: non odiava Ben, non odiava Aiden. E
Sheila… lei era ancora un’incognita.
Il trillo della campanella ruppe la prigionia a cui lo sguardo di Ben
l’aveva costretta, perché il ragazzo si sedette al
suo fianco facendo esattamente come se lei non esistesse e
tirò fuori il suo quaderno di matematica.
Molly si affrettò a nascondere la copia del giornalino
scolastico e lo imitò, mentre i loro compagni più
puntuali entravano in classe per sistemarsi ai loro posti.
Andava a scuola da quanto? Una settimana? E si trovava già
sommersa da problemi che mai nessuno l’aveva preparata ad
affrontare.
***
Dylan, seduto alla sua
scrivania, notò con la coda dell’occhio che Oswin
lo stava fissando. Strinse nel pugno la matita con cui stava giocando,
poi mosse il mouse per mandare via lo screensaver dal desktop del suo
computer.
Grace, cazzo,
dove sei?
si lamentò mentalmente, ripensando alla chiamata della
detective: gli aveva detto che sarebbe arrivata lì entro
dieci minuti e di contattare anche l’agente
dell’FBI perché aveva bisogno di parlargli. Aveva
subito intuito che si trattava di qualcosa di importante inerente al
caso, ma davvero non riusciva ad immaginare cosa potesse
aver…
«Parleremo prima o poi, vero?».
Alla domanda del suo partner, posta con voce stanca, Dylan si
voltò e lo guardò intensamente negli occhi,
l’espressione del viso indurita dal rancore che da un
po’ di tempo a quella parte gli riservava.
«Io non ho niente da dirti», rispose stizzito.
Oswin alzò le mani in segno di resa. «Okay, hai
ragione, sono io quello che deve parlare. Allora mi puoi ascoltare? Non
possiamo più andare avanti così, hai persino
chiesto al capo di cambiare la nostra auto con due moto, mentre
noi… siamo una squadra, ci siamo sempre protetti le spalle a
vicenda e se tu non ti fidi più di me…».
«Come potrei fidarmi ancora di te, dopo la coltellata alle
spalle che mi hai inferto?», urlò a mezza voce,
sporgendosi verso di lui tenendosi alla scrivania con una mano.
«Mai, mai avrei immaginato che tu potessi
farmi una cosa del genere… potessi giudicarmi
come tutti gli altri. Pensavo che fossi mio amico e
invece…».
«Ma io sono tuo amico, Dylan!».
«Evidentemente abbiamo due idee differenti di
“amicizia”, visto che appena ti ho detto che avevo
baciato Bill non sei più riuscito a guardarmi negli
occhi!».
Oswin abbassò il capo, colpito e affondato, e in quel
momento sia Crawford che Grace fecero la loro comparsa. Alla detective
bastò scambiare uno sguardo con Dylan per capire che
c’era tensione nell’aria e disse subito:
«Ho bisogno di un caffè! Mi accompagni alla
macchinetta? Non mi ricordo più
dov’è».
«Certo», rispose il poliziotto, alzandosi dalla
scrivania e raggiungendo i due dopo aver lanciato un ultimo sguardo
sprezzante verso Oswin, il quale fece una pallina di carta e la
gettò frustrato nel cestino, mancandolo.
«Va tutto bene?», gli chiese la detective quando
furono abbastanza lontani, accarezzandogli un braccio.
Dylan annuì, sospirando lentamente. «Che
situazione di merda. Vorrei perdonarlo, dico sul serio, ma ogni volta
la rabbia mi manda in tilt il cervello e…».
«Beh, credo sia normale. Comunque vedrai che quando
sarà il momento giusto ci riuscirai», gli sorrise
incoraggiante e gli diede una pacca sulla spalla.
«Scusate, ma di che state parlando?», chiese
l’agente Crawford, rimasto tutto il tempo alle loro spalle.
Dylan arrossì involontariamente e Grace accorse in suo
aiuto, ridendo: «Oh, niente di grave. Ha qualche problema
di… comunicazione con il suo partner in questo
periodo».
«Ah, capisco. È anche per questo che preferisco
lavorare da solo».
Grace sollevò un sopracciglio, schiarendosi la voce, e
l’agente dell’FBI si sciolse in uno dei suoi
sorrisi tanto belli quanto rari.
«A parte ovvie eccezioni, chiaro».
«Non vuoi davvero il caffè della macchinetta,
vero? Lo sai che è pessimo», disse Dylan schifato
quando giunsero nei pressi del vecchio distributore automatico.
Grace sorrise. «No, cercavo soltanto un posto appartato in
cui poter fare due chiacchiere».
«Potevamo andare nella sala
interrogatori…», disse Michael, la fronte
corrugata.
«È lo stesso. Qui non ci viene mai nessuno,
proprio perché il caffè è
orribile!».
Dylan e l’agente Crawford si scambiarono
un’occhiata e poi sorrisero, appoggiandosi al muro accanto
alla macchinetta, curiosi di sapere il motivo per cui Grace li aveva
voluti vedere.
***
Non aveva mai visto suo
fratello fronteggiare David in modo così aperto ed ostinato,
sembrava sempre sul punto di alzarsi e scaraventare la sedia a terra
dalla rabbia, per poi prenderlo a testate sul naso. E il fatto
preoccupante era che il management non era da meno.
«I piani ormai sono questi, non possiamo disdire tutto
perché all’improvviso ti manca la tua patria o
chessoio!».
Tom sbatté le mani sul tavolo, sporgendosi verso David con
il viso paonazzo e le vene del collo in evidenza.
«Non mi manca la mia patria, siamo semplicemente in debito
con le nostre fan tedesche, le prime ad averci sostenuto e senza le
quali non saremmo dove siamo ora! È da troppo tempo che le
trascuriamo, lo sai benissimo, e se la vediamo dal tuo punto di vista
tutto questo non ci fa una buona pubblicità. È
l’Europa che ci dà da mangiare, negli Stati Uniti
non siamo ancora così tanto conosciuti».
«Appunto, proprio per questo iniziare da qui la
promozione…», spiegò il management con
tono di nuovo pacato, ma venne interrotto dalla voce di Georg, come
Gustav in collegamento Skype dalla Germania.
«Secondo me Tom ha ragione, David».
Il chitarrista si voltò verso il pannello elettronico su cui
erano proiettate le immagini webcam degli altri due componenti della
band e sollevò le braccia.
«Grazie, Georg. Qualcuno dalla mia parte!», disse
esasperato, lanciando un’occhiata truce al gemello seduto di
fronte a lui, il quale non aveva ancora aperto bocca in suo appoggio.
Bill scosse il capo, arrendevole, e bevve un sorso d’acqua
dalla bottiglietta posata sul tavolo.
«Perché, pensi davvero sia un’idea folle
la mia?!», ribatté Tom, sempre più
innervosito.
«Tom, lascia perdere. È meglio così,
credimi».
«Cosa? No! Adesso mi dici per filo e per segno che cosa ti
sta frullando nella testa, perché…».
«E va bene». Bill si alzò e
posò le mani sul tavolo per poterlo guardare a distanza
ravvicinata dritto negli occhi.
David si portò una mano alla fronte e sia Georg che Gustav
strinsero un po’ gli occhi, preoccupati che potesse
scatenarsi una delle tremende liti fra i gemelli Kaulitz.
«L’unico motivo per cui non ho detto niente
è perché tu non stai dando la vera motivazione
per cui vuoi che la promozione del nuovo album parta dalla Germania, da
Berlino».
«Che cosa…?». Tom capì in un
lampo dove Bill sarebbe andato a parare e divenne di nuovo paonazzo.
«Oh no, non osare…».
«Sbaglio o sei stato tu ad ordinarmi di dirti quello che mi
sta frullando nella testa?»,
sogghignò e lasciò qualche minuto al fratello per
riflettere, fino a quando lesse nei suoi occhi la più totale
disperazione. Solo allora scacciò via tutta la perfidia che
aveva macchiato il suo viso e tornò a sedersi accavallando
le gambe.
Tom si lasciò cadere sulla poltrona alle sue spalle, le
labbra serrate e lo sguardo fisso sul tavolo, e David guardò
i gemelli in un lento ping-pong. Alla fine focalizzò la
propria attenzione sul chitarrista, al quale si rivolse dopo essersi
schiarito la voce con un colpo di tosse: «Vuoi spiegarmi che
cosa sta succedendo?».
Tom negò con un breve cenno del capo e non osò
sollevare gli occhi.
«Bene, allora siamo d’accordo che si
farà come…».
Bill schioccò la lingua contro i denti con disapprovazione,
guardandosi le unghie corte della mano tatuata.
«In realtà anche io ho voglia di tornare nella
vecchia, cara Repubblica Federale».
«Oh, ti prego, Bill…»,
piagnucolò David, lasciando cadere sul tavolo il suo palmare.
«Facciamo a votazione?», chiese Gustav, sorridente
come Georg e lo stesso Bill, il quale aveva posato gli occhi dolci in
quelli stupiti del suo fratellone: mai gli avrebbe voltato le spalle,
avrebbe dovuto saperlo ormai!
«Chi è d’accordo a far iniziare questo
fottutissimo tour promozionale da Berlino?»,
domandò il frontman, sollevando subito una mano, imitato da
Georg e Gustav, i quali la sventolarono di fronte alla webcam dei loro
PC.
Tutti gli occhi si puntarono su Tom, ma fu un gesto puramente formale,
perché avevano già raggiunto la maggioranza.
Il volto del chitarrista si illuminò grazie ad un sorriso e
alzò entrambe le mani, urlando felice come una pasqua:
«Lo sapevo, lo sapevo! Ragazzi, siete grandi!».
David, frustrato, abbandonò ogni altro tentativo di
convincimento e dopo aver recuperato il suo palmare contenente tutti i
piani già fissati della band che ora andavano
inevitabilmente modificati, uscì dalla sala riunioni.
Tom si alzò per andare ad abbracciare frettolosamente il
fratello e stampò anche un bacio sul PC portatile al centro
del tavolo, poi si scusò e corse fuori anche lui,
già con il cellulare in mano.
Quando rimasero soli, Bill e Georg e Gustav via Skype, il bassista
domandò: «Ci dici il vero motivo per cui Tom vuole
tanto andare a Berlino?».
Il frontman sollevò le mani e rise. «Non ne ho la
più pallida idea!».
I due amici lo fissarono con gli occhi sgranati e lui aggiunse, con un
sorriso furbo sulle labbra: «Ma scommetto che in quale modo
c’entra Grace».
***
«Dovete lasciarmi
andare a Berlino. È l’unica pista che possiamo
seguire in questo momento, dato che Kenelm non ha saputo dirci niente
oltre a quello che già sapevamo sulla sparatoria
all’Halo».
«Beh, anche lui ha riconosciuto l’uomo che ha
affittato l’hangar grazie
all’identikit…».
«Okay, sappiamo con certezza che l’unico uomo
visibile dell’organizzazione è l’ex
portiere del palazzo dove c’è il mio ufficio, e
allora? La verità è che siamo di nuovo ad un
punto morto».
L’agente Crawford sospirò, massaggiandosi una
tempia. «È tremendamente rischioso,
Grace…».
«Me ne rendo conto».
Michael la guardò intensamente negli occhi. «Tu
sei certa che tuo padre ti abbia lasciato una traccia da
seguire?».
No, non ne era certa al cento percento, ma…
«Sì».
«Okay, ma io verrò con te».
A quell’affermazione, che non aveva suscitato alcun effetto
su Grace, Dylan spalancò la bocca, incredulo. La sua
occasione… probabilmente la sua unica
occasione di prendere un aereo e andare in Europa, gli stava sfuggendo
dalle mani.
«No!», urlò, parandosi proprio di fronte
all’agente dell’FBI. «No,
l’accompagno io!».
Sia Grace che Michael lo osservarono sbigottiti. Pian piano
però l’espressione della detective si
ammorbidì e si lasciò scappare una risatina,
cingendogli il collo con un braccio.
«Credo sia una buona idea, Michael. Dylan e io abbiamo
lavorato a molti casi insieme, ci conosciamo da una vita e nelle
operazioni siamo davvero una bella coppia». Poi si
avvicinò all’agente e gli sussurrò
qualcosa all’orecchio, facendo arrossire il poliziotto.
«Ah, ora è tutto chiaro»,
constatò Crawford, rivolgendogli un mezzo sorriso.
«Allora è andata. Fatemi informare i miei
superiori, il tuo capo e poi…», i suoi occhi si
adombrarono all’improvviso, tanto che sia Grace che Dylan ne
rimasero molto colpiti. «Promettetemi che terrete gli occhi
ben aperti, vi scongiuro», concluse con un tono di voce quasi
addolorato.
I due annuirono solennemente e l’agente dell’FBI
tornò il solito federale dagli occhi imperscrutabili, anche
se accennò un sorrisino amaro mentre si allontanava lungo il
corridoio.
«Non vorrei perdere i miei due nuovi compagni di
squadra».
Grace stava ancora sorridendo, addolcita da quelle parole, quando
sentì il cellulare vibrarle nella tasca dei jeans. Lo
tirò fuori sotto gli occhi di Dylan e si
allontanò di qualche passo per rispondere.
«Ehi, finita la riunione?».
«Oh, sì! E indovina che cosa siamo…
beh, in realtà è stato Bill… Non
importa, indovina!».
«Tom, calmati!». La detective rise, salutando Dylan
che, a gesti, le aveva detto che doveva tornare alla sua scrivania.
«Che cosa dovrei indovinare?».
«Il tour di promozione parte da Berlino!».
«Non ci credo… Mi stai prendendo in
giro?».
«No, te lo giuro! David ci odierà per il resto
della nostra vita, ma chissene frega!».
Grace si appoggiò con la spalla al muro accanto ad una
finestra e guardò la strada trafficata.
E così lei e Tom sarebbero partiti insieme per Berlino.
L’aveva detto quasi scherzando, la sera prima, che le sarebbe
piaciuto fare quel viaggio insieme, ma non pensava che potesse accadere
veramente. Insomma, la sua missione a Berlino era quella di investigare
e portarsi dietro Tom non era un’idea consigliabile, visto
che c’era un’ampia possibilità che
quelli dell’organizzazione criminale la seguissero…
«Grace, va tutto bene? Dovresti essere felice,
invece… Ci stai ripensando?».
«No, sono felice, solo che… ho appena parlato con
l’agente Crawford e con Dylan e ci siamo resi conto della
pericolosità di questa missione… Non voglio che
ti succeda niente di male, Tom. Non me lo perdonerei un’altra
volta».
«Non preoccuparti per me, io sarò più
che al sicuro! I nostri bodyguard tedeschi sono dei professionisti!
Verranno anche degli agenti dell’FBI, per coprirti le
spalle?».
«Ahm, in realtà… abbiamo optato per
Dylan».
«Nel senso che lui verrà con noi in
Germania?».
Grace chiuse gli occhi, pronta ad allontanare subito il cellulare
dall’orecchio per evitare che le urla di Tom le perforassero
il timpano, ma questo non accadde. O meglio, dovette comunque
allontanare un po’ il cellulare per non diventare sorda, ma
le sue grida furono di… di gioia, sì.
«Ma è fantastico! In terra tedesca sarà
lui quello a parlare strano! E poi ci pensi, lui e
Bill potrebbero…», si interruppe bruscamente, ma
Grace aveva già colto il significato della sua mezza frase e
ridacchiò.
«Mi sa che qualcuno qui sta iniziando a fare il tifo per
questa coppia…».
«Non faccio nessun tifo!»,
ribatté con voce leggermente stridula, segno inconfondibile
che stava cercando in tutti i modi di difendersi di fronte ad un fatto
ovvio. «Voglio solo il bene di mio fratello e se Bill vuole
Dylan… lo avrà!».
«Okay, inizi a farmi paura».
«A partire da stasera!».
«Stasera?».
Tom sbuffò. «La gara di cucina, ti ricordi? Te
l’avevo detto che era una cosa seria!».
«Ma… ma davvero?».
«Paura?».
«Assolutamente no!».
«Bene», sghignazzò. «Possiamo
decidere un giudice a testa. Io ovviamente scelgo Bill,
tu…».
«Dylan, ho capito. Molly la invitiamo?».
«Certo! Se vorrà farà da terzo giudice,
quello imparziale».
«Imparziale, certo… sei il suo amore
platonico!».
«Che ci vuoi fare, sono i rischi del mestiere!».
Risero insieme e Grace posò un dito sul vetro, disegnandovi
sopra un cuore invisibile.
Tom stava facendo davvero di tutto per aiutare suo fratello e lo
apprezzava moltissimo, anche perché facendolo stava aiutando
anche Dylan, il più incasinato fra i due, nei confronti del
quale, sotto sotto, ne era sicura, doveva provare una certa simpatia.
Erano molto simili, d’altronde. E per quello si trovava
così bene – ovviamente in modi diversi –
con entrambi.
«Scusami, devo andare», disse il chitarrista,
estrapolandola dai suoi pensieri. «Ci sentiamo più
tardi, okay? Così mi racconti anche del signor
Phillips».
«Sì, certo. A che ora è stasera la
gara? A casa vostra, vero? Avete la cucina è più
grande!».
«Sicuro, io devo giocare in casa!».
«Stronzo».
Tom rise e aggiunse: «Alle sette e mezza da noi. Ah, mi
raccomando: solo ricette vegetariane che può valutare anche
Bill!».
«Uffa, non vale! Pensavo di fare il mio ragù
speciale!».
«Non mi nominare il ragù, per piacere! Mi fai
tornare voglia di diventare onnivoro! Scappo, ciao, ciao!».
Grace lo salutò e terminò la chiamata, ridendo
ancora tra sé. Che idiota, il suo Tom.
Percorse il corridoio fino a raggiungere l’ufficio di Dylan e
si sporse all’interno tenendosi allo stipite della porta. Il
poliziotto la notò e la raggiunse.
«Che c’è?», le
domandò, incuriosito.
Grace sorrise smagliante. «Hai mai fatto il giudice di una
gara di cucina?».
***
Aveva passato quasi
tutta la mattinata ad evitare l’una o l’altra
persona e non ne poteva più, ma non poteva fare altrimenti.
Non era affatto giornata e l’unica cosa che voleva era un
po’ di solitudine per crogiolarsi nei suoi drammi
adolescenziali.
Sheila le aveva fatto quel torto scattandole quella foto incriminante
con Nigel ed era arrabbiata con lei, senza contare che quel giorno il
suo umore era quello di uno sciame d’api a cui avevano invaso
l’alveare.
Quella mattina aveva risposto male a Ben e poteva dire che si stavano
evitando a vicenda.
Dopo tutto quello che era successo con Nigel, il suo tentativo di
riappacificazione con le rose e il bigliettino, non voleva
più avere nulla a che fare con lui, ma chissà
come e perché se lo trovava sempre davanti, in classe o nei
corridoi.
Aiden… Oh, Aiden era l’unica persona che avrebbe
voluto veramente vedere, anche se era sicura che sarebbe fuggita
persino da lui se solo l’avesse intravisto. Infatti fino ad
allora non era nemmeno riuscita a scorgerlo di sfuggita. Eppure
frequentavano le stesse lezioni di storia e di scienze! Magari era
semplicemente assente.
Presto arrivò l’ora della mensa, la più
critica perché inevitabilmente avrebbe incrociato gli
sguardi di tutti quelli che voleva a tutti i costi evitare. E non solo
gli sguardi.
«Molly, ehi, Molly!». Nigel si alzò dal
suo tavolo di sportivi e popolari e le indicò il posto che
le aveva riservato.
La ragazzina fece finta di non vederlo e si diresse dalla parte
opposta, ma incrociò gli occhi di Ben dietro le lenti dei
suoi occhiali. Di fronte a lui era seduta Sheila, come sempre, e per
questo non riuscì a raggiungerlo.
Si sentì afferrare per un gomito e si voltò,
trovandosi a pochi centimetri dal viso di Nigel. I suoi occhi azzurri
la fissarono quasi imploranti, mentre le sussurrava:
«Dobbiamo parlare, non puoi continuare a scappare».
«Io non… adesso no, per favore».
Nigel la lasciò e si guardò le scarpe, poi le
rivolse un sorrisino amareggiato. «Ho saputo che hai buttato
le rose».
Molly si sentì infinitamente in colpa ricordando la rabbia
che ci aveva messo scaraventando l’intero mazzo nel cestino,
ma fu solo un momento.
«Mi dispiace», rispose atona. «Adesso
posso andare a mangiare?».
«Vieni al nostro tavolo, dai».
«Preferisco stare un po’ da sola, okay?».
«Okay».
Si chinò per baciarle una guancia, ma Molly si
allontanò e Nigel riuscì ad accarezzarle soltanto
i capelli che, voltandosi, gli erano scivolati sulla mano.
Molly non si guardò alle spalle, camminò fra i
tavoli a testa alta, nonostante facesse un’enorme fatica, e
raggiunse uno dei tanti alberi del parco. Anche se un po’
restia, si sedette all’ombra delle fronde e posò
il vassoio col suo pranzo di fronte a sé.
Molly tirò fuori il suo iPhone e rilesse l’SMS che
Tom le aveva inviato quella mattina:
Gara di cucina: Tom vs
Grace. Chi vincerà? :-) Stasera a casa nostra, alle 7.30!
Sii puntuale, sei il giudice speciale! :-)
Appena l’aveva letto aveva subito pensato che Tom
fosse veramente matto, ma d’altro canto era felice di avere
amici del genere, capaci di distrarla e di farla sentire bene.
Aveva lo stomaco chiuso, ma si sforzò di dare un morso alla
sua mela. Intanto si connesse a Facebook e il primo status che si
trovò sotto agli occhi apparteneva a Nigel, il quale due
minuti dopo la sua decisione di non andare a sedersi al suo tavolo
aveva scritto: “Non so più cosa fare”
con tanto di faccina triste. Ovviamente aveva già ricevuto
una caterva di “Mi piace” e di commenti,
soprattutto da ragazze che gli sbavavano dietro e gli dicevano di tutto
e di più su di lei. Ma magari avesse creduto ad una di
quelle oche e l’avesse lasciata perdere definitivamente!
Si rese conto che non aveva ancora provato a cercare il profilo di
Aiden. Proprio lei che aveva voluto sapere da Grace un modo per
conoscerlo meglio! Quale metodo migliore di chiedere
l’amicizia su Facebook? Che stupida.
Lo trovò e stava per inviargli la richiesta
d’amicizia, quando qualcuno alle sue spalle si
schiarì la gola. Si voltò di scatto, spaventata,
e percorse con lo sguardo, dal basso verso l’alto, il fisico
longilineo e muscoloso di un ragazzo vestito vagamente in stile hip
hop, con jeans di una taglia più grande e tenuti a vita
bassa, una maglietta a stampe colorate e un cappellino firmato NY sulla
testa.
Il cuore stava per scoppiarle nella cassa toracica, assieme ai timpani
che sembravano rimbombarne i battiti come gong. Ciononostante
riuscì a balbettare: «C-Ciao».
Aiden indicò il punto in cui si era seduta.
«Quello è il mio posto, vengo sempre qui a
pranzo».
«Oh… s-scusami, io… mi levo
subito».
«Non c’è problema, resta
pure», la tranquillizzò ridacchiando. Quindi si
sedette al suo fianco.
Il suo pranzo consisteva in un tramezzino che si era portato da casa e
senza porsi problemi iniziò a mangiare, in silenzio. Come
potesse essere così tranquillo Molly non riusciva proprio a
capirlo. Ah, già, lui non provava gli stessi sentimenti che
le stavano facendo svolazzare mille farfalle nello stomaco.
Lo stava osservando, quando pronunciò una domanda che
sorprese anche lei: non aveva nemmeno pensato di aprire bocca,
paralizzata com’era!
«Come mai non c’eri alla lezione di storia,
oggi?».
«Mi sono svegliato tardi», rispose semplicemente,
scrollando le spalle.
«Ah, ho capito». Abbassò lo sguardo sul
suo pranzo e bevve un sorso d’acqua per rinfrescarsi la gola
secca.
«Certo che tu…», Aiden
ridacchiò pulendosi le labbra con un tovagliolo rubato dal
vassoio di Molly. «Prima eri sulla bocca di tutti
perché eri la nuova arrivata. Adesso lo sei
perché sei la nuova fiamma di Nigel. Sembra che tu lo faccia
apposta a metterti al centro dell’attenzione!».
«Non è così»,
mormorò, stringendosi nervosamente le mani. «Se
potessi, sparirei».
«Uhm, siamo in due».
«Perché?».
Aiden si strinse nelle spalle, incrociando le braccia sulle ginocchia.
«È complicato».
Molly deglutì e, pensando a Grace, al suo coraggio, sperando
che riuscisse a trasmetterglielo in qualche modo, gli chiese:
«È per quello che è successo dopo la
partita di sabato?».
Il ragazzo la fissò, appoggiando il capo contro la corteccia
dell’albero. «Nigel che versione ti ha
dato?».
«Lo sapevo, lo sapevo che non era la
verità», mormorò tra sé,
attirando comunque l’attenzione di Aiden.
«Come?».
«Eh? No, no, niente… Ecco, Nigel mi ha solo detto
che non voleva che ti montassi la testa perché eri riuscito
a far vincere la squadra, perché se lui non fosse uscito tu
non saresti entrato, e che tu… non hai reagito bene, diciamo
così».
«Ah, immagino che abbia anche fatto il ruolo della vittima
per conquistarti!», disse, ridendo fragorosamente.
Molly arrossì e giocò col touchscreen del suo
iPhone. «Com’è andata in
realtà?».
«È andata che lui era invidioso, invidioso marcio
che la squadra avesse vinto senza di lui, anzi… grazie
a me. Mi ha insultato, chiamandomi “negro di
merda”, ma soprattutto ha insultato mio padre». I
suoi occhi scuri e profondi si tinsero d’ira e strinse
così forte i pugni che le nocche si schiarirono in modo
quasi innaturale. «Così gli ho tirato un
pugno».
Oh sì, Molly ci aveva visto più che giusto, non
credendo nella versione di Nigel. Quel ragazzo, ora più mai,
le risultava antipatico, falso e molti altri aggettivi non carini.
«Dovresti dirlo al Preside. Non è giusto che il
coach abbia punito te per colpa sua!», gridò,
indignata.
«Ma il coach sa che la colpa è sua»,
rispose con un sorriso dolente sulle labbra e gli occhi colmi di
rassegnazione. «Peccato che il padre di Nigel sia uno dei
finanziatori della scuola e una punizione per lui sarebbe
inaccettabile».
«Ma… ma non è giusto! Non puoi far
venire i tuoi genitori?».
Aiden si irrigidì e deviò il suo sguardo. Molly
capì subito di aver toccato un tasto dolente e si
maledì, mentre un peso le piombava sul cuore. Che non avesse
più i genitori?
«Io me la cavo da solo, non sono come i figli di
papà che pullulano in questa scuola».
La ragazzina, sentendosi inglobata appieno in quel gruppo, si strinse
le ginocchia al petto. All’improvviso però
sentì la mano grande di Aiden posarsi sul suo capo e,
osservandolo con la coda dell’occhio e le guance in fiamme,
lo vide sorridere dolcemente.
«Con le dovute eccezioni».
Avrebbe voluto sorridergli ed aggrapparsi alle sue spalle forti per
baciarlo, ma non riuscì a muovere nemmeno un muscolo fino a
quando non lo vide alzarsi e riprendere la borsa a tracolla da terra.
«È stato bello chiacchierare con te, non sei come
credevo», le disse, rivolgendole un altro dei suoi sorrisi
abbaglianti. «Ah, un consiglio: se Nigel non ti piace
levatelo subito di dosso, o te lo ritroverai incollato
al…».
«Troppo tardi», rispose ridacchiando. Il ragazzo
alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo.
«Aiden…».
«Sì?».
«Posso chiederti un favore?».
Aiden la guardò incuriosito e la campanella
all’interno dell’edificio scolastico alle loro
spalle suonò, decretando la fine dell’ora di
pranzo.
«Come te la cavi in storia? Tra due settimane
c’è la verifica e sono un po’ indietro
con il programma, sai…».
Non sapeva come, ma ci era riuscita. Era un enorme passo avanti, tanto
che non le sarebbe importato se Aiden avesse risposto in modo negativo.
Bugia, le sarebbe importato eccome e sperava ardentemente in un suo
«Sì».
Aiden le sorrise ed annuì. «È
l’unica materia per cui sono portato. Quando ci vediamo? Che
ne dici di giovedì prossimo?».
Sentiva che sarebbe potuta svenire da un momento all’altro,
ma l’albero dietro di lei la sorresse e forse le trasmise un
po’ di linfa vitale, permettendole di dire:
«Sì, certo, è perfetto».
«Okay. Ehm…».
«Oh… Ti direi di venire a casa mia, ma non so se
mio padre…».
«Non c’è problema, possiamo andare a
casa mia. Ma ti avverto, non ci saranno i domestici!».
Molly rise ed ebbe come la sensazione che non avrebbe più
avuto bisogno di nessun domestico al mondo, né di soldi
né di vestiti griffati, se poteva contare sul calore e la
serenità che le donava il sorriso di quel ragazzo ancora
tutto da scoprire.
***
«Grace, mi stai
ascoltando?».
La detective sbatté le palpebre per allontanare tutti i
pensieri che le riempivano la testa ed osservò sua madre,
seduta di fronte a lei al tavolo della cucina di casa sua, con un
foglio e una penna in mano.
«Scusami, mi sono distratta».
«Ancora». Melanie
accennò un sorriso. «Vuoi parlarne?».
«No, io…». Grace sospirò e ci
ripensò, posando il mento sulle braccia incrociate sul
tavolo. «A breve andrò a Berlino a fare delle
indagini».
La donna sgranò gli occhi, colmi di paura, e la penna le
scivolò di mano. «Tesoro, tu… Per
quella foto tu non puoi…».
Grace le prese subito le mani fra le sue e ne accarezzò i
dorsi con i pollici, rivolgendole un sorriso sereno.
«Stai tranquilla, mamma, non mi succederà niente.
Dylan verrà con me. E tu sarai protetta
ventiquattr’ore su ventiquattro da un agente
dell’FBI».
Melanie non si tranquillizzò affatto, fece solo finta, certa
che tanto non sarebbe riuscita a far cambiare idea alla figlia.
Così tornò alla ricetta di cucina vegetariana che
stava cercando di spiegarle da più o meno
mezz’ora, comprese tutte le pause di
“distrazione” di Grace.
«A proposito, mamma… Tu ti ricordi se, durante
quel periodo in cui tu e papà siete stati a Berlino, lui
frequentava dei posti particolari, magari da
solo…?».
Melanie fissò il foglio su cui stava scrivendo, gli occhi
vacui, persi nei fotogrammi della memoria. Dopo qualche minuto si
arrese e scosse il capo, facendo sparire il collo fra le spalle.
«Non fa niente, non ti preoccupare», la
rassicurò. «Ma se ti viene in mente
qualcosa…».
«Certo, te lo dirò».
Grace sorrise e si alzò, stiracchiandosi le braccia.
«Allora, credi che sarò in grado di fare questa
ricetta?».
«Oh, di sicuro se continui a pensare ad altro sarà
un completo fiasco!».
«La mia attenzione sarà tutta concentrata sui
fornelli, te l’assicuro: devo assolutamente vincere contro
Tom!».
Si diresse verso il salotto e sulla soglia si aggrappò con
una mano allo stipite della porta, gettando la testa
all’indietro per guardare sua madre. «Vado a darmi
una rinfrescata e poi andiamo, okay?».
«Non sapevo dovessi venire pure io…»,
balbettò stupita.
«Ma era ovvio!».
Le rivolse un ultimo sorriso, poi uscì definitivamente dalla
cucina.
«Hai avuto una bella idea, probabilmente Tom non avrebbe
avuto tutti gli ingredienti per la nostra fantastica ricetta».
Melanie ricambiò il sorriso della figlia e si
apprestò a scegliere la verdura migliore, infilandosi il
guanto di plastica.
Grace si appoggiò con entrambi i gomiti al carrello e si
guardò intorno, rendendosi conto che era un sacco di tempo
che non entrava in un supermercato da sola e non faceva una spesa
decente. D’altronde i suoi orari di lavoro glielo
permettevano raramente ed oltre alla passione per la cucina, che doveva
aver ereditato per forza da sua madre, non aveva nessun’altra
caratteristica della brava casalinga. Non che non volesse, un giorno,
avere dei figli, ma c’era anche da dire che non ci si vedeva
proprio a fare la mamma.
Manco a farlo apposta, affianco a loro passò una donna sui
trent’anni con un bambino seduto nel sedile del carrello, che
giocava con un sonaglino. Grace rimase a fissarlo, mentre la madre si
fermava di fianco al banco frigo per prendere delle buste
d’affettato, e il bambino ricambiò il suo sguardo,
aprendo un sorriso divertito e facendo dei versetti mettendosi in bocca
il suo giochino.
Un bambino richiedeva amore, sacrifici, responsabilità, ed
era troppo prezioso perché lei continuasse a vivere la sua
vita. Sicuramente non avrebbe più potuto fare
l’investigatrice privata e poi…
Arrossì, pensando a lei e Tom nel ruolo di genitori. Erano
davvero così lontani, tutti e due, da quella
realtà che faticava ad immaginarsi una famiglia con lui.
Mentre invece riusciva a vedere benissimo nel futuro di Dylan la vita
familiare, con dei bambini. Peccato che se tutto fosse andato come
doveva andare non avrebbe potuto averne di “suoi”
biologici, almeno non con Bill!
A salvarla dai suoi stessi pensieri, che la stavano davvero mettendo a
disagio, fu la suoneria del suo cellulare. Lo estrasse dalla tasca,
sicura di leggere sul display proprio il nome di Tom, ma rimase
interdetta di fronte ad un numero sconosciuto.
«Pronto, chi parla?».
«Ahm… Grace Schneider? Mi ha dato il suo biglietto
da visita stamattina, sono il figlio del signor Phillips».
«Oh, ciao. Qualcosa non va?».
«Credo… credo di sì. Mio padre e mia
madre hanno litigato di brutto poco fa, mia mamma doveva uscire e mio
padre non voleva assolutamente, ma lei non l’ha ascoltato
e…».
«Vai avanti».
«Lei è uscita e mio padre dopo un po’
l’ha seguita. Era furioso e, ecco, io… sono andato
nel suo ufficio. Ho visto le foto che lei gli ha dato».
Grace sospirò e mormorò:
«Perfetto».
«Ma non sono quelle a preoccuparmi, piuttosto il fatto che
manchi una pistola dalla sua collezione».
La detective sgranò gli occhi e ci mancò poco
ché le scivolasse il telefono di mano. «Okay,
tu… tu stai calmo e lascia fare a me».
«È sicura che io non possa proprio fare niente? Se
mia madre è in pericolo…», la sua voce
aveva iniziato a tremare, segno che probabilmente era
sull’orlo del pianto.
«Sì, c’è una cosa che puoi
fare: chiama la polizia, dì tutto quello che hai detto a me
e dì anche che hai il sospetto che tuo padre si stia
dirigendo all’hotel che trovi indicato nel fascicolo che ho
dato a lui. È tutto chiaro?».
«Va-va bene, ho capito».
«Vedrai che si sistemerà tutto»,
provò ad essere convincente, ci provò sul serio,
ma anche lei si stava agitando. Il suo istinto non aveva ciccato
nemmeno quella volta!
Fece terminare la conversazione ed incrociò subito lo
sguardo di sua madre, appena tornata dalla bilancia con cui aveva
pesato la verdura.
«Chi era?», le domandò, notando
l’ansia nei suoi occhi.
«Mamma, devo andare».
«Andare? Dove? Grace… Grace!».
Ma la detective era già corsa via, schivando e spostando
senza alcun riguardo i carrelli che le intralciavano la strada.
Saltò sul suo fuoristrada e sgommò via, sperando
di averci visto giusto sulla possibile destinazione del signor Phillips
alla ricerca di sua moglie. Gettò un’occhiata
all’orologio sul cruscotto e si morse il labbro: poteva
essere, come poteva non essere. Capitava a volte che la signora
Phillips e la sua amante si vedessero a quell’ora, ma le
aveva pedinate per troppo poco tempo per esserne certa. E se non le
avesse trovate e fosse arrivato prima il signor Phillips? Cosa sarebbe
successo?
«Oh, merda!», premette ancora di più
l’acceleratore e tagliò per tutte le scorciatoie
che conosceva per arrivare prima all’hotel.
Quando vi arrivò di fronte ed inchiodò sul bordo
del marciapiede, beccandosi anche qualche clacson, riconobbe
dall’altro lato della strada l’auto del signor
Phillips. A terra, in corrispondenza del finestrino del guidatore,
c’erano diversi mozziconi di sigaretta, tra cui una lasciata
a metà e ancora un po’ fumante. Doveva averla
gettata da poco, il che voleva dire che da poco era entrato
nell’albergo.
Sospirò di sollievo e si sporse verso il portaoggetti per
recuperare la sua Glock, ma si era illusa di salvare la situazione
troppo presto.
Il boato di uno sparo fece allarmare la gente che camminava sul
marciapiede e la stessa Grace, che scese di corsa dal fuoristrada ed
entrò nell’hotel controcorrente, spintonando la
gente che spaventata era uscita dalla hall. Proprio grazie alle persone
che stavano tentando di fuggire da quel suono tanto agghiacciante
riuscì a capire che tutto era successo nel bar. Vi
entrò, anche se con qualche difficoltà, e lo
trovò semideserto: erano scappati tutti, tranne una giovane
coppia seduta ad un tavolo in un angolo in fondo, una ragazza che era
appena uscita dal bagno e si era aggrappata alla porta, i due barman
dietro il bancone e ovviamente i coniugi Phillips e l’amante
della donna.
Grace incrociò lo sguardo di uno dei barman, il quale era
stato ferito in viso dalle schegge di vetro delle bottiglie esplose
alle sue spalle a causa del proiettile intimidatorio che il signor
Phillips aveva sparato poco prima, e gli disse in labiale di mantenere
la calma e che lei era dalla loro parte.
«Lurida troia, ma non ti vergogni?!»,
gridò l’uomo, paonazzo, che impugnava la pistola,
puntandola con mano tremante dritta alla fronte della moglie in lacrime.
«Ti prego, ti posso spiegare…».
«Spiegare? Spiegare cosa, che te la fai
con una donna?! Mi fai schifo! Come hai fatto a guardare negli occhi
nostro figlio, nostro figlio! Quando lo
saprà la sua vita sarà rovinata!».
«L’unico a rovinare la vita di suo figlio
sarà lei, se premerà davvero quel grilletto ed
ucciderà sua madre».
Il signor Phillips si voltò di scatto, gli occhi azzurri
iniettati di sangue, e Grace dovette sforzarsi per non mostrare
apertamente il nervosismo.
«Metta giù la pistola, la prego», disse
ancora la detective, mentre sentiva il sudore impiastricciarle la mano
con la quale impugnava la sua.
«Non ci penso nemmeno», rispose l’uomo,
portandosi con uno scatto alle spalle delle due donne e cingendo per il
collo l’amante di sua moglie, puntandole l’arma
alla tempia.
«Per favore, per favore lasciami andare»,
singhiozzò la ragazza, scoppiando anche lei in lacrime.
Grace scosse lentamente il capo, senza mai interrompere il contatto
visivo. «Non è così che si risolvono le
cose, signor Phillips».
«E come, in che altro dovrei risolvere questa questione?! Mia
moglie mi ha tradito, oltretutto con una donna! È una
fottuta lesbica!».
«No, non è così
che…». Grace fece un passo avanti, con cautela, ma
il signor Phillips strinse ancora di più la presa intorno al
collo della ragazza ed urlò: «Stia indietro, o
giuro che…!».
«E va bene, va bene. Perché non abbassa la pistola
e ne parliamo da persone civili? Sarà meglio per tutti, mi
creda».
«Ormai il danno l’ho fatto, mi arresteranno
comunque! Tanto vale andare fino in fondo!».
«No, no!». Grace, sempre più spaventata
di perdere il controllo della situazione, deglutì e
pensò furiosamente ad una strategia per ammorbidirlo fino
all’arrivo della polizia, ma dovette improvvisare.
«Signor Phillips, non posso credere che si
macchierà per sempre di un crimine così grave, di
un omicidio. È l’errore più grande che
un essere umano possa commettere e le posso assicurare che non si
cancella, non si può».
«Lei ha mai ucciso qualcuno?».
«Sì. E anche se erano criminali, erano pur sempre
persone a cui magari qualcuno voleva bene così
com’erano, che io ho portato via per sempre. A volte mi
chiedo se fosse veramente necessario che morissero e tutte le volte mi
dico che non lo era. Ne vale la pena di uccidere la donna che ama o
quella che ha avuto come unica colpa quella di innamorarsi di sua
moglie? Lo so che l’hanno fatta soffrire, o perlomeno posso
immaginarlo, ma uccidendole non si sentirà meglio,
anzi».
Il signor Phillips, le labbra socchiuse e gli occhi colmi di lacrime,
lasciò che Grace avanzasse di qualche passo ed
allentò un po’ la presa intorno al collo della
ragazza, anche se non allontanò di un centimetro la pistola
dalla sua tempia.
La detective, acquisita sicurezza e un briciolo di fiducia, gli rivolse
un piccolo sorriso di conforto.
«È ancora in tempo per rimediare, non è
tutto perduto. Se non vuole farlo per se stesso, almeno lo faccia per
suo figlio. È lui che mi ha chiamata, era preoccupato che
potesse fare qualche stupidaggine».
Il signor Phillips, più che commosso, si lasciò
sfuggire una lacrima dalle ciglia. «Davvero,
lui…?».
Grace annuì e stava per togliergli delicatamente la pistola
dalla mano, quando due agenti di polizia fecero irruzione nel bar,
seguiti da altri, tutti con pistole alla mano, rompendo il silenzio
surreale che si era venuto a creare.
«Polizia di Los Angeles, lasci a terra
l’arma!».
Il signor Phillips, preso dal panico, si scostò bruscamente
dall’amante di sua moglie e Grace riuscì ad
intuire la sua prossima mossa appena in tempo: con uno scatto in avanti
gli colpì il braccio con un gomito e l’uomo
lasciò cadere la pistola giusto un momento prima che potesse
portarsela sotto al mento e spararsi. Il signor Phillips, disperato,
provò a tirarle un pugno scoordinato, ma lei si
scansò facilmente e lo caricò come un toro,
facendolo cadere su uno dei tavoli del bar. Quindi intervennero gli
agenti di polizia, che lo bloccarono e lo ammanettarono enunciandogli i
suoi diritti, mentre altri si occupavano delle due donne ancora sotto
shock.
«Grace!».
La detective respirò profondamente, sistemandosi una ciocca
di capelli dietro l’orecchio, e si voltò verso
quella voce familiare.
Andrew, rimasto fino ad allora sulla porta, sistemò la
pistola nella fondina e le corse incontro.
«Ma che ci fai tu qui? Stai bene?».
Grace rimase in silenzio per qualche secondo, poi esplose:
«Ma non avete frequentato un fottuto corso di negoziazione,
diamine?! Ero riuscita a stabilire un contatto, mi stavo facendo
consegnare la pistola, quando siete entrati tutti gasati a fare gli
eroi della situazione! E se si fosse sparato un colpo in
testa?!».
Andrew la guardò sorridendo come un ebete e
all’improvviso le strinse le braccia intorno alla schiena.
«Oh, sono contento che tu sia okay!».
***
«Ma dov’è finita Grace? Sarebbe dovuta
arrivare prima, lei!», borbottò Tom, guardando
l’orologio e controllando ancora una volta che tutto in
cucina – ingredienti, stracci, guanti, grembiuli, mestoli,
cucchiai, pentole, padelle… – fosse pronto per la
gara. Poi fissò suo fratello, sollevando le sopracciglia.
«Ah, non guardare me! Non ne ho la più pallida
idea!».
Tom sbuffò e proprio in quel momento suonarono al citofono
del cancelletto.
«Deve essere lei!».
Corse ad aprire, ma rimase deluso non scorgendo il suo fuoristrada.
«Oh, anche io sono felice di vederti!»,
gridò Molly con un pugno contro il fianco, camminando lungo
il vialetto.
«Scusa, è che Grace non è ancora
arrivata e…».
La ragazzina ridacchiò. «Si sarà presa
paura dello chef, no? A proposito, ho portato il vino!»,
sollevò la busta che aveva in mano e gli posò un
bacio sulla guancia, quindi lo superò per entrare in casa.
Il chitarrista, sbigottito dal suo comportamento sicuro e disinibito,
in qualche modo anche attraente, come se fosse cresciuta di cinque anni
tutto d’un tratto, la fissò con la fronte
corrugata, rimanendo fermo sulla soglia delle porte vetrate fino a
quando non sentì il tipico rumore delle ruote sullo sterrato
oltre la siepe che recintava il giardino sul retro. Nemmeno quella
volta si trattava di Grace, bensì di Dylan. Però
si trovò comunque a sorridere, felice che il poliziotto
avesse accettato l’invito e, inconsciamente, avesse accettato
anche il confronto con il suo fratellino a proposito del famoso bacio
di cui non avevano ancora parlato.
«Ehilà!», lo salutò Tom,
alzando una mano e sorridendo furbescamente. «E i fiori dove
sono?».
Dylan si irrigidì, le braccia ciondolanti lungo i fianchi e
gli occhi smarriti. «Quali fiori?».
Il chitarrista ammiccò, facendogli l’occhiolino.
«Quelli per la cenetta romantica!».
Dylan sbiancò. Ci aveva pensato, ci aveva pensato sul serio
quando Grace gli aveva detto di quell’assurda gara di cucina
tra lei e Tom; aveva pensato esattamente: Non è
che è una trappola per farmi rimanere solo con Bill?
«Ehi, ehi, riprenditi, stavo scherzando!», lo
rassicurò Tom, andandogli incontro e battendogli una mano
sulla spalla.
Dylan se lo scostò di dosso, burbero.
«Cazzone».
«Oh, non dirmi che non ti sarebbe piaciuto!», rise
e si beccò un’altra spinta, anche se il
poliziotto, più rilassato, si era lasciato sfuggire un
sorrisino.
«Ah, tu sai per caso dove si è cacciata
Grace?», gli domandò ancora Tom, mentre entravano
insieme in salotto.
Dylan lo fissò, un po’ allarmato. «No.
Perché, non è ancora arrivata?».
Tom scosse il capo, schioccando la lingua contro il palato.
«Hai provato a chiamarla al cellulare?».
«Se mi avesse risposto saprei dove si trova e non te
l’avrei chiesto».
Dylan si portò le mani al collo, nervoso. Poi disse,
cercando di mantenere un tono di voce tranquillo: «Aspettiamo
ancora un po’. Se non arriva… avvertiamo
Crawford».
Si guardarono negli occhi ed annuirono.
***
«Pff, che
giornata», mormorò tra sé Grace,
accostando il fuoristrada e citofonando a sua madre, la quale, mentre
lei era corsa a salvare un paio di vite, era tornata a casa dal
supermercato in taxi.
Quando la vide percorrere il vialetto con una borsa della spesa
andò ad aiutarla, nonostante le sue proteste.
«Posso sapere dove sei finita per tutto questo tempo?
È tardi, Tom si starà chiedendo dove sei finita,
sarà preoccupato! E anche io lo sono stata, sai?».
«Scusa, mamma», cantilenò la detective,
per poi rivolgerle un sorriso. «È una storia
lunga, la racconterò una volta per tutte a casa di Tom, va
bene?».
Melanie acconsentì, anche se non molto convinta, e fece
cadere l’argomento. Guardò sua figlia,
già così grande e sempre più
imprevedibile, e vide tantissimo di Mitch in lei. Anzi, a volte erano
così simili, soprattutto nei modi di fare, che sembrava la
sua copia femminile e aveva la sensazione che lui non se ne fosse mai
andato.
Arrivarono di fronte al giardino sul retro di Villa Kaulitz e Grace
spense il motore, poi scese dal fuoristrada.
Melanie la seguì a ruota e disse: «Non ho mai
capito perché entri sempre da qui».
La detective prese la sua borsa e quella della spesa dai sedili
posteriori e sorrise scrollando le spalle. «Che vuoi che ti
dica, è tradizione».
Si sporse di nuovo nell’abitacolo e suonò il
clacson: il suo citofono personale. Oltre le portefinestre vide del
movimento e poco dopo comparve Bill, il quale le rivolse un ampio
sorriso mettendoci tutto se stesso. Ma non abbastanza,
perché a Grace bastò un’occhiata per
accorgersi del disagio che provava. Dylan doveva essere già
arrivato.
«Finalmente ti sei degnata di arrivare!»,
gridò Tom affiancando il gemello, con un mestolo pulito in
mano.
Grace lo fissò sbigottita, poi scoppiò a ridere.
«Mio Dio, che cosa ti sei messo?!».
Tom si accarezzò con fare malizioso il grembiule che
indossava, raffigurante il corpo nudo di una ragazza, con i capezzoli
coperti da due fette di pomodoro e le parti intime da delle foglioline
di basilico. «Perché, non ti piace?».
Lo raggiunse con una corsetta e gli prese la nuca con una mano,
soffiando sulle sue labbra: «Affatto, non ti ho mai visto
così sexy».
Tom ridacchiò e la baciò, poi col mestolo la
colpì a tradimento sul fondoschiena. «Sai
controllarti o devo tenerti a bada?».
«Penso di potercela fare per un po’», gli
rispose con un tocco di malizia negli occhi, pizzicandogli il petto
all’altezza di uno dei pomodori sul grembiule.
«Aspetta un momento, ma… questo è odore
di soffritto!», esclamò Grace, allontanandosi di
scatto. Gli rivolse uno sguardo affilato e gli puntò un dito
di fronte al viso. «Hai già iniziato a
cucinare!».
«Per forza! Non arrivavi più e la gente qui
è affamata!».
«Ah, sei solo uno scorretto! Ma questo vantaggio non ti
aiuterà a vincere, sappilo!».
«Uhm, okay», le sorrise e Grace entrò in
casa offesa, pronta a conquistare la sua parte di cucina e il titolo di
miglior cuoca.
Nel pieno svolgimento della gara, Grace spiegò a tutti
cos’era successo, a partire dal colloquio che aveva avuto
quella mattina con il signor Phillips e la successiva chiacchierata con
suo figlio. Raccontò della chiamata proprio di
quest’ultimo, mentre lei e sua madre erano al supermercato
per comprare alcuni ingredienti essenziali per la sua ricetta, quindi
la sua corsa all’hotel e quella che i due barman che avevano
assistito alla scena avevano descritto come la migliore operazione di
salvataggio che avessero mai visto, anche rispetto alla TV.
Spiegò anche il motivo del suo ritardo: si era fermata a
parlare con la signora Phillips e la sua amante, per sincerarsi che
stessero bene, e queste l’avevano ringraziata mille e mille
volte, fino a quando degli agenti non le avevano portate in centrale
per raccogliere le loro deposizioni e fare la denuncia per tentato
omicidio. La signora Phillips non era stata molto d’accordo
all’inizio, in fondo non voleva che suo marito finisse in
prigione, ma poi aveva guardato la sua compagna e non aveva potuto fare
altrimenti, dicendosi che sarebbe potuta anche morire per colpa sua.
Anche Grace ovviamente era dovuta andare in centrale per lasciare la
sua deposizione come testimone – ma soprattutto come eroina
– e neppure avere Andrew come amico le aveva risparmiato i
lunghissimi tempi burocratici del caso. Una volta
“rilasciata” era andata a prendere sua madre a casa
ed erano andate subito lì per la gara di cucina.
«Oh tesoro, sono così fiera di te»,
disse Melanie una volta terminato il racconto.
Grace le sorrise, lasciandosi baciare sulla guancia, ma sua madre
sfruttò l’occasione anche per sussurrarle
all’orecchio un suggerimento per la ricetta, che la detective
colse al volo.
«E pensare che io ti avevo detto di stare attenta nel caso la
signora Phillips fosse stata una psicopatica!»,
gridò Tom, ancora preoccupato a causa dei rischi che la sua
Grace aveva dovuto correre anche quel giorno.
«Beh, c’eri andato vicino! Era il marito lo
psicopatico».
Dylan, seduto al tavolo della giuria (l’isola che faceva da
tavolo in cucina) accanto a Bill, sorrise, non solo con la bocca, ma
anche con gli occhi. «Alla fine il tuo istinto non ti ha
tradita nemmeno questa volta».
«Speriamo non lo faccia mai», replicò la
detective, lo sguardo un po’ più spento.
«Ah, ho saputo che verrai anche tu a Berlino!
Congratulazioni!», gridò Tom
all’improvviso, voltandosi verso il poliziotto con un sorriso
a trentadue denti stampato in faccia.
Dylan si irrigidì, forzando la mandibola per reprimere la
forte tentazione di insultarlo con le peggiori parolacce presenti nel
suo vocabolario, ma venne presto distratto da Bill, stupefatto, che
gridò a sua volta: «Davvero?».
«L’agente Crawford si era proposto di accompagnare
Grace, sai… per proteggerla, nel caso… Ma gli ho
detto che sarei andato io con lei».
I loro sguardi si incrociarono e Dylan rimase quasi senza fiato,
leggendo negli occhi di Bill una domanda inespressa: «Vieni
solo per proteggere Grace o…?».
«Oh, ora siamo tutti più tranquilli sapendo che
l’incolumità di Grace è nelle sue
mani!», disse Tom, ovviamente per scherzare e punzecchiarlo:
si fidava di Dylan, si fidava soprattutto del sincero affetto che
provava nei confronti della detective, grazie al quale non avrebbe
permesso a nessuno di farle del male.
Grace rise con lui, ma lo colpì con un movimento
d’anca. «Dai Tom, sei cattivo! Dylan è
molto bravo, mi ha sempre difesa a dovere! Non è
così?».
Ma il diretto interessato non li aveva nemmeno sentiti, ancora perso
negli occhi del cantante. Solo quando Bill interruppe il contatto
visivo, voltandosi, il poliziotto poté tornare alla
realtà, scuotendo il capo.
«Allora, quand’è che posso mangiare?
Grace mi ha detto di tenermi a digiuno e ho fame!», si
lamentò subito dopo, portandosi una mano sulla guancia per
sorreggersi il capo.
«Adesso, un attimo!», sbuffò lei.
«Il mio piatto è pronto!»,
esclamò Tom, orgoglioso, portando di fronte ai visi di Dylan
e Bill la sua piccola opera d’arte culinaria.
«Ecco qua», disse, porgendogli due forchette,
mentre Melanie cercava i calici per il vino che Molly aveva portato.
«Non sapevo quale sarebbe andato meglio, così ho
detto al maggiordomo di prenderne uno rosso e uno bianco»,
spiegò la ragazzina, posando le bottiglie
sull’isola della cucina.
«Generalmente il vino rosso è accoppiato con le
carni rosse, i formaggi… Mentre quello bianco sta bene con
il pesce e le verdure», disse Melanie, osservando entrambe le
etichette. «Direi di aprire quello bianco, trattandosi di due
piatti vegetariani».
«Okay, l’esperta sei tu qui», disse
Molly, sorridente.
Grace non l’aveva persa di vista un attimo quella sera,
notando in lei qualcosa di diverso dal solito, una strana luce negli
occhi, ma più che positiva. Sembrava al settimo cielo, ecco,
e voleva assolutamente saperne il motivo.
«Allora… assaggiamo?»,
domandò Bill incerto, sentendo Dylan che si avvicinava a lui
perché il piatto era uno solo.
«Sì, attenti a non rovinarvi il palato, o non
potrete gustarvi il mio piatto!», disse Grace, divertendosi
un mondo di fronte alle reazioni infastidite di Tom.
Bill prese una forchettata, poi spostò il piatto per
permettere a Dylan di fare la stessa cosa, anche se la sua vicinanza
aveva iniziato a piacergli. Gli trasmetteva calore e
sicurezza… Grace sarebbe stata molto fortunata ad averlo
come guardia del corpo a Berlino.
Tom, ansioso, li guardò col fiato sospeso, fino a quando non
scoppiò: «Allora,
com’è?».
«Ah-ah, il giudizio alla fine!», intervenne Grace,
portando il suo piatto all’isola.
Porse i bicchieri di vino bianco ai due giudici e disse:
«Forza, rinfrescatevi le papille gustative e assaggiate il
mio capolavoro. Ah, Molly, tu sei il terzo giudice in caso di
parità, quindi devi assaggiare anche tu».
La ragazzina si sedette sullo sgabello accanto ai due e si
apprestò ad assaggiare il piatto di Tom, ma
all’ultimo momento si soffermò a guardare Bill e
Dylan che assaggiavano il piatto di Grace. In effetti era
più attirata dal suo che da quello di Tom, sia per gli
ingredienti che aveva usato sia per la composizione.
Tom incontrò il suo sguardo e stava per chiederle come mai
esitava, ma lei lo precedette con un sorriso impacciato:
«Voglio assaggiare prima quello di Grace».
Il chitarrista arrossì e la detective le fece
l’occhiolino, versando ancora un po’ di vino nei
bicchieri di Bill e Dylan.
«Okay, ora potete votare», decretò
Melanie.
Bill fu il primo: «Mi piacciono tutti e due, veramente. Vi
siete impegnati entrambi e nonostante siano due ricette semplici, gli
avete dato un tocco della vostra personalità».
Tom e Grace erano sconvolti: stava sparando cazzate, sentite guardando Master
Chef, oppure lo pensava davvero?
«Però…», Bill posò
lo sguardo su suo fratello, il quale rifletté appieno il
dispiacere che aveva colto nei suoi occhi. «Hai esagerato
come al solito con il tabasco. Voto Grace».
La detective avrebbe voluto esultare e prendere in giro il suo ragazzo,
ma si trattenne e ringraziò con un piccolo inchino della
testa. Poi posò gli occhi su Dylan, l’ultima
speranza di Tom per rientrare in partita.
«Sono d’accordo con tutto quello che ha detto
Bill», disse subito il poliziotto. «Tutto, tranne
il fatto che ha esagerato con il tabasco. È vero che il mio
sangue è messicano, ma ci stava davvero bene e ha dato al
suo piatto quel carattere che invece non ho trovato in quello di Grace,
troppo delicato e raffinato, tanto che…»,
gettò uno sguardo a Melanie, la vera autrice di quella
ricetta, ma nessuno tranne la detective se ne accorse. Dylan la
risparmiò ed accennò un sorriso: «Mi
dispiace, io voto per Tom».
«Sì, uh!», gridò a mezza voce
il chitarrista, ma anche lui cercò subito di contenersi, per
rispetto della sua avversaria.
E poi la gara non era ancora finita, mancava ancora Molly, la quale
aveva già assaggiato il piatto di Grace. Si
rinfrescò la bocca con un po’ di vino, rifiutando
l’acqua con la scusa che ormai a furia di party di lusso a
casa sua si era abituata a berlo, poi mise in bocca una forchettata del
piatto di Tom. Sgranò subito gli occhi e deglutì
a fatica, chiedendo subito dell’acqua. Ora sì che
serviva proprio!
«Mio Dio…», soffiò con le
lacrime agli occhi, dopo averne bevuto un bicchierone tutto
d’un fiato. «A me piace il piccante, nonostante non
abbia il sangue messicano… ma qui ne hai messo davvero
troppo! Non potrei salvarti nemmeno se volessi, mi dispiace
tanto».
«Quindi ha vinto Grace per due a uno?»,
domandò retoricamente Melanie, attendendo la reazione della
figlia.
Quando Grace realizzò che aveva vinto sul serio, si
voltò verso Tom e lui alzò le mani, urlando:
«Okay, hai vinto, brava! Mi merito tutti gli insulti che
vuoi, ero troppo sicuro di vincere e…».
Grace scoppiò a ridere, facendolo ammutolire, e gli
gettò le braccia al collo.
Lui ci mise qualche istante prima di ricambiare e, più che
sorpreso, le chiese: «Davvero non mi insulti?».
«No, stupido! Siamo stati bravi tutti e due! Anzi, fammi
assaggiare, adesso sono curiosa!».
«No, Grace, non farlo, sei pazza?!»,
urlò Molly, ma non riuscì a fermarla: si era
già portata la forchetta alla bocca.
La detective, con tutti gli occhi puntati addosso, si prese il suo
tempo per degustare attentamente la pietanza di Tom e quando
deglutì si voltò verso di lui con un sorriso
raggiante.
«Ma è buonissimo! Okay, ti pizzica un
po’ le labbra, ma… wow, mi hai davvero
sorpresa!».
«Io non ho detto che non è buono»,
precisò Bill. «Ho solo detto che ha esagerato. Ma
fa parte di lui, no?».
Tom attirò Grace in un abbraccio e sorrise, ma non da
sbruffone: fu un sorriso dolce, ricco di gratitudine. «Grazie
ragazzi, davvero».
«Però ricordati che ho vinto io», gli
sussurrò lei all’orecchio, alzandosi in punta di
piedi. Si scostò e si portò una mano alla fronte,
formando una L con il pollice e l’indice. «Loser!».
Grace scoppiò a ridere e corse via, inseguita da Tom.
Bill si alzò da tavola e si stiracchiò.
«Chi ha voglia di una sigaretta?», chiese,
prendendo il pacchetto e l’accendino da una mensola.
Dylan alzò la mano tranquillamente, ma iniziò a
preoccuparsi quando vide che era stato l’unico.
Guardò Tom e Grace, disorientato, e il chitarrista
sogghignò.
«Magari più tardi, uhm?».
Stronzi,
siete due stronzi, pensò Dylan
vedendoli scambiarsi un’occhiata soddisfatta mentre lui
seguiva il frontman fuori dalla cucina.
Si sedettero su due sedie in veranda e uno dei cani di Bill e Tom si
accucciò ai piedi del padrone, desideroso di coccole.
«Allora… anche tu a Berlino, eh?».
Dylan annuì, tirando avidamente la sua sigaretta, ed
evitò il suo sguardo.
«Non mi sarei mai perso l’occasione di andare in
Europa. Forse per te adesso non sembra nulla di che, ma per
me… Io non sono mai uscito dagli Stati Uniti, il mio viaggio
più lungo è stato fino a Washington, D.C.,
un’estate».
«Mi ricordo bene l’emozione che si prova,
invece», lo stupì il cantante, lasciando affiorare
i ricordi assieme ad un piccolo sorriso. «All’epoca
anche uscire dal mio paesino per fare concerti nelle grandi
città era fantastico. Vedrai, Berlino ti
piacerà».
«Là fa freddo in questo periodo?».
«Vuoi la verità? Sì. Probabilmente ci
sarà anche la neve».
«Cosa?! Sul serio?!», gridò entusiasta,
incrociando il suo sguardo senza nemmeno rendersene conto.
Bill era sia stupefatto che divertito. «Sì, penso
di sì. Siamo a metà febbraio!
Perché?».
«Io non ho mai visto la neve, è sempre stato un
mio sogno vederla, toccarla!».
Bill si addossò contro lo schienale della sedia e rise
più forte. «È così strano!
Io odio il freddo e la neve e tu invece sembri adorarla pur non
avendola mai vista!».
Dylan sorrise sereno e pensò che era il momento giusto per
scusarsi, magari le risate avrebbero attutito il peso del discorso che
stavano per fare.
«Ma, d’altronde, le cose più belle sono
quelle che non si possono avere», aggiunse il cantante, gli
occhi improvvisamente cupi.
«E che cosa vorresti avere, Bill?».
Si girò, colpito dalla serietà e allo stesso
tempo dalla dolcezza del suo tono di voce, e si perse nei suoi occhi
scuri, conscio del fatto che stavano per esplorare un terreno pieno di
mine antiuomo, in cui avrebbe potuto farsi male definitivamente. Oppure
arrivare dall’altra parte indenni.
«Un po’ di chiarezza, tutto qui».
«Bene», mormorò il poliziotto,
respirando a fondo. «Vuoi sapere perché ti ho
baciato? Non te lo so dire con certezza. So solo che ogni volta che
vengo a sapere, oppure vedo coi miei occhi, che soffri, io…
impazzisco, non riesco a non sentirmi una merda e… Il fatto
è che tengo a te, Bill, più di quanto tu creda.
Più di quanto io stesso creda! E questa
situazione è così strana, io sono così
confuso da questi sentimenti che per me sono nuovi, diversi…
che combino solo casini. Vorrei solo smetterla di rovinare sempre
tutto, smetterla di farti star male, perché non te lo
meriti. Ma è una trappola in cui sento di essermi messo da
solo, sento che la via di fuga è così vicina
eppure qualcosa mi dice che è meglio non uscire allo
scoperto. Senza l’aiuto di qualcuno, io
non…».
«Vuoi il mio aiuto, Dylan?».
Il poliziotto guardò la mano di Bill alzarsi e raggiungere
la sua percorrendogli lievemente il braccio.
«Io…», deglutì e socchiuse
gli occhi, mordendosi il labbro. «E se non ci riuscissi? Se
sbagliassi?».
Il cantante fece in modo che Dylan lo guardasse negli occhi e
ripeté piano: «Lo vuoi il mio aiuto oppure
no?».
Sì,
sì, sì, fottutamente sì! pensò. Peccato che
Dylan, controllato dalla parte più restia di lui, quella
etero, riuscì soltanto di annuire con un cenno del capo, gli
occhi chiusi, come se avesse appena detto sì alla sua morte
e ne avesse paura.
Sentì il respiro di Bill sulle sue labbra e si
irrigidì, troppo spaventato per aprire gli occhi, ed ebbe
persino il desiderio di scappare, ma le sue mani si artigliarono
istintivamente ai manici della sedia.
Quando le loro labbra si incontrarono in un bacio si sentì
finalmente libero da ogni catena, dal peso di quella parte di lui che
non accettava il fatto che si fosse innamorato di un uomo. Si
sentì felice e si lasciò andare.
Infilò una mano fra i suoi capelli e li accarezzò
dolcemente, accennando un sorriso.
Pensò a Tom e a Grace, che li avevano lasciati andare a
fumare da soli, e dovette ricredersi, perché senza la loro
spinta ci avrebbero messo molto più tempo e molta
più fatica ad arrivare fin lì.
Siete due
stronzi, ma siete anche i migliori amici che si possano desiderare.
***
Molly,
seduta sul divano accanto a Tom, si voltò verso la detective
che le aveva cinto le spalle da dietro.
«Facciamo due chiacchiere?».
La ragazzina non poté dire di no e si lasciò
portare in giardino, quello che dava sulla facciata della casa, non in
quello sul retro – momentaneamente occupato.
«Devi parlarmi di qualcosa?», chiese, la fronte
corrugata.
Grace sorrise maliziosa e si accese una sigaretta, sedendosi sui
gradini che portavano alla porta. «No, sei tu che devi
raccontarmi che cos’è successo».
«Cosa?». Molly rise e guardò il cielo
violaceo che lasciava spazio alla notte. «Non è
successo niente».
«Ah no? Eppure mi sembri così felice…
Scommetto che c’entra Aiden. Mi sbaglio?».
Molly fissò gli occhi nei suoi e cedette, lasciando
finalmente trapelare l’euforia che l’accompagnava
da quella mattina.
Si sedette al suo fianco e le raccontò tutto per filo e per
segno, a partire dalla foto di lei e Nigel sul giornalino scolastico,
scattata da Sheila, e dal mazzo di rose che aveva trovato
nell’armadietto, per poi arrivare alla sua chiacchierata con
Aiden, seduti sotto quell’albero nel giardino.
«Quindi giovedì andrai a casa sua per studiare
storia! Wow, è fantastico!», esclamò
Grace, attirandola in un abbraccio. «Sei stata bravissima,
dico davvero. Io non ci sarei mai riuscita!».
«Anche io mi sono sorpresa di me stessa! Quando mi sono
alzata tremavo da capo a piedi!».
«Immagino! Ah, hai visto che facevi bene a dubitare di Nigel?
Quel ragazzo non mi piace affatto».
Molly annuì, stringendosi le braccia intorno alle gambe.
«Già, nemmeno a me. Dovrò cambiare la
combinazione del mio armadietto, visto che è riuscito a
trovarla per mettermi dentro il mazzo di rose… Invece cosa
ne pensi di Aiden?».
«Uhm… da quello che mi hai raccontato, sembra che
abbia molti segreti», disse Grace soprappensiero, gli occhi
rivolti verso il cielo. «A partire dai suoi genitori. Vuoi
che faccia qualche ricerca?».
Molly esitò, ma alla fine scosse il capo con un sorriso
sulle labbra. «Preferisco conoscerlo pian piano, lasciare che
sia lui a confidarsi con me».
«Ottima decisione», le accarezzò i
capelli.
La porta dietro di loro si aprì all’improvviso e
comparve la madre della detective, sbadigliando.
«Scusate se vi interrompo, ragazze, ma vorrei andare a casa:
sono un po’ stanca».
«Certo, adesso ti accompagno», disse subito Grace,
alzandosi, ma Molly le posò una mano sul braccio.
«Non ti preoccupare, posso darle benissimo io uno strappo
fino a casa! La mia limousine dovrebbe arrivare a momenti».
«Sicura? Guarda che non mi cambia
nulla…».
«Ma se devi stare qui è inutile che tu faccia
avanti e indietro!».
Grace arrossì al sopracciglio sollevato dell’amica
e fu costretta ad acconsentire.
Sua madre e Molly andarono a salutare Tom all’interno e gli
raccomandarono di estendere il saluto anche a suo fratello e a Dylan,
siccome non volevano disturbarli. Quando tornarono fuori, la limousine
di Molly era appena arrivata.
«Arrivo tra un attimo», disse Melanie, indicando
alla ragazzina milionaria di avviarsi.
Rimasta sola con la figlia, le accarezzò la guancia e le
sorrise dolcemente, nonostante i suoi occhi si fossero velati di
malinconia.
«Non so se possa essere d’aiuto, ma la sera io e
tuo padre andavamo sempre nello stesso bar a Berlino, gestito da un suo
caro amico. Era veramente bello». La strinse in un lieve
abbraccio e le augurò la buonanotte, poi raggiunse la
limousine e vi salì.
Dopo qualche minuto passato a riflettere, Grace rientrò in
casa e trovò il salotto immerso
nell’oscurità, rischiarata solo dalla luce
proveniente dallo schermo al plasma della TV. Tom era sdraiato sul
divano e aveva gli occhi chiusi, in dormiveglia.
La detective sorrise addolcita andandogli vicino e gli
accarezzò un braccio, sussurrando:
«Bell’addormentato, mi fai un po’ di
posto?».
Tom mugugnò assonnato, ma si spostò un
po’ e lasciò che Grace si sdraiasse al suo fianco,
stretta fra le sue braccia, con la schiena contro il suo petto. Le
posò un bacio fra i capelli, respirandone tutto il profumo.
«Chissà Bill e Dylan… Non sono mai
stata così curiosa in vita mia. Ma ci pensi? Se diventassero
una coppia sarebbe così strano! No?».
Grace lo sentì sospirare e si voltò fra le sue
braccia per guardarlo in viso: aveva ancora gli occhi chiusi e
un’espressione neutra, come se si fosse addormentato.
«Bill invece pensa che noi siamo una
coppia strana», disse alla fine, a bassa voce. «O,
almeno, che non potessimo durare così tanto».
«Perché, c’era qualcuno qui che poteva
immaginarlo?».
Tom aprì gli occhi ed incontrò quelli lucidi e
ridenti della detective. Le sistemò una ciocca di capelli
dietro l’orecchio e lì lasciò riposare
la mano.
«Mi è successa una cosa, quando sono andato a New
York», le confessò, continuando a fissarla
intensamente negli occhi. «Stavo guardando le foto che tua
madre mi aveva dato e, vedendoti bambina, ho…».
Grace posò una mano sul suo petto e sentì che il
cuore di Tom stava correndo dentro la cassa toracica.
«Cosa?», mormorò.
«Per la prima volta in vita mia ho pensato
all’eventualità di diventare padre. Eri
così carina e… forse non è
così male fare il genitore».
La detective sentì il naso pizzicarle e delle lacrime di
commozione bagnarle gli occhi. Nonostante fosse protetta dal buio,
cercò rifugio contro il petto di Tom.
Era imbarazzatissima, ma trovò la forza per dire:
«Ho pensato la stessa cosa giusto oggi pomeriggio, al
supermercato».
«D-Davvero?», balbettò il chitarrista,
accarezzandole i capelli e cercando i suoi occhi.
«Sì, c’era una donna con un bambino e ho
pensato… ho pensato che non mi ci vedo proprio a fare la
mamma, almeno non adesso. Dovrei abbandonare il mio lavoro
e…».
«Anche io dovrei prendermi una pausa dal mio, non potrei
stare lontano da mio figlio per la durata di un intero tour».
Grace accennò un sorriso tremante. «Quindi ti
piacerebbe sul serio? Avere un bambino, dico».
«Solo… solo se è bello come
te».
«Avrei giurato che avresti detto “come
me”».
Tom le prese il volto fra le mani e venne contagiato dalla sua risata,
posando la fronte contro la sua.
«Ti amo».
«Anche io, tanto».
Lo baciò, poi tornò ad accucciarsi sotto il suo
mento, sentendo i battiti ancora rapidi del suo cuore rimbombarle nelle
orecchie e un calore inspiegabile depositarsi sul fondo della sua anima.
_______________________________
Buonasera! :)
Allora, questo capitolo è bello lungo e ci sarebbero
tantissime cose da dire... ma sapete che quando inizio non mi fermo
più, quindi è meglio per la vostra
sanità mentale che io scriva il meno possibile xD
Diciamo che il filo conduttore di tutto il capitolo è la
celebre frase: "Tutto è bene quel che finisce bene".
Insomma, la sfida di cucina tra Tom e Grace è stata uno
spasso; Bill e Dylan si sono chiariti e ci proveranno (teneri cuccioli
:3); Molly, nonostante i problemi con Ben e Sheila, è
riuscita a parlare con Aiden e si sono accordati per studiare storia
insieme; Grace ha salvato la vita alla signora Phillips e alla sua
amante e anche quella del signor Phillips; e poi, dulcis in fundo, Tom
e Grace andranno insieme a Berlino (con anche Bill e Dylan!) e lei
cercherà di trovare un pezzo del puzzle, forse fondamentale,
per risolvere l'omicidio e in generale il caso di suo padre. Ah, per la
coppia Tomace c'è stato anche una specie di "salto di
qualità"... Ve li vedete genitori, questi due? *^*
Bene, basta così per oggi, vi ho stressate abbastanza xD
Spero che vi sia piaciuto e niente, ci vediamo domenica prossima con il
Capitolo 21, che darà il via alla Parte III di questa
FF ;)
Ovviamente ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso
capitolo, chi ha letto soltanto, chi ha messo la FF tra le
preferite/seguite/ricordate e anche chi segue la mia pagina su FB! Un
bacio!
Vostra,
_Pulse_
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Capitolo 21 ***
Allora, buonasera, innanzitutto :)
Con questo capitolo ha ufficialmente inizio la terza ed ultima parte di
questa fanfiction e ne sono così orgogliosa! E' la parte
sicuramente più intensa dal punto di vista "investigativo" e
questo capitolo, che vedrà tutta l'allegra compagnia a
Berlino, sarà piuttosto forte, già ve lo dico.
Comunque è nella mia Top 10 e spero che piaccia tanto anche
a voi :D
Ringrazio tutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo, che
hanno letto soltanto e che hanno aggiunto questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate. Vi adoro tutti!
Ci vediamo domenica prossima e buona lettura! ;)
Vostra,
_Pulse_
________________________________________________
PARTE III
Capitolo
21
“There
was a time, I used to look into my father's eyes
In a happy home, I was a king, I had a gold throne
Those days are gone, now the memories are on the wall
I hear the sounds from the places where I was born
[…]
My father said: ‘Don't you worry, don't you worry child
See heaven's got a plan for you…’”
(Don’t
you worry child – Swedish House Mafia)
Il loro aereo
atterrò nell’Aeroporto Berlino-Brandeburgo, appena
inaugurato dopo i lavori di ingrandimento che l’avevano reso
il più moderno d’Europa, quando sui loro orologi
erano quasi le otto del mattino.
Avevano deciso di fare il viaggio di notte, partendo alle sette di sera
da Los Angeles, ma quando Grace e Dylan avevano aperto gli occhi dopo
tredici ore e poco più di volo, e avevano visto il sole
iniziare a tramontare fuori dai loro finestrini si erano resi conto che
a causa del fuso orario di nove ore erano ancora
le cinque e mezza di pomeriggio.
La detective promise a se stessa che non avrebbe mai più
preso in giro Tom a proposito del jetlag.
Il minivan che li avrebbe portati tutti al loro hotel era
già fuori dall’aeroporto ad aspettarli,
ciononostante avevano avuto dei problemi a causa di un nutrito gruppo
di fan e di paparazzi che si erano appostati all’uscita.
Grace e Dylan, infatti, erano stati costretti a fare
tutt’altro giro per raggiungerlo e non essere fotografati con
i gemelli Kaulitz, tornati in patria dopo così tanto tempo
di “esilio” negli USA.
Quando furono tutti dentro, protetti dai finestrini scuri, la ragazza
si lasciò andare ad un sospiro e si tolse gli occhiali da
sole dal viso, mostrando al mondo i suoi stupendi occhi verdi.
«Non sembri tanto stanca», disse Dylan, seduto sul
sedile davanti a lei, accanto a Bill, il suo compagno.
Alla fine ce l’avevano fatta! Era ufficiale, Grace e Tom ne
erano sicuri, nonostante loro non ne avessero fatto parola con nessuno:
persino con i loro migliori amici/fratelli erano stati molto cauti e
riservati. Inoltre, Dylan doveva ancora abituarsi alla situazione e
preferiva andarci con i piedi di piombo, un passo minuscolo alla volta.
«Non mi rivolgere la parola, approfittatore», disse
con tono offeso, guardando fuori dal finestrino.
«Dai, Grace! Sei ancora arrabbiata per la storia
dell’aranciata? L’ho bevuta soltanto per
proteggerti! Se fosse stata avvelenata sul serio?».
«Non raccontarmi cazzate!», gli tirò uno
schiaffo sul braccio e nel farlo le scappò un sorriso,
facendo ridere anche il poliziotto.
«Comunque è vero, non sono stanca»,
disse poi, con una mano sulla guancia.
«Per forza, hai dormito quasi tutto il tempo!»,
ribatté Tom. «Te l’avevo detto di non
farlo, perché il problema sarà domani mattina:
stanotte non riuscirai a chiudere occhio. E non per colpa
mia!».
Grace picchiò anche lui, quella volta con un manrovescio sul
petto. «Ti avevo detto di tenermi sveglia, ma tu non
l’hai fatto!».
«Eri così carina addormentata, c’era un
silenzio…».
«Stupido!».
«Ahia! Smettila di picchiarmi!».
Si misero a ridere insieme, poi Grace avvolse un braccio intorno al suo
e posò la testa nell’incavo della sua spalla.
Era bello, veramente bello, pensare di essere in viaggio con Tom.
Peccato che fosse un viaggio finto: il loro scopo non era quello di
fare i turisti come una normalissima coppia, ma per uno era partecipare
a programmi TV e rilasciare interviste ai giornali per promuovere il
nuovo album; e per l’altra era indagare sul caso lasciato
irrisolto da suo padre.
«Guarda, te l’avevo detto che c’era
ancora la neve!», disse Bill, distraendoli tutti ma in
particolare Dylan, il quale si voltò di scatto e quasi si
sdraiò su di lui per appiccicarsi al finestrino.
«Non è bella come quella appena caduta,
però...».
«È stupenda», sussurrò
sognante Dylan, già impaziente di scendere dal minivan per
poterla toccare con le sue mani. «Grace, ce lo facciamo un
giro per vedere la città, vero?».
«Certo. Ci sono stata solo una volta, da piccola, in visita
dai miei nonni, ma penso di potermi orientare in qualche
modo».
Tom le sorrise, stringendole forte una mano, e lei ricambiò.
«Cosa vorresti vedere?».
«Non lo so, le cose famose!».
Si sistemò di nuovo in ginocchio sul sedile, per poter
guardare meglio Grace e Tom seduti dietro di lui. Bill lo
imitò.
«Scusa, ma si vede ancora il muro?», chiese
grattandosi il capo, imbarazzato per quella domanda.
«Sì, in alcune zone ne sono rimasti dei pezzi. A
scopo commemorativo, ovviamente», rispose il cantante,
portandosi una mano sull’avambraccio sinistro.
Dylan gli tirò su con delicatezza la manica del golfino ed
osservò il tatuaggio. «Cosa
c’è scritto?».
«Freiheit.
Significa “libertà”. E ’89
è la data della caduta del Muro, oltre ad essere
l’anno della nostra nascita».
«Oh, quindi i vostri genitori hanno vissuto proprio la Guerra
Fredda, la divisione delle due Germanie…».
«Sì», rispose Tom. «E la
nostra casa allora era nella parte Est, quella controllata dai
sovietici. Quando io e Bill siamo nati in realtà il Muro
c’era ancora, è caduto due mesi dopo… e
mamma ci ha raccontato che aveva annunciato la nostra nascita ai nostri
nonni solo via telefono, perché abitavano nella Germania
Ovest e non potevano vedersi».
«Accidenti, dev’essere stato orribile»,
mormorò Dylan, prendendo la mano di Bill nella sua e
stringendola forte, in modo del tutto naturale.
Il cantante lo guardò sorridendo, ma lo fece con
discrezione, per non farlo arrossire né pentire di aver
mostrato apertamente quel gesto d’affetto.
«Per fortuna tutto questo è finito
adesso!», esclamò Tom sollevando le braccia per
stiracchiarsi, sbadigliando assonnato.
Passarono il resto del viaggio più o meno in silenzio,
ascoltando la musica oppure navigando in Internet con il cellulare per
informare tutti gli Aliens
connessi alla BTK App
del loro arrivo nella capitale, mentre Grace e Dylan si godevano quel
primo giro turistico tra le strade di Berlino, cercando con gli occhi i
monumenti famosi e altri edifici strani.
Grace ripensò alla loro conversazione sul Muro di Berlino e
si rese conto che per forza i suoi genitori dovevano essere andati a
fare quel viaggio negli anni in cui era ancora in piedi, restando per
ovvie ragioni nella parte occidentale, controllata dagli americani. Non
vedeva l’ora di visitare i luoghi di cui le aveva parlato sua
madre, immaginandosi suo padre fare gli stessi percorsi da bambino, da
adolescente e anche da adulto, fino alla sua ultima visita, quella in
cui Grace presupponeva le avesse lasciato degli indizi per continuare
la sua indagine.
«Prego, voi due, scendete», disse David, il
management, voltandosi verso Dylan e Grace.
«Cosa? Ma non siamo ancora arrivati»,
esclamò indignato Tom, stringendo un po’
più forte la mano della sua ragazza.
«Questo lo so benissimo. Non vorrai mica farti vedere dalle
fan con lei, vero?», gli rispose, fulminandolo con lo sguardo
prima di rivolgersi ancora ai due benvenuti
ospiti.
«L’hotel è solo ad una via di distanza,
ve la farete a piedi».
La detective ricambiò lo sguardo ostile ed annuì,
dicendo a Tom che si sarebbero visti là.
Scese dal minivan con Dylan e rimase ferma ad osservarne i fanali
posteriori fino a quando non svoltò l’angolo.
Quindi si girò verso il poliziotto e non lo vide
più accanto a sé, ma inginocchiato accanto ad un
mucchietto di neve al lato del marciapiede.
«Oh, Dylan…», ridacchiò,
mentre lui infilava un dito nella neve e sorrideva come uno scemo,
prendone un po’ in una mano.
«È gelata, mi sto davvero congelando la mano, ma
è una sensazione bellissima! È un vero peccato
che in California l’inverno non esista!».
Grace scosse il capo sorridendo e lo afferrò per il gomito,
trascinandoselo dietro.
«Mi ha tirato una palla di neve alle spalle, quel vigliacco!
Avresti dovuto vederlo, davvero! Un bambino, peggio di un bambino. La
gente che passava l’avrà preso per pazzo, come
minimo».
Grace corrugò la fronte, accorgendosi della inesistente
loquacità di Tom, e voltandosi realizzò che si
era addormentato proprio mentre gli raccontava delle stranezze di Dylan
quando c’era della neve nei paraggi.
In quel momento capì di avere a che fare con almeno due
bambini.
«Sogni d’oro», sussurrò
sfiorandogli la guancia in un bacio.
Si alzò per rimboccargli le coperte e spense la TV
direttamente col pulsante sul monitor, non sapendo dove avessero
lasciato il telecomando. Poi si diresse alla sua valigia, prese il
laptop e lo posò sulla scrivania sistemata davanti alle
grandi finestre. Lo accese ad aspettò che si avviasse,
seduta sulla poltroncina e guardando ancora Tom che dormiva beatamente.
Aveva ragione quando diceva che non sarebbe riuscita a chiudere occhio
quella notte: si sentiva sveglia, fin troppo, perché per il
suo orologio biologico, non abituato al fuso orario, era pieno giorno.
Se solo non avesse dormito così tanto
sull’aereo…
Inserì la password ed aprì la cartella in cui
aveva riversato tutti i dati del caso di suo padre. Li
guardò e riguardò, sperando che qualcosa di nuovo
comparisse magicamente, ma non accadde.
Quando i suoi occhi brucianti la pregarono di dargli tregua, ormai a
notte fonda, si alzò dalla poltroncina e andò
alle finestre, scostando una tenda per vedere la città
illuminata.
Di fronte all’hotel si estendeva il Tiergarten,
il grande parco di Berlino, al cui centro si ergeva la Colonna della
Vittoria, circondata da una trafficata rotonda e famosa per
l’omonima Statua di bronzo: una donna alata che rappresentava
la dea.
Grace sorrise, osservandola da lontano, e pensò a suo padre.
Aveva sempre amato quel monumento, ma non si era mai appellato a quella
dea pagana per avere successo nel suo lavoro. Lui sapeva che
c’erano delle volte in cui bisognava saper perdere ed
accettare la sconfitta, perché la presunzione di avere
sempre la meglio era il rischio peggiore. Ciononostante, era morto.
«Grace?».
Si voltò all’udire la voce roca di Tom e lo vide
sollevato sui gomiti, che la fissava con gli occhi piccoli.
«Vieni qui», la invitò, battendo
debolmente una mano sul materasso.
Lo raggiunse dopo essersi spogliata, infilandosi sotto le coperte e
stringendosi a Tom, il quale aveva già scaldato la sua parte
di letto.
Lo stesso Tom che le baciò la fronte prima di ripiombare nel
sonno, lasciandola da sola in balia dei suoi pensieri inarrestabili.
***
Grace
si svegliò all’improvviso, a metà di un
sogno in cui la Statua della Vittoria si liberava della sua bronzea
staticità e volava via sbattendo le sue ali grandi e
possenti.
Si portò una mano alla testa, che le vorticava per il brusco
risveglio e i postumi del jetlag, e nel frattempo si voltò
verso il comodino per vedere che ore fossero. La sveglia a led indicava
le dieci e un quarto.
«Oh, merda», sbuffò e si alzò
faticosamente dal letto per scostare le pesanti tende scure dalle
finestre. La stanza fu subito inondata dalla luce del sole e Grace fu
costretta a coprirsi gli occhi con una mano, accecata.
A tentoni raggiunse il bagno per sciacquarsi la faccia e
corrugò la fronte quando notò un foglietto di
carta sulla mensola dello specchio.
Buongiorno!
Spero
tu sia riuscita a dormire almeno un po’ :-)
Chiamami
quando ti svegli.
Se
non rispondo ti richiamo io appena posso.
Grace scosse il capo,
nonostante un sorriso le incurvasse all’insù le
labbra.
Dopo essersi rinfrescata un po’ tornò in camera da
letto ed aprì una delle finestre per far cambiare un
po’ l’aria, ma se ne pentì subito,
investita dal freddo: non era più in California!
Si sedette sul letto, ancora col biglietto di Tom in mano, e lo
chiamò al cellulare. Dovette aspettare un paio di squilli,
prima che rispondesse tutto pimpante.
«Ehi, hai visto il mio biglietto?», le
domandò subito, ridacchiando.
Grace annuì, sbadigliando, come se potesse vederla.
«Molto carino. Peccato che avresti dovuto svegliarmi prima!
Ho gettato via un’intera mattina che avrei potuto sfruttare
per le indagini!».
«Oh, scusa se ho pensato che avessi bisogno di dormire! Credi
che saresti riuscita ad usare il cervello in modalità
zombie?».
La detective rimase in silenzio per qualche istante, poi sorrise.
«Sei proprio tenero quando ti preoccupi per me, sai? Grazie,
Tom».
«Pff, adesso l’hai capito che l’ho fatto
per te», rispose in tono offeso, ma tornò presto
il solito Tom di sempre. «Mi ringrazierai a dovere stasera:
sarò talmente stanco che avrò bisogno di un
massaggio!».
«Uhm… mi sa che ti stanno chiamando per il trucco!
Ciao, ciao!», lo salutò ridendo e pose fine alla
telefonata, certa che l’avrebbe presa sul ridere. Oppure
no?
Grace sollevò le spalle, sorridente, e gettò uno
sguardo fuori dalla finestra per controllare se la Statua della
Vittoria fosse ancora sulla sua colonna.
Scese nella hall e si diresse verso la sala ristorante, sicura di
trovarvi Dylan. Era andata a bussare alla porta della sua stanza e lui,
con il sonno leggero che aveva, si sarebbe sicuramente svegliato e le
avrebbe aperto se solo ci fosse stato.
Infatti, lo vide seduto ad un tavolino nella zona adibita alla
colazione – sì, quell’albergo a cinque
stelle aveva due sale apposta, una con tavoli più piccoli e
meno eleganti per la colazione, e un’altra più
grande con tavoli rotondi, circondati da comode poltroncine bianche e
fiori ovunque – che si apprestava a fare colazione con un
cappuccino, una brioche alla crema, un’aranciata e una
macedonia di frutta.
