Quattro chiacchiere da Tiffany

di I Belong To Noone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto. ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo. ***


«Buongiorno» esordì Jamie varcata la soglia della porta del salone.
«Buongiorno» rispose Tiffany, cordialmente, prima di tutti.
«Vorrei del the e dei biscottini per accompagnarlo» disse Jamie, in tono dolce e pacato.
«Mi segua», la diresse Tiffany. Una nuova cliente, pensò tra sé e sé.
Quella donna non l’aveva mai vista prima. Non aveva mai varcato la soglia del Tiffany prima d’allora. E questo la proprietaria lo sapeva bene, perché lei conosceva tutti i clienti, sempre i soliti. Tra quelli c’erano soltanto anziane dell’alta borghesia con le quali Tiffany andava molto d’accordo.
Loro facevano scena: entravano col naso all’insù nel salone, con le loro borsette sotto braccio e i loro cappelli abbinati ai colori dei quali si vestivano; un salone dei più deliziosi e rinomati della città. Era costituito da tre grandi, azzurre e silenziose sale nelle quali vi erano molti piccoli tavolini curati nei minimi dettagli: erano celesti, ricoperti da tovaglie bianche, immacolate. Le sedie erano imponenti, morbide, protette da un fine rivestimento bianco. I pavimenti erano in parché pregiato che riuscivano a scricchiolare ad ogni passo. «L’azzurro è rilassante» commentava lei. «Il bianco ispira pace», proseguiva.Tutte le tre sale erano così, bianche e azzurre in tutte le loro sfumature: celeste, panna...Il salone di Tiffany dava su una delle strade del centro. Fuori si potevano ammirare, tramite le vetrine perfettamente pulite, gli scaffali sui quali Tiffany aveva riposto le migliori sue opere artistiche: pasticcini a forma di cagnolini, pulcini, cuori con scritte incastonate, torte, torte di compleanno, torte con segni zodiacali, elenchi degli ingredienti utilizzati per la maggior parte delle sue opere.  Erano sempre apprezzate da tutti, per l’estetica e per il gusto. Ogni tanto c’era qualche cliente non abitué che acquistava uno dei prodotti in vetrina. Inoltre esse erano abbellite da tanti colori spumeggiati che si incastravano perfettamente l’uno con l’altro quasi a formare un arcobaleno. «Quanti colori…!» mormorava la massa di gente che vi si fermava fuori, incantata.
Nell’atrio di Tiffany tutto era prezioso: persino gli angoli. Infatti lì c’erano armadietti molto alti, costituiti da lastre di vetro attaccate tra loro da colle grezze che stavano per rovinarle l’estetica.. o almeno, fino quando Tiffany non trovò l’idea per ricoprire queste imperfezioni. «Delle rilegature in oro» aveva trovato.
E così fece.
Al loro interno c’erano i premi di pasticceria che aveva vinto Tiffany; quello di cui andava più fiera era il A Candy for a queen. L’aveva vinto circa venti anni fa, quando aveva quarant’anni. Il concorso consisteva nel preparare qualcosa di dolce (non per forza una caramella) per la “regina”, una donna di spettacolo scelta al momento. Aveva convinto persino Ela Guzman lei, ed era arrivata al secondo posto.
Be’, non era certamente il primo ma il suo dessert la fece sentire come vincitrice di quel podio quando Ela, piena di ammirazione, si era avvicinata a “loro” per complimentarsi.
«Grazie, grazie signora Guzman. Per me è un onore.» aveva ringraziato Tiffany stringendole la mano.
«La prego di inviarmi la ricetta» rise lei.
Ma no, Tiffany era gelosa delle sue ricette, e non gliela inviò mai. Anche perché non aveva intenzione di spedirle tutto fino in Germania. Non se ne parlava. Forse l’avrebbe pubblicata su qualche libro e allora l’avrebbe copiata e provata, aveva pensato lei.  Se no, pazienza.
      C’era un aggeggio nascosto davanti alla porta che nel momento della spinta d’essa suonava, ed emetteva un aggraziato suono che permetteva di non far trovare al cliente le commesse in giro a farsi gli affari loro.
Anche le commesse erano scelte nei minimi dettagli: solo ragazze giovani, delicate, gentili, fini. Non altre.
Distribuiva loro, per ogni stagione, una divisa in tono dei colori delle foglie degli alberi. Anche quello era grazioso. Perfettino, ma grazioso. Le acconciature che proponeva lei erano degli chignon alti con qualche piuma colorata.. Le avevano rifiutate. «Ma dài! Sono riluttanti!»
«Perché?»
«Ci vedi andare in giro per i tavolini con delle piume tra i capelli… raccolte in uno chignon?!»
Tiffany non rispose.
Aveva capito.
Comunque non demorse, le sue idee erano quelle. Se poi volevano venir accolte, meglio ancora. Peccato che nessuno le accolse.