Lo raggiunse e senza salutarlo si sedette di fronte a lui, proprio
perché il sorriso che aveva sulle labbra aveva tutta
l’intenzione di sottintendere il buongiorno.
«Guten Morgen!»,
disse Dylan, levando gli occhi ridenti per incrociare quelli della
detective.
«Oh, hai deciso di imparare il tedesco?», chiese
Grace, divertita, giusto un momento prima che un cameriere elegante si
fermasse al loro tavolo per prendere la sua ordinazione.
«Quello che ha preso lui», disse brevemente la
detective, ricambiando il sorriso del cameriere.
Quando se ne fu andato, Dylan alzò le spalle e
confessò: «Bill mi ha insegnato qualche
parola».
Grace si sciolse in un sorriso. «Allora posso anche
perdonartela. Perché, vedi, se vogliamo essere precisi,
“Guten Morgen”
si usa solo alla mattina presto», si guardò
l’orologio al polso e sospirò, «e direi
che siamo piuttosto in ritardo sulla tabella di marcia».
Dylan si pulì le labbra con un tovagliolo per togliere i
residui di zucchero a velo e la fissò sollevando un
sopracciglio. Anche quello gliel’aveva insegnato Bill?
«Non ci corre dietro nessuno, almeno credo».
«In realtà avevo intenzione di stare a Berlino il
meno possibile, solo nei giorni in cui resteranno anche Tom e gli
altri».
«E perché?».
Stava per rispondere, ma il cameriere ricomparve al loro fianco con la
colazione di Grace su un vassoio, che posò delicatamente sul
tavolo. La detective ringraziò e versò una
bustina di zucchero nel cappuccino, incominciando a girarlo lentamente.
«Ecco, io… preferisco giocare in casa»,
spiegò alla fine, abbassando di un tono la voce.
«Prima torniamo a Los Angeles, meglio è per
l’incolumità di tutti».
«Credi davvero che Loro ci abbiano seguiti fino a
qui?».
Grace sospirò e si portò la tazza calda alle
labbra, lo sguardo perso fuori dalla finestra che dava sul marciapiede.
«Okay, lo prendo per un sì»,
mormorò Dylan. «Anche se non ne capisco il motivo.
Se tuo padre voleva lasciarti una pista qui, nella sua
città, perché non l’hanno fermato
prima?».
«Mio padre è stato ucciso, ma sapeva fare bene il
suo lavoro», rispose con gli occhi di ghiaccio.
«Avrà sicuramente mascherato il suo viaggio qui
con qualche altra motivazione, ne sono sicura».
Dylan abbassò lo sguardo. «Scusami, non volevo
insinuare che…».
«Lo so, non c’è problema». Gli
rivolse un breve sorriso e guardò la macedonia che aveva
ordinato: «Oh no, ma sono pezzi di kiwi quelli? Io odio i
kiwi!».
«E quindi, la vuoi lasciare?», chiese Dylan,
dispiaciuto per quello spreco. «Ah, a proposito, ma sei
sicura che possiamo permetterci questo hotel?».
«No che non possiamo», rispose tranquillamente, per
poi sorridere di nuovo. «Ma finché paga David, non
è un problema mio!».
Dylan si coprì la bocca con una mano per non scoppiare a
ridere fragorosamente. «Ora capisco perché ci odia
tanto!».
Visto che ormai la mattinata era andata, avevano deciso di sfruttare
quel poco tempo che gli rimaneva prima di pranzo per visitare la
città.
A piedi avevano attraversato il lungo viale del Tiergarten
che li aveva portati direttamente nel centro del parco, sotto la
Colonna della Vittoria. Dylan, improvvisatosi fotografo, aveva scattato
decine di foto con il viso rivolto all’insù, poi
Grace lo aveva dovuto allontanare con la forza.
Avevano raggiunto la zona del centro, dove avevano potuto vedere il Reichstag
– la sede del parlamento tedesco, – un edificio in
stile neoclassico, con una grande cupola di vetro al centro e sulla
facciata maestose colonne che sostenevano il timpano, decorato con un
basso rilievo, e l’architrave su cui era incisa la scritta
“Dem Deutschen Volke”
(Al popolo tedesco).
Poi, finalmente, si erano trovati di fronte la Porta di Brandeburgo: il
monumento più famoso della città, il simbolo
dell’unità nazionale. Anch’essa in stile
neoclassico, alta circa 26 metri
e larga circa 65, con le colonne doriche in pietra che formavano cinque
punti di passaggio, era davvero impressionante.
«Mio Dio», sussurrò Dylan osservandola
nella sua interezza e magnificenza. «Devo vederla illuminata
di notte, per forza».
E riprese a fare foto.
Grace non badò a lui e tirò fuori dalla tasca
della giacca la famosa polaroid. La osservò ancora una
volta, come se non l’avesse già marchiata a fuoco
nella mente, poi si guardò intorno, cercando di capire in
quale posizione fossero i suoi genitori quando era stata scattata.
Camminò in cerchio per un po’, calpestando le
mattonelle della Pariser Platz,
e alla fine si fermò, guardando davanti e dietro a
sé: sì, i suoi genitori, felici, giovani ed
innamorati, erano stati abbracciati, in posa, esattamente in quel
punto.
«Grace, che cosa rappresenta quella statua?».
La detective intascò la polaroid e si voltò verso
di Dylan, il quale stava sforzando lo zoom della sua macchina
fotografica per inquadrare al meglio la statua posta sulla cima della
Porta.
«Si chiama Quadriga e la figura alata che la guida
è ancora una volta la dea Vittoria»,
spiegò.
Dylan sogghignò. «Sbaglio o sono un po’
presuntuosi questi tedeschi? Pensano solo a vincere!».
Grace accennò un sorriso ed infilò un braccio
intorno al suo. «Tutto questo camminare non ti ha fatto
venire fame? In Germania fanno i migliori döner kebab del
mondo, grazie agli immigrati turchi. Ti va?».
«Certo che sì!».
«Sapevo non avresti rifiutato»,
ridacchiò.
***
Le porte
dell’ascensore si chiusero di fronte a loro e Grace
aprì la bocca per chiedergli perché si fosse
alzato da tavola per primo, ma Tom la prese per le braccia e la spinse
contro una parete dorata, bloccandola col proprio corpo.
«Voglio tanto bene ai miei compagni di band, ma dopo
ventiquattr’ore passate con loro… anche tu
cercheresti altra compagnia», le sussurrò
all’orecchio, stuzzicandole il collo con baci e piccoli
morsi, mentre le accarezzava i fianchi sotto la maglietta.
Grace sorrise e gli posò possessivamente una mano sulla
nuca, chiudendo gli occhi ed inarcando la schiena per far aderire
meglio i loro bacini.
«E quando sarete in tour come farai?».
«Il solito: rischierò
d’impazzire».
«Ma tu sei già pazzo».
«Uhm?». La prese in braccio, facendole avvolgere le
gambe intorno alla sua vita, e la baciò appassionatamente.
Grace stava quasi per lasciarsi andare, quando vide con la coda
dell’occhio che si stavano avvicinando pericolosamente al
loro piano. Si divincolò dal suo abbraccio e
tornò coi piedi per terra, lasciandolo sbigottito. Qualche
secondo dopo un tintinnio avvertì che le porte si stavano
per aprire e si trovarono di fronte ad una giovane coppia con una
bambina bionda di cinque o sei anni.
Grace le sorrise dolcemente e prese Tom per mano per trascinarlo fuori
dall’ascensore, quindi scoppiò a ridere.
«Visto, te l’ho detto che sei pazzo! Pensa se ci
avessero colti in flagrante!».
Tom tirò fuori dalla tasca dei jeans la chiave magnetica
della loro suite e le sorrise suadente. «Forse sei tu che mi
rendi pazzo, no?».
La detective lo spinse dentro alla camera e lo fece cadere di schiena
sul letto per mettersi a cavalcioni su di lui.
«Può darsi», mormorò ad un
soffio dalle sue labbra, prima di togliersi la maglia e gettarla a
terra.
«Aspetta un attimo… tu mi hai chiuso il telefono
in faccia stamattina!», esclamò Tom, smettendo di
accarezzare il braccio di Grace che gli avvolgeva il petto.
La detective ridacchiò. «È un
po’ tardi per rendersene conto. Dai, continua, per
favore!».
«Ahm… no. E poi eri tu che dovevi fare i massaggi
a me, non il contrario!».
Grace brontolò e si allontanò, girandosi
dall’altra parte ed avvolgendosi interamente nelle coperte,
sottraendole a Tom.
«Ehi!», il chitarrista le strattonò
verso di sé e Grace rotolò di nuovo verso di lui,
trattenendo a stento le risate. Le prese il viso fra le mani e le
stampò un forte bacio sulle labbra, lasciandola poi cadere
con la testa sul cuscino.
«Stupida».
Grace alzò una mano e un po’ alla cieca la
posò sul suo viso, gli accarezzò una guancia e
fece una smorfia. «Non ti sei rasato stamattina.
Male».
«È un
po’ tardi per rendersene conto»,
la imitò, sporgendosi sopra di lei col busto ed
accarezzandole il collo con la punta del naso.
Grace lo strinse fra le braccia e gli accarezzò la nuca, le
spalle e la linea della schiena, per poi tornare su e fare tutto da
capo.
«Così va bene?», gli sussurrò
all’orecchio.
Lui annuì con la testa. «Mmh…
è rilassante. Ah, com’è andata oggi?
Non mi hai ancora raccontato niente».
«Bene, è andata bene. Abbiamo visto un
po’ il centro stamattina, così ho accontentato
Dylan».
«Siete stati anche alla Porta di Brandeburgo?».
«Sì. Ho trovato il punto in cui i miei genitori
hanno posato per quella polaroid ed è stato…
strano. So poche cose sulla loro storia d’amore».
«Pochi figli si interessano della storia d’amore
dei genitori, secondo me. Anche io ne so poco o nulla».
«Eppure siamo nati proprio grazie a…».
«A tuo figlio racconteresti che mi hai conosciuto
perché una ragazzina milionaria ti pagava per
pedinarmi?», le chiese ridacchiando.
«Beh…». Grace sollevò gli
occhi in quelli accesi d’amore di Tom ed arrossì.
«Ne stiamo parlando ancora».
A quell’affermazione anche il chitarrista parve realizzarlo
all’improvviso, come se non avesse neanche fatto caso al
discorso che inconsciamente aveva aperto ancora una volta: la
possibilità di avere un bambino.
«Scusa, io non…».
«Non importa», lo interruppe, sorridendogli.
«Solo mi incuriosisce questa tua fissa di diventare
padre».
Tom sentì il viso andare a fuoco e deviò il suo
sguardo, soffermandosi ad accarezzarle i capelli sul cuscino.
In realtà non lo sapeva nemmeno lui per quale motivo
continuava a pensarci. Forse era semplicemente Grace la causa di tutto:
ce la vedeva troppo bene ad aspettarlo a casa, seduta sul divano e con
un bambino tra le braccia, loro figlio.
La detective arricciò le labbra per non ridere e
cambiò argomento: «Comunque dopo pranzo io e Dylan
siamo anche andati a cercare il bar di cui mi aveva parlato mia madre,
quello che lei e papà frequentavano sempre, ma purtroppo era
chiuso. Pensavamo di ripassarci questa sera».
«A-Adesso?». Tom la fissò con un guizzo
al cuore.
«Tranquillo, non scappo!».
Gli posò un bacio sulle labbra e lasciò che
nascondesse il viso contro il suo collo, mentre lei gli accarezzava
docilmente i capelli.
Tom la guardò mentre prendeva la borsa e controllava se
dentro ci fosse tutto, compresa la sua pistola.
Una strana ansia gli pungolò il cuore, tanto che
lanciò il telecomando dall’altra parte del letto e
la raggiunse gattonando sul materasso, stringendole forte le braccia
intorno al petto.
Grace lo osservò con la coda dell’occhio ed
accennò un sorriso. «Mi stai diventando troppo
sdolcinato, non va bene».
Gli batté una mano sul braccio e fece per alzarsi, ma lui
non la lasciò. Allora sospirò e gli
posò un bacio sulla guancia.
«Torno presto, te lo prometto».
Tom allentò la presa e lasciò che si allontanasse
da lui. La osservò andare fino alla porta e
ricambiò lo sguardo che gli rivolse prima di uscire dalla
stanza, ma non riuscì proprio a fare lo stesso con il suo
sorriso.
Grace scelse di scendere le scale per levarsi di dosso la strana
sensazione che aveva provato stando stretta fra le braccia di Tom, come
se quello fosse stato uno degli ultimi momenti trascorsi con lui, e
quando raggiunse la hall chiese alla reception se il gruppo capitanato
da David avesse già finito di cenare. Gettando
un’occhiata all’orologio d’oro alle
spalle dell’uomo, però, si rispose da sola alla
domanda.
«Sì, hanno già lasciato il
ristorante», le rispose cortesemente. «Se cerca il
signor Kaulitz, so che si è diretto al bar».
Grace seguì il suo consiglio. Andò verso il bar,
separato dalla sala ristorante solo da delle tende leggere, e appena ne
ebbe una visuale completa vide subito Bill seduto su uno degli sgabelli
alti del bancone laccato nero, che beveva un cocktail con il sorriso
sulle labbra. E quel sorriso non poteva essere dovuto a nessun altro:
Dylan era seduto al suo fianco e gli stava raccontando qualcosa di
tanto divertente quanto esplosivo,
perché disegnò un ampio gesto con le braccia che
a Grace ricordò il ka-boom
di una bomba.
Vedendoli così felici di passare un po’ di tempo
insieme, indisturbati, senza che nessuno li accusasse di essere
“giusti” o “sbagliati”, non se
la sentì proprio di mettersi in mezzo e rovinare tutto. Non
avrebbe sopportato di vedere i loro sorrisi spegnersi, né
gli occhi di Bill intristirsi ed offuscarsi di preoccupazione mentre
gli portava via Dylan.
Così si allontanò in fretta, prima che cambiasse
di nuovo idea, ed uscì da sola all’aria fredda
della sera, alzandosi il colletto della giacca.
Entrò nel bar e la prima cosa che fece fu quella di
guardarsi intorno per memorizzare possibili vie di fuga: non
c’erano finestre, le luci erano soffuse, l’aria era
intrisa di puzza di fumo e ai tavolini c’erano pochi clienti,
tutti con boccali di birra enormi in mano e concentrati sulla partita
di calcio trasmessa al televisore appeso sopra al bancone, dietro al
quale non c’era nessuno. Provò ad immaginarselo
come uno dei bar più frequentati negli anni ’80,
proprio come glielo aveva descritto sua madre, ma i risultati furono
deludenti.
Si sedette su uno degli sgabelli al bancone e notò che
nessuno badò a lei. Da un lato era sicuramente meglio, ma
dall’altro… cosa poteva scoprire, se nessuno
sembrava intenzionato ad aiutarla?
In quel momento dal retrobottega uscì un uomo basso e magro,
con gli occhi azzurri, il viso ovale e una vistosa piazza fra i capelli
biondi, d’età più o meno sui
cinquantacinque anni. L’uomo si accorse di lei e si
affrettò a tornare dietro il bancone per servire quel nuovo
ed improvviso cliente. Mai avrebbe immaginato chi fosse realmente.
«Come posso esserle utile?», sollevò lo
sguardo e per la prima volta la osservò con la dovuta
attenzione, rendendosi conto che si trattava proprio di lei, della
figlia del suo migliore amico. Con gli occhi sbarrati,
balbettò: «Grace… Grace, sei davvero
tu?».
La detective reagì allo stesso modo, riconoscendo
quell’uomo come uno di quelli presenti al funerale di suo
padre. Sua madre aveva ragione quando aveva detto che il gestore del
bar lei lo aveva già visto, solo che non se lo ricordava.
«Sì, sono io», rispose alla fine,
ricomponendosi. «E lei è…?».
«Dwight».
Grace inarcò un sopracciglio. «Come Dwight
Eisenhower, generale che comandò lo Sbarco in Normandia e
poi Presidente degli Stati Uniti?».
«Esatto», le rivolse un sorriso dolce e si sporse
verso di lei per sussurrare: «Io e tuo padre siamo cresciuti
praticamente insieme».
Uscì dal bancone e le fece segno di seguirlo nel suo
ufficio, in modo che potessero parlare senza essere ascoltati da
orecchie indiscrete.
«Allora Mitch aveva proprio ragione…»,
disse ancora una volta, dopo essersi chiuso la porta alle spalle.
Nel sentire il nome di suo padre, Grace sobbalzò.
«Come?».
«Sì, lui…», chinò
il capo a quel ricordo doloroso, ma lo rialzò quasi subito.
«Qualche tempo prima di morire è venuto da me e mi
ha affidato questa». Tirò fuori dal cassetto
chiuso a chiave della sua scrivania quella che di primo acchito
sembrava proprio un’agenda di pelle nera e la posò
sul tavolo. «Mi disse, testuali parole:
“Custodiscila fino a quando non sentirai che è il
momento giusto di consegnarla a qualcun altro”. Peccato che
io lo conoscessi troppo bene, nonostante gli anni che avevamo trascorso
lontani da quando aveva deciso di trasferirsi in America. Quando me lo
disse gli brillavano gli occhi e, credimi, i suoi occhi brillavano solo
per due persone a questo mondo: tua madre e te, Grace».
La detective, seduta sulla poltrona di fronte alla scrivania, non
riuscì a staccare gli occhi da quell’agenda:
poteva costituire la luce per tutti i punti oscuri del materiale che
suo padre aveva tenuto a Los Angeles, oppure potevano essere
semplicemente le sue memorie. In ogni caso, voleva averla ad ogni
costo.
«Quindi lei… lei pensa che sia giunto quel momento
e che la persona a cui la deve consegnare sia io?»,
domandò con la gola secca.
«Ci sarà pure un motivo per cui sei qui,
no?».
Grace provò a rivolgergli un sorriso e con le mani sudate e
tremanti, dopo un altro incoraggiamento da parte di Dwight,
afferrò l’agenda. Ne accarezzò il dorso
e sentì l’eccitazione scorrerle nelle vene, tanto
che non poté resistere e chiese:
«C’è un bagno, qui?».
«Certo. Fuori dall’ufficio, la porta subito a
destra».
Grace lo ringraziò e corse in bagno. Per prima cosa si
sciacquò il viso con dell’acqua gelata per
riprendersi un po’, se l’asciugò con un
paio di fogli di carta ruvida e poi si sedette sull’asse del
cesso per sfogliare velocemente le pagine dell’agenda, col
cuore che le batteva impazzito nel petto.
Grace,
tesoro, spero tu stia leggendo queste parole tanto quanto spero tu non
lo faccia mai.
Non so se sei entrata in possesso di quest’agenda attraverso
Dwight o meno, ma se è così vuol dire che hai
seguito l’indizio che ti ho lasciato e stai continuando il
mio caso. Sono così orgoglioso di te, eppure vorrei che
bruciassi questa agenda e lasciassi perdere tutto. Non voglio che
capiti nulla di male, né a te né a tua madre
né a nessun altro.
Grace chiuse gli occhi alle
lacrime. Respirò profondamente e portò di nuovo
gli occhi sulle pagine scritte a mano da suo padre, ma quella volta le
scorse velocemente, riuscendo a capire che suo padre le aveva lasciato
scritto tutto ciò che aveva fatto nei mesi del 2003 subito
successivi al ritorno in patria dei tre marines che avevano impedito
quell’attacco terroristico a Baghdad, ottenendo una medaglia
al valore.
Grace intuì, senza nemmeno arrivare alla fine, che
c’era anche la risoluzione del caso, con nomi e cognomi di
tutti gli appartenenti all’organizzazione criminale e di
quelli dei piani alti che li avevano assoldati. Probabilmente tra
questi c’era anche il nome dell’assassino di suo
padre. Lei non doveva fare altro che leggere e far pervenire tutto alla
polizia.
Si sentì infinitamente sollevata, perché questo
voleva dire che ancora poco tempo e tutto sarebbe finito, ma aveva
anche una maledetta paura di uscire da quel bagno: doveva portare al
sicuro quell’agenda e poi liberarsene consegnandola
all’FBI, perché fino a quando sarebbe stata nelle
sue mani era in pericolo lei come tutte le persone che le stavano
attorno.
Si fece coraggio con un altro respiro profondo ed infilò
l’agenda nella borsa, poi uscì dal bagno.
Adocchiò Dwight di nuovo al bancone, che riempiva un boccale
di birra ad uno dei suoi clienti abituali, e si avvicinò.
«Grazie, davvero. Mio padre sarebbe fiero di te»,
gli disse quando lui la raggiunse per stringerla in un abbraccio.
«Lui sapeva che non l’avrei mai tradito. E
poi… l’ho fatto con piacere».
La detective rabbrividì sentendo quelle parole. Lui non
sapeva del pericolo che aveva corso. Se solo l’organizzazione
avesse saputo dell’agenda… probabilmente sarebbe
stato ucciso come suo padre e quell’agenda sarebbe scomparsa
per sempre.
Ora toccava a lei fare in modo che quell’agenda rimanesse
ancora un segreto e limitare i danni, se proprio dovevano essercene.
Uscì dal bar e pensò che le temperature fossero
scese sotto lo zero, perché nonostante si stringesse nella
giacca aveva sempre più freddo. Avrebbe
voluto correre per riscaldarsi ed arrivare più in fretta in
una via trafficata, dove sarebbe stata protetta dagli occhi della
gente, ma si disse che se avesse fatto così avrebbe
insospettito chiunque e non solo le persone che adesso sentiva col
fiato sul collo per colpa del peso in più che aveva nella
borsa. Non sapeva se quelle persone ci fossero davvero o fossero solo
frutto della sua immaginazione, ma aveva paura, paura come non ne aveva
mai avuta in tutta la sua vita.
Sentì il suo respiro farsi più affannoso per
cercare di seguire i battiti velocissimi del suo cuore, mentre
camminava a passo svelto sul marciapiede e provava a pensare a tutte le
cose belle che le venivano in mente: Tom, Bill e Dylan che ridevano,
sua madre che quando lei era piccola le preparava i biscotti, persino
la bambina a cui aveva sorriso quella sera uscendo
dall’ascensore.
Alla fine non riuscì più a resistere e le sue
gambe iniziarono a correre senza niente che lei potesse fare per
fermarle. E ce l’avrebbe pure fatta a raggiungere una delle
vie più trafficate di Berlino, mancava davvero tanto
così, se una mano grande non l’avesse afferrata da
dietro tappandole la bocca.
Subito fu intrappolata da due braccia di ferro e trascinata verso uno
dei tanti vicoli bui, tuttavia si dimenò con tutte le sue
forze e morse pure la mano del suo aggressore, trovandola fasciata da
un guanto di pelle. Niente DNA.
Innervosito, l’uomo la lasciò cadere a terra e
Grace batté in malo modo la spalla, ma non vi
badò e provò subito a prendere la sua Glock nella
borsa, ma lui glielo impedì schiacciandole il braccio con un
piede, facendola urlare di dolore. Lo stesso braccio che Tom le aveva
accarezzato dopo aver fatto l’amore…
«Shhh», le disse e le tirò un calcio
nello stomaco, e poi un altro, e un altro ancora.
Grace tenne gli occhi aperti più che poté, per
cercare di trovare qualche segno distintivo in quell’uomo
vestito interamente di nero e dal viso coperto da un passamontagna.
Persino i suoi occhi sembravano neri, privi di espressione.
La detective sfruttò un attimo di esitazione
dell’aggressore per alzarsi rapidamente, nonostante i colpi
ricevuti, e lanciarsi su di lui. L’unico effetto che ottenne,
fu di essere di nuovo intrappolata nella morsa d’acciaio
delle sue braccia. Quindi l’uomo prese qualche passo di
rincorsa, senza lasciarla andare, e come un toro si schiantò
contro il muro, facendole battere violentemente la schiena e la testa.
Grace, quasi sul punto di perdere i sensi, lottò in tutti i
modi per stare sveglia e nella sua mente si chiese se fosse lui
l’uomo che aveva assassinato suo padre. No, era
pressoché impossibile: suo padre era stato ucciso da un solo
colpo di pistola alla testa, un esecuzione troppo fredda per
quell’uomo aggressivo e feroce come un animale, un animale
che ora non le permetteva di accasciarsi a terra tenendola per il
collo.
Alzò un pugno per schiantarglielo in faccia, ma
all’improvviso si fermò, come in ascolto di
qualcosa. Grace accennò un sorriso, ma
l’illuminazione che aveva avuto sparì con esso
quando la colpì un’altra volta allo stomaco,
facendole sputare sangue.
Quella volta la lasciò andare e Grace cadde sul cemento con
un tonfo, pesante come se fosse stata riempita di cemento.
All’ennesimo colpo, una pedata sulla schiena,
reagì solo con un gemito strozzato, ormai priva di forze.
Con la coda dell’occhio vide l’uomo inginocchiarsi
al suo fianco e tirarle su il mento, mentre infilava una mano nella
tasca della giacca. Grace sapeva già di che cosa si trattava
e fu scossa da un brivido, talmente forte che l’uomo fece un
versetto divertito, una specie di «Mm-mm».
Quando sentì il metallo freddo della canna premerle sulla
nuca, rivisse per un istante l’orribile momento che aveva
segnato la sua esistenza: il ritrovamento di suo padre. Sarebbe morta
anche lei in quel modo, con l’unica differenza che
l’avrebbero trovata in uno squallido vicolo? No, non poteva
finire così, non poteva, non poteva…
Ancora una volta si aggrappò ai primi pensieri felici che le
apparvero in maniera disorganizzata nella testa, come se la pellicola
della sua memoria fosse stata aggrovigliata. Pensò al
sorriso caldo di suo padre, alla tenerezza di sua madre, al sostegno
costante di Dylan, all’unicità di Molly,
all’imperscrutabilità degli occhi
dell’agente Crawford, alle dolci stranezze di Bill,
all’amore del suo Tom. Pensò anche al bambino che
non sarebbe mai riuscita a donargli se fosse morta – e in
quel modo, poi – e riuscì quasi a vederselo
davanti agli occhi: con i capelli biondi, gli occhi dello stesso colore
dei suoi.
No, non voleva morire, non voleva perdersi tutto quello, non voleva
lasciare nessuna delle persone che amava.
Una lacrima le solcò la guancia e la voce le uscì
roca, graffiata come se quell’uomo le avesse lacerato persino
le corde vocali: «Ti scongiuro, io… per
favore…».
Il suo aggressore emise un altro dei suoi agghiaccianti versetti di
godimento, ma proprio in quel momento un’altra voce raggiunse
le loro orecchie, distraendoli.
«Non ci credo, Grace Schneider supplicante?».
Grace fece per voltare il capo per vedere a chi appartenesse quella
voce, ma il suo aggressore usò il calcio della pistola per
impedirglielo, colpendola sulla mandibola. Grace sgranò gli
occhi umidi per il dolore e sentì il sapore metallico del
sangue nella bocca.
«E tu che ci fai qui?», gridò poi, e le
sue furono le prime parole che la detective gli sentì
pronunciare.
«Non volevo perdermi il The
End!», rispose lo
sconosciuto ridacchiando.
Grace capì che si era fermato quando smise di sentire il
rumore dei suoi passi echeggiare.
«Vattene», ringhiò ancora il suo
aggressore, desideroso di concludere in fretta il lavoro.
Ma lo sconosciuto lo intrattenne ancora e Grace, considerandolo
abbastanza distratto, rischiò il tutto per tutto:
colpì con un pugno la mano con cui teneva la pistola,
prendendolo di sorpresa grazie alla velocità del suo
movimento e riuscendo persino a sbilanciarlo un po’.
L’uomo però reagì in fretta e le
puntò la pistola addosso, premendo il grilletto.
Per una frazione di secondo Grace pensò di essere morta, ma
si rese conto di non esserlo quando sentì altri due boati e
il suo aggressore le cadde addosso privo di vita. Travolta
dall’orrore e dalla sgradevole sensazione di
déjà-vu, se lo tolse subito di dosso e
scoprì che aveva un foro alla tempia e uno al petto.
Sentì il rumore di passi veloci che si allontanavano e
realizzò che quello che il suo aggressore aveva
probabilmente considerato un complice fino ad allora…
l’aveva salvata.
***
Tom, inarrestabile,
entrò nella camerata del pronto soccorso in cui gli avevano
detto che avrebbe trovato Grace e scostò bruscamente le
tendine sentendo la sua voce assieme a quella del medico.
«Grace!», urlò disperato,
sull’orlo di una crisi isterica.
«Tom, calmo, sto bene», cercò di
tranquillizzarlo, ma lui le strinse forte le mani e si
soffermò a guardare la fasciatura che le stringeva il
braccio, dove un proiettile l’aveva presa di striscio, il
livido violaceo che aveva alla mandibola, quelli sul collo, quello
sull’avambraccio… e immaginò tutti
quelli che doveva avere sotto la canottiera intima che indossava in
quel momento.
«Bene?! E tu questo lo chiami star
bene?!».
Si portò una mano alla testa e mormorò:
«Abbassa la voce, ti prego».
Tom alzò gli occhi al cielo per non scoppiare a piangere e
poi spaziò con lo sguardo intorno a sé,
incontrando anche gli occhi di un poliziotto tedesco che aspettava di
portare Grace in centrale per raccogliere la sua deposizione su
ciò che era avvenuto. Osservando la divisa, Tom si
ricordò di Dylan e strinse i pugni lungo i fianchi, gli
occhi iniettati di sangue e le vene del collo gonfie. Faceva davvero
paura.
«Dov’è quel pezzo di merda del tuo
amico?», le chiese, guardando in cagnesco anche Bill, il
quale aveva riferito a suo fratello quello che era successo a Grace
ovviamente dopo averlo saputo da… da Dylan.
«Allora, dove cazzo è?!»,
gridò ancora, spazientito, del tutto indifferente alle
proteste del medico in camice bianco, dell’infermiera e della
stessa Grace che aveva un leggero trauma cranico.
«Sono qui».
Alla voce debole di Dylan, sia Bill che Tom si girarono di scatto. Il
maggiore gli fu subito addosso, con tanta violenza da farlo arretrare
fino al muro. Il medico, l’agente di polizia tedesco e lo
stesso Bill lo fermarono prendendolo per le spalle, ma Tom, una specie
di furia, riuscì comunque a tirargli un pugno sul viso,
facendogli sanguinare un po’ il naso.
«Avevi promesso di proteggerla!», ruggì
come un leone ferito, dimenandosi tra le braccia del medico e del
poliziotto. «Dove cazzo eri mentre lei rischiava di morire,
eh!? Sarebbe morta se non fosse arrivato quell’uomo a
salvarla! Tu dove cazzo eri, me lo vuoi dire?!».
Dylan abbassò il viso, tastandosi le narici con una mano per
controllare se stesse ancora sanguinando.
Bill si parò di fronte a lui ed aprì le braccia.
«Era con me», rispose senza alcuna inflessione
nella voce, gli occhi fissi in quelli del gemello.
Tom rimase immobile per qualche secondo, incredulo, poi un sorriso
amaro e un po’ disgustato si dipinse sulle sue labbra.
Scoppiò a ridere lievemente e si avvicinò a Bill,
gli posò le mani sulle spalle e il suo viso si
accartocciò in una smorfia, intrisa di quella rabbia che lo
istigò a spingerlo via da sé, contro il
poliziotto che tanto si ostinava a difendere.
«Lei rischiava di morire mentre voi due ve lo mettevate in
culo a vicenda!», gridò scioccando tutti quanti,
compresi i due diretti interessati.
«Tom, smettila», rispose a tono Grace, scendendo
dal lettino e provando a raggiungerlo, ma i dolori causati dai colpi
ricevuti la fecero piegare in due. Ottenne comunque il risultato
sperato, perché Tom la raggiunse per sorreggerla e farla
sedere di nuovo.
La detective ne approfittò per guardarlo fisso negli occhi e
dirgli: «Basta dire stronzate, non devi dare la colpa a
nessuno per quello che mi è successo, perché la
colpa è solo mia».
Tom, sofferente, strinse gli occhi. «Che
cosa…?».
«Ascoltami. Ascoltami, ti prego»,
sussurrò accarezzandogli una guancia. «Quando sono
andata a cercare Dylan, lui era davvero con Bill, ma erano al bar che
chiacchieravano tranquillamente. Io l’ho visto, avrei potuto
chiamarlo e dirgli di accompagnarmi, come avrei dovuto… ma
non l’ho fatto».
«Che cosa?», balbettò il poliziotto,
guardandola stupefatto, riemergendo dal fango dei suoi stessi sensi di
colpa.
Grace gli rivolse un piccolo sorriso. «Sembravate
così felici… non volevo rovinare il momento,
ecco. E sono uscita da sola».
Tom, più che interdetto, si portò le mani sugli
occhi arrossati per il sonno e lo spavento terribile che aveva avuto.
Quindi si lasciò cadere sulla sedia di plastica accanto al
lettino, sotto lo sguardo del medico e dell’infermiera,
felici che si fosse calmato e avesse smesso di urlare, anche se ormai
aveva già svegliato tutti i pazienti del reparto.
Dylan si scostò Bill di dosso e in silenzio uscì
dalla stanza, coprendosi la bocca con una mano. Il cantante rimase ad
osservare il fratello ancora per un po’, con un enorme peso
sul petto che lo stava quasi soffocando, poi seguì il
poliziotto.
Grace, in quella lunga notte che sembrava non avere fine, fu portata
alla centrale di polizia sia per denunciare l’aggressione che
aveva subìto sia per essere interrogata come testimone
oculare della morte dell’uomo che l’aveva
aggredita, ucciso da un altro uomo che purtroppo non aveva potuto
identificare perché ne aveva sentita solo la voce.
Solo quando tutte le scartoffie furono state compilate poté
tornare in albergo, dove Tom l’aspettava, in ansia e con
delle occhiaie davvero spaventose.
«Lo so che me ne pentirò, ma te lo devo dire: hai
un aspetto orribile», gli disse accarezzandogli un braccio.
Tom non le rispose, badò soltanto a chiudere bene la porta e
a tornare sul letto, dove aveva lasciato il suo PC portatile, che
chiuse con cura prima di riportarlo alla scrivania.
La detective lo osservò e sospirò, lasciando
cadere la borsa accanto alla sua valigia. Si sorprese quando non
sentì il tonfo che avrebbe imputato al peso che aveva
sentito fino a quel momento sulla spalla.
«Tom… per quanto tempo ancora hai intenzione di
non rivolgermi la parola?». Aspettò invano la sua
risposta e quando non la ottenne, distrutta fisicamente quanto
psicologicamente, si diresse verso il bagno.
Di fronte allo specchio, rabbrividì notando la
gravità dei suoi lividi. E non si era ancora
spogliata…
Si sentì sporca, sudicia, come se il male che
quell’uomo le aveva fatto le fosse rimasto impresso come un
batterio sulla pelle, che andava eliminato prima che provocasse qualche
infezione incurabile. Con il braccio fasciato, però, ferito
da quel proiettile che per fortuna l’aveva solo sfiorata, non
poteva di certo buttarsi sotto la doccia.
Uscì dal bagno e si diresse a passo lento verso la porta.
Solo quando ebbe la mano sul pomello, Tom le chiese con una nota di
preoccupazione nella voce: «Dove vai?».
«Da Bill. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a
lavarmi».
«Credi che io non possa farlo?».
Lo guardò negli occhi, intensamente.
«Puoi?».
Tom annuì con un cenno del capo e si alzò,
andando ad aprire il rubinetto della vasca. Le preparò il
bagno e quando fu pronto, con l’acqua della temperatura
giusta, l’aiutò a spogliarsi, chiudendo gli occhi
di fronte ai lividi che le vide sull’addome,
all’altezza dello stomaco, e sulla schiena, a forma di
scarpone.
«Sono tanto brutti?», gli domandò una
volta immersa nell’acqua, con il braccio fasciato tenuto
ciondolante fuori dalla vasca per non bagnarlo.
«Sì, abbastanza».
Grace sospirò e si fece mettere un po’ di
bagnoschiuma sulla spugna.
«Fino a qui ce la faccio anche con una mano sola»,
gli spiegò.
Tom annuì e a salvarlo dall’imbarazzo e dalla
tensione ci pensò il suo cellulare, che iniziò a
suonare in modo impaziente. Ebbe l’opportunità
così di allontanarsi da lei, anche se non avrebbe voluto
avere quel tipo di conversazione con Molly.
«Tom, che cosa sono le foto che stanno girando su Internet?
Grace sta bene, cosa le è successo?».
«Molly, sono le due e mezza di notte, so che da te
è giorno ma…».
«Tom, rispondimi!».
«Grace sta bene!», urlò, sfinito, anche
se si pentì subito di aver detto quella bugia. Con
più calma, aggiunse: «Adesso però non
ho voglia di parlarne, okay? Sappi solo che quello che dicono i siti di
gossip sono tutte cazzate».
«Okay… okay Tom, ci sentiamo, ciao».
Doveva averla sconvolta, poverina, ma doveva anche capire che era lui
quello più sconvolto tra i due.
Lasciato giù il cellulare, tornò in bagno e vide
Grace intenta a sfregarsi i capelli con lo shampoo con una mano sola,
facendo evidentemente fatica.
«Lascia, faccio io», si offrì,
temerario. Grace gli rivolse un sorriso stanco e tirò
indietro la testa, lasciandosi massaggiare la cute.
Se fosse stato un momento qualsiasi, un momento di tenerezza fra lei e
Tom, si sarebbe rilassata tanto da crollare addormentata fra le sue
braccia, ma era ancora un fascio di nervi e la stanchezza era solo
apparente, perché sapeva che quella notte non sarebbe
riuscita a chiudere occhio per paura di poter fare un incubo su quello
che aveva vissuto quella sera.
«È troppo calda oppure va bene?», le
chiese accennando all’acqua del telefono che doveva usare per
sciacquarle i capelli.
«È perfetta».
«Vuoi anche il balsamo dopo?».
Grace aprì un occhio e ridacchiò, incrociando il
suo sguardo. «Tu sai dell’esistenza del balsamo?
Sono esterrefatta».
Riuscì a strappargli un sorrisino e ne fu molto soddisfatta,
per quanto sapesse che nel profondo era arrabbiato con lei.
Che la tirasse fuori anche con lei, quella rabbia! Gli avrebbe fatto
solo bene e lei si sarebbe sentita meno colpevole nei confronti di Bill
e Dylan, i quali si erano accollati tutte le responsabilità
della sua irresponsabilità.
Ma la realtà, ne era sicura, era che Tom non
l’avrebbe mai sgridata quanto avrebbe dovuto: anche lei, se i
ruoli si fossero invertiti, non sarebbe mai inveita contro di lui, non
dopo quello che aveva subìto, non dopo aver visto i suoi
lividi.
Quando finì di lavarle i capelli, Grace si alzò e
Tom, sempre senza guardarle la schiena segnata,
l’aiutò ad avvolgersi in un asciugamano bianco e
ad uscire dalla vasca.
«Tom, guardami».
Il chitarrista le posò una mano sul collo e, delicatamente,
con il pollice, le accarezzò la pelle, ma non osò
ancora alzare gli occhi. Grace lo costrinse a farlo, sollevandogli il
mento con due dita.
«Non posso perdonarlo, non posso farlo».
«Non puoi, perché la colpa non è sua,
ma mia».
Tom scosse il capo con violenza, ma la detective lo fermò
posandogli i palmi delle mani sulle guance, cercando il suo sguardo.
«Invece sì», gli sussurrò.
«Devi riconoscere le mie colpe e sistemare le cose con Dylan
e Bill, soprattutto con Bill. Lui non si meritava nulla di tutto
questo».
Tom la prese per mano e la portò in camera da letto,
recuperò il PC che aveva lasciato chiuso sulla scrivania e
lo portò di nuovo sul materasso. Lo aprì e
voltò lo schermo verso di lei per mostrarle le foto che
stavano già circolando in rete: Grace che usciva
dall’ospedale con il cappuccio sulla testa, che
però non aveva impedito al paparazzo di inquadrare il livido
che aveva sulla mandibola; Grace che saliva su un’auto della
polizia tedesca e veniva portata via; Tom che usciva poco dopo dallo
stesso ospedale e saliva su un’auto con il gemello.
«Credono che sia stato io. Credono che io ti abbia
picchiata!», disse con voce tremante e gli occhi lucidi.
Grace lo fissò, stupefatta ed inorridita, e seduta sulle sue
gambe gli gettò le braccia al collo, stringendolo fortissimo
a sé.
«È che tu sei così stupida, stupida
cazzo! Cosa volevi fare, da
sola? Sapevi dei pericoli che
correvi! E tutto questo per non rovinare la seratina romantica di Bill
e Dylan! Volevi farti uccidere, per caso?». Ormai piangeva e
singhiozzava, col viso nascosto nell’incavo della sua spalla,
le braccia che le avvolgevano la schiena in modo protettivo e delicato,
per non farle male.
«E a me non hai pensato? Come avrei fatto senza di te, come?
Se fossi morta, io…».
«Scusami, mi dispiace tanto Tom», rispose,
rischiando anche lei di scoppiare a piangere.
Se solo sapessi che sei
stato uno dei pensieri a cui mi sono aggrappata per non perdere tutte
le speranze, quando ho sentito quella pistola sulla nuca…
Oppure il nostro bambino. Tom, ho visto il nostro bambino quando stavo
per morire!
«Non
farlo mai più, ti supplico».
«Mai più», gli promise, baciandogli la
guancia diverse volte. «Tu non puoi nemmeno immaginare quanto
ti amo».
Il chitarrista si scostò un poco e tirò su col
naso, mentre Grace gli sorrideva docilmente e gli spazzava via le
lacrime dalle guance.
«Sono tremendamente stanca», gli
confidò, socchiudendo le palpebre.
Tom la prese in braccio e la sdraiò sulla sua parte di
letto, infilandole la sua camicia da notte per non farle prendere
freddo. Poi spense il PC e lo posò a terra per raggiungerla
sotto le coperte e stringerla fra le braccia, accarezzandole il viso e
i capelli.
In quel momento, riflettendoci, non riuscì a capire chi
fosse più bisognoso di sentirsi protetto dalle braccia
dell’altro, se lui o lei. Forse entrambi, indistintamente,
perché entrambi avevano rischiato di perdere la cosa
più preziosa che possedevano: il loro amore.
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Capitolo 24 *** Capitolo 22 ***
Capitolo 22
Grace aprì gli
occhi di scatto e schizzò seduta sul letto, spaventata.
«Che cos’è successo?»,
urlò con la voce strozzata, il cuore che le batteva a mille
nel petto.
La luce accesa in bagno era l’unica che rischiarava i
contorni delle cose nella suite, poiché le pesanti tende
erano ancora chiuse sulle finestre, e la detective vide solo la figura
di Tom che si stagliava di fronte la porta, voltato verso di lei con
una mano sul gomito.
«Ho picchiato contro lo stipite».
Grace sospirò sollevata e si strinse le gambe al petto,
cercando di mandare via la paura.
Era stata la notte peggiore di tutta la sua vita e se non avesse avuto
Tom accanto sarebbe come minimo impazzita, continuamente in preda a
manie di persecuzione create dalla sua mente traumatizzata.
«Scusa, non volevo svegliarti», disse ancora Tom,
avvicinandosi e sedendosi sul letto, al suo fianco.
Grace distolse lo sguardo dal suo, voltando il capo verso sinistra.
«Tanto… tanto mi sarei svegliata comunque, tra un
po’».
«Hai continuato a svegliarti per tutta la notte,
vero?». Tom sospirò, afflitto, e le
accarezzò i capelli ancora un po’ umidi a causa
del bagno di quella notte. «Vorrei poterti aiutare, ma non
so…».
«Hai già fatto tantissimo, credimi», gli
confidò, rivolgendogli un piccolo sorriso e stringendogli
forte la mano. «L’unica cosa che potresti ancora
fare per me, tu sai qual è».
Quella volta fu Tom a distogliere lo sguardo. «Sono in
ritardo, è meglio che finisca di prepararmi. Non voglio
avere altri problemi con David».
Grace lo guardò mentre si alzava e tornava in bagno. Si
accucciò di nuovo sotto le coperte e strinse forte il
cuscino fra le braccia, provando a riappisolarsi. Incredibilmente, ci
riuscì.
Quando riaprì gli occhi, la suite era ancora immersa
nell’oscurità. Guardando la sveglia a led sul
comodino, si rese conto che aveva dormito solo un altro paio
d’ore, che di certo non le erano bastate per recuperare le
energie. Ma meglio di niente.
Si alzò dal letto sentendo tutti i muscoli indolenziti e le
contusioni farle ancora più male del giorno prima, ma non si
abbatté e scostò le tende dalle finestre,
lasciando che la luce del giorno illuminasse naturalmente
l’ambiente. Purtroppo quella mattina il sole era nascosto
dietro un fitto banco di nuvole grigie, cosa che non
rallegrò l’umore della detective.
Fece per andare in bagno, ma non molto lontano dalla porta vide un
carrello con sopra la sua colazione. Tom doveva aver chiamato il
servizio in camera prima di uscire.
Osservò le brioches spolverate di zucchero a velo disposte
in modo invitante su un vassoio, ma il suo stomaco ancora un
po’ acciaccato non fece i salti di gioia come avrebbe dovuto.
«Magari più tardi», mormorò
lasciando perdere.
In bagno si cambiò, infilandosi un paio di jeans neri e un
maglione blu scuro a collo alto, poi tornò in camera. Si
sedette sul letto portandosi dietro il bicchiere di succo
d’arancia della sua colazione e il telecomando, con il quale
accese la TV a schermo piatto, giusto per non sentirsi completamente
sola in quella stanza.
Il suo sguardo si posò sulla sua borsa, abbandonata accanto
alla valigia dalla notte prima.
La Grace investigatrice era impaziente di immergersi nel caso di suo
padre attraverso la lettura dell’agenda che le aveva
lasciato; al contrario, la Grace aggredita, quella che aveva rischiato
di morire, non ne aveva nessuna intenzione, perché farlo
avrebbe comportato ricordare per l’ennesima volta tutto
ciò che le era successo quella notte.
Quell’agenda era come una tentazione vivente e allo stesso
tempo era qualcosa di cui aveva paura, perché
c’era gente – e lo aveva provato sulla sua pelle
– che era disposta ad uccidere per averla. E lei ora era sola
ed indifesa in quella stanza, sola con quella maledetta agenda.
Si sporse sul comodino e digitò il numero di camera di Dylan
per effettuare una chiamata interna. Dopo un paio di squilli, rispose
con voce assonnata: «Pronto?».
«Guten Morgen. Hast du geschlafen?».
«Grace… Che hai detto?».
La detective ridacchiò. «Vieni a farmi compagnia,
dai».
Nell’attesa che arrivasse, spostò il carrello dal
corridoio e pensò a liberarsi dell’incubo
dell’agenda, tirandola fuori dalla borsa e nascondendola sul
fondo della sua valigia, sotto i vestiti.
Ebbe un istante di cedimento, tanto forte era il desiderio di leggere,
ma fortunatamente durò poco e riuscì a tener fede
alla sua promessa. D’altronde meno ne sapeva, meno pericoli
correva, e non aveva decisamente voglia di essere aggredita ancora, per
di più lontana da casa. E lo stesso valeva per Tom e Dylan:
li avrebbe tenuti del tutto all’oscuro, proprio come se
quell’agenda scritta da suo padre non esistesse, fino a
quando non fosse stata certa che sarebbero stati al sicuro.
Bussarono alla porta e il cuore di Grace iniziò a correre,
nonostante sapesse benissimo che si trattava di Dylan. Ora capiva cosa
doveva aver provato sua madre, cosa voleva dire vivere costantemente
con la paura di essere ferite di nuovo.
«Ehi, Grace, ci sei?», le chiese da dietro la
porta, un po’ preoccupato.
Grace sospirò, sollevata di sentire la sua voce, e gli
aprì. Lui entrò e rimase fermo
nell’ingresso, all’ombra, di fronte a lei. La
detective si barricò di nuovo all’interno della
suite e gli rivolse un piccolo sorriso, per poi avvolgergli le braccia
intorno al collo.
«Se Tom viene a sapere che sono stato qui mi
uccide».
Grace si scostò e lo guardò severamente negli
occhi. «Questa è la prima cosa che dovevi
dire?».
Il poliziotto sospirò, chinando il capo. «Non
saresti dovuta uscire da sola, avresti dovuto…».
«Lo so. Ed è per questo che tu non devi fartene
nessuna colpa, né devi avere paura di Tom: lui sa benissimo
che la stupida sono stata io, ma non riesce a prendersela con me
perché è infinitamente felice che io sia viva,
capisci? Allora ha cercato un altro capro espiatorio. Anzi, due: te e
Bill».
Dylan si coprì gli occhi arrossati di pianto con le mani,
appoggiandosi alla detective. «Bill non c’entrava
assolutamente nulla, perché si è comportato
così?».
«C’è rimasto molto male,
vero?».
Il poliziotto annuì col capo, tirando su col naso.
«Sono certo di sì, anche se non ha fatto altro che
consolare me. Anche lui aveva bisogno di me e io ho pensato solo ai
miei sensi di colpa, non gli sono stato accanto…».
«Si sistemerà tutto, vedrai».
Gli sollevò il viso per far sì che vedesse il suo
sorriso incoraggiante e lo prese per il polso, portandolo in camera da
letto.
«Hai già fatto colazione? Tom ha ordinato il
servizio in camera per un esercito», ridacchiò,
accennando al carrello che aveva sistemato ai piedi del letto.
«A dire il vero non ho molta fame»,
confessò, andandosi a sedere sulla poltroncina di fronte
alla scrivania.
Grace lo osservò e il suo sorriso lentamente si spense: se
non aveva fame, voleva dire che stava davvero male. Ed era tutta colpa
sua.
«Al meteo hanno detto che è probabile che nevichi,
questa notte. Sarebbe bello, no?».
Dylan, con lo sguardo perso fuori dalle finestre, annuì col
capo, ma Grace non era sicura che l’avesse ascoltata
veramente. Infatti, quando si voltò, le disse:
«Ieri ho chiamato Michael».
«Era tanto arrabbiato?».
«Di più. Grace…».
La detective, colpita dai suoi occhi quasi imploranti, si sedette sul
bordo del letto, alzandosi il collo del maglione fino a coprire la
bocca e il livido sulla mandibola.
«Ti scongiuro, dimmi che almeno ne è valsa la
pena».
Grace pensò all’agenda nascosta nella sua valigia,
si morse le labbra sotto il collo del maglione e socchiudendo gli occhi
negò col capo.
Dylan tirò un pugno sulla scrivania, frustrato, ma poi la
raggiunse sul letto e la tenne stretta a sé per un tempo che
sembrò durare un’infinità.
Alla fine, quando ormai era più ora di pranzo che di
colazione, erano riusciti a mangiare qualcosa, spaparanzati entrambi
sul letto, mentre raggiungevano i livelli massimi di zapping mai
conosciuti.
«Oh, ma adesso dovrebbe iniziare il programma dove sono stati
invitati i Tokio Hotel!», esclamò
all’improvviso Grace, con la bocca piena di cereali di mais.
Dylan prese il telecomando e cercò il canale suggeritogli da
lei: il programma era iniziato solo da qualche minuto e la
presentatrice aveva appena iniziato ad introdurre i superospiti di quel
giorno.
Il gruppo entrò in scena con Bill in testa, il quale
ricambiò il caloroso applauso del pubblico in studio con uno
sventolio di mano e il miglior sorriso che riuscì ad offrire.
Dylan lo guardò esterrefatto. «Ma come diavolo ci
riesce?», mormorò, ma Grace, assorta nei suoi
pensieri e con lo sguardo fisso sullo schermo, non lo sentì.
Quella notte era stata difficile per tutti e Bill non era stato da
meno, Dylan ne era certo, soprattutto dopo le parole che il suo gemello
gli aveva rivolto. Ciononostante lui era stato in grado di consolarlo
ed ora sorrideva di fronte alle telecamere. Il poliziotto non ci
sarebbe mai riuscito, ma nemmeno lo invidiava: doveva essere
frustrante, far sì che il mondo non vedesse quello che
realmente provava, e forse era anche un comportamento –
costretto da circostanze esterne, certo – ma pur sempre un
po’ autolesionista: trattenere tutto dentro, fare finta che
tutto fosse perfetto… forse era la cosa che faceva
più male in assoluto.
Grace sbuffò e questo fece tornare Dylan alla
realtà.
«Che c’è?», le
domandò, vedendo il suo viso accartocciato in una smorfia
quasi sofferente.
Lei indicò il televisore con una mano. «Guardalo,
non ci riesce. Ci prova a sorridere e a fare le sue stupide battutine,
ma è… pessimo. Ed è per causa mia.
Sono sicura che in questo momento starà pensando a me: se mi
sentirò sola, se starò
bene…».
«Chiunque reagirebbe così, Grace»,
tentò di consolarla, posandole una mano sulla schiena.
«E comunque a me non sembra che stia andando tanto male.
Magari per te, che lo conosci meglio di me, è evidente che
è diverso dal solito, ma forse per i fan è solo
un po’ assonnato».
Grace si morsicò l’interno della guancia, nervosa.
«Fan che avranno già visto le foto che girano in
rete e penseranno che Tom mi abbia picchiata».
Dylan, scioccato, le chiese che storia era quella e Grace gli fece un
breve riassunto.
«Ma è assurdo!», urlò, rosso
di rabbia. «Come possono pensare che Tom abbia
potuto…! No, i veri fan dovrebbero difenderlo, non credere
alle cazzate che leggono su Internet!».
«Uhm, speriamo che sia così e che questo non
influenzi le vendite del nuovo album…», disse,
anche se titubante, portandosi le mani unite a mo’ di
preghiera di fronte alle labbra. «Fino ad adesso è
andato tutto bene: non gli hanno chiesto niente in proposito. Spero che
David abbia fatto una delle sue magie».
«In che senso?».
«Se non ho capito male, ieri appena David ha saputo da Tom
quello che era successo, ha chiamato la direzione del programma e li ha
costretti a firmare una specie di contratto: loro non avrebbero chiesto
niente a Tom e loro si sarebbero presentati come da
programma».
«Oh».
Dylan posò gli occhi sullo schermo e seguì per
qualche secondo il discorso di Bill, di cui ovviamente non
capì una parola. Il tedesco era forse la lingua
più difficile che avesse mai sentito – dopo il
cinese di China Town – ma quando la parlava Bill aveva un
qualcosa di estremamente affascinante.
Un’idea gli balenò alla mente e un sorriso gli
incurvò le labbra. La detective si accorse della sua strana
espressione ed inarcò il sopracciglio, incuriosita.
Allora il poliziotto disse: «Grace, mi daresti una
mano?».
«Che cos’hai in mente?».
«Una cosa da niente…».
Intanto la conduttrice aveva appena lanciato il video del nuovo singolo
dei Tokio Hotel.
***
Era stata
l’intervista più lunga della sua vita, ad un certo
punto aveva addirittura pensato che non sarebbe più finita.
Ma per fortuna terminò e poterono tornare da David, il
quale, senza nemmeno dargli il tempo di riprendere fiato, li aveva
fatti risalire sul minivan, diretti verso un altro studio televisivo,
dove avrebbero registrato una puntata di un altro programma.
L’unica cosa positiva era che quella volta non sarebbe stato
in diretta.
Con lo sguardo perso fuori dal finestrino scuro, pensò
inevitabilmente a Grace, la sua Grace. Aveva pensato a lei,
preoccupato, per tutta la durata dell’ultima intervista,
chiedendosi continuamente se stesse bene, se fosse riuscita a mangiare
qualcosa, se si sentisse sola nella loro suite… Stava per
chiamarla, perché non poteva più resistere,
quando si accorse che Bill, seduto al suo fianco, lo aveva preceduto
portandosi il cellulare all’orecchio.
«Ciao… Sì, abbiamo finito
adesso», disse a voce bassa, così diversa da
quella felice che aveva simulato durante l’intervista; bassa
come i suoi occhi, che da quella mattina evitavano in continuazione di
incrociare i suoi.
Tom lo guardò stringersi nelle spalle, sfregandosi un
ginocchio con la mano tatuata.
«Ci si fa l’abitudine», rispose ad una
domanda. «Piuttosto tu, che cosa stai facendo?
…Ah. E come sta?». Bill sollevò per un
attimo lo sguardo ed incontrò quello di Tom, il quale fu il
primo a fuggire quella volta, tornando ad osservare la strada che
scorreva sotto le ruote.
«Va bene, salutamela. Ci vediamo dopo, ciao».
Bill terminò la chiamata ed osservò lo schermo
del suo cellulare fino a quando non si oscurò. Stava per
rimetterlo in borsa, quando sentì il ginocchio del gemello
colpire il suo. Si disse che probabilmente non l’aveva fatto
apposta e lo ignorò, nonostante questo gli costasse molta
fatica e gli provocasse l’ennesima fitta al cuore, ma non
poté più farlo quando sentì la sua
voce chiamarlo. Allora lo guardò in viso ed ebbe voglia di
piangere, leggendo ancora quella nota di rancore nei suoi occhi.
«Parlavi con Dylan?».
Il cantante annuì, chinando il viso e facendo finta di
cercare qualcosa di vitale importanza nella borsa.
«Era con Grace?».
«Sì», quella volta rispose, aggiungendo
subito dopo: «L’ha chiamato lei».
Tom sospirò e si massaggiò gli occhi stanchi con
due dita. «Mi dispiace per quello che ho detto ieri, tu non
c’entravi niente».
«Nemmeno Dylan c’entr–!».
«Un passo alla volta», lo interruppe Tom,
regalandogli un sorriso che, per quanto piccolo, gli riempì
il cuore di gioia, assieme al resto del suo discorso.
«Non le pensavo davvero quelle cose, ero solo molto
arrabbiato e spaventato a morte… e dovevo prendermela con
qualcuno. Mi perdoni?».
Bill annuì con un sorriso commosso sulle labbra e lo strinse
fra le braccia.
Appena Tom posò le mani sulla schiena del fratello un
piacevole calore gli avvolse il petto, liberandolo in parte del peso
che lo schiacciava da quella notte, e capì che Grace aveva
ragione, almeno per quanto riguardava suo fratello. Per
Dylan… gli serviva un altro po’ di tempo.
Una serie di lunghissime interviste dopo, finalmente si trovarono di
nuovo nel loro caro minivan per tornare in hotel. Ad attenderli, un
capannello di fan trepidanti che erano riuscite a scoprire dove
pernottavano.
Tom non era affatto in vena di firmare autografi, voleva soltanto
correre nella sua stanza e sincerarsi di persona che Grace stesse bene,
così scese per primo dal minivan e si limitò a
sorridere, passando attraverso lo stretto varco che due bodyguard gli
avevano creato.
Una volta nella hall, si fermò a guardarsi indietro e vide
Bill imitarlo, con i suoi grossi occhiali da sole a coprirgli
metà volto. Quando si accorse del suo sguardo gli sorrise e
Tom ricambiò, felice di aver sistemato le cose con suo
fratello.
Non sapeva davvero come aveva potuto dire quelle cose, accecato
dall’ira e dalla paura, e se ora ci ripensava se ne
vergognava da morire.
«Che c’è, perché quella
faccia?», gli chiese il frontman, posandogli una mano sulla
spalla.
«Io… stavo ripensando al mio comportamento di
ieri», confessò, arrossendo. «Non me ne
capacito…».
«Ehi, mi hai già chiesto scusa e io ci sono
già passato sopra, quindi…».
«No, Bill», lo fermò prendendolo per le
spalle e lo guardò intensamente negli occhi, o almeno ci
provò cercandoli dietro le lenti scure. Il cantante gli
facilitò il compito tirandoseli su, sopra i capelli.
«Voglio sapere cos’hai provato esattamente,
quando…».
Bill scrollò il capo, un sorriso amaro sulle labbra.
«Una parte del mio cervello mi diceva che eri solo sotto
shock e non sapevi quello che dicevi».
«E l’altra parte?».
«L’altra parte… ha visto il disgusto nei
tuoi occhi e mi ha fatto sentire la persona peggiore del mondo, come se
tu ti vergognassi di avere un fratello gay e per questo non fossi degno
di essere il tuo gemello».
Tom si guardò ancora una volta alle spalle: le fan oltre le
porte vetrate, quelle non impegnate a ricevere autografi o a
fotografare Gustav e Georg, li stavano fissando, urlando a squarcia
gola i loro nomi. Così prese Bill per un polso e lo
portò nella sala ristorante semideserta, dove
c’erano solo i camerieri che stavano apparecchiando i tavoli
per la cena. Lì gli avvolse le braccia intorno alla schiena,
stringendolo forte.
«Mi dispiace, mi dispiace davvero»,
sussurrò contro la sua spalla. «Io ti voglio bene
così come sei, Bill, sei il miglior fratello che si possa
desiderare e non ti cambierei per nessun altro al mondo. Non potrei
vivere senza di te, dico sul serio».
Bill ricambiò l’abbraccio e tirò su col
naso, cercando di trattenere le lacrime che gli avrebbero rovinato il
trucco.
«Lo so», soffiò, accarezzandogli la
schiena. «E vale lo stesso per me».
Tom, più che imbarazzato, si scostò e lo
guardò negli occhi, trovandoli lucidi, ma ridenti. Qualche
secondo dopo, infatti, Bill scoppiò a ridere.
«Perché ridi?», gli domandò,
anche se già contagiato.
«Perché sono rari i momenti in cui il duro Thomas
Kaulitz si scioglie un po’! Se ti avesse visto
Molly… sarebbe svenuta, come minimo».
Tom rise e avvolse un braccio attorno alle spalle del gemello, mentre
si incamminavano insieme verso la hall.
«Questi momenti sono rari perché sono rare le
persone che riescono ad entrarmi davvero nel cuore. E a proposito di
Molly… devo richiamarla per raccontarle quello che
è successo veramente».
Bill lo osservò dispiaciuto. «Anche lei ha visto
le foto?».
«Già. E quando ieri notte mi ha chiamato le ho
risposto male».
«Sono sicuro che non avrà creduto a nessuna delle
cose che circolano sul Web, stai tranquillo. E anche se lo avesse
fatto… ti procurerebbe comunque il miglior avvocato sulla
piazza». Bill riuscì a strappargli un sorriso,
proprio quando Gustav e Georg li raggiunsero.
«Ci vediamo dopo a cena?», chiese il bassista,
sistemandosi i capelli in una coda frettolosa.
Quei movimenti gli fecero pensare a Grace e Tom annuì con un
cenno del capo, salutando i compagni ed accennando una corsa per
raggiungere l’ascensore le cui porte stavano per chiudersi.
Sceso al suo piano, raggiunse la suite ed aprì la porta con
il passepartout. Stava per annunciare il suo ritorno, quando si rese
conto che c’era troppo silenzio, anche se le luci in camera
da letto erano accese.
Tom camminò lungo il corridoio in silenzio, affiancando una
parete, e rimase di sasso quando vide Dylan seduto sulla poltroncina di
fronte alla scrivania, rivolto verso il letto, che dormiva con le
braccia incrociate al petto e la testa abbandonata
all’indietro, la bocca semiaperta in un lieve russare. Doveva
essersi addormentato vegliando sul sonno di Grace, completamente
vestita e rannicchiata sul letto, con il suo cuscino stretto al petto.
Sospirò, già consapevole della situazione
imbarazzante che si sarebbe venuta a creare, e si avvicinò a
lui. Appena gli posò una mano sulla spalla per svegliarlo,
Dylan aprì gli occhi e gli intrappolò il braccio
in una morsa, ruotandoglielo dietro la schiena.
«Fermo, fermo, sono io!», gridò a mezza
voce, per non svegliare Grace.
Il poliziotto si accorse dell’errore commesso e lo
lasciò andare subito, il viso arrossato. «Scusa,
è stato un… riflesso incondizionato».
Tom si massaggiò la spalla dolorante e gli lanciò
un’occhiataccia. «Peccato che se fossi entrato con
una pistola saresti morto».
Dylan chinò il capo e sollevò le mani in segno di
resa. Ce l’aveva ancora con lui per ciò che era
successo a Grace, di cui Tom lo riteneva responsabile, e si cacciava in
quest’altro guaio… Se andava avanti
così non sarebbe mai riuscito a farsi perdonare, decisamente.
«Ahm… te ne occupi tu?», gli chiese,
indicandogli la detective.
Tom sollevò le sopracciglia. «Tu che
dici?».
«Okay… allora vado».
Dylan si allontanò, diretto verso la porta, e Tom gli
guardò le spalle, indeciso se dirlo oppure no. Alla fine
chiuse gli occhi, mandando a ‘fanculo il suo orgoglio, e
disse: «Grazie».
Il poliziotto, con la mano già sul pomello, si
voltò e lo fissò, incredulo.
Tom arrossì e, burbero, chiarì: «Grazie
per esserle stato accanto oggi».
«Non… non c’è di
che», rispose incerto, per poi uscire dalla camera con uno
strano senso di pace nel petto.
Guardò la greca dorata che decorava la parete di fronte a
sé e sorrise come un’idiota, prima di allontanarsi
dalla suite con passo sicuro, diretto verso quella di Bill.
Tom ascoltò il suono della porta che si chiudeva
automaticamente alle spalle del poliziotto, poi posò lo
sguardo su Grace e sorrise dolcemente, salendo sul letto e
raggiungendola. Le accarezzò il profilo del viso con il
dorso delle dita.
«Se tu fossi stato qualcuno che voleva farci del male e
avessi tirato fuori una pistola, io ti avrei sentito e saresti morto
prima tu».
Tom percorse con gli occhi il braccio che aveva sollevato da sotto il
cuscino e quando vide che in mano impugnava la sua Glock
deglutì. Però non era tanto la pistola ad averlo
spaventato – okay, forse un po’ –
piuttosto il fatto che avesse ascoltato tutta la conversazione con
Dylan.
«Quindi… non dormivi?».
Grace si girò lentamente, mettendosi in posizione supina sul
letto, sotto di lui, ed aprì i suoi magnifici occhi verdi
per immergerli in quelli di Tom. Gli sorrise e gli posò un
lieve bacio sulle labbra, con una mano che gli accarezzava la guancia.
«Sei stato molto gentile con lui, sono fiera di te».
«Beh…».
Grace gli tappò la bocca con un altro bacio, quella volta
più approfondito, e disse ancora: «Abbiamo
già prenotato il volo: domani torniamo a Los Angeles, a
casa».
«Io… io pensavo che sareste dovuti
rimanere…».
«Abbiamo già chiamato la polizia e abbiamo avuto
la loro approvazione per lasciare il continente, visto che il mio caso
è già risolto e non servo più come
testimone».
Tom si morse il labbro ed annuì. «Mi
mancherai».
«Anche tu», sussurrò. «La
prossima tappa è Monaco, vero?».
«Sì. E poi Zurigo, Parigi, Lione...».
«Voglio un souvenir da tutte le città! Mi basta
anche una cartolina! Me lo prometti?».
Tom si avvicinò al suo orecchio e la strinse più
forte fra le braccia. «Tu mi prometti che non ti caccerai nei
guai?».
«Ci proverò», rispose con un sospiro,
massaggiandogli la schiena.
***
«Dylan! Dylan,
aspetta!».
«Lasciami solo, per favore».
Bill non lo ascoltò e lo prese per mano, costringendolo a
fermarsi nel bel mezzo delle scale antincendio che portavano al
giardino interno dell’ospedale.
Lo guardò intensamente negli occhi, nonostante sapesse
benissimo di avere anche lui un’espressione addolorata, ma
fece del suo meglio per mostrargli con quanta determinazione avrebbe
lottato per farlo sentire un po’ meno colpevole di
ciò che era successo a Grace, perché era ovvio,
ai suoi occhi, che lui non ne era il responsabile, come credeva
erroneamente Tom, accecato da chissà quali orribili
sentimenti.
Bill non osava nemmeno immaginare lo spavento e il dolore che doveva
aver provato sapendo che la sua Grace era stata aggredita e che aveva
rischiato di finire ammazzata come suo padre, con un proiettile
conficcato nel cranio.
Lo raggiunse sullo stesso scalino e gli prese il viso fra le mani, la
fronte contro la sua.
«Non sei stato tu a farle questo, non sei stato
tu», gli sussurrò, tentando di tenerlo fermo
mentre lui agitava il capo, ormai singhiozzante.
«È come se lo fosse, Bill! L’agente
Crawford non l’avrebbe mai permesso, le sarebbe stato
incollato addosso anche la notte!».
«Ma tu non sei l’agente Crawford! E hai sentito
quello che ha detto Grace, no? È stata una sua scelta,
nonostante sia stata totalmente folle, e tu…».
«Io ho perso di vista il senso di questo viaggio»,
disse con improvvisa calma e la voce pacata, anche se non aveva smesso
di piangere. Gli prese a sua volta il viso fra le mani e lo spinse
verso il corrimano opposto, mozzandogli il respiro.
«Non so come, ma il mio unico pensiero era quello di vedere
Berlino, di fare tante foto da mostrare alla mia famiglia che non
è mai uscita dai confini degli Stati Uniti, di toccare la
neve con le mie mani e stare con te… Mi sono completamente
dimenticato che Grace era venuta qui per investigare
sull’assassinio di suo padre, che era probabile che una
pericolosa organizzazione criminale ci seguisse e provasse a farle del
male, tarpando le ali alla dea Vittoria perché non fosse
dalla sua parte».
Bill, con gli occhi sgranati, mormorò: «Stai
delirando, Dylan. Non puoi davvero pensare questo, perché se
tu avessi saputo quello che sarebbe successo ti saresti fatto uccidere
pur di proteggerla!».
«Se avessi saputo… io avrei dovuto già
prevederlo e non lasciarla mai da sola!».
«Basta, Dylan. Mi hai capito? Basta. Fare il pazzo
isterico non ti aiuterà, non aiuterà Grace a
superare questo momento...».
Il poliziotto
sollevò gli occhi arrossati e gonfi di lacrime e
fissò i suoi castani e stanchi.
«E cosa dovrei fare?», gli domandò con
tono supplichevole e la voce incrinata.
Sembrava un bambino sperduto e senza più nessuno al mondo,
tanto che Bill sentì il suo cuore sprofondare, pesante come
piombo, e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu
quella di sporgersi sul suo viso per far scontrare le loro bocche in un
bacio irruento e disperato, soprattutto da parte del poliziotto, il
quale si aggrappò a Bill come se fosse il suo unico
salvagente, quello che gli avrebbe impedito di affogare, quando invece
anche lui stentava a stare a galla.
Espirò una
voluta di fumo nell’aria e la guardò svanire
lentamente, risucchiata dal buio profondo di quella notte senza luna,
nascosta dietro le nuvole che avevano velato il cielo per tutto il
giorno.
Bill era stanco, aveva davvero voglia di gettarsi sul letto e dormire
profondamente, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito del tutto.
Probabilmente anche durante la notte avrebbe dovuto lottare, come aveva
fatto durante tutti gli impegni lavorativi, per rilassarsi e al tempo
stesso preoccuparsi per Grace e per Dylan. Soprattutto per Dylan,
perché non sopportava l’idea che si sentisse
così male, anche a causa del suo gemello. Fortunatamente lui
e Tom avevano risolto ogni loro problema, cosa che gli aveva levato un
grande peso dal petto, ma la questione era un po’ differente
sul fronte Tom/Dylan, in quanto suo fratello non sembrava deciso a
volerlo perdonare presto.
Stava facendo un altro tiro nervoso alla sua sigaretta, quando
sentì bussare alla porta. Andò ad aprire con una
corsetta, per evitare che il vento si fumasse il resto, e con grande ed
inspiegabile sorpresa – sì, insomma, ormai era il
suo compagno, perché ancora si stupiva che lo venisse a
cercare? – si trovò di fronte Dylan.
«Ciao, entra. Scusa, ho la sigaretta sul balcone!»,
urlò un po’ in inglese e un po’ in
tedesco, correndo subito fuori per recuperarla e portarsela alle labbra.
Fece per voltarsi e dire a Dylan di raggiungerlo, ma non ce ne fu
bisogno. Si sentì stringere da dietro, le braccia possenti
di Dylan che formavano una X sul suo petto e le sue mani che gli
cingevano le spalle. Un brivido di piacere gli attraversò la
spina dorsale quando sentì le sue labbra calde premute sul
collo, prima sulla nuca e poi sotto l’orecchio, e chiuse gli
occhi mordendosi le labbra.
«Bill...», sussurrò suadente Dylan, il
cui respiro caldo sulla pelle gli provocò un altro brivido.
«Ma hai freddo?».
Il cantante negò con la testa, anche se si strinse di
più a lui, causando anche al poliziotto qualche problema di
autocontrollo.
Dylan non avrebbe mai pensato di dirlo, ma col tempo la sua attrazione
per Bill era diventata sempre più forte e le sue reazioni ai
suoi atteggiamenti sensuali e provocanti… lo eccitavano.
Eccome, se lo facevano! Eppure ancora se ne vergognava e cercava di
reprimere tutto quanto, dicendosi che era troppo presto e nascondendo
il vero motivo per cui si comportava in quel modo: aveva paura. Paura
di andare oltre i baci e gli abbracci, di provare qualcosa di
totalmente diverso, di godere facendo l’amore con un uomo.
«Beh, allora… okay», si
schiarì la voce e provò a riprendere il filo di
discorso, ovvero le due frasi in tedesco che Grace gli aveva insegnato.
Peccato che non si ricordasse più un accidenti, per colpa di
Bill!
«Ahm…», aprì la mano destra,
con cui stringeva la spalla sinistra del cantante, e provò a
sbirciare, ma aveva le mani così sudate che
l’inchiostro si era sbavato e lui… era perduto.
«Merda», mormorò fra sé, ma
Bill lo sentì e ridacchiò, prendendogli la mano e
portandosela di fronte al viso. Per fortuna era la scrittura di Grace
e, anche da sbavata, era sicuramente più comprensibile di
quella del poliziotto.
Bill riuscì a leggere quasi subito e, stupito,
ripeté a bassa voce: «Es tut mir leid.
Ich liebe dich. C’è davvero scritto
così?». Si girò fra le sue braccia e
Dylan arrossì, trovandosi di fronte ai suoi occhi grandi e
luminosi. Questo non c’era nel piano.
«Io, ecco… credo di sì».
Bill guardò ancora una volta il palmo scarabocchiato della
sua mano, indeciso e col cuore che batteva velocemente nel petto.
«Fai la traduzione», disse infine, tornando a
fissarlo intensamente negli occhi.
Dylan deglutì e portò una mano sulla sua guancia,
accarezzandogli piano i capelli e l’osso della mandibola.
«C’è scritto che… che mi
dispiace. Per come ho reagito ieri sera: sono stato un egoista, ho
pensato solo a me, quando in realtà anche tu soffrivi per
quello che aveva detto Tom. E poi… poi
c’è scritto…», prese un bel
respiro, socchiudendo gli occhi, e terminò coraggiosamente:
«C’è scritto che ti amo».
«Ed è così?»,
domandò piano Bill, dopo qualche secondo di infinito
silenzio, rotto soltanto dai suoni provenienti dalla strada, svariati
piani sotto di loro.
«Ecco, io l’avevo detto a Grace che era troppo
presto, ma lei mi ha detto che sarebbe andato bene
e…».
«Shhh», gli posò un dito sulle labbra
per far terminare la sua parlantina. «Voglio sapere se tu lo
pensi davvero, non che cosa ha detto Grace».
Dylan cercò la risposta nel cielo e ciò che
ottenne fu un pizzicore gelato sul naso. Confuso se lo toccò
e lo scoprì bagnato, fino a rendersi conto con meraviglia
che aveva appena iniziato a nevicare.
Bill, anche lui sorpreso dal tempismo della neve, quella neve che
piaceva tanto al suo compagno, sentì proprio le sue dita
prendergli il mento e fargli abbassare il volto. Posò gli
occhi sul suo sorriso colmo di tenerezza, poi nei suoi, caldi e
profondi, e il suo cuore mancò un battito.
«Io penso di amarti, Bill», gli rispose
semplicemente, ora senza più imbarazzo né
vergogna.
Il cantante ebbe come l’impressione che i fiocchi di neve che
gli cadevano addosso evaporassero all’istante, tanto alta era
la temperatura all’interno del suo corpo, e col cuore ormai
in panne gli gettò le braccia al collo, travolgendolo in un
bacio appassionato.
Erano rare le volte in cui Dylan si lasciava andare a quel tipo di
effusioni, ancora un po’ restio, ma quella volta
cacciò in un angolo la sua parte etero e ricambiò
il bacio, infilando le mani fra i capelli di Bill e camminando
all’indietro per rientrare nella suite, prima di ammalarsi
entrambi.
Ad un certo punto però Dylan incontrò il bordo
del materasso e vi cadde sdraiato sopra, trascinando con sé
Bill, che inevitabilmente gli finì addosso.
I loro visi avvamparono, ma nessuno dei due provò a
spostarsi, tanto che Bill, stupito dal comportamento fin troppo
accondiscendente di Dylan, lo guardò negli occhi per scovare
qualche traccia di paura, il minimo segno che lo avrebbe portato ad
alzarsi e a far finta – a malincuore – che non
fosse successo nulla.
Non vi trovò niente di tutto ciò e, in
più, Dylan gli aveva posato di nuovo una mano fra i capelli,
accarezzandoli dolcemente, le labbra dischiuse, come cristallizzate su
una domanda inespressa.
Bill allora si avvicinò e posò le labbra sulle
sue. Le posò soltanto, in attesa che Dylan facesse qualcosa,
qualsiasi cosa: se si fosse scostato allora si sarebbero fermati
lì, se invece avesse risposto…
Dylan rispose, accarezzandogli il labbro inferiore con la lingua, e
Bill sobbalzò. Aveva sognato quel momento ancor prima che
diventassero una coppia ed ora… ora ne era improvvisamente
terrorizzato. In fondo non sarebbe stata la prima volta con un uomo
solo per Dylan, ma anche per lui. Non sapeva cosa sarebbe successo, come,
e ne aveva un po’ paura.
Dylan lasciò scivolare la mano dai capelli sulla sua
schiena, di cui ne accarezzò la sinuosa linea della spina
dorsale, fino a scendere al fondoschiena, che strinse in modo delicato.
«Vuoi che mi fermi?», gli chiese Dylan a bassa
voce, notando che si era irrigidito improvvisamente fra le sue braccia.
Bill scosse il capo con fermezza, anche se con gli occhi chiusi, e si
gettò sulle sue labbra, tanto impetuosamente da farlo
somigliare ad un vero e proprio assalto, in una battaglia in cui, ora
Dylan lo sapeva, stavano combattendo entrambi.
«E va bene», sussurrò, prendendogli il
maglioncino e la maglietta dai fianchi e tirandoglieli via insieme,
lasciando che cadessero a terra. Quindi lo fece cadere sdraiato sul
letto e lo guardò dall’alto prima di chinarsi su
di lui per baciargli il collo, le clavicole, il piercing al capezzolo
sinistro, e poi giù fino all’ombelico.
Bill, ormai un mucchietto di pelle d’oca, si
sollevò e gli levò a sua volta la maglietta per
potersi aggrappare alle sue spalle forti e sentire la sua pelle contro
la sua.
«Sei bollente», disse, il viso contro il suo collo
taurino.
Dylan ridacchiò. «Anche tu non scherzi, anche se
hai le mani congelate».
Gli occhi di Bill luccicarono a quell’affermazione e un
sorrisetto strano si dipinse sulle sue labbra, tanto che Dylan si
domandò cosa volesse fare. Lo scoprì poco dopo,
perché sentì una mano di Bill percorrergli il
petto, dai pettorali agli addominali, e scendere fino alle ossa a V del
bacino. Dylan gli sorrise, perché aveva resistito e non
aveva aperto la bocca per lamentarsi, ma l’aprì,
sconvolto, quando capì che Bill non voleva fermarsi. Infatti
gli slacciò il bottone dei jeans e sfruttò il
passaggio per infilarvi la mano e sfiorare il suo membro,
improvvisamente stretto nei boxer.
«B-Bill…», balbettò con gli
occhi sgranati e il fiato corto.
Sollevò il sopracciglio e fu lui quella volta a domandargli:
«Vuoi che mi fermi?».
Dylan pensò velocemente alle possibilità che
aveva e capì che, no, non voleva che si fermasse. Ma era
anche così difficile, non sapere come comportarsi!
«Lo prendo per un no», disse Bill, aumentando pian
piano la presa. Dylan strozzò un gemito e nascose il viso
contro il suo collo.
Il cantante gli sfilò i jeans, aiutandosi anche con i piedi
quando gli arrivarono alle ginocchia, e gli prese le mani nelle sue per
guidarlo e far sì che anche lui lo spogliasse. Dylan, anche
se incerto, glieli tolse e rabbrividì sentendo la mano di
Bill vagare ora sotto ai suoi boxer, privandolo
anche di quelli.
«Dylan, tu dimmi qualcosa e io mi fer–».
Il poliziotto non lo lasciò finire, intrappolandogli le
labbra in un bacio.
«O stasera, o mai più», gli
sussurrò già col fiato corto.
Così aveva deciso, perché era sicuro che se si
fosse fermato non avrebbe più trovato il coraggio per farsi
avanti.
Bill glielo prese in mano ed iniziò subito a percorrerlo, su
e giù, spezzando il fiato a Dylan, il quale continuava a
baciarlo, anche a costo di rimanere senza ossigeno nei polmoni.
Quando venne soffocò l’orgasmo contro la pelle
della sua gola e Bill gettò la testa all’indietro
sentendo all’improvviso la mano di Dylan posarsi sul suo
sesso duro. Il poliziotto gli levò i boxer con delicatezza,
anche se lui avrebbe tanto voluto che glieli strappasse via, talmente
erano d’impiccio, ed iniziò ad ansimare ricevendo
da Dylan lo stesso trattamento che aveva riservato a lui. Solo che Bill
non si trattenne e quando raggiunse l’apice del piacere
gridò, infilando le unghie fra le scapole del suo compagno.
«Ehi, mi hai quasi rotto un timpano», gli disse
dolcemente, baciandogli la guancia diverse volte.
«Scusa, è che…».
«Sono bravo».
Bill ridacchiò. «Sembra di sentir parlare
Tom».
«Perché, ti sei fatto fare una sega anche da
lui?», gli chiese con tono di voce scandalizzato, ma
palesemente finto.
Bill scoppiò a ridere, tirandogli uno schiaffetto sulla
guancia, e Dylan si unì a lui, tornando ad accasciarsi sul
suo corpo magro, ma anche resistente. Non aveva mai notato la sua vera
massa muscolare, forse perché non ci aveva mai fatto davvero
caso fino a quel momento. E anche se non aveva alcuna esperienza a
riguardo, era il ragazzo più bello che avesse mai visto.
«Dylan…».
«Uhm?».
«Voglio sentirti dentro di me».
Il poliziotto smise improvvisamente di accarezzargli i capelli e si
sollevò un poco sui gomiti per guardarlo intensamente negli
occhi e capire se stesse scherzando o meno. No, non stava affatto
scherzando.
«Ma, ma… io non so come…»,
balbettò, più che a disagio, e Bill sorrise
candidamente.
«Credi che io ne sappia più di te? Prima o poi
dovremo pur imparare… tanto vale iniziare».
«Sei sicuro? Possiamo anche fare un’altra
volta…».
«Non vuoi fare l’amore con me, Dylan?».
Dylan si diede una
rapida occhiata intorno, corrucciato. «Cosa?! No,
io…!».
Bill gli sorrise e lo
prese per la nuca per farlo avvicinare alle sue labbra e sussurrargli:
«Allora smettila di parlare», prima di baciarlo.
Dylan posò
istintivamente le mani sui suoi fianchi, ma la cosa non fu
così immediata, infatti toccò a Bill fargli
notare che probabilmente lui avrebbe dovuto girarsi, prima. Dylan,
più che in imbarazzo, restò immobile a fissarlo
mentre si posizionava come meglio credeva. Quindi si
avvicinò a lui e lo sentì tremare quando lo prese
per i fianchi, dopo avergli accarezzato la schiena con entrambe le
mani, ed aderì a lui.
«Dimmelo se
ti faccio male, okay?», quasi lo supplicò e per
colpa della sua più completa ignoranza
dell’argomento non gli venne nemmeno in mente di utilizzare
il preservativo: lo penetrò e basta, cercando di essere il
più delicato possibile.
Ciononostante entrambi
trattennero il respiro, totalmente presi alla sprovvista dal dolore
misto al piacere che provarono, ma per Bill fu un vero shock, tanto che
sentì le lacrime pungergli gli occhi, che chiuse prontamente
per non far tirare indietro Dylan, il quale iniziò a
muoversi con gentilezza dentro di lui, ansimando e strappandogli
diversi gemiti.
«Va tutto
bene?», gli chiese ad un certo punto, non del tutto certo che
fossero solo di piacere.
Bill si
limitò ad un cenno affermativo del capo: sapeva che la sua
voce l'avrebbe tradito, nel caso avesse avuto abbastanza fiato per
pronunciare almeno qualche sillaba.
In totale non durò molto, ma quando Dylan venne,
sprigionando un calore immenso dentro di lui, Bill finse di aver
raggiunto anche lui l’orgasmo e sollevato rilassò
tutti i muscoli rimasti in tensione fino ad allora, sentendo il cuore
battergli furiosamente nella cassa toracica e il suo respiro faticare
per stargli dietro.
Dylan si lasciò cadere al suo fianco e guardò il
soffitto per qualche secondo, poi si voltò alla ricerca
dello sguardo del compagno e vide una lacrima scivolargli lungo la
tempia.
«Ehi, ehi…», lo strinse forte fra le
braccia, nascondendogli il viso contro il suo petto ed accarezzandogli
ancora una volta i capelli, come solo lui sapeva fare. «Oh,
Bill… avresti dovuto fermarmi. Ti ho fatto tanto
male?».
Il cantante scosse il capo, tirando su col naso, e sollevò
il viso verso il suo. «Resta con me questa notte, per
favore».
«Certo, certo che resto con te», gli
baciò la fronte e lo cullò fra le sue braccia
fino a quando non lo sentì abbandonarsi a quelle di Morfeo,
che ben presto avvolsero anche lui, trasportandolo in un sonno
pacificatore.
La mattina dopo, Bill fu il primo a svegliarsi e si trovò
ancora fra le braccia di Dylan, proprio come gli aveva promesso.
Gli sorrise, accarezzandogli lievemente la guancia, ma quando si mosse
per scendere dal letto la sua espressione cambiò,
tramutandosi in una sofferente.
Era inutile nasconderlo: gli aveva fatto male e il dolore gli aveva
impedito di godere pienamente, anche se a tratti aveva provato del
piacere.
Si chiese se sarebbe stato sempre così e sorrise divertito,
pensando che somigliava tantissimo ad una ragazzina al suo primo
rapporto sessuale. Ora capiva cosa provavano quelle povere verginelle!
E non era affatto divertente.
«Bill?».
Alla voce roca di Dylan che invocava il suo nome, Bill posò
i piedi a terra e voltò il capo verso di lui, che lo
guardava dispiaciuto.
«Stai bene?», gli chiese ancora.
Il cantante annuì, ma non riuscì a sostenere a
lungo il suo sguardo indagatore – aveva già
captato puzza di bugia – e sospirò chinando il
viso.
«Mi fa un po’ male, ma passerà.
Giusto?».
Dylan si tolse le coperte di dosso e lo raggiunse, cingendogli le
spalle da dietro.
«Mi dispiace», gli sussurrò
all’orecchio, davvero mortificato.
«Oh no, non ti farai i sensi di colpa anche per questo,
spero!», urlò con un sorrisino divertito sulle
labbra, prendendogli il viso fra le mani.
Dylan ridacchiò ed abbassò lo sguardo, posando la
fronte contro la sua. «Stupido. La prossima volta sarai tu
a… hai capito».
Bill sgranò gli occhi, allontanandosi. «Ah, non
pensarci nemmeno! Fammi abituare prima a questa posizione,
poi…».
«Ma…!».
«Niente ma! Così ho deciso e
così sarà!». Si alzò dal
letto, impettito, e si diresse verso il bagno, nudo com’era,
stringendo i denti e facendo di tutto per non dare a vedere che
zoppicava.
«Sono tanto ridicolo?», domandò quando
arrivò in bagno, lontano dai suoi occhi.
Sentì i passi di Dylan raggiungerlo e lo vide alle sue
spalle, riflesso nello specchio di fronte al lavandino.
Gli rivolse un altro sorriso dolce e gli passò una mano sui
capelli, annuendo. «Però sei anche il ridicolo
più carino che conosca».
Bill si voltò e gli gettò le braccia intorno al
collo, stringendolo forte. «Grazie, Dylan».
«Ahm… com’era? Ich
liebe… dich? La pronuncia è
giusta?».
Il cantante ridacchiò ed annuì, stampandogli un
bacio sulle labbra dopo avergli sussurrato: «Ich
liebe dich auch».
***
«Ma tu guarda chi si
è degnato di arrivare! Avevi per caso intenzione di farci
perdere l’aereo?!», gridò Grace, seduta
assieme a Tom ad un tavolino della sala ristorante.
Dylan si portò una mano dietro la nuca, evidentemente a
disagio, e cercò lo sguardo complice di Bill, per poi dire:
«Scusami, mi sono svegliato tardi».
Grace inarcò le sopracciglia e all’improvviso un
sorrisetto malizioso si fece spazio sul suo viso, afferrando
ciò che quei due avevano sottinteso scambiandosi quello
sguardo e che avrebbero voluto tenere segreto, almeno per un
po’.
«E va bene, per questa volta ci passo sopra!»,
esclamò alzandosi in piedi e stiracchiandosi il braccio
sano. Si avvicinò a Dylan, gli puntò il dito
contro il petto ed abbassò la voce, ma non troppo: voleva
che Tom riuscisse a sentire.