    Dopo, la porta suonò ancora.
«Sei in ritardo» commentò Tiffany.
«Lo so. Mi scusi» disse in tono umile la ragazza. Giovane, bella, curiosa; dai grandi occhi azzurri.
«Infilati questo» le ordinò Tiffany porgendole il grembiule azzurro dell’attività, «e seguimi.»
La ragazza se lo infilò velocemente mentre seguiva la sessantenne.
Tiffany si voltò e la vide scattante. Le porse un vassoio sul quale vi erano poggiati una caraffa di porcellana levigata perfettamente, con viole dipinte sopra. «Devi portarlo al tavolo numero quattro» le spiegò. Quando però vide con la coda dell’occhio la giovane tintinnante col vassoio in una mano, cambiò idea e l’aiutò.
Al tavolo quattro c’era Jamie con le mani congiunte portate dinanzi alla bocca, con un mezzo sorriso sulla faccia, che scrutava l’area e faceva cenni di saluto alle donne che le stavano attorno agli altri tavoli.
«Ecco il suo the e i suoi biscotti» disse allegramente la giovane ragazza.
Tiffany annuì e sorrise a Jamie, la quale riportò le mani al loro posto sperando di non diventare lo zimbello del salone in fatto di bon ton.
Tiffany però se ne accorse e le sorrise divertita. «Spero che le piacciano»
«Certamente»
«Porta il vassoio che ha appena poggiato vicino alla cassa Aileen al tavolo numero sedici. Svelta.» ordinò alla ragazza.
Lei si incamminò verso la direzione indicatale, quando Tiffany la fermò:
«Come hai detto che ti chiami…?»
«Jacqueline. Jacqueline Burne.»
Jamie sobbalzò leggermente. Burne?, si domandò mentalmente, osservando i suoi occhi azzurri.
«Immagino che lei sia nuova» commentò Jamie, riferendosi alla bella Jacqueline che iniziava a guardarsi attorno, tra tutti gli oggetti fini del negozio e le clienti che sussurravano pettegolezzi dell’ultimo momento. E per questo sorrise.
«Infatti. Mi sembra che sia francese.»
«Burne… già.»
Tiffany, non sapendo che dire, si limitò a sorriderle, accentuando le rughe all’estremità della bocca. 

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Questo è il primo capitolo della mia saga! :3
Accetto qualsiasi tipo di recensione, purché sia costruttiva uu 
Fatemi sapere se vi è piaciuto!

Juliet.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo. ***


Capitolo 2.

 

Dopo poco tempo, le passeggiate dirette a ‘dove mi portano i piedi’ si diressero sempre più verso Tiffany, finché non divenne una cliente abituale anche lei.
Quando entrava era accolta da saluti dal caloe familiare, se pur sempre rivolti con un ‘Lei’. In quelle giornate di quel periodo il sole era solito battere sulla zona centrale della città, che faceva sbrilluccicare tutti quei confetti esposti in vetrina.
   Erano ricoperti da una glassa colorata, tendenzialmente verso colori utilizzati per le cerimonie: matrimoni, battesimi, lauree… Arancione, giallo, verde, blu, rosa, rosso.
Il rumore dell’aggeggio a poche decine di centimetri sopra la porta del salone di Tiffany, al contatto con questa, negli ultimi tempi suonava più dolcemente, più melodicamente, più orecchiabilmente. Clienti come Darcy, Penelope o Amber non ci avevano fatto caso, eppure le orecchie dolci e sensibili di Jamie sì; lei era attenta ad ogni minimo suono, rumore, mvimento, parola, gesto. Insomma, a tutto.
Ciò che la portò sempre da Tiffany fu il modo piacevole in cui chiacchieravano, anche se parlavano poco, alla velta, del  nocciolo della situazione. Eppure quando Jamie ampliava il discorso o almeno ci provava, la proprietaria del salone si liberava di qualsiasi cosa avesse da fare, e l’affibiava alle commesse di turno — oppure s’era di luna buona a quelle più meritevoli, e glielo diceva anche —. Poi magari ogni tanto si alzava e improvvisava una messa in ordine degli oggetti attorno a lei per sviare gli occhi giudiziosi delle altre clienti che le lanciavano un’occhiata, ogni tanto.
Quando una delle commesse se ne accorgeva, ne discuteva a bassa, bassissima voce con l’altra collega, la prima che trovava.
   «Il gossip del gossip, — pensava Jacqueline — Perez Hilton ha trovato delle ereditiere.»
   Quindi, alle cinque del pomeriggio, sotto un sole tenue che accennava a fare l’atmosfera più rosea, Jamie si dirigeva da Tiffany. Ogni tanto qualche sua amica del quartiere la fermava, e la donna non faceva che parlare del famoso salone.
«Che massaggi fanno?» chiese una volta la Clementina.
«No, non sono massaggi Cleme, lì ci sono giovincelle che fanno specialità inglesi.» rispondeva lei.
«Eh? Ci sono delle celle che danno specialità danesi?!» chiese per confermare ciò che aveva sentito.
«Cleme, no! – gridò Jamie per farsi sentire - , Ci sono fanciulle che fanno specialità inglesi come the e biscotti e dolci!» ripeté lei scandendo le parole e sillabando il periodo.
La Cleme indietreggiò con la testa e strizzò gli occhi celesti per vedere meglio. Si grattò la nuca in segno di non aver capito.
Jamie tagliò corto e le chiese se voleva venire con lei al salone.
«No, no, grazie, - rispose cordialmente Clementina – devo andare a cercare il vestito per la nipote di Anita per…» rispose lei. Jamie si perse nelle sue parole, col naso infilato nei ricordi a cercare di ricordare un po’ il profumo del the verde del salone.
Però alla seconda sillaba annuì, per sviare il discorso. Cosa che non riuscì a fare.
Poi la Cleme la lasciò e lei poté andare.
E quando Jamie arrivò le fecero festa. Le piaceva quel clima così emotivamente caldo che si sentì proprio dentro una famiglia, strano ma vero. Ed iniziò così a raccontare la sua verità, la sua storia, il suo passato, a Tiffany.
Ed iniziò proprio quel giorno.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo. ***


Capitolo Terzo.

 