«Ma guai a te, se capiterà un’altra
volta». E, voltandosi verso il cantante, gli fece un
occhiolino: «Ci siamo capiti, Bill?».
Il cantante arrossì da capo a piedi e come se non bastasse
incrociò lo sguardo sperduto di Tom, il quale, come se una
vocetta gli avesse appena suggerito all’orecchio
ciò a cui Grace aveva voluto alludere, ebbe la stessa
reazione, aggravata dal fatto che rischiò di mandare di
traverso il caffè che stava bevendo.
«Bene, possiamo andare ora? Siamo già in
ritardo!».
«E io non faccio colazione?», chiese Dylan,
portandosi una mano sullo stomaco.
Grace sorrise. «Magnifico, ti è tornato
l’appetito! Mangerai sull’aereo, okay?».
Il chitarrista, ancora mezzo sconvolto, si alzò e tolse di
mano la valigia che Grace aveva cercato di trasportare da sola. Lei lo
ringraziò e lui annuì, anche se non aveva smesso
un attimo di lanciare occhiate incuriosite al fratello, il quale
però non sembrava avere niente di diverso dal solito.
«Speriamo non se ne accorga, speriamo non se ne
accorga», mormorò Bill, tremendamente in ansia,
accompagnando Dylan nella hall.
Fuori dall’hotel c’era il taxi che li avrebbe
portati all’aeroporto e che in realtà li stava
aspettando già da una decina di minuti.
«Tranquillo, non si nota quasi più», lo
rassicurò il poliziotto.
«Quasi, hai detto bene».
Si fermarono a poca distanza da Tom e Grace, che si stavano salutando
abbracciandosi.
Grace, appoggiata alla spalla del chitarrista, li guardò e
disse loro in labiale: «Vi ho scoperti».
I due arrossirono e si salutarono con un frettoloso abbraccio prima che
Tom si voltasse e li vedesse scambiarsi troppe smancerie.
Una volta che anche Tom ebbe salutato Dylan – con una fredda
stretta di mano – e Bill Grace, la detective e il poliziotto
uscirono dall’hotel, caricarono le loro valigie sul taxi e vi
salirono, salutandoli con una mano per l’ultima volta.
Aspettarono che il taxi scomparisse dalla loro vista, poi si voltarono
l’uno verso l’altro, creando altro imbarazzo.
«Allora, io, ehm… torno in camera: devo finire di
preparare la valigia e di sistemare… ho lasciato un
po’ di casino», disse Tom, e Bill
replicò subito: «Sì, anche io in
effetti».
Ma invece di separarsi, si trovarono ancora più vicini,
stretti nell’ascensore con un altro paio di persone.
«Tutto bene?», gli chiese allora Bill, giusto per
spezzare il silenzio.
«Sì, tutto okay. E tu?».
«Alla grande».
«Bene».
Tom alzò gli occhi sui numeri dei piani che si illuminavano
uno dopo l’altro e quando non riuscì
più a resistere gli chiese a bassa voce: «Sei
sicuro che non sia successo niente di cui tu mi
voglia…?».
«Sono arrivato! Ci vediamo dopo Tom, ciao!»,
urlò Bill, schizzando fuori dall’ascensore ed
incamminandosi in fretta verso la sua suite.
Si voltò un’ultima volta e vide Tom osservarlo
circospetto e anche un po’ preoccupato, mentre infilava la
chiave magnetica un paio di porte più in là,
sull’altro lato del corridoio.
Aveva appena fatto un’altra figura di merda: si era
dimenticato che anche suo fratello aveva la stanza su quel piano.
Deviò il suo sguardo e si sbrigò ad entrare nella
suite, appoggiandosi alla porta con le spalle e traendo un profondo
respiro una volta al sicuro.
Sapeva che non avrebbe potuto scappare per sempre, ma… come
diavolo avrebbe fatto a dirgli che aveva fatto l’amore con
Dylan?!
***
Erano partiti da quasi due ore
e Dylan non aveva fatto altro che pensare alle parole e agli sguardi
che Grace aveva rivolto a lui e a Bill. Non c’erano dubbi che
fosse una detective acutissima, ma com’era possibile che
fosse riuscita a scoprirli solo guardandoli in faccia?
Prese il bicchiere di succo d’arancia posato sul suo tavolino
e ne bevve un sorso, sbirciando in direzione della sua amica con la
coda dell’occhio. Stava sfogliando una rivista che aveva
comprato in aeroporto per passare le lunghissime ore di viaggio, con
gli occhiali da sole sugli occhi, un sorriso furbo dipinto sulle labbra
e la borsa stretta fra le gambe.
«Ehi, quella dovresti metterla sotto al sedile,
l’hanno detto pri–».
«Sta benissimo lì
dov’è», lo interruppe Grace,
stringendone con più forza la tracolla, arrotolata intorno
al palmo della sua mano.
Dylan sollevò il sopracciglio, insospettito, ma ben presto
se ne dimenticò, osservando la giovane hostess che lo aveva
già servito portandogli la colazione. Stava percorrendo il
corridoio, dispensando sorrisi e chiedendo ai viaggiatori se si
sentissero a loro agio o volessero qualcosa da bere o da mangiare.
Dylan non poté non notare le belle gambe, in mostra sotto la
gonna lunga fino alle ginocchia, la curva dei fianchi e quella del
seno, ma se ne pentì subito, pensando a Bill.
L’assistente di volo si fermò al suo fianco e
quando i loro sguardi si incrociarono il suo sorriso si
ampliò.
«È tutto a posto qui? Vuole dell’altro
succo d’arancia, signore?».
Dylan arrossì e boccheggiò, lottando contro il
desiderio di posare gli occhi sul suo seno prosperoso. Per fortuna
Grace accorse in suo aiuto, sporgendosi verso di lui e stringendogli
forte la mano sul bracciolo che condividevano.
«Lo scusi, signorina, è piuttosto
assonnato».
«Oh, se desidera posso portarle un cuscino,
oppure…».
Grace strinse le labbra in un sorriso e si batté una mano
sulla spalla. «Non ce n’è bisogno,
grazie tante. Dai tesoro, riposati un po’». Gli
avvolse il braccio attorno al collo e Dylan resse il suo gioco,
appoggiando la testa nell’incavo della sua spalla e chiudendo
gli occhi.
L’hostess sorrise ancora cortesemente e si
allontanò.
«È andata?», sussurrò Dylan
poco dopo, aprendo un occhio per sbirciare.
«Sì», rispose la detective, tornando
alla sua rivista.
«Oh, grazie a Dio».
Si sentiva davvero sollevato che quella tentazione vivente fosse
sparita alla sua vista, ma nonostante questo si sporse sul corridoio e
la prima cosa che vide fu il suo sedere ondeggiante. Il cuore gli
schizzò in gola, ma non riuscì a distogliere
comunque lo sguardo, cosa che costrinse Grace ad intervenire ancora una
volta, afferrandolo per un orecchio.
«Ahi, mollami, mi fai male!», si
lamentò, tornando seduto composto sul sedile.
Grace lo lasciò e con gli occhi sulle pagine della rivista
schioccò la lingua contro al palato. «Non ti
vergogni a guardare una donna, dopo quello che è successo
con Bill?».
«Tu… tu… Come fai a
saperlo?!», gridò a mezza voce, scioccato, mentre
si abbassava sul sedile, manco volesse sprofondarci dentro e sparire
alla vista di tutti.
«Non ne ero certa, me lo hai detto tu adesso».
Dylan vide il sogghigno disegnato sulle sue labbra ed ebbe quasi voglia
di insultarla, ma non lo fece. Si afflosciò ancora di
più, come privato di ogni energia, e si portò le
mani sulla testa.
«Sono un idiota», mormorò, davvero
dispiaciuto.
«Su, occhio non vede cuore non duole», lo
confortò, dandogli una pacchetta sulla spalla. «Ma
dovrai imparare a controllarti, okay? Non ci sarò sempre io
a trattenerti!».
«Hai ragione», le sorrise. «Grazie,
Grace».
La detective ricambiò il sorriso, ma presto prese una
sfumatura maliziosa e i suoi occhi si accesero di curiosità,
mettendo in allerta il poliziotto. Infatti, gli chiese senza alcun
indugio: «In cambio di questa perla di saggezza, mi
racconteresti tutto quello che è successo?».
«Cosa?! No! Ti sembra per caso che io ti abbia mai chiesto
com’è stato andare a letto con Tom?».
Grace si portò una mano sul mento, meditabonda.
«No, non mi pare… Ma avresti voluto
farlo!».
Dylan sobbalzò e si guardò intorno fugacemente,
sempre più in imbarazzo, per assicurarsi che nessuno li
stesse ascoltando. Si voltò di nuovo verso la detective e
fissò gli occhi nei suoi: «È vero, ma
è diverso!».
«E in che cosa sarebbe diverso? Sentiamo».
Si mise a braccia incrociate, la rivista chiusa sopra le borsa, e
rimase in silenzio, in attesa. Dylan balbettò cose senza
senso per un po’ e alla fine, anche un po’ in pena
per lui, decise di lasciar perdere.
«Come non detto», sbuffò agitando una
mano. Poi gli rivolse un sorriso dolce, intrecciando ancora le dita
delle loro mani. «Almeno dimmi se è stato
bello».
Dylan ricambiò lo sguardo intenso e alla fine cedette. Si
abbandonò contro il poggiatesta e chiuse gli occhi,
accennando un sorriso.
«Sì, è stato bello. Anche se
Bill…».
«Sì, ho notato la sua andatura…
sbilenca, stamattina», gli risparmiò
l’imbarazzo di dover dire che gli aveva fatto male e gli
accarezzò la guancia a mo’ di consolazione.
«Vedrai che con l’esperienza migliorerete, ne sono
sicura».
«Già… Oddio, è troppo strano
essere tornati al punto di partenza. Mi sento come se avessi di nuovo
sedici anni!».
«Tu hai fatto sesso per la prima volta a sedici
anni?», chiese Grace, sorridendo. «Avrei voluto
vederti! Intendo da ragazzino, ovviamente».
Dylan chiuse gli occhi in un’espressione che dimostrava tutta
la sua soddisfazione al ricordo.
«Ero davvero molto affascinante, proprio come lo sono
adesso».
«Oh, non ne dubito… E chi è stata la
fortunata?».
«Una che frequentava la mia stessa compagnia, la sorella di
un mio amico… mi sono beccato pure un pugno da lui per
averla scopata! Il fatto è che aveva fatto lei la prima
mossa, io non l’avrei nemmeno…». Lo
sguardo tutt’altro che convinto di Grace bastò per
fargli cambiare idea, ridendo: «Okay, ci avrei provato
comunque. E tu? A quando risale la tua prima esperienza?».
Grace appoggiò meglio la schiena contro il sedile e
guardò fuori dal finestrino, immersa nei suoi pensieri, fino
a quando non ricordò perfettamente il viso del ragazzo che
le aveva tolto la verginità.
«Anche io avevo sedici anni e lui si chiamava
Nikolay».
«Russo?», tirò ad indovinare Dylan,
sorpreso.
Grace annuì. «Giocava nella squadra di rugby della
mia scuola, quindi immaginati un armadio con i capelli biondi e due
occhi di ghiaccio. Non potrò mai dimenticarmelo, anche
perché io lo odiavo e lui odiava me».
«E allora, come…?».
«Aspetta, lasciami finire. Mio padre, collaborando con la
polizia, aveva fatto arrestare suo zio, se non ricordo male, e lui ce
l’aveva a morte con tutta la mia famiglia, compresa me. Un
giorno però fummo invitati alla stessa festa, a casa di una
smorfiosa che entrambi non potevamo nemmeno vedere,
così… ci siamo messi a parlare. Alla fine non era
tanto male e capii ciò che mi aveva sempre detto mio padre:
“Se una mela è marcia, non vuol dire lo sia tutto
l’albero”. Se suo zio commerciava armi illegalmente
non voleva dire che tutta la famiglia era fatta con lo
stampino».
«Vai al sodo, Grace! Come ci sei finita a letto?».
«Parlando avevamo bevuto più del dovuto e ci
eravamo messi in testa di fare uno scherzo alla festeggiata, mettendole
a soqquadro la camera, ma quando ci arrivammo io inciampai in un
orribile peluche, mi aggrappai a lui per non cadere, con
l’unico risultato di finire uno sopra l’altro sul
letto. Ci siamo guardati negli occhi, ridendo a crepapelle,
e… è successo».
«Beh, non proprio una cosa romantica», disse Dylan,
divertito. «E te ne sei pentita, la mattina dopo?».
Grace parve pensarci su un attimo, poi scosse il capo sorridendo.
«No, era stato bello in fondo. Credo che se potessi tornare
indietro, lo rifarei. Si era creata una specie di sintonia…
non so come spiegarlo».
Il poliziotto si portò le mani dietro la testa e si rese
conto con piacere che era da tanto tempo che non parlavano
così tranquillamente di qualcosa che non fosse il caso
oppure la sua situazione incasinata con Bill. Gli era mancato da
morire.
«Sarei curioso di sapere che cosa direbbe Tom, se sapesse del
russo della tua prima volta».
«Probabilmente quello che direi io sentendo la storia della
sua prima volta. Ho letto così tanto su di lui e sulle sue one-night
stands, quando ancora li pedinavo… Doveva essere
un vero pervertito, da ragazzino».
Il sorriso di Dylan si affievolì, ricordando la storia che
il chitarrista stesso gli aveva raccontato quando erano andati in
palestra insieme.
Tom era cresciuto troppo in fretta, aveva fatto sesso per la prima
volta prematuramente e solo per mostrare ai suoi compagni di classe che
non era un finocchio, rovinandosi con le sue stesse
mani quell’esperienza indimenticabile, e poi aveva continuato
anche quando la loro carriera da musicisti aveva preso il via ed
avevano iniziato a riscuotere successo, fino a quando non aveva capito
che stava sbagliando tutto, che lui non era la persona che aveva dato a
vedere e dietro la quale si era nascosto per anni. Tutto questo
perché quelle offese ricevute nell’adolescenza
l’avevano segnato profondamente.
«Dylan? Ehi, Dylan, va tutto bene?».
Il poliziotto girò il viso verso la detective e le
accarezzò il mento, sorridendole lievemente.
«Secondo me ti sorprenderesti, invece. Lo sai benissimo,
l’hai provato tu stessa, che i mass-media inventano un sacco
di cazzate solo per far aumentare l’audience.
Magari… magari Tom non era come ti immagini».
Grace lo osservò in silenzio, davvero colpita dalle sue
parole, poi lo imitò: puntò lo sguardo velato
dagli occhiali da sole fuori dal finestrino e guardò
l’ala dell’aereo tagliare un banco di nuvole.
Quegli stramaledetti fusi orari l’avrebbero resa pazza,
pazza! Erano partiti alle nove e mezza da Berlino, erano atterrati al
caotico aeroporto di Los Angeles che erano passate le ventidue, ma
lì erano già le sette di mattina del giorno dopo.
Era come se avesse perso un prezioso giorno della sua vita, su
quell’aereo!
Tesa come una corda di violino, non perse mai d’occhio la
borsa a tracolla, che ora stringeva convulsamente sotto il braccio, e a
passo svelto raggiunse il bar dove si era accordata di trovarsi con
l’agente Crawford e un paio dei suoi uomini migliori.
Dylan, il quale era riuscito a stento a seguirla tra la folla, non ne
sapeva niente e ne rimase parecchio sorpreso, ma soprattutto
intimorito, perché da quando gli aveva telefonato per
avvisarlo di ciò che era successo a Grace ed era stato
sgridato pesantemente non si erano più sentiti.
«Oh, Grace», mormorò Michael,
stringendola in un abbraccio inusuale per uno tutto d’un
pezzo come lui. Ma era stato davvero in pensiero, perché in
fondo si era affezionato, e vederla sana e salva era un vero e proprio
sollievo.
La detective ricambiò con un sorriso colmo di tenerezza e si
spostò per far sì che Dylan si facesse avanti.
Michael si portò i pugni sui fianchi, guardandolo ancora
severamente, ma ben presto si sciolse in un sorriso, aprendo le
braccia.
«Spararti adesso non servirebbe a niente, quindi…
vieni qui, pivello».
Dylan, felice, ricambiò la stretta con qualche pacca sulla
schiena e si scusò ancora e ancora, dicendogli che non
sarebbe dovuto capitare e tutte le cose che gli aveva ripetuto mille
volte quella volta al telefono, fino a quando Michael non aveva chiuso
bruscamente la chiamata.
«Okay, ora che abbiamo finito con i convenevoli, possiamo
andare?», chiese Grace, sollevando di qualche centimetro la
borsa che aveva stretto al petto.
«È tutto il giorno che te la tieni appiccicata
addosso, che cosa diamine –?». Dylan si
bloccò all’improvviso e guardò la
detective, la quale sospirò con occhi dispiaciuti. Michael
invece accennò un sorriso, stringendole una spalla con la
mano.
«Hai trovato qualcosa, non è così? Sei
riuscita a trovare l’indizio che ti ha lasciato tuo padre.
Altrimenti non mi avresti chiesto un furgone blindato
dell’FBI».
Grace annuì rapidamente col capo, scambiando
un’altra occhiata con Dylan. «Vi
spiegherò tutto più tardi, ve lo prometto, basta
che ce ne andiamo da qui».
L’agente Crawford e i suoi uomini accerchiarono Grace e
Dylan, facendogli da scorta mentre uscivano dall’aeroporto e
raggiungevano il furgone blindato che li attendeva parcheggiato in una
posizione strategica, dove non aveva dato nell’occhio e allo
stesso tempo avrebbe potuto offrire una veloce via di fuga in caso di
pericolo.
Una volta al suo interno, Grace si rilassò un poco e,
intercettando lo sguardo di Michael, disse: «Gli uffici
dell’FBI sono più sicuri, andiamo
lì».
La detective sospirò e si voltò verso Dylan,
seduto al suo fianco nella penombra del furgone blindato, ma con gli
occhi fissi di fronte a sé. Gli accarezzò il
braccio e vi appoggiò sopra la fronte, spossata e con i
nervi ancora tesi, nonostante fossero a casa e mancasse ormai poco
perché l’agenda di suo padre fosse al sicuro.
«Mi avevi detto… mi avevi detto che il tuo rischio
era stato inutile».
«Mi dispiace», soffiò. «Ho
fatto di nuovo di testa mia, tenendotene all’oscuro, ma ho
pensato… sì, mi avevano già picchiata
e quasi uccisa, tanto valeva che facessero del male solo a me, se
davvero volevano ciò che possedevo. Non volevo che tu e Tom
correste dei pericoli, perché allora il mio rischio sarebbe
stato davvero vano».
Dylan la guardò negli occhi e le strinse forte le braccia
intorno al collo, dandole per l’ennesima volta della stupida,
ma anche dell’amica migliore del mondo.
___________________________________________
Buongiorno!
:)
Non voglio dilungarmi troppo su questo capitolo, perchè ci
sono pochi avvenimenti, anche se uno è molto, molto
importante, almeno per Bill e Dylan! ;)
Spero semplicemente che vi sia piaciuto e che troviate il tempo
necessario a scrivermi due righe così, per dirmi cosa ne
pensate, nell'attesa del prossimo capitolo! Nel frattempo io
risponderò e farò i miei dovuti ringraziamenti,
come al solito. E per quanto riguarda la scorsa volta, ringrazio ancora
chi ha recensito e chi ha inserito questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate. Siete fantastici :)
Alla prossima! Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 25 *** Capitolo 23 ***
Capitolo 23
“When I'm falling down, will
you pick me up again?
When I'm too far gone
Dead in the eyes of my friends…
Will you take me out of here?”
(Watercolour - Pendulum)
Grace appoggiò
entrambe le mani sulla superficie del tavolo di vetro nero su cui erano
sparpagliate tutte le cartelle, i documenti e gli appunti raccolti in
anni di lavoro al caso. Al centro, illuminata da una lampada da terra,
la soluzione di tutti i loro rompicapi: l’agenda di Mitch
Schneider.
«Ne ero sicura. Mio padre poteva essere morto solo per un
caso di questa gravità».
«Corruzione ai piani alti della Marina Militare degli Stati
Uniti», aggiunse Michael, incrociando le braccia al petto.
«Peccato che gli uomini con cui abbiamo a che fare non
finiranno mai in prigione, senza un testimone vivo
che dimostri che tutto ciò che è scritto qui
è la verità».
«Stai dicendo sul serio?! Mio padre ha scritto la soluzione
del caso, noi abbiamo…».
«Solo parole. E sai benissimo, Grace, che servono le prove in
tribunale, specialmente se parliamo della Corte marziale. Quello che
è stato commesso, o meglio non commesso,
a Baghdad è un crimine molto grave e non possiamo
permetterci di puntare il dito contro quei pesci grossi senza avere
alcun tipo di prova o testimonianza».
Grace lo fissò per qualche secondo in silenzio, rigida come
una statua, poi fece schiantare il pugno contro il tavolo, trattenendo
un urlo frustrato.
«Cattureremo quelli dell’organizzazione criminale e
li faremo confessare di essere stati ingaggiati da Tizio, Caio e
Sempronio; di aver ucciso chiunque sapesse qualcosa, compreso mio
padre, di aver aggredito me… di tutto! Anche sotto tortura,
se necessario! C’è l’uomo che mi ha
salvata! Se riuscissimo a scoprire la sua identità potrebbe
aiutarci! E poi… oh, e poi ci sono ancora Lionel e Bryant!
Loro non ricordano nulla di strano sull’attentato che hanno
sventato, ma se gli raccontiamo quello che ha scoperto mio padre,
magari potrebbero…».
L’agente Crawford infilò un braccio intorno alle
spalle della detective e la strinse al suo petto, accarezzandole i
capelli con l’altra mano.
«Dobbiamo farcela, Michael», disse allora con la
voce incrinata, segno che se ne avesse avute le forze, dopo il lungo
viaggio, la tensione e le ore che avevano trascorso chiusi in
quell’ufficio a leggere tutto ciò che aveva
lasciato scritto suo padre e a mettere a posto ogni pezzo del puzzle,
avrebbe pianto. «Noi non possiamo arrenderci, non ora, non
dopo essere arrivati fino a qui…».
Michael le posò un lieve bacio sulla tempia, sussurrandole:
«Ci riusciremo Grace, te lo prometto».
Le prese il viso fra le mani, delicato come se fosse di cristallo e
avesse paura di romperlo, ed accennò un sorriso, passando i
pollici sotto i suoi occhi stanchi ed arrossati.
«Adesso però abbiamo tutti bisogno di riposare,
specialmente tu».
Grace annuì mestamente e si lasciò condurre fino
al divanetto accanto alle finestre dalle tende alla veneziana. Si
sedette e lo guardò mentre scostava le asticelle di
alluminio tirandone la cordicella, in modo che potesse vedere fuori
dall’ufficio tutti gli altri agenti dell’FBI, alle
loro scrivanie, che lavoravano ad altri casi, forse difficili come il
loro.
«Vado a vedere che fine ha fatto Dylan, così ti
portiamo a casa. Tua madre sarà in ansia per te»,
le disse ancora, accarezzandole i capelli sulla fronte. Quindi
uscì dall’ufficio, chiudendosi dolcemente la porta
alle spalle.
Uscì fuori dall’edificio, sede locale
dell’FBI a Los Angeles, e vide Dylan seduto sul prato, con le
spalle contro il muro e una sigaretta penzolante fra le labbra, che
guardava il cielo punteggiato di piccole stelle e si godeva la brezza
fresca della notte. Quella gli era mancata, a Berlino.
«Te la prendi comoda, eh?».
Dylan si voltò e prese il mozzicone col pollice e
l’indice, accennando un sorrisetto.
«Non ce la facevo più a stare lì
dentro, scusami».
«Ti capisco. È meglio se ce ne andiamo tutti a
casa».
«Hai convinto Grace?».
Michael annuì e stese una mano verso Dylan, il quale
l’afferrò per aiutarsi ad alzarsi.
Rientrarono e salirono le scale che portavano al soppalco in cui
c’era l’ufficio in cui avevano lavorato
instancabilmente per un giorno intero, senza mai chiudere occhio e
mangiando a malapena. Appena arrivarono di fronte ad esso,
però, attraverso le veneziane all’interno delle
finestre videro che Grace si era appisolata, rannicchiata sul divano.
Rimasero in silenzio ad osservarla, fino a quando Dylan non disse a
bassa voce, senza toglierle gli occhi di dosso: «Tu sapevi
che ce l’aveva fatta?».
«Se ti riferisci all’agenda, l’ho sempre
sospettato. Mi sembrava impossibile che quelli
dell’organizzazione la facessero fuori senza ricavarne
qualcosa o, peggio ancora, correndo il rischio di non trovare mai
ciò che le aveva lasciato suo padre».
«Quello che non capisco è perché allora
l’hanno lasciata in vita. Voglio dire, non riesco a credere
che si siano lasciati ingannare e abbiano fatto entrare
nell’organizzazione un uomo che probabilmente, anzi sicuramente,
è dalla nostra parte. Secondo te lui sapeva
dell’agenda?».
L’agente dell’FBI scrollò le spalle.
«Non ne ho idea, ma di certo voleva che Grace la portasse via
a tutti i costi. Lei non ti ha detto niente su di lui? Non ha qualche
sospetto?».
«Mi ha raccontato del suo aggressore: ha sentito la sua voce
e pensa che sia stato lui a risponderle quando ha telefonato al
cellulare scomparso di Tom. Aveva la voce criptata, ma è
quasi certa che fosse lui. E poi mi ha detto anche qualcosa su un
auricolare, come se l’uomo eseguisse gli ordini di qualcun
altro e avesse evitato per questo motivo di colpirla in
viso… O almeno, questo è quello che ho
capito».
«Ma del suo angelo custode niente».
Michael sospirò e tornò a guardarla, mentre Dylan
scuoteva il capo, arrendevole.
«Può darsi che non ne sappia niente, come
può darsi che mi abbia tenuto nascosto anche
questo».
«Sei ancora arrabbiato con lei perché non ti ha
informato dell’agenda? L’ha fatto per il vostro
bene…».
«Rischiando di finire in guai ancora più grossi, da
sola», rettificò, stringendosi le
braccia al petto.
«Dylan… Quando si fa parte di una squadra non ci
dovrebbero essere segreti, ma a volte… a volte si preferisce
fare tutto da soli per il bene della squadra, per
proteggere le persone che si amano».
Il poliziotto incrociò i suoi occhi imperscrutabili, ma
quella volta vi trovò una traccia di malinconia, di
rimpianto, di dolore.
«È per questo motivo che preferisci lavorare da
solo? Hai perso qualcuno della tua squadra, in passato?».
Crawford fuggì dal suo sguardo ed esitò, quando
un movimento improvviso li fece voltare entrambi verso Grace, schizzata
seduta sul divanetto con il cellulare premuto contro
l’orecchio.
L’agente dell’FBI aprì la porta e si
precipitò all’interno dell’ufficio,
subito seguito da Dylan.
La detective li fissò terrorizzata, parlando ancora al
telefono: «Lionel, Lionel rispondimi… rispondimi,
ti prego!».
Crawford le strappò il cellulare di mano e se lo
portò all’orecchio: era caduta la linea.
«Ti ha detto dov’era?». Michael la prese
per le spalle e la scosse per farla riprendere. Non c’era un
minuto da perdere.
«Grace! Ti ha detto dove si trovava?».
«Sì, lui… ha nominato un motel a
Tijuana, Motel Paloma».
«Dylan, chiama subito i tuoi colleghi messicani e avvertili,
che inviino subito un’ambulanza e delle pattuglie».
Il poliziotto annuì e corse fuori dall’ufficio.
«E noi cosa facciamo?», domandò Grace,
che a stento tratteneva le lacrime.
«Michael…».
«Noi andiamo a Tijuana».
***
Nel loro camerino, Tom si
alzò dalla poltroncina e guardò fuori dalla
finestra, mentre Bill stava finendo di farsi sistemare il trucco,
seduto di fronte ad un grande specchio.
Ancora non riusciva a credere che Grace gli avesse nascosto di aver
trovato un’agenda scritta da suo padre. Glielo aveva
confessato quella mattina presto, appena erano riusciti a sentirsi, e
ora, come allora, non sapeva se essere felice per lei e per il fatto
che non l’avessero quasi uccisa solo per sfizio, oppure se
essere arrabbiato perché non glielo aveva detto subito.
L’unica cosa che sperava con tutto il cuore era che quel caso
venisse chiuso in fretta e che lei non fosse più costretta a
correre pericoli.
Sentì i piedi della poltroncina di suo fratello strisciare
sul pavimento e si voltò per osservarlo mentre lo
raggiungeva e la truccatrice li lasciava soli.
«A che pensi?», gli domandò, portandosi
le mani dietro la nuca e stiracchiandosi. «No, aspetta, fammi
indovinare! A Grace?».
Tom fece una smorfia. «Ah-ah, divertente. Vorrei vedere te,
al mio posto».
«Ehi, Dylan fa il poliziotto, anche lui corre dei
pericoli».
«Fa parte della stradale. Il pericolo
più grande che potrebbe correre è quello di
essere insultato dopo aver dato una multa».
«Non è mica detto. Gli automobilisti di adesso
sono quasi tutti psicopatici!».
I gemelli si guardarono e si sorrisero contemporaneamente. Era triste
scherzare su chi corresse più pericoli tra le persone che
amavano, ma sdrammatizzare era una delle poche cose che li tirava un
po’ su di morale.
«Non vedo l’ora che tutto questo
finisca», mormorò il chitarrista, spostandosi
dalla finestra e gettandosi sul piccolo divanetto al centro della
stanza.
«Credi che dopo aver risolto il caso di suo padre Grace
lascerà perdere le investigazioni? Ci ha già
provato una volta e il risultato non è stato dei
migliori…».
Tom sospirò e chiuse gli occhi. «Non lo so,
io… voglio che faccia il lavoro che le piace fare, che si
senta appagata, ma vorrei anche che il suo lavoro non fosse rischioso.
Non potrebbe fare… che ne so, la cassiera in un
supermercato?».
«Ho sentito al telegiornale che le rapine a mano armata nei
supermercati sono aumentate vertiginosamente negli ultimi due
anni». Bill incrociò lo sguardo severo di suo
fratello e si ritrasse: «Scusa». Poi si sedette al
suo fianco, con le gambe accavallate.
«Non ce la vedo a fare nessun altro lavoro,
però».
«Nemmeno io», sbuffò Tom. «La
mia vita era già complicata così…
dovevo proprio innamorarmi di una detective?».
Bill accennò un sorriso e gli posò una mano sulla
spalla. «Pensa se Molly non l’avesse mai pagata per
pedinarci: non avresti mai incontrato la tua anima gemella!».
«E tu non avresti mai incontrato Dylan».
«Già».
Tom si mise seduto composto ed appoggiò i gomiti sulle
ginocchia, guardando il gemello con la coda dell’occhio.
Non gli aveva più chiesto niente, dopo che Bill gli aveva
fatto capire palesemente che non ne voleva parlare, ma voleva a tutti i
costi che si confidasse con lui, che gli raccontasse ogni cosa proprio
come se Dylan fosse stato una ragazza – e, immaginandolo
donna, rabbrividì – soprattutto dopo la loro
ultima chiacchierata sull’argomento: voleva davvero
dimostrargli che gli voleva bene anche se era gay e aveva…
rapporti sessuali… con il suo compagno.
«A proposito di Dylan…»,
incominciò, stringendosi nervosamente le mani, ma
sentì Bill sospirare e si interruppe.
«Okay, Tom, parliamone. Non riesco più ad
inventarmi scuse, quindi sarò chiaro e diretto: io e
Dylan…». Incrociò il suo sguardo e si
sentì avvampare, come se gli avessero appena acceso un fuoco
alle spalle.
All’improvviso tutto il suo coraggio scemò e
pensò che non sarebbe mai riuscito a dirglielo. Ma di che
cosa aveva paura? Che lo guardasse di nuovo come aveva fatto in quel
momento di sconvolgimento totale, che lo ripudiasse, che lo prendesse a
pugni? Cosa? Era il suo gemello, Cristo, poteva davvero fargli una di
quelle cose orribili?!
Tom gli sorrise dolcemente e Bill, fino ad allora pietrificato, si
sciolse, abbandonandosi allo schienale del divanetto, con
un’espressione afflitta dipinta sul viso.
«Mi dispiace, non ce la faccio»,
balbettò, fissandosi le ginocchia. Sentì la mano
di Tom sulla testa e si morse le labbra, dandosi dell’emerito
cretino.
«Fratellino… ti ricordi quando facevo di tutto pur
di difenderti dai bulletti della nostra classe?».
Bill lo guardò confuso. «E questo adesso cosa
c’entra?».
«Beh, sappi che io non smetterò mai di
proteggerti».
«Ma io non ho bisogno di essere protetto! Dylan non mi
farebbe mai del male! Ero perfettamente consenziente
quando…!». Bill arrossì di nuovo,
così violentemente che avrebbe voluto gettarsi sotto un
getto d’acqua gelata. Stava per bruciare vivo!
Ma Tom non smise di sorridere e disse: «Quindi avete fatto
sesso».
«No! Cioè… Sì».
Abbassò il viso, non capendo davvero il motivo del suo
comportamento, e fu lo stesso Tom a doverglielo alzare di nuovo.
«Te ne vergogni?», gli domandò,
più serio che mai.
«No, è che… questa volta vorrei sapere
io che cosa ti sta passando per la testa esattamente».
«Vuoi saperlo davvero? A tuo rischio e pericolo?».
Bill annuì, deglutendo rumorosamente, e Tom
scoppiò a ridere.
«Sto pensando a come diavolo abbiate fatto! Insomma, che
posizione…? E ti è piaciuto!?».
Il cantante si alzò in piedi e camminò
convulsamente intorno al tavolino di fronte al divano, strepitando:
«Tom, sei un pervertito!».
«Ti avevo avvertito! Allora, mi racconti o no?».
Bill si fermò di colpo e lo guardò fisso negli
occhi. «Mi stai prendendo in giro?».
«Assolutamente no! Voglio solo far parte di questo momento,
sempre che tu lo voglia». Batté una mano sul
divanetto, sorridendogli. «Forza, vieni qui e spiegami: per
una volta sarai tu l’esperto in materia di sesso!».
Bill roteò gli occhi al cielo, sbuffando, ma alla fine
raggiunse il gemello sul divanetto e gli raccontò tutto,
anche se ogni tanto l’imbarazzo l’aveva frenato
ancora. Più che sull’atto in sé, che
dopo due frasi aveva già finito di spiegare, Bill
focalizzò la sua attenzione su ciò che aveva
provato – dolore, soprattutto, ma anche piacere e un senso
immenso di protezione, fra le braccia muscolose di Dylan – e
ciò che aveva visto nel suo compagno: un ragazzo spaventato
come lui, alla sua prima esperienza omosessuale, che si era preoccupato
per lui dall’inizio alla fine e si era preso cura di lui.
«Con una ragazza questo non sarebbe mai successo»,
confessò, non solo a Tom, ma anche a se stesso.
«Ovviamente, perché è l’uomo
che si prende cura della donna, o dovrebbe essere
così…», disse il chitarrista, per poi
fermarsi un attimo a riflettere, con la fronte aggrottata.
«Ma quindi… quindi tu saresti la donna della
situazione?».
Bill quella volta non riuscì ad impedirselo e gli
tirò uno schiaffo sul braccio. «Idiota!».
«Ehi, ho solo fatto la mia supposizione! Tu
ti sei fatto penetrare, non il contrario!».
«Ma che vuol dire?!».
«Se fosse stato il contrario, Dylan avrebbe avuto il ruolo
della donna!».
«Mah… io non ce lo vedo a fare la donna».
«Infatti, perché sei tu!».
Bill lo picchiò ancora, quella volta con più
enfasi, e Tom lo bloccò prendendogli i polsi fra le mani,
ridendo a crepapelle.
«Non te la prendere, Bill, non lo dirò
più! Basta, basta, o finiremo per…!».
Con un tonfo si ritrovarono tutti e due per terra, sdraiati
l’uno sopra l’altro.
«…cadere», concluse il chitarrista,
scoppiando di nuovo a ridere nonostante il livido che gli sarebbe
sicuramente uscito sul fondoschiena.
«È colpa tua, Tom, te la sei cercata!»,
gridò Bill, alzandosi impettito.
«Bill?».
«Che c’è, che vuoi ancora?»,
si voltò verso di lui e rimase incantato di fronte alla sua
espressione colma di tenerezza, tanto che gli tornò vicino e
gli diede una mano al alzarsi.
Senza lasciargli la mano che gli aveva offerto, Tom fissò
gli occhi nei suoi e gli chiese: «Sei felice, con
lui?».
«Non credo di essermi mai sentito più
felice».
«Allora sono felice anche io». Lo
abbracciò, dandogli qualche pacca sulla schiena.
«Ma fai fare la donna anche a lui ogni tanto, se lo
merita!».
Bill in risposta gli tirò un pugno sulla schiena,
mozzandogli il respiro per un attimo. Subito dopo però rise,
stringendolo più forte fra le braccia.
***
Michael guardò
Grace con la coda dell’occhio ed accennò un
sorriso: finalmente aveva smesso di lottare, lasciando che il sonno
prendesse il sopravvento.
Stando sempre attento alla strada illuminata dai fanali della sua auto
federale, si slacciò la cintura e si tolse la giacca per
posargliela delicatamente addosso, a mo’ di coperta.
Quando tornò a fissare il parabrezza di fronte a
sé, si rese conto amaramente che si stava affezionando a lei
e a Dylan più del dovuto, più di quanto il suo
cuore ferito potesse sopportare.
«È
per questo motivo che preferisci lavorare da solo? Hai perso qualcuno
della tua squadra, in passato?».
Scosse il capo per
mandare via le domande che Dylan gli aveva posto poco prima, ma ottenne
proprio il risultato contrario, come se quel movimento brusco avesse
fatto risalire in superficie i ricordi che aveva seppellito
nell’angolo più remoto della sua memoria. Come
sabbia essi si risollevarono da quel fondale buio e si ripresentarono
di fronte ai suoi occhi umidi, facendogli perdere
l’orientamento.
«Crawford, no, non
farlo!».
Si voltò, paralizzato dal terrore, e vide i ragazzi della
sua squadra, armati e con i giubbotti antiproiettili blu con la scritta
FBI sul petto, entrare di corsa nel capannone. Non fece in tempo ad
urlargli di andarsene, perché quasi immediatamente una
mitragliatrice inarrestabile gli sparò addosso
dall’alto.
Erano in quattro: due caddero a terra, uno riuscì a
ripararsi dietro una serie di barili e l’ultimo,
l’unica ragazza della squadra, quella che aveva urlato
all’entrata, fu colpita al ventre, ma ebbe la forza di
strisciare verso l’amico dietro i barili, il quale la trasse
in salvo da un’altra serie di proiettili.
Crawford era rimasto scioccato, ma appena ne ebbe bisogno i suoi sensi
in allerta agirono, permettendogli di salvarsi da una morte certa. Si
liberò infatti dell’uomo con cui aveva deciso di
contrattare da solo, bloccandogli la mano con cui aveva impugnato la
pistola e facendo sì che si sparasse da solo sotto il mento.
Uno schizzo di sangue gli colpì il volto, ma non vi
badò e si girò subito verso l’uomo con
la mitragliatrice, appollaiato sul soppalco di metallo sopra di lui. Il
suo compagno di squadra dietro i badili lo stava tenendo distratto,
sparandogli contro con cadenza più o meno regolare, quindi
Michael poté prendere la mira e colpirlo dritto alla testa,
mettendolo fuori combattimento.
Michael controllò che non ci fossero più
cecchini, percorrendo il perimetro del soppalco con la pistola in asse
con l’occhio destro, poi sentì le urla del suo
compagno ed amico e corse nella sua direzione.
«Allison… Allison, stai con me, stai con
me!».
«Ally!».
Michael si lasciò cadere bocconi al suo fianco e le
accarezzò i capelli biondi, spostandoglieli dalla fronte.
«Ally, Dio mio…».
La ragazza storpiò un sorriso, sollevando una mano macchiata
del suo stesso sangue per posargliela sul viso.
«Michael… avresti dovuto…»,
tossì e un rivolo di sangue le scivolò sul mento.
«Noi siamo una squadra».
«Era troppo pericoloso, io non volevo che
voi…». In lacrime, guardò la ferita al
ventre di Allison, poi fissò i due uomini stesi a terra,
anche loro in un lago di sangue. «È tutta colpa
mia, mio Dio, è tutta colpa mia…».
«Allison… Allison, ascoltami, tu… tu ce
la farai!», gridò Charles al suo fianco, attirando
di nuovo la sua attenzione sulla ragazza ormai esangue.
Michael le accarezzò per un’ultima volta i capelli
e lei per un’ultima volta sorrise, prima di chiudere gli
occhi.
Il suo sguardo cadde per caso sul tachimetro e questo lo fece tornare
alla realtà. Rallentò gradualmente e appena vide
un’area di sosta si fermò, spense il motore e si
appoggiò al volante nascondendo il viso fra le braccia.
«Izac, Spencer… Allison… mi mancate
così tanto…».
Il buio e il silenzio di quell’autostrada nel bel mezzo del
deserto gli diede l’orribile sensazione di essere rimasto
solo al mondo, ma Grace intervenne per salvarlo da se stesso e da quei
ricordi dolorosi.
«Michael… è tutto okay?».
L’agente dell’FBI si tirò su,
appoggiandosi allo schienale, ed annuì, anche se stancamente.
Grace guardò la giacca che le aveva sistemato addosso mentre
dormiva e disse: «Se vuoi posso darti il cambio».
«No, guido io. Tu continua a dormire».
Detto questo girò le chiavi nel cruscotto e si immise di
nuovo nella corsia, senza rivolgerle più uno sguardo. Grace
però non seguì il suo consiglio ed
alzò un po’ di più il volume della
radio, cosa che sicuramente lo avrebbe aiutato a distrarsi se non fosse
capitata una canzone del genere, una canzone che Grace
definì come una delle più belle mai scritte nella
storia e che canticchiò sommessamente, mentre guardava fuori
dal finestrino: «A warning sign… You
came back to haunt me and I realised, that you were an island and I
passed you by… And you were an island to
discover… Come on in… I've gotta tell you what a
state I'm in, I've got to tell you in my loudest tone, that I started
looking for a warning sign… When the truth is: I miss
you… Yeah, the truth is… that I miss you
so… And I’m tired, I shouldn’t let you
go…».
Arrivarono all’ospedale di Tijuana a notte fonda e dovettero
aspettare un po’ prima di ricevere l’OK per vedere
Lionel.
Nell’attesa, Grace aveva quasi finito il pacchetto di
sigarette che aveva comprato all’aeroporto di Berlino e aveva
chiamato Dylan per non sentirsi sola, visto che Crawford aveva
continuato a discutere con infermiere e medici nonostante gli avessero
già detto mille volte che dovevano aspettare. Alla fine
Grace l’aveva intuito che era solo un modo come un altro per
stare lontano da lei, ma non era riuscita a capirne il motivo, proprio
come non era stata in grado di immaginare chi fossero le persone che
gli aveva sentito nominare quando si era svegliata.
Quando finalmente ottennero l’autorizzazione, Michael
andò nel parcheggio a chiamarla. Grace si alzò
dal panettone giallo su cui si era seduta e lo raggiunse
all’interno.
Un’infermiera li accompagnò nella camerata in cui
avevano sistemato Lionel e prima di scostare le tende azzurre i due
agenti di polizia locale che erano stati messi lì di guardia
dagli stessi agenti dell’FBI di Los Angeles gli chiesero di
mostrare i loro documenti. Crawford, anche se piuttosto scocciato,
esibì il suo distintivo federale.
Grace si fece avanti per prima e rimase senza fiato alla vista di quel
Lionel che stentava a riconoscere: emaciato, con orribili ombre
violacee intorno agli occhi e la barba lunga dello stesso colore dei
suoi capelli, un biondo scolorito sempre più tendente al
grigio.
La spessa fasciatura che gli avvolgeva il busto, in obliquo, dalla
spalla destra al fianco sinistro, e in orizzontale, intorno
all’addome, era macchiata di sangue nei due punti in cui gli
avevano sparato.
Le lacrime avrebbero voluto sgorgarle dagli occhi come torrenti, ma
miracolosamente riuscì a trattenerle e si sedette accanto al
suo letto, lo sguardo fisso sul suo viso pallido e privo di
espressione, profondamente addormentato anche grazie agli
antidolorifici.
Sentì Michael avvicinarsi a lei e serrò le labbra
quando le posò una mano sulla nuca, delicato come solo lui
sapeva essere.
«Avremmo dovuto prevederlo», sussurrò
Grace, lottando per mantenere un tono di voce fermo. «Si sono
vendicati per la morte del loro uomo».
«No, invece. Non avremmo potuto».
La detective alzò il viso e sentì la presa sui
suoi capelli aumentare mentre Michael si chinava su di lei e le posava
le labbra sulla fronte.
«Si sistemerà tutto, Ally, vedrai».
Grace si irrigidì sulla sedia e Michael se ne accorse,
rendendosi conto del suo lapsus. Si scostò ed
incrociò i suoi occhi per un attimo, ma la detective non gli
chiese nulla e lo lasciò libero di andare, di scappare fino
a quando non si sarebbe sentito pronto per affrontare
l’argomento.
Rimase lì da sola per molto tempo, forse per ore, il
silenzio rotto solo dalle voci delle infermiere al di là
delle tende e dai bip prodotti dai macchinari a cui
era collegato Lionel e che monitoravano i suoi parametri vitali.
Poi, finalmente, quella logorante monotonia fu interrotta da un rantolo
che risvegliò del tutto Grace, fino ad allora con il mento
posato contro lo sterno e gli occhi chiusi. Il viso di Lionel si era
accartocciato in un’espressione sofferente, mentre si portava
la mano con il pulsiossimetro al dito indice al petto. La detective
gliela strinse con delicatezza e allora l’ex-marine
aprì faticosamente gli occhi azzurri.
«Grace», gracchiò, cercando di
ricambiare la stretta con le poche forze che aveva.
«Sembri… sembri il vampiro di Twilight
a digiuno da un mese».
«Tu conosci Twilight?», gli
chiese ridacchiando, lasciando che le lacrime vincessero sulla sua
volontà scorrendole sulle guance.
«Alla mia bambina sarebbe piaciuto».
«Lionel, stavi… stavi per morire dissanguato, se
non mi avessi chiamato…».
«Ti avevo promesso che non ti avrei abbandonato,
ricordi?», le rivolse un tenero sorriso e cercò di
sfilarsi i tubicini per l’ossigeno che aveva al naso. Quando
ci riuscì, le percorse una guancia con il dorso della mano,
indicandole poi di sedersi.
«Chi ti ha fatto tutto questo? Hai visto chi ti ha
sparato?», domandò ancora la detective, passandosi
le mani sul viso per spazzare via le lacrime.
Lionel chiuse gli occhi, stanco come se fosse appena tornato dalla
guerra, e respirò profondamente, provocandosi qualche colpo
di tosse e un dolore acuto al petto.
Grace stava per chiamare l’infermiera, quando lui scosse il
capo, dicendole che non era necessario.
«Ho visto chi mi ha sparato, l’ho visto
benissimo», rispose alla fine, tornando a stringerle la mano.
Grace sgranò gli occhi arrossati. «E
chi…?».
«Bryant. Il nostro Bryant».
«Ehi».
«Grace… ma che ora è da te? Le sei di
mattina?».
La detective annuì, come se potesse vederla.
«Che ci fai già in piedi?», le chiese
ancora Tom, dopo aver rifatto il calcolo per essere sicuro.
«Non ho dormito».
«Come? È successo qualcosa? Non farmi
preoccupare!».
Grace fece un altro avido tiro alla sigaretta che si era fatta dare da
un’infermiera incontrata fuori dall’ospedale e
sollevò gli occhi verso il cielo illuminato dalla luce
chiara dell’alba.
«Questa volta io non c’entro niente, stai
tranquillo».
Gettò il mozzicone della sigaretta e ripensò alla
storia che l’ex-marine le aveva raccontato prima di crollare
di nuovo addormentato, sfinito.
«Da
un po’ di tempo Bryant mi sembrava strano. Qualche giorno fa,
in un autogrill poco lontano da qui, ho lasciato che si allontanasse,
poi l’ho seguito e ho origliato una sua conversazione al
cellulare. Ho capito subito che si era venduto
all’organizzazione e che il suo unico compito era quello di
farmi fuori. Bryant diceva che voleva ancora tempo, che non era pronto,
e piangeva… ma il “capo” ha insistito
tanto e lui alla fine ha dovuto cedere, dicendo che mi avrebbe fatto
fuori appena possibile.
«Io… ho provato a fare finta di nulla, ci ho
provato con tutte le mie forze – il mio piano era quello di
sfruttarlo per giungere all’organizzazione – ma
dopo due notti trascorse senza chiudere occhio per paura che potesse
spararmi nel sonno, alla fine i miei nervi tesi mi hanno tradito: mi
sentivo così arrabbiato, ferito, tradito… e
gli ho urlato in faccia che sapevo tutto. Abbiamo lottato un
po’, nella stanza in cui mi avete trovato, e lui ha avuto la
meglio. Peccato che non si è fermato a controllare se fossi
morto: ha preso in fretta e furia le sue cose ed è scappato,
in preda al panico».
Grace non ci aveva messo molto a fare due più due: Bryant
era sempre stato un burattino nelle loro mani, aveva fatto in modo di
avvicinare lei e Lionel e, sfruttando la scia di sangue lasciata dai
suoi “complici”, aveva fatto in modo di separarli.
Quando poi un membro dell’organizzazione aveva disertato,
uccidendo il suo aggressore a Berlino, gli avevano ordinato di
sbarazzarsi subito di Lionel, perché le cose gli stavano
sfuggendo di mano e non potevano permettersi che qualcuno
sopravvivesse.
Ma per fortuna Bryant aveva fatto un errore, lasciando in vita Lionel,
e poteva anche essere che Loro non ne fossero al corrente o che fossero
convinti che fosse morto…
«Grace? Grace, mi stai ascoltando?».
La detective sentì la voce di Tom e si ricordò di
essere al telefono con lui.
«Scusa, devo andare a cercare Michael, mi è appena
venuto in mente… Ci sentiamo più tardi,
cioè… chiamami tu quando preferisci».
Terminò bruscamente la chiamata e corse
all’interno dell’ospedale.
Trovò Michael che parlava con i poliziotti messicani di
guardia di fronte al letto di Lionel e, prendendolo per il gomito, lo
tirò da parte.
«Che c’è?», chiese
l’agente, rimanendo sbalordito di fronte ai suoi occhi
stanchi e allo stesso tempo fiammeggianti.
«È il nostro turno, Michael. Grazie a Lionel
potremmo provare noi a sfruttare Bryant per
arrivare all’organizzazione criminale».
Michael si massaggiò una tempia. «Non ti
seguo».
Grace ripeté, provando ad essere un po’
più chiara, e quando riuscirono ad intendersi Michael le
strinse le spalle con le mani, anche lui contagiato dalla sua
determinazione.
«Chiamo subito la base a Los Angeles. Farò in modo
che gli trovino subito una casa sicura dove potersi nascondere e che
gli creino un certificato di morte».
«Dobbiamo fare in fretta, non sappiamo con certezza di quali
tecnologie dispongono, può darsi che siano in grado di
infiltrarsi nei computer dell’ospedale
e…».
«Lascia fare a me. Tu intanto avvisa Lionel del
piano».
Grace annuì e lo guardò mentre correva lungo il
corridoio con il cellulare già all’orecchio.
«Ah!», gridò, chiamandolo di nuovo.
L’agente si voltò e Grace fece una corsetta verso
di lui per non dover urlare.
«Non devi più far ricercare Bryant, ovviamente.
Dobbiamo fargli credere che secondo noi lui è un
sopravvissuto all’organizzazione».
«Hai ragione, ma… come pensi di
contattarlo?».
«Non lo so», sospirò. «Ci
penseremo più avanti».
«Va bene». Le rivolse un breve sorriso, poi
svoltò l’angolo, lasciandola sola nel corridoio.
Grace tornò indietro e quando fu di fronte al letto di
Lionel scostò di un poco la tenda che proteggeva la privacy
del paziente, accorgendosi di Lionel, sveglio e con gli occhi sgranati.
«Ehi, va tutto bene?», gli chiese preoccupata,
infilando una mano nella sua.
Lionel la strinse forte e la guardò negli occhi.
«Carter…».
«Carter? Che cosa c’entra lui adesso?».
«Grace, pensaci: è stato Bryant a dirci della sua
morte. Noi abbiamo provato a cercare notizie in proposito e, non
trovando niente, abbiamo creduto alla storia
dell’insabbiamento del caso, ma se fosse… se in
realtà fosse ancora vivo? Se Bryant ci avesse
mentito?».
Grace sentì il proprio cuore mancare un battito e il sangue
gelarsi nelle vene, mentre l’ennesimo pezzo del puzzle finiva
al suo posto, in un quadro che stava pian piano diventando sempre
più nitido, ma anche sempre più agghiacciante.
***
«Signorina,
è ora di svegliarsi…».
Molly aprì lentamente gli occhi e vide la governante
dirigersi verso le pesanti tende tirate sulle porte vetrate che davano
sul balcone.
«No, lascia», gracchiò un momento prima
che la donna le aprisse per far entrare la luce del sole che
l’avrebbe come minimo accecata. Si tirò seduta sul
letto e stirò un sorriso ancora mezzo addormentato.
«Faccio io».
La governante la guardò con cipiglio perplesso, ma non le
chiese nulla ed uscì, dicendole che la colazione sarebbe
stata pronta in qualsiasi momento. Molly annuì e si
rannicchiò di nuovo sotto le coperte, sbuffando.
All’improvviso sentì una scossa al cuore al
pensiero che aveva atteso quel giorno con tanta trepidazione per una
settimana: dopo scuola sarebbe andata a casa di Aiden per studiare con
lui storia.
Animata dall’emozione crescente, si alzò in fretta
e furia, aprì le tende di scatto e con gli occhi piccoli,
infastiditi dalla luce del sole, aprì le porte vetrate per
far entrare un po’ d’aria fresca, dolce grazie ai
fiori del rigoglioso giardino e salmastra a causa dell’oceano
in lontananza. Poi si fiondò nell’armadio, dove
rimase un’eternità a scegliere i vestiti da
indossare: alla fine optò per un cardigan bianco di cotone
leggerissimo e dei jeans celesti, entrambi firmati Armani. Ai piedi
indossò un paio di ballerine.
Si truccò pochissimo, pettinando giusto un po’ le
ciglia con il mascara, e poi si spazzolò i capelli,
decidendo di lasciarli lisci sulla schiena ma infilandosi comunque un
elastico al polso.
Quando scese al piano inferiore e raggiunse la sala da pranzo,
trovò seduti al lungo tavolo di noce sia sua madre che suo
padre, la prima che beveva una tisana e il secondo che si gustava il
suo caffè con il Wall Street Journal di
fronte al naso.
«Oh, buongiorno tesoro», la salutò sua
madre, non appena si accorse della sua presenza.
«’giorno», rispose Molly sedendosi di
fronte a lei e alla sinistra di suo padre, il quale posò una
mano sulla sua e le sorrise.
«Dormito bene?», le domandò ancora sua
madre, unendo le mani sotto al mento.
La governante le mise subito davanti al viso la sua tazza di
caffellatte e i suoi cereali preferiti, più delle fette
biscottate con la Nutella e la marmellata, delle brioche e un bicchiere
di succo d’arancia.
Molly ringraziò, poi rispose: «Sì,
molto bene, grazie».
«Oggi cosa ti aspetta a scuola?».
«Niente di particolare… Piuttosto, vi ricordate
che vi avevo detto che oggi pomeriggio mi sarei fermata da un mio amico
a studiare, vero?».
«Ma certo!», squittì la donna, guardando
il marito e pizzicandogli il braccio per stimolarlo a rispondere allo
stesso modo.
Mr. Delafield le lanciò un’occhiata ed
abbassò il giornale, tornando ad accarezzare la mano della
figlia. «Tesoro, come avremmo potuto dimenticarcene? Anche se
non capisco per quale motivo tu non l’abbia invitato
qui».
«Ah, beh, io…». Molly, rossa
d’imbarazzo, abbassò il viso sulla sua tazza di
cereali.
«Un giorno ce lo farai conoscere questo tuo amico,
vero tesoro?»
La ragazza rischiò di strozzarsi all’udire quelle
parole, ma nessuno dei due se ne accorse, perché suo padre
aveva subito dolcemente rimproverato la moglie.
«Cara, non metterle pressioni… sono solo
amici!».
«E allora? Io voglio conoscere gli amici di mia
figlia!».
Molly li guardò scambiarsi ancora un paio di battute del
genere, poi finì il suo caffellatte e decise di darsela a
gambe, prima che sua madre le chiedesse qualcos’altro.
«Sono in ritardo, è meglio che vada»,
esclamò, alzandosi in piedi. «Ci vediamo stasera,
buona giornata!».
Si diresse a passo spedito verso il salotto, senza voltarsi nemmeno
quando i suoi genitori ricambiarono il saluto e sua madre le
urlò: «Ricordati che stasera tuo padre deve andare
a quel ricevimento e noi dobbiamo accompagnarlo!».
Una volta in camera sua prese la borsa a tracolla e il cellulare, che
vibrò proprio mentre ce lo aveva fra le mani. Tolse il
blocco dal touchscreen e notò che le era arrivato un
messaggio da parte di Grace.
«Scusa Molly, ti chiamo appena posso, te lo prometto»,
lesse ad alta voce e sbuffò infastidita, fino a quando non
notò l’ora a cui gliel’aveva mandato: le
quattro di notte.
Dal fastidio di non averla ancora sentita dopo il viaggio a Berlino e
tutto ciò che vi era collegato, passò a provare
un senso di preoccupazione: doveva essere successo
qualcos’altro e non saperlo era la cosa peggiore,
perché le sue supposizioni erano una peggio
dell’altra.
Per distrarsi si disse di pensare ad altro. Provò a
concentrarsi su Aiden, ma non funzionò perché la
sua mente le mostrò l’immagine di Tom.
Chissà come doveva sentirsi, così lontano dalla
ragazza che amava e a cui in quel periodo ne capitavano di tutti i
colori…
Guardò l’ora sull’orologio che aveva al
polso e si chiese che ora fosse nel centro Europa, fece il calcolo
sulle dita delle mani e decise di lasciar perdere: non era il caso di
chiamarlo, rischiava ancora una volta di risultare
un’impicciona senza delicatezza, proprio come era successo
quando erano circolate in rete quelle maledette foto.
Ancora non poteva credere di essersi davvero lasciata travolgere dai
pettegolezzi infamatori dei mass-media, che descrivevano Tom
– il suo Tom! – come un uomo
irascibile capace di picchiare la sua fidanzata, prendendo come esempio
quello che era successo – forse – tempo prima tra due famose
popstar: Chris Brown e Rihanna.
Era anche vero che il giorno dopo il chitarrista l’aveva
chiamata e le aveva spiegato bene o male tutto quello che era successo,
rassicurandola e scusandosi per la sua sfuriata, ma Molly si era
sentita davvero una stupida e non voleva rischiare di cascarci di
nuovo, anche se era in pensiero per Grace.
«Signorina, è pronta? L’autista la sta
aspettando!», gridò la governante ai piedi delle
scale.
«Arrivo!».
Molly fece un respiro profondo ed uscì dalla sua stanza
infilando l’iPhone nella borsa.
Scese dall’auto – la più economica che
ci fosse nel garage di suo padre – e salutò il suo
autista con una mano, poi si diresse verso l’entrata. Ancor
prima di raggiungere le porte vetrate, però, qualcuno alle
sue spalle le infilò un cappellino sulla testa e le
coprì gli occhi con le mani.
Molly si irrigidì e il cuore iniziò a batterle
velocemente nella cassa toracica, pensando ai cappellini colorati senza
i quali Aiden non andava mai in giro. Con delicatezza portò
le mani su quelle che le stavano impedendo di vedere di fronte a
sé e le accarezzò. Ad un certo punto
toccò la superficie liscia e metallica di un anello e con
orrore si disse che non aveva mai visto Aiden portarne.
Strinse quelle mani, senza paura di poterle graffiare con le unghie, e
bruscamente se le levò dal viso per potersi voltare. La
persona che vide dietro di sé le fece quasi venire il
voltastomaco. E pensare che l’aveva pure scambiato,
speranzosamente, per Aiden!
«Nigel, ma che fai?!», gridò cercando il
più possibile di contenere la sua voce fastidiosamente
stridula. Era così che le diventava quando era nervosa.
«Scusa, non pensavo… Volevo solo sapere se venivi
alla partita, oggi pomeriggio».
Molly boccheggiò per qualche secondo, poi strinse i pugni
lungo i fianchi ed assottigliò gli occhi.
«Mi dispiace, ma oggi pomeriggio ho già un
impegno. E adesso devo proprio andare».
Si voltò per entrare nell’edificio scolastico, ma
quando fu con la mano su una maniglia delle porte vetrate si
ricordò del cappellino della squadra di baseball che Nigel
le aveva messo sul capo e glielo riconsegnò. Quindi se lo
lasciò definitivamente alle spalle con un sospiro di
sollievo, anche se tutte le ragazze che li conoscevano
l’avevano guardata male come al solito mentre percorreva i
corridoi.
Se lo volevano tanto che se lo prendessero pure, accidenti!
Prese alcuni libri dall’armadietto – per fortuna
quel giorno non ci aveva trovato dentro nessun tipo di regalo
– e raggiunse il laboratorio di chimica, dove si sarebbe
svolta la prima ora.
Da quando aveva avuto quella specie di litigio con Ben e Sheila aveva
sempre fatto in modo di non arrivare in anticipo, ma quella mattina se
n’era completamente dimenticata dopo l’assalto di
Nigel. Per questo non aveva calcolato che avrebbe sicuramente trovato
Ben, lo realizzò solo quando ormai era troppo tardi, ossia
quando i loro sguardi si incontrarono.
«Ciao», lo salutò piano, chinando subito
il capo.
Lui ricambiò con un piccolo cenno che gli fece cadere i
capelli sugli occhi e gli occhiali sulla punta sul naso.
«Come mai così presto, questa mattina?»,
le chiese anche lui a bassa voce, come se non fossero gli unici in
quella stanza.
Molly, sempre a testa bassa, fece qualche passo tra le file di banchi
pieni di strumenti per studiare gli elementi e fare esperimenti, fino a
raggiungere quella che aveva scelto Ben, seduto su uno sgabello alto.
«Sono… sono scappata da Nigel».
Il ragazzo accennò una risatina. «Addirittura scappata?».
Anche Molly riuscì a sorridere, lasciando la borsa accanto
allo zaino dell’amico. «Sì, ormai
è… è un’ossessione, non so
più come fare a levarmelo di dosso».
Sospirò guardando il suo profilo e gli accarezzò
un ciuffo di capelli neri, appiattendoglielo contro
l’orecchio. «Mi dispiace per come mi sono
comportata quella volta, mi dispiace non averti subito chiesto scusa,
mi dispiace non averti parlato fino ad adesso…».
Ben si voltò e la guardò negli occhi.
«Se solo tu mi avessi lasciato spiegare… Sheila ha
consegnato tutte le foto che aveva scattato alla partita, come al
solito, ma sono state quelle smorfiose della sezione di gossip che
hanno scovato quella foto e hanno deciso di pubblicarla con tanto di
articolo. Io e Sheila – soprattutto
Sheila – ci siamo opposti».
Molly si sentì una completa idiota e trattenne le lacrime,
stendendo le braccia verso di lui e cingendogli il collo.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto…».
«È tutto a posto adesso, dai», la
confortò, accarezzandole i capelli sulla schiena.
«E per quanto riguarda Sheila? Tu non
potresti…?».
«Ah-ah», l’allontanò
cingendole le spalle e la guardò negli occhi con un
sorrisino sulle labbra. «Devi chiedere scusa anche a lei. Non
fare quella faccia, non ti mangia!».
Molly sbuffò e si sedette al suo fianco, sconfortata, quando
suonò la campanella e tutti i loro compagni entrarono nel
laboratorio, tra cui anche Nigel, che si sistemò
all’ultimo banco, come sempre. Le rivolse uno dei suoi
più bei sorrisi, ma a Molly non sortivano più
alcun effetto, se non un po’ di giustificato fastidio.
«Oh, Dio, ma fa sempre così?», le
domandò Ben all’orecchio, sconvolto.
«Sì», mugugnò lei.
Incrociò il suo sguardo e scoppiarono a ridere a bassa voce,
una cosa che riuscì a farla felice dopo tanto tempo.
Quanto gli era mancato, se ne rese conto solo in quel momento.
***
«Fatti una bella
dormita, mi raccomando».
Grace sorrise e scese dall’auto federale di Crawford. Chiuse
la portiera e subito dopo gli fece abbassare il finestrino, in modo che
potesse appoggiarsi ed infilare di nuovo la testa all’interno
dell’abitacolo.
Michael la guardò negli occhi e gli bastò
soltanto quello per capire. Sospirando, disse: «Prima o poi
vi racconterò ogni cosa».
La detective gli rivolse un altro sorriso, lo salutò ed
entrò nel suo condominio. Salì le scale sentendo
le ginocchia deboli e si stropicciò gli occhi prima di
entrare in casa: aveva davvero bisogno del suo letto.
«Grace! Oh, amore mio…».
Sua madre la strinse in un abbraccio quasi soffocante, sia per la forza
con cui l’aveva stretta a sé sia perché
Grace non si aspettava di vederla. Come non pensava di vedere Dylan
seduto sul divano in salotto, con gli occhi lucidi di sonno e la trama
del cuscino stampata sulla guancia.
«Ma che ci fate qui?», domandò,
spostandosi dal viso i capelli rossi di sua madre e ricambiando
l’abbraccio senza energie. «Anzi no, non voglio
saperlo», si corresse. «Voglio solo andare a
dormire».
Melanie annuì, accarezzandole il viso sciupato, e
l’accompagnò nella sua stanza, seguita dal
poliziotto.
Grace si spogliò e in maglietta intima e slip si
rannicchiò sotto al lenzuolo.
«Ah», mugugnò ad un tratto, quando i due
si stavano chiudendo la porta alle spalle per lasciarla riposare. Prese
il cellulare dalla borsa e lo lanciò a Dylan, il quale lo
prese al volo e lo guardò confuso.
«Se Tom dovesse chiamare, ma non credo, digli che sono andata
in letargo», stiracchiò un sorriso, poi nascose la
testa sotto al cuscino.
Il poliziotto sorrise a sua volta e chiuse la porta della camera.
Tornò in salotto con la madre della ragazza, declinando
gentilmente la tazza di tè che gli aveva offerto, e si stese
di nuovo sul divano. Con due dita si massaggiò le palpebre
pesanti, quindi lasciò il cellulare di Grace sul tavolino
lì di fronte e lo fissò fino a quando il sonno
non lo prese di nuovo tra le sue grinfie.
Si era addormentato da poco, o così almeno credeva, quando
si svegliò all’improvviso a causa delle vibrazioni
che lo shakeravano sulla superficie in legno chiaro. Senza pensarci
né guardare chi fosse, lo prese in mano e se lo
portò all’orecchio.
«Pronto?».
«Dylan? Che cosa…? Perché
tu…?».
Schizzò seduto sul divano, di nuovo vigile. «Tom!
Ma che diavolo di ore sono da te? È il cuore della notte!
Che ci fai sveglio?».
«Grace mi ha inviato un messaggio un’ora fa e mi
sono svegliato adesso… Tu vuoi dirmi che cosa cazzo ci fai
con il suo cellulare?».
«Me l’ha affidato prima di crollare addormentata,
nel caso tu chiamassi…».
In effetti
non ha pensato che noi ancora non ci parliamo per quello che
è successo… O forse sì.
«Ah. Quindi… dorme?».
«Sì, decisamente. Però sta bene,
tranquillo».
«E per quanto riguarda quello che è successo? Mi
stava spiegando, quando mi ha sbattuto il telefono in
faccia!».
Dylan si inventò una balla, perché Crawford lo
aveva avvertito del loro ultimo piano e di conseguenza non poteva dire
a nessuno che l’ex-marine era sopravvissuto. Anzi, doveva
darlo per morto!
Per qualche assurda ragione Tom gli credette, dopodiché
rimasero per qualche secondo in silenzio, senza più sapere
cosa dirsi.
Ad un tratto il poliziotto sospirò e si passò una
mano fra i capelli neri. «È…
è meglio che tu torni a dormire, ora».
«Decido io cosa è meglio per me»,
rispose bruscamente, per poi abbassare il tono di voce: «E
voglio risolvere la questione una volta per tutte. Mi dispiace per come
mi sono comportato quella sera in ospedale, mi dispiace di averti
ritenuto colpevole e di averti detto quelle cose…».
Dylan sorrise. «Tom, se fosse stato per me sarebbe finito
tutto il giorno dopo, perché le tue parole non mi avevano
neanche scalfito: stavo semplicemente male di mio, per non essere
riuscito a proteggere Grace, e poi perché tu ti eri accanito
così contro tuo fratello, nient’altro. Potevi
anche evitare di scusarti».
«Cazzone», disse fra i denti il chitarrista,
lasciandosi andare ad una risata liberatoria. «È
bello… è bello che tu ti sia preoccupato di Bill.
Sai, mi ha detto…».
«Ahm, scusami Tom, mi sa che devo proprio andare! Melanie ha
bisogno di me! Ci sentiamo eh, buonanotte!».
Pose fine alla chiamata e guardò il soffitto, poi si
passò le mani sul viso e trattenne una risata fra le labbra.
___________________________________________
Ma buonasera! :D
Un capitolo ricco di novità sconvolgenti, eh?! Spero che
l'effetto sia stato proprio quello che viene definito "a sorpresa"!
Innanzitutto, l'agenda del padre di Grace è finita al sicuro
nella sede dell'FBI in cui lavora Michael e si è capito a
grandi linee che il caso di cui si occupava Mitch era piuttosto grave:
corruzione ai piani alti della Marina Militare degli Stati Uniti, in
cui c'entra un certo attentato a Baghdad di cui si parlerà
ancora...
Poi, la chiamata di Lionel, quasi morto dissanguato a Tijuana. E, sorpresa!,
è stato il caro Bryant a sparargli. Ha sempre fatto il
doppio gioco... Chi se n'era accorto prima? xD
E poi, altra cosa sconvolgente... L'ipotesi che Carter in
realtà sia vivo. Voi che ne pensate? E' possibile?
Ora, cambiando argomento, ma restando nel campo dell'FBI, iniziamo a
scoprire qualcosa sul personaggio di Michael Crawford: una parte
dolorosa del suo passato, il motivo per cui preferiva lavorare da solo
prima dell'arrivo di Grace e Dylan... insomma, finalmente entriamo un
po' anche nella sua testa! Ve l'aspettavate? u.u In ogni caso, ci
sarà tempo anche per parlare di questo.
Passando invece a Bill/Tom/Dylan, questo strano triangolo (no cose
strane, eh xD) tutto si è all'incirca sistemato: Bill si
è confidato con Tom, Tom e Dylan si sono parlati civilmente
e il cielo pare rasserenarsi.
Per ultima, ma non meno importante, c'è Molly! Nigel non
demorde, eh xD E chi è stato attento al loro breve scambio
di battute ha colto una cosa importante... staremo a vedere nel
prossimo capitolo ;) Tra l'altro, Molly deve andare a studiare da Aiden
e... voi non siete impazienti? Beh, io sì xD Quindi direi
che è arrivato il momento di smetterla di blaterare, ho
scritto un papiro o.o
Vi aspetto domenica prossima e ringrazio ancora chi ha recensito lo
scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le
preferite/seguite/ricordate e chi legge soltanto :) Un bacio! Vostra,
_Pulse_
P.S. Ah! Per quanto riguarda le canzoni in questo capitolo, oltre a
quella introduttiva, a cui ho già dato un autore e un titolo
tra parentesi, quella che canticchia Grace nell'auto di Crawford,
mentre vanno a Tijuana, è la stupenda "Warning sign" dei
Coldplay ;)
|
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Capitolo 26 *** Capitolo 24 ***
Capitolo 24
“Young
love is taking me over, your love
I’m losing control, my heart stops, stops when I get close to
you,
like lightning striking out of the blue”
(Young love – Jedward)
Ben, col suo vassoio del
pranzo fra le mani, si diresse verso i tavoli all’aperto
seguito da Molly, la quale gettò uno sguardo verso quello di
Nigel incontrando subito il suo viso e il posto vuoto che le riservava
ogni giorno, instancabilmente.
Si voltò di nuovo e vide che Ben si era già
seduto di fronte a Sheila, la quale la stava osservando con una mano
stretta a pugno sulla guancia. Molly arrossì e si
sistemò accanto al ragazzo, più che a disagio di
fronte ai suoi occhi blu, soprattutto ora che sapeva che era sempre
stata nel torto.
«Che bella sorpresa», disse Sheila senza
entusiasmo, tornando a mangiare le sue patatine fritte.
Molly incrociò lo sguardo di Ben, lui le rivolse un sorriso
incoraggiante e si rivolse all’amica: «Sheila,
ascoltala, per favore. È importante».
«Ascolto con le orecchie, non con gli occhi».
Molly deglutì e guardando la tovaglietta di carta
iniziò a parlare: «Voglio scusarmi per quello che
è successo, per aver creduto che voi… in
particolar modo che tu avessi fatto apposta a lasciare quella foto alla
redazione del giornale. Puoi perdonarmi?».
«Avresti potuto venirmene a parlare direttamente, invece di
farti tutti i tuoi film ed accusarmi ingiustamente.
Tuttavia…». Sheila sollevò gli occhi
blu per incontrare quelli azzurri della biondina e scrollò
le spalle. «Sì, penso di poterti
perdonare».
Il viso di Molly si illuminò con la comparsa di un sorriso
felice. «Allora… amiche?».
Arrossì subito, perché mai con Sheila era
riuscita a pronunciare quella parola, ma si sorprese quando anche la
ragazza si lasciò scappare un sorrisino, annuendo con un
cenno del capo.
«Ma ti avverto, non sarà una passeggiata avere noi
due come amici», indicò sia lei che Ben, il quale
in quel momento stava facendo scorrere con le dita delle pagine sul
touchscreen del suo cellulare, e poi i compagni alle sue spalle. Molly
si voltò e molti ragazzi e ragazze deviarono il suo sguardo,
smettendo di borbottare e scrivere velocemente sulle tastiere dei loro
telefonini.
«Guardate qua».
Ben mostrò alle ragazze ciò che i loro compagni
avevano scritto su Facebook, sotto l’ultimo stato di Nigel,
sempre più disperato che Molly non lo calcolasse: commenti
di ragazze più simili a vipere che sibilavano cattiverie
coinvolgendo anche i nuovi amici “sfigati” che
Molly si era scelta, dicendo che stare tra “la
feccia” era solo un modo per apparire migliore agli occhi
degli altri.
Molly stava per alzarsi e scatenare l’inferno di fronte a
tutti quei vigliacchi che non sapevano nemmeno dire le cose in faccia,
ma Ben la prese per mano e la tenne seduta al suo fianco.
«Lasciali perdere, non ne vale la pena».
Molly, il viso rosso ed accartocciato in un’espressione
irata, guardò di nuovo alle sue spalle e in particolar modo
fissò Nigel, a cui lanciò uno sguardo infuocato.
Il ragazzo nascose il collo fra le spalle e da vero codardo qual era si
voltò verso i suoi amici del club degli sportivi e dei
popolari, facendo come se nulla fosse.
«Non mi importa quello che dicono su di me», disse
Molly con convinzione, guardando prima Ben e poi Sheila. «Ma
non devono azzardarsi a parlare male di voi. Siete gli unici veri amici
che ho qui dentro».
Sheila, anche se era rimasta piacevolmente sorpresa dalle sue parole,
si disegnò un sorrisino malizioso sulle labbra.
«Oltre ad Aiden».
Molly sentì il proprio viso avvampare e posò lo
sguardo sull’albero del giardino sotto il quale qualche volta
aveva trascorso la pausa pranzo con lui.
«Si vede così tanto?»,
domandò con poca voce.
Sheila scrollò ancora le spalle. «Tutti se ne sono
accorti, tranne Nigel: sembra che non ci voglia credere».
La bionda sospirò e bevve un sorso d’acqua dalla
sua bottiglietta. Poi confessò: «Dopo scuola
dovrei andare a casa di Aiden a studiare storia».
«Se me lo dicevi potevamo trovarci tutti insieme!»,
intervenne Ben, punto nel vivo, ma Sheila gli rivolse
un’occhiata che gli fece capire che Molly aveva volutamente
fatto in modo che fossero solo lei ed Aiden. «Oh, ho capito.
E perché non ne sembri sicura?».
«Ancora non l’ho visto».
«Magari non aveva voglia di venire ed è rimasto a
casa. È normale per lui», tentò di
rassicurarla Sheila.
Molly guardò ancora l’albero e per un attimo vide
lei ed Aiden che ridevano, prendendosi in giro a vicenda sui loro
pranzi. Quando sbatté le palpebre anche
quell’immagine sfocata svanì e dovette
costringersi a mangiare qualcosa.
La campanella decretò la fine delle lezioni e Molly, dopo
aver salutato Ben e Sheila, schizzò in bagno per darsi una
veloce sistemata prima di incontrare Aiden.
Durante l’ultima ora, infatti, le aveva mandato un SMS,
dicendole che non si era dimenticato del loro appuntamento e sarebbe
venuto a prenderla fuori da scuola.
L’emozione l’aveva quasi mangiata viva, ma era
riuscita a trattenersi e a fare come se nulla fosse fino alla fine,
quando non aveva più resistito e aveva travolto con la sua
gioia anche i suoi amici.
Una volta di fronte allo specchio si guardò i capelli biondi
e gli diede una rapida spazzolata con il pettine che portava sempre in
borsa, poi si chiuse in uno dei bagni per fare pipì.
Si era appena tirata su i jeans, quando sentì le voci
stridule di due ragazze, più una terza che tentava
debolmente di rispondere agli insulti. Quella di Breanne.
«Ma cosa ti è saltato in mente?! Difendere Molly
di fronte a tutti! “Non dovremmo dire queste
cattiverie, non se le merita” e bla bla
bla!».
«Ma Megan, io non volevo…».
«Ah, non voglio più sentire nulla! Penso che ti
troverai bene con lei e la sua banda di emarginati, visto che se non
fosse stato per me avresti trascorso il tempo proprio come loro,
obesa!».
Quella fu l’ultima goccia e Molly azionò lo
sciacquone, quindi uscì dal bagno come se nulla fosse ed
accese l’acqua di un rubinetto per lavarsi le mani.
«Ciao ragazze», salutò le due smorfiose,
sorridendo candidamente. «Tutto a posto?».
«Sì», risposero a denti stretti, per poi
lanciare uno sguardo gelido a lei come a Breanne.
Quando uscirono dal bagno, la ragazza scoppiò
definitivamente in lacrime e Molly sospirò, prendendo dei
pezzi di carta per asciugarsi le mani e due in più per
Breanne.
«Quelle due non meritano le tue lacrime, te
l’assicuro», le sussurrò, accarezzandole
un braccio.
«Mi hanno… mi hanno chiamata obesa!».
Molly percorse con lo sguardo Breanne e, oggettivamente, sotto gli
abiti griffati, i profumi e i trucchi costosi, lo era. Ma aveva un bel
viso, un viso dolce e amichevole che Molly ricordava con particolare
affetto quando ripensava al suo primo giorno di scuola. Era stata lei
la sua prima compagna di banco e l’aveva trovata subito
carina e gentile, che fosse grassa o meno non le era interessato.
«Sono orribile…».
«No che non lo sei», disse Molly sorridendole.
«Io ti trovo molto bella, Breanne, e non lo dico per tirarti
su di morale. Sei bella perché hai un bel sorriso,
perché il colore dei tuoi occhi è bello; sei
bella perché sei sempre stata gentile con me e da quello che
ho potuto capire hai litigato con le tue amiche del club del gossip a
causa mia».
Breanne annuì, asciugandosi le lacrime e tirando su col
naso. «Non trovavo giusto che scrivessero quelle cattiverie
su di te su Facebook…».
«Hai fatto bene a dire quello che pensavi e se loro non lo
accettano vuol dire che non sono né sono mai state tue
amiche». Poi aggiunse: «Grazie, grazie davvero
Breanne».
La ragazza ricambiò il sorriso e strinse la biondina in un
abbraccio. «Vuoi essere mia amica, Molly?».
«Lo siamo già», le fece
l’occhiolino. «Ora devo scappare, ci vediamo
domani!».
«Come? Non ti fermi a vedere la partita di
baseball?».
Molly si morse le labbra e ricordò il giorno in cui lei ed
Aiden si erano messi d’accordo per studiare insieme storia.
Lui aveva proposto quel giovedì e solo quella mattina Molly
ne aveva capito il motivo: era il giorno della partita di baseball in
cui lui, non essendo stato convocato a causa del pugno tirato a Nigel,
non avrebbe giocato.
«No, ho un altro impegno. Ciao!».
Uscì in fretta dal bagno e corse lungo i corridoi ormai
vuoti e silenziosi. Una volta nella piazza di fronte
all’edificio scolastico, anch’essa deserta, si
guardò intorno ed incrociò quasi subito gli occhi
scuri di Aiden, il quale l’abbagliò con un piccolo
sorriso.
«Pensavo ti fossi persa! Di nuovo».
Molly ridacchiò e lo raggiunse. «Scusami,
c’è stato un piccolo…
imprevisto».
Incuriosito, corrugò la fronte. «Che tipo di
imprevisto?».
«Ti spiego strada facendo?».
«Okay, allora monta sul mio destriero!».
Molly rise e si sedette di traverso sulla canna della sua bicicletta,
fra le sue braccia forti che controllavano il manubrio.
«Pronta?», le chiese all’orecchio. Molly
sentì il cuore batterle sempre più velocemente,
ma annuì e si tenne forte per non cadere, anche se sapeva
che Aiden non l’avrebbe mai permesso.
Per raggiungere casa sua ci vollero circa venti minuti, visto che
più o meno era nello stesso quartiere della scuola, anche se
nella zona più periferica, e Molly ebbe tutto il tempo per
spiegargli ciò che era successo a Breanne poco prima.
«C’è un sacco di brutta gente in questa
scuola, imparerai a farci l’abitudine», convenne
Aiden, sospirando.
«Io non voglio farci l’abitudine, voglio che la
smettano e basta!».
«Hai un costume da paladina della giustizia
nell’armadio, per caso?».
Molly sorrise, prendendola con ironia. «Tipo Wonder
Woman?».
«Staresti molto bene col suo costume stelle e strisce, ne
sono sicuro, ma non penso davvero che tu possa fare qualcosa per
fermare quel branco di palloni gonfiati: se la prendono con i
più deboli, l’hanno sempre fatto e
continueranno».
La ragazza cadde in un profondo silenzio, l’espressione
corrucciata e pensosa, col vento che le scompigliava i capelli.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto bruscamente quando Aiden le
chiese: «Piuttosto, hai fatto pace con Ben e
Sheila?».
Durante una delle pause pranzo trascorse insieme gli aveva raccontato
pure della situazione che si era creata con gli unici amici che aveva,
confidandogli tutti i suoi sentimenti. Era facile parlare con lui,
sempre che i loro discorsi non riguardassero… beh, lui.
«Sì, proprio oggi, con entrambi».
«Sono felice per te», disse e, guardando il suo
sorriso, poteva anche essere che lo fosse davvero. «Sono due
tipi a posto, anche se parecchio strambi, devo ammetterlo».
«Che cos’hanno per essere definiti strambi,
posso saperlo?».
«Beh… Ben è un genio della matematica e
dell’informatica e alcuni dicono che la sua stanza sia piena
di computer e formule matematiche scritte sui
muri…».
«Certo, e io sono Cenerentola!», esclamò
Molly, rovesciando gli occhi. «Davvero credi alle voci di
corridoio?».
«No, però… Devo dire che ce lo
vedo!», ridacchiò. «Niente in contrario,
comunque».
«E Sheila?».
«Lei è un po’, come dire…
lunatica. Strano che tu non abbia mai sentito il suo
soprannome».
«Quale, Moody? L’ho sentito da
Nigel il primo giorno, ma non credo che lei sia…».
«Fidati, lo è», la interruppe, parlando
con un tono di voce fin troppo serio. «E non nel senso che
cambia spesso umore e cose del genere, è proprio una cosa
seria, una patologia. Credo che in questo periodo stia prendendo i suoi
farmaci, perché passa quasi inosservata».
Molly, scioccata, non trovò nulla da dire e rimase in
silenzio fino a quando Aiden non si fermò e la prese per
mano per aiutarla a scendere dalla bici, dicendole che erano arrivati
al suo “castello”. La ragazzina milionaria
alzò il viso per guardare il condominio in cui Aiden le
aveva detto che si trovava il suo appartamento e si chiese se le stesse
facendo uno scherzo. Già il fatto che Aiden avesse un
appartamento tutto suo l’aveva lasciata a bocca aperta, se
poi si parlava di condominio…
«Quindi abiti davvero da solo?», gli
domandò mentre salivano le scale, lui in testa.
Aiden sorrise e tirò fuori le chiavi dalla tasca dei jeans.
«Sorpresa?».
«Beh… sì».
«Me l’ha comprato mio zio. Lui paga le bollette e
cose del genere, ma per il resto faccio tutto io, dal bucato ai piatti.
Prego».
Aiden le aprì la porta e si fece da parte per farla entrare
per prima. Molly gettò un rapido sguardo
all’interno, poi si pulì i piedi sullo zerbino ed
entrò.
Si trovò in un piccolo ingresso che dava da una parte sulla
cucina abitabile, a cui si accedeva salendo un paio di gradini, e
dall’altra su un salotto sviluppato più in
lunghezza che in larghezza, che si concludeva con due porte vetrate che
davano su una terrazza. Se invece Molly guardava di fronte a
sé, poteva vedere uno stretto corridoio che doveva portare
al bagno e alla camera da letto di Aiden.
«Scusa il casino, stamattina non ho fatto in tempo a
sistemare tutto».
In effetti c’era un po’ di disordine, come per
esempio i CD sparpagliati sul tavolino di fronte al divano e le riviste
di auto aperte sul pavimento in salotto, ma era bello,
perché poteva cogliere la vera essenza di Aiden in tutti gli
oggetti che riempivano gli spazi e che i suoi occhi catalogavano
minuziosamente.
Molly si voltò verso di lui e quando anche lui si
girò, dopo aver chiuso la porta, i loro sguardi si
incrociarono. Lei arrossì, ma coraggiosamente
esclamò: «È semplicemente
fantastico».
Aiden si portò una mano dietro la nuca ed accennò
un sorriso imbarazzato. «Sì, piace anche a
me».
Si tolse il cappellino e lo lanciò sul divano, poi la
superò per dirigersi in cucina. «Hai sete? Un
bicchiere di Coca?».
«Molto volentieri, grazie».
Molly fece qualche passo nel salotto e lasciò la borsa a
tracolla accanto al divano, osservando la parete su cui era installato
il televisore a schermo piatto e rimanendo particolarmente affascinata
da una fotografia in bianco e nero che Aiden aveva fatto ingigantire:
due ragazzi di colore, un uomo e una donna col pancione, sorridenti e
felici di essere l’uno nelle braccia dell’altro
seduti intorno ad un tavolo all’aperto di un bar.
«Molly».
La ragazza si voltò e vide Aiden con lo sguardo fisso sulla
stessa fotografia che aveva guardato lei fino ad allora, una mano
ancora sulla bottiglia di Coca Cola e un’espressione triste
sul viso.
Molly si morse l’interno della guancia e lo raggiunse in
cucina, provando a sorridergli quando prese uno dei due bicchieri e lo
ringraziò.
Quando tutti e due posarono di nuovo i bicchieri sul tavolo, gli
chiese: «Dove ci mettiamo a studiare?».
Aiden scrollò le spalle, tornando a sorridere.
«Possiamo stare qui, oppure fuori in terrazza, se
preferisci».
«Davvero possiamo stare in terrazza? Sarebbe
perfetto».
«Okay. Tu inizia ad avviarti, io vado a prendere i
libri».
Molly annuì e lo vide sparire in corridoio. Prese la borsa
in salotto e ridacchiando spostò la maglietta che Aiden
aveva lasciato sulla maniglia delle porte vetrate, poi uscì.
Alzò subito lo sguardo verso il cielo, arricciando il naso
di fronte alle nuvole che ogni tanto oscuravano il sole, ma non si
lasciò intimorire e si avvicinò al tavolino di
alluminio circondato da quattro sedie con lo schienale traforato.
Appese la tracolla ad uno di essi e si appoggiò al parapetto
per osservare la città di grattacieli e palme, scorgendo
persino l’oceano agitato in lontananza.
«Una bella vista, vero?».
Molly si voltò e guardò Aiden mentre posava i
suoi libri sul tavolino, per poi raggiungerla sorridendo.
«È ancora più bella di notte, con le
luci dei grattacieli e delle auto in strada».
«Aiden, perché vivi qui da solo?», gli
chiese ad un certo punto, interrompendo il silenzio che li aveva
avvolti stando appoggiati lì, a guardare il panorama urbano.
«Sto meglio da solo, con le mie cose e senza che nessuno si
occupi di me ventiquattr’ore al giorno».
«E non soffri di solitudine?».
Aiden non rispose, anche se la sua espressione, triste come quella che
gli aveva visto poco prima, parlò da sé. A
salvarli dall’imbarazzo ci pensò il cellulare di
Aiden, che iniziò a vibrare insistentemente nella tasca dei
suoi jeans.
«Scusami un attimo», le disse prima di allontanarsi
un po’, tornando all’interno del salotto.
Molly provò a farsi gli affari suoi, ma sentì
comunque parte della conversazione.
«Mi dispiace zio, lo so che sto facendo molte assenze, ma
stamattina non mi sentivo bene. Sì, ti ho già
detto che verrò stasera, non ti preoccupare. Va bene, okay,
ciao».
Quando Aiden tornò da lei, per fortuna gli era tornato il
sorriso.
«Allora, parliamo dei Padri Fondatori degli Stati Uniti
d’America?».
Molly annuì e si sedette di fronte a lui, pronta per quella full-immersion
nella storia del loro Paese.
«Perché si festeggia il 4 Luglio?».
«Perché il 4 Luglio 1776 il Congresso continentale
adottò la Dichiarazione d’Indipendenza, un
documento formato da tre parti: la dichiarazione dei principi relativi
ai diritti dell’uomo e alla legittimità della
rivoluzione, l’elenco delle accuse contro il re, Giorgio III
d’Inghilterra, e la formale dichiarazione
d’indipendenza».
«La Dichiarazione
d’Indipendenza fu redatta dalla cosiddetta Commissione
dei Cinque… Sapresti dirmi da chi era
formata?».
«Li so, li
so». Molly fece un respiro profondo e socchiuse gli occhi
nello sforzo di ricordare tutti e cinque i nomi.
Aiden non riuscì a
trattenersi e scoppiò a ridere di fronte alla sua
espressione buffa. La ragazza si distrasse e, contagiata, gli
tirò uno schiaffetto sul braccio.
«Non farmi ridere,
stupido! Allora c’era Thomas Jefferson, il più
importante…».
«Scusa, scusa ma non
ci riesco!», disse continuando a ridere, tenendosi la pancia.
«Avresti dovuto vedere la tua faccia!».
Molly si addossò
allo schienale della sedia incrociando le braccia al petto e lo
guardò imbronciata, ma non resistette a lungo. Due minuti
dopo, infatti, aveva ripreso a ridere anche lei, decisamente travolta
dal suo sorriso.
Era così bello
quando era felice, peccato che lo fosse così poche
volte…
All’improvviso
sentì qualcosa di bagnato colpirle il naso. Si
portò una mano sul viso, poi alzò lo sguardo
verso il cielo, ora del tutto coperto dalle nuvole. Cercò lo
sguardo di Aiden, il quale l’aveva posato su una goccia di
pioggia che si era schiantata in quel momento sui loro appunti,
sbavandone l’inchiostro blu.
Contemporaneamente si alzarono
e raccattarono disordinatamente più fogli e libri possibili
per portarli al sicuro all’interno del salotto. Quando
uscirono di nuovo per recuperare gli astucci, i loro bicchieri di Coca
Cola e la borsa a tracolla di Molly, l’acquazzone era
già iniziato e si bagnarono da capo a piedi. Ciononostante,
una volta chiusa la porta vetrata alle loro spalle, si scoprirono a
ridere ancora come due bambini.
«Oh mio
Dio», esalò Molly quando non ne poté
più, sentendo i muscoli dell’addome intorpiditi.
«Guardati, sei tutta
bagnata!». Aiden le prese una ciocca di capelli biondi e se
la girò fra le dita.
Molly ebbe come
l’impressione di andare a fuoco, ma serrò le
labbra e cercò i suoi occhi senza successo. Aiden le
sistemò la ciocca dietro la spalla ed accennò un
sorriso abbassando il viso.
«Vado a prenderti un
asciugamano», mormorò, per poi sparire in
corridoio.
Molly nel frattempo
sistemò meglio i fogli dei loro appunti e divise i libri,
infilando nella borsa i suoi. Quindi gettò
un’occhiata all’orologio che portava al polso e
quasi trasalì: non pensava fossero stati insieme
così tanto, non se n’era nemmeno resa conto!
Quando Aiden tornò,
con un asciugamano intorno al collo e uno in mano per lei, la
trovò seduta sul divano, intenta a chiamare qualcuno col suo
iPhone di ultima generazione.
Le rivolse uno sguardo confuso
e lei scosse il capo, spiegando: «Devo assolutamente andare a
casa, stasera devo uscire con i miei genitori e…».
«Ma fuori
diluvia!», ribatté Aiden, indicando con un dito la
terrazza.
«È a
questo che servono gli autisti».
Aiden si lasciò
cadere seduto al suo fianco, affondando nella morbida pelle del divano,
ed accese svogliatamente la TV, mettendo il volume al minimo. Ma, per
niente interessato, la ignorò completamente, osservando
piuttosto il profilo di Molly mentre parlava al cellulare e i suoi
capelli umidi di pioggia. Aveva detto che doveva uscire quella
sera… E se si fosse presa il raffreddore?
Strinse
l’asciugamano che teneva in mano e, seppur con qualche
esitazione, glielo posò sulla testa, iniziando a
frizionarglieli delicatamente.
Molly, rossa
d’imbarazzo, chiuse in fretta la telefonata e si rivolse ad
Aiden: «Lascia, faccio io…». Si
portò una mano sulla testa, ma incontrò la sua e
fu ancora peggio per il suo povero cuore, che sobbalzò. Si
voltò lentamente verso di lui ed incrociò i suoi
occhi scuri come pozzi e allo stesso tempo accesi e vispi, rimanendo
completamente senza fiato.
Aiden ricambiò il
suo sguardo e ad un tratto si sciolse in un sorriso divertito,
permettendo a Molly di uscire dallo stato di trans in cui era piombata.
«Perché
ridi?», gli chiese, anche se a bassa voce.
Aiden trattenne
l’ennesima risata. «Con l’asciugamano in
testa sembri una contadinella».
Molly riempì le
guance d’aria per non urlare né ridere a
crepapelle e prese l’asciugamano per usarlo come frusta
contro di lui, colpendolo sul petto.
«Ahi! Ma che fai,
sei matta?!», gridò ridendo, afferrandolo per
un’estremità e tirando.
Molly resse il suo gioco per
un po’: si stavano divertendo come bambini e avrebbe tanto
voluto che mai niente interrompesse quel momento. Niente eccetto la
cosa che desiderava con tutta se stessa e che al contempo temeva.
Ad uno strattone
più forte Molly perse l’equilibrio e gli
finì addosso, con il viso ad un centimetro dal suo petto.
Provò a sollevarlo per vedere la reazione di Aiden, ma non
ne ebbe il coraggio, mentre invece trovò quello necessario
ad abbandonarsi al suo abbraccio, nascondendo il viso sotto al suo
mento. Lentamente sentì le braccia di Aiden avvolgerle la
schiena ed ebbe come la sensazione che al suo cuore fossero spuntate le
ali, talmente forti e veloci erano diventati i suoi battiti.
«Hai… hai
freddo?», le domandò Aiden, dicendosi che poteva
essere solo quello il motivo per cui l’aveva abbracciato in
quel modo. Solo quello.
«No, adesso sto
bene», rispose Molly. «Alla fine ho capito
perché hai voluto che ci vedessimo proprio oggi: era il
giorno della partita di baseball».
Aiden sorrise e le
posò una mano sulla nuca, passandole ancora un po’
l’asciugamano fra i capelli. «Nigel doveva essere
parecchio felice, immagino. Sei riuscita a levartelo di
dosso?».
«Ma quando
mai… Inizio a credere che dovrò sopportarlo fino
alla fine della scuola».
«Probabile».
«Grazie, come sei di
conforto».
Aiden ridacchiò e
le massaggiò la schiena con una mano. «Oppure fino
a quando non troverai un ragazzo pronto a difenderti da ogni suo assalto».
Molly sgranò gli
occhi nello stesso istante in cui quelle parole raggiunsero il suo
cervello e il suo cuore perse un battito.
Cosa voleva dire? Chi era il
ragazzo che descriveva? Lui? Oppure diceva così
perché non pensava di poter essere adatto per ricoprire quel
ruolo?
Provò a sollevarsi
per guardarlo in viso, ma la suoneria del suo iPhone la interruppe
bruscamente e non seppe se ringraziarla o maledirla per il tempismo.
«Signorina, sono qui
sotto. Quando vuole, l’aspetto».
«Arrivo subito,
grazie», rispose lapidaria e bloccò il
touchscreen. Si voltò verso Aiden e lo vide sorridere
sghembo.
«È
arrivato l’autista?».
«Come sei
perspicace…».
Le fece l’occhiolino
e si alzò, aiutandola a fare altrettanto. Poi le prese
l’asciugamano dalle mani e la condusse alla porta,
osservandola mentre si faceva un rapido chignon con
l’elastico che aveva al polso.
Quando furono entrambi sulla
soglia, si sorrisero imbarazzati.
«Ci vediamo domani,
allora», disse Aiden, rompendo il silenzio.
Molly annuì.
«Grazie per avermi aiutato a studiare, senza di te non avrei
saputo come…».
«Ah, lascia perdere.
È stato bello».
Molly annuì ancora
una volta e rimase ferma lì per qualche secondo, poi si
allontanò di uno, due, tre passi, salutandolo con uno
sventolio di mano.
Era già sulle
scale, quando Aiden si sporse e la chiamò. Lei si
voltò e lo guardò speranzosa, pensando che magari
le sarebbe corso incontro e le avrebbe dato il bacio che sognava. Ma
lui rimase fermo e le rivolse un altro dei suoi sorrisi.
«Adams,
Franklin, Livingston e Sherman. Loro, insieme a Thomas
Jefferson, formavano il Congresso dei Cinque».
Molly gli fece il segno
d’OK con la mano e senza più guardarsi indietro
corse giù dalle scale.
«Signorina,
è maledettamente tardi. Non avrebbe dovuto intrattenersi
così tanto con il suo…».
«Malie, rilassati», la interruppe Molly
stancamente, finendo di asciugarsi i capelli dopo la doccia calda.
Posò il phon nel cassetto aperto accanto alla specchiera e
chiese: «Il ferro per i ricci è acceso?».
La governante hawaiana annuì. «L’ho
messo a scaldarsi poco fa, credo ci vogliano ancora un paio di
minuti».
«Benissimo. Il mio vestito?».
«Eccolo qui, signorina».
Glielo mostrò tenendo la gruccia con una mano e Molly
accarezzò la seta color platino del corpetto senza spalline
e della gonna lunga fino alle ginocchia, i ricami floreali e la fascia
nera elasticizzata legata a fiocco intorno alla vita.
«Aiutami ad infilarlo».
Una volta indossato, si rimirò avanti e dietro
più volte sul grande specchio da terra nella sua stanza, poi
pensò ai suoi capelli piatti e privi di carattere. Si
occupò di ogni singolo boccolo con fare minuzioso,
nonostante la governante continuasse a metterle fretta, e
successivamente passò al trucco, mettendosi un po’
di ombretto grigio brillantinato sulle palpebre, un filo di matita nera
all’interno degli occhi, un po’ di fondotinta e di
cipria chiara per rendere la pelle del suo viso più luminosa
e per finire un velo sottilissimo di gloss trasparente sulle labbra.
Curare il suo aspetto era l’unica cosa in grado di farla
rilassare e di distrarla, per questo se l’era presa comoda:
aveva bisogno di non pensare al pomeriggio passato con Aiden,
perché era stato uno dei pomeriggi più belli
della sua vita e allo stesso tempo l’aveva lasciata con
l’amaro in bocca, oltre che con ben poche speranze di
diventare qualcosa di più di una semplice amica per lui.
Ancora non aveva smesso di interrogarsi su quello che aveva detto, o
meglio su quello che aveva voluto farle intendere. Non si riteneva
forse abbastanza per lei? Beh, Molly non si sarebbe arresa tanto
facilmente, perché anche se non era esattamente il principe
azzurro che aveva sognato da bambina, con il cavallo bianco, il
castello e mille servitori, era lui quello che voleva,
l’unico capace di farla sentire felice e al sicuro dai
briganti di nome Nigel Hall.
«Malie, la signorina è pronta?».
La governante tirò fuori dalla grande tasca del suo
grembiule un walkie-talkie gracchiante – molto utile per
parlare da un lato all’altro dell’enorme villa
– e dopo aver gettato un’occhiata a Molly rispose
al maggiordomo: «Sì, sta scendendo».
Molly si infilò le scarpe, un paio di decolté
argentate a tacco alto, poi prese la piccola pochette Fendi,
anch’essa in tinta col vestito, e scese lentamente le scale
di marmo, facendo scivolare le dita lungo il corrimano dorato.
«Oh tesoro, sei una meraviglia», le disse subito
sua madre.
Molly accennò un sorriso nella sua direzione, mentre
lasciava che la governante le mettesse sulle spalle nude la giacchetta
di pelle nera.
«Possiamo andare?», chiese Mr. Delafield, porgendo
il braccio a sua moglie.
«La limousine è già qui fuori che vi
attende», spiegò il maggiordomo, aprendo la porta
di casa.
Aveva smesso di piovere e il cielo ora era sgombro di nuvole, tanto che
si potevano vedere le stelle che brillavano
nell’oscurità.
Molly entrò per ultima nella lussuosa vettura e
l’autista chiuse delicatamente la portiera, poi con una
corsetta raggiunse il posto di guida, mettendo subito in moto.
Erano partiti da quasi dieci minuti, diretti alla villa estiva del
più influente uomo d’affari del momento, forse
anche più importante di suo padre, quando Molly
sentì la sua borsetta vibrare insistentemente.
Tirò fuori il suo iPhone e lesse il nome di Grace sullo
schermo, ma invece di rispondere sospirò e guardò
fuori dal finestrino, lasciandolo vibrare nella sua mano.
Aspettava la sua chiamata da molto tempo, ma aveva beccato un pessimo
momento, così brutto che non aveva voglia di parlare con
nessuno, nemmeno con lei. Voleva soltanto trovare un modo per far
sì che quello stupido ricevimento finisse il più
presto possibile e la sua mente la smettesse di tramortirla in
continuazione con l’immagine del sorriso di Aiden, con il
suono della sua risata, con le sensazioni che aveva provato quando
l’aveva guardato negli occhi oppure quando, bagnata di
pioggia, si era rifugiata nel suo abbraccio.
***
Grace corrugò la
fronte e guardò confusa il cellulare.
Molly non le aveva risposto, dopo tutta l’insistenza che
aveva usato per costringerla a chiamarla il prima possibile. Strano.
Si grattò la testa e sbucò di nuovo in salotto,
dove si soffermò a guardare con più attenzione
Dylan che stringeva un cuscino al petto come se fosse un peluche.
«Cos’è, hai deciso di trasferirti sul
mio divano?».
Il poliziotto, in dormiveglia, si disegnò un sorrisino sulle
labbra e si girò sul fianco per lasciare un po’ di
spazio alla detective, la quale si sedette accanto alle sue ginocchia.
«Potrei farci un pensierino», le rispose.
«Dormito bene?».
«Vuoi la verità? Da Dio. Ma non avrei dovuto
dormire così tanto: questa notte che
farò?».
«Io sento che potrei dormire ancora».
Grace ridacchiò, scrollando il capo. «Tu sei un
caso patologico».
«Chi hai provato a chiamare?», le chiese ancora,
dopo qualche secondo di silenzio, accennando al cellulare che teneva
ancora in mano.
«Molly. Voleva parlarmi, ma non mi ha risposto».
Dylan sbadigliò senza ritegno. «Sarà
impegnata».
«Oppure è successo qualcosa con il ragazzo che le
piace… Oggi doveva andare a casa sua per studiare storia, se
non mi sbaglio».
«Vedrai che starà bene».
«Uhm, sarà… Adesso chiamo Tom, anche se
quando è preoccupato è insopportabile».
All’udire il nome del chitarrista, Dylan si alzò
di scatto sul divano e la fermò, abbassandole la mano con la
quale stava per portarsi il cellulare all’orecchio.
«Che c’è?», gli
domandò la detective. Sembrava preoccupato e a disagio,
tanto che deglutì rumorosamente prima di aprire bocca.
«Prima di crollare mi hai affidato il tuo cellulare, ricordi?
E Tom… lui ha chiamato».
«Davvero? E che ti ha detto? Aspetta…»,
sorrise dolcemente e gli posò una mano sulla spalla.
«Avete fatto pace!».
«No! Cioè, anche!».
Grace inarcò un sopracciglio. «Allora vai al sodo,
Dylan. Che ti ha detto di tanto sconvolgente?».
«Ecco, lui… lui sa».
«Lui… Oh!». Grace scoppiò in
una grassa risata e si piegò in avanti tenendosi la pancia.
«Cosa credevi, che Bill glielo tenesse nascosto per sempre?
È il suo gemello! E poi anche tu ti sei confidato subito con
me».
«Lo so, ma lui è… è Tom! E
poi è diverso, perché tu sei una ragazza e sei
amica di Bill!».
Grace si ammutolì e fissò intensamente gli occhi
nei suoi. «Stai dicendo che tu e Tom non siete
amici?».
«Io non intendevo… Però, insomma, ci
conosci, sai benissimo che abbiamo sempre avuto alti e
bassi… E questa è una cosa maledettamente
delicata…».
Gli posò entrambe le mani sulle spalle e gli sorrise
incoraggiante. «Appunto perché questa cosa
è maledettamente delicata dovete
parlarne e cercare di avere un rapporto più stabile.
È soprattutto per Bill che dovete farlo, perché
vi ama entrambi e non può fare a meno di uno di
voi».
Dylan scosse il capo. «Non lo so, io…».
«Tom può anche essere il ragazzo più
stupido, irritante, infantile e narcisista del mondo, ma quando si
tratta di suo fratello, puoi starne certo, farebbe di tutto pur di
vederlo felice. E se questo vuol dire averti sempre tra le
palle… cercherà di adottare un comportamento
civile con te».
I due si scambiarono un sorriso, quindi Grace si alzò e
prese il cellulare per fare, finalmente, quella telefonata al ragazzo
che aveva appena insultato e allo stesso tempo lodato.
«Alleluia, finalmente sei uscita dal letargo?!».
Quelle furono le prime parole che Tom le rivolse, con finto tono di
rimprovero, e Grace arricciò le labbra per reprimere una
risata.
Forse, se non quasi certamente, non si sarebbero divertiti tanto se
tutto fosse stato perfetto.
***
La villa in cui si stava
già svolgendo il ricevimento era semplicemente pazzesca e
Molly dovette confessare a se stessa che non aveva mai visto nulla del
genere.
Era grande forse il triplo della sua, c’erano decine e decine
di stanze, tra cui una vera sala da ballo, un cinema/teatro e una serra
gigantesca con piante tropicali, e oltre alla normale piscina in
giardino, a forma di otto rovesciato, il simbolo
dell’infinito, nel salone in cui si trovavano c’era
un’enorme acquario che prendeva un’intera parete ed
era profondo diversi metri, nel quale era stato riprodotto
l’habitat della barriera corallina australiana. Di sicuro il
posto più affascinante per intrattenere gli ospiti con
flûte di champagne e vassoi di stuzzichini, anche se,
chissà come mai, tutti quanti evitavano quelli ai gamberetti
o al salmone.
Era riuscita a distrarsi abbastanza, grazie all’ambiente
travolgente e alle mille presentazioni a cui suo padre aveva costretto
lei e sua madre; ciononostante una volta la sua mente le aveva fatto un
brutto scherzo, facendole credere di aver intravisto Aiden in mezzo a
tutti quegli uomini di mezza età in giacca e cravatta,
accompagnati o meno dalle loro mogli.
«Oh, sta arrivando il padrone di casa!»,
squittì sua madre tutta eccitata, acchiappandola per un
braccio e togliendole dalla mano l’ultimo stuzzichino alla
gelatina che aveva preso, evitando che la trovasse così a
bocca piena. Le fece una radiografia completa, controllando che i suoi
capelli fossero perfetti, il suo trucco non avesse imperfezioni
né il suo vestito avesse pieghe.
«Sai perché questo ricevimento è
così importante?», bisbigliò,
sollevando un po’ le sopracciglia.
E altrettanto a bassa voce Molly rispose: «Per
affari?».
Sua madre annuì col capo. «Quindi vediamo di fare
bella figura, okay?». Si passò una mano fra i
corti capelli biondi, poi si stampò il suo miglior sorriso
sulle labbra – cosa non affatto difficile per lei, col suo
passato da modella – e si voltò.
Il padrone di casa aveva già raggiunto suo padre e gli stava
stringendo la mano, sorridendogli in modo solare.
Quel sorriso colpì in modo particolare Molly,
perché somigliava moltissimo a quello di Aiden. E non solo
quello. Guardandolo meglio, infatti, si rese conto che anche la
sfumatura particolare del colore della sua pelle era la stessa e i suoi
occhi scuri e profondi le ricordavano maledettamente quelli di Aiden.
Sarebbe potuto passare tranquillamente per suo fratello, se non avesse
avuto una quarantina di anni in più, i capelli sale e pepe e
un comportamento molto più distinto. Forse era lui che aveva
intravisto tra gli ospiti, non era stato uno scherzo della sua mente.
«Mr. McNab, le presento mia moglie e mia figlia»,
Mr. Delafield le annunciò con gli occhi fieri e luminosi,
come se fossero il suo pezzo più pregiato, da guardare ma
non toccare.
«Oh, finalmente ho l’onore di conoscerti,
Molly!», esclamò l’uomo, prendendole la
mano ed accarezzandogliela con le labbra.
«C-Come fa a sapere il mio nome?», gli
domandò, senza però affievolire il sorriso che si
stava sforzando di mantenere tirato sulle guance.
«Mio nipote… quello sciagurato», lo
disse sorridendo in modo dolce, tanto da sorprenderla. «Mi ha
detto che andate a scuola assieme e che domani avrete un test di
storia».
Il cuore di Molly si fermò all’improvviso ed ebbe
anche la sensazione di non riuscire più a farlo funzionare
correttamente.
Mr. McNab si guardò intorno, sospirando. «Se solo
sapessi dove si è cacciato! Almeno insieme non vi
annoiereste troppo».
«Oh, ma il suo ricevimento è tutt’altro
che –», disse sua madre, ma fu bruscamente
interrotta da Molly, la quale, quella volta con la disfunzione opposta
– il suo cuore batteva frenetico nel petto mandandole
letteralmente a fuoco il corpo e il viso, – disse in modo
concitato: «Aiden è qui?».
Il signore annuì e persino i suoi occhi trasudarono
dolcezza. Chissà se anche Aiden era in grado di fare
quell’espressione…
«Lui non è tipo da ricevimenti. Sarà
qui da qualche parte».
Sua madre provò a trattenerla prendendola per un polso, ma
Molly cercò lo sguardo di suo padre e quando lo
incontrò lui le sorrise, sollevando il suo flûte
di champagne pregiato. Allora sua madre fu costretta a lasciarla andare
e Molly si allontanò in fretta, destreggiandosi abilmente
fra gli invitati.
Provò a pensare come Aiden, ai posti in cui si sarebbe
rifugiato più volentieri, ma fu parecchio difficile, anche
perché concentrarsi con le pulsazioni del cuore che
diventavano sempre più forti nei timpani non era il massimo.
Lo cercò in piscina, sotto il gazebo di legno circondato di
statue in giardino, nel cinema/teatro, ma fu un continuo buco
nell’acqua.
Alla fine il suo ultimo tentativo fu quello di provare a cercarlo nella
serra tropicale. Quando vi entrò, però, si
dimenticò del perché vi era giunta e rimase a
bocca aperta.
C’era un tasso di umidità altissimo, tanto che il
calore per un attimo la lasciò senza aria nei polmoni, e
sollevando gli occhi verso il soffitto si accorse che in
realtà non ce l’aveva. Il soffitto, infatti, era
una semplice cupola di vetro trasparente, attraverso la quale di giorno
entrava il sole, indispensabile per la vita delle piante esotiche, e di
notte si poteva vedere il cielo stellato.
Camminò tra i grandi alberi le cui fronde rischiavano di
toccare la cupola, le felci e gli strani fiori enormi e dai colori
vivaci, fino a quando non sentì un lento e continuo
gorgoglio. Si domandò se il padrone di casa non avesse fatto
installare anche delle cascate, magari una riproduzione in miniatura di
quelle del Niagara, ma spostando un paio di grandi foglie
lussureggianti vide soltanto una modesta fontana. Al centro si ergeva
uno scoglio scuro e frastagliato e sopra di esso si trovava la statua
di una donna possente e al contempo femminile, uno strano ibrido tra
un’amazzone e una sirena: sdraiata su un fianco, i capelli
lunghi e mossi le ricadevano sul seno prosperoso e il suo sorriso era
ammaliante, ma anche un po’ inquietante, come il pugnale che
teneva posato su una coscia nuda e snella.
Totalmente rapita dalla visione di quella donna bella quanto letale,
fino a quel momento non si era minimamente accorta della presenza di
Aiden, seduto sul bordo in marmo nero della fontana, con un bicchiere
di champagne nella mano.
Lo guardò mentre con una smorfia lo svuotava tutto
d’un fiato e poi posava il flûte vuoto per terra.
Alla fine decise di annunciare la propria presenza ed emerse dalla
vegetazione. Aiden alzò di scatto il viso e la
fissò stupefatto, percorrendola con gli occhi per qualche
secondo.
«Molly… Che ci fai tu qui?».
La ragazza sorrise. «Quello che fai tu, suppongo: scappo dal
ricevimento».
Allora anche Aiden sorrise, appoggiando entrambe le mani sul bordo
della fontana e gettando di un poco la testa all’indietro.
«Hai perfettamente ragione, ma io intendevo cosa ci fai al
ricevimento. Sai, avevo creduto di vederti prima, ma mi sembrava
impossibile e allora…».
Molly si avvicinò ancora e con gli occhi gli chiese il
permesso di sedersi al suo fianco. Lui acconsentì, ritraendo
una mano.
Rimasero in silenzio a lungo, entrambi con il viso rivolto
all’insù, a guardare la luna pallida che brillava
oltre la cupola di vetro, i suoi raggi che andavano a colpire proprio
il volto dell’amazzone-sirena.
Ad un certo punto Molly stese un sorriso, pensando che anche Aiden
aveva stentato a credere alla possibilità di incontrarsi a
quel noiosissimo ricevimento.
«E così… Mr. McNab è tuo
zio».
Aiden annuì. «Fratello maggiore di mia madre. Si
è preso cura di me da quando… mio padre
è stato ucciso».
Molly rabbrividì ed abbassò subito lo sguardo
sulle sue mani unite in grembo. Poi il suo sguardo cadde lentamente su
quella di Aiden, posata sul marmo nero della fontana dove erano ancora
seduti, e provò ad accarezzarla, ma la sfiorò
soltanto, perché lui la ritrasse e si alzò,
stringendosi nel suo stesso abbraccio e dandole le spalle.
«Scusami, non so nemmeno perché te l’ho
detto».
La ragazzina scosse il capo e disse a bassa voce: «Non fa
niente, se vuoi… sono un’ottima
ascoltatrice».
Aiden accennò un sorriso dolente. «Mia madre se
n’è andata nel sonno un anno dopo, quando io avevo
solo nove anni. Ho sempre pensato che il dolore che aveva provato alla
scomparsa di papà e tutte le stronzate che aveva sentito
dire dalla polizia sulla sua morte l’avessero logorata
dall’interno, fino a portarmela via. Probabilmente
è così».
Le ritornò alla mente la fotografia in bianco e nero che
aveva visto appesa nel salotto a casa di Aiden e sentì un
groppo bloccarle la gola. Entrambi i suoi genitori se n’erano
andati, lasciandolo solo.
«Mi… mi dispiace tanto».
Fu lui quella volta a scuotere mestamente il capo. «Sono
passati tanti anni e anche io mi sto stancando di dispiacermi, sto
perdendo le speranze di avere giustizia…».
Molly si voltò e guardò i grandi pesci, simili a
carpe, nuotare nell’acqua fresca della fontana, fino a quando
non riuscì più a resistere e disse:
«Che cosa vuol dire che la polizia ha detto tante stronzate
sulla morte di tuo padre?».
«Mio padre…». Aiden chiuse gli occhi e
sospirò, accarezzando il tronco di una pianta vicino a lui.
«È stato trovato morto sulla spiaggia, con una
pistola in mano e una busta di cocaina nella tasca della giacca. Questo
però non vuol dire che si sia suicidato per debiti di droga,
mi spiego? La polizia invece ha chiuso subito il caso».
Non si era nemmeno accorto che Molly si era alzata e l’aveva
raggiunto, se la trovò di fronte all’improvviso
quando aprì gli occhi, una mano stretta intorno al suo
braccio come se potesse davvero donargli un po’ di conforto.
Nessuno ci era mai riuscito e Aiden stava già per ritrarsi,
ma i suoi occhi azzurri non glielo permisero, inchiodandolo
lì dov’era, con il cuore che iniziava ad aumentare
la velocità dei suoi battiti.
Si sentì esattamente come quel pomeriggio, quando aveva
osservato i suoi capelli bagnati e glieli aveva accarezzati con
l’asciugamano, preoccupato che potesse prendersi un bel
raffreddore, oppure quando, al momento dei saluti, si era trovato a
combattere contro il desiderio di prenderla per la nuca e baciarla.
Ma loro non erano fatti per stare assieme, erano troppo diversi. Lui
proveniva da una famiglia modesta e anche quando suo zio
l’aveva preso sotto la sua ala non si era mai abituato al
lusso, né l’aveva desiderato. Non a caso si era
fatto comprare un appartamento in periferia, dove abitare da solo e
cavarsela con le sue sole forze, e aveva scelto una scuola tutto
sommato normale. Il cognome di Molly invece era famoso nel mondo della
finanza e conosceva per sentito dire le condizioni di vita a cui era
abituata.
Gli costava un’immensa fatica ammetterlo, perché
quello sgorbio non si sarebbe meritato nemmeno di sognarla una ragazza
come lei, ma Nigel sarebbe stato in grado di renderla felice, al
contrario di lui.
«E tuo zio non ha fatto niente per scoprire
l’assassino di tuo padre?».
Aiden aprì la bocca, stordito. Perché glielo
chiedeva?
«Mio zio è una bravissima persona, è
grazie a lui se sono ancora qui, ma… lui e mio padre non
andavano esattamente d’accordo».
«Io posso… una mia amica fa la detective, posso
chiederle di indagare, sempre se tu…».
«No, no». Aiden scosse il capo e le posò
entrambe le mani sulle spalle. «Non voglio avere altre
delusioni. Ma grazie comunque».
Accennò un sorriso che non riuscì a contagiare la
ragazza, la quale abbassò il viso e si spostò con
delicatezza, per poi girarsi ad osservare la statua in mezzo alla
fontana.
Aiden si sentì infinitamente in colpa, ma non ebbe nemmeno
la forza per dire qualcosa, qualsiasi cosa. Fu la stessa Molly a
rompere il silenzio, portandosi le mani dietro il collo.
«Scusami, Aiden».
«Per che cosa?».
Si voltò e gli rivolse un sorriso, anche se era
più paragonabile ad un doloroso strappo sul suo viso di
porcellana illuminato dalla luna.
«Per tutto». Detto questo lo superò e si
immerse di nuovo nella vegetazione.
Aiden rimase fermo immobile, rigido come l’amazzone-sirena
sul suo scoglio, anche quando fu colpito dal suo profumo dolce e dai
suoi capelli biondi che gli sfiorarono il braccio. Solo quando
sentì la sua voce lontana esclamare:
«Sarà meglio tornare al ricevimento, o ci daranno
per dispersi», ebbe la forza di rilassare le spalle e di
respirare a fondo, anche se sentiva che c’era qualcosa di
tremendamente sbagliato dentro di lui: un nuovo ingranaggio che il suo
cuore non aveva preventivato di avere e che aveva iniziato a girare in
maniera inarrestabile, come solo quello di una bomba ad orologeria
pronta ad esplodere poteva fare.
Il resto del ricevimento trascorse noiosamente, ma Molly in quel
momento non avrebbe chiesto di meglio. Aveva bisogno di stare da sola
per pensare, ma soprattutto per concentrarsi ed evitare di piangere in
pubblico.
Ogni tanto provava a cercare Aiden con gli occhi, da vera
autolesionista, e ogni tentativo – per sua sfortuna, o
fortuna – andava a vuoto.
In compenso aveva avuto l’onore di conoscere Mr. Hall, il
padre di Nigel. Anche lui era stato invitato al ricevimento, ma era
venuto da solo, perché soltanto i finanzieri più
eccelsi avevano avuto il permesso di portare con sé la loro
famiglia, e ovviamente la famiglia Hall non era così
facoltosa.
Appena lo aveva visto avvicinarsi a sua madre l’aveva
riconosciuto, perché era la copia sputata del suo compagno
di scuola, solo con una quarantina d’anni in più. Viscido
era stato il primo ed unico aggettivo che le era venuto in mente per
descriverlo a primo impatto e infatti non si era sbagliata,
perché esattamente come il figlio non si era risparmiato nei
complimenti, lodando il suo vestito oppure i suoi capelli, gli occhi
accesi di una strana euforia.
Ad un certo punto si era persino chiesta che cosa avesse preso Nigel da
sua madre, visto che la parte peggiore di lui, quella che conosceva,
era tutta concentrata nell’uomo che aveva di fronte.
Ma non si era risparmiato a provarci – penosamente
– solo con sua madre, in quanto era toccato anche il suo
turno.
«Oh, Nigel a casa parla sempre di te! A volte mi sono chiesto
se fosse un bene che tu lo distraessi così tanto, ma
guardandoti… beh, come avrebbe potuto rimanere immune alla
tua bellezza?», le aveva detto ammiccando e Molly aveva riso
con lui, anche se avrebbe voluto voltarsi e vomitare tutte le gelatine
al caviale che aveva mangiato da quando era uscita dalla serra di
piante tropicali.
Chinandosi sul suo orecchio, le aveva anche sussurrato: «Mi
ha detto che non sei facile da conquistare, è
così?».
«Beh, io…».
«Ma non importa: agli uomini della famiglia Hall piacciono le
sfide».
Molly si lasciò andare ad un ghigno, quella volta per niente
finto.
Gli uomini
della famiglia Hall non sanno con chi hanno a che fare.
«Dimmi, non sarebbe grandioso se le nostre due famiglie si
imparentassero?».
Oh, quindi era questo che volevano, lui e suo figlio? I soldi della sua
famiglia? Perché non l’avevano detto subito!
Molly gli sputò in faccia e gli schiacciò il
piede con il tacco alto, facendolo strillare come una donnicciola. O
meglio, questo era quello che avrebbe voluto fare. Si limitò
invece a rivolgergli l’ennesimo sorriso di circostanza, poi
infilò di nuovo la mano nella sua perché la
salutasse con un baciamano.
«Onorato di averla conosciuta, Miss Delafield».
«Altrettanto. E mi saluti suo figlio, mi
raccomando».
Mr. Hall le rivolse un sorriso mellifluo e dopo aver salutato anche sua
madre si allontanò, sparendo in fretta tra gli invitati.
Suo padre aveva passato quasi tutto il ricevimento in compagnia di Mr.
McNab, nel suo ufficio al piano superiore, a discutere
d’affari, e quando scese, sorridente, disse alle sue due
donne che aveva trascorso una piacevolissima serata e potevano anche
tornare a casa.
«Ma, tesoro, il padrone di casa non ha ancora detto che il
ricevimento è finito, che figura ci facciamo ad andarcene
via prima di tutti?», gli chiese ansiosamente la moglie.
Molly intercettò il suo sguardo e pensò che solo
suo padre era in grado di portare un po’ di vita in quel
mortorio con un semplice sorriso.
«Cara, Mr. McNab mi ha appena dato il permesso di andare a
casa a riposare, perché domani sarà una giornata
impegnativa a New York».
«A New
York?»,
domandò Molly, stupita.
«Intendi forse dire che avete raggiunto un accordo, che
l’affare è fatto?», squittì
sua madre, stringendosi di più a lui e seguendolo fuori
dalla villa, nonostante avessero gli occhi di tutti gli invitati
puntati addosso.
«Proprio così», sussurrò
soddisfatto suo padre, guardandolo il cielo punteggiato di stelle ed
attirando a sé Molly, stringendosela contro
l’altro fianco.
Salirono sulla loro limousine e l’autista li portò
a casa in poco tempo, tanto che Molly rimase sorpresa quando
realizzò che avevano trascorso fuori casa solo tre ore. Era
decisamente presto per andare a dormire, ma si sentiva stanca, quasi
prosciugata di ogni energia, quindi diede la buonanotte ai suoi
genitori e si chiuse nella sua camera da letto.
Passò un’infinità di tempo in bagno,
svestendosi e struccandosi in tutta calma. Poi in pigiama si sedette
sul suo letto a baldacchino, con le luci spente, e quasi immediatamente
il suo cervello iniziò ad elaborare furiosamente tutto
quello che aveva vissuto quel giorno.
Pensò a Nigel e ad Aiden, i due ragazzi che erano entrati
nella sua vita prima che potesse accorgersene: il primo che la
desiderava più di qualsiasi altra cosa al mondo, anche se
per fini molto meno nobili dell’amore; il secondo che invece,
ne era sempre più sicura, non si riteneva abbastanza nobile
per avere il suo amore. Come poteva fargli capire che non era
così? C’era un modo per provargli che lei avrebbe
fatto di tutto, pur di renderlo felice?
A quel proposito, ricordò anche la triste storia che le
aveva raccontato, quella della morte di suo padre. Non aveva potuto
fare a meno di paragonarla all’esperienza di Grace e non
aveva esitato nel proporgli di riaprire il caso tramite
un’investigatrice privata. Era vero, lui non aveva accettato,
ma ora era lei a voler andare fino in fondo perché la
riteneva la cosa migliore da fare.
Prese l’iPhone dalla pochette che aveva lasciato sul comodino
e si spostò in terrazza, da dove stava giusto per chiamare
la sua amica, sperando che fosse sveglia perché aveva
davvero voglia di sfogarsi con lei, quando qualcuno bussò
alla sua porta.
«Avanti», esclamò, anche se titubante.
Suo padre sporse la testa all’interno della stanza e le
sorrise, una volta individuata. La raggiunse e Molly si morse il labbro
per non ridere di lui, o più propriamente del suo pigiama di
seta color blu notte. Non che non fosse bello, ma era abituata a
vederlo sempre in giacca e cravatta, al massimo in camicia, e vestito
in quel modo sembrava un lord inglese.
«Non riesci a dormire?», le domandò
quando le fu accanto, sotto il cielo stellato.
Molly scosse il capo e lui accennò un sorriso.
«Pensi a qualcuno in particolare?».
«C-Come?».
Di sicuro il buio era dalla sua parte, ma Molly ebbe la sensazione che
il suo papà si fosse accorto comunque del rossore sulle sue
guance, perché sollevò le sopracciglia e
ridacchiando sospirò.
«Tua madre mi ha detto che alla fine sei sparita
nel nulla e non credo che tu abbia fatto un giro turistico
della casa da sola».
«Papà, io…».
«Hai trovato Aiden, vero?».
Molly diventò ancora più rossa, se possibile. Mr.
Delafield si voltò verso la figlia e le prese le spalle fra
le mani, stringendole delicatamente; la guardò negli occhi
per qualche secondo e le avvolse le braccia intorno alla schiena,
posando le labbra sulla sua fronte.
«Tesoro, voglio che tu sappia una cosa molto importante: in
amore, e forse un giorno lo capirai perfettamente, i soldi non contano
niente. Credi che io abbia conquistato tua madre sventolandole davanti
al viso un blocchetto d’assegni? Quando l’ho
conosciuta lei era una delle modelle più pagate, mentre io
ero ancora un ragazzetto pieno di sogni di gloria. Sono i sorrisi, le
risate, le lacrime, le cose per cui si deve lottare in amore».
Molly sospirò e strinse più forte i pugni sulla
schiena di suo padre, cercando di soffocare le lacrime sul nascere.
Vai a fare
questo discorso anche ad Aiden, per favore.
«Anche se, lo devo ammettere, ci resterei un po’
male se tu decidessi di cedere di fronte alla avances di
quel… Hall», aggiunse con un tono di voce
sprezzante. Davvero suo padre aveva rischiato di dire una parolaccia,
pensando al padre di Nigel?
«Mamma ti ha raccontato anche questo?», gli chiese
trattenendo una risata e guardandolo negli occhi.
«Sì, l’ha fatto. Ascoltami, io non
conosco il tuo compagno di scuola, magari mi sbaglio ed è il
ragazzo più carino del mondo, ma conosco suo padre, lo
conosco bene, e ti posso assicurare che
è meglio starci lontani».
Molly ammiccò e gli diede una pacca sulla spalla,
sussurrando: «Cercherò di resistergli,
allora».
Entrambi scoppiarono a ridere e quando si calmarono guardarono la
mezzaluna che brillava dietro un banco di nuvole leggere.
«Voglio solo che tu sia felice, bambina mia», disse
Mr. Delafield ad un certo punto, cercando la sua mano sul cornicione.
«Farò del mio meglio, puoi giurarci».
Si scambiarono un altro abbraccio stretto, poi suo padre le
augurò la buonanotte e la lasciò sola nella sua
stanza.
Molly rientrò e si gettò sul letto dopo aver
scostato le lenzuola di seta, quindi sbloccò il touchscreen
del suo iPhone, rendendolo così luminoso da essere
fastidioso agli occhi.
Scorse la rubrica e selezionò il numero di Grace, premette
il tasto di chiamata e sospirò: era arrivato il momento di
dar libero sfogo ai suoi sentimenti, anche col rischio di svegliarsi,
il mattino seguente, con gli occhi gonfi ed arrossati.
«Molly, ciao! Prima ti ho chiamato, ma tu non
hai…».
«Lo so, scusami Grace. Ero in crisi. In realtà lo
sono anche adesso…».
«Ne vuoi parlare?».
Molly annuì e tirò su col naso, lasciando che una
lacrima le scorresse lungo la tempia fino all’attaccatura dei
capelli.
«Puoi… puoi stare un po’ al telefono con
me?».
«Ma certo che posso, piccola…».
La ragazzina chiuse gli occhi e ruppe anche l’ultimo dei suoi
freni, facendosi scappare un singhiozzo strozzato.
***
Grace si stiracchiò
sul sedile e sbadigliò senza coprirsi la bocca con la mano,
poi bevve un sorso di caffè e controllò il
cellulare per vedere se Tom l’avesse già
richiamata.
A Los Angeles erano le sette e mezza di mattina, il che voleva dire che
a Vienna, dove si trovavano in quel momento i Tokio Hotel, erano circa
le quattro e mezza di pomeriggio. Probabilmente se Tom non le aveva
risposto era perché era impegnato con qualche bella e
simpatica intervistatrice.
Doveva ammetterlo, stava iniziando a diventare gelosa e anche un
po’ paranoica con il suo fidanzato a così tanti
chilometri di distanza e per così tanto tempo!
Fu distratta da una piccola figura con una borsa a tracolla appesa alla
spalla: uscì dall’ingresso principale e si diresse
proprio verso il suo fuoristrada, parcheggiato accanto alle auto di
proprietà Delafield.
Molly aprì la portiera e si sedette sul sedile del
passeggero, gettando subito le braccia intorno al suo collo, tanto
forte che Grace rischiò di soffocare.
«Anche io sono felice di vederti», esalò
quando la lasciò andare, massaggiandosi la gola.
Percorsero il vialetto al contrario ed uscirono dal grande cancello
già aperto; quindi si immisero nel traffico mattutino,
dirette verso la Notre Dame High School.
«Grazie per ieri sera, comunque», disse Molly ad un
certo punto, schiarendosi la voce.
Grace la guardò con la coda dell’occhio e
sollevò un angolo della bocca. «Stai scherzando?
Lo sai che per te ci sono sempre, o quasi».
Riuscì a strapparle una risata, seppur breve, e la detective
ne fu più che soddisfatta. Per questo ebbe qualche remora
nel farle la domanda seguente, che però andava fatta.
«Credi che sia la cosa migliore? Riaprire il caso del padre
di Aiden nonostante lui sia contrario, intendo».
Molly evitò il suo sguardo, concentrandosi sul paesaggio
fuori dal finestrino. «Assolutamente».
«Non vorrei davvero fare la guastafeste, ma so come ci si
sente e credimi, se lui…».
«Non hai ancora chiamato il tuo amico alla omicidi, no? Non
sappiamo nemmeno se la cosa può andare effettivamente in
porto, è inutile fasciarsi la testa prima del tempo. E per
quanto riguarda me, sono sicura: mi prenderò io ogni
responsabilità, se sarà l’ennesimo
fallimento e avrò riaperto una vecchia ferita per
nulla».
«Come vuoi», mormorò la detective.
«E cos’hai intenzione di fare con lui?».
«In che senso?».
«Sì, insomma… Come credi di comportarti
oggi, dopo quello che è successo ieri?».
Dopo la telefonata con Grace si era sentita svuotata, come liberata da
un peso che le opprimeva il petto, e sperava che una bella dormita le
portasse consiglio su cosa fare, ma la notte aveva soltanto portato
altri dubbi.
Forse era lei che aveva ingigantito un po’ le cose e si era
fatta mille film in testa. Forse non era vero che Aiden provava
qualcosa per lei e tentava in ogni modo di reprimere quei sentimenti.
Forse era lei l’unica stupida con una cotta colossale per il
ragazzo sbagliato. Forse Nigel non era così male, se metteva
da parte i pregiudizi e lo spiacevole incidente che li aveva coinvolti.
Forse tra loro poteva anche funzionare e tutti sarebbero stati felici e
contenti. Sì, forse.
Molly finalmente diede un segno di vita e scrollò le spalle.
«Non ne ho la più pallida idea».
«Mi sembra ragionevole», mormorò Grace,
tanto piano da non farsi sentire dalla ragazzina, già
immersa in mille altri pensieri.
Grace parcheggiò il suo fuoristrada di fronte alla piazzetta
piena di studenti che attendevano il suono della campanella e li
osservò in silenzio per una manciata di secondi, poi
sorrise.
«Se devo essere sincera, mi manca un po’ la mia
vecchia scuola».
«Io a volte mi domando perché mai ho desiderato
mettermi i panni della ragazza normale», rispose Molly.
Grace la fissò e sospirò. Non era decisamente
dell’umore giusto, quel giorno, e le dispiaceva non poter
fare di più per tirarla su di morale.
«Se hai bisogno di uno strappo per tornare a casa, o di
qualunque altra cosa, anche delle risposte per la verifica di
storia…».
Molly le rivolse un breve sorriso, ma capace di illuminarle il viso.
«Non ti preoccupare, Grace». La strinse in un nuovo
abbraccio, quella volta un po’ meno stritolatore.
«Grazie, sei un’amica», le
sussurrò all’orecchio e le posò un
bacio sulla guancia, poi scese dal fuoristrada e si diresse verso
l’edificio candido col rosone colorato sulla facciata.
Quando sparì all’interno, Grace prese il cellulare
e notò con fastidio che Tom non si era ancora fatto sentire.
Ci passò sopra giusto perché aveva altro di
più importante a cui pensare ed effettuò una
chiamata, tamburellando le dita sul volante.
«Pronto?».
«Ciao Andrew, sono Grace!».
«Grace! Oh, che bella sorpresa! Come stai?
Aspetta… Mi sono illuso che questa fosse una chiamata di
cortesia, vero?».
La detective ridacchiò. «Devi essere paziente,
Andrew».
«Forza, dimmi che ti serve e facciamola finita».
«Una cosa da niente, davvero…
Quand’è che hai un momento libero?».
«Una cosa da niente, eh? Per le cose da
niente non mi chiedi di vederci!».
«Non fare storie, Andrew!».
Il poliziotto della omicidi sbuffò, anche se Grace sapeva
che era tutta una finta, una parte che avevano recitato insieme mille
volte.
«Oggi pomeriggio le andrebbe bene, signorina? Sa,
è il mio giorno libero!».
«Caspita, questo sì che è
destino!».
Si misero d’accordo sull’orario e sul luogo
dell’incontro e terminata la chiamata Grace mise la retro e
si allontanò dalla scuola proprio mentre suonava la
campanella che decretava l’inizio delle lezioni.
Aveva ancora il cellulare in grembo, quando iniziò a
vibrare. Quasi inchiodò al semaforo rosso, nella fretta di
rispondere a Tom.
«Era bionda o mora?», strillò, del tutto
fuori controllo.
«Di che diamine stai parlando, Grace?».
«Dell’intervistatrice! Allora, era bionda o mora?
Oh no, non dirmi che era rossa!».
«In realtà era un uomo. Ma molto attraente, oh
sì! Avrei voluto chiedere a Bill qualche tecnica di
seduzione, perché davvero…».
«Tom!».
Lui scoppiò a ridere, facendo comparire un sorriso anche
sulle labbra della detective.
«Quanto stai diventando gelosa, da uno a dieci?
Perché adoro quando…».
«E tu quanto sei coglione, da uno a dieci?».
«Anch’io ti amo tanto».
***
Molly entrò a
scuola e come di consuetudine non le vennero risparmiate le occhiatine
e i mormorii con cui si era abituata a convivere e che ormai la
toccavano appena. Percorse la strada che faceva sempre per raggiungere
il suo armadietto, ma quella volta subì una deviazione
quando vide di sfuggita Nigel e il coach della squadra di baseball
entrare assieme nell’ufficio di quest’ultimo.
Si appostò vicino alla porta, utilizzando come scusa le
copie del giornalino scolastico poste proprio lì accanto: ne
prese una e fece finta di leggere, mentre con l’orecchio teso
ascoltava ciò che si stavano dicendo. Non era molto
difficile a dire il vero, perché Nigel, davvero furibondo,
urlava come un pazzo.
«Coach, non può davvero rivolere Aiden nella
squadra! È vero, ieri abbiamo perso, ma di sicuro non
perché mancava lui all’appello! Io basto e
avanzo!».
Molly sfogliò rapidamente le pagine del Knights
e rimase sbalordita di fronte al risultato della partita del pomeriggio
precedente: non li avevano battuti, li avevano polverizzati!
«Non c’è nessun motivo per cui io non lo
debba rivolere in squadra, la sua punizione valeva solo per ieri, per
il pugno che ti aveva tirato negli spogliatoi», rispose
pacatamente il coach.
«Oh, crede che non lo rifarà?! Mi ha
già minacciato, lui… mi picchierà di
nuovo, se lo farà giocare!».
«Nigel, mi dispiace, ma…».
«Okay, l’ha voluto lei, allora. Avviserò
mio padre e staremo a vedere se…».
Molly socchiuse gli occhi e strinse fra le mani il giornalino,
accartocciandone i lati.
Non ceda, la
prego, non ceda…
Le
sue preghiere purtroppo non servirono un granché,
perché il coach sospirò arrendevole e disse:
«E va bene, hai vinto: cercherò una scusa per non
convocarlo nemmeno alla prossima partita».
«Ora ci capiamo», disse Nigel soddisfatto, poi
Molly vide la maniglia della porta abbassarsi.
Provò ad allontanarsi il più in fretta possibile,
ma un suo gomito sbatté contro la porta che veniva aperta e
strillò di dolore, colpita da una lieve scossa.
«Scusa, non l’ho fatto apposta», disse
Nigel in modo burbero, ma appena si accorse che la persona che aveva
colpito era Molly la sua espressione cambiò e preoccupato le
sorresse il braccio. «Molly! Oh Dio, scusami, mi dispiace! Ti
ho fatto tanto male?».
«No, non è niente…».
Ma lui non la stette nemmeno a sentire e la scortò in
infermeria, dove recuperò un sacchetto di ghiaccio
istantaneo e glielo fece posare sul gomito.
«Sul serio, mi dispiace così tanto», si
scusò per l’ennesima volta e Molly
roteò gli occhi al cielo, anche se con un piccolo sorriso
sulle labbra.
«Per favore, smettila di scusarti, ti ho detto che non
è niente».
Allora anche Nigel sorrise mestamente. «Okay».
Rimasero per parecchi minuti a fissare punti diversi della stanza,
anche se erano tremendamente vicini: lei seduta su un lettino e lui in
piedi di fronte a lei, che le teneva il ghiaccio sul gomito.
Il silenzio che si era creato era parecchio imbarazzante e Molly
avrebbe dato qualsiasi cosa per andarsene da lì, per
andarsene da lui, soprattutto dopo quello che aveva
appena sentito nell’ufficio del coach.
«Ho sentito che ieri eri al ricevimento di Mr.
McNab», esclamò all’improvviso il
ragazzo, anche se con le mascelle serrate. Era geloso? Ben gli stava. O
forse… Una rotellina iniziò a muoversi lentamente
nel suo cervello, ideando un piano tanto folle quanto geniale.
«Sì, è stato… veramente
noioso», disse, cercando di sorridere.
«C’era anche mio padre, mi ha detto che vi siete
conosciuti».
«Oh sì, davvero gentile…».
Ma Nigel la interruppe, fulminandola con lo sguardo e proseguendo:
«E che ad un certo punto sei sparita per una buona
mezz’ora. Molly, devi essere sincera con me. Eri con lui?».
«Lui chi?», balbettò, guardandosi
nervosamente intorno. Non le piaceva il suo tono sprezzante rivolto ad
Aiden, non le piaceva la situazione in cui stava per mettersi con le
sue stesse mani, ma se ciò avesse giovato a…
«Aiden! Posso sopportare che tu frequenti tutti gli sfigati
di questa scuola, ma non… Eri con Aiden?!».
Molly dentro di sé fece un lungo respiro profondo per darsi
un po’ di coraggio ed arricciò le labbra in un
sogghigno. «Te l’ho detto, era un ricevimento
così noioso! Peccato che tu non ci
fossi…», si avvicinò al suo orecchio e
gli passò un dito sul petto, dall’alto verso il
basso, concludendo a bassa voce: «Ci saremmo
divertiti».
Nigel la guardò incredulo – e faceva bene,
perché nemmeno Molly riusciva a credere di averlo fatto
davvero – e, più che confuso, chiese:
«Quindi tu e lui… insomma…».
«Per l’amor del cielo, non farmi
ridere!», continuò nella sua recita, sempre
più sorpresa di se stessa. «Io ed Aiden? Ma come
ti salta in mente?!».
«Io pensavo che…».
«Pensavi male, Nigel», sussurrò, posando
entrambe le mani sul suo petto. «Mi dispiace di averti
trattato male per tutto questo tempo, sono stata una vera stupida.
Io… sarei davvero felice, se tu mi chiedessi di uscire di
nuovo».
Il ragazzo le prese il viso fra le mani e la guardò negli
occhi, trovandoli lucidi di lacrime. «Ehi, non
c’è bisogno di piangere! Ti perdono, certo che ti
perdono! Che ne dici di uscire questo pomeriggio stesso? Potremmo
andare al cinema, ci sono un sacco di film interessanti in questo
periodo! Sei d’accordo?».
Molly annuì e si maledì, perché quelle
lacrime non erano per Nigel, quello stupido montato, ma per la pena che
provava verso se stessa: sopportarlo, far finta di essere la sua
fidanzatina e mostrarsi felice con lui… tutto questo solo
per vedere Aiden giocare di nuovo nella squadra di baseball (sempre se
fosse riuscita nel suo intento).
Se questo voleva dire essere innamorata di una persona… Beh,
l’amore era una vera e propria fregatura.
La campanella trillò, avvertendoli che dovevano subito
schizzare in classe per la verifica di storia.
Appena entrò nell’aula, ancora con il ghiaccio
istantaneo sul gomito, Molly incrociò lo sguardo di Sheila,
la quale aggrottò le sopracciglia in cerca di spiegazioni, e
anche quello di Aiden, seduto quasi in prima fila. Il cuore
cessò di batterle nella cassa toracica per un istante,
leggendo in quei pozzi scuri una certa preoccupazione e
qualcos’altro di più profondo e celato, ma si
riprese presto, più precisamente quando la professoressa di
storia le disse di prendere posto, visto che stava già
consegnando i test.
Molly ubbidì e si sedette al banco vuoto dietro Sheila.
Ricevette il compito e si mise subito al lavoro, rendendosi amaramente
conto di quanto il pomeriggio di studio con Aiden fosse servito.
Le venne ancora voglia di piangere, perché nel peggiore dei
casi l’avrebbe perso, per una o per l’altra cosa, e
fu ancora peggio quando lesse la consegna del quesito numero sette:
«Scrivi i nomi dei rappresentanti che formavano il
“Congresso dei Cinque”».
Ricordò il sorriso di Aiden e le parole che le aveva rivolto
prima che scendesse giù dalle scale di corsa: «
Adams, Franklin, Livingston e Sherman. Loro, insieme a Thomas
Jefferson, formavano il Congresso dei Cinque».
Una goccia d’acqua cadde sul suo test, sbavando
l’inchiostro blu con cui aveva risposto alla domanda
precedente. O aveva iniziato a piovere in classe, oppure…
Molly si portò le mani sugli occhi, trovandoli colmi di
lacrime.
La sua mente, crudele fino alla fine, le fece vivere di nuovo il
momento in cui l’acquazzone li aveva presi alla sprovvista
mentre stavano studiando in terrazza: avevano riso così
tanto, fino a farsi venire il mal di pancia…
Sollevò di scatto la testa per sventolarsi una mano di
fronte agli occhi, ma nel farlo incrociò per la seconda
volta lo sguardo di Aiden, che si era girato per fissarla con un
sorriso dispiaciuto sulle labbra.
Molly rimase a bocca aperta, colta in fallo, e riuscì a
tornare al suo compito solo quando la professoressa, passando di fianco
a lei, le schioccò una mano di fronte al viso, sussurrando:
«Si concentri, signorina Delafield».
Passò un polso sulla goccia d’acqua salata sul suo
foglio e soffiò, sperando che si asciugasse come i
sentimenti che le stavano inondando il petto, rischiando di far
affogare il suo povero cuore.
__________________________________________
Buonasera!
:)
Allora, un capitolo piuttosto incentrato su Molly e i suoi due
"uomini": Nigel e Aiden. Sono super-curiosa di sapere che cosa ne
pensate, soprattutto riguardo al comportamento di Aiden e a quello che
ha appena deciso di adottare Molly (spero si sia capito il suo piano)!
Si è scoperto che i genitori di Aiden sono entrambi morti,
anche se in momenti e per motivi molto diversi tra loro - e, a
proposito, inizia una nuova indagine per Grace, aiutata questa volta da
Andrew ;) - che lo zio di Aiden è addirittura più
ricco del padre di Molly e che, ciononostante, Aiden vuole avere la sua
indipendenza e le sue poche cose a cui badare da sè.
Insomma, completamente diverso da Nigel e da suo padre, che abbiamo
avuto l'onore di conoscere u.u
Per quanto riguarda Grace, l'abbiamo vista come amica e confidente di
Dylan, di Molly e poi come fidanzata gelosa... E' una ragazza piena di
sfaccettature, che ci possiamo fare ;)
Credo di aver detto tutto, se ho dimenticato qualcosa chiedo venia!
Aspetto di leggere qualche vostro commento, come sapete sono molto
ansiosa ;)
Ringrazio di cuore chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e chi ha
inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate! Grazie!
A domenica prossima, ciao! Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 27 *** Capitolo 25 ***
Buonasera
a tutti! :)
Che dire, questo capitolo è più corto degli
altri, però diciamo che riserva molte sorprese... Per cui
preferisco scrivervi prima, in modo tale da non rovinarvi l'effetto
finale ;) E sì, come al solito non vedo l'ora di leggere che
cosa ne pensate! Quindi ringrazio anticipatamente tutti coloro che
lasceranno una recensione e voglio dire "Grazie, di cuore" a chi
è giunto fino a qui con me, chi mi ha supportato, chi mi ha
riempito di complimenti a volte non meritati, chi ha fatto critiche
costruttive e chi si è limitato a fare "numero" leggendo e
passando silenziosamente. Siete tutti importantissimi :)
Non mi resta che augurarvi buona lettura e sperare di vedervi presto,
ancor prima di domenica prossima! ;)
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________
Capitolo 25
Molly avrebbe voluto che nel
pavimento del corridoio si aprisse una voragine pronta a farla
sprofondare nell’Inferno in quell’istante,
possibilmente senza Nigel, anche se lo riteneva impensabile, dato che
era tutto il giorno che le stava appiccicato come una piovra.
Ovviamente la notizia della loro riappacificazione aveva già
fatto il giro di tutta la scuola, ma lui non sembrava intenzionato a
smetterla di mostrarla come il suo trofeo, sorridendo come un ebete a
tutti quelli che incontrava sulla sua strada, con un braccio appeso
intorno al suo collo.
La cosa peggiore era che Molly non poteva fare assolutamente niente,
eccetto sorridere e fingere di essere felice stretta a lui durante ogni
cambio dell’ora.
Volete sapere la cosa migliore (sempre se poteva essere definita
così)? Non avevano ancora incontrato Aiden. Molly era
convinta infatti che se se lo fosse trovato davanti sarebbe scoppiata,
mandando al diavolo Nigel e tutti i suoi amici idioti con cui scambiava
occhiate e sorrisini di vittoria.
Alla fine ce l’aveva fatta, aveva vinto la sua sfida, come le
aveva detto Mr. Hall la sera prima, e solo il pensiero di essersi
consegnata a lui di sua spontanea volontà le faceva venire
voglia di sputarsi in un occhio.
«Vuoi che ti prenda io da mangiare, piccola?», le
domandò con tono sdolcinato, fermandosi di fronte al
self-service.
«No, grazie, faccio da sola».
Molly ci mise tutta la sua buona volontà per sorridergli per
l’ennesima volta, perché davvero le facevano male
le guance, e Nigel parve cascarci, lasciandola fare.
Raggiunsero insieme i tavoli all’aperto e Molly
adocchiò subito Ben e Sheila, seduti da soli come sempre.
Stava per andare da loro, quando si ricordò di Nigel al suo
fianco, il quale di sicuro le avrebbe detto di accomodarsi al tavolo
dei popolari e degli sportivi. Ma quando si voltò verso di
lui trovò ad attenderla un’espressione dolce, che
la lasciò del tutto senza parole.
«Vuoi andare da loro?», le chiese, indicando con un
cenno del capo i suoi amici.
Molly annuì brevemente.
«Io non credo a quello che dicono le altre ragazze, penso
piuttosto che tu sia una ragazza fantastica, tanto altruista da voler
passare un po’ del tuo tempo con i più
soli». Tenendo il vassoio con una mano sola, le
accarezzò una ciocca di capelli al lato del viso.
«È per questo che mi piaci tanto. Adesso vai, ci
vediamo dopo».
Molly stiracchiò un sorriso e senza farselo ripetere due
volte si diresse verso il tavolo di Sheila e Ben, sedendosi al fianco
di quest’ultimo.
«Molly, ti senti bene?», le domandò il
ragazzo, fissandola con un po’ di preoccupazione negli occhi
castani.
Lei annuì e si appoggiò al tavolo con i gomiti,
massaggiandosi le tempie con le dita. La verità era che si
sentiva a dir poco sfinita: non pensava che fingere potesse essere
così stancante!
«Non sei drogata, vero?».
Alzò gli occhi verso Sheila e la guardò
corrugando la fronte. «Io? Assolutamente no!».
«Okay, allora sei impazzita tutto d’un
tratto?». Con un cenno della testa indicò Nigel,
poi tornò a fissare gli occhi blu nei suoi. «Che
cosa diavolo stai facendo?».
«È… è complicato,
ragazzi».
«Sono bravo coi problemi!», esclamò Ben
con un sorrisino, addentando il suo tramezzino.
«A noi puoi dirlo, stai tranquilla», la
rassicurò Sheila, sorridendole.
All’improvviso le tornò alla mente ciò
che le aveva detto Aiden a proposito del suo essere lunatica. Davvero
ne soffriva così tanto? Prima o poi avrebbe dovuto
chiederglielo.
Stava per cedere e confessare tutto, ma qualcuno si fermò
accanto a Sheila. Tutti e tre alzarono gli occhi, stupiti che qualcun
altro volesse unirsi a loro. Breanne, il viso arrossato e il vassoio
tenuto saldamente tra le mani, teneva il capo chino, come se si
vergognasse di qualcosa.
«Ehi, ciao», esclamò Molly.
«Ragazzi, lei è Breanne. Breanne, loro sono Ben e
Sheila».
«Ci conosciamo già», spiegò
la ragazza con poca voce, accennando un sorriso. «Anche io mi
occupo del giornalino scolastico».
«Oh… allora che stai aspettando, siediti! Sei la
benvenuta».
Molly incrociò lo sguardo di Sheila e notò che la
sua espressione parlava da sé: «Ma che storia
è questa?!».
Così spiegò quello che era successo a Breanne il
giorno prima e i due ragazzi si rilassarono, iniziando ad accettarla
nel gruppo. A dir la verità Ben non fece tante storie e
chiacchierò con lei e le sorrise come se si conoscessero da
una vita, mentre Sheila restò un po’
più sulle sue, per niente incline a voler abbandonare
l’argomento che avevano iniziato.
Infatti dopo qualche minuto la incalzò: «Stavi per
dirci che cosa stai combinando con Nigel».
«Già». Molly sospirò e in
breve gli rivelò il suo folle piano e tutte le conseguenze
che aveva già dovuto affrontare, anche se temeva che in
futuro ce ne sarebbero state di assai peggiori.
«Non puoi farlo davvero, è del tutto…
irrazionale!», bisbigliò Ben, anche se avrebbe
voluto urlare e diventare rosso come un peperone. «Non puoi
sacrificarti in questo modo, non è giusto!».
«Lo so, ma è anche l’unico modo per
ammorbidire Nigel e far sì che Aiden possa tornare a giocare
nella squadra di baseball».
«Non ne vale la pena!», continuò il
ragazzo, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Dì
qualcosa, Sheila! Dille che ho ragione!».
La ragazza dagli occhi blu scrollò le spalle. «Se
questa è la sua decisione non possiamo fare molto, Ben. Per
amore si fa di tutto, anche le cose meno razionali che possano venire
in mente. Come te lo devo dire che non tutto in questo mondo
è regolato dalla logica e dalle formule?».
Ben assunse un’espressione offesa e si strinse le braccia al
petto, guardando fisso il suo vassoio.
Molly lo osservò per qualche secondo, quindi si
voltò verso Sheila, la quale le sorrise ancora dolcemente.
Se era davvero lunatica come diceva Aiden, sperava che quella Sheila
restasse ancora per molto e molto tempo.
«Però non so quanto tu possa continuare a mentire,
anche perché Nigel non è stupido. E anche Aiden
prima o poi capirà quello che stai facendo per
lui».
«E cosa credi che succederà, quando Aiden lo
scoprirà? Come reagirà? Io non ne ho proprio
idea», rivelò e bevve un sorso del suo succo.
Aveva già pensato a quell’eventualità,
tutta la mattina a dire il vero, ed era giunta a due conclusioni: Aiden
le avrebbe detto di smetterla, le avrebbe tolto Nigel dai piedi e
avrebbe coronato il suo sogno d’amore; oppure si sarebbe
arrabbiato, le avrebbe detto di non preoccuparsi per lui,
perché lui poteva cavarsela benissimo con le sue sole forze,
e infine le avrebbe ordinato di levarsi di torno per sempre.
«Io continuo a credere che tu stia facendo l’errore
più grande della tua vita. E con errore intendo un errore
assoluto, perché se si trattasse di un errore relativo
avresti almeno una possibilità di
tollerarlo…».
«Ben», disse Sheila, con voce pacata.
«…in quanto l’errore relativo di una
misura è dato dal rapporto tra l’errore assoluto e
il valor medio della serie di misure, quindi…».
«Ben, finiscila!».
Il ragazzo serrò le labbra e la guardò con gli
occhi sgranati, poi sospirò ed allontanò da
sé il vassoio del pranzo.
«Scusate, è che inizio a parlare in termini
matematici quando sono nervoso».
Molly sorrise, uno dei pochi sorrisi veri della giornata, e gli
accarezzò i capelli sulla nuca.
«Non c’è problema, Ben. E stai
tranquillo, la cosa peggiore che potrebbe capitarmi sarebbe solo
diventare la fidanzata ufficiale di Nigel».
Tutti e tre rabbrividirono a quel pensiero terrificante e quando si
riprese Molly posò lo sguardo sotto il famoso albero in
giardino, trovandolo solitario ancora una volta.
***
Il poliziotto
all’interno della guardiola premette un pulsante e dopo una
breve scossa la porta di ferro si aprì, permettendogli di
entrare in un ambiente diviso in tantissime corsie di scaffali di
metallo, ognuna illuminata da grandi lampade da fabbrica.
«Cox, hai detto?».
Grace annuì con un cenno del capo, stringendosi il collo fra
le spalle per l’umidità.
A suo parere avrebbero dovuto rivalutare se quello fosse il posto
adatto per conservare i reperti dei vecchi casi, chiusi oppure lasciati
irrisolti.
Andrew camminò lungo le corsie fino a giungere allo scaffale
che indicava l’inizio dei casi targati con la lettera C.
Borbottò tra sé mentre faceva scivolare le dita
sui vari scatoloni, cercando pazientemente quello che gli serviva.
Grace, alle sue spalle, indietreggiò di un passo per avere
uno sguardo d’insieme ed individuò quasi
immediatamente il cognome Cox, seguito da diversi numeri, scritto a
pennarello nero sul lato di una scatola.
«Credo ti servirà la scala».
Andrew si voltò a guardarla e la detective sorrise, puntando
il dito verso l’alto.
Una volta recuperato lo scatolone ed essersi ricoperti di polvere,
caduta dallo scaffale quando il poliziotto l’aveva sollevato,
si spostarono nel piccolo ufficio di Andrew.
«Allora, vediamo che c’è qui
dentro», mormorò alzando il coperchio della
scatola e tirando fuori per prima cosa il fascicolo del caso.
«Uh, cara vecchia carta», esclamò Grace,
facendo il giro della scrivania per leggere insieme a lui.
«Allora… Laurence Cox, afroamericano di trentadue
anni, trovato morto a Venice Beach il 5 settembre 2007, alle quattro e
mezza di mattina, da un gruppo di ragazzi un po’ brilli che
hanno chiamato il 911».
«Un colpo sotto il mento con una calibro 22»,
continuò a leggere Grace, osservando anche le foto scattate
sulla scena.
«Gli è stata trovata addosso una busta di coca,
quindi è stato ipotizzato il suicidio, visto anche la
pistola che aveva in mano».
«Uhm… Perché proprio Venice
Beach?».
Andrew scrollò le spalle. «Non ne ho
idea».
«Chi è stata l’ultima persona che
l’ha visto?».
«Aspetta, fammi vedere…»,
girò un paio di fogli e trovò il paragrafo.
«Lavorava come giardiniere a Beverly
Hills…», fischiò, sollevando le
sopracciglia, «per la famiglia Hall, caspita».
«Cosa? Hai detto Hall?».
«Sì, perché?».
La detective si portò le unghie alla bocca e
pensò a Molly, alla loro conversazione notturna: ricordava
distintamente di averla sentita citare il padre di Nigel chiamandolo
Mr. Hall. Che fosse una strana coincidenza?
«Grace, conosco quell’espressione. A cosa stai
pensando?».
«A niente», rispose accennando un sorriso ed
evitando il suo sguardo indagatore. «Piuttosto, hanno
interrogato i signori Hall? Voglio sentire le registrazioni».
«Okay, ma dubito che ci troverai qualcosa di
interessante».
Grace stese un sorriso. «Tentar non nuoce!».
«Però temo che dovrai andare a chiedere al nostro
tecnico di laboratorio: qui c’è solo la
registrazione audio su CD dell’interrogatorio alla moglie di
Cox. Strano».
Già,
strano.
Ciononostante Grace si alzò e si diresse verso la porta.
«Intanto tu cerca i referti dell’autopsia e quelli
balistici. E guarda anche i risultati del test sui residui di polvere
da sparo… e se sulla scena sono state trovate impronte
diverse da quelle di Laurence».
«Sissignora», la prese in giro facendole il saluto
militare, col petto in fuori. Lei scosse la testa ridacchiando ed
uscì dall’ufficio.
Andrew si mise subito all’opera e non riuscì a
scoprire nulla di nuovo nei referti balistici, perché il
proiettile estratto dal cranio della vittima non era stato collegato a
nessun’arma già adoperata.
Passò quindi ai referti autoptici e rimase particolarmente
sorpreso quando prese in mano l’esame tossicologico: il
sangue di Laurence Cox era pulito, senza nemmeno una traccia di
nicotina. Come poteva essere morto per i soldi necessari ad una tirata
di coca?
Con la penna in mano, divertendosi un mondo col bottoncino alla sua
estremità, tornò ad esaminare i documenti. O
almeno lo avrebbe fatto, se ne avesse trovati altri
all’interno della scatola.
Grace rientrò nell’ufficio, meditabonda. Si chiuse
la porta alle spalle e continuando a fissare il pavimento disse:
«Niente. Non sono state fatte registrazioni durante gli
interrogatori ai signori Hall. Il tecnico mi ha spiegato che forse non
li hanno nemmeno interrogati, perché magari chi si occupava
del caso non riteneva necessario che venissero in centrale, non essendo
dei sospettati. Tu hai scoperto qualcosa di nuovo?».
Allora alzò il viso e sgranò un po’ gli
occhi di fronte all’espressione sconvolta ed allarmata di
Andrew, col pollice fermo qualche centimetro sopra il bottoncino della
penna.
«Andrew, che c’è?», gli chiese
con cautela, avvicinandosi.
«No, la domanda è cosa non c’è».
Grace posò lo sguardo sulla scrivania su cui erano
sparpagliati tutti i documenti del caso e al primo colpo
d’occhio afferrò ciò che il suo amico
aveva voluto dire.
«Mancano i risultati del test sui residui di polvere da sparo
e la rilevazione delle impronte. Possibile che non abbiano ritenuto necessari
neanche questi?».
La sera prima, durante il suo sfogo, Molly le aveva raccontato quello
che si erano detti lei ed Aiden, tra cui anche il fatto che il ragazzo
sosteneva che la polizia avesse chiuso subito il caso. Grace non poteva
sapere quanto lui sapesse in realtà, ma ad ogni modo ci
aveva visto giusto, perché chi aveva indagato sul caso aveva
immediatamente dato per scontato che si fosse trattato di un suicidio,
tanto da tralasciare alcuni test di routine.
«Aspetta un attimo… Chi si occupava del
caso?», domandò Grace guardando Andrew, il quale
si mise subito al lavoro per scoprirlo.
«Trovato. Il capo della sezione omicidi Peter Dennison. Anzi,
l’ex-capo: è andato in pensione un paio di anni
fa».
Grace si appoggiò alla scrivania a braccia conserte ed
annuì con fare deciso. «Ho come la sensazione che
dovrà tornare alla sua vecchia vita. Questa volta
però saremo noi a porgergli qualche
domanda».
***
«Allora
ci vediamo domani», disse Sheila agitando una mano nella sua
direzione.
All’espressione confusa di Molly, la quale si apprestava ad
uscire, Ben spiegò: «Noi ci fermiamo
un’ora in più, sai… per il
giornalino».
«Ah! Sarebbe anche ora che mi trovi anche io qualche
attività extra-scolastica per avere un po’ di
crediti», rimuginò, poi gli rivolse un sorriso e
li salutò.
Appena si fu allontanata lungo il corridoio, però, si
ricordò dell’appuntamento con Nigel e
sospirò, lasciandosi andare allo sconforto per la prima
volta, ora che nessuno di popolare le ronzava intorno.
Uscì dalle porte vetrate e nella piazzola vide Nigel seduto
su un muretto, curvo sul suo iPhone e col suo zaino Eastpack tra i
piedi.
Guardandolo da lontano, il cuore di Molly ebbe un fremito che
così su due piedi non riuscì a decifrare; sapeva
soltanto che senza tutti i suoi amici intorno e senza maschere per
farlo sembrare più figo somigliava
moltissimo ad un bambino sperduto e solo, abbandonato a se stesso.
Respirò profondamente per farsi coraggio, quindi si
avvicinò. Una volta giunta alle sue spalle
sbirciò quello che stava scrivendo su Facebook.
Pronto per
trascorrere un intero pomeriggio con la ragazza più bella
dell'universo ♥
Molly arrossì del
tutto involontariamente e senza nemmeno rendersene conto gli
posò una mano sulla spalla, stringendola piano.
Nigel sobbalzò leggermente e si voltò.
«Ehi, non ti ho sentita arrivare! Sei pronta?».
La ragazza annuì e stiracchiò un sorriso,
lasciandosi condurre all’auto che li attendeva, una Ford Edge
nera tirata a lucido.
Nigel parlò con l’autista sporgendosi tra i
sedili, poi tornò a sedersi al suo fianco e la
guardò sorridendo. Molly rimase ad osservarlo e
notò che il suo sorriso non era affatto come quello
mellifluo di suo padre, almeno non in quel momento.
Sembrava… davvero contento che lei fosse lì,
seduta al suo fianco, pronta a passare un intero pomeriggio con lui al
cinema.
Davvero l’aveva chiamata “la ragazza più
bella dell’universo” e aveva pure aggiunto un
cuoricino alla fine del suo status? La cosa stava iniziando a
preoccuparla seriamente. Chissà le facce di Ben e Sheila! O,
ancora peggio, quella di Aiden, se mai lo avesse letto.
Il cinema in cui furono gentilmente scaricati era il più
grande della città, tanto da farlo sembrare a prima vista un
centro commerciale enorme, con negozi di ogni tipo e ristoranti.
Loro però volevano solo vedere un film, quindi si diressero
subito verso il botteghino per comprare i biglietti.
«Facciamo così», disse Nigel
all’improvviso, attirando l’attenzione di Molly.
«Mentre tu scegli il film, io vado a prendere i
popcorn».
Stava già per avviarsi verso il bar, quando la ragazza
scattò in avanti e gli afferrò la mano, urlando:
«Cooosa?! No, aspetta!».
Nigel la guardò confuso, poi abbassò gli occhi
sulle loro mani unite. Molly si rese conto di quello che aveva fatto e,
rossa di vergogna, gliela lasciò, tornando ad alzare il viso
verso il grande schermo su cui scorrevano i titoli disponibili.
C’erano due film romantici e strappalacrime, un cartone
animato, una commedia, un horror e un thriller.
«Non posso scegliere il film da sola», gli disse
con voce calma ed inflessibile, senza guardarlo in faccia.
«Tu cosa vorresti vedere?».
Con la coda dell’occhio vide Nigel boccheggiare come un pesce
fuor d’acqua. Che cosa diavolo gli stava succedendo?
«Io… non ne ho la minima idea»,
confessò, gli occhi un po’ sgranati dallo stupore.
«Nessuna ragazza mi aveva mai fatto questa domanda, ho sempre
guardato quello che avevano scelto loro…».
Molly stentava a crederci, ma ancora una volta qualcosa le
pungolò il cuore, portandola ad accennare un sorriso se non
dolce, almeno comprensivo. «Beh, ti toccherà farti
un’idea oggi. Io posso vedere tutto, tranne
l’horror».
«Hai paura?», le domandò con un
sorrisetto divertito, al quale Molly rispose con una risata.
«Tu non immagini neanche!».
«Potrei sempre tenerti per mano!».
Okay, con quell’ultima battuta aveva decisamente rovinato
tutto, facendola tornare la solita Molly senza pietà e
sofferente al solo pensiero di dover trascorrere tre lunghissime ore
con lui.
Nigel, messo a disagio dal suo silenzio, capì di aver fatto
un passo falso e si schiarì la voce, provando a rimediare.
«Che ne dici del thriller? La trama sembra
interessante».
«Andata per il thriller», concordò Molly.
Una volta aver fatto la fila ed aver comprato i biglietti, si diressero
insieme verso il bar, dove Nigel provò nuovamente a fare il
brillante, con l’unico risultato di ciccare ancora.
«Tu una confezione piccola?», chiese a Molly
sorridendo, ma senza staccare gli occhi dal commesso che aveva
già iniziato a riempire il bicchiere di carta più
piccolo, tanta era stata la sicurezza con cui aveva parlato Nigel.
«Mi prendi in giro? Anche io voglio la media!»,
ribatté però Molly, a dispetto di ogni sua
convinzione.
Il commesso si fermò a metà del lavoro e
guardò Nigel, sconvolto e con la mano con cui teneva i soldi
alzata a mezz’aria.
«Beh, che c’è? Una ragazza non
può andare matta per i popcorn?», chiese Molly
portandosi le mani sui fianchi, anche se avrebbe tanto voluto ridere
dell’espressione del suo accompagnatore.
«No, è che… lasciamo stare».
Nigel scosse il capo e si corresse: «Una media anche per
lei».
Molly, soddisfatta con il suo bicchierone di popcorn ancora caldi
stretto al petto, ne mangiò qualcuno e poi prese fra le
labbra la cannuccia della sua Coca Cola.
Quando si accorse che Nigel era ancora sconcertato e la stava scrutando
come se fosse un’aliena verde appena uscita da un cratere
lunare, ridacchiò ed esclamò: «Ma con
che ragazze sei uscito fino ad adesso, posso saperlo?».
Nigel le rivolse uno dei suoi sorrisi più belli, con
l’unica differenza che era nato spontaneamente ed era
davvero… beh, wow. Ma Molly non avrebbe dovuto pensare cose
del genere, giusto? Quindi si cancellò dal viso ogni traccia
di stupore e meraviglia, o almeno fece del suo meglio.
«Sai, me lo sto chiedendo anch’io», le
rivelò, porgendo ai due bodyguard i loro biglietti, i quali
li strapparono da un lato e si spostarono per farli passare.
Molly avvertì ancora quel rossore sgradito riscaldarle le
guance e quella volta si domandò che cosa diavolo stesse
succedendo a lei.
Nella sala, la serie infinita degli spot pubblicitari era
già iniziata e dovettero trovare i loro posti nella
semioscurità, scusandosi con chi si era già
accomodato nella loro stessa fila. Appena si furono sistemati, con i
loro bicchieri di popcorn e di Coca Cola accanto, il film
iniziò con un mirabolante inseguimento, che li tenne fin da
subito col fiato sospeso.
Molly pensò che avevano fatto davvero un’ottima
scelta e a provarglielo fu il fatto che era riuscita a pensare solo
alla trama intricata e travolgente. Per quelle due ore e mezza non
c’era stato nient’altro, tutti i suoi problemi da
adolescente erano stati spazzati via e si era persino dimenticata di
essere al cinema con Nigel, che era ad un appuntamento
con lui.
Solo verso la fine – una fine piuttosto drammatica, ma
romantica, da far venire le lacrime agli occhi e il nodo in gola
– Molly notò la mano di Nigel appoggiata sul
bracciolo della poltroncina, girata sul dorso.
Da quanto tempo l’aveva messa lì, in attesa che
Molly gliela stringesse, semmai avesse voluto?
Con sgomento realizzò che non ci aveva provato con lei
nemmeno una volta: non aveva mai tentato di prenderle la mano,
né di avvolgerle le spalle con un braccio; non le aveva mai
sussurrato cose dolci all’orecchio, mai si era azzardato ad
avvicinare il viso al suo per baciarla. In poche parole, si era
comportato in modo opposto rispetto a tutto ciò che faceva
nei corridoi della scuola.
Che il Nigel che vedeva a scuola – influenzato dalla sua
popolarità, dalla sua reputazione da difendere e dagli amici
importanti – non fosse lo stesso che era seduto al suo
fianco? Che avesse un gemello buono che si era scambiato con quello
cattivo per fare bella figura con lei? Oppure era sempre lo stesso e si
era semplicemente pentito dell’errore che aveva fatto con lei
la prima volta che erano usciti insieme e stava cercando di rimediare?
Molly osservò il suo palmo per un’altra manciata
di secondi, sospirò e socchiudendo gli occhi cedette,
infilando la mano nella sua ed intrecciando le loro dita.
Sul viso di Nigel comparve un sorriso a trentadue denti, ma non
osò spostare lo sguardo dal grande schermo, forse per paura
che quel magnifico sogno si infrangesse.
Molly non riuscì a trattenere l’accenno di un
sorriso e per un attimo, un attimo solo, si disse che aveva fatto la
cosa giusta.
«Mi dispiace di non essere venuta alla partita di
ieri», esordì Molly, cercando di mostrarsi davvero
desolata.
«Non ti sei persa niente, te l’assicuro»,
mormorò Nigel, giù di morale al ricordo della
pessima sconfitta.
«Sì, ho saputo… Scommetto
però che se ci fossi stata io a sostenervi avreste vinto di
sicuro!».
Riuscì a strappargli un sorriso e Molly, sull’onda
di un entusiasmo non premeditato, continuò: «La
prossima volta non mancherò e vedrai, vi riscatterete e
porterete in alto il nome della Notre Dame High School! A proposito,
quand’è la prossima partita?».
«Martedì pomeriggio».
«Ci sarò», gli fece
l’occhiolino. «Sono stati convocati
tutti?».
«Tutti tranne Aiden»,
puntualizzò, marcando con un accento di puro disprezzo il
nome del ragazzo, mentre stringeva i pugni sulle gambe. «Ho
fatto in modo che lui non giochi, non posso neanche vederlo!».
Molly tentò di controllare la rabbia che le ribolliva nelle
vene e con tono pacato domandò: «Perché
ce l’hai tanto con lui? Che ti ha fatto?».
«È un negro bastardo che mi ha rovinato la
vita».
«Okay, ma…».
«Possiamo non parlare di lui, per
piacere?».
«Come vuoi», borbottò, incrociando le
braccia al petto. «Ma fai solo la figura del codardo, agendo
in questo modo».
«C-Codardo, io?! E per quale motivo,
sentiamo!».
La ragazzina lo guardò negli occhi e vi lesse un rancore
profondo, che non aveva mai visto e di cui rimase parecchio
impressionata.
«Pensa se i tuoi compagni di squadra venissero a sapere che
hai fatto in modo di non farlo convocare, che cosa penserebbero? Che
hai paura di lui, che credi che lui sia più forte di te e
che sia capace di portare la squadra alla vittoria senza il tuo
aiuto».
Nigel, paonazzo e tremante di rabbia, si voltò verso il
finestrino. Aprì la bocca per urlare e negare tutto, ma non
ne uscì alcun suono, perché Molly aveva ragione.
In un’altra occasione si sarebbe applaudita da sola, ma il
suo compito era quello di convincere Nigel che lui non aveva bisogno di
quei subdoli trucchetti per dimostrare a tutti di essere il migliore.
Nonostante questo le costasse enorme fatica.
Si sporse verso di lui e gli prese i pugni fra le mani, accarezzandoli
fino a quando non li aprì, rilassando i muscoli. I loro
occhi azzurri divennero gli uni lo specchio degli altri e Molly gli
spostò i riccioli biondi che gli cadevano sulla fronte.
«Che il coach lo convochi pure, tanto sappiamo tutti e due
qui chi prenderebbe a calci in culo l’altro. Non ho
ragione?».
Nigel abbassò lo sguardo per una frazione di secondo, poi un
ghigno comparve sulle sue labbra. La ragazza tremò
leggermente e sperò di non esserci andata giù
troppo pesante nell’aumentare il suo ego già
smisurato.
«Hai ragione, Molly. Sono stato un vero stupido».
«Giusto un pochino», sussurrò ed
indicò un paio di centimetri invisibili tra il pollice e
l’indice, scatenando le risate di entrambi.
Cinque minuti dopo arrivarono a Villa Delafield.
Molly scese dall’alta Ford afferrando la mano che Nigel le
aveva offerto, gli sorrise brevemente e gliela lasciò nel
momento stesso in cui i suoi piedi toccarono terra.
Camminò lungo il vialetto, costeggiando la piscina e il
prato tagliato di recente, e si fermò di fronte
all’ingresso, sotto la tettoia che circondava anche la
facciata bombata e fenestrata della villa.
Nigel, quasi imbarazzato quanto lei, si infilò le mani nelle
tasche dei jeans e le rivolse un sorriso impacciato.
Molly socchiuse gli occhi e dentro di sé sospirò.
Era così stanca! Mancava poco ormai, cinque minuti al
massimo e sarebbe tutto finito. I cinque minuti forse più
lunghi e difficili della sua esistenza: il momento dei saluti.
Sii sincera
con te stessa, dato che è tutto il giorno che menti, la punzecchiò la
sua coscienza, facendola parecchio innervosire. Perché
essere sincera proprio in quel momento? Perché ammettere
qualcosa che l’avrebbe fatta sentire male?
Incontrò gli occhi accesi e pieni di speranza di Nigel e si
arrese all’evidenza: glielo doveva, per come si era
comportato e per… sì, beh, per aver evitato di
saltarle addosso come la prima volta.
Così si sforzò di stendere l’ennesimo
sorriso e con voce incerta, spezzata da un colpo di tosse, disse:
«Mi sono trovata bene oggi, sul serio».
«Anche io», convenne Nigel, dondolandosi sui
talloni. «Dovremmo rifarlo, prima o poi».
Molly annuì con un cenno del capo. «Beh,
allora… grazie. Ci vediamo domani a scuola».
«Certo».
Ma nessuno dei due si mosse.
I loro sguardi si incrociarono ancora e Molly notò qualcosa
cambiare sul viso di Nigel, che divenne improvvisamente serio e
determinato. Frenando il suo desiderio di correre in casa sbattendosi
la porta alle spalle, piantò i piedi a terra per scoprire
che cosa sarebbe successo.
Nigel si avvicinò e le accarezzò delicatamente i
capelli ai lati del viso. Reclinò la testa e Molly strinse
un po’ gli occhi, deglutendo in modo rumoroso.
Okay, ce la
posso fare. L’ho già baciato una volta,
posso…
Ma Nigel la
lasciò allibita ancora una volta, perché le
posò un innocuo bacio sulla guancia.
«A domani», bisbigliò prima di
allontanarsi senza guardarsi indietro.
Risalì sulla sua auto e l’autista fece inversione
per ripercorrere al contrario il vialetto dell’immenso
giardino di proprietà Delafield.