Mercoledì 3 gennaio Jacqueline iniziò a chiedersi se lavorare da Tiffany fosse la cosa migliore.
Le piaceva quel posto, sì: era in centro, in una vietta trafficata e chic, con tante college piuttosto simpatiche, signore anziane che le allungavano sempre una buona mancia e gli straordinari pagati. ‘Una fortuna’ la considerava. Però c’era qualcosa del salone che la turbava, in quel periodo.
«Cara, tutto bene? – le chiese Tiffany, quel pomeriggio, indaffarata a far finta di star mettendo a posto qualcosa. – Non sembri molto allegra, in questo periodo. Non ti piace il lavoro? È troppo faticoso? Vuoi che ti offra un altro tipo di gestione del negozio?»
«No, no. Mi… mi piace questo lavoro.» sospirò lei mettendosi le mani sui fianchi e guardandosi in giro.
Tiffany alzò e abbassò velocemente le sopracciglia in segno di ‘ho capito’, e riprese a fanfugliare. «Forse c’è qualcuno che ti turba?» chiese retorica.
Jacqueline guardò quella cliente bizzarra di Jamie sorseggiare un the nero con aria da bambina che aveva appena commesso qualche marachella, sotto quel cappello così vistoso.
«No, solo che…»
«Tiffany, venga!» la incitò Jamie.
«Arrivo. Scusami se ti hanno interrota. Ne riparliamo dopo, magari stasera, che ne dici?»
Jacqueline annuì solenne, e Tiffany accennò a un sorriso.
«Emh, - proseguì, - non potresti dare una pulitina alla finestra?» chiese indicando quella poco distante da lei e Jamie.
Non si ritirò all’ordine, prese lo sgrassatore universale ed il panno da dietro il bancone e si avviò a pulire.
‘Strofina, stofina…’ sussurrava a se stessa. ‘forse dovrei parlare con Tiffany e…’ venne interrotta: la voce profonda di Jamie la rapì al suono di ‘Jack’.
Tiffany prese posto accanto a lei, guardò le clienti e sorrise.
«Racconti, la prego. Mi fa sempre piacere ascoltare il suo passato. È una donna così affascinante, lei…!» le disse.
«Anche lei – gemette Jamie, e poi continuò. – Allora. Era l’estate di circa trent’anni fa, o forse anche di più. Mia madre e la famiglia di lui decisero che le vacanze le avremmo passate tutti insieme, appassionatamente. - , rise. – E così partimmo. Girammo tutti i Paesi più belli del mondo. Li giravamo grazie alle buone conoscenze di madre acquisite quando il commercio di mio padre si alzò alle stelle e dovettero girare il mondo per stare al passo con gli ‘affari’. Così li chiamavano. A loro piaceva girare per i posti, in lungo e in largo. Mia madre mi raccontava che andavano in giro con una buona macchina d’epoca, senza tetto, e durante le estati i suoi capelli danzavano guidati dal vento sotto gli occhi del sole, e delle nuvole, e di Dio. Lei era molto credente. – sussurrò. – L’unico che detestava quel clima era mio padre, perché diceva che per guidare doveva strizzare gli occhi, e molte volte aveva quasi perso il controllo della macchina. Era rossa, mi sembra. Mio padre si vantò per molto del colore fiammeggiante dell’automobile.» Mentre raccontava dei suoi genitori, la sua narrazione sembrava dettata da una bambina, in modo così dolce e nostalgico, come faceva sempre se parlava della sua famiglia. «Poi, avanti con gli anni, ebbero il coraggio di comprare un ottimo veicolo tedesco, proprio il quale ci aveva portati a visitare i più belli stati d’Europa. Il figlio della migliore amica di mia madre si chiamava Jack. L’ho già detto? Forse. Era un bel ragazzo: ai tempi poteva avere…quindici, o vent’anni. Aveva i capelli biondi e lunghi sino alle spalle, e degli occhi azzurrissimi.»
Si fermò e fissò Jacqueline, la quale rimase allibita.
Il racconto di questo ragazzino così giovane e avventuroso, figlio di una famiglia prosperosa, le fece venire in mente suo padre.
Ma quando Jamie nominò degli occhi azzurrissimi e dei capelli biondi e lunghi i suoi occhi si sbarrarono sul suo profilo.
«Come quelli di Ja.. Jacqueline» disse lei, ipotizzando il nome.
La ragazza fece segno di sì al nome, e continuò a pulire.
Tiffany la fissava ancora, pensierosa. Jacqueline ricambiò lo sguardo, velocemente, e ritornò a fare su e giù con il panno.
Più Jamie parlava di questo ragazzo e più Jacqueline lo paragonò ai ricordi confusi che aveva del padre. Confusi, lontani, offuscati dal tempo. Fece fatica a riprenderli dall’angolo dei ricordi abbandonati, perché era uno di quelli capaci di riaprire una ferita semi-chiusa, anche dopo tutti quegli anni.





J

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto. ***


Capitolo Quarto.