La Ford aveva appena voltato l’angolo e Molly era rimasta
ferma sotto la tettoia, del tutto incapace di muoversi o di pensare in
modo razionale, quando la governante aprì la porta alle sue
spalle e la chiamò con voce premurosa, invitandola ad
entrare.
Molly percorse il salotto e altre varie sale della casa accanto alla
governante, la quale le esponeva ciò che avrebbe potuto dire
di cucinare per cena allo chef e di tanto in tanto le chiedeva cosa
preferisse, senza mai ottenere una risposta.
«Signorina, si sente bene? Per caso ha mangiato qualcosa che
le ha fatto male?», le domandò ad un certo punto,
apprensiva.
«No, io… no, sto bene», rispose
distrattamente. «Non ho molta fame, comunque, e devo fare
ancora i compiti».
«Oh, capisco. Se dovesse aver bisogno di qualcosa mi
chiami».
Le rivolse un sorriso dolente. «Grazie, Malie».
Salì le scale in fretta e si chiuse in camera sua.
Lasciò malamente la borsa a tracolla accanto al letto e si
diresse in bagno, dove aprì i rubinetti della vasca per
prepararsi un bagno caldo. Ne aveva davvero bisogno.
Una volta immersa in una marea di vapore e di schiuma profumata, con
una mano raggiunse il suo iPhone e si collegò a Facebook.
Scorse la Home fino ad incontrare lo status che Nigel aveva scritto
mentre l’aspettava per andare insieme al cinema e vide che
aveva collezionato qualcosa come un centinaio di “Mi
piace” e altrettanti commenti, molti dei quali delle stesse
ragazze che l’avevano insultata quando Nigel, disperato,
aveva scritto che non sapeva più come comportarsi con lei,
visto che le carinerie e i regali non funzionavano.
Ipocrite, pensò
disgustata e in quel momento un nuovo status comparve sulla pagina del
ragazzo. Aveva appena scritto: «Non ce
n’è di ragazze come lei», con
l’ormai immancabile cuoricino a concludere la frase. Forse
l’aveva preso come una forma di punteggiatura alternativa.
Stava per disconnettersi e godersi il suo bagno rilassante –
anche se ancora non aveva avuto alcun effetto benefico sui suoi poveri
nervi tesi e sui suoi neuroni tramortiti da mille e più
pensieri – quando vide che qualcuno aveva già
messo “Mi piace”. Leggendo quel nome
sentì distintamente il suo cuore staccarsi da tutte le vene
e le arterie e piombare giù nella voragine abissale che le
si era aperta in mezzo al petto.
A Aiden Cox
piace questo elemento.
Lui sapeva che erano usciti
insieme.
Spense bruscamente il suo iPhone e lo abbandonò sul bordo
della vasca, per poi tirarsi indietro i capelli bagnati ed immergersi
nell’acqua calda, sperando che la schiuma la inghiottisse per
sempre.
***
Grace aveva capito subito che
non si trattava di un suicidio. Quando poi lei e Andrew avevano notato
tutte quelle mancanze se ne era convinta del tutto. A dire il vero
aveva già qualche sospetto – come non averne!
– mancavano soltanto le prove. Presto le avrebbe avute e il
caso sarebbe stato risolto, dando finalmente giustizia a quel
pover’uomo che aveva lasciato una moglie e un figlio di otto
anni, il ragazzo di cui la sua Molly si sarebbe innamorata.
Andrew aveva chiamato l’ex-capo della omicidi Peter Dennison
e, dato che era stato anche il suo capo e si
conoscevano, era riuscito a farsi dire dove fosse senza metterlo in
allarme. L’uomo si trovava a San Francisco, in visita alle
sue figlie, e sarebbe tornato a Los Angeles, dov’era
residente, entro pochi giorni.
Nel frattempo, Grace e Andrew avrebbero fatto visita ai coniugi Hall
per fare due chiacchiere innocenti con loro. Avevano deciso che ci
sarebbero andati dopo il week-end, perché il poliziotto
aveva diversi casi di cui occuparsi.
Dopotutto anche Grace aveva altro a cui pensare. Al caso di suo padre,
per esempio; ai suoi nuovi sviluppi, alla situazione complicata di
Lionel e… beh, a Carter, visto che c’era una seria
possibilità che fosse ancora vivo, contrariamente a
ciò a cui li aveva invogliati a credere il loro ex-amico
Bryant.
E a partire da quella sera, perché l’agente
Crawford aveva invitato lei e Dylan a bere qualcosa. Non
l’aveva mai fatto ed entrambi erano rimasti sorpresi, ma la
detective silenziosamente aveva intuito lo scopo di quella serata.
«Carino», esclamò Dylan con il suo casco
di servizio sottobraccio, gettandosi un’occhiata intorno.
Era ancora in divisa, perché aveva appena smontato dal
turno, e aveva incontrato Grace fuori dal bar in cui Michael aveva dato
loro appuntamento.
Con un cenno del capo la detective gli indicò
l’agente dell’FBI, seduto sulla panca di velluto
verde dietro ad un tavolo addossato alla parete sud del locale. Aveva
già preso da bere e si girava il grosso bicchiere di vetro
tra le mani, inquieto e con gli occhi vacui.
«Non so tu, ma io ho una brutta sensazione».
Grace ricambiò lo sguardo dell’amico ed
annuì prima di avvicinarsi al tavolo.
Appena li vide, Michael recuperò la cosa più
simile ad un sorriso presente nel suo repertorio di quella sera e li
salutò, esortandoli a sedersi. Poi chiamò un
cameriere per le ordinazioni.
«È da molto che vieni qui?»,
domandò Grace, incrociando le braccia sul tavolo e
sorridendogli.
L’agente esitò, colpito in pieno
dall’ennesimo flusso di ricordi belli quanto dolorosi, e alla
fine rispose: «Sì, abbastanza».
«Ho notato che il cameriere ti ha chiamato per
nome», spiegò subito Grace, sventolando una mano.
Un pesante silenzio calò su di loro e Dylan
tossicchiò, più che a disagio.
«Ahm… volevi dirci qualcosa?».
«Sì», rispose frettolosamente Michael,
anche se sembrava fosse stato preso alla sprovvista.
«Lionel è stato inserito nel Programma Protezione
Testimoni dell’FBI e domani sarà trasferito nella
casa sicura, dove due agenti gli faranno da scorta
ventiquattr’ore su ventiquattro».
«Potrò vederlo, qualche volta?».
Sia Michael che Dylan la fissarono, sbigottiti; allorché
Grace realizzò quello che aveva detto, scosse il capo e si
portò stancamente una mano sulla fronte.
«Scusami, io…».
«Non possiamo rischiare che quelli
dell’organizzazione lo trovino: la nostra intera operazione
andrebbe in fumo, oltre al fatto che lo metteremmo in serio
pericolo».
«Certo. Mi sono lasciata trasportare. Lui è come
un… È molto importante per me».
Michael accennò un sorriso e le strinse la mano sul tavolo
di legno chiaro. «Lo so».
«Come farete a trasportarlo nella casa sicura?»,
intervenne Dylan. «Una volta ho sentito che un uomo era stato
costretto a viaggiare in un sacco da morto su
un’ambulanza!».
I due lo fissarono come se fossero al cospetto di un bambino
– mancava soltanto che Grace gli facesse pat pat
sulla testa – e Michael fu tanto abile da cambiare
immediatamente discorso.
«Mentre una squadra si occuperà del suo
trasferimento, tutti noi dovremo partecipare al suo
funerale».
Le guance di Grace si gonfiarono d’aria e vodka lemon,
facendole venire le lacrime agli occhi sgranati. Quando
riuscì a deglutire e a riprendere fiato, urlò a
mezza voce: «Che cosa?!».
«Che ti aspettavi? Dobbiamo far credere che sia morto sul
serio!».
«Sì, ma… un finto funerale! Non
è un po’ eccessivo?».
«Affatto! Una persona morta a cui non viene organizzato il
funerale? Molto sospetto».
Grace si morse le labbra e dovette ammettere che la sua logica era
schiacciante. Così si rifugiò di nuovo
nell’alcool, sperando che nessun’altro tentasse di
farglielo sputare dal naso.
«E poi cosa succederà?»,
domandò Dylan, guardando prima l’amica al suo
fianco e poi Crawford, il quale alzò le sopracciglia ed
indicò la detective con un dito.
«Pensavo di chiederlo a lei. Avevi detto che ci avremmo
pensato più avanti, ricordi? È arrivato il
momento».
Grace scrollò il capo e si strinse nelle spalle. Non aveva
un piano, non era riuscita ad escogitarne uno, quindi propose
l’unica cosa che le era venuta in mente.
«Aspettiamo che il pesciolino abbocchi
all’amo?».
Dylan si staccò dalla cannuccia infilata nel suo bicchiere.
«Credi che nonostante il finto certificato di morte e il
finto funerale manderanno qualcuno a controllare che Lionel sia davvero
morto?».
«Qualcuno di nome Bryant, spero. Altrimenti non ho idea di
come fare a contattarlo. Insomma, ho ancora il numero del suo
cellulare, ma non lo tiene mai acceso troppo a lungo, per non farsi
rintracciare».
«Io lo terrei comunque sotto controllo, non si sa
mai», disse Michael.
«Dobbiamo anche cercare Carter. Io e Lionel crediamo che
possa essere ancora vivo, magari in fuga».
L’agente dell’FBI annuì e
fermò un cameriere per ordinare un altro giro.
Drink dopo drink, erano diventati tutti e tre un po’
più allegri e loquaci, soprattutto Michael, il quale aveva
perso del tutto la sua facciata di uomo col cuore di ghiaccio e rideva
come un matto per ogni minima cosa, paonazzo in volto e con gli occhi
lucidi. Probabilmente non era abituato all’alcool come lo
erano lei e Dylan, i quali smisero di divertirsi quando capirono che
stava esagerando.
«E dai, ragazzi, che cosa vi prende? Cosa sono quei musi
lunghi?!», gridò, sbattendo le mani sul tavolo.
«Volete che vi offra un altro giro, non è
così? E va bene… Cameriere!».
«No, Michael».
L’agente fissò perplesso la mano che aveva tirato
giù la sua, fino a farla posare nuovamente sul tavolo,
quindi sollevò gli occhi per incontrare quelli verdi e seri
di Grace.
«Credo che possa bastare per stasera».
«Ma cosa…? Abbiamo appena cominciato!»,
ribatté offeso, mentre il suo viso si accartocciava in una
smorfia.
La detective scambiò uno sguardo con Dylan e lui la
capì al volo, perché si alzò e
delicatamente lo prese per un gomito, invitandolo ad alzarsi.
«Cosa? Dove andiamo?», chiese confuso,
appoggiandosi a lui per non camminare nel modo sbilenco che aumentava
soltanto il senso di vertigine. «Quand’è
che hanno cambiato la disposizione dei mobili, qui dentro?».
«Non hanno cambiato proprio niente, sei tu che vedi la stanza
girare», gli spiegò cautamente il poliziotto.
«Oh. Allora credo mi serva proprio una boccata
d’aria».
Appena furono accarezzati dall’aria fresca della notte,
Michael si appoggiò alla fiancata della sua auto federale e
respirò profondamente, con la testa gettata
all’indietro e il volto baciato dalla luna.
«Come ti senti?», gli chiese Dylan in modo gentile,
avvicinandosi d’un passo. L’agente però
stese una mano nella sua direzione e si piegò in fretta
oltre il bagagliaio.
Il poliziotto sospirò affranto e gli corse accanto per
tenergli la fronte. «Oh, Crawford, che schifo».
Qualche minuto dopo Grace uscì dal bar con il portafoglio
ancora fra le mani e sorrise nella direzione di Dylan e Michael, il
quale si stava passando un fazzoletto di carta sulle labbra ed era
visibilmente più… Crawford, quello dallo sguardo
impenetrabile e dal cuore non affatto incline alle sdolcinatezze.
«Un po’ d’aria fresca ti ha fatto bene, a
quanto pare», esclamò contenta. Dylan la
guardò di sottecchi e con un cenno del capo
indicò oltre il bagagliaio dell’auto scura a cui
erano appoggiati. E allora capì.
«Oh, no…».
«Oh, sì… Crawford ha
vomitato».
«Oh, no! Perché me
l’hai fatto vedere?! Sai che sono sensibile!».
Dylan scosse il capo, sghignazzando, mentre la detective camminava
avanti e indietro sul marciapiede, con gli occhi socchiusi e il torace
che si alzava e si abbassava regolarmente.
«Vedi cose terribili tutti i giorni e sei sensibile al
vomito? Questa sì che è bella. Ma con chi mi
tocca uscire?».
Sia Grace che Crawford lo guardarono con l’ombra di un
sorriso sulla bocca, tanto che anche il viso di Dylan si
modellò in un espressione serena.
«Diceva così anche Izac, tutte le volte. E tutte
le volte che gli chiedevamo di uscire lui accettava».
Izac. Grace aveva già
sentito Michael pronunciare quel nome e a passi lenti lo raggiunse per
mettersi al suo fianco.
«Chi è Izac?», chiese Dylan,
l’innocenza fatta a persona.
Grace posò una mano sulla spalla di Michael e la strinse
piano, cercando di trasmettergli un po’ di sostegno, conscia
che gli sarebbe costata un’immensa fatica aprirsi in quel
modo.
«Lui… faceva parte della mia squadra».
Dylan si irrigidì ed arrossì per la poca
delicatezza con cui aveva fatto quella domanda. Si ricordò
delle parole che gli aveva rivolto nella sede dell’FBI a LA
qualche giorno prima – sembrava passata
un’eternità – e si chiese se non fosse
stato quello il vero motivo per cui aveva chiesto loro di bere qualcosa
con lui.
«Io, Izac, Spencer, Charles e Allison formavamo una delle
migliori squadre dell’FBI, sei anni fa. Poi… ho
commesso un errore fatale, un errore che è costato la vita a
tutti eccetto me e Charles: non ho creduto nella squadra. Peggio, ho
creduto di poter proteggere la squadra contrattando da solo con un
criminale che aveva ottenuto delle informazioni top secret su
un’operazione dell’FBI in cui eravamo coinvolti.
Aveva minacciato di farli uccidere tutti se non andavo
all’incontro da solo e io…».
Grace si parò di fronte a lui e lo guardò negli
occhi nonostante Michael stesse piangendo ormai a dirotto, con la voce
spezzata dai singhiozzi che cercava in ogni modo di trattenere. Gli
accarezzò il viso con entrambe le mani, poi lo strinse in un
abbraccio.
Michael appoggiò il mento alla sua spalla, stringendo forte
i pugni sulla sua schiena.
«I miei compagni hanno capito quello che stavo per fare,
sono… sono entrati in quel maledetto capannone per fermarmi,
senza aver chiamato i rinforzi, quel bastardo aveva un cecchino
e… sono morti. Izac e Spencer sono stati colpiti alla testa
e sono morti subito, Allison… la mia Ally…
è stata colpita al ventre, ma non c’è
l’ha fatta».
«Lei era… era la tua fidanzata?», chiese
Dylan a bassa voce, davvero mortificato e commosso, posandogli una mano
sulla nuca.
«No, lei era… era sposata, suo marito
l’amava e avevano un bambino bellissimo… Oggi sono
andato a trovarli, sapete? Li tengo sempre sotto controllo, ma oggi
volevo vederli. Mi sono appostato di fronte a casa loro e li ho seguiti
mentre andavano al parco. Suo figlio è così
cresciuto… ha i suoi stessi capelli biondi».
«Tu l’amavi», mormorò Grace al
suo orecchio, facendolo gemere di dolore e singhiozzare più
forte contro la sua giacca di pelle marrone.
«Io… l’amavo tanto e non l’ho
protetta».
Non essendo Michael in grado di guidare, Grace aveva dovuto lasciare il
suo fuoristrada parcheggiato nei pressi del bar e guidare
l’auto federale di Crawford per portarlo a casa, con Dylan
che sembrava fargli da scorta sulla sua moto.
Una volta nell’appartamento dell’agente, erano
rimasti ancora un po’ con lui, giusto per accertarsi che
stesse bene.
«Potete andare, ragazzi, è molto tardi. Domani
abbiamo un funerale a cui partecipare».
Grace notò con piacere che stava tornando il solito Crawford
di sempre e si sedette accanto a lui sul divano, aiutandolo a
sbarazzarsi della cravatta.
«Che fine ha fatto Charles?», gli chiese piano.
«Quando io sono stato retrocesso lui si è fatto
trasferire a Miami. Non ci sentiamo da allora». La
guardò negli occhi e aggiunse: «E non ho
intenzione di sentirlo. Ha tutte le ragioni del mondo per
odiarmi».
«Okay, come vuoi», sospirò e gli
accarezzò una guancia, un sorriso mesto sul viso.
«Tu non ci perderai», gli disse ad un tratto,
cercando anche gli occhi di Dylan a conferma delle sue parole.
«Siamo una squadra».
Michael la strinse in un delicato abbraccio e le posò un
bacio sulla fronte. «Tu assomigli molto ad Allison. E ti
voglio bene».
Grace, onorata, si morse l’interno di una guancia e si
alzò per lasciare un po’ di spazio a Dylan. Anche
lui abbracciò Crawford, dandogli qualche pacca sulla schiena.
Finalmente si diedero la buonanotte e i due uscirono
dall’appartamento sentendosi legati a lui più che
mai, ora che si era confidato con loro, permettendogli di scoprire le
sue più grandi paure e i suoi più grandi punti
deboli.
«Ora capisco molte cose», esclamò Dylan
prendendo il casco di riserva e passandolo a Grace. «Per
esempio perché era sempre così chiuso con noi:
non voleva che diventassimo una squadra, perché aveva paura
di perderla di nuovo».
Grace annuì e montò dietro di lui, stringendogli
le braccia intorno alla vita.
«Vai piano, mi raccomando».
Dylan sogghignò. «Cos’è,
adesso sei sensibile anche alle moto?».
«No, sono sensibile a te che vai in moto.
Non mi dimenticherò mai il volo che abbiamo fatto quando
cercavamo di arrestare quel trafficante».
«Cavolo, è stato anni fa! E poi non era stata
colpa mia, tecnicamente…».
Grace sorrise e gli tirò un pugnetto sul casco.
«Anche noi ne abbiamo passate tante, eh?».
«Siamo una squadra veterana, ormai! Per questo dovresti
fidarti di me ciecamente!».
«Ma io mi fido di te, è della tua guida pericolosa
che…».
Dylan accelerò all’improvviso e Grace non
riuscì a trattenere il grido stridulo che le uscì
dalla gola mentre si aggrappava a lui con più forza.
Giurò a se stessa che una volta scesa da quel
veicolo-suicida l’avrebbe preso a calci così a
lungo che non sarebbe riuscito a sedersi per una settimana.
***
«Tesoro! Il tuo PC
ha qualcosa che non va!».
Grace si grattò la testa ed uscì dal bagno come
ci era entrata, nel suo completo da notte: una canottiera larghissima e
un paio di pantaloncini.
«Non ha nulla che non va, si sta soltanto collegando a
Skype».
Sbadigliò vistosamente e prese la sua tazza di
caffè in cucina, quindi tornò in salotto, dove
sua madre era indaffarata con asse e ferro da stiro. Si sedette sul
divano, di fronte al suo laptop, e all’improvviso apparve
l’immagine di Tom sdraiato a pancia ingiù sul
letto, che mangiava patatine.
«Bill! Siamo in diretta con Grace!»,
gridò, per poi sorridere rivolto verso la webcam.
«Che bello rivederti. Ma ti sei appena svegliata?».
Grace annuì e si passò una mano sugli occhi.
«Mi manchi».
«Davvero? Allora perché non stai urlando
disperata?».
«Okay, dopo questa mi manchi già di
meno».
Tom rise e finalmente Bill lo raggiunse, gettandosi al suo fianco.
«Ciao Grace! Non starlo a sentire, è lui quello
disperato senza di te! E indovina chi se lo deve subire? Io!».
«Mi dispiace proprio tanto, Bill».
«Quando avrete finito di far finta che io non sia presente
fatemi un fischio!», intervenne il chitarrista, riempiendosi
la bocca di patatine.
Grace ridacchiò e si portò una mano alla bocca
per fischiare. «Tom, raccontami che avete fatto
oggi».
«Il solito: interviste, sessioni d’autografi,
ancora interviste… Tu come te la passi? Qualcosa di
nuovo?».
«Nulla di straordinariamente eccitante. Vi ricordate il
ragazzo che piace a Molly? È stato riaperto il caso della
morte di suo padre e io sto collaborando con la omicidi, con
Andrew».
«Ah, sì, mi ricordo di lui!»,
esclamò Tom.
Quasi contemporaneamente, Bill chiese: «Quindi le cose tra
Molly e questo ragazzo stanno andando bene?».
«In realtà… è
complicato». Grace bevve un altro sorso di caffè e
si tirò indietro un ciuffo di capelli neri che le era
scivolato sulla fronte. «Molly crede che questo ragazzo non
sia interessato a lei e poi è successo un casino con la
squadra di baseball… e lei, per poterlo aiutare, ha deciso
di passare un po’ di tempo con Nigel».
«Cosa?! È uscita con quello che l’ha
quasi aggredita di fronte alla gelateria?!», urlò
Bill, tanto da costringere Tom ad allontanarsi un po’, dopo
avergli tirato una gomitata nel fianco.
«Aggredita è una parola grossa.
Comunque sì. E adesso è più confusa
che mai, perché…».
«Non ci posso credere! Quel ragazzino è riuscito a
farsi piacere?!».
Bill era sconvolto tanto quanto Grace, che non capiva proprio come
avesse fatto. Anche lei aveva molto intuito, ma nelle questioni di
cuore il cantante era un assoluto indovino.
«È un periodo piuttosto difficile, magari parlarvi
la farebbe sentire un po’ meglio», gli
consigliò con un sorriso dolce sul viso e Bill
annuì, convinto al cento e uno per cento.
«La chiameremo, stai tranquilla».
Tom stava per cambiare discorso facendole un’altra domanda,
ma si interruppe quando sentì la voce di Melanie fuori
campo. La donna infatti aveva fatto il giro dell’asse da
stiro e aveva mostrato alla figlia ciò che le aveva
diligentemente stirato: una camicetta e una gonna lunga fino al
ginocchio, entrambe rigorosamente nere.
«Dove te le metto, tesoro? Oh, ciao ragazzi!».
«Salve», incorarono i gemelli, anche se erano
piuttosto incuriositi da quegli indumenti fin troppo insoliti per una
come Grace.
«Lasciale pure sul letto in camera mia», disse la
detective tirando un sorriso, guardandola mentre si allontanava lungo
il corridoio.
Quando si voltò di nuovo verso lo schermo del suo laptop
cercò di mantenere un’espressione normale, a
dispetto della tensione che sentiva crescere dentro di lei. Non era
certa di riuscire a mentire a Tom su una questione tanto importante
come la morte di una persona, ma doveva farlo, nel caso quei bastardi
criminali controllassero tutte le sue chiamate e si fossero collegati
anche al suo computer.
Odiava sentirsi spiata, tanto da promettere a se stessa che non avrebbe
più messo cimici per un bel po’ di tempo, ma
grazie alla sua abilità nelle intercettazioni poteva
prevedere ogni loro possibile tattica e sfruttarla a suo vantaggio. In
quel caso, mentendo a Tom, avrebbe dato loro un’ulteriore
prova che Lionel fosse morto davvero, anche se rischiava di convincerli
fin troppo e di perdere l’unica possibilità di
avere un seppur minimo contatto con Bryant, il loro burattino
sacrificabile. Come fare, allora? Doveva o non doveva essere
convincente?
Sospirò e pensò che l’avrebbe deciso la
dea bendata. D’altronde non poteva leggere nelle loro fottute
menti perverse!
«Ehm… Non dovrai indossarli, vero?»,
esclamò Bill a bassa voce, avvicinandosi un po’ di
più alla webcam.
«Invece credo proprio di sì».
Tom sgranò gli occhi. «E dove dovresti andare
vestita così?».
«Ad un… ad un funerale».
I due gemelli si irrigidirono, Tom spostò le patatine e
prese il PC portatile fra le mani, facendo tremare tutto per qualche
secondo. Una volta seduto sul letto, se lo appoggiò sulle
ginocchia e piegò lo schermo per far vedere meglio anche a
Bill, appoggiato alla sua spalla, in ginocchio dietro di lui.
«Grace, per favore, dimmi che stai
scherz–».
«Lionel è morto», lanciò la
bomba e voltò il capo verso destra, vedendo sua madre
venirle incontro per stringerle una mano.
Aveva dovuto mentire anche a lei, quella volta più per
proteggerla che per attirare i topolini nella loro trappola, e credeva
davvero che Lionel fosse morto.
«Grace, io… Mi dispiace tantissimo, so quanto
tenevi a lui».
«Già», mugugnò strofinandosi
la punta del naso.
«Perché non me l’hai detto
subito?».
«Lo sai com’è
l’FBI… tutto è top secret per loro. E
poi non volevo che ti preoccupassi per me. Sto bene, davvero. Me la
caverò».
Tom annuì, anche se non convinto, poi le rivolse un piccolo
sorriso. «Sei hai bisogno di parlare, di sfogarti…
sai che per te sono disponibile ad ogni ora del giorno e della notte,
vero?».
«Sì, lo so. Grazie mille, Tom»,
ricambiò il suo sorriso avendo la sensazione che il suo
cuore si stesse lentamente sciogliendo.
Vide sua madre alzarsi con la sua tazza di caffè vuota fra
le mani e quando fu in cucina Grace si avvicinò di
più alla webcam e sussurrò: «Ti
amo», soffiando un bacio.
Sia Grace che Dylan avevano immaginato che sarebbe stato un funerale
semplice, di pochi intimi. Si erano sbagliati, e di grosso.
Se n’erano accorti appena arrivati al cimitero, quando due
agenti armati appostati all’ingresso avevano chiesto di
mostrare loro le credenziali, per verificare che fossero effettivamente
nella lista degli invitati. Quando erano entrati, avevano visto che
l’intera area era strettamente sorvegliata da agenti
dell’FBI. Non sarebbe riuscita a volare nemmeno una farfalla,
con tutte quelle armi pronte a fare fuoco.
Prima che la bara venisse calata nel terreno e gli amici più
cari di Lionel vi lanciassero sopra fiori e pugni di terra,
c’era stata una parata della Marina Militare degli Stati
Uniti, come in un vero e proprio funerale di Stato, che gli aveva reso
onore per i suoi meriti in Afghanistan.
Più volte Grace si era detta che avevano fatto davvero un
bel lavoro quelli dell’FBI, perché a tratti aveva
sentito una morsa di ghiaccio intorno al cuore, simile a quella che
aveva patito durante il funerale di suo padre. Peccato che il suo non
era stato tutta una messa in scena e non c’era stata nessuna
parata militare per lui.
Tornata a casa aveva trovato il pranzo pronto, ma si era scusata con
sua madre dicendo che non aveva appetito, e poi si era chiusa in camera
sua, malinconica e spossata.
Solo in quel momento riusciva a capire quanto fosse stata dura per lei
rievocare quel ricordo, tanto da maledirsi perché aveva
finto di partecipare all’ultimo saluto di una persona che era
viva e vegeta. Sentire la voce di Lionel l’avrebbe fatta
sentire meglio, forse, ma sapeva che non poteva chiamarlo in nessun
modo. Per lei era davvero irraggiungibile.
Sospirò stancamente e si alzò dalla poltroncina
con le rotelle della sua scrivania, desiderosa di spogliarsi e di fare
una doccia bollente in grado di farle scivolare addosso tutta quella
pesantezza.
Si diresse verso il bagno, slacciando i primi bottoni della camicetta,
quando udì il suono del campanello. Stranamente, si
fermò con la mano sulla maniglia della porta e non
riuscì più a muoversi, ammutolita e raggelata da
un brutto presentimento.
Fece uno scatto in avanti per impedire a sua madre di aprire la porta,
ma purtroppo non fece in tempo a fermarla.
I loro sguardi si incrociarono e Grace sentì il sangue
gelarsi nelle vene, mentre defluiva velocemente dal suo viso e lo
rendeva pallido. Nessun trucco, era davvero sconvolta e arrabbiata e
presa alla sprovvista… e mille altri sentimenti che non
riuscì a denominare.
Non pensava che sarebbe successo così presto. Non era
nemmeno sicura che potesse accadere, una cosa simile! E invece Bryant
era proprio alla sua porta, che la fissava con le labbra dischiuse e le
pupille dilatate per l’agitazione.
Sua madre non conosceva Bryant, come non sapeva nulla di Lionel prima
che sua figlia le spiegasse chi fosse.
I due ex-marines l’avevano aiutata nel caso di suo padre, poi
dopo l’aggressione a Melanie avevano deciso di tagliare la
corda per allontanare dalla zona quelli dell’organizzazione
criminale, i quali volevano farli fuori a tutti i costi. Questo era
quello che aveva creduto fino a quando Lionel non l’aveva
chiamata, ad un passo dal morire dissanguato perché Bryant,
venduto ai loro nemici, gli aveva sparato due colpi al petto.
Sua madre non sapeva chi era Bryant, dunque, né poteva
immaginare di essere di fronte a colui che aveva
“ucciso” il suo amico Lionel.
Grace si avvicinò a lei, pur senza staccare lo sguardo da
Bryant, e le strinse debolmente il polso, indicandole con un cenno del
capo di andare in cucina. La signora Moore eseguì senza fare
domande e una volta rimasti soli, Grace e Bryant si scrutarono ancora
per qualche secondo, poi la detective pregò
perché le sue doti di bugiarda in carriera fossero migliori
con i cattivi.
«Oh, Bryant», sussurrò socchiudendo gli
occhi e sforzandosi di farli lacrimare, quando gli avvolse le braccia
intorno al collo per stringerlo in un forte abbraccio.
Toccarlo dopo quello che aveva tentato di fare a Lionel le dava il
voltastomaco, ma era la loro grande occasione per fare un enorme passo
avanti e sbattere in cella quei killer e coloro che li avevano
assoldati.
«Stai bene, grazie al cielo! Da dove arrivi? Sarai stanco!
Hai fame, forse sete?».
La prese per le spalle e la guardò negli occhi, o almeno ci
provò. «Grace, Grace calmati. Sto bene e un
bicchiere d’acqua andrà benissimo. Ma
prima…».
«Sì?».
La percorse con lo sguardo e la detective ebbe la netta impressione che
i suoi occhi si fossero oscurati, come se un’ombra di
tristezza li avesse appannati all’improvviso.
«Lionel… Lionel è veramente
morto?».
Grace chinò il viso, fingendosi addolorata, e
pensò che nella scala dei bugiardi in carriera lui era
molto, ma molto più convincente di lei. O forse era davvero
triste per la scomparsa del suo compagno?
«Sì, lui… non ce l’ha
fatta», mormorò e senza guardarlo in viso si
allontanò. «Vado a prenderti quel bicchiere
d’acqua».
Tirò fuori un bicchiere dalla credenza ed
incrociò lo sguardo di sua madre, seduta al tavolo con una
tazza di tè tra le mani. Tirata fuori la bottiglia
d’acqua dal frigorifero, le si avvicinò e con la
coda dell’occhio vide Bryant aggirarsi nel salotto, per poi
sedersi sul divano, dandole le spalle.
«Mamma, devi darmi una mano», bisbigliò
con un angolo della bocca. Gli occhi della donna si accesero
d’ansia.
«Devi andare in camera mia, prendere il mio cellulare e
chiamare Crawford. Digli che abbiamo compagnia e di raggiungerci qui il
più in fretta possibile, lui capirà».
Melanie annuì e aspettò che Grace portasse il
bicchiere d’acqua in salotto, poi si alzò dal
tavolo e mise la tazza vuota nel lavello.
«Scusami tesoro, devo fare la lavatrice, hai per caso
qualcosa in giro?».
Grace si complimentò silenziosamente con lei per la trovata.
Anche lei se la cavava alla grande nel mentire. Al quel punto non
poteva far altro che pensare che fosse una caratteristica di famiglia.
«Dovrebbero esserci un paio di cose in camera mia, vai
pure».
La donna annuì e rivolse un sorriso all’ospite, il
quale ricambiò incerto prima di tornare a voltarsi verso la
detective.
«Mi spieghi che cosa diavolo è successo? Sono
riusciti a trovarvi a Tijuana e hanno provato ad uccidervi?»,
chiese Grace, recitando ancora la parte della ragazza spaventata.
Bryant esitò, ma in poco tempo riuscì a reagire e
ad annuire con convinzione. «Ci eravamo fermati in quel motel
per la notte. Probabilmente non avevamo fatto abbastanza attenzione e
ci avevano localizzati. Lionel ha tentato di difendersi,
ma…».
Poteva
inventarsi di meglio. «E tu non ti sei
fatto niente? Come hai fatto a scappare?».
«Nulla, a parte qualche livido. Sono scappato dalla finestra
e, non so come, sono riuscito a prendere l’auto, nonostante
avessi paura che vi avessero piazzato sotto qualche bomba pronta ad
esplodere nel momento in cui avrei avviato il motore, ma non
è successo. Credo mi abbiano lasciato andare».
«E per quale motivo avrebbero dovuto farlo?».
«Forse far pervenire solo il cadavere di Lionel era un modo
come un altro per arrivare a te… Non ne ho idea».
Grace lo fissò intensamente negli occhi e dentro di
sé si chiese se non stesse cercando di mandarle qualche
messaggio in codice, come se… come se Bryant non fosse del
tutto dalla loro parte. Che casino allucinante! Rischiava di diventare
pazza, a furia di tradimenti e di voltafaccia improvvisi.
«Forse hai ragione», borbottò.
«Tu invece cosa ti sei fatta al viso? È il residuo
di un livido, quello che hai sulla mandibola?».
Grace si portò una mano sul lato del viso ed
abbassò gli occhi, pensando freneticamente ad una risposta:
doveva mentirgli oppure dire la verità?
Proprio in quel momento vide sua madre tornare dal bagno con una cesta
di panni puliti e da piegare. Sfruttando un gioco di sguardi che
Melanie e Grace avevano inventato quando quest’ultima era
solo una bambina, la donna chiuse lentamente le palpebre e poi le
riaprì, facendo capire che era tutto a posto: Michael
sarebbe arrivato tra poco.
Rassicurata, rivolse un piccolo sorriso a Bryant, che assunse
un’espressione ancora più confusa.
«Sono stata a Berlino, pochi giorni fa»,
spiegò. «E una sera sono stata aggredita, presumo
da uno dell’organizzazione criminale».
«C-Come?».
Sembrava davvero sorpreso, come se avesse appena ricevuto un cazzotto
imprevisto in pieno volto. (E non gli aveva ancora raccontato la parte
più entusiasmante!) Possibile che non ne fosse informato?
Beh, sì, dato che il suo unico compito doveva essere quello
di sbarazzarsi di Lionel.
«E ti ha lasciato… viva?».
Grace alzò le mani, ridacchiando. «A quanto pare!
Però ho rischiato molto. Se non fosse arrivato
quell’uomo…».
«Che uomo? Di chi stai parlando?».
«Non sono riuscita a vederlo, era buio ed ero sdraiata a
terra con una pistola puntata alla testa. Sta di fatto che mi ha
salvata, uccidendo il mio aggressore».
Bryant sgranò gli occhi, tanto da farle credere che da un
momento all’altro gli sarebbero penzolati fuori dalle orbite.
«È stata una vera fortuna. Senza di
lui… sarei morta», concluse, continuando a
guardarlo per godersi lo spettacolo: era così sconcertato!
Probabilmente si stava domandando chi della cricca avesse disertato,
pronto a guardare in faccia la propria morte.
Grace non vedeva l’ora di potersi sfogare su di lui per farsi
rivelare tutto ciò che sapeva in proposito.
«Ma basta parlare di me», disse ancora, attirando
la sua attenzione su di sé. «Perché sei
tornato a Los Angeles? Solo per sapere se Lionel fosse morto
davvero?».
«Sostanzialmente per questo, davvero non riesco a credere
che…», sospirò afflitto e scosse il
capo. «Speravo anche che tu potessi offrirmi un nascondiglio,
per questa notte. Domani mattina ripartirò».
Non credo
proprio, stronzo, pensò, a dispetto
di ciò che rispose.
«Sicuro! Sai che puoi contare sempre su di me, se ti serve
qualcos’altro basta che tu…».
«No, davvero, non è necessario. Non voglio
metterti in pericolo più di quanto tu lo sia
già».
Grace combatté per stiracchiare un sorriso, nauseata.
«Potresti stare nell’appartamento vuoto accanto al
mio ufficio, ho le chiavi».
«Sarebbe perf–».
Il campanello lo interruppe, facendolo anche irrigidire.
«Aspettavi qualcuno, mamma?», chiese in tono
candido Grace, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
«No, tesoro. Magari è Dylan».
«Uhm, può essere. Ormai passa così
tanto tempo qui che casa sua deve sembrargli estranea!».
Le due scoppiarono a ridere, mentre Bryant era un fascio di nervi sul
divano.
«Oh, è Michael! Un mio amico
dell’FBI», annunciò Grace dopo aver
guardato dallo spioncino, lanciando un’occhiata
all’ex-marine.
«Dell’FBI?», balbettò,
scattando in piedi come una molla.
Grace aprì la porta e Michael gettò subito
un’occhiata all’interno, individuando il loro uomo.
«Tutto bene?», le chiese all’orecchio,
mentre facevano finta di scambiarsi due innocui baci sulle guance.
Appena la ragazza annuì, Michael schioccò le dita
della mano e mezza dozzina di uomini dell’FBI, con giubbotti
antiproiettile e armi alla mano, entrarono in casa puntandole contro
Bryant, il quale preso dal panico si portò le mani dietro la
schiena.
Grace capì quello che aveva intenzione di fare, ovvero
tirare fuori le pistole che aveva nascosto sotto la maglietta, nella
cintura dei jeans, e sparare alla cieca per creare un qualunque
diversivo e scappare, ma fu anticipata da una persona che non avrebbe
mai immaginato capace di una cosa del genere.
Con un movimento fulmineo sua madre prese la cesta dei panni puliti e
gliela lanciò addosso. Bryant perse l’equilibrio,
cadde e venne ricoperto da calzini e biancheria intima da donna. Poi
gli uomini dell’FBI gli si gettarono sopra, fermandogli le
braccia dietro la schiena e disarmandolo.
«Beh, ora so per certo che non hai preso solo da tuo
padre», esclamò Michael, mentre un agente si
soffermava a guardare con malizia un reggiseno di pizzo nero levato di
dosso dal sospettato.
Grace, rossa in viso, glielo strappò dalle mani e se lo
nascose dietro la schiena, rivolgendo uno sguardo truce alla madre, la
quale sollevò le mani e nascose il collo tra le spalle, con
un’espressione innocente che sembrava voler dire:
«Mi dispiace, ma è stata la prima cosa che mi
è venuta in mente!».
Michael avvolse le spalle di Grace con un braccio e rise sommessamente,
coinvolgendo dopo un po’ anche la detective.
Sarebbe stato un bell’episodio da raccontare a Tom.
Già sapeva che avrebbe rimpianto per sempre il fatto di non
aver assistito dal vivo alla scena: un uomo armato atterrato da un
cesto di reggiseni e mutandine. Un avvenimento più unico che
raro!
***
«Signorina, non
dovrebbe fare il bagno! Ha appena finito di pranzare!».
Molly sbuffò e salì sul trampolino della piscina
sul retro della casa. Si piegò leggermente sulle gambe,
diede una bella spinta verso il basso e il rimbalzo la
catapultò in alto e contemporaneamente in avanti. Fu un
tuffo di testa quasi perfetto, perché non aveva tenuto i
piedi ben uniti e per questo c’erano stati un po’
di schizzi.
Nuoto sott’acqua per un po’, con la pancia che
sfiorava le mattonelle azzurre del pavimento, godendosi i raggi di sole
che le accarezzavano la pelle delicata e il silenzio che le ovattava le
orecchie. Solo quando sentì i polmoni a corto
d’ossigeno risalì in superficie.
Con la schiena sorretta dall’acqua, chiuse gli occhi al cielo
e regolarizzò il proprio respiro. Sapeva che i suoi capelli
le galleggiavano intorno alla testa creando una specie di grande
aureola bionda e dai riflessi luminosi, e si crogiolò nel
pensiero di essere diventata un angelo, tanto che stese le braccia come
se avesse avuto le ali.
«Ahm, signorina…».
La voce della governante sembrava così lontana, a causa
dell’acqua che le copriva le orecchie, ma Molly non la
ignorò e sospirò.
«Che c’è adesso, Malie?».
«La stanno chiamando al cellulare».
«Rifiuta pure la chiamata, non voglio essere disturbata da
nessuno».
«Non vuole nemmeno sapere chi è?».
«Chi è?», domandò
lagnosamente, controvoglia.
«Il signor Tom, a quanto vedo».
Molly si agitò all’improvviso e questo la fece
sprofondare per qualche secondo. Poi nuotò in fretta fino a
bordo piscina e si fece dare l’asciugamano posato sullo
sdraio, si asciugò le mani e prese frettolosamente il suo
iPhone per accettare la chiamata.
«Tom!?», esclamò, il cuore che le
batteva forte nel petto.
Molte volte aveva sognato che la chiamasse e la confortasse e le
dicesse cosa avrebbe dovuto fare con i due ragazzi che le tormentavano
l’esistenza, ma non l’aveva neanche accennato a
Grace: insomma, era la sua ragazza! E lei… beh, fino a pochi
mesi prima sbavava dietro di lui, come qualsiasi teenager fan dei Tokio
Hotel con gli ormoni impazziti e con il suo stesso debole per il
chitarrista della band.
«Mi dispiace, ma sono solo Bill», rispose il
cantante, ridacchiando. «Se hai così voglia di
parlare con lui te lo passo, eh, nessun problema!».
«No, no! È che… è il suo
numero!».
«Mm-mmh. Allora, come stai? È vero che hai
iniziato a frequentare quel moccioso, Nigel?!».
Molly fu scossa da un brivido di freddo, tanto che la governante,
ancora al suo fianco, le posò l’asciugamano sulle
spalle. Le rivolse uno sguardo fulminante e con un gesto brusco
– dopo si sarebbe dovuta scusare – la spinse ad
andarsene.
«Oh, quindi… è stata Grace a dirvi di
chiamarmi, non lo avete fatto di vostra spontanea
volontà», dedusse, tanto avvilita che avrebbe
voluto giacere sul fondo della piscina per
l’eternità.
«È vero, Grace ci ha informati delle ultime
novità, ma credi davvero che se lei non ci avesse detto
nulla noi non ti avremmo chiamata? Molly tu sei… sei la
nostra fan numero uno, ti vogliamo bene!».
Era stupido, ne era perfettamente consapevole, ma a quelle parole
consolatorie il suo cuore riprese a palpitare con vivacità e
il suo sorriso spento tornò a rifulgere, tanto brillante da
essere in competizione col sole poco oltre lo zenit.
«Grazie, Bill, anche io vi voglio bene. Tanto».
Gli raccontò così tutto quello che era successo
da quando se n’erano andati, soffermandosi in particolar modo
sul pomeriggio trascorso a studiare a casa di Aiden e poi sul
pomeriggio precedente, quando invece era andata al cinema con Nigel.
Aveva ancora una gran confusione in testa e non riusciva a capirne il
motivo, o più semplicemente non aveva ancora la forza per
accettarlo.
«Vuoi il mio consiglio?», chiese Bill, dolcemente.
«È la prima sensazione quella che conta! Non
intendo dire che Nigel non possa rivelarsi un tipo okay, ma quello che
hai provato quando hai incontrato Aiden per la prima volta…
è di quelle sensazioni che ti devi fidare».
«Io… io mi fido di quelle sensazioni, mi fido fin
troppo! Ed è questo che mi fa star male, perché
lui…».
«Piantala di dire che lui non è interessato a te!
Secondo me lo è eccome! Ma c’è qualcosa
che lo blocca, non so cosa. Tocca a te scoprirlo e fargli capire che si
sbaglia».
«Ehi,
Dottor Stranamore, hai finito? È tardi, vorrei parlare anche
io con Molly prima di domani!».
Sentendo la voce fuori
campo di Tom, Molly ebbe la sensazione di avere appena ricevuto un
pugno al cervello, mentre il suo cuore le era schizzato improvvisamente
in gola. Veramente voleva parlarle?
Calmati,
Molly. Lui è il ragazzo di Grace e tu non sei che un amica
per lui! Ma
era più forte di lei, maledettamente più forte di
lei. Forse non sarebbe mai riuscita a smetterla di volergli bene in
quel modo speciale.
«Come avrai sentito, Tom freme dalla voglia di parlare con
te! Finiremo di parlarne la prossima volta, okay? Ehi, ci sei
ancora?».
La ragazzina scosse il capo, i capelli ancora bagnati le frustarono le
spalle. «Uh-uh».
«Allora ciao, e non dimenticarti quello che ti ho
–!».
«Sì, sì, abbiamo capito,
Bill», abbaiò Tom, il quale quasi sicuramente
aveva strappato il suo cellulare dalle mani del gemello. Quando si
rivolse a lei, lo fece con un tono infinitamente dolce, e il suo cuore
tremò.
«Ciao, piccola. Bill non ti ha riempito la testa con troppe
cavolate sull’amore, vero?».
Molly arricciò le labbra in una risata e senza nemmeno
sapere perché due grosse lacrime le orlarono gli angoli
degli occhi cerulei.
«Che cosa dovrei fare, secondo te?».
«Mmm… Credo che tu debba chiarire un po’
i tuoi sentimenti, scinderli, e capire che cosa vuoi davvero. Ma sia
che tu faccia la scelta giusta, sia che tu prenda la decisione
sbagliata, soffrirai un po’ in entrambi i casi.
Queste… cose sono sempre
dolorose».
«Ma prima o poi il dolore sparirà,
giusto?».
«Dipende tutto da te, piccola. E dalla persona che avrai
accanto, naturalmente. Sappi però che i tuoi amici ci
saranno sempre per te».
«Sono le cose più belle che io abbia mai sentito
in vita mia».
Tom ridacchiò. «Lo so, so essere estremamente
sensibile anche io, qualche volta!».
«Tu… tu chi sceglieresti? Bill è
già convinto che debba provarci con Aiden, da quanto ho
capito…».
«Non saprei, tu ti meriti il meglio del meglio! E io,
purtroppo, non sono più disponibile. Se fossi stata un
po’ più grande e non mi fossi innamorato di Grace,
credo che avrebbe potuto funzionare».
Le orecchie le si otturarono e si stapparono nel giro di un secondo,
tramortendola. O era stata soltanto una sua impressione?
«Ma a parte gli scherzi… Credo davvero che tu
debba scegliere chi ti fa felice davvero».
Il silenzio che seguì quelle parole preoccupò il
chitarrista, che la chiamò più volte,
inutilmente, perché Molly ci sentiva benissimo, solo non
sapeva più cosa dire. In quel momento nessuno dei due,
né Nigel né tantomeno Aiden, la rendevano felice,
se non a sprazzi veramente isolati e rari. Ma quanto valevano quei
momenti, quanto? Un sorriso assumeva i mille colori di un arcobaleno,
la pioggia fredda e improvvisa che le bagnava i vestiti era miele
sull’anima, le risate pura musica.
«Molly? Okay, forse ho detto qualcosa di sbagliato? Cosa
posso fare per rimediare, qualsiasi cosa!».
«Sai qual è l’unica cosa che mi farebbe
felice, adesso?», gli chiese finalmente, con voce pacata,
mentre muoveva un piedino nell’acqua limpida.
«Cosa?».
«Abbracciarti. Mi farebbe stare molto meglio».
Tom trattenne il respiro per un attimo, poi si sciolse in un sorriso.
«Credo che Grace non sarebbe gelosa, in questo caso
particolare. Quando torneremo sarà la prima cosa
che… Molly? Ehi, ma…!».
Aveva riattaccato.
***
«Quindi
Lionel è vivo, dico bene?».
Grace serrò le mascelle e si sforzò per non
ringhiare dalla rabbia. Sbatté le mani sul tavolo nero
presente nell’angusta sala interrogatori nella sede
dell’FBI e guardò Bryant dritto negli occhi, ad un
palmo dal suo viso.
«Tu gli hai sparato. Tu sei dalla loro
parte, lo sei sempre stato! Non ti perdonerò mai per quello
che hai fatto a Lionel, né per aver tradito in questo modo
la mia fiducia. Mi fai schifo».
Michael, che era rimasto seduto in silenzio di fronte al
sospettato-già-colpevole fino ad allora, si
schiarì la voce ed aspettò che la detective si
allontanasse per iniziare con le domande.
Grace interruppe il contatto visivo, anche se aveva un disperato
bisogno di sputargli addosso cose ben peggiori, e si
appoggiò al muro alle spalle dell’agente Crawford,
accanto al vetro a specchio che permetteva agli agenti
dall’altra parte di godersi la scena senza però
essere visti.
«Allora, ci può raccontare
com’è entrato in contatto con
l’organizzazione criminale e come poi, successivamente, ne
è entrato a far parte?».
Alla gentilezza di Michael, Grace rovesciò gli occhi.
Bryant si inumidì le labbra e si strinse le braccia al
petto. «Mi uccideranno. Mi uccideranno se verranno a sapere
che…».
«Oh, ti prego!», sbottò, rossa di
rabbia, non riuscendo a trattenersi. «Lo sai benissimo come
funziona! Tu collabori e l’FBI ti protegge nonostante tu sia
un dannato traditore! E se hai così tanta paura di loro,
allora sei fortunato a non aver mai assaggiato la mia
vendetta!».
«Grace, per favore», le disse Crawford, guardandola
con tanto d’occhi. Lei si ammutolì e si
addossò di nuovo con la schiena al muro, infuriata.
«Ha intenzione di collaborare oppure no?»,
domandò l’agente, lasciandosi andare ad un sospiro
massaggiandosi una tempia.
Bryant scrollò la testa, arrendevole. «Una notte
sono piombati in casa mia, mi hanno detto che avrebbero ucciso tutta la
mia famiglia: i miei fratelli, mia sorella, mio padre… e io
sarei stato la ciliegina sulla torta. Mi hanno
proposto di stare dalla loro parte e mi hanno offerto pure dei
soldi...».
Grace sgranò gli occhi e si portò le mani sulla
testa, sconvolta, ma non un suono uscì dalla sua bocca.
«Ma lo giuro, lo giuro, i soldi non mi interessavano! Io
volevo soltanto che lasciassero in pace la mia famiglia, solo
quello!».
Allora la detective scattò in avanti e tornò a
sbattere le mani sul tavolo, facendolo sobbalzare.
«E avresti sacrificato i tuoi amici,
senza nemmeno provare a lottare?!».
«Che avrei dovuto uccidere Lionel me l’hanno detto
solo quando ormai collaboravo da settimane!».
«E che cosa avresti fatto per loro, prima di ricevere
questo… ordine?», chiese Crawford, interessato,
facendo segno a Grace di fare silenzio.
Bryant gettò uno sguardo spaventato alla detective, la quale
strinse con più forza gli occhi, come se volesse leggergli
nell’anima, e in quale modo ci riuscì,
perché la risposta le illuminò la mente come un
lampo squarcia le tenebre durante una tempesta.
«Tu hai rubato il cellulare a Tom? Sei in entrato in casa
sua…». Era così arrabbiata che avrebbe
voluto chiedere cortesemente a Crawford di alzarsi per prendere la
sedia di plastica nera e schiantarla in testa a Bryant fino a renderlo
una massa informe sul pavimento.
«Mi dispiace, Grace, mi dispiace davvero»,
mormorò l’ex-marine, nascondendosi il viso fra le
mani. «Ma la cosa più dolorosa è
stata… è stata avvicinarmi a te e a Lionel,
affezionarmi a voi, pur sapendo che un giorno vi avrei
traditi».
«Tu hai scelto di tradirci. Se
davvero… Avresti potuto parlarcene, avremmo trovato una
soluzione, insieme!», gridò e solo grazie a
Crawford, che le toccò il dorso bagnato della mano, si
accorse delle lacrime che le scorrevano sul viso.
«Vai fuori a prendere una boccata d’aria, per
piacere», le sussurrò. «Qui finisco
io».
Lei annuì senza protestare ed uscì dalla sala
interrogatori sbattendosi la porta alle spalle. Si appoggiò
con la schiena al muro del corridoio, respirò profondamente
e con lentezza si lasciò scivolare fino a ritrovarsi seduta
sulla moquette grigia, con le gambe strette tra le braccia.
Qualche minuto dopo, la porta accanto a quella da cui era uscita lei si
aprì, rivelando Dylan, il quale aldilà del vetro
aveva assistito a tutto quanto.
Si sedette al suo fianco, un gomito a toccarle un ginocchio, e le
sorrise prima di posarle un bacio fra i capelli insolitamente non
raccolti nella coda sulla nuca.
«Sei okay?», le domandò a bassa voce,
nonostante fossero soli.
«Non riesco a credere che non mi sia mai accorta di nulla,
che lo abbia sempre creduto dei nostri».
«Grace… non sei infallibile. Nessuno lo
è. Ed è questo che ci rende più forti,
perché impariamo dai nostri errori».
«Ma a volte non si può rimediare agli errori,
Dylan. Se io me ne fossi accorta prima, non avrei mai esposto Lionel in
quel modo e non avrebbe rischiato di morire».
Dylan rimase in silenzio, certo che in quel momento nulla sarebbe stato
in grado di convincere la detective che non era stata colpa sua, quello
che era successo a Lionel.
«Forse è meglio tornare dentro a sentire cosa
dice», propose debolmente, alzandosi e prestando attenzione a
non rovinare la gonna che indossava ancora.
Dylan la imitò e le offrì il braccio per
accompagnarla nella stanza oltre il vetro a specchio.
«Mi sei piaciuta un mondo, sai? Sembrava di guardare un film.
E, diamine, tu eri decisamente il poliziotto cattivo!».
Grace ridacchiò, apprezzando il suo tentativo di distrarla
un po’, e scrollò le spalle.
«È Michael che è troppo buono. A
confronto, mi fa sembrare un mostro».
Nell’ambiente buio, un solo agente assisteva alla scena,
seduto su una poltroncina con le ruote. Grace e Dylan rimasero in
piedi, l’uno accanto all’altra, ed osservarono
Crawford mentre poneva le sue domande a Bryant, ora in piedi e ora
seduto, ora appoggiato accanto a lui con una gamba sul tavolo.
«Parliamo dell’organizzazione criminale in senso
stretto: sai quanti sono, chi è il
capo…?».
Bryant sospirò. «So per certo che erano in due, il
capo e il suo braccio destro, più altri… collaboratori,
tra cui io. Però io non ho mai visto di persona il capo, ho
sempre parlato con il suo braccio destro. L’unica volta che
ho sentito la sua voce, ed era la voce di una donna, è stata
quando mi ha ordinato di sbarazzarmi subito di Lionel».
Crawford recuperò delle fotografie dalla cartellina
dall’altro lato del tavolo e gliele mise di fronte.
«È per caso questo, l’uomo con cui
parlavi tu?».
«Sì, è lui»,
annuì, con gli occhi sgranati e la fronte imperlata di
sudore. «Non riesco a credere che sia morto. Ora capisco
perché il capo mi ha ordinato di accelerare i tempi e mi ha
contattato di persona…».
«Intendi forse dire che lui era l’unico di cui si
fidava? Non ha nessun altro, ora?».
Bryant scosse il capo. «Da quello che so…
no».
Michael si sedette di fronte a lui e picchiettò le dita
sulle foto dell’uomo morto.
«Sapeva nulla in proposito?».
«Mi sta chiedendo se ero a conoscenza di ciò che
avrebbero voluto fare a Grace? Certo che no, altrimenti
io…!». Bryant sollevò il viso come se
potesse davvero vedere la detective oltre quel vetro e Grace
reagì trovando la mano di Dylan e stringendola forte nella
sua fino a quando l’ex-marine non chinò di nuovo
il capo.
«Continui», lo esortò l’agente
dell’FBI, pacato ed imperscrutabile come sempre.
«Non avrei mai voluto che le accadesse qualcosa di male, come
non avrei mai voluto sparare a Lionel. Quando mi ha scoperto,
io… ho dovuto farlo, capite? No, non capite, però
vi prego di credermi. Non ho controllato se fosse vivo o morto, non mi
sono preoccupato di sbarazzarmi del suo corpo prima che arrivasse la
polizia, sono soltanto andato via di lì, perché
inconsciamente speravo che si salvasse, che qualcuno accorresse in suo
soccorso. E quando il capo mi ha mandato a controllare se fosse
realmente deceduto, ho visto da fuori ciò che gli avete
organizzato per il funerale, poi sono andato da Grace, e per un attimo
ho creduto che fosse davvero morto. Ma non è
così, vero? Altrimenti non sapreste che sono stato io, non
mi troverei qui…».
Michael si spostò sulla sedia e guardò verso il
vetro, alla ricerca dello sguardo di Grace. Per un attimo ci
riuscì e i loro occhi si incrociarono, ma ci mise poco a
voltarsi nuovamente verso Bryant.
«Prima ha accennato ad altri collaboratori come lei. Li ha
mai conosciuti, sa i loro nomi? Sa se uno di loro può aver
salvato Grace a Berlino, uccidendo questo uomo?».
«Solo una persona sarebbe stato in grado di fare una cosa del
genere. Lo sapevo che non era dalla loro parte, lo
sapevo…», un piccolo sorriso gli
illuminò il viso e sollevò gli occhi.
Grace, conscia che avrebbe voluto immergerli nei suoi, sentì
una morsa stringerle lo stomaco, mentre un brivido le correva su per la
schiena, come ogni volta in cui aveva un presentimento.
«Il nome», lo pungolò Michael,
sporgendosi di più verso di lui.
«John Carter».
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Capitolo 28 *** Capitolo 26 ***
Capitolo 26
Non ci si annoiava mai. Per
questo la Civic Center Gold Line Station era uno
dei suoi posti preferiti e amava ogni volta che il capo gli affidava
quella zona nell’Eastside.
Peccato che facesse ancora coppia con Oswin, con il quale non aveva un
dialogo decente da settimane ormai. Con lui accanto non riusciva a
rilassarsi e a godersi il rumore delle persone che salivano e
scendevano dai treni, il suono delle voci dai mille accenti diversi, i
pianti e le risate dei bambini…
Brulicava di vita quel posto, di vita vera, e Dylan si sentiva parte
dell’universo ogni volta che si trovava da quelle parti.
Il sole era ancora basso, il cielo albeggiante tinto con colori
pastello tenui e rilassanti, e con un rapido calcolo si disse che era
il momento perfetto per chiamare Bill.
Con un vuoto nello stomaco e un piccolo sorriso sulle labbra, si
portò il cellulare all’orecchio e
riuscì a respirare normalmente soltanto quando
sentì la sua voce.
«Ehi, è un nuovo giorno negli USA?».
«Sì, il cielo ha sfumature rosee che mi ricordano
le tue labbra».
Oswin, in sella sulla sua moto ad appena un metro di distanza, gli
ricordò la sua presenza con un colpo di tosse e Dylan si
morse l’interno della guancia, dandosi del coglione. Ma
subito dopo cambiò idea: il coglione non era lui,
bensì Oswin, e se non gli stava bene che facesse lo
sdolcinato con il suo ragazzo, allora che si trovasse un nuovo partner
– non vedeva l’ora.
«Come sei romantico… Ti sei svegliato dalla parte
giusta del letto, stamattina?».
«Stai insinuando che di solito non lo sono?».
Bill rise e questo bastò a rendere improvvisamente migliore
il suo umore. Si prospettava proprio un’ottima giornata,
nonostante fosse lunedì.
«Dylan… mi manchi. E lo odio».
«Sono d’accordo».
«Quando tornerò recupereremo tutto il tempo
perduto?», chiese con una vocetta frivola, che fece ridere e
al contempo arrossire il poliziotto.
«Puoi scommetterci», balbettò.
Gettò un’occhiata ad Oswin, che faceva finta di
non ascoltare mentre guardava la gente attraversare i binari sulle
apposite strisce gialle.
Si fece coraggio e disse normalmente, proprio come se non ci fosse:
«Sai, ho anche cercato delle cose su
Internet…».
«Nel senso che tu…? Ah, hai capito il
porcellino!».
«Ma che hai capito!», strillò, sentendo
le orecchie in fiamme. «È per te! Per far
sì che non si ripetano certe… conseguenze,
ecco».
«Te l’ho già detto che sei davvero dolce
oggi?».
«Di nuovo! Sembra proprio che il resto del tempo io sia un
energumeno senza cuore!».
Bill rise ancora e quella volta contagiò anche Dylan.
Quest’ultimo però ad un tratto smise, colpito
dalle urla di una donna a cui era appena stata scippata la borsetta da
un ragazzo su un motorino.
«Scusa Bill, ti richiamo!», gridò prima
di chiudere bruscamente la chiamata ed iniziare
l’inseguimento con una sgommata sull’asfalto.
Il ragazzo capì di essere inseguito ed accelerò,
zigzagando tra le auto ferme al semaforo rosso e decidendo di svoltare
comunque, nonostante stesse passando un treno alla sua sinistra. Dylan
calcolò che poteva farcela anche lui, se non voleva perderlo
doveva farcela, ma i suoi calcoli risultarono
sbagliati, perché con la coda dell’occhio vide il
treno ad un passo da lui e dalla sua moto.
Il treno l’avrebbe colpito, sarebbe sbalzato via dalla moto e
avrebbe fatto un volo di parecchi metri; magari si sarebbe salvato
comunque, con il casco in testa, ma fu molto più apprezzato
l’intervento di Oswin, alle sue spalle, il quale si
sbilanciò per afferrarlo e tirarlo via da lì.
Entrambi caddero a terra, picchiando dolorosamente
sull’asfalto, ma Dylan fu felice di non fare la stessa fine
della sua moto, lanciata in avanti a causa dell’urto con il
treno e poi trasportata sui binari con i rumori stridenti tipici del
metallo che si graffia e si accartoccia.
Si voltò verso il suo salvatore per ringraziarlo,
dimenticandosi persino del motivo per cui era stato tanto arrabbiato
con lui e aveva addirittura smesso di essergli amico, ma lui fu
più rapido e gli chiese, cercando di sorridere:
«Nulla di rotto?».
«No, credo di essere a posto, a parte qualche
graffio», balbettò. Stava per chiedergli:
«E tu?», ma le parole gli morirono in gola,
scoprendolo sofferente e con una gamba sotto il peso della sua moto
d’ordinanza: se l’era lasciata cadere addosso pur
di salvarlo. Dylan ebbe come la sensazione che il suo cuore fosse
stretto in un pugno gelido e si tirò su, barcollando
leggermente a causa delle botte.
Un uomo finalmente ebbe il coraggio di avvicinarsi per aiutarli, mentre
un piccolo capannello di persone, abbandonate le auto nel bel mezzo
della strada, si era radunato intorno al luogo dell’incidente
con i cellulari in mano per girare video e scattare fotografie.
Chissà se qualcuno aveva già chiamato
l’ambulanza!? La risposta arrivò un paio di minuti
dopo, quando Dylan sentì delle sirene uggiolare in
lontananza.
Lui, insieme a qualche volontario, era riuscito a sollevare la moto
dalla gamba di Oswin, il quale ormai diceva di non sentirla
più. Sarebbe stato un casino se avesse perso l’uso
della gamba, per questo Dylan scoppiò in una risata di gioia
quando sentì l’amico latrare di dolore quando il
sangue riprese a circolare con un’insopportabile formicolio.
Due paramedici smontati dall’ambulanza con una barella vi
sistemarono sopra Oswin, anche se con qualche difficoltà e
con un paio di braccia in più, poi invitarono Dylan a
seguirli all’interno, visto che anche lui aveva diverse
ferite, seppur superficiali, da medicare.
Mentre il veicolo sfrecciava a sirene spiegate tra le strade di Los
Angeles, diretto all’ospedale più vicino, fu
somministrata ad Oswin della morfina, che lo fece rilassare. Dylan, che
non aveva mai smesso di lasciargli la mano, fu sul punto di farlo
quando Oswin se ne accorse e si stampò un sorriso sciocco
sulle labbra.
«Ti fidi di me, adesso?», gli domandò
invece, con fin troppa serietà negli occhi, sintomo che
aveva ancora un briciolo di lucidità.
Dylan sorrise ed annuì, gli occhi che si inumidivano di
lacrime. «Ma non era necessario rischiare di perdere una
gamba, chiaro?!».
Entrambi iniziarono a ridacchiare, finendo per scompisciarsi di fronte
ai due sconcertati paramedici.
***
Dopo averci fatto un
po’ l’abitudine, era riuscita a diventare
così convincente che a volte pensava davvero di essere
felice al fianco di Nigel.
Un po’ era anche merito suo a dire il vero, perché
se chiudeva un occhio sui suoi difetti più insopportabili,
tra cui la mania che non aveva ancora perso – quella di
portarsela dietro ovunque andasse come per vantarsi del suo trofeo
– non era così male come aveva pensato quando
ancora non lo conosceva bene.
Adesso sapeva perfettamente che c’erano due Nigel: quello un
po’ prepotente e sbruffone, che prendeva il sopravvento
soprattutto a scuola, e quello carino e dolce che veniva fuori quando
erano soli.
E poi c’era un terzo Nigel, quello che Molly stava cercando
in tutti i modi di scoprire un passo minuscolo alla volta: il Nigel che
provava un odio smisurato ed infantile nei confronti di Aiden. Voleva
scoprire perché ce l’avesse tanto con lui, ma ogni
volta che provava ad affrontare l’argomento lui ce la metteva
tutta per stroncarlo sul nascere.
Comunque aveva imparato a trascorrere il tempo con lui e aveva scoperto
la maggior parte dei suoi pregi, tanto che aveva smesso quasi del tutto
di odiarlo come faceva prima. Non sarebbe diventata la sua fidanzata
neanche per tutto l’oro del mondo, e se avesse potuto
l’avrebbe fatta finita con quella commedia, ma le cose erano
decisamente migliorate e ogni tanto aveva provato ad essergli amica,
invitandolo a pranzare con lei, Ben, Sheila e Breanne – anche
se loro non avevano fatto i salti di gioia – oppure dandogli
qualche consiglio quando le parlava dei suoi problemi in famiglia.
Eh sì, a quanto pareva la sua vita non era perfetta e Molly
aveva provato pena per lui quando le aveva raccontato che i suoi
genitori si parlavano a malapena ed erano sempre distanti, anzi quasi
del tutto assenti nella sua vita, in particolar modo sua madre.
Anche Molly aveva avuto a che fare con problemi riguardanti
l’assenza dei suoi genitori, ma era stato esclusivamente per
lavoro: suo padre e sua madre si amavano e, cosa più
importante, amavano lei.
L’unica cosa positiva che poteva trarre da quella situazione,
anche se Molly pensandoci si sentiva sempre un po’ in colpa,
era che di sicuro Nigel non l’avrebbe invitata a cena a casa
sua, almeno fino a quando sarebbero rimasti una coppia/non coppia qual
erano in quel momento.
«Eccole qui le mie
ragazze preferite!», gridò Ben alle loro spalle,
gettandogli le braccia intorno al collo.
«Ma sei matto? Se Nigel ti sentisse…».
Molly rovesciò gli occhi e rispose con una linguaccia al
sogghigno malizioso di Sheila, la quale sembrava divertirsi un mondo
nel prenderla in giro sulla gelosia estrema che Nigel esercitava nei
suoi confronti.
Ben ridacchiò e si allontanò, ma solo per
riapparire di fronte a loro e camminare all’indietro come un
gambero per continuare a conversare.
«Ci sarete alla partita, oggi pomeriggio, vero?».
«Certo!», esclamò Sheila, battendogli un
sonoro cinque.
Al silenzio di Molly, i due ragazzi puntarono gli occhi su di lei e si
fermarono.
«Pensavo… pensavo che fosse lunedì
prossimo», balbettò, arrossendo
all’improvviso. «Scusami Ben,
io…».
Ben, con i pugni stretti lungo i fianchi e più che irritato,
esclamò lamentosamente: «Non dirmi che hai un
altro NFD!».
«Che cos’è un NFD?»,
domandò Molly disorientata.
Sheila le avvolse le mani attorno all’orecchio e
sussurrò: «Nigel-Fake-Date».
Poi, con un sorriso smagliante sulle labbra, aggiunse:
«È una sigla che ci siamo inventati per non
spifferare ai quattro venti il tuo piccolo segreto! Bella,
no?».
«Uh, sicuro. Comunque, vedrai che riuscirò a
trovare una soluzione. Ti avevo promesso che ci sarei stata e ci
sarò!».
Ben annuì, per nulla convinto dalle parole
dell’amica, e si allontanò mogio mogio lungo il
corridoio.
«Non sopporto di vederlo così… Sono una
stupida!», si sgridò Molly, dandosi una pacca
sulla fronte.
«Credi che riuscirai davvero ad annullare
l’appuntamento con Nigel?», domandò
Sheila, con ben poche speranze a riguardo.
«Verrò a vedere la partita di basket ad ogni
costo! Io mantengo sempre le mie promesse!».
Infervorata, si voltò di scatto ed iniziò a
camminare a passo svelto nella direzione opposta. Anche a costo di
arrivare tardi a lezione, doveva…
«Molly!»
La ragazzina si voltò a guardarla e Sheila scosse il capo.
«Anche Nigel ha educazione fisica, adesso».
«Oh… giusto».
Tornò indietro a capo chino, rossa di vergogna, e
seguì l’amica.
Molly odiava fare sport. In realtà odiava qualsiasi cosa la
facesse sudare, eccetto forse giocare a Just Dance
con Bill e prendere il sole spaparanzata sulla spiaggia. Comunque,
ciò che odiava della scuola era che ci fossero due ore alla
settimana di stupidissima educazione fisica.
In calzoncini e canottiera, i capelli legati in un’alta coda
di cavallo che seguiva ogni suo movimento, correva faticosamente
accanto a Sheila, la quale invece sembrava non avere nessunissimo
problema nel fare i sei giri di campo che il loro professore aveva
imposto loro.
Infatti le chiese, sorridendo e senza nemmeno un minimo di fiatone:
«Sbaglio o avevi detto che dovevi raggiungere Nigel per
parlare del vostro appuntamento?».
Molly guardò Nigel correre in testa al gruppo e le venne
quasi da vomitare.
«Aspetto sia lui a doppiarmi», soffiò,
passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore.
Sheila rise ed aumentò un po’ il passo,
lasciandola da sola a chiudere la fila.
Stava per gettarsi a terra e rotolare nella polvere supplicando
pietà, quando sentì la mano di qualcuno posarsi
in fondo alla sua schiena.
«Ehi… Nigel… Già
qui?».
Il ragazzo ridacchiò della sua espressione più
che sfinita e rallentò fino a prendere il suo passo.
«Non stai andando male», si complimentò.
«Fino ad adesso non ti sei mai fermata!».
«Oh… sì… questo è
vero».
Si sforzò di sorridere e decise di approfittare del momento,
visto che erano stati superati dai più veloci e i
più lenti del gruppo erano qualche metro più
avanti.
«Nigel… devo dirti una cosa».
«Se vuoi arrivare fino in fondo non sarebbe meglio
risparmiare il fiato? Potrai dirmi tutto quello che vuoi oggi
pomeriggio».
«No, io…», deglutì, anche se
aveva la bocca impastata. «È proprio di oggi
pomeriggio che… ti devo parlare».
Nigel, accigliato, rimase in silenzio con gli occhi puntati su di lei.
Molly fece un respiro profondo, per quanto i suoi polmoni sotto sforzo
glielo permettessero.
«Mi sono dimenticata che oggi pomeriggio c’era la
partita di basket… a cui avevo promesso a Ben di andare.
Sai… lui gioca e ci tiene davvero molto che io…
sia presente. Quindi possiamo vederci… un altro
giorno?».
Nigel ci rimase male, la ragazza se ne accorse subito perché
gli angoli della sua bocca si incurvarono
all’ingiù e si allontanò un
po’ da lei, staccandola di qualche passo. Molly lo raggiunse,
sentendo le proprie gambe molli come gelatina, e gli prese un braccio
per obbligarlo a rallentare.
«Non fare così, non l’ho
fatto…».
«E così è più importante
quello sfigato di me?», berciò, interrompendola.
Molly lo lasciò andare e guardò di fronte a
sé a testa alta, iniziando ad inviperirsi.
«Uno, Ben non è uno sfigato. Due, la questione non
è chi è più importante per la
sottoscritta, ma è che io gli ho fatto una promessa ed
intendo mantenerla. Mi dispiace averti detto che sarei uscita con te,
non volevo darti buca».
Quelle parole suonarono strane alle sue orecchie, ma non ci
pensò troppo e riprese fiato, visto che aveva fatto quel
discorso senza mai interrompersi.
Scorgendo Nigel che tentava di nascondere il dispiacere mordendosi le
labbra, Molly si guardò i piedi, le scarpe da tennis un
po’ impolverate, e si disse che Sheila l’avrebbe
come minimo insultata, ma non poteva fare altrimenti.
«Senti, perché non vieni anche tu? Staremmo
insieme e io manterrei la promessa fatta a Ben!».
Il ragazzo parve sorpreso, come se si stesse chiedendo
perché non fosse venuta in mente a lui un’idea del
genere, poi accennò un sorriso.
«Va bene», rispose. «A me piace il
basket!».
Si voltò per incrociare lo sguardo di Molly e si rese conto
che non era più al suo fianco. Si guardò alle
spalle e la vide sdraiata sull’erba a bordo campo, con le
mani sulla fronte e il torace che si alzava e si abbassava velocemente.
Tornò indietro per raggiungerla e si chinò su di
lei, con una mano su un suo ginocchio piegato.
«Ehi, stai bene?», le chiese apprensivo, mentre le
prendeva il polso per controllare le pulsazioni cardiache.
«Ci divertiremo un mondo alla partita», disse con
la voce spezzata dal fiato grosso e un sorriso smagliante.
«Sempre che ci arrivi viva».
***
Andrew rilesse
ancora una volta gli appunti di Grace, mentre col suo fuoristrada
stavano andando ad interrogare nuovamente e a sei anni di distanza
dall’omicidio i signori Hall.
Laurence
Cox secondo sua moglie:
·
Ottimo padre,
amava sua moglie e suo figlio
·
Non si drogava
– non avrebbe mai sottratto soldi alla famiglia
·
Gli piaceva il
suo lavoro, anche se non era pagato granché
·
Andava
d’accordo con tutti, non aveva nemici, sorrideva sempre
Perché
ucciderlo?
«Abbiamo solo questo?»,
domandò il poliziotto della omicidi, massaggiandosi gli
occhi con due dita.
Grace annuì senza distogliere lo sguardo dalla strada.
«D’altronde i tuoi predecessori non ci hanno
lasciato molto. Comunque credo che scopriremo un sacco di cose parlando
con Mr. e Mrs. Hall».
Andrew la osservò attentamente e corrugò la
fronte. «Non avrai… non avrai dei sospetti su di
loro, spero!».
«Perché no?». Scrollò le
spalle e svoltò ruotando il volante in modo fluido.
«Non abbiamo le loro deposizioni e sono le ultime persone che
hanno visto Cox. E poi... Guarda nella mia borsa, ci sono dei fogli
stampati».
Andrew prese la borsa a tracolla della detective, se la mise sulle
gambe e la aprì, trovando il solito casino che
contraddistingue le borse di tutte le donne. Almeno in questo, era come
le sue simili!
Quando trovò i fogli stampati di cui parlava, li
tirò fuori e li stirò sul finestrino, dove si
accorse che si trattava di un articolo scaricato da Internet. Quello
che lo colpì maggiormente, però, fu la fotografia
che vedeva immortalati i coniugi Hall e Peter Dennison, ex-capo della
omicidi che aveva chiuso in quattro e quattr’otto il caso
Cox: Hall e Dennison si stringevano la mano e sorridevano al flash
della fotocamera.
«Leggi le parti evidenziate», lo esortò
Grace, già con un sorrisino sulle labbra.
Andrew posò gli occhi sulle parole sottolineate con
evidenziatore giallo e lesse ad alta voce, sgranando pian piano gli
occhi: «I due, amici sin dai tempi del liceo, si
sono incontrati di nuovo dopo tanto tempo alla cena organizzata per
festeggiare i successi del finanziere e hanno posato insieme per questa
foto».
«Guarda la data, ora».
Andrew abbassò gli occhi sulla data dell’articolo
e rimase ancora più sconcertato. «La cena
è stata il 6 settembre del 2007! Un giorno dopo
l’assassinio di Cox!».
«Proprio così. E guarda caso Mr. Hall ha deciso di
invitare il suo vecchio amico Peter… Qui
c’è puzza di marcio».
«Stai cercando di dire che è stato Hall ad
uccidere Cox e che poi ha corrotto Dennison per far chiudere in fretta
il caso? Se è stata tutta una messinscena, allora vuol dire
che quella busta di coca trovata addosso alla
vittima…».
«Può averla messa Hall, ma non credo che sia
tornato sul luogo del delitto solo per questo. È
più probabile che Dennison l’abbia aggiunta fra le
prove successivamente».
«E nessuno se n’è accorto, dico io?!
Anche nell’esame tossicologico, possibile che nessun abbia
notato che il suo sangue era pulito come l’acqua di un
ruscello di montagna?».
Grace scrollò ancora una volta le spalle.
«Dennison era il capo, può aver minacciato di
licenziare chiunque andasse a raschiare il fondo di quella
faccenda».
Andrew incrociò le braccia al petto e sbuffò.
Allora Grace sorrise e gli accarezzò una spalla.
«So che tu avresti rischiato di perdere il lavoro, pur di
fare giustizia. Purtroppo all’epoca eri ancora un
pivellino».
Il poliziotto accennò un sorriso e sistemò di
nuovo i fogli nella borsa di Grace.
«Indagherò sulla possibile provenienza di quella
busta di coca. E se non troverò niente…
chiederemo direttamente a Dennison domani».
«Ottimo», approvò la detective,
parcheggiando il fuoristrada di fronte ad una villa bianca, non grande
e sontuosa come quella dei Delafield, ma altrettanto
d’effetto.
Essendo situata su un’altura, era possibile vedere
l’oceano e la spiaggia dalla strada.
Grace si coprì gli occhi con una mano – aveva
dimenticato gli occhiali da sole a casa – e indicò
un punto di fronte a sé. Andrew la raggiunse e
seguì la direzione del suo dito, scoprendo che quella che si
vedeva in lontananza era proprio Venice Beach.
«Perché si sarebbe dovuto uccidere proprio
là, in una spiaggia piena di turisti?»,
domandò il poliziotto, per poi fermarsi un attimo a
riflettere. «Com’è possibile? Venice
è sempre piena di turisti, anche di
notte! Non è possibile che nessuno abbia sentito lo
sparo!».
Grace ridacchiò, battendogli una pacca sulla spalla.
«Credevo che avessi più occhio, Andrew! Hai per
caso visto schizzi direzionali o una grande chiazza di sangue sulla
sabbia, nelle foto fatte dalla scientifica?».
Andrew spalancò gli occhi. «Non è
quello il luogo del delitto!».
Grace sollevò il pollice in segno d’OK e si
diresse finalmente verso il cancello per suonare al citofono. Le
rispose la cameriera, la quale appena sentì la parola
“polizia” aprì e corse fuori di casa,
preoccupatissima. Aveva una sessantina d’anni e molto
probabilmente aveva lavorato per la famiglia Hall per tutta la vita,
per questo non poteva credere che la polizia dovesse di nuovo varcare
la soglia della loro casa.
Li accompagnò in un grande salone dove trovarono ad
attenderli la signora Hall, seduta a gambe accavallate su uno dei
divani di pelle bianca, che sorseggiava un bicchiere di tè
freddo. Era davvero una bella donna, entrambi l’avevano
già notato in foto, ma dal vivo – e nonostante gli
anni trascorsi nel frattempo – era tre volte meglio, con i
capelli corvini che le arrivavano fino al seno, gli occhi azzurri come
il ghiaccio e le labbra carnose, per non parlare poi della sua
silhouette da atleta di ginnastica artistica. Grace dovette prendere a
gomitate Andrew perché si concentrasse sul motivo per cui
erano lì.
«La polizia, Mrs. Hall», li presentò la
cameriera, facendo poi un passo indietro.
«Vedo», esclamò la donna.
Posò i suoi gelidi occhi azzurri su Grace, con un sorriso
mellifluo che le diede subito sui nervi. «Ma lei non fa parte
della polizia, o sbaglio, signorina Schneider?».
La detective provò a stiracchiare un sorriso per non essere
scortese. «No, infatti».
«Ho sentito molto parlare di lei».
Si alzò in piedi per raggiungere le finestre che davano sul
giardino e la piscina e Andrew seguì ogni suo movimento come
ipnotizzato, ma quella volta Grace non fece niente, più
interessata a ciò che aveva da dire la signora Hall.
«Pare che Mr. Delafield sia un suo convinto sostenitore.
È davvero così brava?».
A quella domanda, il poliziotto parve riprendersi e con espressione
seria intervenne: «La migliore».
Mrs. Hall si voltò lentamente verso di lui per inchiodarlo
al muro coi suoi occhi taglienti, poi sorrise di nuovo rivolta a Grace,
la quale si strinse nelle spalle con modestia.
«Scusatemi se vi ho fatti attendere, ero al telefono con mio
figlio».
Sia Andrew che Grace si voltarono e videro Mr. Hall entrare nel salone
dopo aver spalancato due porte fin’ora rimaste chiuse.
«Nessun problema», disse Grace, porgendogli una
mano per presentarsi, ma anche lui era già a conoscenza
della sua identità.
«Un’agente della omicidi e la detective Schneider
in un colpo solo, direi che è il mio giorno
fortunato», esclamò prima di sedersi sul divano,
gettando un’occhiata a sua moglie, ancora alla finestra, che
gli dava le spalle.
«Accomodatevi, prego. E per favore, Maria, potrebbe portarci
qualcosa di fresco da bere?».
La cameriera uscì subito dal salotto per eseguire
l’ordine e Grace si sedette sul comodo divano di fronte a
quello su cui si era sistemato Mr. Hall, appoggiato con un lato del
corpo contro il bracciolo.
«Come posso esservi utile?», chiese dopo qualche
secondo, guardando prima l’uno e poi l’altra.
Andrew si schiarì un po’ la voce prima di parlare,
ancora distratto da quella femme fatale.
«Abbiamo riaperto il caso di Laurence Cox»,
esordì, provocando una certa sorpresa nell’uomo,
tanto che cambiò subito posizione e si sforzò di
mantenere un tono di voce rilassato.
A Grace non sfuggì nessun sintomo di nervosismo, come non le
sfuggì il sorrisetto malizioso che era comparso
all’improvviso sulle labbra della moglie.
«Oh, che brutta storia», disse Mr. Hall.
«Credo che nessuno di noi riuscirà mai a
dimenticarla. Ditemi, come mai avete deciso di indagare
ancora?».
«Per una serie di prove mancanti e di incongruenze
sospette», intervenne Grace, parlandone come se si fosse
trattato di cose irrilevanti. «Per esempio, mancano le
registrazioni dei vostri interrogatori».
Dall’occhiata che le rivolse, Grace notò con
soddisfazione che ormai aveva capito con chi aveva a che fare. Infatti,
Mr. Hall decise di giocare tutte le sue carte e di non prenderla
sottogamba, mettendocela tutta per dimostrarsi tranquillo ed innocente,
nonostante avesse parecchi scheletri nascosti nell’armadio.
«Ci avevano detto che non era necessario, che non eravamo
nella lista dei sospettati e che avevamo già fatto tutto il
possibile».
«Quindi avevate un alibi?», domandò
Andrew.
«Certo. Se non ricordo male, mia moglie era con Nigel, mentre
io sono stato tutta la notte nel mio studio a lavorare».
«Da solo».
«Sì, da solo, ma…».
«Non regge come alibi», decretò
gravemente Grace, addossandosi allo schienale del divano proprio mentre
entrava la cameriera con un vassoio di bibite fresche.
Maria lo posò sul tavolino che li divideva e appena se ne fu
andata Mr. Hall alzò un angolo della bocca per sorridere in
modo spavaldo, prendendo in mano un bicchiere di limonata.
«Allora reggeva», disse prima di bere un sorso.
Andrew si voltò verso Grace, la quale non ribatté
né distolse gli occhi dall’uomo, con un sorrisino
quasi perverso dipinto sulle labbra. Non era mai un buon segno, mai.
Quando anche Mr. Hall se ne accorse, corrugò la fronte e
poi, trattenendo a stento l’irritazione, chiese:
«Perché mi fissa in quel modo, ora?».
«Lei è mancino».
«Sì, e allora?».
«Lei si ricorda per caso se lo era anche il signor
Cox?».
«Io non… no, non credo. Per quale motivo me lo
chiede?».
«Nulla, mi è solo venuta in mente una cosa
buffa», scrollò il capo e nel farlo
lanciò un’occhiata alla moglie
dell’uomo: sembrava sorpresa, ma il suo sguardo non aveva
perso la malizia che vi aveva visto poco prima.
«Lei ha una pistola, Mr. Hall?», fece la domanda
seguente senza giri di parole.
L’uomo perse un po’ di colore, ma si riprese presto
e divenne paonazzo, mentre si alzava in piedi e iniziava a ringhiare.
«Signorina Schneider, pensa davvero che io sia un assassino?
Se ne è così convinta, ne riparleremo
un’altra volta, con il mio avvocato».
Grace sollevò entrambe le mani in segno di resa.
«Okay, se ci tiene tanto…».
Si alzò dal divano e fece segno ad Andrew di seguirla. Ma
prima di uscire dal salone scortata dalla governante,
incrociò lo sguardo di Mrs. Hall e le sorrise, tirando fuori
un bigliettino da visita dalla tasca della giacca.
«Se dovesse venirvi in mente qualcosa, qualsiasi cosa, potete
chiamarmi».
«Non ci conti troppo», berciò Mr. Hall,
guardando in cagnesco anche sua moglie, la quale però
continuò a sorridere ed accettò il cartoncino
bianco.
Mentre raggiungevano la porta, Grace provò a fare qualche
domanda alla governante, ma fu del tutto inutile: la donna non disse
una parola nemmeno per confermare l’esile alibi di Mr. Hall,
troppo spaventata che potesse accadere qualcosa di male a coloro che le
davano il pane quotidiano da tanti anni.
Una volta alla porta, Grace si sporse all’interno e
urlò: «A presto, Mr. Hall!», sperando
vivamente che la sentisse.
Illuminati dal sole alto del pomeriggio, camminarono lungo il vialetto
in giardino ed uscirono dall’alto cancello, diretti verso il
fuoristrada della detective.
Ad un certo punto Andrew sollevò le braccia, esasperato, e
strepitò: «Grace, ma che hai fatto? Sembrava che
stesse per venirgli un embolo!».
«Divertente, vero?».
«No, per niente! L’hai fatto infuriare
così tanto che nei prossimi giorni la mia scrivania
sarà sommersa di scartoffie provenienti dagli studi dei suoi
mille avvocati!».
«Non posso assicurarti il contrario. Però ora sei
convinto della sua colpevolezza?».
«A dire il vero no». Si fermò
bruscamente di fianco al cofano del fuoristrada e fissò gli
occhi nei suoi. «Insomma, quale sarebbe il
movente?».
«Ancora non lo so», rispose sinceramente, guardando
verso la villa della famiglia Hall. Alla finestra c’era
ancora la femme fatale, che la osservava con lo
stesso sorriso mellifluo inconfondibile. «Ma sono certa che
lei lo sa».
«Lei chi?». Ad un cenno della
testa di Grace, si voltò e vide di sfuggita
l’abito bianco di Mrs. Hall.
«Non ha mosso un dito per difendere il marito e non credo che
voglia farlo. Più lui era in difficoltà,
più lei sembrava godere».
Detto questo, Grace salì sul suo fuoristrada e Andrew fece
lo stesso, sedendosi sul sedile del passeggero.
Titubante, si massaggiò il setto nasale e
sospirò. «Ora che si fa? Provo a chiedere un
mandato di perquisizione per vedere se Mr. Hall ha una
pistola?».
«Dubito che sia stato così stupido da non
disfarsene. E poi il Pubblico Ministero non te lo concederà
mai, non abbiamo elementi a sufficienza, solo che è mancino
e non ha un alibi solido. Piuttosto, perché non metti sotto
controllo il cellulare di Dennison? Se è come penso,
scommetto che Mr. Hall lo contatterà per far sì
che lo copra anche questa volta».
«Uhm, ci proverò. Ora mi spieghi perché
ci dovrebbe interessare il mancinismo di Mr. Hall?».
Grace ridacchiò e scosse il capo. «Stai davvero
perdendo punti, Andrew».
Nonostante tutte le sue suppliche, la detective non cedette e non gli
spiegò nulla, lasciandolo sulle spine.
Per questo motivo trascorsero il resto del viaggio in quasi totale
silenzio, ascoltando distrattamente la radio.
Quando arrivarono alla centrale, Grace accostò il
fuoristrada al marciapiede e sorrise lievemente ad Andrew, il quale si
fermò con una mano sulla maniglia della portiera,
sbigottito.
«Tu non vieni?», le chiese.
«No, ho altre cose da fare».
«Okay. Allora ti faccio sapere appena ho qualche
novità».
Aprì la portiera e scese, chiudendosela alle spalle. Quindi
si appoggiò al finestrino abbassato con un braccio,
chinandosi per guardarla ancora in viso.
«Grace, posso chiederti una cosa?».
La detective annuì, curiosa.
«Ma stai ancora assieme a quel ragazzo… quello
famoso?».
«Si chiama Tom», disse, ridacchiando.
«Comunque la risposta è sì».
«E Dylan? Cioè… lui come l’ha
presa?».
Grace pensò a Dylan e a Bill, la nuova coppia
dell’anno, e rise ancora, quella volta però
dolcemente.
«Molto meglio di quanto tu riesca ad immaginare. Posso
andare, ora?».
«Sicuro, anche perché capirti è peggio
che fare un rebus!».
Andrew si allontanò dal fuoristrada e lo guardò
svoltare mentre l’ultima risata di Grace veniva trascinata
via dal vento caldo, un vento talmente caldo che temette di prendersi
un accidenti entrando nella centrale, dove non avevano idea di cosa
volesse dire la parola “moderazione” abbinata ad
“aria condizionata”. Rispetto a fuori, gli sembrava
di essere entrato in una cella frigorifera!
Si barricò nel suo ufficio, prese lo scatolone del caso Cox
e riesaminò tutti gli elementi fino a quando non si
trovò di fronte alle foto della scena del crimine, o meglio
del luogo dove avevano rinvenuto il cadavere.
Si soffermò a guardarle ancora una volta e allora, con un
sorriso da ebete stampato sul viso, capì quello che Grace
aveva notato subito: Laurence Cox impugnava la pistola con la mano
sinistra, nonostante non fosse mancino.
***
«Okay, questo non me
lo sarei mai aspettata».
Con la coda dell’occhio Molly guardò Sheila,
ancora inacidita a causa dell’invitato inatteso, ed
alzò un angolo della bocca per bisbigliarle: «Per
favore, sii gentile con lui».
Sheila sgranò gli occhi. «Gentile?! Lui non
è mai stato gentile con nessuno al di
fuori del club P&A! Che, se non l’avessi capito, sta
per Popular&Athletes».
«E va bene, su questo sono d’accordo con te, ma era
l’unico modo per tenerlo buono e venire alla
partita!».
La mora stava per ribattere, coi suoi occhi blu che lanciavano saette,
quando Nigel si sporse su di loro indicando le porte spalancate della
palestra.
«Stanno entrando i Knights!»,
le avvertì e applaudì vigorosamente a sostegno
dei giocatori, tra cui Ben, il quale appena lo vide seduto accanto a
Molly restò di sasso.
La ragazzina gli sorrise imbarazzata ed agitò una mano in
segno di saluto, allorché Ben scosse lievemente il capo con
un ghigno e si avvicinò alla panchina della squadra di casa.
«Però, sta proprio bene senza occhiali il nostro
Ben!», esclamò Molly appena ebbe il tempo di
avvicinare la bocca all’orecchio di Sheila, che
arrossì un poco e si irrigidì.
«Sì, ehm… e allora? Non può
di certo portare gli occhiali in campo!».
Molly la osservò, insospettita dal suo strano comportamento,
ma non poté concludere la sua diagnosi perché
Nigel le strinse improvvisamente la mano nella sua, facendola voltare
di scatto.
«Sei felice?», le domandò con le labbra
incurvate in un sorriso davvero dolce, tanto che si trovò a
boccheggiare per qualche secondo.
«Sì… certo!», rispose alla
fine, ritrovando il suo autocontrollo. Si avvicinò al suo
orecchio e con voce pacata mormorò un
«Grazie» che solo lui ebbe l’onore di
sentire, perché le cheerleader avevano iniziato ad incitare
la squadra della Notre Dame High School e sugli
spalti tutti gli studenti accorsi a vedere la partita avevano iniziato
a gridare incitamenti e ad applaudire, mentre la squadra entrava in
campo per un breve riscaldamento.
«Non ci credo», esclamò Nigel quando
tornò a concentrarsi sui movimenti dei ragazzi sparsi sul
campo di linoleum. «Pensavo che il tuo amico fosse una
riserva! Invece gioca subito in prima squadra!».
«Spero che la delusione non ti faccia troppo male»,
disse Sheila a denti stretti.
Molly le tirò una lieve gomitata prima di voltarsi verso
Nigel e dire: «Ben è davvero bravo a giocare, te
ne accorgerai presto».
La partita iniziò con il fischio dell’arbitro e in
poco tempo i Knights riuscirono a portarsi in
vantaggio, anche se di soli pochi punti.
Ben era alto un metro e ottanta, forse giusto qualche centimetro in
meno, ma non era altrettanto prestante fisicamente, in quanto aveva un
fisico smilzo e fragile che negli scontri corpo a corpo lo
svantaggiava, anche se dalla sua parte aveva la velocità nei
piedi e i falli. Inoltre, da non dimenticare era la sua
capacità di elaborare nuovi schemi in continuazione, che lo
rendevano uno dei migliori playmaker della squadra nonostante la
giovane età.
Nigel si era dovuto ricredere presto e l’orgoglio di Molly si
era gonfiato tanto da essere controllabile a stento, come se i
complimenti che aveva fatto a Ben fossero rivolti a lei. Era
così felice per lui!
«Vai Ben, sei il migliore!», gridò con
un pugno alzato. Il ragazzo si voltò nella sua direzione e
le sorrise, per poi tornare a seguire l’azione.
Molly vide Nigel con il cellulare fra le mani ed incuriosita si
chinò su di lui. Lui intercettò il suo sguardo e
con gli occhi meno luminosi del solito disse: «È
mio padre, devo rispondere. Torno subito».
La ragazzina si lasciò accarezzare i capelli sulla testa,
quindi lo guardò mentre si alzava dagli spalti e scendeva le
scale di corsa per uscire dalla palestra e parlare con
tranquillità con suo padre.
Una coltre di tristezza le aveva lambito il cuore ancora, come tutte le
volte in cui leggeva nel suo sguardo lo stesso sconfortante sentimento
legato alla sua famiglia, ma provò a mettercela tutta per
esultare quando i Knights centrarono
l’ennesimo canestro.
Nigel era uscito da neanche un minuto, quando qualcuno scese le
scalette alle sue spalle e si sedette nel posto momentaneamente vuoto
accanto a Molly.
«Scusa, ma è occupato», disse subito,
senza prestarvi alcuna attenzione, concentrata sull’azione in
campo.
«Mi sposterò quando
ritornerà».
Molly riconobbe quella voce con un tuffo al cuore e si voltò
di scatto, perdendosi il canestro della squadra avversaria. Ma, al
diavolo, Aiden era molto più importante!
«Ahm… io vado a fare qualche foto»,
disse Sheila alzandosi, anche se nessuno dei due badò a lei,
troppo impegnati a scrutarsi negli occhi, come se potessero vedere
l’uno nell’anima dell’altra.
«Che cosa stai facendo?», le chiese alla fine
Aiden, sospirando stancamente.
Molly si girò verso il campo e lo indicò con una
mano. «Guardo la partita. Ho appena scoperto che il basket
è uno sport davvero…».
«Cosa stai facendo con Nigel, intendo. Da
quand’è che ha iniziato a piacerti?».
Il viso di Molly si accartocciò in una smorfia. «E
da quand’è che tu sei diventato geloso?».
«Io non sono geloso», ribatté con voce
metallica, inflessibile all’ira.
«Bene. Allora non preoccuparti per me e Nigel».
Quanto era stato difficile pronunciare quella frase! Lei e
Nigel. L’aveva detto come se fossero una vera
coppia, legata da qualche tipo di sentimento! Di sicuro Nigel provava
qualcosa per lei, ma Molly… insomma, era già
tanto se a volte lo trovava simpatico e dolce.
Avrebbe tanto voluto che Aiden la prendesse per mano e la trascinasse
via prima che Nigel tornasse, che la portasse al suo appartamento e che
la pioggia li bagnasse di nuovo dalla testa ai piedi facendoli ridere a
crepapelle; avrebbe tanto voluto anche che la baciasse e le ordinasse
di farla finita con Nigel. Ma sapeva che nulla di tutto ciò
sarebbe mai successo.
«Lo so perché lo stai facendo», riprese
Aiden, quella volta con una nota di dolcezza nella voce, tanto che
Molly evitò di incontrare il suo sguardo: non poteva
rischiare di perdersi in quegli occhi scuri e profondi e di combinare
così qualche guaio irreparabile.
«Quando Nigel e la ragazza più bella
dell’universo sono usciti per la prima volta il
coach mi ha detto che non ero stato convocato. Il giorno dopo torna da
me e… puff, domani giocherò!».
Molly, rossa come un peperone, strinse più forte la borsa
sulle gambe e per la prima volta in vita sua pregò
perché Nigel tornasse presto.
«Hai ottenuto il tuo scopo, anche se non capisco ancora
perché tu l’abbia fatto. Ma questa è
un’altra storia. Molly…».
La ragazza rabbrividì sentendo il suo nome uscire dalle sue
labbra e l’effetto che ebbe su di lei fu ancora
più sconvolgente quando le prese il mento fra le dita per
costringerla a guardarlo negli occhi.
«Perché continui a frequentarlo?», le
chiese, malinconico e allo stesso tempo confuso.
Davvero gli interessava? Davvero voleva saperlo? Molly era certa che
non avrebbe capito, quindi si mise sulla difensiva e si
allontanò, cercando Ben con lo sguardo e concentrandosi su
di lui per non mostrare ad Aiden la sua frustrazione.
«Un grazie sarebbe più che
sufficiente», mormorò con le mascelle serrate e
gli occhi spenti.
«Io ho capito perché…».
Okay, ora stava davvero iniziando ad irritarla.
«Credi che mi piaccia davvero?», sbottò,
anche se a bassa voce, con gli occhi lucidi. «Beh, credi pure
a tutto quello che vuoi, tanto a me non…!».
«È che tu hai un cuore», la interruppe,
accarezzandola con lo sguardo, visto che in mezzo a tutta quella gente
non avrebbe mai potuto infilarle una mano fra i capelli, come invece
aveva fatto a casa sua.
«Non vuoi ferirlo, non è
così?».
«Io…». Molly boccheggiò e
cercò qualche patetica scusa da sciorinare, ma la
verità era decisamente più semplice da dire,
anche se era certa che prima o poi ne avrebbe pagate le conseguenze.
«Pensavo che ci sarei riuscita: ti avrei aiutato a rientrare
nella squadra di baseball e dopo un paio di giorni, giusto per non
destare sospetti, avrei detto a Nigel che non saremmo potuti essere
altro che amici, ma… lui non è come sembra,
c’è molto di più oltre a quello che
vediamo tutti a scuola, e io non… non me la sento di farlo
soffrire, anche se…».
«Anche se ti senti in colpa per averlo ingannato e vorresti
porre fine a tutto questo».
Molly annuì e chinò il capo, lottando con tutte
le sue forze per non abbandonarsi alle lacrime.
Sheila arrivò trafelata accanto a loro e disse a bassa voce:
«Ho visto Nigel in corridoio, sta tornando».
Aiden le sorrise con gratitudine, poi si voltò verso Molly
nello stesso momento in cui tutti si alzarono in piedi sugli spalti,
trattenendo il respiro.
Lui e Molly furono probabilmente gli unici a restare seduti, immersi
l’uno negli occhi dell’altra e protetti da entrambi
i lati da un muro di persone.
Aiden accennò un sorriso e si avvicinò al suo
viso, tanto all’improvviso che Molly ebbe l’istinto
di scostarsi, ma non lo fece perché i suoi muscoli
sembravano essere stati pietrificati da Medusa in persona. Aveva il
volto in fiamme e chiuse gli occhi, certa che l’avrebbe
baciata; purtroppo Aiden le sfiorò con le labbra soltanto la
guancia, facendole salire un groppo enorme in gola.
«Ci vediamo domani alla partita. E grazie», le
sussurrò all’orecchio e Molly lo sentì
distintamente, nonostante i fischi e le esultanze della gente intorno a
loro.
Quando riaprì gli occhi, Aiden non c’era
più e Nigel stava giusto salendo le scale di corsa per
tornare al suo posto, con un sorriso incantato sulle labbra.
«È stato grandioso!», gridò
rivolto verso Sheila, che ebbe a malapena la forza di annuire,
estasiata.
Molly scattò in piedi e vide Ben sorridere e scontrare pugni
con quelli dei suoi compagni di squadra che tornavano in formazione,
mentre alcuni si limitavano ad arruffargli i lunghi capelli che non gli
cadevano sulla fronte solo grazie ad una spessa fascia blu.
Quando Nigel e Sheila tornarono seduti ai loro posti e
l’eccitazione calò, Molly si sporse verso
l’amica.
«Mi racconti che cosa mi sono persa?».
In poche parole Ben, oltre la linea del tiro da tre punti, aveva tirato
la palla verso il tabellone, con tanta precisione da sfiorare il
canestro, e sul più bello era intervenuto un suo compagno,
che era saltato in aria, («Sembrava avesse delle
fottute molle sotto le scarpe!»), aveva preso la
palla e ancora in volo l’aveva schiacciata a canestro,
segnando due punti spettacolari.
La perfetta esecuzione di un alley-oop e lei se
l’era persa. Ben l’avrebbe strangolata con le sue
stesse mani, ma Molly non poté non pensare che ne era valsa
la pena, visto che sembrava essere tornata finalmente alla vita dopo
giorni in cui aveva sentito un macigno al posto del cuore nel petto.
«Amico, sei stato davvero fantastico! Su quel campo
sembravi… un’altra persona!»,
esclamò Nigel non appena vide Ben uscire dalle porte vetrate
a spinta.
Sedute sul muretto che circondava la piazzetta di fronte
all’edificio scolastico, anche Molly e Sheila si alzarono e
gli corsero incontro per abbracciarlo e congratularsi con lui.
Ben, disorientato e imbarazzato a causa di tutti quei complimenti,
lasciò cadere la borsa a terra e non riuscì a
spiccicare una parola: si limitò ad abbracciare le ragazze,
anche se Sheila aveva un po’ esitato prima di avvolgergli le
braccia intorno al collo, in punta di piedi.
Quando si allontanò da lui, Molly notò il rossore
sul suo viso e ridacchiò sotto i baffi.
Rimasero lì ancora un po’ a parlare della partita
vinta dalla squadra di casa, fino a quando un’auto si
fermò proprio lì di fronte e Sheila dovette
andare.
«Beh, suppongo che dovremmo andare anche noi»,
disse Molly.
Nigel annuì, anche se distrattamente, mentre tirava fuori il
suo cellulare dalla tasca dei jeans. Allora si ricordò della
chiamata di suo padre e spinta da un filo di compassione il suo viso si
addolcì.
«Che cosa voleva tuo padre, prima?».
Nigel levò di scatto il capo e un paio di riccioli biondi
gli scivolarono sulla fronte. Deviò il suo sguardo e se li
spostò di lato.
«Mi ha detto soltanto che… potevo tornare a casa
più tardi, oggi pomeriggio».
Molly capì subito che stava mentendo, persino Ben lo
capì, ma non disse niente ed infilò un braccio
sotto al suo, sorridendogli. «Potresti venire un
po’ da me, allora».
Alla faccia sbigottita di Ben, Molly si rese conto di ciò
che aveva fatto e detto del tutto spontaneamente e si
morsicò la lingua, avvampando.
Nel tentativo di rimediare, decise di coinvolgere anche
l’amico, sperando che l’aiutasse a tirarsi fuori da
quell’imbarazzante situazione. «Ovviamente puoi
venire anche tu, Ben, se ti va!».
Il ragazzo aprì la bocca per rifiutare gentilmente, ma non
poté sfuggire agli occhi azzurri ed imploranti di Molly e
sospirò. «Credo che i compiti potranno aspettare,
oggi».
Nemmeno dieci minuti dopo, erano tutti dentro la spaziosissima e
lussuosissima limousine bianca di Molly, che li stava portando a Villa
Delafield.
«E, tanto per la cronaca, potremmo anche farli insieme i
compiti», precisò Molly, incrociando le braccia al
petto e lanciando un’occhiata a Ben, il quale non confidava
nelle sue capacità di mettersi sui libri con due ragazzi che
le giravano intorno.
«Stai dicendo sul serio?», si lamentò
Nigel, cingendole il collo con un braccio, con nonchalance.
«Non potremmo… che ne so, fare un bagno in piscina
o qualcosa di divertente?».
«Io ho appena fatto la doccia, non mi va di bagnarmi di
nuovo», si oppose Ben, cercando di sistemarsi in qualche modo
i capelli ancora umidi.
Molly lo fissò per una manciata di secondi, poi si sedette
al suo fianco e gli sistemò delle ciocche dietro
l’orecchio.
«Sono davvero lunghi, Ben! Non pensi che sia ora di tagliarli
un po’?». A quelle parole, il viso di Molly si
aprì e divenne radioso grazie ad un sorriso che fece rizzare
Nigel sul sedile. «Mi è venuta un’idea
fantastica! Perché non passiamo dal mio parrucchiere di
fiducia? Poi potremmo andare a fare un po’ di shopping! Ci
divertiremo un mondo e potresti farti un look totalmente nuovo,
Ben!».
«Perché, il look che ho adesso non ti
piace?», le domandò imbronciato, ma sottovoce,
passando completamente inosservato.
Sembrava che Molly fosse stata appena drogata, tanto era eccitata.
«Allora, che ne dite?».
«Farei qualsiasi cosa, per vederti così
felice!», esclamò Nigel a discapito del povero
Ben, il quale lo guardò in modo torvo, con l’unico
risultato di farlo ridacchiare mentre Molly urlava
all’autista la loro nuova meta e non riusciva a smettere di
saltellare sul sedile di pelle.
***
In realtà non aveva
molto da fare. Semplicemente voleva tornare un po’ a casa per
sentire Tom, farsi una doccia e magari gettarsi sul letto, sperando di
riuscire a schiacciare un pisolino, dato che aveva bisogno di
recuperare tutte le ore di sonno che aveva perso in quel periodo, per
una ragione o per un’altra. Purtroppo però non era
riuscita nemmeno a varcare la soglia di casa, figurarsi a dormire!
Inaspettatamente, qualcun altro aveva deciso per lei, dandole qualcosa
da fare.
Prima Dylan, quello sciagurato che, desideroso di diventare
l’eroe del giorno, era quasi finito sotto un treno con la
moto d’ordinanza e che, per farsi salvare, aveva spedito
Oswin dritto all’ospedale, dove gli avevano ingessato una
gamba. Grace era subito schizzata da loro, per accertarsi delle loro
condizioni, e dopo aver tirato un sospiro di sollievo,
perché poteva andare decisamente peggio, aveva sottoposto
Dylan ad un cazziatone che almeno per un po’ gli avrebbe
fatto passare la voglia di fare stronzate del genere in casi simili.
Poi fu il turno della femme fatale, Mrs. Hall, la
quale a sorpresa – ma nemmeno troppo –
l’aveva chiamata al cellulare. Le aveva chiesto se avesse
degli impegni per quel pomeriggio e Grace, del tutto intenzionata a non
lasciarsi scappare quell’occasione d’oro, aveva
negato. Quindi Mrs. Hall l’aveva invitata a bere un
caffè in sua compagnia in uno degli alberghi più
famosi e cari di Los Angeles, a Beverly Hills.
Grace si era presentata all’appuntamento nettamente in
anticipo, poiché non stava nella pelle e voleva anche
sondare il territorio, ma dopo un giro di ricognizione aveva deciso di
restare nel suo fuoristrada, con il sedile tutto tirato indietro e i
piedi ai lati del volante.
Come d’abitudine ormai, le tornò alla mente
ciò che aveva confessato Bryant durante il suo
interrogatorio alla sede dell’FBI di Los Angeles.
Carter era vivo. Carter si era infiltrato nell’organizzazione
criminale e l’aveva salvata a Berlino, anche se questo per
lui avrebbe voluto dire mettersi in pericolo con le sue stesse mani e
costringersi a sparire per un po’. Carter le aveva sempre
guardato le spalle, sin da quando aveva iniziato a lavorare come
portiere nel palazzo in cui si trovava il suo ufficio.
Ora non poteva fare a meno di chiedersi il motivo per cui
l’avesse fatto, se fosse davvero – come sospettava
– a conoscenza di tutto di quello che sapeva lei o forse
anche di più.
Era più forte di lei. Cercare di srotolare
quell’intricato garbuglio stava diventando quasi
un’ossessione, perché sentiva di essere ad un
passo dall’afferrare un capo del filo e né
mangiare né dormire regolarmente erano cose importanti, in
confronto.
La suoneria del suo cellulare la estrapolò bruscamente da
tutti i suoi ragionamenti. Così se lo portò
all’orecchio dopo aver letto sul display il nome di Michael e
rispose.
«Ciao, Grace. Ti disturbo?».
«No, tutt’altro. Dimmi, come si sta comportando il
nostro Bryant?».
L’ex-marine aveva deciso di collaborare pienamente con
l’FBI, ammettendo che ormai non aveva più nulla da
perdere.
Il suo compito era semplice: fare come se non fosse mai stato preso ed
interrogato, eseguire gli ordini che gli venivano impartiti per non
destare sospetti e puntualmente informare l’FBI sui colpi in
programma, sui luoghi utilizzati dai killer, sui loro finanziatori e su
tutto quello di cui riuscisse ad impadronirsi. In cambio, il Büro
avrebbe protetto la sua famiglia da possibili attacchi da parte
dell’organizzazione nel caso l’avessero scoperto.
«Va tutto secondo i piani, per ora non è successo
nulla di spiacevole. Credo che stia cercando di redimersi sul
serio».
Grace sospirò e chiuse gli occhi, passandoci sopra una mano.
«O forse ci sta dando informazioni sbagliate e presto
sparirà nel nulla».
«Non riuscirai mai a perdonarlo, vero?».
«Per ora mi risulta difficile. Ma lo sappiamo entrambi che il
vero problema non è lui: sono io».
«Ti ostini ancora con questa storia? Grace, come potevi
immaginare che fosse dalla parte dei cattivi, dimmi, come?».
«Non lo so, io… avrei dovuto capirlo e
basta».
L’agente Crawford, dall’altro capo del telefono,
sospirò. Grace se lo immaginò accennare un
sorriso, mentre le diceva: «A meno che tu non abbia poteri
paranormali… no, non avresti dovuto».
Il silenzio li avvolse per qualche secondo. Lo sguardo di Grace, fisso
sulla lussuosa entrata dell’hotel a cinque stelle, scorse la
figura di Mrs. Hall salire le scale ricoperte di velluto rosso, aiutata
dal portiere in uniforme, dopo essere scesa da un’auto
costosa, ma del tutto anonima se paragonata alle limousine della
famiglia Delafield.
«Michael… tu credi che finirà
presto?».
«È quello che desideri?».
Grace chiuse di nuovo gli occhi. Non le importava di arrivare in
ritardo all’appuntamento con la moglie del suo primo
sospettato per l’omicidio di Laurence Cox.
Il peso che da tempo le pesava sul petto era tornato a farsi sentire
nella sua interezza, schiacciandola e facendola sentire
all’improvviso una ragazzina, inadeguata per il compito che
le aveva affidato suo padre, pessimista e in trappola, senza vie
d’uscita da quel tunnel buio, la luce in fondo ad esso sempre
più lontana.
Sì! avrebbe voluto gridare con
tutto il fiato che aveva nei polmoni, per poi scoppiare a piangere con
le braccia strette al petto.
«Sono certo che ne usciremo, Grace. Presto».
La detective stirò un sorrisino intriso
d’amarezza. Peccato che non potesse vederlo, che non potesse
capire da solo che in quel preciso momento non ci credeva nemmeno un
po’, nel più totale dello sconforto, forse causato
anche dalla mancanza di Tom. C’era un insieme di cose,
comunque, che non le permetteva di essere serena o quasi, e la faceva
dubitare di tutto, tanto da trascorrere le sue notti insonni mettendo
in discussione tutta la sua vita. Con la fantasia si inventava
un’altra Grace, con amici diversi, un appartamento diverso in
una diversa città, una famiglia diversa, felice, ancora
unita; un lavoro diverso. E quando si risvegliava dal sogno e si
ricordava chi era, cosa o chi la teneva ancora in piedi, non faceva
altro che fumare e bere caffè, consumata
dall’ansia e da un amore così forte che le
dilaniava il cuore al solo pensiero di abbandonare tutto per
ricominciare e costruirsi un’altra identità per
fare, vedere, sentire, tutto ciò che aveva sempre desiderato.
Immaginò di essere un cane, col pelo lungo zuppo dopo un
tuffo nell’oceano, e scosse il capo con l’assurda
pretesa che quei pensieri pesanti e scomodi si scrollassero da lei come
l’acqua salata.
«Ora devo andare, ci sentiamo», salutò
l’agente in tono sbrigativo e senza aspettare di udire la sua
risposta uscì dal fuoristrada, attraversò la
strada trafficata ed entrò nell’albergo
infilandosi nella porta girevole.
Una volta nella raffinata hall, colma di fiori, tappeti persiani e
rifiniture in oro ovunque, fu accolta dal sorriso cordiale di una
receptionist.
«Lei è la signorina Grace Schneider?».
La detective strinse i denti: odiava che la gente la chiamasse per nome
e cognome prima ancora che lei si fosse presentata.
Ciononostante, si stampò un sorriso simile a quello della
giovane ragazza e rispose: «Sì, sono io. Mrs. Hall
è già arrivata, quindi».
La receptionist annuì e le indicò la sala
ristorante, oltre la quale avrebbe facilmente trovato la veranda su cui
si affacciava il bar dell’hotel. Mrs. Hall aveva preso posto
là e la stava aspettando.
Grace seguì la strada indicatale e in poco tempo
avvistò la signora Hall, avvolta in un abito bianco della
stessa manifattura di quello con cui l’avevano vista lei e
Andrew poche ore prima, i capelli corvini che le accarezzavano
liberamente le spalle e gli occhi azzurri e taglienti più
accesi che mai, fissi sul giardino attentamente curato che si estendeva
tutt’intorno all’hotel e in particolar modo su
quella facciata dell’edificio, dove si trovava persino una
delle due piscine.
La donna aveva scelto un tavolino oltre la veranda con le colonne in
marmo, sotto un ombrellone color panna che evitava che il sole alto del
pomeriggio le scottasse la pelle candida, e Grace ne capì il
perché quando notò con sorpresa che si era tolta
i tacchi e aveva posato i piedi nudi sull’erba.
«Spero di non essermi fatta attendere troppo»,
esclamò quando l’ebbe raggiunta.
«No, affatto», rispose la donna in tono pacato,
rivolgendole un sorriso dolce. Quindi indicò la poltroncina
in rattan sintetico di fronte alla sua. «La prego, si
sieda».
Un cameriere passò da loro immediatamente e prese le loro
ordinazioni. Grace non prestò molta attenzione a quello che
la signora Hall decise anche per lei, il suo scopo non era quello di
bere qualcosa in sua compagnia. Tutt’altro.
Aspettò comunque che venissero servite, poi Grace
attaccò con le sue domande, mescolando lentamente lo
zucchero nella sua tazza di caffè.
«Allora, come posso esserle utile?».
Mrs. Hall sogghignò. «Credo di essere
più utile io a lei, che lei a me».
«Perfetto», allargò le braccia, fingendo
di esserne entusiasta. «Prego, la ascolto».
La donna si portò la tazza alle labbra e guardò
l’acqua azzurra ed immobile della piscina. Poi, come se nulla
fosse, esordì: «Lo sapeva che Mr. Delafield e mio
marito sono andati al liceo insieme?».
«No, non lo sapevo».
Aveva quasi rischiato che la sorpresa le modificasse i tratti del viso
e la sua voce prendesse una diversa flessione, ma era riuscita a
controllarsi, curiosa di sapere quale sarebbe stata la prossima mossa
della femme fatale.
«Sì… e da quello che so erano anche
amici per la pelle, almeno fino a quando uno dei due non ha iniziato a
collezionare successi su successi. Indovini chi?».
«Mr. Delafield?».
«Esatto». Ridacchiò e scosse lievemente
il capo. «Mio marito è sempre stato un tipo
invidioso ed orgoglioso, non poteva sopportare che il suo amico fosse
migliore di lui, quindi iniziò a fargli una concorrenza
spietata nel campo della finanza, nonostante le sue ambizioni fossero
altre».
Grace assottigliò gli occhi, concentrata. Era interessante
scoprire qualcosa di più sulla storia che legava da decenni
quelle due famiglie così diverse – immaginava la
faccia sconvolta di Molly se le avesse raccontato tutto quello
– ma fino ad un certo punto: lei voleva sapere qualcosa di
utile per incriminare il suo primo sospettato, il marito della donna
che aveva di fronte.
«Ben presto fronteggiarlo sul lavoro non gli bastò
più, perché Nicholas… Mr. Delafield,
non sembrava minimamente toccato dai suoi tentativi di mettergli i
bastoni tra le ruote. Così si intromise anche nella sua vita
privata, cercando di conquistare la sua stessa fidanzata».
Mrs. Hall fece una pausa e Grace notò che i lineamenti del
suo viso si erano distesi in modo da conferirle un’aria
stanca e malinconica. Allora, incuriosita, le chiese: «E ci
riuscì?».
I suoi occhi di ghiaccio la trapassarono, ma non con la solita
decisione, perché velati da un sottilissimo strato di
lacrime. Quella donna impassibile e calcolatrice si stava
pericolosamente avvicinando alla commozione e Grace dedusse che
sì, Mr. Hall era riuscito nel suo intento.
«Nicholas… è stato ed è
tutt’ora l’uomo migliore che conosca e io gli ho
voltato le spalle solo perché mio marito all’epoca
era più affascinante di lui, aveva più carisma e
mi riempiva continuamente di attenzioni. Non avevo mai nemmeno
sospettato che volesse conquistarmi solo per fare un dispetto a lui.
L’ho capito quando ormai era troppo tardi».
La donna abbassò gli occhi, ferita, ma solo per un attimo,
perché raddrizzò le spalle per reagire al dolore,
cercando di dimostrarsi più forte del passato che a volte
tornava a tormentarla.
Grace si guardò le mani e pensò che dopotutto non
erano così diverse: entrambe non sopportavano di sentirsi
deboli, entrambe si erano costruite, negli anni, una barriera
protettiva che, per chi non avesse mai avuto l’onore e il
privilegio di valicarla, le faceva sembrare stoiche, quasi intoccabili.
Mentre invece erano più fragili di chiunque altro.
«Troppo tardi in che senso?», domandò
con delicatezza.
«Rimasi incinta. Le nostre famiglie, ancora un po’
all’antica, organizzarono il matrimonio in fretta e furia,
nonostante i miei genitori avrebbero preferito di gran lunga vedermi
con Nicholas. E anche io».
Non avevo
dubbi,
pensò la detective. Si vedeva lontano un miglio che non
amava suo marito e che nel suo cuore c’era sempre stato il
padre di Molly. Non a caso si riferiva a lui chiamandolo per nome,
mentre quando parlava di Mr. Hall usava soltanto
l’espressione “mio marito”.
Quella volta risultò del tutto priva di tatto, ma la
curiosità fu più forte di tutto il resto.
«Per quale motivo è ancora con suo marito, se non
lo ama?».
Mrs. Hall sorrise e i suoi occhi azzurri tornarono a splendere
melliflui. «Abitudine? Comodità? La chiami pure
come preferisce. La cosa buffa è che dopo il matrimonio lui
si è innamorato davvero di me, sono diventata una specie di
ossessione per lui e non vorrei mai che lei assistesse ad una sua
scenata di gelosia».
La donna tornò a sorseggiare il suo caffè, lo
sguardo rivolto verso la piscina, come se non avesse più
nulla da dire, e Grace corrugò la fronte. Non capiva a che
gioco stesse giocando, dove volesse arrivare con tutta la premessa che
le aveva fatto. O forse l’aveva chiamata semplicemente
perché a casa si annoiava, non aveva nulla di meglio da
fare, e voleva parlare un po’ di sé con qualcuno?
Non aveva senso, anche perché Grace era certa che una donna
scaltra e macchinatrice come lei non si sarebbe mai confidata in quel
modo e con una perfetta sconosciuta senza un motivo più che
valido.
Alla fine non riuscì più a trattenersi e disse:
«Mi fa molto piacere che mi abbia detto queste cose,
ma… qual è il vero motivo per cui ha voluto
vedermi?».
Mrs. Hall le rivolse uno sguardo divertito e penetrante allo stesso
tempo. «Mi scusi se mi sono dilungata più del
previsto. Adesso le racconterò qualcosa su
Laurence».
Grace cambiò posizione sulla sedia, sporgendosi col busto in
avanti, una mano a sorreggerle il mento.
«Ha lavorato per noi per tre anni e credo di non aver mai
conosciuto un uomo così gentile, buono e dedito alla
famiglia come lui. Amava sua moglie e suo figlio più di
qualsiasi altra cosa al mondo, glielo si leggeva in fronte che pensava
sempre a loro, persino quando tagliava le siepi del nostro giardino.
Suo figlio, Aiden, un bambino davvero adorabile, nei week-end
accompagnava suo padre al lavoro e lui e Nigel giocavano per ore a
baseball, con mazze e guantoni troppo grandi per loro. I primi due anni
sono stati i più felici nella storia della nostra famiglia:
adoravo vedere i due bambini correre sul prato, adoravo vedere Laurence
che ogni tanto lasciava giù gli attrezzi del mestiere per
andare a dargli consigli su come colpire le palle… Non so se
l’ha mai visto in fotografie in cui ancora non era un
cadavere, ma era un uomo piuttosto attraente secondo i miei gusti e il
suo amore incondizionato…». La donna
sospirò e si ravvivò i capelli neri e lucenti,
per poi concludere, bisbigliando: «Molte volte avrei voluto
averne un po’, giusto un po’».
Grace rifletté sulle sue parole, mentre con perfetta
efficienza il suo cervello organizzava e collegava con fili invisibili
tutte le informazioni appena ricevute. Quindi le chiese: «Ha
detto che i primi due anni sono stati i più felici.
Cos’è cambiato nel terzo,
l’ultimo?».
La signora Hall si strinse nelle spalle ed inarcò un
sopracciglio. «Le ho già accennato
dell’estrema gelosia di mio marito? Beh, lui
iniziò a sospettare che io avessi un debole per Laurence e
che lui volesse conquistarmi. Ora lei capisce che si trattava di una
sua folle invenzione, perché come le ho già detto
lui amava soltanto ed esclusivamente sua moglie e non aveva mai nemmeno
pensato di guardarmi in quel modo. Ma mio marito ne era profondamente
convinto e ogni giorno trovava nei miei sguardi, nelle mie frasi, degli
spunti per attaccarmi e darmi della poco di buono, dato che mi piaceva
passare del tempo con quello sporco negro
– così lo chiamava. Una volta gli dissi che poteva
pure insultarmi in tutti i modi che conosceva, in ogni caso io non mi
sarei sentita offesa perché non era vero niente. Allora
vuole sapere che cosa fece per farmela pagare?».
«Che cosa?».
«Tirò dalla sua parte Nigel, nostro figlio. Un
giorno lo chiamò nel suo studio per parlargli e io origliai
tutto. Gli disse che doveva diffidare delle persone di colore, che
erano sempre pronte a pugnalare i loro amici alle spalle e che avevano
tutte una malattia orribile. Gli disse persino che
sua madre era stata contagiata e che doveva stare
lontano anche da me».
Grace serrò le mascelle per non lasciare che il suo lato
volgare prendesse il sopravvento e lasciò che la donna
continuasse nel suo racconto, perché man mano che andava
avanti tutto diventava sempre più chiaro nella sua mente.
«Era solo un bambino di otto anni… Con quel
discorso lo aveva così spaventato che da quel giorno
iniziò ad odiare Laurence e Aiden, e a
quest’ultimo disse persino che non voleva vederlo mai
più. Il bambino pensava che fosse solo arrabbiato per
qualcosa e che il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima, ma
quando si ripresentò alla nostra porta Nigel
ordinò alla governante di non farlo entrare. Lo odiava
perché credeva davvero che lui e suo padre mi avessero
trasmesso la loro malattia e nel contempo cercava di stare lontano da
me, ma ero la sua mamma, non voleva abbandonarmi al mio triste destino,
credeva che sarebbe riuscito a curarmi standomi vicino. Fui io allora a
voler stare lontana da lui, ferita per come aveva trattato Aiden e per
la scelta che aveva compiuto, ovvero quella di seguire il padre nella
sua follia.
«Non mi guardi così, lo so benissimo che era solo
un bambino, che potevo semplicemente prenderlo da parte e spiegargli
tutto, che comportandomi così ho solo alimentato
l’odio che suo padre gli aveva trasmesso, ma allora ero
totalmente accecata dalla rabbia e dal desiderio di non darla vinta a
mio marito. Infatti qualche tempo dopo lo affrontai e gli dissi che non
poteva sbarazzarsi comunque di Laurence, perché io non avrei
mai permesso che lo licenziasse, anche perché faceva bene il
suo lavoro e non aveva alcuna prova per dimostrare che mi volesse
davvero conquistare».
Grace si addossò allo schienale della sedia, senza mai
distogliere lo sguardo dal viso di Mrs. Hall, accartocciato in
un’espressione sofferente e malinconica.
«Cosa successe il 4 settembre 2007?»,
domandò con tono di voce pacato, come se non volesse entrare
con troppa irruenza in quei ricordi rimasti sepolti
nell’angolo più remoto della memoria della donna,
gli stessi che ora sarebbero tornati a colpirla senza pietà.
«Il giorno prima che Laurence venisse trovato morto a Venice
Beach, intende?», un sorriso quasi sadico si
impadronì delle sue labbra. «Ha lavorato in
giardino tutto il giorno, come al solito. Quella mattina aveva riempito
i vasi di tutta la casa con i fiori più belli, aveva scelto
delle rose rosse magnifiche. E quando mio marito le vide…
beh, può benissimo immaginare il dramma che ne
susseguì. Ma quella volta fu diverso. Litigò con
lui apertamente, gli urlò contro, lo accusò delle
cose più oscene, lo minacciò. Stavano quasi per
arrivare alle mani e si sarebbero presi a pugni sul serio, se non si
fossero accorti in tempo di Nigel, sulla soglia del salotto. Aveva
assistito a tutta la scena e non mi dimenticherò mai il suo
viso: aveva gli occhi spalancati, colmi di lacrime, e il labbro che gli
tremava. Era semplicemente terrorizzato e mi ricordo che io abbassai la
mia ascia di guerra, lo presi tra le braccia e lo portai via. Sono
stata davvero con lui tutta la sera».
«E suo marito? Era davvero nel suo studio a
lavorare?».
Mrs. Hall abbassò il capo, ma poi, fiera come una leonessa,
lo rialzò e fissò gli occhi nei suoi. Dopo
essersi dipinta sul viso un sorriso dolce quanto pericoloso, si
alzò dalla poltroncina ed osservò
l’orologio d’oro che portava al polso.
«Se mi vuole scusare, ora ho un impegno improrogabile.
È stato un piacere parlare con lei, signorina Schneider.
Spero di rivederla, un giorno».
La detective si alzò sospirando lievemente.
Che donna. Le dava tutti gli elementi necessari ad incastrare suo
marito e non rispondeva quando si trattava di rendere nullo il suo
alibi.
Le strinse la mano ed accennò anche lei un sorriso.
«Non ho dubbi».
La guardò andare via, nel suo vestito bianco come quello di
una sposa, e Grace pensò a come anche i più
banali ed incoscenziosi errori umani potessero rovinare non una, ma
moltissime vite. Irreparabilmente.
Qualche minuto dopo era di nuovo sul suo fuoristrada, che guidava verso
casa, quella volta più decisa che mai a concedersi qualche
ora di divano e TV.
Con un auricolare nell’orecchio chiamò Andrew per
informarlo delle novità. Senza nemmeno darle il tempo
necessario ad aprire bocca, però, lui la travolse con le
sue, di novità.
«Ho scoperto dove Dennison ha recuperato la coca! O meglio,
ho un’ipotesi…».
«Spara».
«Ecco, pochi giorni prima dell’omicidio di Cox
c’era stata una grande retata dell’anti-droga e la
omicidi era intervenuta perché vi avevano collegato un loro
caso. La droga ovviamente era stata recuperata e…».
«E per il capo della omicidi non era di certo un problema far
sparire una bustina di coca dal deposito prove. Ottimo lavoro,
Andy».
«Oh, aspetta di sentire la prossima! Ho fatto mettere sotto
controllo il cellulare di Dennison, ma visto che risultava sempre
spento ho detto al nostro tecnico di controllare anche quello di Mr.
Hall e indovina un po’? Cinque minuti dopo che ce ne siamo
andati ha fatto la prima telefonata a Dennison. Per ora ne abbiamo
contate una decina».
«Non ci sono più dubbi ormai: è lui il
nostro uomo».
«Ora ne sono convinto anche io, però non abbiamo
il movente!».
Grace si accorse che stava sorridendo soltanto quando gettò
uno sguardo allo specchietto retrovisore.
«Oh, ma quello ce l’ho io».
***
Alla fine Molly
riuscì a convincere Ben che un nuovo taglio di capelli era
necessario, elencandogli tutti gli aspetti positivi che gli avrebbero
giovato, a partire dalla scomparsa del fastidio che provava nel dover
portare quell’odiosa fascia per evitare che i capelli gli
finissero negli occhi mentre giocava a basket. E poi un cambio di look
ogni tanto non faceva male a nessuno!
«Madame Molly, ma chérie! Cosa la porta
qui?».
La ragazza salutò con due baci sulle guance il suo coiffeur
di fiducia e sorrise raggiante. «Salve Pierre, hai qualche
minuto da dedicarmi?».
«Certainement! Prego, da questa
parte!».
Sparì dietro una tenda di velluto porpora nel suo
superlussuoso salone e Molly si voltò verso Nigel e Ben,
rimasti sconvolti di fronte alla visione di Pierre, un parrucchiere
eccentrico e piuttosto effeminato, quasi sicuramente gay, proveniente
da Parigi e con un inglese sottomesso alle cadenze della sua lingua
madre.
«Forza, venite!», li incitò, agitando
una mano.
I due ragazzi annuirono e titubanti la seguirono oltre la tenda, dove
si trovava un piccolo studio scintillante che Pierre doveva utilizzare
per le star d’eccezione o qualcosa del genere, visto che il
suo negozio era abitualmente frequentato dai divi di Hollywood.
Molly stese una mano verso Ben, il quale pian piano si
avvicinò e l’afferrò, trovandosi subito
dopo seduto sulla comoda poltrona reclinabile posta di fronte ad un
enorme specchio diviso in tre, a forma semicircolare, che non prendeva
solo il suo viso, ma anche il suo profilo destro e quello sinistro.
«Possiamo vedere qualche modello, Pierre?», chiese
Molly, prendendo una ciocca di capelli neri e setosi di Ben e
guardandolo in modo rassicurante.
Il coiffeur le passò un libro rilegato in pelle nera e lei
lo diede a Ben, il quale se lo mise in grembo e sfogliò le
pagine plastificate insieme a lei e a Nigel, avvicinatosi per sbirciare.
«Questo!», esclamò ad un tratto la
ragazzina, puntando il dito su una fotografia. «Staresti
benissimo!».
«Sei sicura? Io non sono molto
convinto…».
«Piacerai tantissimo anche a Sheila, fidati di me!».
Nell’udire il nome di Sheila, Ben arrossì e la
guardò negli occhi, sconvolto, ma lei gli diede solo il
tempo necessario a vederla sogghignare e disse a Pierre che poteva
cominciare.
Uscito dal salone di Pierre, Ben sembrava già
un’altra persona e continuava ad ammirarsi, stupefatto, su
qualsiasi superficie riflettente: lo schermo del cellulare, la vetrina
di un negozio, il finestrino di un’auto…
Pierre aveva fatto un ottimo lavoro, accorciandogli i capelli ai lati
della testa e lasciando un po’ più lunghi i
restanti, così che potesse usare il gel per farsi una cresta
oppure pettinarli e lasciarli morbidi ed ondulati su un lato, in modo
che gli accarezzassero appena la fronte e non gli infastidissero gli
occhi.
Molly si avvicinò a lui e gli sorrise. «Sei
bellissimo, Ben; non sto scherzando».
Il ragazzo ridacchiò e le prese le spalle tra le mani,
incitandola a camminare di fronte a sé fino a raggiungere
Nigel, il quale si era fermato a guardarli con l’accenno di
un sorriso sulle labbra, il cellulare ancora stretto nella mano.
«Tutto bene?», gli chiese Molly, aggrottando le
sopracciglia.
Lui annuì scrollando il capo. «Nulla di grave,
tranquilla».
Avrebbe voluto chiedergli di più, invogliarlo a sfogarsi con
lei, ma pensò che forse a causa della presenza di Ben non se
la sentisse, così lasciò correre e li prese
entrambi a braccetto, pronta per spuntare il loro prossimo obiettivo:
comprare qualcosa di carino a Ben, così da ultimare la sua
stupefacente trasformazione da bozzolo pieno di potenziale a bellissima
e coloratissima farfalla.
Sembrava avessero saccheggiato intere boutique dai nomi illustri e ogni
volta che Molly si voltava per incitarli a darsi una mossa, i due
ragazzi si scambiavano uno sguardo che rasentava la disperazione. Ben
poi era sconvolto, perché la ragazzina gli aveva comprato un
sacco di cose, coi suoi soldi, e non sapeva se sarebbe mai riuscito a
restituirglieli in qualche modo. Ovviamente appena le aveva accennato
l’argomento lei l’aveva azzittito senza nemmeno
aprire bocca, limitandosi ad agitare solo una mano, ma Ben continuava a
sentirsi in debito.
La limousine di Molly li attendeva alla fine di Rodeo Drive e quando
finalmente la raggiunsero Nigel e Ben sospirarono, massaggiandosi i
muscoli delle spalle e i palmi delle mani, arrossati per aver
trasportato tutte quelle borse per metri e metri. Fare shopping con
Molly era spossante e sarebbero stati ben attenti a non cascarci
più. Anche se ad essere sinceri avevano trascorso un
pomeriggio diverso e si erano divertiti.
L’autista portò a casa prima Ben e il ragazzo,
prima di scendere dall’auto, sorrise a Molly e la
ringraziò un’altra decina di volte.
La ragazzina, invece, non gli negò gli ultimi consigli:
«Domani mettiti quello che abbiamo deciso prima, mi
raccomando! E ricordati le lenti a contatto!».
Ben annuì sospirando e salutò anche Nigel, dato
che alla fine di quella giornata gli era risultato davvero
più simpatico di quanto avesse mai immaginato.
Rimasti soli, Nigel e Molly, seduti vicini, rimasero in silenzio a
guardarsi intorno. Ad un tratto i loro sguardi si incrociarono di
fronte a loro, riflessi nello specchio che circondava il piccolo
televisore al plasma collegato allo stereo.
Nigel fu il primo a voltarsi verso la vera Molly e la ragazzina non
poté far altro che imitarlo, immergendo gli occhi azzurri
nei suoi. Era così diverso da Aiden… eppure con
lui non era mai successo niente, mentre con Nigel c’era
già stato un bacio, diversi appuntamenti e ora…
Molly sentì delle farfalle librarsi nel suo stomaco, ma fu
quasi sgradevole e per questo deglutì, quando vide Nigel
chinarsi verso il suo viso mentre posava una mano sulla sua, sul sedile
di pelle.
Ma a dispetto di ciò che credeva, ossia che
l’avrebbe baciata, Nigel socchiuse gli occhi e
bisbigliò: «Vuoi sapere perché odio
così tanto Aiden?».
Il cuore di Molly perse un battito, ma restò in silenzio, in
attesa che Nigel riaprisse gli occhi per leggervi dentro.
«Lo sapevi che suo padre faceva il giardiniere a casa mia?
Ogni tanto Aiden lo accompagnava e noi giocavamo insieme a
baseball». Al ricordo un sorriso amaro gli incurvò
all’insù gli angoli delle labbra. «Poi
non ricordo bene cosa successe, avevo solo sette, otto anni, ma so di
per certo che per colpa sua e di suo padre mio padre e mia madre
iniziarono a litigare sempre più spesso, mia madre voleva
anche stare lontano da me… Poi un giorno suo padre
è stato ritrovato morto a Venice Beach. Mi ricordo le sirene
della polizia in lontananza, le luci rosse e blu che entravano nella
mia cameretta attraverso la finestra, e poi le urla dei miei genitori.
Non era cambiato niente, nemmeno dopo la sua morte».
Molly si allontanò un po’ ed istintivamente
tirò via anche la mano da sotto quella di Nigel.
Guardò altrove, in preda alla confusione più
totale e ad un ansia inspiegabile che non riuscì a sedare.
«Prima, quando sono uscito durante la partita… era
mio padre, diceva di non tornare a casa perché
c’erano una detective e un agente della omicidi. Credo che
abbiano ripreso ad indagare sulla morte del padre di Aiden, anche se
ovviamente si è trattato di un suicidio».
Molly trasalì e non poté far nulla per
nasconderlo. In ogni caso, anche se ci avesse provato, prima o poi
Nigel si sarebbe accorto della paura che le riempiva gli occhi lucidi e
l’avrebbe stretta comunque tra le sue braccia, scusandosi per
averle raccontato quelle cose.
Non poteva neanche immaginare che il vero motivo per cui Molly stava
male era perché sospettava che la sua famiglia
c’entrasse con la morte del padre di Aiden.
Quando si era ripresa un po’, aveva messo da parte tutti i
sospetti – d’altronde Nigel allora era solo un
bambino e non aveva nessuna colpa in quella brutta storia – e
timidamente gli aveva chiesto di restare a cena da lei. Sapeva che i
suoi genitori non avrebbero fatto storie, o almeno non con lui ormai
sulla soglia di casa. Il vero problema sarebbe stato dopo, ma Molly non
ci pensò ed agì con il cuore: sentiva che non
poteva lasciarlo solo, non in quel momento così delicato.
Mentre aspettavano che fosse pronta la cena, si rintanarono in taverna
a fare i pochi compiti che avevano per il giorno successivo.
Molly era distratta, non riusciva per niente a concentrarsi ed era
felice di avere Nigel al suo fianco a darle una mano, ma ad un certo
punto non riuscì più a resistere e, scusandosi,
si allontanò dalla taverna dicendo di dover andare in bagno.
Ma non ci andò, salì semplicemente le scale e
raggiunse il quadriportico interno alla villa, si sedette sotto gli
archi a tutto sesto e si portò il cellulare
all’orecchio, già con le lacrime che le pungevano
gli occhi.
«Grace», la chiamò non appena le
rispose, con voce tremante. «Ti prego, Grace, dimmi che non
è vero».
«Molly…».
«I genitori di Nigel non hanno davvero…».
«Vuoi che venga lì?».
«No, voglio soltanto che tu mi dica che loro non
c’entrano con la morte del padre di Aiden».
La detective non se la sentì di mentirle, anche
perché era sicura che non sarebbe servito a molto, e,
ferale, disse: «Mi dispiace».
Molly non riuscì più a trattenere i singhiozzi e
fece terminare bruscamente la chiamata. Quindi si strinse le braccia
intorno al petto e sperò che né la governante
né il maggiordomo né nessun altro uscisse in quel
momento e la vedesse: sarebbe stato troppo difficile spiegare il motivo
delle sue lacrime e del dolore che sentiva in mezzo al petto.
Che lo volesse o no, si era davvero affezionata a Nigel, era
impossibile ormai non riconoscerlo, e sapere che probabilmente per
colpa sua la sua famiglia si sarebbe sfaldata definitivamente le faceva
più male di qualsiasi altro dolore avesse mai provato sulla
sua pelle.
Suo padre fu molto comprensivo, gli bastò rivolgerle
un’occhiata per capire che doveva essere successo qualcosa e
che voleva davvero la compagnia di quel ragazzo, il figlio di quello
che era diventato il suo più acerrimo nemico dopo che
avevano trascorso gli anni del liceo come migliori amici.
Così aveva deciso di fare uno sforzo ed era stato ripagato
appieno, perché aveva scoperto che quel ragazzo non aveva
soltanto preso da suo padre, ma anche da sua madre, una ragazza
– quando ancora era la sua ragazza
– dolce e simpatica, prima che il suo cuore si inaridisse del
tutto accanto a quell’uomo, rendendola fredda e scostante
persino con suo figlio.
Dopo cena, una cena dai toni prima imbarazzati e poi sempre
più sciolti e rilassati, Molly si rifugiò nel
giardino sul retro, sui lettini di fronte alla piscina illuminata sia
all’esterno che all’interno da piccoli faretti
impiantati nelle mattonelle. Nigel la raggiunse quasi subito, sedendosi
al suo fianco e stringendole una mano, senza trovare il coraggio di
interrompere quel silenzio con le parole.
Molly si appoggiò la testa alla sua spalla senza nemmeno
rendersene conto e rimasero così, a fissare
l’acqua immobile della piscina, accarezzati dal vento leggero
che soffiava dall’oceano Pacifico, fino a quando la
governante non li andò ad avvisare che era arrivata la
macchina del «signorino Nigel».
La ragazza lo accompagnò fino all’entrata
principale e sotto la stessa veranda in cui si era sentita per la prima
volta le farfalle nello stomaco a causa sua, i loro occhi si
incrociarono. Nigel dovette pensare allo stesso ricordo,
perché chinò il capo accennando un sorriso
impacciato e le strinse entrambe le mani.
«Molly…».
«Uhm?».
«Ci sarai domani alla partita, vero?».
La ragazzina annuì e per la prima volta da quando si
frequentavano gli gettò le braccia al collo di sua spontanea
volontà. Lo strinse goffamente a sé, strizzando
le palpebre per trattenere le lacrime, e il macigno che portava sul
cuore si appesantì di qualche tonnellata quando lui
ricambiò l’abbraccio, posando le mani sui suoi
fianchi ed affondando il viso fra i suoi capelli biondi.
«Grazie di tutto», le sussurrò, per poi
scostarsi dolcemente ed allontanarsi lungo il vialetto.
Si girò solo una volta, quando si aggrappò alla
portiera per entrare nella Ford Edge nera. Allora sollevò
una mano per salutarla e Molly fece lo stesso, un nodo grosso come una
casa che le ostruiva la gola.
Quando non riuscì più a vedere i fanali
posteriori dell’auto, spariti oltre gli alberi
dell’immenso giardino della villa, rientrò in casa
accompagnata dalla governante, la quale nonostante avesse assistito a
tutta la scena non aprì bocca, e si rintanò nella
sua stanza.
Si lavò i denti in tutta fretta e una volta indossato il
pigiama e spente tutte le luci si lanciò sul letto,
stringendo il cuscino sotto la faccia e non riuscendo più a
trattenere il pianto che aveva solo in parte sfogato quel pomeriggio.
_______________________________
Buonasera!
Scoperte sconvolgenti sia da parte di Grace che da parte di Molly. Mi
scuso per la parte investigativa un po' sbrigativa e fatta male
(è fatta male u.u) ma non sono riuscita a fare di meglio,
nonostante tutti gli episodi di CSI che ho visto negli ultimi cinque
anni a questa parte xD
Gran parte della storia è venuta a galla, ma non
è ancora detta l'ultima parola. Sarà davvero il
padre di Nigel il colpevole? E Molly come si comporterà alla
partita di baseball, a cui ha promesso di andare sia ad Aiden che a
Nigel? E' un bel problema, dato che si è anche affezionata a
quest'ultimo...
Ah, poi da non dimenticare la situazione psicologica in cui Grace si
è ritrovata... è tormentata dai dubbi e
chissà se riuscirà a reggere la pressione fino
alla fine di questa indagine... Ormai siamo alle battute finali!
Ma c'è anche un lato positivo, rappresentato da Dylan e
Oswin che finalmente hanno fatto pace, in un modo alquanto singolare xD
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi scriviate
due righe per farmi sapere, beh... qualsiasi cosa vogliate dirmi :')
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha inserito la FF
tra le preferite/seguite/ricordate e anche chi ha letto soltanto!
A domenica prossima, un bacio! Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 29 *** Capitolo 27 ***
Buonasera!
:)
Vi lascio poche parole all'inizio del capitolo perché credo
sia meglio sia per me che per voi, dato che quello che leggerete oggi
(o nei prossimi giorni, ecco) avrebbe potuto decisamente portarmi a
scrivere un papiro e mezzo di cose. Vi lascio la più totale
libertà di espressione, in questo modo, senza
condizionamenti miei. Sappiate solo che questo capitolo fa parte della
mia Top 10 dei preferiti, il che la dice lunga ;)
Ci tengo a ringraziare chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e
ringrazio anche chi ha messo questa FF tra le
preferite/seguite/ricordate.
Attendo con ansia i vostri pareri e... niente, buona lettura! :D
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________
Capitolo 27
As long as you love me,
we could be starving, we could be homeless, we could be broke
As long as you love me,
I'll be your platinum, I'll be your silver,
I'll be your gold
As long as you love, love, love, love me
(As long as you love me – Justin
Bieber)
Quella mattina, quando
entrò nell’ampia sala da pranzo per fare
colazione, trovò Grace seduta al posto di solito occupato da
sua madre, alla destra di suo padre, con il quale stava chiacchierando
amabilmente.
Appena la detective si accorse di lei, le rivolse un sorriso intriso di
tenerezza e da un lato Molly dovette puntare i piedi a terra per non
schizzare a stritolarla tra le braccia e sfogarsi un po’ con
lei; dall’altro i pensieri che aveva tentato in tutti i modi
di cacciare nell’angolo più remoto della sua mente
tornarono inevitabilmente a farle sanguinare il cuore, portandola ad
osservare le ballerine beige che aveva indossato quella mattina,
abbinate ad un paio di jeans a sigaretta e un maglioncino col collo a
V, marrone chiaro.
«Buongiorno, bambina mia», la salutò
affettuosamente suo padre. «Dormito bene?».
Molly non rispose, si limitò ad annuire con il capo,
perché sapeva che il tremore della sua voce
l’avrebbe tradita.
Si sedette di fronte a Grace, la quale cercò subito i suoi
occhi azzurri con i propri verdi, mentre la governante si occupava
della sua colazione, servendole una tazza di caffellatte caldo e un
vassoio di croissant.
Al suo prolungato silenzio, Molly vide di sfuggita suo padre e la
detective scambiarsi uno sguardo e si chiese che cosa si fossero detti
prima che arrivasse. Possibile che Grace gli avesse già
detto tutto quello che lei non avrebbe mai voluto sapere riguardo la
morte del padre di Aiden?
Lo stomaco le si chiuse ancora una volta, ma come si era sforzata la
sera precedente, fece del suo meglio per sbocconcellare una brioche
inzuppandola di tanto in tanto nel caffellatte.
«Non mi chiedi nemmeno perché sono qui a
quest’ora di mattina?», le domandò
Grace, con un sopracciglio inarcato.
Molly ricambiò per un attimo il suo sguardo e la detective
rispose alla sua domanda inespressa: «Ti accompagno io a
scuola. Vuoi?».
La ragazzina annuì senza troppa convinzione. Allora suo
padre, Mr. Delafield, si schiarì la gola con un colpo di
tosse ed esclamò con voce pacata: «Tesoro, se vuoi
puoi anche stare a casa, oggi».
Quelle parole le fecero alzare la testa di scatto, attonita. Se fosse
stato un giorno qualunque avrebbe iniziato a saltellare intorno al
lungo tavolo in noce come una matta. Purtroppo però non
poteva proprio mancare, perché voleva stare il
più vicino possibile a Nigel e aveva promesso a lui
– come ad Aiden – che ci sarebbe stata a vedere la
partita di baseball.
«No, io… non posso», mormorò,
tornando ad abbassare gli occhi.
Grace sospirò mestamente e scosse il capo, scambiando un
altro sguardo con Nicholas, il quale arrotolò il suo Wall
Street Journal e dopo aver bevuto l’ultimo sorso
del suo caffè si alzò in piedi. Posò
un bacio sulla testa della figlia, massaggiandole delicatamente le
spalle, quindi uscì dalla sala da pranzo ordinando sottovoce
alla governante di lasciarle sole. Malie obbedì senza
battere ciglio e chiuse con delicatezza le pesanti porte che dividevano
la sala da pranzo dal salotto.
«Perché sei qui, veramente?»,
chiese Molly dopo qualche altro secondo di silenzio, che come una
coltre di nebbia si era posata su di loro, appesantendogli le ossa.
«Perché sono preoccupata per te».
«Non serve, sto bene», rispose, ma non appena
levò lo sguardo ed incrociò quello apprensivo
della detective si pentì di aver deciso di mentire a lei,
proprio a lei.
«Nigel era con te, ieri, mentre io e Andrew eravamo a casa
sua?».
Molly allontanò la tazza ancora mezza piena e si
portò le mani tra i capelli.
«Sì», biascicò debolmente,
gli occhi che le si inumidivano senza che lei potesse in qualche modo
impedirlo. Si sentiva impotente, annientata, come se la colpevole di
quell’assurda morte fosse lei e l’avessero appena
inchiodata al muro.
«Non è ancora ufficiale,
magari…».
«Magari ti sei sbagliata? Non dire idiozie, Grace, tu sei la
migliore: se sospetti che la famiglia di Nigel sia coinvolta in questa
storia, allora è così».
Grace piegò la testa sulla spalla destra e la
fissò con un piccolo sorriso sulle labbra, che esprimeva
tristezza e gratitudine insieme.
Allungò un braccio sul tavolo per raggiungere la sua mano e
la strinse, intrecciando le loro dita.
Molly sollevò il capo per guardarla in viso e si morse le
labbra, ormai ad un passo dallo scoppiare a piangere.
«Nigel era solo un bambino, all’epoca. Lui non
è coinvolto, te lo posso assicurare: non si sarebbe mai
spinto a tanto, non avrebbe mai voluto che una persona innocente
morisse. E non devi stare male, anzi, devi essere ancora più
forte, perché lui avrà bisogno di te, quando la
verità verrà a galla».
Molly tirò su col naso e si asciugò la lacrima
che le era scivolata sulla guancia. «Non pensavo
che… Non è giusto».
«Non è giusto che lui soffra per questo, ma non lo
è nemmeno che l’assassino del padre di Aiden
rimanga a piede libero. È la doppia faccia della giustizia,
la quale, nella maggior parte dei casi, fa male a tutti, almeno un
po’».
Molly rifletté a lungo su quelle parole e si rese conto che
la sua amica aveva perfettamente ragione.
Nigel avrebbe visto la sua famiglia sfaldarsi, investita da un fantasma
del passato che tornava a vendicarsi.
Aiden avrebbe finalmente visto l’assassino di suo padre
finire in prigione per il resto dei suoi giorni, ma niente e nessuno
gli avrebbe mai restituito i suoi genitori.
E Grace… Lei si alzò dalla sedia e fece il giro
del tavolo per raggiungerla. Le accarezzò una ciocca di
capelli biondi, morbidi e setosi, ed accennò un sorriso
materno sussurrando: «Ti aspetto fuori».
Il sole splendeva mattiniero nel cielo terso, infinitamente azzurro,
della Città degli angeli.
Ultimamente, purtroppo, di angeli se ne vedevano ben pochi e forse la
persona seduta accanto a lei, col volante fra le mani, gli occhiali da
sole sul naso, i capelli scompigliati dal vento che entrava dal
finestrino abbassato e una sigaretta accesa fra le labbra, era uno di
questi.
Grace sorrise divertita e le chiese, voltandosi verso di lei:
«Perché mi guardi così?».
«Perché ti voglio bene».
«Anche io te ne voglio, piccola».
Un minuscolo sorriso riuscì a sorgere sulle sue labbra,
illuminandole il volto, e così tornò a guardare
fuori dal finestrino fino a quando i suoi occhi non incontrarono la
piazzetta di fronte alla Notre Dame High School, già
straripante di studenti che aspettavano il suono della campanella
chiacchierando fra loro, ridendo, urlando, fumando, ascoltando la
musica, ripassando per il test in prima ora. Tra tutti loro, scorse
anche la chioma nera come la pece e gli occhi blu elettrici di Sheila,
seduta sull’estremità di uno dei due muretti, con
un libro fra le mani.
Quel giorno indossava una maglietta larga, raffigurante un teschio
argentato su sfondo nero, che le lasciava nuda una spalla, e un paio di
jeans sdruciti. Ai piedi un paio di Converse All Star
nere.
Non era una dark lady, né una metallara, né una
punk, né una emo. Era semplicemente Sheila.
I suoi occhi cerulei però abbandonarono presto la sua
figura, per correre freneticamente alla ricerca di Nigel.
Quando finalmente lo vide, assieme ad alcuni suoi compagni di squadra,
tirò un sospiro di sollievo. Stava sorridendo, ma Molly
ormai lo conosceva abbastanza da sapere che si stava sforzando, che era
inquieto e che, se solo avesse potuto, sarebbe andato via da
lì di corsa.
La cosa che la fece sospirare di sollievo, quindi, fu sapere che era
venuto a scuola e lei poteva stargli accanto, qualsiasi cosa fosse
successa quel giorno.
«Oggi che orario fai?».
Molly si voltò verso Grace e, anche se titubante, rispose:
«C’è la partita di baseball, dopo le
lezioni. Nigel e Aiden giocano, quindi…».
La detective sorrise e le passò affettuosamente una mano fra
i capelli. «Se ci sono novità ti mando un SMS,
okay?».
La ragazzina annuì, ringraziandola flebilmente. Quindi scese
dal fuoristrada e raggiunse Sheila, la quale aveva notato la vettura da
cui era scesa e aveva arricciato il naso.
«Un giorno ti presenti qui con una limousine lunga tre metri,
un giorno su un mezzo catorcio. Come funziona?».
Molly non rispose e cercò subito lo sguardo di Nigel,
incrociandolo dopo qualche secondo passato ad accarezzare la sua figura
da lontano: i capelli ricci e biondi, gli occhi azzurri simili ai suoi,
le braccia esili ma forti; la camicia chiara sopra una maglietta grigia
a maniche corte, i jeans neri attillati e portati a vita bassa, un paio
di Reebok bianche ai piedi.
Nigel dischiuse le labbra come se avesse appena letto qualcosa di
sconvolgente impresso sul suo viso e Molly provò a stirare
un sorriso, con miseri risultati.
Il ragazzo lasciò i suoi amici senza degnarli di una
benché minima spiegazione e le andò incontro. Una
volta al suo fianco, le strinse una mano e le posò un lieve
bacio tra i capelli.
«Tutto bene?», le chiese sottovoce.
Molly annuì, anche se sospirando, e allora si rese conto
dell’espressione incredula e spiazzata di Sheila, seduta
proprio di fronte a loro. Ai suoi occhi – e a quelli di tutti
coloro che avevano assistito a quella scena insolitamente colma di
tenerezza – dovevano sembrare proprio una coppia, alla quale
Molly si era finalmente arresa.
La ragazzina avrebbe riso, se solo ne avesse avuto le forze,
perché sapeva che non erano nulla del genere: semplicemente
si erano legati l’uno all’altro più di
quanto loro stessi si aspettassero o credessero mai possibile.
«Sheila, ti fermi anche tu alla partita, oggi
pomeriggio?», domandò Nigel per rompere il
silenzio innaturale che li aveva avvolti, nonostante fosse una domanda
che non necessitava di alcuna risposta.
Sheila sbatté le palpebre un paio di volte più
del dovuto, come per riprendersi da un incantesimo, ed alzò
la custodia della sua preziosissima macchina fotografica.
«Contaci».
La campanella suonò e la mandria di studenti più
diligenti sciamò all’interno
dell’edificio scolastico, mentre Nigel e Molly aspettavano
che Sheila sistemasse il suo libro nello zaino. Solo allora,
guardandosi intorno, tutti e tre si accorsero che Ben non era ancora
arrivato.
«Ma che fine ha fatto?», borbottò
Sheila, dirigendosi verso l’aula in cui tutti e tre avrebbero
incontrato il professore di inglese.
«Magari è già nella sua aula, come
sempre», ipotizzò Nigel, ma lei negò
con un cenno della testa.
«Sono arrivata presto stamattina, l’avrei visto
comunque passare!».
Proprio in quel momento furono avvolti da uno strano silenzio, rotto
soltanto da mormorii sommessi. Si voltarono, altrettanto incuriositi, e
videro molti ragazzi e ragazze farsi da parte per lasciar passare un
ragazzo alto, dai capelli neri – più corti ai lati
della testa e con un ciuffo morbidamente acconciato che gli accarezzava
il sopracciglio destro – e due occhi castani e leggermente a
mandorla.
Anche lui indossava una camicia aperta sopra la maglietta, a quadretti
neri e rossi, dei jeans di color azzurro chiaro, tagliati sulle
ginocchia, e delle sneakers della Nike ai piedi.
Era semplicemente divino, non sembrava nemmeno lui, e tutte le ragazze
ne rimasero abbagliate, in uno stato di shock e di confusione.
«B-Ben? Sei proprio tu?», balbettò
Sheila, gli occhi sgranati, colmi di sconcerto.
Il ragazzo arrossì, anche se lievemente, e senza nemmeno
farci caso si portò due dita sul setto nasale per sistemarsi
gli occhiali che non portava più, sostituiti dalle lenti a
contatto, come gli aveva consigliato Molly il giorno prima.
«Certo che sono io», esclamò, in
evidente imbarazzo.
«Ma cosa… Che ti è successo? I tuoi
capelli, i tuoi occhiali…».
Nigel la interruppe e diede una pacca sulla spalla al nuovo Ben.
«Stai una favola, amico! Molly ci sa davvero fare!».
A quelle parole gli occhi blu di Sheila si posarono sulla biondina,
scagliandole addosso fulmini e saette.
«Tu! Sei stata tu a conciarlo in questo
modo?!», gridò, paonazza, puntandole il dito
contro.
Molly spalancò la bocca in una O di sorpresa.
Perché la stava aggredendo in quel modo? L’aveva
sentito anche lei Nigel: Ben stava una favola!
Eppure lei non sembrava d’accordo.
Sheila fece un passo avanti, adirata, e le diede un violento spintone
che sicuramente l’avrebbe fatta rovinare a terra, se Nigel
non avesse avuto i riflessi pronti per afferrarla per i fianchi.
«Ehi, ma che ti prende?!», urlò
quest’ultimo, una volta certo che Molly non si fosse fatta
nulla.
«Che mi prende?! Guarda che cos’ha fatto a Ben!
L’ha trasformato in uno di voi, con i vostri stupidi tagli di
capelli e i vostri vestiti alla moda!».
«Sheila, per favore, calmati», la
implorò Ben, ma la ragazza parve prendere quelle parole come
un incitamento a gridare più forte, tanto da attirare
l’attenzione dei professori già nelle aule per
fare l’appello.
«Lui non aveva alcun bisogno di cambiare, stava benissimo
anche prima! Come ti sei permessa di –».
«Adesso basta!», strillò Molly,
scansando bruscamente Nigel per affrontarla a quattr’occhi.
«Io non ho imposto nulla a Ben! Sei solo una pazza isterica
se è quello che credi e penso che tu faccia meglio ad andare
a prenderti un’altra dose delle tue pastiglie!».
Sheila impallidì all’improvviso e
vacillò, come se avesse appena ricevuto una coltellata in
mezzo al petto.
Ben le portò le mani sulle spalle, come per sorreggerla, e
quando alzò il viso verso di lei, sconvolto, Molly
realizzò ciò che aveva detto senza la
benché minima intenzione di farlo, del tutto travolta dalla
rabbia e dal nervosismo che aveva accumulato dentro di sé in
quei giorni; l’aveva liberato così tutto insieme e
in una volta sola, impossibile da arrestare, come un fiume in piena.
Si portò una mano sulla bocca, ma ormai era troppo tardi: il
danno era fatto e, rigida come una statua, non poté far
altro che guardare Ben mentre portava via Sheila, ancora inerte fra le
sue braccia.
Anche il professore di inglese aveva assistito alla scena, senza
muovere un dito, ed appoggiato allo stipite della porta li stava
osservando severamente tutti e quattro.
Ben lasciò Sheila solo quando fu seduta al suo posto ed
incrociò ancora lo sguardo di Molly sulla soglia
dell’aula, dopo che lei e Nigel erano stati esortati dal
professore a sbrigarsi ad entrare in classe.
Ben non sapeva cosa pensare, né come sentirsi in quel
momento, troppo coinvolto e sbigottito dalla situazione, e la sua
espressione smarrita, disorientata, fuggevole, lo confermava appieno.
Molly avrebbe voluto scusarsi, almeno con lui, ma non riuscì
nemmeno a muovere le labbra, improvvisamente secche ed incollate tra
loro.
Così camminò a testa china tra i banchi fino a
quando non si sedette in quello davanti a Sheila, affianco a Breanne, e
Nigel le lasciò la mano solo per sedersi in ultima fila,
nell’angolo opposto della classe.
Per tutta l’ora di lezione restò con lo sguardo
fisso sul libro, nonostante le sue orecchie non sentissero nemmeno una
frase della spiegazione del professore: era troppo impegnata ad
avvertire gli occhi di Sheila bruciarle tra le scapole e troppo
impaurita anche solo per pensare di voltarsi a guardarla.
***
«Ora abbiamo tutti
gli elementi per incastrarlo, incluso il movente. Ma non ha fatto tutto
da solo, quindi è giusto che paghi pure colui che
l’ha coperto».
Andrew annuì e dopo qualche minuto indicò a Grace
di accostare: erano arrivati.
Peter Dennison, ex-capo della sezione omicidi della polizia di Los
Angeles, abitava con la moglie, più giovane di lui di quasi
quindici anni, in una delle tante villette a schiera che si
susseguivano l’una dietro l’altra lungo la via.
A due piani, con la facciata bianca, due bovindi ai lati della porta
d’ingresso e un piccolo giardinetto colmo di fiori, con tanto
di vialetto in ciottolato, aveva un aspetto vagamente inglese che fece
tornare alla mente della detective alcuni vecchi telefilm britannici
che guardava da ragazzina.
«Che faccio, suono?», domandò Andrew,
già di fronte alla porta, sotto la piccola tettoia.
Grace annuì e lo raggiunse, le mani nelle tasche dei jeans.
Il poliziotto suonò al campanello e quasi immediatamente una
donna aprì la porta, il viso stanco truccato a malapena.
«Voi dovete essere della polizia. Prego, Peter vi sta
aspettando».
I due ringraziarono ed entrarono in salotto, dove il loro sguardo si
posò inevitabilmente sulle valigie sparse di qua di
là e ancora mezze piene.
«Scusate il disordine, ma siamo appena rientrati dal nostro
viaggio a San Francisco».
Grace sollevò il capo ed incontrò gli occhi
gentili di Peter Dennison, incastonati in un viso tondo e pallido.
Successivamente l’uomo, comodamente infossato nella poltrona
vicino al caminetto spento, si passò una mano sulla testa
calva e ridacchiò, guardando Andrew di fronte a
sé. «Ne hai fatta di strada, ragazzo
mio».
«Già», rispose lui, imbarazzato. Quindi
incrociò lo sguardo di Grace e la presentò,
indicandola: «Signore, lei è Grace Schneider,
un’investigatrice privata che mi sta aiutando a chiudere il
vecchio caso di cui mi sto occupando».
«Grace… L’ultima volta che ti ho vista
avevi appena sedici anni».
Le rivolse un sorriso, che rivelò le spaccature sulle sue
labbra, e con un lieve cenno del capo le indicò di sedersi
al suo fianco, sul divano.
«Grand’uomo, tuo padre», aggiunse,
socchiudendo gli occhi, come se in quel modo potesse vedere meglio la
sua figura. «Si è più saputo nulla
sulla sua morte?».
«Ci sto ancora lavorando, signore».
«Uhm… Spesso avevamo pareri e modi
d’agire differenti, non riuscivamo a capirci, ma se
c’è una persona degna di avere
giustizia… questa è lui».
Grace chinò il capo in un ringraziamento silenzioso.
La moglie di Dennison fece di nuovo la sua comparsa in salotto, dopo
essersi chiusa in cucina per preparare qualcosa da bere, ed
appoggiò sul tavolino basso un vassoio con una caraffa di
caffè fumante, una zuccheriera e ovviamente le tazze con i
rispettivi cucchiaini.
«Servitevi pure», incalzò.
Grace passò, dicendo che ne aveva già preso uno;
Andrew, invece, prese una tazza e se la portò alle labbra,
facendo i complimenti alla donna per rompere il silenzio.
Ad un certo punto Dennison, con gli occhi offuscati da un ricordo
antico, ma ancora con quel sorriso pacifico sulle labbra, disse:
«Tesoro, vai pure in camera a riposarti un po’, io
sto bene».
La moglie, avvertendo che in realtà voleva parlare da solo
con i loro ospiti, acconsentì e «con
permesso» sparì oltre le scale.
Quindi Dennison tornò a rivolgersi ai due. «Siete
qui per il caso Cox, non è così? Hall mi ha
chiamato molte volte, recentemente».
Grace annuì, sporgendosi in avanti col busto. «E
gli ha risposto?».
«Sì, gli ho dato appuntamento qui tra una ventina
di minuti».
Andrew si irrigidì, mentre Grace non diede segno di esserne
rimasta sorpresa, addirittura accennò un sorriso.
«Non sono più disposto a proteggerlo»,
disse ancora Dennison schietto, più che tranquillo.
«Voglio avere la coscienza pulita, quando me ne
andrò all’altro mondo».
«C-Come? Che sta dicendo?», balbettò
Andrew, sempre più confuso.
Dennison gli sorrise. «Ragazzo, sai perché sono
andato a San Francisco?».
«Per far visita alle sue figlie».
«A San Francisco c’è uno dei migliori
istituti oncologici della costa occidentale», lo corresse
Grace, attirando su di sé il suo sguardo sbigottito.
«Entrando ho notato su quel mobile delle cartelle cliniche
con il timbro dell’istituto».
Dennison annuì, compiaciuto del suo spirito
d’osservazione. «Ho scoperto di essere malato di
tumore cinque anni fa e mi sono trasferito a San Francisco per un
po’, dove potevo stare vicino alle mie figlie e ai miei
nipotini mentre mi sottoponevo a delle cure, ma amo Los Angeles, non
posso fare a meno di tornare, ogni tanto. Penso che non mi
muoverò più da qui, comunque: mi hanno dato al
massimo qualche mese di vita».
Andrew abbassò lo sguardo verso la tazza di caffè
che teneva fra le mani, mormorando: «Mi dispiace molto,
signore».
«Oh, non ti preoccupare. Questo è il volere di Dio
e, come ho detto, voglio espiare le mie colpe, prima di andarmene.
È una fortuna che abbiate riaperto questo caso proprio
ora».
«Ci racconti com’è andata», lo
spronò Grace con gentilezza.
Dennison annuì e chiuse di nuovo gli occhi, seguendo il
flusso dei ricordi.
«Sapevo che il giardiniere della famiglia Hall era stato
trovato morto a Venice Beach e che una squadra della mia sezione aveva
preso in mano il caso, ma non me n’ero interessato
più di tanto perché in quel periodo ne stavo
seguendo un altro ben più complicato. Il giorno seguente
però ricevetti una telefonata da parte del mio vecchio amico
Hall, il quale mi invitò personalmente alla cena organizzata
in onore ai suoi successi. Non avrei mai immaginato che lui
c’entrasse in quella storia, ma purtroppo verso la fine della
serata mi tirò in disparte e mi spiegò la
situazione, mi disse che solo io potevo aiutarlo ad uscirne. Mi
pagò, mi diede moltissimi soldi e molti di essi li ho usati
solo negli ultimi anni, per pagarmi le cure, perché mi
vergognavo di essermi venduto e di aver tradito il giuramento che avevo
fatto entrando in polizia. Ciononostante, non ho mai avuto il coraggio
di dire la verità».
«Quindi lei intervenne, si occupò del caso
personalmente e fece pressione per far sì che venisse
ritenuto un suicidio, vero?».
«Era una follia, c’erano elementi davvero
compromettenti, ma, sì, la mia posizione mi permise di
chiudere in fretta il caso».
«E la bustina di coca? La aggiunse lei come prova in un
secondo momento?», domandò Andrew, nonostante
tenesse le mascelle serrate e lo sguardo fisso di fronte a
sé, adirato e ferito, lui che aveva creduto fino
all’ultimo all’innocenza di Dennison, al suo onore
di poliziotto.
«Sì, c’era stata una retata qualche
tempo prima e ne avevamo sequestrati parecchi chili,
così…».
Andrew lasciò la tazza di caffè sul tavolo, con
una lentezza calcolata, e si alzò in piedi, rigido come un
bastone.
«Temo di doverla arrestare per complicità ed
inquinamento delle prove, signore».
Dennison sorrise e per la prima volta vi si intravide
l’amarezza che aveva tenuto celata così bene fino
ad allora.
«Vuoi davvero umiliarmi in questo modo, ragazzo? Sai che non
finirò in galera, essendo così gravemente
malato».
Grace scorse un’auto scura parcheggiare proprio di fronte
alla casa e si alzò per andare a controllare i suoi
sospetti. Scostò di un poco la tenda chiara che ricopriva la
finestra del bovindo di sinistra e vide proprio Mr. Hall scendere
dall’auto e correre verso la porta.
La detective scambiò uno sguardo con Andrew, il quale la
capì al volo, e si fece trovare pronta quando Hall
tempestò di colpi il pulsante del campanello; infatti
aprì subito la porta e sorrise in modo smagliante.
«Mr. Hall! Anche lei qui?».
L’uomo impallidì e le pupille gli si
rimpicciolirono, preso dal panico. Ciononostante non ci mise molto
prima di decidere di correre via, pestando le aiuole in fiore del
giardino e scavalcando la bassa staccionata per infilarsi tra le due
villette a schiera e sbucare nella via parallela.
Grace non lo perse un attimo di vista, correndo a perdifiato dietro di
lui, ma l’intervento di Andrew fu provvidenziale,
perché iniziava a non sentire più le gambe.
Il poliziotto sbucò all’improvviso da una vietta
secondaria e gli si gettò addosso, facendogli fare un paio
di giri sul cemento già caldo sotto il sole del mattino.
Quindi gli portò bruscamente le mani dietro la schiena,
tenendolo ancora steso a terra con addosso il suo peso, e gli fece
scattare le manette ai polsi davanti a tutti i passanti che,
incuriositi, si erano fermati ad assistere.
«Ha finito di correre, eh?».
«Voi non… non potete arrestarmi! Ve ne
pentirete!».
«Staremo a vedere. Adesso stia zitto e lasci che le elenchi i
suoi diritti».
Grace, anche se con la gola in fiamme, sorrise seguendo il suo amico,
diretto di nuovo verso il fuoristrada. Poi pensò a Molly e
tirò fuori il cellulare per mandarle un messaggio, come le
aveva promesso.
***
Il padre di Nigel è
stato arrestato, sto andando in centrale. Passerò a
prendervi tutti e tre dopo la partita. Mi dispiace.
Non
è vero. Non può essere vero.
Continuava a
ripeterselo, come continuava a rileggere il fottuto SMS che Grace le
aveva mandato.
Ci aveva messo un po’, prima di decidersi ad aprirlo e a
scoprire così la verità. Aveva anche avuto la
forte tentazione di eliminarlo senza nemmeno guardarlo, ma, attaccata
all’assurda speranza che Grace si fosse davvero sbagliata,
l’aveva letto, per poi desiderare soltanto che non
gliel’avesse mai mandato.
Come poteva guardare Nigel negli occhi, ora? Come poteva dirgli che suo
padre aveva ucciso quello di Aiden? Avrebbe potuto evitarlo per il
resto della giornata, ma sapeva bene che era suo dovere stargli
accanto, dato che nessun altro l’avrebbe fatto.
Grace aveva specificato che dopo la partita sarebbe passata a prenderli
tutti e tre: aveva incluso anche Aiden. Peccato che
lui non fosse minimamente a conoscenza che il caso della morte di suo
padre era stato riaperto!
Come avrebbe reagito alla notizia? E come si sarebbe comportato con
lei, alla quale aveva detto di non immischiarsi in quella storia e che
alla fine aveva fatto di testa sua? Forse avrebbe dovuto dargli retta,
forse…
Mancavano ancora tre ore prima che le lezioni finissero e quando
uscì da quel bagno, dopo aver controllato con cura che non
si vedessero i segni delle lacrime, tornò in classe, pronta
ad affrontare il peggio.
***
«Sheila! Sheila,
aspetta!».
La ragazza si voltò e lo fulminò con i suoi occhi
blu elettrici.
«Che cosa vuoi, Bentley?».
Ben sbuffò e lasciò cadere lo zaino ai suoi
piedi, prendendola per le spalle.
«Non pensavo che cambiare avrebbe causato tutto
questo».
Sheila aprì la bocca per ribattere, ma lui le
posò un dito sulle labbra e continuò:
«È vero, Molly mi ha dato molti consigli, mi ha
portato dal suo parrucchiere e mi ha comprato questi vestiti nuovi, ma
ho scelto da solo di cambiare. Ma se vuoi… se vuoi posso
anche tornare quello di prima, se ti piacevo di
più».
Sheila boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
arrossendo com’era arrossito Ben, e quando ritrovò
la sua forza di sempre disse: «A me non interessa come te ne
vai in giro, okay? Voglio soltanto che tu rimanga il vecchio Ben. Il mio
Ben».
I loro sguardi si incrociarono e Ben risalì le sue spalle,
le accarezzò il collo fino ad arrivare ai lati del suo viso.
Fece scontrare le loro bocche, trattenendo il respiro e chiudendo forte
gli occhi, per paura della sua reazione.
Era da mesi che voleva farlo, senza mai trovarne il coraggio
necessario.
Quando però sentì le braccia di Sheila
avvolgergli la schiena si rilassò, col cuore in volo, e
tornò a respirare col naso, reclinando la testa
dall’altra parte per baciarla ancora, più
dolcemente quella volta.
Il secondo bacio, sempre a stampo, poco approfondito, durò
sì o no una manciata di secondi, interrotto da un gruppetto
di ragazzi che passando per il corridoio avevano iniziato a fare versi
e a fischiare.
Sheila si scostò da Ben ed indietreggiò di
qualche passo, col viso rivolto verso il pavimento per non mostrargli
il rossore che le infiammava le guance.
«Io devo… devo andare alla partita,
adesso».
Ben annuì e il suo ciuffo enfatizzò il movimento
del capo. Poi urlò, quando ormai si era voltata per
dirigersi verso il campo da baseball: «Ah,
Sheila!». La ragazza lo guardò con la coda
dell’occhio.
«Sono sicuro che Molly non intendeva dire quelle cose, in
questo periodo è… è strana, non so
perché. Promettimi che ci parlerai».
Sheila alzò il pollice senza troppa convinzione ed
uscì. Il sole le colpì il viso e solo allora si
lasciò andare ad una risata gioiosa, rivolta verso il cielo.
E quella volta non c’entrava niente il suo essere lunatica.
***
Nigel, nella sua divisa a
righe bianche e blu, con la scritta Notre Dame in
giallo stampata sul petto, e il cappellino blu scuro calcato sulla
fronte, le stringeva una mano mentre percorrevano la strada laterale
che li avrebbe portati alla panchina della squadra di casa.
Fino ad allora era riuscita a non farlo insospettire di nulla, ma in
compenso aveva la nausea e sentiva di poter scoppiare da un momento
all’altro.
Dopo la scenata di quella mattina, che aveva visto come protagoniste
lei e Sheila, aveva la sensazione di avere il doppio degli sguardi
puntati addosso e, presa da tutti quei problemi che la stavano
schiacciando dall’interno, non si accorse nemmeno del loro
arrivo.
«Vai a prenderti un posto in prima fila, oggi
giocherò solo per te», le disse Nigel,
accarezzandole i capelli su un lato del viso fino a quando, guardandola
meglio, non si accigliò. «Ehi, Molly, stai bene?
Sei pallida».
«Come? No, sto bene». Provò a stirare un
sorriso, ma fallì miseramente, facendolo preoccupare ancora
di più.
«C’è qualcosa che non va, vuoi
dirmelo?».
Non posso,
non posso, non posso!
«Nigel…».
«Cosa?».
Molly sospirò, abbassando il capo, e strinse un
po’ più forte la sua mano. «Niente,
solo… ti voglio bene».
Il ragazzo sorrise dolcemente e le posò un dito sotto al
mento per sollevarle il viso. Con l’altro braccio le avvolse
la vita, avvicinandola a sé, e si chinò per
baciarla.
Molly non si ritrasse, ancor più rispose al bacio con una
specie di disperazione, alzandosi in punta di piedi e stringendo forte
le mani sulla sua nuca. Quella volta baciarlo non le fece ribrezzo,
né paura; le fece soltanto desiderare che qualcosa si
accendesse dentro di lei, che improvvisamente iniziasse ad amarlo
follemente, per ricambiarlo e per riuscire a stargli vicino davvero,
non come pateticamente aveva fatto tutto il giorno, stando in silenzio
mentre gli teneva la mano.
Quando si scostò, Nigel aveva gli occhi luminosi e sorrideva
felice come un bambino. Molly provò a fare lo stesso,
avrebbe dato di tutto pur di vederlo sempre così, ma il
dolore fu più forte di ogni sua altra intenzione e la
costrinse ad abbassare il viso, a salutarlo con poca voce augurandogli
buona fortuna e ad allontanarsi per raggiungere gli spalti, sotto gli
occhi di mezza scuola.
Si sedette da sola, in prima fila, ad un paio di metri dalla seconda
base, in un punto da cui riusciva a vedere anche la panchina dei Knights.
Scrutando i visi dei giocatori lì seduti, scorse in un
angolo anche quello di Aiden. I loro occhi così diversi si
incrociarono, ma quella volta Molly non ebbe nemmeno la forza di
interrompere quello scambio: dovette subire in silenzio la loro
durezza, la loro amarezza nei suoi confronti, fino a quando non fu lui
a voltarsi, richiamato all’attenzione dal coach.
Era venuta a sapere che avrebbe giocato subito, quel giorno, e ne era
felice, anche se una parte del suo cuore soffriva per il modo in cui
l’aveva aiutato, facendo il doppio gioco con Nigel.
Alla fine era ciò che si meritava: un po’ di
dolore dopo tutto quello che lei aveva fatto e non
aveva fatto.
La partita iniziò e i primi battitori della squadra
avversaria vennero eliminati, i primi punti vennero assegnati e poi
toccò al coach della squadra di casa mandare sul diamante i
suoi più bravi battitori. Tra questi, Nigel e Aiden.
Fu allora che Sheila riempì in parte il vuoto attorno a
Molly, dato che nessuno aveva osato avvicinarsi a lei.
Con la sua macchina fotografica al collo, sfruttò la scusa
dell’angolazione perfetta per sedersi lì al suo
fianco, ma poi vi rimase, anche se in silenzio.
Guardarono Aiden colpire una palla velocissima con un suono secco e poi
correre come una gazzella sullo sterrato, raggiungendo la prima e poi
la seconda e la terza base, prima che i giocatori della squadra
avversaria recuperassero la palla ai limiti del campo.
«È bravo, eh», esordì Sheila,
schiarendosi la voce.
Non sapeva perché avesse iniziato lei la conversazione,
orgogliosa com’era, ma sapeva che Ben doveva aver avuto le
sue ragioni quando aveva detto che Molly in quel periodo era strana, a
partire dal fatto che di sicuro lui la conosceva meglio di lei.
La biondina si limitò ad una scrollatina di spalle.
Allora Sheila, anche se infastidita da quella sua assenza,
esclamò: «Senti, Molly, se è per quello
che è successo –».
«Mi dispiace per quello che ti ho detto stamattina, non
volevo», la interruppe e da quel momento in poi non
riuscì più a frenarsi: le raccontò
ogni cosa, dalla prima all’ultima, compreso il messaggio che
le aveva inviato la sua amica detective, e alla fine, quando nel
frattempo sul campo toccava a Nigel battere e Aiden era ancora fermo
alla terza base, scoppiò in lacrime e singhiozzi,
accasciandosi tra le sue braccia.
Sheila non sapeva che cosa fare, completamente sconvolta da tutto
ciò che le aveva raccontato, e quando si decise la strinse
un po’ a sé, massaggiandole la schiena tremante.
L’arbitrò fischiò e il lanciatore
scagliò una palla potente verso Nigel. Lui riuscì
a colpirla con tutta la sua forza, quasi sicuramente si trattava di un
fuori campo, ma quello che interessava a tutti era che Aiden
raggiungesse la casa base e segnasse un punto per la sua squadra.
Il ragazzo di colore iniziò a correre come un forsennato,
come Nigel dal canto suo, ma quando sollevò lo sguardo verso
gli spalti Aiden rimase spiazzato di fronte alla visione di Molly,
rannicchiata contro Sheila, che si teneva il viso tra le mani per
nascondere a tutti le sue lacrime.
Ma a lui no, lui le sentiva sulle sue stesse mani quelle lacrime, e non
gli importò del punto, delle urla di incitamento e di
indignazione provenienti dagli studenti tutt’intorno a lui
sugli spalti, dai suoi stessi compagni di squadra e dal suo coach.
Semplicemente si fermò ad un passo dal toccare col piede la
casa base ed attraversò il campo in diagonale, correndo
ancora più veloce, accecato dalla rabbia.
Sheila intanto aveva sollevato lo sguardo per capire cosa stesse
succedendo e rimase a bocca aperta non appena capì quello
che invece stava per accadere sotto gli occhi di tutti.
«È pazzo…»,
mormorò sconcertata e allora anche Molly si tirò
su e si levò le mani dal viso per assistere
all’ennesimo colpo al cuore.
Nigel non fece neanche in tempo a gridare dalla sorpresa,
perché Aiden gli fu addosso come un leone sulla preda e lo
fece rotolare sullo sterrato, per poi sedersi sul suo stomaco e
tirargli il primo pugno in faccia.
Subito tutti i giocatori presenti in campo intervennero, o almeno ci
provarono, ma dovettero arrivare i due coach perché quel
tremendo spettacolo avesse fine. Nigel e Aiden vennero separati, per il
grande sollievo del primo, col viso sanguinante e un occhio che a
malapena riusciva a tenere aperto, e per la frustrazione del secondo.
Entrambi poi furono fatti uscire dal campo e spediti negli spogliatoi,
costantemente sorvegliati.
Prima che non potesse più avere alcun contatto con loro,
però, Molly era riuscita a raggiungerli, correndo come mai
aveva fatto in vita sua, tanto che il suo professore di educazione
fisica non l’avrebbe creduto possibile se qualcuno
gliel’avesse raccontato.
«Nigel! Nigel, Dio mio!», gridò senza
fiato, gettandosi fra le sue braccia scansando malamente Aiden.
Gli accarezzò le guance, sporcandosi le mani di polvere e
sangue, e si morse le labbra per non mostrarle tremanti.
«Sto bene, non preoccuparti», la
rassicurò, accennando un sorriso ed accarezzandole i
capelli. «Tu invece… hai pianto?».
Molly scosse violentemente il capo, anche se sapeva che avrebbe
rincominciato presto, e lo abbracciò un’altra
volta. Poi fu costretta a lasciarlo andare via assieme
all’uomo che aveva il compito di controllare che i due non si
azzuffassero ancora sotto le docce.
Fu in quel frangente che incontrò gli occhi di Aiden,
smarriti e delusi, ma anche orgogliosi e colmi di quella rabbia cieca
che l’aveva sopraffatto poco prima.
Fissando quei pozzi scuri e profondi ebbe la sensazione di perdersi, di
non sapere più chi e dove fosse, né cosa fosse
successo. Per sua fortuna però l’incantesimo
svanì presto e poté tornare in sé, coi
suoi sentimenti contrastanti che lottavano per prevalere
l’uno sull’altro.
Prevalse anche dentro di lei la rabbia, tanto che digrignò i
denti e latrò con la voce graffiata dalla sofferenza:
«Poi sarei io quella che si comporta in modo incomprensibile,
eh?!». Assottigliò gli occhi, nel patetico
tentativo di dimostrarsi cattiva e allo stesso tempo per trattenere le
lacrime, e gli volse le spalle.
Aiden non chiamò il suo nome, non la pregò di
restare, non si scusò. La lasciò andare e con i
pugni ancora macchiati del sangue di Nigel stretti lungo i fianchi si
diresse verso la parte opposta.
***
Grace parcheggiò il
fuoristrada nel bel mezzo della piazzola deserta di fronte alla scuola
di Molly e quando scese, sbattendosi la portiera alle spalle, la vide
seduta su un muretto, che la fissava con gli occhi gonfi e lucidi di
pianto, spenti, quasi vitrei.
Le passò un braccio intorno al collo e le fece appoggiare la
testa contro la sua spalla, posandole un bacio ogni tanto fra i capelli
biondi.
Non era giusto che fosse costretta a subire tutto quel dolore, era
ancora così piccola… Ma ciò che non
uccide fortifica e Grace lo sapeva per esperienza, anche se ogni pezzo
d’anima che si incrinava il più delle volte era
una frattura a dir poco irreparabile, una di quelle che nemmeno il
tempo era in grado di risanare.
Per una decina di minuti rimasero lì sedute, in quel
silenzio rotto soltanto dalle grida e dai rumori della partita di
baseball ancora in corso nel campo alle loro spalle. Poi finalmente un
ragazzo dai capelli biondi e ricci, gli occhi azzurri e alcuni cerotti
a ricoprire i lividi sul viso, uscì dalle porte vetrate poco
distanti da loro.
«Tu sei Nigel, vero?».
Il ragazzo si voltò ed aggrottò le sopracciglia,
vedendo Molly rannicchiata al fianco di quella ragazza sconosciuta.
«Sì, sono io. Ma tu chi sei?».
«Mi chiamo Grace, sono un’amica di Molly. Ti serve
un passaggio».
«Io, in verità…».
«La mia non era una domanda»,
puntualizzò, decisa. «Devi venire con noi. E
così anche Aiden».
Nigel arretrò di un passo, spaventato, ma proprio in quel
momento Molly alzò gli occhi vacui ed annuì con
un lento movimento del capo, estremamente lento, come se avesse un peso
insopportabile tra il collo e le spalle.
«Sa quello che fa», cercò di
tranquillizzarlo, ma non ci riuscì per niente.
L’arrivo di Aiden, col suo zaino in spalla,
peggiorò ulteriormente la situazione, perché lui
si rifiutò categoricamente di avvicinarsi al fuoristrada
della detective. Alla fine Grace, anche per risparmiare altro dolore a
Molly, decise di farla finita con le cattive.
«Si tratta dell’omicidio di tuo padre, Aiden.
È stato riaperto il suo caso, qualche tempo fa, e ora
è stato risolto definitivamente. Abbiamo catturato il suo
assassino».
Il ragazzo si pietrificò sul posto per un attimo, poi
gettò uno sguardo verso Molly e salì sul
fuoristrada caricando malamente la sua bici nera nel grande cofano
aperto.
Nigel, invece, iniziò a balbettare, pallido e stordito:
«Omicidio? Il suo assassino? Molly, che cosa sta
succedendo?».
«Per favore, Nigel, entra. Ti verrà spiegato tutto
alla centrale».
Il biondino si arrese e, accompagnato da Molly, si sedette sui sedili
posteriori, mentre Grace faceva il giro per andare al volante.
«Ah, vorrei chiederti cos’hai fatto in faccia, ma
meglio che lasci stare, eh?».
Grace guardò Nigel attraverso lo specchietto retrovisore,
poi Aiden con la coda dell’occhio e infine
sospirò, sperando vivamente che quella storia finisse
presto, per il bene della sua piccola amica, davvero stremata e per la
prima volta alle prese con i pro e i contro dell’amore.
Una volta alla centrale, Grace condusse i ragazzi lungo i corridoi fino
a quando non incontrarono sulla loro strada Andrew, appena uscito dalla
sala interrogatori.
Il suo sguardo si addolcì identificando quelli che non
potevano che essere i figli rispettivamente di Mr. Hall e del defunto
Laurence Cox.
«Ragazzi, venite con me», li invitò,
posando le mani sulle loro spalle.
Molly fece per andare con loro, ma prima che si mettesse a correre
Grace la prese per mano, tenendola vicina a sé mentre li
seguivano lentamente.
Andrew portò Nigel e Aiden in una stanza con dei divanetti,
una specie di sala d’aspetto della polizia, e lì
trovarono la signora Hall e un ottimo amico e collaboratore di Mr.
McNab, il quale lo aveva delegato di stare vicino a suo nipote mentre
lui prendeva l’aereo che da New York, il cuore della finanza,
l’avrebbe riportato a Los Angeles.
La detective e la ragazzina si fermarono di fronte alla vetrata
attraverso la quale potevano osservare tutto ciò che
avveniva all’interno della stanza e videro Andrew, seduto su
una poltrona di fronte ai due ragazzi, spiegare nuovamente quello che
stava succedendo.
La madre di Nigel non sembrava molto addolorata, anche se ogni tanto
guardava Aiden, quel bambino ormai cresciuto a cui aveva voluto tanto
bene quando era ancora il miglior amico di suo figlio, con gli occhi di
solito di ghiaccio che trasudavano rammarico e vergogna.
Stava accarezzando la schiena di Nigel con una mano, ma la tolse con un
lieve sobbalzo, come ustionata, quando il ragazzo crollò
sotto il peso delle parole che l’agente gli aveva appena
rivolto, ossia che suo padre era stato arrestato per
l’omicidio di Laurence Cox.
Le lacrime inondarono il suo viso, paonazzo e ricoperto di lividi; il
suo corpo si raggomitolò, si chiuse su se stesso come un
riccio, con le mani strette a pugni tra i capelli. Poi aprì
la bocca per urlare, ma non ne uscì alcun suono, soltanto un
rantolo soffocato.
«Mi dispiace tanto», disse Andrew e Molly
sentì distintamente la sua voce pronunciare quelle parole,
oltre che vederne il labiale. Si voltò verso la detective e
la vide accanto alla porta aperta, che la incitava ad entrare.
Molly si fiondò dentro la stanza senza pensarci due volte e
si sedette accanto a Nigel per stringerlo fra le braccia quando le
lacrime iniziavano a scavare dei solchi anche sul suo viso.
Non disse niente, lasciò semplicemente che Nigel si sfogasse
contro la sua spalla, stringendola fin troppo forte, tanto da toglierle
il respiro.
Ad un certo punto Aiden parlò, con la voce bassa e ferale
che lo faceva sembrare tanto più grande.
«Te l’avevo detto di lasciar stare».
Molly si irrigidì e levando lo sguardo oltre la spalla di
Nigel si rese conto che erano usciti tutti: erano rimasti solo loro
tre. Quindi cercò gli occhi profondi di Aiden, impassibile e
con le mani unite di fronte alla bocca, i gomiti puntati sulle
ginocchia, e lo trovò di sfuggita, perché lui le
lanciò soltanto un’occhiata con la coda
dell’occhio.
Nigel non l’aveva sentito, sconvolto com’era; o
forse lo sentì, ma non volle dare peso alle sue parole.
Molly lo fece per entrambi, sentendo il gelo che le aveva stretto il
cuore poco prima scivolarle giù, fino alle viscere.
Che Aiden avesse sempre sospettato del padre di Nigel? Che, proprio per
questo, non avesse voluto il suo aiuto? Possibile che avesse scelto
razionalmente di lasciare in libertà l’assassino
di suo padre perché non voleva che Nigel, il suo vecchio
amico d’infanzia, ne venisse inevitabilmente travolto?
All’improvviso Aiden si alzò dal divanetto,
aprì la porta e si affacciò. Molly, spinta dalla
curiosità, aiutò Nigel ad asciugarsi il viso e
tenendolo per un fianco, come se non avesse nemmeno più le
forze per sorreggersi sulle sue gambe, lo accompagnò fino
alla vetrata che dava sul corridoio.
Due agenti di polizia stavano scortando Mr. Hall, ancora ammanettato,
verso l’uscita per trasferirlo nella cella che lo aspettava
in carcere, dove avrebbe atteso il giorno del processo in tribunale.
L’ultima volta che Molly lo aveva visto era stato al
ricevimento organizzato da Mr. McNab nella sua villa e, a guardarlo in
quel momento, con il nodo della cravatta allentato, i capelli
spettinati e gli occhi arrossati, non sembrava nemmeno la stessa
persona.
Nigel posò una mano sul vetro quando i loro sguardi si
incatenarono per un istante e Molly percepì sottopelle tutto
lo smarrimento e la paura che provò nel vedersi portare via
il padre, lo stesso uomo che aveva guardato negli occhi e a cui aveva
voluto bene nonostante avesse ucciso brutalmente il padre del suo
ex-migliore amico.
«Io… io…»,
balbettò il ragazzo, ora osservando il proprio riflesso sul
vetro. Poi si voltò bruscamente verso Aiden, gli occhi colmi
di nuove lacrime ardenti, il viso stravolto dal dolore. «Mi
dispiace Aiden, mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto, tu
sei…».
Aiden gli posò le mani sulle spalle e Molly trattenne il
fiato per paura che potesse percuoterlo nuovamente. Invece
fissò gli occhi nei suoi, tanto intensamente che Nigel
avvertì per un attimo il bisogno di voltare il capo, pur
sapendo che non sarebbe mai potuto sfuggirgli.
«Il problema non è chi sono io. Il problema
è chi sarai tu, ora che tuo padre non ti manovra
più come un burattino. È quello che ha fatto per
tutti questi anni, non è così? Scommetto che ti
abbia chiesto persino di conquistare Molly per far imparentare le
vostre famiglie».
Nigel socchiuse gli occhi e con un groppo in gola annuì.
Molly non ebbe alcuna reazione, lo sapeva già,
l’aveva capito quella volta al ricevimento. Ma sapeva anche
che Nigel era una persona ben diversa da suo padre, bastava volergli un
po’ di bene.
«D’ora in avanti dovrai cavartela da solo e,
fidati, starai meglio senza di lui. Ha avvelenato le nostre vite, non
puoi negarlo».
Nigel annuì di nuovo, sfinito e di nuovo in lacrime. Si
abbandonò contro il petto di Aiden e, con grande commozione
di Molly, il ragazzo di colore, alto qualche centimetro in
più di lui, non lo scostò, anzi lo strinse in un
goffo abbraccio, dandogli qualche pacca sulla schiena in segno di
conforto.
Non sarebbero mai tornati amici come prima, ne erano consapevoli tutti
in quella stanza, ma almeno non si sarebbero lasciati provando ancora
rancore l’uno nei confronti dell’altro.
***
Seduta alla scrivania, con la
matita tra le labbra e una mano nei capelli, non riusciva proprio a
concentrarsi.
Come poteva, dopo tutto quello che era successo in quelle tumultuose
quarantott’ore?
Si alzò ed uscì in balcone, dove
sollevò il viso per ammirare quella serie di colori caldi e
delicati che solo il cielo del tramonto poteva regalare agli occhi.
Anche la sera del giorno precedente aveva fatto la stessa cosa e si
sorprese, anche se non avrebbe dovuto, realizzando che lassù
non cambiava mai niente, mentre lì sulla Terra tutto era
mutabile ed imprevedibile.
«Adesso
cosa succederà?», domandò debolmente,
gli occhi rivolti verso il cielo rosato, attraversato da alcune nuvole
gonfie e dalle sfumature arancioni.
Nigel scrollò le spalle al suo fianco e gettò
l’ennesimo sassolino nell’acqua limpida della
piscina: una cosa che suo padre gli aveva sempre vietato di fare.
«Probabilmente mi trasferirò nel
Tennessee».
Ad occhi sgranati, Molly si voltò di scatto verso di lui.
«Nel Tennessee?».
«I miei nonni, genitori di mia madre, abitano lì.
Hanno una grande fattoria e da bambino adoravo passare le estati da
loro. Mi piaceva prendermi cura dei cavalli. Penso che mi
troverò bene, dopotutto».
La ragazzina abbassò lo sguardo e posò
delicatamente una mano sulla sua, appoggiata sull’erba, in
mezzo a loro.
«Grazie, Molly».
«Di che cosa?».
«Di tutto. Prima di conoscerti ero proprio come mio padre:
uno stronzo. Tu mi hai aperto gli occhi, mi hai fatto capire che cosa
vuol dire amare…».
Molly chinò il viso, rosso d’imbarazzo, e lo
imitò, prendendo un sassolino bianco tra la ghiaia e
gettandolo nella piscina.
«Abbiamo a malapena quindici anni, non dire
fesserie».
«Lo so, però… tu hai trovato il meglio
in me, l’hai fatto venire fuori e mi hai fatto sentire
felice, nel tuo strambo modo di volermi bene».
Sollevò le loro mani intrecciate e se le portò
vicino al viso, mormorando: «Spero che ci sia una ragazza,
nel Tennessee, che ti voglia bene più di quanto te ne abbia
voluto io. E se vorrai tornare, un giorno…».
Nigel le prese il mento tra le dita e le fece immergere gli occhi nei
suoi. Sorrideva dolcemente, anche se con gli occhi lucidi.
«Sai che non tornerò. Spero che tu sia felice e
che Aiden capisca finalmente quant’è fortunato ad
avere le tue attenzioni».
A quelle parole rimase a bocca aperta, intontita ed imbarazzata, ma
Nigel stesso la levò dall’impaccio stringendola
tra le braccia, contro il suo petto.
Mentre le posava un bacio tra i capelli, Molly capì che si
trattava di un vero e proprio addio e che quella volta niente, nemmeno
la sua ostinata determinazione, avrebbe potuto fare qualcosa per
impedire che Nigel uscisse per sempre dalla sua vita.
Buffo. Ancor prima di conoscerlo aveva pregato ardentemente che
accadesse, che sparisse, che non le desse più fastidio con
la sua corte spietata; adesso era sull’orlo delle lacrime ed
era aggrappata con i pugni al suo petto, incapace di lasciarlo andare.
Molly
respirò profondamente, poi rientrò in camera e si
diresse verso la porta, che aprì per affacciarsi fuori con
la sola testa e gridare: «Malieeeeee!».
La governante la raggiunse pochi minuti dopo, mentre la ragazzina era
intenta a cambiarsi nella grande cabina armadio.
«Mi ha chiamata, signorina?».
«Sì», rispose lentamente, fissandosi
allo specchio. «Dì all’autista di
preparare la mia limousine».
«Prego? Deve uscire, signorina? È quasi ora di
cena…».
Si voltò verso di lei e le lanciò
un’occhiata dura e penetrante. «Qualche problema,
Malie?».
La governante trasalì lievemente.«Nessuno,
signorina».
«Bene, allora vai».
Abbassò il capo in un mezzo inchino e si
allontanò in fretta.
Molly si guardò di nuovo allo specchio e si disse che era
davvero giunto il momento di porre fine a quella storia, o sarebbe
impazzita.
***
Era da moltissimo tempo che
non faceva un po’ di ordine nelle sue scartoffie e quel
pomeriggio aveva deciso di passare in ufficio proprio con quello scopo.
Gettò uno sguardo fuori dalla finestra con le veneziane
aperte, da cui filtravano fasci di luce arancione, e poi su tutti i
fascicoli che aveva sparso sul pavimento svuotando i cassetti
dell’armadietto in cui li teneva cercando di rispettare un
ordine annuale ed alfabetico.
Da quando aveva ottenuto la licenza di investigatrice privata si era
occupata di molti casi, la maggior parte li aveva portati a termine con
successo, alcuni erano rimasti irrisolti; certi erano finiti bene,
altri avevano avuto un epilogo amaro. Tutti, però, le
avevano permesso di accostarsi a centinaia di vite, così
diverse le une dalle altre, e di conoscere anche se stessa, un
po’ alla volta.
Rispolverando quei vecchi casi, dai primi di cui si era occupata ai
più recenti, aveva avuto la sensazione di fare un tuffo nel
passato e non si era minimamente accorta del tempo che scorreva nella
sua realtà.
Solo il suono del telefono fu in grado di distrarla dai suoi pensieri e
la costrinse ad alzarsi, nonostante le gambe intorpidite, per
raggiungerlo sulla scrivania.
«Schneider Investigations».
«Signorina Schneider, finalmente riesco a sentire la sua
voce! Ho provato a chiamarla anche questa mattina».
Grace corrugò la fronte e rispose: «Mi dispiace,
ma non ero in ufficio. Posso sapere con chi ho l’onore di
parlare?».
«Certo, mi perdoni. Il mio nome è Egon McNab, sono
lo zio di Aiden».
Sorpresa, esitò prima di domandare: «Posso esserle
utile in qualche modo?».
L’uomo ridacchiò sinceramente, davvero divertito.
«Oh, lei ha già fatto più del dovuto,
signorina, trovando l’assassino di mio cognato. Io e lui non
siamo mai andati molto d’accordo, ma mia sorella, che Dio
l’abbia in gloria, lo amava alla follia e anche mio nipote
non si è mai dato pace, quindi è giusto che si
sia fatta giustizia. Non posso credere che sia stato Mr. Hall,
l’ho visto meno di una settimana fa… Comunque
l’ho chiamata solo per informarla che ho depositato sul suo
conto bancario una piccola cifra come ringraziamento».
«Sono davvero felice di aver aiutato la polizia a risolvere
il caso, ma non posso davvero accettare. E poi come ha fatto ad avere
il numero del mio conto bancario?».
«Sono azionista delle maggiori banche del paese, non
è stato difficile. E per quanto riguarda i soldi, non si
preoccupi e ne faccia ciò che vuole: ormai sono
già sul suo conto».
«Davvero, Mr. McNab, io…».
«Desolato di doverla interrompere, ma devo proprio lasciarla
adesso. Spero di poter parlare con lei nuovamente, magari per motivi
meno deprimenti. Buona serata».
«Buona serata anche a lei», mormorò
prima che la comunicazione si interrompesse.
Mise giù la cornetta e dopo un momento passato a contemplare
il pavimento ricoperto di fascicoli tirò fuori dalla tasca
il cellulare.
«Grace? Non dirmi che hai un altro caso irrisolto da tirare
fuori e ti serve il mio aiuto, perché non sono proprio
dell’umore giusto, voglio solo andare a casa, mangiare
qualcosa di decente e…».
«Andrew, ricordi quando speravi sempre che la mia fosse una
chiamata di cortesia e io ti dicevo di essere paziente?».
«Sì, mi ricordo».
«Bene, perché questa è una chiamata di
cortesia. Anzi, è di più, dato che voglio
invitarti a cena».
«A cena? Grace, sei per caso impazzita?».
La detective rise sommessamente e si portò un dito di fronte
alle labbra, spostandosi di fronte alla finestra con le veneziane.
«Conosco un ristorante che ho sempre voluto provare, ma il
mio budget non me lo permetteva».
«E adesso il tuo budget te lo permette?».
«Diciamo che una persona mi ha fatto un regalo che da sola
non riuscirei mai a sfruttare. Allora, ci stai?».
«È uno di quei ristoranti in cui non ti fanno
entrare se non sei in giacca e cravatta?».
«Presuppongo di sì».
Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante e Grace
notò un elicottero volare verso le Hollywood Hills, in quel
cielo sempre più tendente al violetto.
Alla fine il poliziotto esclamò:
«Perché non chiami Dylan? Potremmo andare tutti a
casa di Oswin a spaccarci di pizza e birra».
«Già, ma ti dimentichi sempre che Oswin ha una
moglie e una pestifera bambinetta di due anni e mezzo».
«Allora Dylan, pizza e birra a casa tua? Ovviamente offri
tu!».
Grace sospirò, sconfitta. «E va bene, il
ristorante dovrà aspettare ancora un
po’».
***
Molly scese dalla limousine
ordinando all’autista di attenderla e trovò il
portone del condominio aperto, così si infilò
nell’androne e lentamente salì le scale, tenendosi
al corrimano e tastando la parete perché la luce non andava
e il sole, ormai quasi scomparso dietro la linea dell’oceano,
non offriva abbastanza illuminazione.
Quando arrivò di fronte alla porta
dell’appartamento fece un respiro profondo, mentre dei
brividi le correvano sulla schiena al ricordo della prima volta in cui
c’era stata. Quindi premette il pulsante del campanello.
La porta si aprì quando ormai non ci sperava più,
mostrando un Aiden in pantaloncini e canottiera bianca. Alle sue spalle
si intravedevano poche luci accese, quelle dei led sopra la cucina e il
bagliore azzurrognolo dello schermo piatto di fronte al divano, e fu
un’impresa per Molly decifrare l’espressione di
quell’ombra nera che si stagliava di fronte a lei.
«E tu che ci fai qui?», le domandò, con
nessuna intonazione particolare della voce, come se non fosse realmente
interessato alla risposta.
«Ho saputo che sei stato sospeso».
Difatti, quella mattina, a scuola, oltre ad essere costretta a
sopportare il motivo per cui il banco di Nigel era desolatamente vuoto
– e la sua mano sinistra così fredda senza la sua
a stringerla – aveva anche scoperto che le assenze di Aiden,
almeno per quella settimana, non sarebbero più state
ingiustificate a causa del pestaggio che l’aveva visto come
protagonista alla partita di baseball.
Il ragazzo scrollò le spalle. «Non sarei andato a
scuola comunque». Posò i suoi occhi scuri in
quelli di Molly, facendole stringere lo stomaco, e solo allora si
spostò di lato, in un silenzioso invito ad entrare nel suo
regno.
Molly si diresse a passo spedito verso il salotto, dove fece attenzione
a non inciampare nel filo che collegava il joystick sul tavolino alla
Playstation posata sopra una piccola mensola sotto allo schermo della
TV, dove si poteva vedere l’ultimo fotogramma dello
sparatutto con cui Aiden stava giocando prima che lei lo costringesse a
mettere in pausa.
«Allora, perché sei qui?», le
domandò ancora una volta, tornando ad infossarsi nel suo
divano per riprendere la partita da dove l’aveva interrotta.
Il volume era altissimo, oppure era semplicemente lei che non era
abituata ad essere assordata da scoppi di granate, mitragliatrici e
colpi di carri armati.
Con gli occhi stretti, come se così potesse sentire meglio
sopra quel frastuono, disse: «Te l’ho
già detto, ho saputo che sei stato sospeso e
volevo…».
«Voglio sapere il vero motivo, non una balla».
Molly incrociò le braccia al petto e per paura di diventare
sorda si rifugiò in terrazza: quando e se avesse voluto
parlare con lei e smetterla con quel videogioco l’avrebbe
trovata lì, nonostante la brezza fresca proveniente
dall’oceano che ormai aveva già inghiottito anche
l’ultimo spicchio di sole infuocato.
Rimase ad osservare le luci dei palazzi vicini e dei grattacieli in
lontananza e quelle dei fanali delle auto che scorrevano in strada,
divise da file di palme che sembravano terminare soltanto nelle
vicinanze dei lidi.
Aiden aveva ragione: era davvero più bella la vista di sera.
Il ragazzo la raggiunse dopo qualche minuto e Molly se ne accorse solo
quando sentì il calore di un corpo accanto al suo,
appoggiato di spalle al parapetto.
Molly si portò le mani sul viso e poi si tirò
indietro i capelli biondi e lisci, sospirando.
«Perché l’hai picchiato?».
«Ti ho vista piangere e pensavo che lui ti avesse fatta
soffrire», rispose sinceramente, ma senza guardarla in viso.
«Lui non c’entrava niente. O meglio, sì,
però… Comunque anche se lui mi avesse fatta
soffrire non sarebbe stato affar tuo».
Aiden accennò un sorriso sardonico ed incrociò le
braccia al petto, guardando di lato.
«Dico bene?», incalzò Molly, con occhi
di ghiaccio.
«Sì, sono d’accordo con te».
La ragazzina, sbigottita dalla sua risposta, rimase per un attimo
immobile, indecisa se tuffarsi tra le sue braccia e scoppiare a
piangere oppure tirargli un ceffone ed andarsene sbattendo la porta.
Alla fine la rabbia la montò, facendole portare di nuovo le
mani tra i capelli e soffocando un urlo tra le labbra. Aiden, fino ad
allora impassibile, si voltò di scatto e la prese per le
braccia, preoccupato.
«Lasciami!», ruggì Molly, divincolandosi
e tirandogli qualche debole e scoordinato pugno sul petto.
«Sei uno stupido! Uno stupido! Mi difendi e te la prendi con
Nigel se mi vedi piangere, mi asciughi i capelli quando li ho bagnati
per non farmi prendere freddo, poi se ti dico che quello che faccio non
è affar tuo dici che sei d’accordo con me! Ma che
cos’hai in testa?!».
«Molly, calmati, per favore».
«No, non mi calmo! Perché tu pensi che Nigel mi
abbia fatta soffrire per tutto questo tempo, quando in
realtà lui mi ha voluto bene davvero, mentre io lo sfruttavo
per aiutarti!». Senza più voce, la gola in fiamme,
posò il viso contro il suo petto e singhiozzò:
«Sei tu che mi fai soffrire, ogni volta… Ogni
volta che siamo più vicini tu mi allontani e non so
perché».
«Molly, io… tu meriti di più. Meriti un
ragazzo che sappia darti tutto ciò che vuoi, non un orfano
che vive in un appartamento perché non è stato e
non vuole essere imboccato con il cucchiaio d’oro».
La ragazzina si scostò lentamente e gli volse le spalle,
stringendosi nel suo stesso abbraccio. Cercò di ricordare le
parole che le aveva rivolto suo padre una volta tornati dal ricevimento
di Mr. McNab, sul balcone in camera sua, per poter fare lo stesso
discorso ad Aiden, ma non ci riuscì e optò per
l’improvvisazione.
«Sono stata imboccata
col cucchiaio d’oro fino a due mesi fa, ma non
sono mai stata così felice come quando sono in compagnia di
Ben, di Sheila, di Nigel o tua. Questo perché i soldi non
fanno la felicità e non me ne importa niente. Davvero tu
pensi che io sia una ragazza così materiale?».
«No».
«E allora?!». Molly si voltò di scatto e
si trovò ad un soffio dal suo viso, qualche centimetro
più in alto del suo. «Il
meglio che io possa desiderare sei…».
Aiden la interruppe prima che potesse concludere la frase.
Posò le labbra sulle sue in un bacio morbido, ma che fece
sobbalzare comunque il cuore di entrambi.
Molly cercò il suo viso con le mani e lo
accarezzò, per poi intrecciare le dita sulla sua nuca,
alzandosi in punta di piedi per poter ricambiare meglio al bacio. Ma
proprio in quel momento Aiden la prese per i fianchi, facendola tremare
da capo a piedi al solo pensiero che forse l’avrebbe
avvicinata ancora di più a lui. Fu un’amara
illusione, perché l’allontanò e la fece
tornare coi piedi per terra.
Molly cercò il suo sguardo per capirne il motivo, ma il suo
sorriso dolente fu un colpo al cuore.
«Rimango della mia opinione: io non sono il ragazzo adatto a
te».
Gli occhi le si riempirono di lacrime e le mani iniziarono a tremarle,
tanto che le chiuse in pugni lungo i fianchi mentre abbassava il capo,
verso il suo petto squarciato.
«Forse la verità è che io
non sono la ragazza adatta a te», farfugliò con
poca voce, prima di tornare in salotto, correre fuori
dall’appartamento e giù per le scale e, infine,
chiudersi nella limousine.
«A casa, signorina?».
Molly annuì distrattamente in direzione
dell’autista, passandosi le mani sulle guance e tirando su
col naso.
A casa, anche se sapeva che nemmeno nel posto che avrebbe dovuto
risultarle più sicuro sarebbe stata protetta da quel dolore
che la stava consumando dall’interno.
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Capitolo 30 *** Capitolo 28 ***
Ebbene
sì... siamo arrivati al capolinea. Almeno per quanto
riguarda l'indagine condotta da Grace da quando suo padre è
stato assassinato! Avrei voluto lasciarvi la più completa
sorpresa, ma dovevo avvisarvi della quasi-fine di questa FF che ci ha
accompagnati per tutti questi mesi con il suo mix di mistero, suspance,
amore e lacrime: mancano infatti un paio di capitoli alla fine e ve lo
dico con il cuore pesante come un macigno, perchè Grace mi
mancherà, come mi mancheranno Dylan, Michael, Melanie,
Lionel, Molly... e tutti i personaggi originali. Spero comunque che
rimangano sempre nei vostri cuori come rimarranno nel mio :')
Ma torniamo a questo capitolo. E' inutile dire che è uno dei
miei preferiti, forse è sul podio della Top 10, e spero che
piaccia anche a voi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e
chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Mi
piacerebbe a questo punto sapere cosa ne pensate tutti quanti, sarebbe
un sogno che si avvera :')
Comunque sia vi ringrazio infinitamente e vi auguro una buona lettura.
Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
______________________________________________________________
Capitolo 28
“He's
coming and she knows it, even though she
knows why
Footsteps from the hallway, girl you haven't got time
You gotta get out, go far away”
(Witchcraft
– Pendulum)
«È
strano, Molly non era mai stata assente prima d’ora. Ieri ho
anche provato a chiamarla, per sapere se fosse ammalata, ma non mi ha
risposto».
«Dopo tutto quello che è successo, non mi
sorprende che voglia stare un po’ a casa, senza sentire
nessuno».
«Hai ragione, però…».
Sheila si voltò verso Ben, il quale aveva già
dato prova di conoscere a fondo la biondina, manco fosse suo fratello
gemello.
«Sentiamo, che cosa ti sta passando per la testa?».
Ben si infilò una mano tra i capelli per ravvivarsi il
ciuffo, poi le prese la mano e la condusse fuori dalla palestra della
scuola, dove si erano fermati per assistere ad una partita di
volleyball.
«Secondo me è successo
qualcos’altro».
«Tipo?», incalzò Sheila, roteando gli
occhi al cielo mentre si lasciava trascinare.
Ben si fermò all’improvviso e si trovarono ad un
centimetro l’uno dall’altra.
Non avevano ancora trovato il coraggio per parlare di quello che era
successo due giorni prima e probabilmente non sarebbe successo presto,
ancora intenti a sondare quel terreno inesplorato che trasformava la
loro amicizia in qualcosa di più.
Imbarazzati, si allontanarono e si lasciarono pure la mano, guardando
altrove.
Ben fu il primo ad aprire bocca, schiarendosi la voce per rispondere
alla sua ultima domanda: «Non ne ho la più pallida
idea».
«Che facciamo, allora?».
«Potremmo andare a casa sua con la scusa di portarle i
compiti e…».
«Non sembra una cattiva idea».
Si sorrisero, anche se di sfuggita, e poi si diressero verso la
pensilina degli autobus dall’altra parte della strada.
Per arrivare di fronte all’enorme cancello bianco di Villa
Delafield avevano dovuto prendere non uno, ma ben due autobus, e poi
avevano dovuto farsi un pezzo, in salita e sotto il sole cocente, a
piedi.
Stanchi ed assetati, suonarono al citofono ed aspettarono che il
maggiordomo gli rispondesse.
«Siamo Ben e Sheila, due compagni di scuola di Molly.
Possiamo vederla?».
«Sono spiacente, ma la signorina è partita questa
mattina».
«Partita?».
«Sì, è andata a Milano, in Italia. Vi
resterà per un paio di giorni con sua madre, Mrs.
Delafield».
Ben e Sheila si scambiarono un’occhiata stupita, quindi
ringraziarono il domestico e se ne andarono.
Sulla strada del ritorno, anche se quella volta era tutta in discesa,
la fatica di aver fatto quel viaggio a vuoto fece sbottare la ragazza.
«Che ci è andata a fare a Milano, dico io?! E
perché non ci ha detto niente?».
Ben scrollò le spalle, mesto in viso e con le mani nelle
tasche dei jeans.
Sheila lo raggiunse, anche se controvoglia, ed infilò un
braccio sotto al suo per invogliarlo a camminare più
rapidamente e al tempo stesso rassicurarlo: «Vedrai che
tornerà più forte di prima, non temere».
«Ti va un gelato?».
La ragazza si voltò e vacillò di fronte ai suoi
occhi castani, caldi e ora dolci come caramelle al mou.
Arrossendo, senza nemmeno avere la forza di aprire bocca,
annuì con il capo. Allora Ben tornò a guidarla,
intrecciando le dita delle loro mani. Sheila si lasciò
scappare un sorriso e corse per camminare al suo fianco.
***
Dall’aeroporto di
Los Angeles, il jet privato di suo padre era partito quel
venerdì mattina alle sette in punto con direzione Milano, la
città della moda e del design.
L’idea di recarvisi le era venuta quasi per caso, combinando
una serie di fattori che le avevano fatto pensare che fosse la
soluzione adatta ad ogni suo problema.
Il giorno prima aveva sentito sua madre mentre diceva a suo padre che
prima o poi sarebbe dovuta andare a Milano per incontrare alcuni
colleghi stilisti con i quali stava collaborando per la sua ultima
linea di abbigliamento femminile e, guarda caso, si era ricordata che
in quei giorni anche i Tokio Hotel si trovavano nella città
italiana per promuovere il loro nuovo album.
Anticipare il viaggio di sua madre per vedere di nuovo i suoi idoli
dopo tanto tempo sarebbe stata l’occasione perfetta anche per
staccare un po’ la spina da tutto e riflettere sugli ultimi
avvenimenti e sui suoi sentimenti.
Ciò che era successo a Nigel e la discussione con Aiden
l’avevano sfibrata tanto da cedere alle insistenze di suo
padre, il quale voleva che restasse per qualche giorno a casa da
scuola. Successivamente, sfruttando la sua preoccupazione a proprio
favore, era riuscita a persuaderlo a dare il proprio consenso a quel
viaggio organizzato all’ultimo momento.
Non aveva avvisato nessuno della sua partenza, solo Grace, e a dire il
vero si era sentita un po’ in colpa nei confronti di Ben e
Sheila, ma sapeva benissimo che quel viaggio era la sua unica
opportunità per fare un po’ di chiarezza dentro di
sé: non aveva bisogno e non voleva dare spiegazioni o
parlarne con qualcuno, nemmeno con i suoi migliori amici.
Dopo quasi tredici ore di volo, il suo orologio d’argento e
Swarovski segnava le venti, ma il cielo fuori
dall’oblò accanto al suo sedile in pelle era nero
come la pece e sulla pista d’atterraggio c’erano
poche luci a guidare i piloti del jet. Infatti, a causa delle nove ore
di fuso orario, erano già le cinque del mattino di sabato.
Un’auto nera e dalle linee sinuose le prelevò non
appena scesero le scalette del velivolo e le portò
direttamente all’hotel Melià Milano, senza che ci
fosse bisogno di perdere tempo ai controlli doganali. Quindi lasciarono
al loro autista italiano il compito di trasportare
nell’elegante hall i loro bagagli a mano, mentre loro
domandavano la chiave della loro Suite Presidenziale Reale, la migliore
dell’albergo.
Presero uno tra i vari ascensori per raggiungere il loro piano e sua
madre sfruttò quel momento per rammaricarsi ancora una volta
di non aver prenotato una suite nel primo hotel a sette stelle
d’Europa, il Seven Stars, appunto, situato in Galleria
Vittorio Emanuele, ad un passo dal Duomo di Milano.
«Per me sarebbe stato anche più semplice
raggiungere il Quadrilatero della moda!».
«Lo so, mamma. La prossima volta dirò ai Tokio
Hotel di pernottare in quelle stanze», rispose stizzita
Molly, appoggiata ad una delle pareti a specchio, un paio di grandi
occhiali da sole firmati Chanel calcati sul viso.
«Non volevo di certo dire questo, tesoro. Domani,
cioè… più tardi, li vedrai?».
«Probabile».
La donna la fissò, stupita dal suo poco entusiasmo: sognava
di vedere Milano da quando aveva cinque anni e al solo pensiero di
rivedere i suoi idoli avrebbe dovuto fare i salti di gioia! Invece
niente.
Ma si rassicurò presto, dicendosi che era solamente provata
dal lungo viaggio e forse ancora scossa per quello che era successo al
suo amico Nigel, e la seguì fuori dall’ascensore,
già con il passepartout nella mano.
***
«Forse dovresti
andare a dormire. Sembri stanca, dalla voce».
«Ma ti sei sentito tu? Sembra di parlare con un uomo delle
caverne!».
Tom rise e si controllò il viso su una delle pareti
riflettenti dell’ascensore, mentre suo fratello chiacchierava
con Gustav e Georg.
«Io mi sono svegliato da poco, ho bisogno di
carburare», le rispose alla fine, scoccando un sorriso alla
sua stessa immagine.
«Io non riuscirei a chiudere occhio comunque».
«Perché?».
Grace, a Los Angeles, si morse la lingua, maledicendosi per avergli
rivelato quell’insignificante quanto importante particolare.
Lui non sapeva che Lionel era vivo, in una casa sicura, inserito nel
Programma Protezione Testimoni dell’FBI; non sapeva che era
stato Bryant a sparargli, poiché aveva sempre collaborato
con l’organizzazione criminale ed era stato lui ad introdursi
in casa sua per rubare il suo cellulare, avvelenando tra
l’altro i loro cani; non sapeva che lo stesso Bryant ora
collaborava con l’FBI e non poteva di certo dirgli che era
venuta a sapere che dalla sera di giovedì non aveva
più comunicato la sua posizione agli agenti ed aveva
iniziato a risultare irrintracciabile.
«A volte mi capita, un attacco di insonnia»,
mentì alla fine, modulando la voce per fargliela bere. E dal
modo in cui le rispose dovette cascarci in pieno.
«Io avrei saputo come far passare il tempo».
Grace ridacchiò proprio nel momento in cui le porte
dell’ascensore si aprivano dopo un din e
i componenti dei Tokio Hotel si incamminavano verso la sala buffet dove
avrebbero fatto colazione.
«Per il resto nulla di nuovo?», le chiese.
«No, nulla di particolare. Tu quali impegni hai
oggi?».
«Abbiamo un paio di interviste qui in hotel e poi
un’apparizione TV, in un programma italiano di cui ora mi
sfugge il nome… aspetta, come si chiamava… Bill?!
Bill, come si chiama il programma –? Oddio».
«Che è successo?», domandò
Grace, allarmata.
Tom scosse il capo e sbatté le palpebre un paio di volte per
verificare che non fosse una specie di allucinazione.
In coda al gruppo, impegnato nella conversazione con Grace, era
arrivato per ultimo nella sala buffet e solo quando aveva cercato lo
sguardo di Bill si era accorto della ragazzina bionda, seduta ad un
tavolo vicino ad una delle due ampie vetrate, già
accerchiata dai suoi amici, i quali le stavano chiedendo cosa ci
facesse lì a Milano.
«Molly… Molly è qui!».
«Ah, sì, mi è sfuggito di dirtelo. Beh,
meglio che tu vada da lei. Ci sentiamo dopo, ti amo».
Grace chiuse in fretta la chiamata, senza nemmeno dargli il tempo di
rispondere, ma lì per lì Tom non vi diede troppo
peso e raggiunse i suoi compagni di band.
«Molly!», gridò sorpreso, facendosi
spazio tra Georg e suo fratello. «Che ci fai qui?!».
La ragazzina gli rivolse un sorriso tirato che lo
impensierì, come il velo di tristezza che le patinava gli
occhi di solito così luminosi.
Grace, qualche giorno prima, lo aveva aggiornato sulla risoluzione del
caso riguardante l’omicidio del padre di Aiden, il ragazzo
per cui Molly si era presa una cotta, e sapeva che era stato un duro
colpo per lei vedere in manette il padre di quel ragazzo, Nigel, che
alla fine era diventato un suo amico. Si chiese se non fosse dovuta a
questo, la sua fuga da Los Angeles, e si pentì persino del
tono ben poco delicato che aveva usato.
«Come dicevo agli altri», disse, «ho
accompagnato mia madre». Indicò la donna seduta di
fronte a lei, con i capelli biondi e a caschetto, gli occhi azzurri e
un sorriso incantevole sulle labbra, che rendeva luminoso e ancora
più giovanile il suo viso. «Tom,
lei è mia madre. Mamma, lui è Tom, il fidanzato
di Grace».
Mrs. Delafield gli strinse calorosamente la mano, felice di conoscere
finalmente questo famoso Tom, di cui sua figlia le aveva tanto parlato,
e il chitarrista, ancora un po’ imbarazzato per essere stato
definito “il fidanzato di Grace” –
ciò che in fondo era – ricambiò la
cortesia dicendole che l’aveva scambiata per sua sorella.
«Sapete, mamma deve incontrare dei suoi collaboratori ed era
da tanto che io volevo vedere la città, così ho
deciso di partire insieme a lei», spiegò ancora
Molly.
Bill incrociò le mani di fronte al petto e sorrise
smagliante. «Wow, è proprio una fortunata
coincidenza! Prima di pranzo abbiamo giusto un paio di ore libere!
Potremmo andare a fare un giro insieme, che te ne pare?».
«Io la trovo un’idea meravigliosa,
tesoro», la incitò sua madre, accarezzandole una
mano.
Molly annuì, anche se subito dopo abbassò gli
occhi sulla tazza vuota di fronte a sé, giocando col
cucchiaino e i rimasugli di caffè rimasti sul fondo.
Improvvisamente Tom si sentì stringere il cuore, captando la
tristezza che cercava di soffocare dentro di sé e di celare
a loro, e ricordò una delle loro ultime chiacchierate al
telefono.
«Sai
qual è l’unica cosa che mi farebbe felice,
adesso?».
«Cosa?».
«Abbracciarti. Mi farebbe stare molto meglio».
Quella volta era solo
confusa sui sentimenti che provava per Nigel e per Aiden, ma aveva
sentito comunque nella sua voce una nota di malinconia e aveva promesso
a lei, e a se stesso soprattutto, che l’avrebbe abbracciata
non appena si sarebbero visti di nuovo. Ora era seduta davanti a lui,
con una voragine al posto del petto perché gli eventi si
erano evoluti in maniera imprevedibile, provocandole vero e proprio
dolore per quel sentimento tanto irrazionale chiamato amore, e lui non
trovava il coraggio per fare ciò che aveva promesso.
«Beh, sarà meglio che facciamo colazione anche
noi, prima di cominciare la giornata in ritardo»,
esclamò Bill ad un certo punto, interrompendo il silenzio.
«Noi abbiamo finito, potete mettervi qui, è il
tavolo migliore», disse Molly, alzandosi poco prima di sua
madre. Poi, con un minuscolo sorriso, si rivolse a Bill:
«Allora ci vediamo più tardi».
Fece per raggiungere sua madre, la quale si era già avviata
verso gli ascensori, ma Tom le prese una mano all’improvviso.
Molly si voltò verso di lui e il chitarrista strinse le
labbra, amareggiato, leggendo nei suoi occhi lucidi come specchi tutta
la stanchezza e la delusione che provava per ciò che era
successo alle persone intorno a lei e che, come un’onda,
l’aveva travolta, trascinandola lontano.
Tom aprì finalmente le braccia per invitarla a trovare un
appiglio contro il suo petto, ma la ragazzina chinò il capo
e lasciò che la sua mano piccola scivolasse via da quella
grande e callosa del chitarrista. Quindi si allontanò senza
mai guardarsi indietro ed uscì dalla sala buffet.
***
Terminata la chiamata con Tom,
Grace sospirò appoggiandosi contro la parete alle sue spalle
e si passò le mani sul viso stanco e sciupato.
Mentire a Tom era l’unica soluzione possibile, lo sapeva, ne
valeva anche della sua incolumità oltre che quella di
Lionel, ma si sentiva così in colpa… Come se non
bastasse aveva un pessimo presentimento, che l’aveva resa
inquieta e con i nervi a fior di pelle per tutto il giorno, seduta sul
divanetto accanto a Dylan, il quale ogni tanto aveva avuto la
sfacciataggine di appisolarsi, rannicchiato come un bambino, mentre
l’agente Crawford faceva avanti e indietro dal suo ufficio
alla base operativa al piano sottostante, tornando sempre con la solita
risposta scritta in fronte: «Nessuna
novità».
Bryant era sparito nel nulla da più di
ventiquattr’ore ormai e non sapevano più dove
sbattere la testa, visto che alcune squadre dell’FBI avevano
già controllato tutti i covi dell’organizzazione
criminale che Bryant era riuscito a rivelargli, facendo un completo
buco nell’acqua ogni volta.
Quindi aspettavano. Aspettavano che Bryant facesse quella maledetta
chiamata di routine, spiegando il motivo del suo ritardo. Aspettavano,
anche se Grace era più che convinta che ogni minuto che
trascorrevano con le mani in mano poteva essere l’ultimo per
la vita di Bryant.
«Dobbiamo intervenire», decretò per
l’ennesima volta, entrando nell’ufficio e trovando
Michael seduto con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani tra i
capelli, accanto a Dylan, il bell’addormentato.
«Lo so, Grace, lo so. Ma che cosa possiamo fare? Mettere dei
rilevatori di posizione su Bryant era troppo rischioso, per non parlare
di alcuni uomini… Ci affidavamo alle sue chiamate da
cellulari usa e getta, e adesso siamo nella merda, senza avere la
minima idea di dove andare a cercarlo».
«Ma non possiamo nemmeno starcene chiusi qui dentro e
aspettare che qualcosa si smuovi!».
Michael si alzò di scatto e la fronteggiò, con
espressione bellicosa. «Hai qualche idea
migliore?!».
Dylan si alzò lentamente, a causa delle gambe intorpidite, e
si mise tra loro, posando le mani sulle loro spalle.
«Ragazzi, nemmeno litigando risolveremo qualcosa».
Grace sbuffò dal naso, ridotta ad un fascio di nervi tesi, e
stringendo i pugni lungo i fianchi gli voltò le spalle,
decisa a fare qualsiasi cosa, qualsiasi, anche girovagare per le strade
di Los Angeles per ore, piuttosto che restare ancora un minuto in
quella stanza.
Uscì dalla sede dell’FBI e raggiunse il suo
fuoristrada in tutta fretta, desiderosa di sfogare il suo nervosismo
guidando.
Vide un volantino bianco incastrato tra i tergicristalli e sbuffando
fece per strapparlo via, ma un colpo di vento improvviso lo
voltò e lei si irrigidì sul posto. Non era un
volantino, bensì una fotografia: lei e sua madre, sorridenti
e col mare alle spalle, avevano lo sguardo puntato verso
l’alto per ammirare il loro aquilone che finalmente si
librava nel cielo azzurro. Era la foto dietro la quale aveva trovato la
polaroid che l’aveva portata fino a Berlino e che le aveva
permesso di trovare la preziosissima agenda di suo padre. Che ci faceva
lì? E soprattutto, chi si era introdotto in casa di sua
madre per recuperarla?
Mamma!
Terrorizzata al solo
pensiero che qualcuno potesse averle fatto ancora del male
saltò sul fuoristrada e pestò il piede
sull’acceleratore, sgommando sull’asfalto.
Aprì la porta di
casa con il suo doppione delle chiavi e portò istintivamente
una mano dietro la schiena, sul calcio della pistola, mentre percorreva
il corridoio fiancheggiando la parete.
«Mamma?», la chiamò sottovoce, senza
nascondere l’ansia intrisa nella sua voce.
«Shhh. Non vorrai mica svegliarla, vero?».
Nella più totale oscurità, Grace puntò
la pistola verso la poltrona in salotto, da dove proveniva quella voce.
Le sue braccia però si piegarono di scatto, come colpite dal
taglio di una mano, quando i suoi occhi si posarono sull’uomo
il cui volto veniva illuminato dalla luce della luna, che le permetteva
di scorgere il suo sguardo vispo ed intelligente e le sue labbra tirate
in un sorriso beffardo.
Il portiere del palazzo dove si trovava il suo ufficio.
L’uomo che aveva affittato l’hangar per
l’organizzazione criminale, che era presente durante la
sparatoria all’Halo e forse
l’aveva anche causata. L’uomo che aveva parlato con
Doc Mahkah, dicendo quelle cose su di lei. L’uomo che le
aveva salvato la vita a Berlino, uccidendo il suo ex-complice.
In un nome e cognome, quelli veri, John Carter.
«Lo so che hai un sacco di domande da farmi e ti prometto che
un giorno…».
«Non ci pensare nemmeno», lo interruppe
rabbiosamente la detective. «Ho bisogno
di risposte e tu sei l’unico in grado di darmele.
Può anche darsi che questa sia l’unica volta che
ci vediamo».
Carter sospirò stancamente e sprofondò di nuovo
sulla poltrona, le mani intrecciate sullo sterno.
«Sappi solo che ogni minuto che perdiamo potrebbe
essere…».
«Tu collaboravi con mio padre?», fu la sua prima
domanda, dura come uno schiocco di frusta.
Carter chiuse gli occhi come se fosse stato davvero colpito alle
spalle, ora curve in avanti sotto un peso invisibile, ed
annuì con un cenno del capo. «Sin da quando mi
è venuto a cercare per chiedermi informazioni
sull’attentato sventato a Baghdad. Era tutta una farsa
studiata da alcuni ufficiali di marina lautamente ricompensati
perché armi americane finissero nelle mani di una cellula
terroristica irachena. L’ho capito solo quando tuo padre mi
ha messo la pulce nell’orecchio buono»,
indicò quello sinistro con due dita, un sorriso effimero
sulle labbra.
«Quindi voi due collaboravate e per incastrare i killer
assoldati dagli ufficiali tu sei diventato uno di loro. È
così?».
Carter mosse la testa in un cenno d’assenso, già
consapevole e pronto a sostenere lo strazio della prossima domanda.
«Perché hai lasciato che lo uccidessero?
Perché hai permesso che me lo portassero via in quel
modo?».
Non ebbe la forza di sollevare gli occhi nei suoi e rispose con voce
pacata, intrisa di dolore: «Ero appena entrato
nell’organizzazione, non avevo ancora la loro fiducia e col
tempo ho scoperto che era la loro prassi: si dice solo ciò
che è indispensabile che i collaboratori sappiano. Mitch
però… l’aveva intuito, non so come,
ma… Lui è sempre stato più bravo,
sempre un passo avanti a me, e se solo l’avessi capito anche
io… avrei fatto di tutto per salvarlo, credimi».
Grace lo fissò in maniera inquisitoria, ancora sulla
difensiva. Poi chiese con la stessa durezza nella voce: «Sei
un bravo cecchino?».
«Se quello che vuoi sapere è se ho ucciso io
quello spacciatore, la risposta è sì».
Carter vide il suo volto disgregarsi lentamente:
dall’imperturbabilità passò ad uno
stato di desolazione e di stordita incredulità.
«Tu hai ucciso Doc Mahkah?».
«Sì. So che era un tuo amico ma, fidati, non
avrebbe esitato ad usarti come scudo se tu gliene avessi dato il tempo.
Quella è stata solo una delle tante… prove di
lealtà a cui l’organizzazione mi ha sottoposto. E
per fortuna non sono stato sfortunato come Bryant… Non sarei
mai riuscito a fare del male a persone a cui tenevo, piuttosto mi sarei
ammazzato».
Quelle parole parvero far breccia nel muro che Grace aveva eretto
intorno a sé per difendersi da quell’uomo che era
sempre stato irraggiungibile, una macchia invisibile nella sua vita.
Infatti, con un gesto della mano gli diede il via libera per spiegarle
che cosa ci facesse in casa di sua madre, dove l’aveva
attirata con l’espediente della fotografia sul suo parabrezza.
«Dobbiamo intervenire subito, so dove si trova
Bryant». La sua voce era tornata forte, rinvigorita dalla
determinazione di salvare quello che un tempo era stato uno dei suoi
migliori amici.
Grace incrociò le braccia al petto ed aggrottò le
sopracciglia, nell’ultimo tentativo di resistenza contro
l’istintiva fiducia che provava nei suoi confronti.
«Perché mi dovrei fidare?».
Carter si alzò dalla poltrona, lasciandosi scappare un
risolino quasi isterico che venne inghiottito dalla serietà
dei suoi occhi castani.
Si era tolto le lenti a contatto che li avevano resi azzurri e aveva
cercato di levare via il più possibile la tinta che fino a
qualche settimana prima lo aveva fatto passare per biondo. Si era
lasciato crescere un po’ di barba, o più
semplicemente non aveva avuto tempo di radersi, e persino il suo viso
sembrava diverso, più pallido, come se
l’abbronzatura sulla sua pelle fosse svanita
all’improvviso. Trucco? Se davvero aveva usato fondotinta e
terra, doveva ammettere che non se n’era mai accorta.
«Se non ti fidi di me, non so di chi altro ti potresti fidare
in questo momento».
«Di Dylan e di Michael».
L’uomo quella volta sorrise dolcemente, anche se Grace ebbe
la sensazione che la stessa giudicando un’ingenua.
«Loro non sanno quello che so io. Loro non ti hanno protetta
in tutti questi anni, cambiando continuamente identità. Ho
fatto persino l’inserviente alla tua università.
Sì, pulivo i cessi pur di tenerti
d’occhio».
Grace rivide il suo volto fuori dalle aule di lezione, anche se
parecchio diverso grazie alla sua abilità di agire sotto
copertura, e ne fu quasi sconvolta.
Carter si fece ancora più vicino e le tolse di mano la
pistola, posandola sul mobiletto accanto all’ingresso.
«Loro, in particolare Dylan, non ti hanno salvato la vita a
Berlino», continuò in tono pacato, accarezzandole
la mano con il pollice. «Loro non conoscevano Mitch come lo
conoscevo io».
Grace si scostò chiudendo gli occhi ed
indietreggiò fino a trovare la protezione dello schienale
del divano, che fece da barriera tra loro. Quindi lo fissò
intensamente, stringendo gli occhi verdi come quelli di suo padre.
«Dimmi dove si trova Bryant».
Carter sorrise e tirò fuori una mappa di Los Angeles, la
stese sul tavolino basso, in modo che fosse anch’essa
illuminata dalla luce lunare, e si inginocchiò sul tappeto.
Grace fu costretta ad andargli accanto.
Quelli segnati con dei cerchi rossi erano tutti i covi ancora attivi
dell’organizzazione criminale, mentre quelli sbarrati con le
X nere erano quelli già sgomberati. Carter ne
indicò uno che era stato cerchiato di rosso più
degli altri, tanto forte da rischiare di bucare il foglio, e
scambiò uno sguardo con Grace, con un misto di
determinazione e di paura sul viso.
«Credo sia arrivata l’ora della resa dei
conti».
***
Erano passate appena due ore,
quando lei, Dylan e Crawford scesero da uno dei furgoni blindati
dell’FBI, con i loro giubbotti anti-proiettile addosso e armi
alle mani.
Il punto indicatole da Carter si trovava a ridosso delle Hollywood
Hills, in una zona molto isolata e boschiva, tanto che Grace si era
chiesta se potesse essere mai possibile: perché avevano
scelto quella villa iniziata e mai conclusa come ultimo covo? Come
avrebbero fatto a scappare, così circondati dagli agenti
delle squadre speciali dell’FBI e costantemente sorvegliati
dagli elicotteri? Magari era tutta un’enorme trappola e
Carter li aveva mandati a morire. Oppure era stato tutto un diversivo
creato apposta per fargli perdere tempo a trovare ed organizzare quelle
risorse mentre loro si dirigevano verso sud.
Grace si guardò intorno ancora una volta, inquieta, cercando
di memorizzare i punti d’accesso e d’uscita della
villa incompleta. Quindi si avvicinò a Crawford, il quale,
con Dylan e un altro paio di agenti, stava ricontrollando con
l’uso di una torcia elettrica la piantina della casa.
Quando il poliziotto incrociò il suo sguardo,
l’avvicinò e la guardò dritta negli
occhi prima di abbracciarla, stringendola forte a sé.
«Dovremmo avvisare Bill e Tom», le
sussurrò all’orecchio, preoccupato quanto lei di
non uscire più da quella villa.
Aveva ragione, avrebbero dovuto farlo e ogni secondo che passava si
sentiva sempre più pesante per i sensi di colpa,
ma… no, non avrebbe mai potuto farlo. Sentire la voce di
Tom, ricordare la promessa che gli aveva fatto quando era stata
aggredita a Berlino, le avrebbe impedito di entrare in quella casa per
paura di non sentirlo né vederlo mai più. Non
poteva rischiare di essere travolta dall’amore per Tom, dalla
prospettiva di vivere pacificamente con lui per il resto dei suoi
giorni. Non ora.
Grace si scostò dolcemente, gli occhi ardenti, e con tono da
non ammettere repliche rispose: «Non se ne parla».
Dylan abbassò il viso. «Ho un brutto
presentimento».
Non gli disse che ce l’aveva anche lei, come non gli disse
che aveva paura. Semplicemente gli batté la mano sulla
spalla e tirò fuori la sua fidata Glock per togliere la
sicura.
Si guardò intorno nuovamente, quella volta per scorgere
l’ombra di Carter dietro qualche albero nelle vicinanze,
invano.
«Sarò sempre ad un passo da te», le
aveva detto prima che lo lasciasse nel salotto della casa di sua madre.
Avrebbe dovuto sentirsi rassicurata, o perlomeno rincuorata che qualcun
altro le guardasse le spalle, eppure la sua risposta era stata secca e
tracciata da un velo di malinconia: «Non potrai proteggermi
per sempre».
Scrollò il capo per mandare via il suo viso, i suoi occhi
ora più familiari che mai, le sue parole pronunciate con
tono quasi paterno.
Allontanandosi da Dylan si era avvicinata ad uno dei capi delle squadre
speciali ed attirando la sua attenzione gli domandò:
«Siamo pronti?».
Purtroppo non fece in tempo a sentire la sua risposta,
perché un urlo agghiacciante si levò
dall’interno della villa, mobilitando e mettendo in allerta
tutti quanti. Muovendosi in fretta e silenziosamente e comunicando a
gesti, si posizionarono rasenti il muro della facciata. Quindi, ai
segnali dei capi squadra, sfondarono le poche porte installate ed
entrarono.
Che la festa
abbia inizio.
Se all’esterno quella villa risultava semplicemente
incompleta, senza nemmeno una mano di vernice sulle pareti grigiastre,
all’interno era un vero e proprio scheletro, con ancora le
impalcature e metri e metri di cellophane tra le varie stanze e sui
pavimenti scabri.
Gli agenti si separarono per controllare in ogni anfratto, comunicando
con gli auricolari o a gesti quando era «libero».
Grace, Dylan e Crawford si ritrovarono insieme per ispezionare il piano
superiore e furono costretti a dividersi quando sentirono i primi
spari, diretti proprio contro di loro.
Nascosti dietro due angoli adiacenti del corridoio, Grace e Dylan si
scambiarono un’occhiata e al «tre» si
sporsero e spararono contro il loro nemico, un’agile ombra
che si dileguò tra il fruscio dei teli di plastica.
Crawford, il primo a muoversi quando poterono uscire allo scoperto,
partì alla sua rincorsa, ma si fermò di fronte ad
una porta spalancata, con gli occhi sbarrati dall’orrore:
Bryant aveva le mani legate con una corda che lo teneva appeso al
soffitto, era seminudo ed era stato torturato per ore intere, con tagli
e bruciature in ogni punto visibile della sua pelle, tanto che la vasca
da bagno sopra la quale si trovava era spaventosamente piena di sangue,
che continuava a gocciolargli dai piedi.
«Mio Dio», esclamò senza fiato, quando
Dylan lo raggiunse.
Sentendo la sua voce, l’ex-marine sollevò
faticosamente la testa, fino ad allora abbandonata sullo sterno, e li
guardò con occhi imploranti ma rassegnati, intrisi di
sofferenza.
«Dovete andarvene da qui», biascicò,
sputando sangue ad ogni parola: aveva perso quasi tutti i denti, forse
estratti senza anestesia per invogliarlo a parlare.
Dylan si avvicinò a lui e si arrampicò sul bordo
della vasca per poterlo tirare giù, ma Crawford lo prese per
il giubbotto anti-proiettile e gli indicò lo strano
rigonfiamento intorno alla vita di Bryant, coperto da una specie di
foulard nero messo lì come a volergli coprire le
nudità, facendolo sembrare un martire come Cristo in croce.
«Ci sono esplosivi ovunque», rantolò
ancora l’ex-marine. «Lei ha… ha il
telecomando».
«Dobbiamo chiamare gli artificieri, non
possiamo…», sussurrò Dylan, in preda al
panico.
«Non c’è tempo. Dovete andarvene o
morirete qui dentro!». Ce l’aveva messa tutta per
alzare la voce e rendere il suo suggerimento simile ad un ordine, ma le
forze lo abbandonarono e gli fecero abbassare di nuovo il capo contro
il petto, senza che emettesse nemmeno un rantolo.
Michael, lentamente e con cautela, tirò giù Dylan
dal bordo della vasca. Quindi si sporse in corridoio alla ricerca di
qualche agente in carne ed ossa, mentre continuava a sentire,
direttamente nel timpano destro, i bisbigli degli uomini in
perlustrazione. Fu allora che si accorse dell’assenza di
Grace, rimasta con loro fino ad allora.
Si voltò verso il poliziotto, pallido come lui, e non ci fu
nemmeno bisogno di parlare.
Con il sudore che le imperlava la fronte e le palpitazioni a tremila,
si acquattò dietro ad un vano senza porta e dopo un respiro
profondo rotolò dall’altro lato, evitando di un
pelo un paio di pallottole e sparando a sua volta e un po’
alla cieca all’interno della stanza. Dal gemito soffocato che
riuscì a sentire, però, capì di averla
colpita.
Aveva scorto il suo viso dai lineamenti orientali quando si era
guardata le spalle prima di fiondarsi in quella stanza e per un attimo
i loro sguardi si erano incrociati.
Lei era l’ultima rimasta della sua organizzazione criminale,
perché il suo unico vero complice era morto, ucciso da
Carter quando l’aveva salvata.
Lei era il capo, lei aveva dato l’ordine di uccidere tutte
quelle persone innocenti o meno, tra cui anche suo padre.
Appena aveva visto i suoi occhi neri, tanto da non scorgervi nemmeno le
pupille, aveva avuto addirittura la sensazione che fosse stata lei ad
uccidere suo padre, con un freddo colpo alla nuca. Di certo non poteva
essere stato il suo complice, molto più portato per la furia
animalesca, quella che aveva avuto modo di provare sulla sua pelle e
che probabilmente era stata quella che aveva travolto sua madre.
Ed ora era ad un passo dal rendere giustizia a tutti, suo padre in
primis.
Si sporse all’interno per monitorare la situazione e vide la
sua ombra longilinea spiccare un salto oltre il parapetto della
terrazza illuminata dai raggi della luna. Grace allora si
alzò, rischiando di scivolare di nuovo sulla superficie
ricoperta di cellophane, e corse fuori, accolta da una brezza leggera e
profumata.
Guardò giù, dov’era saltata la sua
preda, e la vide correre di nuovo all’interno della casa,
scavalcando il foro creato per una finestra. Era saltata giù
come un gatto, atterrando su un mucchio terra ora cotta dal sole e
più simile a sabbia.
Dopo un rapido esame dei pro e dei contro dovuti a quella caduta, Grace
uscì di corsa dalla stanza e si fiondò
giù dalle scale, seguendo poi i boati degli spari per
orientarsi.
«Lei è mia!», avrebbe voluto gridare a
chiunque tentasse di colpirla e di fermarla, ma non ce ne fu bisogno,
perché lei riuscì di nuovo a scamparla, ferendo
anche un paio d’agenti. Grace si lanciò al suo
inseguimento un’altra volta e finì in un corridoio
buio e con diverse stanze da entrambi i lati. Si appiattì
contro il muro e con la Glock sollevata accanto al viso
provò a controllare i battiti del suo cuore impazzito che
non facevano altro che rintronarle nelle orecchie. Stava per entrare
nella prima stanza alla sua destra, quando la donna sbucò da
quella più avanti e le sparò addosso dopo aver
dato un ultimo colpo al caricatore appena inserito.
Grace ebbe la prontezza di riflessi di buttarsi dentro la stanza al suo
fianco, anche se un proiettile la colpì di striscio alla
gamba. Provò a ricambiare la cortesia, gettandosi fuori
all’improvviso, ma l’asiatica si era già
infilata dentro alla stanza in fondo al corridoio, da cui proveniva un
buio profondo: una cantina?
Grace accese la torcia e si strappò l’auricolare
dall’orecchio, infastidita dai fischi e dalle interferenze
che aveva iniziato a fare dopo lo scivolone che aveva fatto durante
l’inseguimento. Quindi si avvicinò alla porta buia
e si ritrasse, trasalendo, quando vide i bagliori di alcuni spari
all’interno. Per un attimo aveva rischiato di essere invasa
dalla paura, ma l’adrenalina fece il suo effetto e rasentando
il muro scese in fretta, pregando che i suoi occhi si abituassero in
fretta al buio che quella piccola torcia non poteva rischiarare in ogni
angolo.
«Salterete tutti in aria», disse la donna quando
per un attimo il fascio di luce della torcia di Grace le
colpì il viso, mostrandole un sorriso compiaciuto e un
piccolo telecomando.
La detective non ci pensò due volte prima di sparare e lo
fece, ignorando il fischio che aveva sentito e che le aveva provocato
un brivido alla schiena.
«Grace, alle tue spalle!».
La voce di Carter. Realizzò solo che lui era lì
con lei, in quella cantina buia e umida, prima di voltarsi,
terrorizzata da un ringhio feroce. La sua torcia ebbe solo il tempo di
illuminare il muso del rottweiler i cui denti aguzzi spiccarono come
stelle nel cielo quando aprì le fauci per azzannarla, prima
di cadere a terra con lei.
Gli spari che aveva sentito prima di scendere le scale…
erano serviti a liberare il cane, addestrato e lasciato a digiuno per
giorni, dalla pesante catena che lo aveva tenuto attaccato al muro fino
ad allora.
Alle sue spalle sentì le imprecazioni in cinese della donna,
mentre si azzuffava a colpi di karate con l’ex-marine,
impacciato ma abbastanza pronto di riflessi per parare i suoi colpi,
almeno fino a quando non fu distratto dalle urla di Grace.
Allora l’asiatica lo colpì con un calcio in pieno
petto, facendolo cadere a terra, e si gettò sul pavimento
alla ricerca di qualcosa, a tentoni a causa del buio pesto. Carter ebbe
così il tempo di alzarsi e di balzarle addosso, non potendo
usare la sua pistola perché era stato disarmato poco prima
nel combattimento corpo a corpo.
Grace, nonostante sentisse i denti del rottweiler premere sempre
più forte nel suo braccio destro e strattonarlo come se
fosse un pupazzetto di gomma, facendole vedere le stelle,
riuscì a dimenarsi e scalciando gli fece mollare la presa.
Dio mio, non
sento più il braccio, pensò atterrita,
prima di scorgere il cane che tornava all’attacco con un
balzo, quella volta puntando alla sua gola. In fretta
afferrò la pistola con la mano sinistra e sparò,
sperando almeno di ferirlo. Con un guaito il cane cadde a terra e solo
allora Grace poté tornare a respirare più o meno
regolarmente, anche se i pericoli che doveva affrontare non erano
ancora terminati.
Si portò una mano sul braccio morsicato e sentì
che il sangue scorreva a fiotti, caldo e viscido. Represse un conato di
vomito e si girò, recuperò la torcia sul
pavimento, anche se andava ad intermittenza, ed illuminò il
punto sul pavimento dove l’asiatica e Carter stavano
lottando, tirandosi pugni in faccia e scalciando. Anche se lei la sua
pistola ce l’aveva ancora, non poteva rischiare di usarla:
avrebbe potuto colpire Carter. Così fece l’unica
cosa che le venne in mente: si buttò nella mischia.
Cercò di afferrare il detonatore che l’asiatica
teneva stretto nella mano, ma a quel punto la donna trovò la
pistola di Carter sul pavimento e sparò contro di lui, per
levarselo di dosso. Grace non capì dove l’avesse
colpito, seppe solo che lui rotolò via gemendo e lei
provò a fare la stessa cosa, sparare contro
l’asiatica, mancandola e dandole
l’opportunità di avvicinarsi alla sua via di fuga:
una botola sul pavimento.
«Aufwiedersehen!», gridò
in un tedesco stentato e il suo eco ebbe qualcosa di tetro, prima che
iniziassero le prime esplosioni nel lato nord della villa, che diedero
il via ad una disastrosa catena quasi senza fine.
Grace, rimasta paralizzata con le mani sulle orecchie per il frastuono,
sentì due mani posarsi sulle sue spalle e riconobbe quelle
grandi e paterne di Carter, nonostante l’avesse toccata
soltanto quel pomeriggio.
«Hai ragione, non potrò proteggerti per
sempre», le sussurrò all’orecchio e
miracolosamente riuscì a sentirlo.
Avrebbe voluto chiedergli scusa, guardarlo negli occhi prima di morire
avvolta dalle fiamme oppure intossicata dal fumo, ma non
poté fare né l’una né
l’altra cosa, perché venne spinta nella stessa
botola in cui era scomparsa l’asiatica.
Nello stesso istante, al piano superiore, Michael e Dylan si gettarono
fuori dalla finestra, spinti anche dalla potenza
dell’esplosione che aveva distrutto quel salotto di
cellophane e mattoni a vista.
Si coprirono la nuca con le mani, mentre con loro volavano calcinacci e
brandelli di plastica bruciata, e quando tutto parve finito si
voltarono e videro a pochi metri da loro le lingue di fuoco che
annerivano i contorni della loro via di fuga e tentavano di uscire per
mangiare più ossigeno.
«No, non un’altra volta»,
mormorò l’agente dell’FBI con gli occhi
sbarrati e il viso pallido e sporco.
Si tirò su in piedi con fatica – aveva preso un
colpo al ginocchio atterrando in giardino – e fece un giro
della villa per sincerarsi delle condizioni degli agenti e nel caso
contare le perdite. Di Grace, come pensava cupamente, nessuna traccia.
«Grace!», gridò Dylan, disperato e con
le mani strette a pugni tra i capelli, inginocchiandosi di fronte alla
cornice della porta principale. «Grace, rispondimi, ti
prego!».
Si trascinò avanti a gattoni, verso le fiamme, fino a quando
lo stesso Crawford e un paio di altri agenti non lo trascinarono via,
stendendolo supino sulla terra dura e fredda, lasciando che si sfogasse
piangendo tutte le sue lacrime.
***
Quella mattina aveva deciso di
rimanere nella suite, ad attendere l’ora concordata con Bill,
con sua madre attaccata al telefono per concordare l'orario e i temi
della riunione che avrebbe tenuto con i suoi collaboratori.
Le ore erano passate lentamente e i suoi pensieri erano stati quasi
tutti per Aiden. Forse avrebbe dovuto semplicemente levarselo dalla
testa, dato che lui pensava di non meritare il suo amore. Prima o poi
sarebbe arrivato qualcun altro a farle battere il cuore e questo magari
non avrebbe rinnegato i suoi stessi sentimenti.
Era una ragazzina, non capiva per quale motivo doveva stare tanto male
per un coetaneo che forse era solo spaventato, ma poi le tornavano alla
mente i momenti passati insieme, a ridere sotto la pioggia che bagnava
i loro appunti, a litigare, in silenzio; le tornava alla mente il loro
primo ed unico bacio, una specie di premio di consolazione che Aiden le
aveva offerto prima di ferirla di nuovo, brutalmente, tanto da farle
desiderare di sparire nel nulla, in una città dove non
conosceva nessuno e nessuno aveva idea di quanti soldi avesse o
dell’importanza di suo padre.
Verso le dieci si era cambiata per uscire e aveva persino preparato la
macchina fotografica digitale, con tutte le buone intenzioni di
portarsi a casa qualche scatto di quella Milano baciata dal sole,
più bella di come se la fosse mai immaginata.
Quando Bill bussò alla sua porta, lei era in bagno che stava
finendo di legarsi i capelli sulla nuca, così fu sua madre
ad aprirgli e con sua grande sorpresa scoprì che non era
solo: Tom aveva deciso di unirsi a loro.
Molly uscì dal bagno cercando di stamparsi il suo sorriso
migliore sul viso, anche se non avrebbe voluto vedere il chitarrista ed
aveva paura che tirasse fuori tutto il dolore che teneva rinchiuso
dentro di sé, come se fosse il suo tesoro più
prezioso, di cui essere gelosa. La verità era che quel
dolore era l’unica cosa che aveva ottenuto dal suo amore per
Aiden e non poteva lasciarlo andare, sarebbe stato come andare alla
deriva senza quella zavorra che la teneva attaccata alla mera illusione
che qualcosa, prima o poi, sarebbe girato a suo favore.
«Sei sicuro di quello che stai per fare? Sai a che cosa vai
incontro, con noi due maniaci dello shopping», lo
avvertì con una punta di ironia nella voce, posandosi gli
occhiali da sole sul naso.
«Sono preparato a tutto», rispose Tom con una
scrollatina di spalle, sorridendo come se gli avesse appena lanciato
una sfida.
Molly ricambiò per un attimo, prima di afferrare la borsa
firmata e di prendere Bill a braccetto, salutando sua madre.
Salirono tutti e tre sull’auto nera noleggiata dalla famiglia
Delafield per l’intera durata di quel soggiorno milanese e
l’autista italiano li scarrozzò per le vie della
moda – da Via Alessandro Manzoni a Via Monte Napoleone, da
Via della Spiga a Corso Venezia fino a raggiungere Piazza S. Babila
– dove ogni pretesto era buono per entrare nei negozi e
provare mille capi, facendo impazzire le commesse quando decidevano
alla fine di non comprare niente.
Durante la loro caccia non avevano parlato molto di ciò che
era successo a Los Angeles mentre Bill e Tom erano lontani, forse
proprio perché Molly rispondeva a monosillabi e la maggior
parte delle volte cambiava proprio argomento, indicando vestiti, borse
od occhiali da sole – cose che avrebbero potuto distrarre
Bill, ma non di certo Tom, il quale non l’aveva mai persa
d’occhio, anche a costo di risultare intrusivo e parecchio
fastidioso. Ma era più forte di lui: voleva che Molly si
sfogasse, almeno con loro; che si liberasse di tutti i pensieri
negativi che la rendevano irraggiungibile e diversa, e non capiva
perché invece lei si ostinasse a fare finta di nulla, a fare
finta che stesse bene e che quello fosse un semplice week-end che i
milionari come lei ogni tanto di concedevano.
Ad un certo punto decisero di fare una pausa in Piazza Duomo, che Molly
trovò bellissima nonostante i piccioni e gli immancabili
lavori di ristrutturazione alla Madonnina della cattedrale neogotica.
«È un vero peccato che Grace non sia
venuta», esclamò all’improvviso, mentre
scattava una foto alla facciata del Duomo, inondata di luce.
Tom, rimasto per un attimo incantato a guardare una coppia di bambini
che correvano per la piazza facendo involare pigramente alcuni di quei
fastidiosi volatili grigi, si voltò di scatto
nell’udire quelle parole.
«Come hai detto?».
«Ho detto che è un vero peccato che Grace non sia
venuta», ripeté la ragazzina, rimanendo confusa di
fronte al suo atteggiamento vagamente inquisitorio.
Tom, infatti, aveva avuto una specie di illuminazione e il suo cervello
aveva iniziato a surriscaldarsi, in cerca di una possibile spiegazione.
Grace sapeva che Molly sarebbe venuta a Milano – durante la
loro ultima telefonata gli aveva detto che si era dimenticata di
dirglielo, – così come sapeva benissimo che anche
loro sarebbero rimasti lì ancora per qualche giorno. Allora
perché non era partita con lei, visto che non aveva altri
impegni?
«Tom, che ti prende?», gli domandò Bill,
fissando il suo volto serio e concentrato, le labbra strette tra di
loro.
Il chitarrista però non gli rispose e tornò a
fissare gli occhi in quelli di Molly, ora più guardinghi che
mai, come se temesse una sua improvvisa scenata in pubblico –
oro per i paparazzi che in più di un’occasione
quel giorno li avevano pizzicati per le vie di Milano.
«C’è qualcosa che non so?»,
chiese, stentoreo.
Molly sgranò gli occhi e si strinse nelle spalle, senza
sapere bene quale fosse la risposta da dargli.
«Beh, Grace stava per venire ieri, voleva farti una sorpresa,
ma giusto prima di imbarcarsi ha ricevuto una telefonata da parte di
quell’agente dell’FBI…».
«Michael Crawford?», intervenne in aiuto Bill,
nonostante anche lui iniziasse ad essere un po’ preoccupato.
«Sì, mi pare di sì. Non mi ha detto
nulla in proposito, solo che non poteva partire».
«E che cosa aspettavi a dirmelo?». La sua voce era
pacata, ma nei suoi occhi fiammeggiava la rabbia.
Molly, spaventata, portò le mani avanti. «Pensavo
te l’avesse detto, ora che la sorpresa era
saltata!».
Tom ricordò le parole che Grace gli aveva rivolto quella
mattina al telefono e notò tutti i particolari che si era
lasciato sfuggire allora: il tono evasivo con cui gli aveva detto che a
volte aveva attacchi di insonnia e che non c’erano
novità, il modo in cui lo aveva liquidato in fretta quando
aveva esclamato che Molly si trovava a Milano e nel loro stesso
hotel… Gli aveva persino detto «Ti amo»!
Lo faceva così raramente, come lui d’altronde, e
in occasioni così speciali che, ora che ci ripensava, col
cuore stretto in una morsa, stonava terribilmente e non era per nulla
rassicurante che gliel’avesse detto prima di terminare in
quel modo la chiamata.
Che si fosse immischiata in qualche guaio e l’avesse tenuto
all’oscuro? Che ci fossero state delle novità,
delle rilevanti novità,
nell’indagine, al contrario di ciò che gli aveva
assicurato?
Oh, Grace,
non puoi farmi questo tutte le volte… pensò, distrutto,
preoccupato ed arrabbiato allo stesso tempo, tanto che ebbe la
magnifica idea di sfogarsi sulla prima persona che gli
capitò a tiro: Molly.
«No, non l’ha fatto! E tu avresti dovuto avvertirmi
subito, invece di commentare tutto il tempo i tuoi stupidi vestiti e le
tue dannate borse con Bill!».
«Ma cosa…?».
Il frontman si parò di fronte a Molly e posò le
mani sulle spalle del gemello, cercando di calmare lui e di difendere
l’amica.
«Piantala, Tom, lei non c’entra niente».
Molly si liberò della protezione di Bill e spinse Tom con
entrambe le mani sul suo petto, facendolo indietreggiare di un passo
per la sorpresa, mentre alcuni turisti vicini a loro si erano voltati
per capire cosa stava succedendo. Stavano attirando non poca attenzione
e questo non era mai un bene.
La ragazzina gli rivolse uno sguardo truce, colmo di lacrime che
sapevano di rabbia e di sofferenza, e ruggì: «Mi
dispiace di non averti avvisato che la tua ragazza
non è venuta insieme a me. Mi dispiace di non potermi
accollare anche i tuoi problemi. Mi dispiace di essere venuta qui per
stare un po’ con degli amici che appena possono mi usano come
sacco da boxe».
«Molly, io…», provò a
scusarsi Tom, sconvolto e mortificato, ma non ne ebbe il tempo
materiale, perché lei lo spintonò ancora una
volta, con tutta la forza che poté. Quindi si
allontanò in fretta, diretta verso l’autista che
li aspettava nello Spizzico sotto una galleria.
Bill la guardò sparire all’interno del fast-food
italiano, poi posò lo sguardo sul gemello, senza sapere se
essere più confuso o deluso dal suo comportamento
irrazionale. Non volle nemmeno sapere che cosa gli fosse passato per la
testa: si voltò e raggiunse in fretta lo Spizzico,
lasciandolo solo tra i piccioni, i turisti e una compagnia di ragazzi
italiani che ridevano mentre si lanciavano delle patatine di
McDonald’s.
***
C'era voluto un po’,
un’ora buona, prima che l’incendio venisse
completamente domato dai vigili del fuoco, ma appena era stato
possibile Dylan e Michael avevano partecipato al controllo
all’interno della villa: avevano trovato i corpi carbonizzati
di due agenti dell’FBI rimasti intrappolati
all’interno, tramortiti dagli esplosivi; quello di Bryant,
ancora più raccapricciante di quando l’avevano
visto prima che morisse, e poi avevano scoperto una cantina, sotto le
macerie. Un’altra mezz’ora dopo, erano riusciti a
crearsi un varco e lì avevano trovato la carcassa di un
grosso rottweiler su cui, ad un attento esame nei laboratori della
scientifica, non solo si sarebbero trovate tracce del sangue e della
pelle di Grace sui suoi denti, ma anche un proiettile proveniente dalla
sua Glock calibro 9mm, che l’aveva ucciso prima
dell’arrivo delle fiamme.
Questo fu tutto quello che riuscirono a trovare riguardo a Grace e se
da un lato era terrificante non aver trovato di più, era
motivo di speranza non aver trovato il suo cadavere.
Lentamente quella speranza si era fatta ancora più solida,
tanto da credere che la detective fosse riuscita a scamparla, quando
trovarono una botola il cui passaggio sotterraneo era stato quasi del
tutto intasato dalle macerie e dalla terra quando era esploso
l’ordigno piazzato nelle tubature del salotto.
Dopo essere stati medicati alla bell’e meglio a bordo di un
paio di ambulanze accorse sul posto, Michael e Dylan si erano rintanati
in uno dei furgoni blindati e super attrezzati dell’FBI e con
un tecnico avevano studiato ancora e ancora la pianta in 3D della
villa, sperando di trovarvi il passaggio sotterraneo che collegava la
cantina al posto in cui, molto probabilmente, si trovavano la detective
e la donna asiatica. Ma questo non era segnato da nessuna parte,
probabilmente era stato costruito dall’organizzazione
criminale come via di fuga di emergenza.
I due non si diedero per vinti ed ordinarono che si continuasse a
cercare qualcosa in quel campo, qualcosa che facesse intendere ad un
passaggio nel sottosuolo; comunicarono a tutte le centrali di polizia
la scomparsa di Grace, ordinando che venissero contattati nel caso in
cui avessero anche solo una debole pista da seguire per ritrovarla.
Tutto questo mentre continuavano a tempestare il suo cellulare di
chiamate sempre inconcludenti, perché sempre
irraggiungibile.
I loro sforzi vennero ripagati quando Oswin in persona, costretto al
solo lavoro d’ufficio, chiamò Dylan e gli
comunicò un’importante novità.
«Ho fatto pressione anche tra gli agenti della stradale e dei
colleghi mi hanno passato una denuncia per furto
d’auto».
«Vai avanti», lo supplicò il poliziotto,
sulle spine.
«L’uomo che ha sporto denuncia ha dichiarato che
una ragazza la cui descrizione corrisponde a Grace gli ha detto di
essere della polizia e lo ha costretto a scendere, puntandogli la
pistola contro. Ha detto anche che è spuntata dal
nulla».
«Lo sapevo, lo sapevo che non poteva averci
lasciato!», urlò entusiasta, stringendo la spalla
di Crawford per trasmettergli un po’ di quella gioia che gli
stava facendo esplodere il petto. Ma non era ancora giunto il momento
dei festeggiamenti, dovevano prima trovarla.
«Dobbiamo rintracciare quell’auto», disse
ancora e Oswin gli diede modello e numero di targa, in modo tale che
Crawford potesse diramare un altro avviso ai colleghi di tutta Los
Angeles.
Poi Oswin aggiunse: «È stata rubata nel garage
sotterraneo di un centro commerciale, i colleghi sono già
andati a recuperare i filmati delle telecamere di sicurezza. Li avrete
tra poco».
Come aveva promesso, i filmati arrivarono poco dopo tempo e Dylan e
Michael li guardarono fino a quando non scorsero Grace uscire da un
tombino, correre verso la prima auto che le compariva di fronte,
rischiando tra l’altro di investirla, e ordinare
all’uomo alla guida di scendere, per poi premere
l’acceleratore e scomparire dall’inquadratura.
«Un attimo, torna indietro».
Il tecnico premette il tasto rewind e fermò
l’immagine nel momento in cui Grace gettava uno sguardo
consapevole verso la telecamera ed annuiva, il viso sporco di fuliggine
e di terra e i vestiti umidi. La cosa che interessava a Michael,
comunque, era il suo braccio destro, rosso di sangue e quasi immobile
lungo il fianco.
«Dobbiamo trovarla subito», decretò con
tono ferale e Dylan annuì, il cellulare ancora stretto nella
mano dopo aver rifiutato la prima delle tante chiamate che
d’ora in avanti avrebbe ricevuto da Bill.
***
Magari non è
successo nulla di grave. Magari ha solo dimenticato di mettere il
cellulare in carica. Sì, dev’essere proprio
così.
Si portò le
dita agli angoli interni degli occhi e sospirò stancamente,
mettendo via il cellulare ed entrando in ascensore accanto a Bill.
C’era della tensione tra loro, dopo quello che era successo
con Molly e non solo, ma preferì rimandare i chiarimenti,
almeno con lui.
Dopo il loro giro nel centro di Milano, erano tornati tutti e tre in
albergo e poco tempo dopo Bill e Tom erano dovuti salire su
un’altra auto che li aveva portati allo studio televisivo
dove avevano registrato la puntata di un programma di musica italiano.
Era stato inquieto e con la testa altrove per tutto il tempo: un
po’ con Grace, a Los Angeles, che continuava a non
rispondergli al telefono, e un po’ con Molly, nella stessa
città, che non gli aveva più rivolto uno sguardo
dopo la loro bisticciata in pubblico.
Prima di cena aveva bisogno di parlare con lei, per levarsi almeno un
peso dallo stomaco, e per questo rimase da solo
sull’ascensore per raggiungere il piano dove si trovava la
suite di Molly e sua madre.
Fu proprio quest’ultima ad aprirgli la porta, dicendogli che
l’avrebbe trovata nella sua camera da letto, da cui non era
più voluta uscire da quando era ritornata quel pomeriggio.
Tom, col cuore pesante come un macigno, la raggiunse attraversando il
salottino e bussò piano alla porta. Non ottenne alcuna
risposta, però non si fece problemi e gettò
un’occhiata all’interno della stanza, scorgendo
Molly rannicchiata sulla poltrona vicina alle portefinestre che davano
su un piccolo terrazzo.
«Molly…».
La ragazzina si voltò di scatto e Tom, incrociando i suoi
occhi gonfi e lucidi di pianto, serrò le labbra mentre il
suo volto si accartocciava in un’espressione dispiaciuta.
Si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò con cautela,
per poi posarle una mano sul capo ed inginocchiarsi di fronte a lei.
«Mi dispiace, ho sbagliato», mormorò,
accarezzandole ora i capelli, ora il viso. «Ero e sono
preoccupato per Grace, ma questo non mi giustifica, perché
me la sono presa con te ingiustamente. Puoi perdonarmi?».
Molly mosse il capo su e giù in segno d’assenso ed
inspirò profondamente. Tom poté sentire
l’aria che le scendeva in gola con un rantolo, prima che
Molly si portasse le mani sul viso e ricominciasse a singhiozzare
violentemente.
«Piccola, ti prego, non fare
così…».
Il chitarrista capì che il motivo delle sue lacrime non era
di certo lui e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu
di avvolgerle le braccia intorno alla schiena squassata dai singhiozzi,
lasciando che nascondesse il viso umido nell’incavo della sua
spalla.
Nello stesso istante, dall’altra parte del mondo, Grace
apriva gli occhi in una stanza d’ospedale e si guardava
atterrita la mano destra, immobile nonostante provasse e riprovasse a
stringere le cinque dita intorno al lenzuolo candido.
***
Pochi istanti prima di
svegliarsi, ancora intontita dagli antidolorifici che le avevano
somministrato mentre era sotto i ferri, Grace aveva rivissuto quelle
ore che mai, mai, le avrebbero fatto la grazia di sbiadire nella sua
memoria.
La caduta
inaspettata e il frastuono proveniente dall’alto la
lasciarono per qualche secondo stordita a terra, con le orecchie che
ronzavano fastidiosamente. Quando ebbe la forza di rialzarsi,
sostenendosi solo sul braccio sinistro, quello buono, si rese conto di
essere in un tunnel buio e lungo diversi metri, con le pareti rocciose
e scabre, come quelli delle vecchie miniere d’oro.
Possibile che quei criminali avessero avuto il tempo di fare una cosa
del genere? E dove conduceva?
Non potendosi dare una risposta alla prima domanda, decise di trovarne
una almeno per la seconda.
Senza mai staccare la mano dalla parete alla sua sinistra e con la
torcia mal funzionante sotto l’ascella destra, procedette a
testa china per qualche metro, fino a quando un tremendo boato alle sue
spalle non fece tremare le pareti che addirittura crollarono
là dove c’era la botola.
Ora era definitivamente in trappola in quel tunnel e non poteva che
andare avanti, sperando che la sua nemica non fosse già
troppo lontana.
Camminò per una cinquantina di metri e poi, finalmente,
sentì un odore diverso nell’aria, o per meglio
dire una puzza diversa. Svoltando l’angolo, vide che il
tunnel era finito e portava direttamente nei condotti fognari sotto le
strade trafficate di Los Angeles.
Non potendosi aggrappare a nulla, fu costretta a tuffarsi
nell’acqua sporca e, nonostante le arrivasse appena alle
cosce, si bagnò tutta a causa della corrente che,
più forte di quello che credeva, l’aveva spinta in
avanti.
Alla sua imprecazione se ne susseguì un’altra, in
cinese, che le fece drizzare la testa e dimenticare le ferite e
l’acqua che le infradiciava i vestiti. Seguì il
tunnel con le spalle contro la parete di mattoni coperti
d’umidità, la pistola nella mano sinistra, e poco
prima di svoltare due proiettili colpirono l’angolo del muro
dietro il quale era nascosta. Dopodiché il rumore dei passi
veloci dell’asiatica le fecero intuire che stava scappando.
Non glielo avrebbe mai permesso, non ora che le era così
vicina.
La inseguì in quella città sotterranea e
puzzolente e il suo pensiero corse per la prima volta a Dylan e
Michael: sicuramente erano in pena per lei, lei che li aveva lasciati
senza dire niente per inseguire la donna autrice di tutte le morti e le
sofferenze che aveva patito in quegli anni. Pensò anche a
Carter, rimasto nella cantina, preferendo non chiedersi se si fosse
salvato, e poi anche a Tom. Quella volta si sarebbe arrabbiato sul
serio, già lo sentiva urlarle improperi tra le lacrime. Ma
prima doveva portare a termine la sua missione e sopravvivere.
Dovette appiattirsi di nuovo contro il muro per evitare un paio di
pallottole e quando si sporse oltre l’angolo vide
l’asiatica salire una scaletta ed aprire il tombino sopra la
sua testa. Era la sua occasione: sparò con un occhio chiuso
per prendere meglio la mira, ma sfortunatamente la mancò
– non era mai stata brava a sparare con la sinistra
– e lei non fu tanto stupida da perdere altro tempo.
Una volta sparita alla sua vista, Grace corse alla scaletta e con
sforzo immane, sentendo il morso sul braccio pulsare mentre tornava a
sanguinare copiosamente, tenne sollevato il tombino per perlustrare
l’esterno. Vide alcune auto parcheggiate di fronte a
sé e ad istinto decise che il posto in cui erano sbucate
doveva essere un garage sotterraneo.
Senza darsi troppa pena nel cercarla, vide l’asiatica
sfrecciare di fronte a lei in sella ad una moto da corsa verde acido,
con un casco nero e dalla visiera lucida infilato sul capo.
La vide uscire dal garage e allora si affrettò a risalire in
superficie, gettandosi di fronte ad un auto diretta verso
l’uscita, che inchiodò appena in tempo per non
falciarle le gambe.
«Cristo, è per caso impazzita?!»,
gridò l’uomo ancora nella sua divisa da fast-food,
sporgendosi fuori dal finestrino.
Grace corse alla portiera e l’aprì, constatando
con enorme sollievo che era solo nell’abitacolo.
«La prego di scendere, sono un’agente di polizia e
sto per perdere le tracce della criminale che sto inseguendo».
«Che cosa?! Lei non sembra un’agente di
polizia!», ribatté, lanciandole
un’occhiata sommaria.
«Come crede, ma mi serve la sua auto. Subito».
L’uomo ancora seduto al posto di guida fece per aprire la
bocca e ribattere ancora una volta, ma Grace, visto che le buone
maniere non erano servite e ogni secondo era prezioso, gli
puntò contro la pistola. L’uomo
impallidì e in un attimo fu giù
dall’auto, con le mani sollevate.
Grace si gettò uno sguardo intorno, individuò una
telecamera attiva e sperando che Dylan e Michael potessero
rintracciarla annuì guardando dritto
nell’obbiettivo. Quindi si mise al volante e senza nemmeno
assicurarsi che la portiera fosse chiusa a dovere pestò il
piede sull’acceleratore, partendo con una sgommata sul
cemento verniciato di rosso.
Uscì dal garage sotterraneo e ringraziò che fosse
notte fonda, perché non avrebbe sopportato la luce dopo aver
frequentato solo posti bui.
Fece in tempo a vedere la moto verde acido in fondo alla strada, prima
che svoltasse, e si regolò di conseguenza, andando a
tavoletta e sterzando bruscamente se necessario, sommersa da una
cascata di clacson.
In poco tempo recuperò terreno e nonostante la moto potesse
zigzagare tra le auto la raggiunse e per poco riuscì anche a
sfiorarne la ruota posteriore col paraurti.
L’asiatica accelerò e come Grace temeva si
voltò per spararle in corsa, cosa che lei non avrebbe mai
fatto perché nelle sue condizioni non poteva essere certa
della sua mira e non voleva che innocenti ci andassero di mezzo.
Il parabrezza si incrinò in due punti, ma Grace, sprofondata
nel sedile, riusciva a vedere abbastanza da non restare mai indietro,
in quell’inseguimento che sarebbe potuto tranquillamente
passare come la scena clou di un film d’azione.
Presa com’era nel non perdere d’occhio
l’asiatica e nell’evitare scontri con auto e
pedoni, non si era accorta che il paesaggio era cambiato da qualche
tempo: i grattacieli e le palme erano lontani ormai, di fronte a loro
solo distese di terra bruciata e l’asfalto
dell’autostrada che portava dritta dritta al confine con il
Messico. Stava tentando di espatriare, ma se questo poteva essere un
problema per i federali e la polizia in generale, non lo era di certo
per Grace.
Con un’accelerata che fece andare su di giri il motore della
Mazda che aveva trovato sul suo cammino, si avvicinò a lei
ancora di più e dato che non avevano auto né
davanti né dietro, le restituì i colpi che le
avevano e le stavano tutt’ora incrinando il parabrezza.
Allungò il braccio sinistro fuori dal finestrino e
sparò: la ruota posteriore esplose, facendo sbandare
violentemente la moto contro il guard-rail; il secondo colpo, invece,
colpì l’asiatica alla schiena e Grace la vide
chiaramente gettare la testa all’indietro, in un muto grido
di dolore lanciato contro il cielo, prima di cadere e rotolare a terra
per qualche metro, mentre la moto si sdraiava su un fianco e roteava
con mille scintille fino al guard-rail.
Grace fermò l’auto e scese, sentendo il braccio
destro sempre più pesante, inerte lungo il fianco. Si
fermò accanto al corpo dell’asiatica e la
disarmò dando un calcio all’arma che teneva in
mano. Quindi si inginocchiò e fissò gli occhi nei
suoi, che ancora si muovevano con una scintilla di vita al loro
interno.
«Sei stata tu ad uccidere mio padre. Sei stata
tu!», gridò e l’afferrò per i
capelli, desiderando una conferma, ma la donna si stampò un
sorriso quasi inebetito sul viso, guardando il cielo oltre la spalla di
Grace.
Grace puntò la canna della pistola contro la sua fronte e
chiuse gli occhi. In un attimo la sua mente si affollò di
ricordi, da quelli più dolorosi – il ritrovamento
di suo padre morto assassinato nel suo ufficio, il viso pesto di sua
madre dopo che era stata aggredita, Lionel in ospedale, sopravvissuto
per miracolo ad una morte per dissanguamento in un motel di Tijuana
– a quelli più felici – i momenti
trascorsi con Dylan, con Bill, con Molly… con Tom.
Rammentò un pezzo di una conversazione intrattenuta con lui
una sera:
«A volte mi
chiedo che cosa farei io se mi trovassi di fronte alla persona che ha
ucciso a sangue freddo mio padre e… non lo so, non lo so se
la ripagherei con la stessa moneta oppure lascerei la giustizia alla
legge… non ne ho idea».
«Sono certo che faresti la cosa giusta».
E poi,
improvvisamente, rivide in maniera nitida, tanto da toglierle il fiato,
il bambino che aveva avuto come apparizione quando era stata ad un
passo dalla morte in quel vicolo a Berlino. Il bambino di Tom, il loro
bambino.
Era ancora china sul corpo dell’asiatica, sempre meno
cosciente a causa del proiettile che aveva nella schiena e da cui
perdeva moltissimo sangue, con la canna della Glock contro la sua
fronte, ma non sapeva più cosa fare, quale fosse la cosa
giusta.
Vendicare la morte di suo padre con le sue stesse mani, oppure lasciare
quel compito alla legge? Macchiarsi del sangue dell’assassina
di suo padre, come lei si era macchiata del suo?
Il rumore assordante delle pale di un elicottero che volava sopra la
sua testa la fece tornare alla realtà. Alzò il
capo verso il cielo, poi si guardò attorno e vide un paio di
auto ferme vicine alla Mazda che aveva preso in prestito. Due uomini
erano scesi dai veicoli e chissà da quanto osservavano la
scena impietriti, uno con il cellulare con il quale aveva chiamato il
911 ancora stretto in mano. Grace fece viaggiare il suo sguardo fino a
quando non scorse all’interno di una delle auto, seduto sul
sedile posteriore, il viso di un bambino di cinque o sei anni, nel
quale erano incastonati due occhi verdi spalancati. Somigliava a suo
padre da piccolo.
A quel pensiero Grace stese un sorriso stanco e dolente, ma anche con
una punta di ironia agli angoli delle labbra, e scoppiò in
lacrime, lasciandosi cadere accanto al corpo dell’asiatica,
sull’asfalto ormai freddo, illuminata dal cono di luce
proveniente dall’elicottero.
Quando aveva aperto gli occhi, aveva subito capito di essere in
ospedale e aveva cercato di capire che ora fosse, ma la sua
più totale attenzione era stata catturata dal braccio
fasciato che aveva provato ad alzare per aggrapparsi alla sbarra del
suo letto. Il braccio destro, quello che era stato morso dal rottweiler
in quella cantina.
L’aveva sentito pesante, come se le avessero colato del
cemento nelle giunture, ma c’era qualcos’altro ora,
qualcosa di ben peggiore: non riusciva a muoverlo dal gomito in avanti,
compresa la mano che, per quanto si sforzasse, rimaneva inerte, le
cinque dita abbandonate sul lenzuolo bianco.
Le lacrime le punsero gli occhi, ma in quel momento la porta della sua
camera venne spalancata e Dylan la guardò con gli occhi
sbarrati, manco si fosse materializzata lì dal nulla, e un
sorriso entusiasta sulle labbra.
Era sporco dalla testa ai piedi, i capelli e i vestiti erano ancora
impregnati dell’odore del fumo dell’incendio e
aveva delle terribili ombre violacee intorno agli occhi, ma tutto
sommato era okay, come se lo ricordava, e questo la rincuorò
almeno un po’.
«Ehi, sei sveglia. Come stai?».
Grace, senza distogliere lo sguardo dal suo, felice e luminoso come
quello di un bambino a Natale, provò di nuovo a stringere il
lenzuolo tra le dita. Invano.
«Bene», mentì con la voce arrochita,
cercando di sorridere. «Tu? Michael?».
«Stiamo tutti e due bene, anche se ci hai fatto passare dei
brutti quarti d’ora. Non farlo mai più, ti
supplico».
Grace gli rivolse un altro tenue sorriso velato di compassione,
più per se stessa che per lui.
«Ho parlato con Tom», esclamò il
poliziotto dopo un attimo di silenzio, questa volta con tono amorevole
ed avanzando di un passo. «Gli ho raccontato tutto quello che
è successo, o almeno quello che sapevo. Credo che in questo
momento stia discutendo con il manager della band. Fosse stato per lui
avrebbe preso il primo volo disponibile».
«Certo, sai com’è fatto»,
rispose, ma il solo pensiero di non poterlo più accarezzare
con entrambe le mani, perché una paralizzata, la sconvolse
tanto da farla tremare impercettibilmente. Così, per
distrarsi, gli chiese: «E Carter? Era ferito, lui
come…?».
«Carter?», domandò cautamente Dylan,
quando lei si interruppe di fronte alla sua espressione sconcertata.
«Sì, lui… lui era con me, nella
cantina, mi ha salvata ancora… Dylan,
lui…».
«Aspetta un momento, me lo spiegherai dopo. Adesso ti chiamo
un dottore».
Grace lo lasciò fare. Lo guardò mentre usciva
dalla porta, ancora con quell’espressione confusa e scettica
sul viso, che aveva spazzato via la sua gioia di vederla viva e vegeta.
Poi si concentrò di nuovo sul suo braccio e sulla sua mano,
ancora immobili.
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Capitolo 31 *** Capitolo 29 ***
Capitolo 29
“Lights
will guide you home
and ignite your bones…
And I will try to fix you”
(Fix you - Coldplay)
Ci vollero quasi due giorni e
varie sfuriate con David e Benjamin prima che Bill e Tom ottenessero il
permesso di tornare a Los Angeles.
Ora, sul jet privato che il padre di Molly aveva messo a disposizione
della figlia e della moglie e inaspettatamente anche per loro due, Tom
continuava a mangiucchiarsi le unghie, nervoso e conscio del suo
aspetto quasi spettrale, con quelle occhiaie, frutto delle ultime notti
insonni, che nemmeno la loro truccatrice era riuscita a nascondere del
tutto.
Non vedeva l’ora di tornare a casa e di stringere forte Grace
tra le braccia. Aveva rischiato la vita ancora una volta e non
l’aveva nemmeno avvertito, ma non gli importava: non voleva,
non poteva essere arrabbiato con lei e litigarci dopo averla quasi
persa per sempre un’altra volta.
Ricordava ancora perfettamente la telefonata di Dylan, che
l’aveva costretto a sciogliere l’abbraccio con
Molly ancora in lacrime e che l’aveva ridotto a pezzi,
nonostante il poliziotto s’era dimostrato tanto euforico da
apparire quasi isterico, dopo tutto lo stress e la paura che aveva
dovuto sopportare non sapendo se Grace fosse viva o morta, da una parte
o dall’altra di LA. Gli aveva comunicato con gioia che
finalmente era finita, che quell’odissea era giunta al
termine; che Grace stava bene, anche se era stata diverse ore in sala
operatoria a causa di una brutta ferita al braccio destro. Ma era viva
e questo era quello che contava, no?
Dopo quella telefonata non aveva avuto la forza nemmeno di scendere
nella sala ristorante, dove i suoi compagni di band e amici lo
attendevano per cenare. Era stata Molly ad avvisarli
dell’accaduto, o almeno a riferirgli ciò che era
riuscita a capire dal confuso racconto del chitarrista, sperduto e
profondamente sconvolto.
Quella notte, costantemente sorvegliato dal fratello, il quale aveva
iniziato per lui la lotta contro David, non aveva chiuso occhio,
restando in silenzio a fissare il soffitto sopra la sua testa.
Solo allo spuntare dell’alba, tanto all’improvviso
da far spaventare Bill, era tornato in sé e aveva picchiato
contro la porta del manager. Gli aveva urlato contro di lasciarlo
andare, gli aveva rivolto i peggiori insulti fra quelli nel suo
repertorio e poi l’aveva implorato, mettendosi addirittura in
ginocchio di fronte a lui. David allora aveva ceduto subito e gli aveva
promesso che tutto si sarebbe sistemato al suo ritorno.
Solo in quel momento, ripensandoci, si rese conto della sua follia: se
avesse davvero voluto vedere Grace si sarebbe precipitato in aeroporto
e avrebbe preso il primo volo, ma per qualche motivo si era aggrappato
ai rifiuti di David e solo ottenuta la sua approvazione si era
costretto a preparare le valigie, sotto le innumerevoli esortazioni di
Bill e Molly.
Il motivo per cui si era comportato in quel modo ancora non lo
conosceva, anche se sospettava che avesse provato paura al pensiero di
vederla in quel letto d’ospedale dopo tutto ciò
che aveva passato e rischiato, paura di essere contaminato dal suo
dolore, paura della sua reazione e di non reggere ai suoi occhi ora che
tutto era davvero finito nella maniera più impensabile.
Ora era pronto, o perlomeno sperava di esserlo, per affrontare tutto
ciò che sarebbe avvenuto da lì in avanti. Voleva
che Grace incominciasse una nuova vita, dimentica dei fantasmi del suo
passato, e che insieme riuscissero a superare ogni
difficoltà presente sul loro cammino.
Dylan era nella sala d’aspetto dell’aeroporto ad
attenderli e non appena li vide oltre i gate sorrise loro e
sventolò debolmente una mano in aria in segno di saluto.
Tom lo guardò in viso e constatò che da quel
punto di vista non era il solo ad avere un aspetto pessimo: anche lui
aveva gli occhi cerchiati da ombre scure, non si faceva la barba da un
paio di giorni e, cosa che più lo inquietò,
sembrava invecchiato, come se sul suo viso, specialmente nel suo
sguardo, fosse rimasta impressa la fatica, il dolore e la
preoccupazione di quelle ore di incertezze e paure, e sulle sue spalle
leggermente curvata in avanti ci fosse un peso troppo grande da
sostenere.
Bill si gettò direttamente tra le sue braccia ed
affondò il viso nel suo collo, le dita fra i suoi capelli
neri scompigliati, fregandosene di poter essere riconosciuto o peggio
ancora paparazzato.
Tom, avvicinandosi, sentì la sua voce mugugnare frasi
incomprensibili e vide Dylan annuire con piccoli cenni del capo, mentre
gli accarezzava la schiena e respirava profondamente il suo profumo.
«Ti amo anche io» furono le uniche parole che Tom
sentì pronunciare dal poliziotto, proprio prima che i due si
staccassero.
Avrebbe dovuto esserne imbarazzato oppure sogghignare dicendo una
battuta stupida sulla sdolcinatezza di quella scena, ma sul suo viso
non apparvero sintomi né dell’una né
dell’altra cosa, quasi come se fosse una maschera.
Salutò Dylan con un abbraccio più breve, come
fece Molly, poi i tre ragazzi si avviarono fuori
dall’aeroporto per montare sull’auto personale del
poliziotto. La ragazzina e sua madre, invece, si diressero verso la
limousine che le attendeva.
Fu un vero piacere non dover prendere scorciatoie scomode a causa delle
fan o dei paparazzi, ma Tom fu ugualmente infastidito quando, uscendo
dalle porte scorrevoli, una ragazza con un cappellino da baseball blu
scuro e un paio di grossi occhiali da sole lo urtò facendo
scontrare le loro spalle. In quella frazione di secondo anche le loro
mani si erano sfiorate e il chitarrista aveva provato un brivido
corrergli su per la schiena, ma lì per lì non vi
aveva dato peso e aveva sbottato: «Stai attenta a dove
vai».
La ragazza non si scusò né si voltò a
guardarlo e in un attimo, il tempo che impiegò Tom per
voltarsi e dirgliene quattro sulla maleducazione, era già
sparita tra la folla.
«Tom, ti muovi?», lo incalzò suo
fratello, già sotto il sole del primo mattino.
Il chitarrista scrollò il capo, anche se piuttosto stizzito,
e raggiunse i due senza aprire bocca. Quindi sistemarono i loro bagagli
a mano nel baule dell’auto di Dylan e si immisero nel
traffico cittadino.
«Grace verrà dimessa proprio oggi
pomeriggio», disse Dylan ad un certo punto, rompendo il
silenzio.
Tom distolse lo sguardo dal paesaggio fuori dal finestrino e lo
guardò in viso, teso. «E come sta?».
«Fisicamente sta bene, a parte…».
«A parte cosa?».
Bill si sporse verso i sedili anteriori, anche lui col fiato sospeso.
Il poliziotto sospirò e scrollò il capo,
mormorando quasi tra sé: «Mi ha fatto promettere
di non dirtelo, che te l’avrebbe detto
lei…».
Tom strinse i denti, innervosito da tutti i segreti con cui non si era
mai abituato a convivere. «Ormai è tardi, Dylan.
Che cos’ha?».
«Lei ha… ecco… non riesce a muovere
l’avambraccio e la mano destra perché alcuni nervi
sono stati danneggiati, tra cui anche quelli della
sensibilità», sfiatò, invecchiando di
un altro paio d’anni.
A quelle parole Tom si voltò di nuovo verso il finestrino,
gli occhi fissi su un punto lontano.
«Mi dispiace», bisbigliò Dylan.
«Il neurologo e il chirurgo hanno detto che
l’intervento è andato bene e può darsi
che si tratti di una paralisi temporanea, che pian piano, con un
po’ di fisioterapia, tornerà tutto come prima,
ma...».
«Cosa?», chiese ancora Tom, con la voce rotta da un
pianto lacerante e silenzioso.
«Lei non sembra ottimista. In questi giorni è
stata taciturna, non mangiava quasi nulla… è come
se quella puttana le avesse rubato l’anima».
Strinse forte il volante tra le mani, ma poi allentò la
presa, addolcendo l’espressione sul suo viso.
«Spero che possa riprendersi, con te».
Lo speravano tutti, ma non fu così.
Quando giunsero all’ospedale seguirono il poliziotto, il
quale li condusse con passo sicuro fino alla sua stanza. Entrarono
senza bussare e la trovarono… vuota. Il letto su cui Dylan
l’aveva vista sdraiata prima di lasciarla era sfatto e non
c’era traccia della borsa con i vestiti di ricambio che lui
stesso era andato a prenderle nel suo appartamento il giorno prima.
«Forse… forse le hanno cambiato stanza. O
forse… forse è stata dimessa
prima…», balbettò, scioccato.
Purtroppo però ci volle molto poco per mandare in frantumi
entrambe quelle ipotesi.
«Ne è proprio sicura?», chiese Bill per
l’ennesima volta e l’infermiera dietro il bancone
annuì, confusa e stupefatta quanto lui.
«Ne sono certa, signor Kaulitz. Grace Schneider non
è stata né dimessa
né…».
«La prego, chieda alle sue colleghe: magari il computer
è guasto e…».
La donna gli rivolse uno sguardo compassionevole, muovendo lentamente
il capo a destra e a sinistra.
Allora Bill si voltò, sull’orlo della
disperazione, e vide Dylan fissare il suo cellulare con sguardo vacuo.
Dopo qualche secondo alzò la testa e bastò
davvero un solo sguardo per capire che né sua madre
né Michael avevano sue notizie.
Quando gli fu vicino, gli prese la mano e tenendo gli occhi bassi
mormorò: «Michael mi ha detto che sarebbe andato
subito al suo appartamento, ma ho paura che…».
«Eccomi!», esclamò Molly, attraversando
la sala d’aspetto. Dalle espressioni dipinte sui loro visi
capì immediatamente che doveva essere successo qualcosa di
grave, tanto che il suo sorriso scomparve com’era venuto e i
suoi occhi divennero vigili ed attenti.
«Dov’è Tom?».
Bill e Dylan si guardarono e un secondo dopo schizzarono lungo il
corridoio, diretti verso quella che fino a poco prima era stata la
camera di Grace, dove Tom era rimasto per tutto il tempo.
Durante il tragitto passarono accanto ad una ragazza, la quale,
preoccupata, aveva fermato un’infermiera chiedendole con foga
se avesse visto un cappellino da baseball blu scuro in sala
d’aspetto, dove l’aveva sbadatamente dimenticato
mentre lei e il suo ragazzo aspettavano il loro turno.
«Oh, come farò? Ci teneva moltissimo!»,
aveva persino piagnucolato, dopodiché Bill e Dylan, con
Molly al seguito, erano passati oltre, fermandosi di fronte
all’unica porta aperta. Tom era seduto sul letto sfatto di
Grace, con lo sguardo fisso sul pavimento.
«Se n’è andata», disse
mestamente, la voce lontana mille miglia.
«È impossibile, non avrebbe mai fatto una cosa del
genere», ribatté Dylan e solo allora il
chitarrista posò gli occhi colmi di lacrime su di lui, il
viso che rispecchiava perfettamente il suo stato d’animo: un
mix di dolore e rabbia.
«L’ho vista stamattina all’aeroporto. L’ho
vista e non l’ho riconosciuta!».
«Tom…».
«Bill, te la ricordi la ragazza che mi è venuta
addosso? Indossava un cappellino identico a quello che sta cercando la
ragazza qui fuori! E non mi ha chiesto scusa, quando ci siamo
scontrati, perché sapeva che avrei riconosciuto la sua voce!
Era Grace, Bill! Era lei…».
Il cantante lo travolse in un abbraccio stretto, nascondendogli il viso
rigato di lacrime contro il suo petto.
«Era Grace… Grace…». Tom
continuò a mugugnare il suo nome per molto tempo, fino a
quando non ebbe versato tutte le sue lacrime.
TRE SETTIMANE DOPO
«Ti prometto che
quando questo caso sarà chiuso e mi prenderò una
vacanza partiremo, solo io e te. E torneremo alle nostre
origini».
Grace corrugò la fronte, stranita. «Le
nostre… origini?».
Mitch sorrise raggiante, alzandosi e andando alla porta.
«Sì. È molto importante ricordare chi
si è, tornare nei posti in cui si è
nati… È confortante. Soprattutto nei momenti
difficili».
Tornare alle origini. Era quello che aveva fatto, ma non per trovare
indizi che avrebbero incastrato gli assassini di suo padre. No, quella
volta l’aveva fatto per se stessa, unicamente per se stessa,
per capire chi era davvero e che cosa ne avrebbe fatto, d’ora
in avanti, della sua vita.
Se quando aveva deciso di rinunciare alle indagini, dopo la sparatoria
in cui era stato coinvolto Tom e dopo l’aggressione a sua
madre, si era sentita in qualche modo sperduta, brancolante nel buio
senza quel punto fermo, lo scopo che per anni era stato
l’unico nella sua vita – dare giustizia a suo
padre, – tre settimane prima si era sentita addirittura
un’estranea nel suo stesso corpo, una persona svuotata, senza
più niente da offrire e da poter ricevere.
La consapevolezza che non si era lasciata quel caso alle spalle di sua
spontanea volontà, ma che era stato chiuso e risolto
definitivamente, senza possibilità che potesse riprenderlo
in mano come aveva fatto la prima volta, la stordiva ed era come se
davvero non avesse più nessuna luce ad illuminarle la via
che doveva percorrere. Era come un’astronauta galleggiante
nello spazio infinito e sola, senza sapere dove e come muoversi.
In quel letto d’ospedale aveva pensato molto, però
non aveva trovato risposta a nessuna delle sue domande. Così
aveva deciso di seguire il consiglio di suo padre ed era tornata alle
sue origini, a Berlino.
Il periodo di permanenza nella capitale della Repubblica Federale
Tedesca si era prolungato: dalla settimana programmata era passato
velocemente a due, poi a tre.
In quei venti giorni, trascorsi per la maggior parte tra le strade
della città, sotto i monumenti che erano tanto piaciuti a
Dylan, nei pub oppure semplicemente nella stanza della piccola pensione
in cui aveva trovato un confortevole rifugio, aveva riflettuto su tutte
le avversità che la vita le aveva messo davanti senza
scrupolo, a quelle che aveva superato e a quelle in cui era inciampata,
cadendo rovinosamente a terra per poi riuscire comunque ad alzarsi.
Aveva pensato a tutte le vite che aveva attraversato brevemente nel
corso dei suoi anni da detective, come aveva fatto poco tempo prima nel
suo ufficio, sistemando l’archivio dei suoi casi, e quelle in
cui, invece, aveva sostato più a lungo, sentendosi amata e
ricambiando quel sentimento. Aveva pensato a sua madre, aveva pensato
ai suoi amici, a Bill, a Molly, a Andrew, a Dylan. Aveva pensato a
Tom… E ogni volta trovava deplorevole il fatto che non
avesse avuto il coraggio di fargli sapere che stava bene, che aveva
solo bisogno di un po’ di tempo, prima di salire
sull’aereo che l’avrebbe portata a Berlino.
Sapeva di aver agito egoisticamente, ma per una volta, una soltanto,
era certa di aver agito per il meglio: purtroppo, nemmeno la presenza
di Tom sarebbe riuscita a sollevarla. Doveva farlo con le sue sole
forze, tornare in piedi da sola, o sarebbe rimasta sempre a terra, a
guardarsi con pietà mentre conduceva una vita tutto sommato
serena, grazie alle magnifiche persone che la circondavano
immeritatamente, ma una vita non pienamente felice e completa. Prima
doveva accettare che quella parte fondamentale della sua vita fosse
stata chiusa e doveva lasciarla andare, altrimenti quella zavorra
l’avrebbe accompagnata per sempre nel corso degli anni.
Era quello che aveva fatto durante quelle tre settimane: aveva lasciato
andare suo padre, percorrendo le stesse vie che anche lui aveva solcato
da ragazzo, gli stessi prati in cui lui aveva corso giocando a pallone,
gli stessi bar dove lui si era ubriacato.
Suo padre e tutte le persone che avevano tentato di portare a galla il
coinvolgimento di alcuni ufficiali della Marina Militare degli Stati
Uniti nella vendita di armi ai terroristi iracheni avevano avuto
giustizia, perché il killer, poi rivelatosi in quella donna
asiatica, sopravvissuta ma paralizzata a vita su una sedia a rotelle,
dal carcere aveva voluto portare a fondo con lei tutti quelli che
l’avevano assoldata per sbrigare i loro crimini.
Aveva lasciato andare il caso e tutto il dolore che le aveva provocato,
anche se ne avrebbe per sempre portato le cicatrici sulla pelle, sul
cuore e nella mente, e aveva guardato al futuro, per la prima volta con
chiarezza.
Aveva visto sua madre, di nuovo con il suo sorriso e i suoi biscotti;
aveva visto Molly ridere con i suoi amici, Sheila e Ben, oppure
abbracciata al suo nuovo fidanzato, Aiden; aveva visto Bill e Dylan,
ormai non più timidi nel mostrare al mondo che erano una
coppia; aveva visto Tom, il suo sorriso, i suoi occhi nocciola, caldi,
amorevoli, divertiti, maliziosi, arrabbiati, e ancora incuriositi,
ombreggiati dalla tristezza, lucidi di lacrime, ardenti di passione;
aveva visto se stessa, accanto a lui, e aveva visto il bambino che
prima o poi avrebbero avuto insieme, quello alla cui immagine nella sua
mente si era aggrappata nei momenti peggiori, ad un passo dalla morte,
quando non aveva altro che lui per sopravvivere.
Era stato proprio pensando a quel bambino non ancora venuto al mondo
che, in una notte con la luna piena ad illuminare la Colonna della
Vittoria, aveva capito chi era e che cosa voleva dalla sua vita.
La cima della Colonna della Vittoria era uno straordinario punto
d’osservazione, dal quale si poteva vedere tutta Berlino e
sentirsi allo stesso tempo un po’ più vicini al
Paradiso.
Una folata di vento le scompigliò i capelli e Grace
sollevò il viso verso il cielo bianco, annuvolato. Quindi
abbassò gli occhi ed incrociò quelli castani di
un uomo che nel profondo del suo cuore non era mai scomparso.
«Non credi sia il momento di tornare a casa?», le
domandò, sorridendole dolcemente.
Grace annuì con un cenno del capo e si allontanò
dal parapetto, per poi scendere lentamente le scale.
Una volta sbucata fuori dal sottopassaggio, gettò un ultimo
sguardo alla statua di bronzo della dea Vittoria, con le sue ali
spiegate verso un mondo di infinite gioie ed infiniti dolori. Sorrise
nella sua direzione e poi si incamminò, dritta per la sua
strada, senza badare se John Carter le stesse guardando le spalle o
meno.
***
Bill salì al piano
di sopra con passo strascicato, ancora po’ insonnolito, e si
domandò perché mai Tom lo avesse svegliato solo
per dirgli che usciva con i cani.
Stava per entrare nella sua camera e gettarsi sul letto per continuare
la sua pennichella, quando vide la porta aperta in quella di suo
fratello.
Era da tre settimane, esattamente da quando Grace se n’era
andata, che Bill non entrava in quella camera, sotto tacito divieto di
Tom.
Non avrebbe dovuto farlo, ma la preoccupazione prese il sopravvento e
lo spinse ad introdurvisi con cautela, come se il suo gemello fosse
lì seduto sul suo letto sfatto, pronto a cacciarlo fuori con
irruenza.
Non vide nulla di diverso dal solito, tra cui il fatto che non fosse
improvvisamente diventato ordinato, ma lo schermo acceso del suo PC
portatile lo incuriosì, tanto che si sedette alla scrivania
e levò lo screensaver muovendo il mouse.
Gli mancò il respiro, quando vide che Tom aveva creato una
cartella con il nome di Grace. La aprì e al suo interno vide
diverse foto di Tom e Grace, scattate dalla madre della ragazza prima
che uscissero per il loro primo appuntamento, altre scattate dai
paparazzi e persino alcuni video recuperati da Internet. Poi
c’erano altre foto, molto differenti, che ritraevano una
Grace bambina, imbronciata o sorridente, sull’altalena o che
correva nel prato, e infine un primo piano con suo padre, un uomo che
le somigliava in tutto e per tutto.
Le lacrime gli salirono agli occhi contemplando quella foto, tanto che
dovette chiuderla per non pensare a quanto Grace gli mancasse.
A volte si sentiva soffocare non sapendo dove fosse, che cosa stesse
facendo o se semplicemente stesse bene, e si rendeva conto che se lui
stava così male non poteva nemmeno immaginare il dolore muto
di Tom. Muto, perché mai fino ad allora si era lasciato
andare di nuovo. Teneva tutto dentro di sé, coltivando la
sua sofferenza in solitudine e in silenzio; si comportava e parlava
come se non fosse successo niente, come se Grace non fosse mai
esistita, ma Bill glielo leggeva negli occhi, in ogni momento, che gli
mancava da morire: di mattina, se per caso gli capitava di sognarla
durante la notte; di pomeriggio, se si soffermava a fissare un punto
sul pavimento anziché guardare la TV o giocare coi cani; di
sera, quando restava per interi quarti d’ora a fumare da
solo, sotto il porticato nel giardino sul retro, sperando magari di
veder spuntare i fasci di luce prodotti dai fanali del suo fuoristrada.
E chissà, in quella camera in cui lui si era intrufolato
come un ladro, quante volte aveva pianto la sua assenza, aveva
soffocato le grida di rabbia, aveva fissato con aria assente la
finestra.
Bill si sentì male improvvisamente, intruso in
quell’ambiente in cui non gli era permesso entrare, e fece
per chiudere la cartella e andarsene, quando si accorse
dell’ultima foto presente, salvata da pochi giorni con il
nome “Berlino”. La aprì e la
fissò per qualche istante, come rapito: Grace che con un
bicchiere di caffè in mano camminava nella piazza di fronte
alla Porta di Brandeburgo.
Grace, a Berlino, beccata da chissà quale paparazzo
fortunato. Tom sapeva che era a Berlino, città natale di suo
padre, e non aveva fatto niente per raggiungerla.
In un attimo sentì la rabbia circolargli nelle vene,
chiedendosi perché non si fosse precipitato da lei. Poi
chiuse gli occhi e sospirò stancamente. «Oh,
Tom…».
Rimase lì seduto ancora per qualche secondo, fino a quando
il suono del citofono al piano di sotto non lo fece sobbalzare sulla
sedia. Che Tom fosse tornato e si fosse dimenticato le chiavi?
Chiuse in fretta e furia la cartella, sapendo perfettamente che lo
screensaver non sarebbe apparso se non tra una decina di minuti buoni.
Non aveva tempo però per modificare l’opzione,
quindi si morsicò l’interno della guancia ed
uscì di corsa dalla camera, socchiudendo la porta
così come l’aveva trovata.
Corse a precipizio giù dalle scale, per poi fermarsi
bruscamente di fronte alle porte vetrate, gli occhi sbarrati dalla
sorpresa e dall’incredulità.
Cercò con la mano il tasto per aprire il cancelletto e
restò paralizzato sul posto mentre osservava quel miraggio
attraversare il giardino sul retro: aveva il braccio destro fuori dalla
manica della giacchetta di pelle marrone, ciondolante lungo il fianco,
e sul viso un sorriso che racchiudeva l’emozione e la
felicità di essere tornata a casa.
«Ciao, Bill».
«G-Grace…».
«Sì, sono io. Sono tornata». Gli avvolse
il braccio buono intorno al collo in un timido abbraccio e
sussurrò ancora: «Mi sei mancato».
Bill si morse le labbra, gli occhi ormai colmi di lacrime, e
ricambiò con una stretta vigorosa, come se volesse
accertarsi che fosse lì, in carne ed ossa.
«Oh Grace, non ci posso credere!».
«Sono qui, Bill, sono qui».
«Lo so, ma…». La scostò
delicatamente per guardarla in viso e la sua espressione felice ed
incredula mutò in una dispiaciuta. «Tom non
c’è, è andato a fare quattro passi con
i cani».
Grace annuì lentamente e poi gli rivolse un altro sorriso,
anche se i suoi occhi erano velati da una pesante coltre di malinconia
che li rendeva opachi ed insicuri.
Qualcosa era decisamente cambiato in lei: insieme ad una parte del
braccio destro sembrava aver perso un altro pezzo di sé,
tanto consistente da lasciarle un buco profondo nell’anima,
che andava assolutamente riempito. Però, leggendo ancora
più a fondo nel suo sguardo, notò con ammirazione
che era consapevole, consapevole e sicura del fatto che non sarebbe
stato facile, che aveva scelto da sé la
difficoltà da affrontare e che intendeva andare fino in
fondo, accanto a loro, accanto a Tom. Era per questo che era tornata.
«Dobbiamo aspettarlo qui in giardino oppure posso
entrare?», gli domandò con tono scherzoso,
facendolo sorridere mentre la stringeva in un nuovo abbraccio carico
d’affetto.
***
Non te la darò
vinta, Grace.
Lanciò
ancora una volta la pallina da tennis e ne seguì la
traiettoria fino a quando non finì tra alcuni cespugli, nei
quali i due cani si erano tuffati per recuperarla.
Grace se n’era andata da tre settimane ormai e non gli aveva
lasciato nemmeno un biglietto. Nemmeno un dannato biglietto.
La sua partenza improvvisa, o meglio la sua fuga,
l’aveva, come dire, reso una specie di essere amorfo, tanto
che per i primi due giorni si era rintanato nella sua camera
rifiutandosi di mangiare e facendo preoccupare Bill a morte. Poi era
riemerso e aveva fatto del suo meglio per somigliare almeno
apparentemente al Tom di sempre. Ma quando calava la sera, oppure non
aveva niente con cui distrarsi abbastanza, tornava a rifugiarsi nella
sua camera e i suoi pensieri erano tutti rivolti a lei. Stava bene?
Dov’era? Cosa faceva? Lo pensava ogni tanto? Si sentiva in
colpa, almeno un po’, per averlo lasciato in quel modo?
Quando sarebbe tornata?
Si era fatto molte teorie, aveva molto fantasticato, immaginando
persino che avesse cambiato identità per iniziare una nuova
vita, resettando quella precedente.
Poi quella foto della sua Grace a Berlino, scattata da una fan che
l’aveva riconosciuta e l’aveva messa in rete.
Grace era tornata dove suo padre aveva vissuto la sua infanzia e la sua
adolescenza e allora aveva capito che sarebbe tornata. Prima o poi
l’avrebbe fatto, ne era sicuro. Perché la sua
Grace aveva bisogno di tempo per metabolizzare la fine di quel libro
scritto da mani che non erano state quasi per niente le sue. Aveva
bisogno di tempo anche per accettare l’inevitabile, ossia che
d’ora in avanti avrebbe dovuto impugnare la penna della sua
vita e farla scorrere su nuove pagine bianche. Doveva capire quali
sarebbero stati i protagonisti della sua trama, tra cui anche la
persona che lei stessa voleva essere. Poi sarebbe tornata da lui, nel
peggiore delle ipotesi anche solo per dirgli che voleva ricominciare da
zero. Nella migliore delle ipotesi, invece, sarebbe tornata da lui per
dirgli che lo amava, che voleva stare con lui, e che insieme avrebbero
saputo andare avanti, in qualche modo.
Era il suo più grande desiderio, ma col passare dei giorni
aveva avuto anche lui il tempo per riflettere – David gli
aveva concesso un po’ di tregua a causa di quegli eventi
spossanti – e aveva deciso che non gliel’avrebbe
fatta passare liscia. L’amava, l’amava tanto, ma
qualcosa gli pungeva fastidiosamente il cuore al pensiero che non si
meritava tutto quello che gli aveva fatto passare. Che cosa aveva fatto
di male, che cosa c’entrava in quella storia, tanto da non
essere nemmeno avvertito quando aveva deciso di partire per quella
pausa di riflessione?
Se fosse tornata da lui rinnovando il suo amore non voleva fare la
figura dell’idiota, di quello che l’aveva aspettata
nonostante tutto, piangendo la sua assenza. Se fosse tornata sarebbe
stato il suo turno nel tenerla a distanza, avrebbe fatto di tutto pur
di farle provare almeno un minimo della sofferenza che aveva provato
lui quando l’aveva estromesso dalla sua vita, mettendo in
dubbio la cosa più importante di tutte: il loro amore.
Poteva sembrare una stupida ripicca, forse lo era davvero, ma non
poteva sopportare che l’avesse fatto soffrire in quel modo
mentre lei, magari, accarezzava l’idea di dimenticarlo, di
cancellare in modo irreversibile tutto quello che avevano passato
insieme.
«Andiamo a casa», mormorò allacciando di
nuovo i guinzagli ai collari dei cani.
Prima però si sollevò e rimase in silenzio ad
osservare il sole riflettersi sulla superficie frastagliata
dell’oceano in un’infinità di scaglie
argentate.
La sera del giorno di San Valentino, poco più di mese prima,
aveva portato Grace in quello stesso luogo e lì, sulla
stessa panchina dove era stato seduto fino a poco prima, lei gli aveva
rivelato che doveva andare a Berlino, quella volta per indagare.
Scrollò il capo per allontanare quel ricordo, quello che
Grace aveva definito scherzosamente «il momento
romantico con il suo fidanzato», e si
incamminò verso l’auto parcheggiata vicino
all’imboccatura del sentiero che portava alla spiaggia.
Quando arrivò sullo sterrato di fronte al giardino sul retro
vide con sua grande sorpresa l’auto di Dylan.
Ricordava perfettamente che a colazione Bill si era lamentato dicendo
che quel giorno non lo avrebbe visto perché da quando Oswin
aveva la gamba ingessata faceva i doppi turni, quindi… che
ci faceva lì la sua auto?
Gettò un’occhiata all’interno, ma non
riuscì a scorgere nessuno in salotto, oltre le porte
vetrate. Quindi fece scendere rapidamente i cani, aprì il
cancelletto e li spinse dentro il giardino, per poi avviarsi a passo
svelto dentro casa.
Sentì delle risate e delle voci in cucina, ma non
riuscì a distinguerle perfettamente le une dalle altre, dato
che si sovrapponevano una volta sì e l’altra pure.
«Bill? Sono tornato», esclamò allora,
anche se la sua voce tradì un certo nervosismo.
Tutto d’un tratto calò il silenzio, cosa che lo
mise ancora di più sulle spine, e nello stesso istante vide
il suo cane preferito correre verso la cucina, superandolo.
«Ciao bello. Ehi… no, non così
vicino».
Quella voce. La sua voce.
Tom raggiunse la cucina con ampie falcate e una volta sulla soglia vide
Dylan e Melanie seduti all’isola della cucina, di spalle alla
porta, mentre Bill era di fianco al cane e tentava di tirarlo
giù dalle gambe di Grace, sulle quali aveva posato le zampe
anteriori, scodinzolando con la lingua fuori dalla bocca, felice di
rivederla.
La detective alzò il capo nella sua direzione e i loro
sguardi si incrociarono, facendo mancare un battito ad entrambi i loro
cuori.
«Ciao, Tom», lo salutò con poca voce, la
bocca impastata nonostante avesse bevuto tè e parlato
normalmente fino a quel momento. «Come… come
stai?».
Il chitarrista, con la netta impressione che la stanza avesse iniziato
a girare intorno a lui e Grace, gli unici punti fermi, si
aggrappò con la mano allo stipite della porta.
«Bene», rispose meccanicamente.
«Tu… quando sei arrivata?».
«Poco fa, eri appena uscito. Ho preso un taxi
all’aeroporto e…».
«Avresti potuto chiamare», disse, ma subito dopo si
morse la lingua: non avrebbe dovuto dirlo, non avrebbe dovuto farle
intendere che lui sarebbe corso da lei se solo l’avesse
avvertito del suo arrivo.
Sul viso di Grace si aprì un sorriso mesto e colmo di
tenerezza. «Lo so».
Tom deviò il suo sguardo, a disagio, e la sua attenzione fu
catturata dal suo cane che, nonostante i silenziosi rimproveri di Bill,
continuava a leccare la mano destra di Grace, senza che lei lo
sentisse. Non a caso se ne accorse solo quando vide quella punta di
angoscia impregnargli gli occhi e ne seguì la traiettoria,
abbassando il viso verso il cane.
«Per favore, Bill, allontanalo», lo
supplicò e Tom intervenne, prendendo il cane per il collare
e strattonandolo verso il salotto, per poi farlo uscire in giardino.
Non tornò in casa, si fermò sotto il porticato,
dove si accese una sigaretta e ne aspirò avidamente il fumo.
Grace era tornata. Grace era in cucina, in carne, ossa e un braccio
inutilizzabile.
Non riusciva a pensare ad altro e quella volta fu lui
l’insensibile, letteralmente, perché non si rese
conto che lo aveva raggiunto. La detective dovette chiamarlo a voce
perché si voltasse e la vedesse seduta sulla panca, con la
mano sinistra che lo invitava ad unirsi a lei.
Tom spense la sigaretta nel posacenere e la raggiunse, sedendosi
accanto a lei ma non abbastanza da poterla sfiorare anche solo
inavvertitamente. Aveva già fatto una gaffe, non intendeva
farne altre, più convinto che mai a non dargliela vinta solo
perché l’amava, gli era mancata da morire e aveva
una monoplegia al braccio.
«Mi dispiace», gli disse come prima cosa,
abbattendo il primo muro di quella sua di per sé effimera
ripicca.
«Mi dispiace di essere andata via in quel modo, di non aver
detto niente a nessuno… Ma non volevo farlo sembrare un
addio».
«Perché, sparendo
cos’è sembrato?», le domandò,
meravigliandosi della sua voce metallica, inflessibile ad ogni emozione.
Grace però non gli diede la soddisfazione di averla
spiazzata e con un sorriso appena accennato continuò:
«Avevo bisogno di stare sola, di riflettere, di farmi
un’idea su ciò che sarebbe potuto accadere in
futuro».
«Potevi farlo anche da qui, non necessariamente dovevi andare
a Berlino».
Quella volta sì che l’aveva sorpresa, glielo lesse
negli occhi, assieme a quella tristezza che gli trapassò il
cuore da parte a parte, tanto da farlo pentire di essersi girato.
«Una fan ti ha fatto una foto, l’ho vista su
Google».
Grace sorrise di nuovo, quella volta divertita. «Tu cercavi
mie notizie su Google?».
Un altro punto per Grace, mentre lui restava il campione assoluto di
ammutinamento contro se stesso.
«Tom… Per favore, guardami».
Il chitarrista sospirò e non poté dirle di no,
così si voltò e fissò gli occhi nei
suoi, due splendidi smeraldi che mai aveva visto così
traboccanti di dispiacere e d’amore.
«Ti capisco, se sei arrabbiato per come ho agito, ma non
lascerò che tu mi butti fuori a calci, non prima di averti
detto che ho pensato a te tutti i giorni, che sentivo la tua mancanza
tutte le notti. Sapevo però di non poter tornare, se prima
non voltavo pagina. Non avresti potuto ottenere nulla da me, ridotta
com’ero tre settimane fa. Avevo bisogno del mio spazio, di
ricomporre i pezzi di me andati in frantumi nel corso degli anni e
lasciati alla deriva. Ma tu, Bill, Dylan, Molly… siete stati
gli unici pezzi che non ho toccato, che erano perfetti nonostante i
loro piccoli difetti. Nessuno sarebbe in grado di incrinarli, quelli,
perché siete voi che me li avete messi dentro a forza,
contro la mia volontà, e non vi ringrazierò mai
abbastanza per averlo fatto. Senza quei pezzi sarei andata davvero in
frantumi, invece pensando a voi costantemente sono riuscita a sistemare
le cose e ora conosco la persona che sono».
Tom capì che era inutile, completamente inutile, tentare di
erigere delle barriere contro di lei. Era la più forte,
aveva già vinto quando gli aveva detto che le era mancato e
che lo aveva pensato, perciò ancora prima che facesse tutto
quel discorso da far venire le lacrime agli occhi.
Abbandonata l’idea di non perdonarla per un po’, le
posò le mani ai lati del viso e le accarezzò i
capelli che eccezionalmente teneva sciolti e le sfioravano le guance.
Osservò le sue efelidi, sicuro che non ne mancasse proprio
nessuna, poi scese sulle sue labbra e le sfiorò con il
pollice.
«La tua identità… è sempre
stata un mistero, sempre», mormorò ad un palmo dal
suo viso, gli occhi languidi.
«Il mio nome è Grace Schneider, figlia di Mitch
Schneider e Melanie Moore, e l’unica cosa che desidero al
mondo, che Dio mi fulmini in quest’istante, è
stare con te, Tom Kaulitz, perché ti amo».
Al diavolo,
non ce la faccio!
Tom lasciò
che fosse il suo cuore a scegliere per lui e la baciò,
traendo finalmente un respiro di sollievo.
Forse, mettendo da parte quel rancore infantile e il suo inutile
orgoglio, era riuscito a recuperare e aveva meritatamente vinto la sua
parte di felicità.
_______________________________
Beh, che dire? :') Spero
tanto che questo penultimo capitolo vi sia piaciuto e aspetto di
sentire i vostri pareri, magari in una piccola recensione!
Ringrazio tutti, ma davvero tutti, per essermi rimasti accanto durante
questi mesi e per aver apprezzato questa mia piccola opera di fantasia
e cuore. Ci sarà tempo per i ringraziamenti veri e propri la
prossima volta, quando posterò l'epilogo, ma volevo portarmi
un po' avanti :)
Non so davvero che altro dire, quindi vi lascio. A domenica prossima
con l'epilogo, non mancate!
Con affetto, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 32 *** Epilogo ***
EPILOGO
“When I see my face in the mirror,
we look so alike that it makes me shiver…
I still look for your face in the crowd,
oh if you could see me now
Would you stand in disgrace or take a bow?
Oh if you could see me now…”
(If you could see me now – The Script)
Grace
rotolò nel letto alla ricerca del corpo caldo di Tom, ma
quando sentì il materasso freddo e le lenzuola stropicciate
si ricordò che quella mattina era uscito presto
perché aveva del lavoro da sbrigare con il team della band,
impegnato ad organizzare il tour mondiale.
«Magari seguiremo la sua vita da rockstar quando ci saranno
dei concerti qui negli Stati Uniti», bisbigliò
dolcemente, sorridendo verso il soffitto ed accarezzandosi il ventre
ancora piatto con le dita della mano sinistra.
Lei e Tom ne avevano parlato a lungo. Entrambi sapevano che tutti
quelli che li conoscevano li avrebbero presi per pazzi: insomma, era
passato solo un anno dal loro primo incontro e già volevano
prendersi quelle responsabilità!? Beh, sì, lo
volevano.
Sapevano anche che quello non sarebbe stato il momento ideale per avere
un figlio, ma Grace era convinta e determinata più che mai a
voler vivere le gioie e i dolori della maternità e lui non
aveva saputo dirle di no, contando sul fatto che in nove mesi il tour
sarebbe bello che concluso e avrebbe potuto starle vicino almeno per
l’ultimo periodo, quando la sua pancia avrebbe assunto le
dimensioni di un pallone da basket.
Così si erano dati da fare, in quei mesi che susseguivano il
suo ritorno a Los Angeles, e da circa una settimana aveva scoperto che
avevano fatto centro: avrebbero avuto il loro bambino, sarebbero
diventati genitori, e l’amore che provava per
quell’esserino ancora piccolo come la capocchia di uno spillo
era già immenso, tanto da farle scoppiare il cuore di gioia
ogni volta che ci pensava. Non stava più nella pelle al
pensiero di vederlo – o vederla
– con i suoi occhi, di cullarlo tra le braccia mentre cercava
il suo seno, di essere svegliata a tutte le ore della notte dai suoi
striduli vagiti, di perdersi nei suoi occhi blu scuro che poi forse
– lo sperava così tanto! – sarebbero
diventati verdi come i suoi, come quelli di suo padre, senza nulla
togliere alla bellezza del nocciola degli occhi di Tom.
«O magari anche in Europa! Mi piacerebbe vedere Roma, Vienna,
Parigi, Madrid… Che ne dici?».
Scese dal letto posando entrambi i piedi sul pavimento lucido e senza
togliere la mano sinistra dal ventre si diresse verso il bagno, lo
stesso bagno dove, dopo aver fatto per l’ennesima volta il
conto dei giorni di ritardo del ciclo, aveva fatto il test e aveva
scoperto di essere incinta.
Non aveva ancora trovato il momento adatto per dirlo a Tom, anche se a
volte era stata lì lì per annunciargli la lieta
novella e altre volte aveva avuto come la sensazione che lui sapesse,
che glielo avesse letto negli occhi, o tra le labbra incurvate
all’insù in un sorriso estasiato, che gli
nascondeva qualcosa di bello.
Da un lato ardeva di impazienza e fremeva al solo pensiero di
pronunciare quelle parole: le ripeteva per ore nella sua mente,
pregustandone il sapore dolce e allo stesso tempo salato a causa delle
lacrime di felicità che le avrebbero solcato le guance.
Tom,
aspetto un bambino. Tom, aspetto un bambino. Tom, aspetto un
bambino…
Dall’altro
amava custodire quel segreto, come se fosse la prima delle tante
sorprese che in futuro lei e suo figlio avrebbero organizzato per lui,
magari per il suo compleanno, per il suo onomastico oppure per la festa
del papà.
Scese in salotto ed accese la TV giusto per non sentirsi sola in quella
villa troppo grande per una persona sola. Quindi entrò in
cucina e si versò un po’ di caffè in
una tazza di ceramica, quella che era diventata ufficialmente la sua
tazza da circa due mesi, cioè da quando era stata convinta a
trasferirsi a casa dei gemelli.
All’inizio la proposta che le avevano fatto di andare a
vivere con loro due le era sembrata una cosa impensabile,
perché nel suo ideale di famiglia, per quanto avesse potuto
beneficiarne, c’erano un uomo, una donna e poi i loro
pargoletti. In realtà prima di allora non aveva mai preso in
considerazione la possibilità che lei e Tom potessero
convivere, lei e lui da soli, ma le sembrava sicuramente la cosa
più ragionevole, più normale,
in confronto alla prospettiva di vivere con Bill e praticamente anche
con Dylan, dato che raramente, proprio come lei aveva fatto prima di
trasferirsi, tornava al suo appartamento.
Alla fine però aveva realizzato che i due gemelli non
avevano ancora alcuna intenzione, per il momento, di smettere di
condividere tutte le ventiquattro ore del giorno e aveva accettato.
In poco tempo era riuscita a dare in affitto ad una giovane coppia (che
coincidenza) il suo appartamento, da cui aveva portato via solo i suoi
oggetti personali e la lampada posata sul suo comodino, a cui era
affezionata, e aveva traslocato nella stanza di Tom, il quale le aveva
pure fatto posto nel suo armadio strapieno di vestiti, promettendole
che ne avrebbero comprato uno più grande quanto prima.
Un giorno, non molto tempo dopo, erano andati in un negozio di
arredamento e avevano fatto la loro scelta, insieme. Uscita dal
negozio, Grace non aveva mai lasciato la mano di Tom e lo aveva
osservato di profilo, pensando che un giorno, prima o poi, avrebbero
fatto la stessa cosa per riempire la loro casa.
Tutto sommato però non le dispiaceva condividere quei grandi
spazi con altre due persone, a cui peraltro voleva così
tanto bene, e si era abituata presto, felice di poter sempre parlare,
ridere, scherzare o litigare con qualcuno. Tranne quando tutti erano a
lavorare e lei si trovava sola in casa, indecisa se saccheggiare la
libreria cinematografica di Bill e Tom oppure pulire i pavimenti, da
brava donna di casa.
Attualmente poteva “vantarsi” di essere un numerino
nelle preoccupanti statistiche sui disoccupati negli Stati Uniti e allo
stesso tempo di vivere nell’agiatezza della donna mantenuta.
Non che questo la rendesse felice, anzi: ogni volta che ci pensava si
diceva che doveva cercarsi un lavoro per contribuire alle spese della
loro famiglia allargata, anche se per ora poteva ancora usufruire della
piccola somma (perché ventimila dollari erano una piccolezza
per lui) che il magnate della finanza Mr. McNab le aveva versato sul
conto in banca come ringraziamento per aver reso giustizia al padre del
suo caro nipote.
Aveva deciso di lasciare per sempre il mondo delle investigazioni e
aveva messo in vendita quello che prima di diventare suo era stato
l’ufficio di suo padre, dove aveva esercitato la sua
professione fino alla morte. Non poteva più condividere con
lui quel mondo fatto di violenza, col rischio di finire in un circolo
vizioso simile a quello che l’aveva quasi disintegrata, tanto
che aveva sentito l’esigenza di staccarsene con un taglio
netto, come un neonato viene separato dalla madre con una sola
sforbiciata al cordone ombelicale.
Proprio per quel motivo aveva rifiutato la succulenta offerta che
Michael Crawford le aveva fatto, un’offerta che forse un
tempo non avrebbe esitato ad accettare.
Dopo aver fatto colazione osservando il frigorifero tappezzato da tutte
le belle cartoline che Tom, nonostante tutto, le aveva portato dal tour
promozionale dei Tokio Hotel, optò per fare un po’
di ordine in casa.
Iniziò dalle camere da letto, cambiando le lenzuola e
raccogliendo i vestiti da lavare che non le avrebbero tolto tante
energie, se solo i gemelli li avessero ficcati subito nel cesto in
bagno invece di lasciarli sparsi qua e là, come a marcare il
loro territorio. Fece partire la lavatrice e poi, visto che il braccio
destro intorpidito iniziava a darle qualche fastidio, in salotto decise
soltanto di passare l’aspirapolvere sul tappeto pieno di
briciole di ogni tipo e di sistemare i cuscini sui divani.
Una volta finito, col viso un po’ arrossato per il caldo e i
capelli sfuggiti alla coda che le sfioravano le guance, si
lasciò cadere sulla morbida pelle di uno di essi e
sospirò, accarezzandosi il braccio attraversato da piccole
scosse.
La paralisi non era del tutto guarita, come non era tornato ad essere
completamente sensibile: in particolare, continuava a non avvertire
alcun dolore, e forse non ne avrebbe mai più sentito, nei
punti in cui i denti del rottweiler erano entrati in
profondità nella carne. Doveva ammettere però che
col tempo il suo braccio aveva dato segni di miglioramento, muovendosi
prima meccanicamente, quasi a sobbalzi, poi in modo leggermente
più fluido, tanto da permetterle di chiudere e di aprire le
dita della mano a suo piacimento.
C’erano giorni in cui riusciva a muoverlo a malapena e lo
sentiva pesante come piombo lungo il fianco; altri in cui, invece, lo
muoveva senza molti sforzi, anche se in modo limitato a causa dei
formicolii o della debolezza dei muscoli.
Sorrise, pensando alla sera in cui per la prima volta aveva sentito
qualcosa correrle sulla pelle, una specie di brivido, quando Tom
l’aveva accarezzato con dolcezza, quasi soprappensiero.
Era sobbalzata sul divano, facendo spaventare sia lui che Dylan,
sedutosi al suo fianco quando Bill si era alzato per andare a prendere
un pacchetto di patatine in cucina, e aveva gridato, con un misto di
gioia e di sconcerto nella voce: «Ho sentito qualcosa! Tom,
fallo di nuovo, ho sentito qualcosa!».
Il chitarrista l’aveva accontentata non osando chiederle
niente e Grace aveva chiuso gli occhi, avvertendo di nuovo quel
formicolio sulla pelle mentre percepiva, anche se in modo molto lieve,
la callosità dei suoi polpastrelli.
La fede che i dottori l’avevano pregata di avere
nell’attesa quella sera si era accesa nel suo cuore e per la
prima volta aveva sperato sul serio che un giorno potesse tornare a
muovere entrambe le braccia e le mani in modo se non uguale almeno
simile, nonostante si fosse ormai abituata ad utilizzare la mano
sinistra per qualsiasi cosa. Aveva persino imparato a scrivere da
mancina!
Lo squillo del telefono la fece tornare alla realtà e si
alzò per raggiungere il cordless posato sull’isola
della cucina.
«Pronto?».
«Grace, tesoro, ciao».
«Ciao mamma! Tutto bene?».
«Sì, benissimo. Tu piuttosto, come stai? Mangi
regolarmente? Bevi tanta acqua? È importante, sai? Ora che
siete in due…».
«Sì, mamma, lo so e faccio del mio
meglio», rispose, ridacchiando delle sue premurose e a volte
anche un po’ assillanti raccomandazioni. Ma non poteva fare
altrimenti, Nonna Melanie, già in apprensione e decisa a
fare di tutto perché il suo nipotino nascesse sano e forte.
Se fino a quel momento era riuscita a mantenere il segreto con Tom, con
sua mamma non ne era stata in grado, forse perché non aveva
fatto abbastanza attenzione o forse semplicemente perché una
figlia non può nascondere nulla agli occhi della propria
madre.
L’aveva smascherata subito: il tempo di farla entrare in casa
e di versarle un bicchiere di tè freddo e l’aveva
costretta a confessare, tra gridolini, lacrime di gioia e la promessa
che non avrebbe rivelato il suo segreto a nessuno, nemmeno a Lionel.
Da quando il caso era stato chiuso l’ex-marine non correva
più alcun pericolo. Con sua grande soddisfazione era uscito
dal Programma Protezione Testimoni dell’FBI e aveva cercato
di riprendere in mano la sua vita, ora che anche lui poteva ritenersi
soddisfatto dell’operato della giustizia. Ma era stato
comunque un duro colpo venire a sapere che persino
l’uccisione di sua moglie e di sua figlia era stata
pianificata dall’alto, in modo tale che venissero accusati
due ignari cittadini iracheni caduti in un’orribile trappola
e morti in carcere in modo molto sospetto, tanto da far supporre alle
autorità che erano stati volontariamente uccisi
perché non dicessero la verità.
Era tornato a casa sua, anche se ancora convalescente, e Grace,
sfogando le sue preoccupazioni con la madre – aveva paura
infatti che soffrisse di solitudine e si trovasse in
difficoltà con le piccole cose di ogni giorno –
aveva in qualche modo fatto scattare un processo i cui effetti erano
visibili continuamente, negli occhi luminosi di Lionel o nel sorriso
sereno di Melanie.
La donna da quel giorno si era occupata personalmente di fargli visita
tutte le mattine, per tenergli compagnia oppure per preparargli un
pranzo decente, tanto che alla fine gli aveva proposto di stabilirsi a
casa sua, solo per un po’, fino a quando non si sarebbe
rimesso completamente.
Grace non aveva reagito male, anche se si era trovata un pochino
disorientata nel vedere Lionel gironzolare in casa di sua madre come se
fosse la sua, così tranquillo e felice, e ogni volta,
scrutando di nascosto i loro visi, non sapeva dire se la loro fosse
solo una forte amicizia oppure qualcosa di più. Preferiva
non pensare a Lionel come suo futuro patrigno, le bastava sapere che
stando insieme, contando sulla presenza e il sostegno
dell’altro, riuscivano ad alleviare i dolori del loro passato
tormentato.
«L’hai detto a Tom?».
«Cosa?».
Melanie abbassò la voce ed esclamò:
«Del bambino, cos’altro?».
«Ah, ehm… no, non ancora».
«Ma che cosa stai aspettando, amore? Hai forse paura della
sua reazione?».
«No, no, assolutamente! Abbiamo deciso di volerlo insieme,
non è venuto per caso».
«E allora…?».
«È che voglio che sia indimenticabile!».
Melanie rise in modo genuino. «Oh, tesoro, come se si potesse
dimenticare una cosa del genere!».
Grace sorrise ed ammise che dopotutto aveva ragione: nessun padre
avrebbe dovuto dimenticare il momento in cui aveva saputo che entro
nove mesi avrebbe visto suo figlio.
«Facciamo così», disse ancora.
«Siete tutti invitati a cena, questa sera. Sarà
l’occasione perfetta!».
«Okay, allora…».
«Vedrai, Grace, sarà entusiasta! Adesso convinco
Lionel ad accompagnarmi a fare la spesa, preparerò una
cenetta coi fiocchi! Ah, invita anche Molly, mi raccomando!».
Grace non poté far altro che sorridere, col cuore leggero
come una piuma, all’entusiasmo travolgente di sua madre.
Erano anni che non la sentiva così felice ed era un vero
piacere sapere di esserne una delle motivazioni.
Una volta terminata la chiamata con sua madre si trovò a
tremare d’emozione e dovette sforzarsi per tenere a bada
tutta la sfilza di sentimenti positivi di cui si sentiva colma fino
all’orlo, tanto da rischiare di scoppiare da un momento
all’altro.
Si portò una mano sul ventre e per l’ennesima
volta lo accarezzò dolcemente, sussurrando parole
d’amore al suo piccolo grande tesoro.
***
«Wow, come
sei elegante!».
Tom si voltò verso le scale e seguì lo sguardo di
Bill fino a posare gli occhi sulla figura aggraziata di Grace:
indossava un abitino di raso grigio perla, dalle linee pulite e con
un’arricciatura sul fianco destro – il regalo di
bentornata a casa e di pronta guarigione da parte di Molly e in
generale da tutta la famiglia Delafield.
Grace abbassò lo sguardo e si concentrò sulla
rampa di scale, imbarazzata e sorridente allo stesso tempo.
Quando finalmente tornò a sollevare il viso, Tom rimase
quasi senza fiato vedendo la luce di mille stelle brillare nei suoi
occhi ridenti.
«Andiamo?».
Il chitarrista si limitò ad annuire, incapace di articolare
una frase di senso compiuto, e le offrì il braccio, al quale
la ex-detective si aggrappò con la mano destra, mettendocela
tutta per stringerlo forte.
Salirono tutti e tre sull’Audi di Tom e Grace si
stupì ancora una volta pensando che il suo fuoristrada non
c’era davvero più. Non poteva tenerlo, aveva
troppi anni sulle spalle, o meglio, sul motore, e troppi ricordi legati
a suo padre, a partire da quando gliel’aveva comprato e le
aveva impartito le prime lezioni di guida. In linea con la sua
decisione di staccarsi dal passato, quindi, aveva deciso di rottamarlo
e ora, parcheggiata sulla via parallela al giardino sul retro della
villa, c’era la sua nuova auto da città, con il
lettore CD, l’aria condizionata funzionante e persino il
tettuccio apribile.
In poco tempo raggiunsero la casa di sua madre e con stupore dei
gemelli notarono che anche Melanie si era messa in ghingheri, con un
vestito di cachemir bordeaux, i capelli rossi che le ricadevano spumosi
sul decolté adorno di una collana di perle e un mezzo
sorriso piuttosto enigmatico sul viso, tra l’eccitato e
l’impaziente.
A Tom non sfuggì nemmeno l’occhiata
d’intesa che madre e figlia si scambiarono
sull’uscio di casa, mentre lui e Bill entravano in salotto.
Era certo che gli stessero nascondendo qualcosa e che quella non fosse
una serata come le altre, ma non poteva nemmeno lontanamente immaginare
la sorpresa che gli avevano riservato.
«Ah, mamma, Molly questa sera aveva già un impegno
e quindi ci raggiungerà più tardi. Ha detto che
porta il dolce».
Melanie unì le mani di fronte al petto. «Quella
ragazza è un angelo! Sa quanto mi piacciono i dolci di
quella pasticceria e ogni volta ne porta uno diverso!».
Grace annuì ed incrociò per un attimo lo sguardo
indagatore di Tom, rivolgendogliene uno di traverso, mentre gli faceva
una smorfia.
Il chitarrista aprì la bocca in una O di sorpresa ed
inscenò un inseguimento tra le poltrone e il divano in
salotto, dove c’era Lionel intento a guardare alla TV un quiz
a premi.
«Ragazziiiii», li ammonì dolcemente, per
poi sporgere una gamba nel tentativo di fare uno sgambetto a Tom.
«Non lo sai che bisogna sempre darla vinta alle
donne?», aggiunse, ora guardandolo con
un’espressione divertita.
«Oh, lo so meglio di chiunque altro», rispose Tom,
ridacchiando mentre incontrava di nuovo lo sguardo della sua Grace,
ancora tanto luminoso da essere in grado di eclissare la luna.
«Tutti a tavola!», urlò Melanie e Lionel
fu il primo ad alzarsi e a correre in cucina, ormai dipendente dei suoi
manicaretti.
Lionel si sedette a capotavola, alla sua destra Bill e Dylan e alla sua
sinistra Melanie e Grace, mentre Tom si trovava all’altro
estremo del tavolo e guardava in faccia l’ex-marine,
stringendo la mano dell’ex-detective al suo fianco.
Fu una normale cena di famiglia, per quanto la loro famiglia potesse
ritenersi normale; risero e scherzarono per la
maggior parte del tempo, sfruttando le pause per lodare Melanie, una
cuoca squisita.
Il momento clou della serata, però, ebbe inizio soltanto con
l’arrivo di Molly e dell’ormai inconfondibile
confezione della pasticceria di fiducia della famiglia Delafield,
capace di fare piccoli miracoli.
Grace, seduta in salotto accanto a Bill, l’aveva vista
entrare in tutto il suo splendore, avvolta in un abitino a righe stile
navy, con gli occhi luccicanti di felicità e i capelli
biondi e boccolosi che le incorniciavano il viso. Era stata con Aiden
per tutto il pomeriggio, era fin troppo facile capirlo.
Alla fine Molly aveva compiuto la sua scelta: aveva capito che non
avrebbe mai potuto costringerlo a volerla al suo fianco e si era fatta
da parte, per quanto il suo amore per lui non fosse cosa facile da
reprimere. Per un paio di mesi si era accontentata di vederlo a
lezione, di essergli amica quando raramente si fermava al loro tavolo a
mensa; si era fatta bastare gli sguardi fuggevoli che le lanciava dal
suo armadietto in fondo al corridoio. Poi, finalmente, Aiden aveva
ceduto: aveva smesso di imbracciare le armi in quella guerra impari
– l’amore che riservava a Molly contro la sua paura
di non poterle offrire tutto ciò che desiderava –
e si era arreso, conscio che non sarebbe durato a lungo comunque,
vedendo il suo sorriso solare brillare così raramente per
colpa sua. Aveva fatto un piacere a lei, ricambiando il suo affetto, ma
ne aveva fatto anche a se stesso, più di quanto avesse mai
creduto e voluto.
«Grace, te l’ho già detto che quel
vestito ti sta che è una meraviglia?», disse
Molly, baciandole una guancia. «Ora però vorrei
sapere qual è l’evento che dobbiamo
festeggiare».
«Festeggiare?», ripeté Tom, confuso,
guardando prima l’una e poi l’altra.
Molly si coprì la bocca con la mano, chiedendo con gli occhi
se avesse combinato un guaio, ma Grace la rassicurò con un
sorriso affettuoso.
«Lionel, tira fuori lo spumante, presto!»,
bisbigliò Melanie all’uomo, dandogli incessanti
colpetti sulla spalla, costringendolo così ad alzarsi dalla
sua poltrona e a ciabattare verso il frigorifero senza diritto di
replica.
«Che cosa sta succedendo, Grace?»,
domandò ancora Tom, notando che improvvisamente era calato
il silenzio e tutti gli sguardi erano puntati su di lei, in piedi al
suo cospetto.
«Tom, ricordi quando ti ho detto che Michael mi aveva
proposto di diventare un’agente speciale
dell’FBI?».
«Sì, certo», rispose, sollevando un
sopracciglio. «Hai detto che era il tuo sogno sin da bambina,
ma hai rifiutato perché non volevi avere più
nulla a che fare con il crimine».
«È tutto vero, ma temo di averti celato
un’altra motivazione».
«Non volevi trasferirti in Virginia per
l’addestramento?», intervenne Dylan, nervoso.
Grace scosse il capo e socchiuse dolcemente gli occhi, porgendo
entrambe le mani a Tom. Il chitarrista le strinse forte, come se
fossero la sua unica ancora di salvezza durante una tempesta marina.
«In realtà, gli ho detto che non potevo accettare
la sua offerta perché avevo una persona, una persona molto
speciale, a cui pensare e di cui occuparmi».
«Okay, ci rinuncio, non riesco a capirla»,
mormorò Dylan, chino verso Bill, l’unico che
forse, forse, aveva intuito qualcosa.
«Grace…», balbettò Tom, a
disagio.
Allora lei, con tono ancora più dolce, disse:
«Tom, aspetto un bambino».
Di nuovo, il silenzio calò su di loro come una coperta
bagnata, pesante, e il tempo parve fermarsi, cristallizzando tutti
quanti nelle loro ultime espressioni e posizioni.
All’improvviso Tom si alzò e la travolse in un
abbraccio, stringendola forte a sé con una mano tra i suoi
capelli e la bocca vicina al suo orecchio, con la quale
iniziò a sussurrarle ininterrottamente: «Ti amo,
ti amo, ti amo…», mentre la bolla
d’immobilità in cui erano stati tutti rinchiusi
scoppiava e altre voci gioiose, altri rumori scoppiettanti, li
avvolgevano.
Grace, aggrappata alla sua schiena con il solo braccio sinistro,
perché quello destro era tutto un tremito, sbatté
più volte le palpebre per mandare via le lacrime di
commozione, ma non ci riuscì, allora le nascose contro la
sua spalla assieme al suo sorriso intriso d’amore.
Non ci fu bisogno di altre parole, ricevette tutto quello che poteva
desiderare da quell’abbraccio e da quelle parole sussurrate
all’orecchio, dal suono eterno, inattaccabile e puro, tanto
bello da far male al cuore.
«Bill e
Molly si sono ripresi, anche se ci sono voluti due bicchieri di
spumante».
Il chitarrista si voltò e le andò incontro,
accarezzandole le braccia protette dalle maniche del cardigan nero che
sua madre l’aveva costretta ad indossare prima di uscire in
giardino per raggiungerlo.
«Torna dentro, potresti prendere freddo».
Grace sollevò il sopracciglio destro con un sorriso
divertito sulle labbra e alzò lo sguardo verso il cielo
punteggiato di stelle.
«Freddo, in estate?», scrollò il capo.
«Vi ringrazio, siete davvero premurosi, ma non vi sembra di
esagerare un po’?».
Tom arrossì, protetto dal buio della notte rischiarato
soltanto dalla luce della luna e da quella proveniente
dall’interno della casa, che usciva dalle finestre e
disegnava figure sempre nuove sull’erba.
Il suo sguardo fu catturato dalla cenere della sua sigaretta che cadde
ai suoi piedi senza che lui facesse nulla. Si affrettò a
spegnerla nel posacenere sul davanzale, accanto ad una piantina di
gerani.
«Ecco perché da una settimana a questa parte
dicevi di voler smettere di fumare», realizzò
improvvisamente, accennando un sorriso.
Grace annuì stringendosi nelle spalle, poi gli
legò le braccia intorno alla vita, posando il mento contro
il suo sterno.
I suoi occhi erano più luminosi che mai e Tom non
poté che restarne affascinato, muto di fronte alla loro
bellezza.
«È tutto vero», bisbigliò
dolcemente, più a se stessa che a lui. Quindi gli prese una
mano e l’adagiò sul suo ventre ancora piatto,
sopra il raso del vestito. «Spero che sia maschio».
«Anche io», convenne Tom, baciandole la fronte.
«Ma non mi dispiacerebbe nemmeno avere una piccola Grace tra
i piedi».
L’ex-detective ridacchiò e sospirò
sognante, immaginandosi ancora una volta il loro bimbo.
«Se è maschio lo chiameremo Tom Junior?».
Gli tirò un pugnetto sul petto, dandogli dello scemo, e il
chitarrista soffocò una risata sulle sue labbra.
«Però mi piaceva fare l’amore tutte le
sere», le disse ancora, quando si scostò, senza
aver abbandonato quel suo sguardo beffardo e un po’ malizioso.
«Nessuno ci vieta di smettere», lo
rassicurò sogghignando e tornò a baciarlo,
mettendosi in punta di piedi e prendendogli la nuca con la mano
sinistra.
La porta finestra alle loro spalle si aprì di scatto e loro
si separarono, anche se continuarono a restare abbracciati mentre Dylan
allungava il collo nella loro direzione.
«Mi dispiace interrompere la prima riunione da futuri
genitori, ma ora che ci siamo tutti possiamo brindare!
Venite?».
Tom e Grace annuirono e lo seguirono all’interno, dove videro
Michael e Andrew, già con i loro bicchieri di spumante in
mano.
«Michael! Andrew!», esclamò la ragazza,
correndogli incontro per abbracciarli a turno.
Gettò un’occhiata riconoscente a Dylan,
l’unico che avrebbe potuto avvisare l’agente
dell’FBI e l’agente della omicidi, i suoi amici. Il
poliziotto le fece l’occhiolino portandosi due dita alla
fronte, in una specie di saluto militare, nel quale erano racchiuse
tutte le parole e gli auguri che non le avrebbe mai detto a voce.
Quindi tornò a stringere Bill per la vita e a farsi
imboccare.
«Ehi, anche io voglio la torta!»,
protestò, ma nello stesso momento Molly comparve di fronte a
lei e le porse la sua fetta, accompagnata da un bicchiere di spumante
fresco.
Le sorrideva radiosa e un po’ commossa, con gli occhi lucidi
e le guance arrossate. «Non posso credere che voi due siate
giunti fin qui. Ti ricordi quando dicevi di non sopportarlo
più, che volevi smettere di pedinarlo per conto mio? E
adesso guardati, aspetti un bambino e sei bellissima».
Grace le prese il volto tra le mani e le baciò la fronte.
«Grazie, amica mia. Ti devo più di quanto tu possa
immaginare».
Molly tirò su col naso, scuotendo timidamente il capo, e le
passò la torta e il flûte, per poi voltarsi e
raggiungere gli altri nel bel mezzo del salotto.
«Tesoro, vieni!». Sua madre le fece segno di
avvicinarsi e l’ex-detective si strinse tra lei e Tom, il
quale le avvolse le spalle con un braccio.
Melanie sollevò il suo bicchiere di spumante e
guardò la figlia con gli occhi traboccanti
d’orgoglio e d’emozione.
«A Grace, la luce dei miei occhi. Ringrazio il cielo per
avermi dato una figlia come te e sono certa che anche il vostro bambino
sarà fiero di averti come mamma. Tuo padre
sarebbe…», la voce le tremò e Lionel le
accarezzò il braccio, sorreggendola contro il suo fianco.
«A Grace», ripeté l’uomo,
prima di far scontrare i bicchieri e di bere il primo sorso.
«E a Tom», disse poi Dylan, guardandolo di sbieco.
«Un bravo amico e, si spera, un bravo padre».
Bill gli tirò una gomitata nel fianco, sorridendo, e
aggiunse: «Ti voglio bene, fratellone».
Brindarono ancora e ancora, al bambino, maschio o femmina che fosse,
perché la loro fosse una vita felice e piena di salute e
all’amicizia, il legame più forte quando anche
l’amore vacilla. Quando fu il turno di Andrew però
rimasero tutti di stucco, mentre Dylan arrossiva e si passava una mano
sulla nuca.
«A Dylan, alla sua promozione alla omicidi!».
«Come?», esclamò Grace, colpita.
«Io, ecco… Era da un po’ che mi frullava
nella testa, così ho chiesto il trasferimento
e…».
«Ma è fantastico, Dylan! Perché non ci
hai detto niente?».
«Volevo che fosse una cosa certa, prima. L’ho
saputo solo stamattina… E poi non mi sembrava giusto
rovinare la vostra serata per questa
sciocchezza».
Grace gli si parò davanti e per un momento ebbe paura che lo
prendesse a schiaffi, ma poi un sorriso si aprì sul suo viso
luminoso e lo abbracciò, rimproverandolo e facendogli mille
congratulazioni.
Ma fu Bill a sorprendere tutti ancora una volta, perché una
volta che Grace si fosse allontanata gli saltò in braccio e
lo baciò sulle labbra, lì di fronte a tutti,
sotto gli occhi un po’ sconvolti di Lionel e Crawford, quelli
inteneriti di Melanie e Molly e quelli divertiti di Tom e Grace, che a
stento trattenevano le risate.
Ad un tratto l’ex-detective, guardando tutte quelle
meravigliose persone intorno a lei, realizzò quanto fosse
stata fortuna.
Pensò alla sua vita prima che Molly la ingaggiasse per
pedinare il chitarrista della sua band preferita, i Tokio Hotel. Prima
di allora non aveva nessuno, era sola al mondo, e l’unico
vero amico che aveva era Dylan, ma anche lui lo vedeva raramente. Poi
aveva conosciuto Bill, Tom, di cui si era innamorata, la stessa Molly,
aveva recuperato i rapporti con Dylan e sua madre… E ancora
Michael, Andrew, Bryant, il quale alla fine si era redento davvero,
sacrificandosi per salvare la maggior parte degli agenti coinvolti in
quella maledetta operazione; Lionel e Carter, gli unici amici che non
avevano mai pensato di tradire suo padre e che alla fine
l’avevano aiutata a dargli giustizia.
La sua famiglia dilaniata era cresciuta a dismisura e le aveva cambiato
la vita. E gliel’avrebbe cambiata ancora, grazie
all’esserino che portava in grembo e per il quale,
già lo sapeva, avrebbe dato tutto quanto, ogni goccia di se
stessa.
Abbassò lo sguardo sulla mano che teneva sul ventre e
sorrise dolcemente, con le lacrime che le pungevano gli occhi.
«Tom?».
Il chitarrista abbassò lo sguardo su di lei e
l’abbracciò per la vita, le labbra sulla sua
fronte. «Uhm?».
«Dovremo chiamare anche tua madre. Secondo te sarà
felice di diventare nonna?».
Tom ridacchiò ed annuì, prima di baciarla sulla
bocca. «Quanto sei stupidauanto
sei scioccaQuanto».
Grace accennò una risata insieme a lui, posando il viso
contro la sua spalla. Oltre i vetri neri come la pece delle finestre,
sui quali poteva benissimo scorgere il loro riflesso, le parve di
vedere un’altra figura. Lentamente, avvolto da una luce
bianca e tenue, riuscì a scorgere con chiarezza il suo
sorriso compiaciuto, i suoi occhi amorevoli e velati da una
più che ben sopportabile malinconia.
Una lacrima le scivolò sulla guancia quando suo padre, Mitch
Schneider, si voltò e sparì
nell’oscurità dopo averle rivolto un cenno
d’assenso, una specie di benedizione.
«Grazie», mormorò con il sapore salato
di quella lacrima tra le labbra, arcuate in un sorriso mesto.
«Di cosa?», le domandò Tom tra i
capelli, con tutte le ragioni del mondo per pensare che si fosse
rivolta a lui.
Grace gli posò un morbido bacio sul collo e lo tenne ancora
stretto a sé.
«Di tutto», bisbigliò. «Di
tutto».
FINE
_________________________________________________________
Buongiorno gente!
Scusatemi infinitamente per il ritardo - mia reazione stamattina di
fronte al calendario: "C***o è martedì e non ho
postato ancora l'epilogo!". Sono stati giorni intensissimi, mi sono
completamente scollegata dalla realtà... Soprattutto ieri,
quando dopo ore ed ore di attesa e agonia ho visto i miei fantastici
Bastille... Okay, questo non vi interessa, quindi la pianto.
Anche questa FF è finita e ora mi sento piuttosto svuotata,
quasi come Grace senza il suo caso... Ma mi riprenderò anche
io come lei, con il tempo :) E poi il vostro sostegno sempre costante,
le vostre recensioni, le vostre presenze... è stata una
gioia per me condividere con voi questa mia piccola opera di fantasia e
cuore. E un grazie non basta. Avete un pezzo del mio cuore ora,
abbiatene cura come avete fatto fino ad adesso :') Vi voglio bene,
tutti quanti (siete troppi per ringraziarvi tutti uno per uno, ma voi
lo sapete che vi sono davvero infinitamente grata).
Spero che come finale sia stato all'altezza e chissà, magari
un giorno ritroveremo Grace, Dylan e tutti gli altri in un sequel...
non si può mai sapere ;)
Ah, una cosa interessante che volevo dirvi a proposito del titolo.
Perchè l'ho intitolata "Bring me back to life"? Beh, l'idea
di questa FF prima era un po' diversa, di carattere soprannaturale...
infatti Grace nella primissima bozza, per i primi capitoli, moriva dopo
una notte passata con Tom, il quale l'avrebbe ritrovata e avrebbe visto
il suo fantasma desideroso di vendetta e di giustizia. Avrebbe fatto il
piccolo detective guidato da lei, in pratica! xD E ora come ora sono
felice di aver cambiato totalmente versione, non sarebbe stata
altrettanto bella xD
Ancora una volta grazie e niente, ciao a presto :3
_Pulse_
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