 
«L’auto tedesca era un macchinone. Ci stavamo perfettamente anche in quei cinque o sei che eravamo. Io, mia madre, mio padre, Wendy e Jack.»
«Wendy?» fece Tiffany.
«Era la madre di Jack, poveretta. Ah, mi sono dimenticata una persona!» gridò «C’era anche Grace.»
«Che sarebbe…?»
«La zia di Jack e la sorella di Wendy, Tif.»
«Ah.»
«Allora. Arrivammo presto alla prima tappa del giro: una cittadinella tedesca della zona ovest, nord-ovest se non sbaglio. Grace, ai tempi, era poco più di una gionvincella dai gusti raffinati e cari. Aveva avuto due conoscenze. E in quella città aveva trovato chi li poteva soddisfare.» recitò questo periodo con voce troppo, troppo alta, più dell’abituale. Tiffany la guardò interrogativa e sbiancò. Amber, accortasi della situazione, scoppiò a ridere. Jacqueline se ne accorse e la fulminò con lo sguardo, ma Amber non fermò la risata, semplicemente rise sotto i baffi.
«Aveva avuto una relazione con l’aggancio tedesco con mia madre, Boris. Lui le regalava molte borse e vestiti e trucchi. Insomma, tutto quello che una donna come Grace poteva desiderare. Però non si…»
Amber azzeccò al volo e si crogiolò in una risata sonora, sonorissima (e non perché ululò ridendo, ma perché l’anziana donna percepì le onde sonore nel cuore), e Jamie fece la dura. Ma si stava accasciando dal dolore, dentro di sé.
Intanto Amber presa da un raptus di nervoso continuava a sghignazzare come un’oca, ma non si sapeva bene in perché.
Tutti la osservarono, tutti osservarono Jamie e tutti osservarono la scena, impietriti.
L’anziana signora abbassò lo sguardo e i suoi occhi color smeraldo si spensero. Poi rialzò la testa, lasciando cadere una magrissima goccia di pianto sulla guancia segnata dal tempo.
«In ottant’anni nessuno ti ha insegnato cosa significhi il rispetto e cosa significhi non giudicare le persone senza conoscerle. Ma soprattutto nessuno t’ha insegnato, vecchia canaglia che non sei altro, a farti gli emeriti fatti tuoi.» disse dura Jamie.
«E se non lo vuoi capire…» ammiccò a dire Tiffany, alzandosi dalla sedia facendo traballare il tavolino, ma Amber la fermò dicendo ch’era stata Jamie ad aver alzato troppo la voce.
«Sei vergognosa. Quella è la porta. — sibilò la proprietaria del salone – Ritorna solo quando avrai ben in mente cosa voglia dire il rispetto.»
Amber la fissò con gli occhi sbarrati, ma non se ne andò.
Tiffany guardò Jamie, che aveva ancora gli occhi puntati verso un punto indefinito del basso.
«Forse ho sbagliato io a dire com’erano andate le cose. La realtà è che Grace era fatta com’era fatta, certo. Ma se ne innamorò di quell’uomo, avido e materiale quanto lei, che la riempiva di regali costosi. Boris passò dalle borsette firmate a, poco a poco, a peluche pelosi, pelosissimi, sui quali Grace ci affondava in viso. I loro rapporti diventarono pian piano sempre più dolci, sempre più amorevoli, o forse sempre più umani. Passavano dall’incontrarsi di soppiatto di notte ad uscire con noi a ballare, dolcemente. Mi sembra solo ieri che lei e Boris ballavano l’uno aggrappato all’altro, ma con grazia, facendo tenerezza. Grace volteggiava facendo aprire a mo’ di ombrello il suo vestito rosa, rivestito sotto di tulle bianco infilando le unghie curate nel vestito di Boris per aggraparsi ai giri troppo vorticosi, oppure faceva passare la mano tra i capelli biondi e corti del suo lui solo per  sfiorarglieli. Una volta Boris le infilò pure un anello al dito. Era una promessa.» Tiffany sorrise, commossa.
Jamie scosse la testa. «Ma nessuno si accorse di loro: gli occhi della pista da ballo, ma soprattutto quelli della famiglia, erano puntati verso Jack. E verso di me. Infatti, ai tempi, lui fu  il mio cavaliere. Era un uomo così bizzarro…»
Jacqueline sorrise. C’aveva pensato, giorni prima.
Aveva assemblato tutti i ricordi che aveva di suo padre, uno ad uno; si documentò pure, la ragazza. Poi li associò ai dati che le aveva dato senza accorgersene Jamie. Non lo ammise a se stessa ma lo capì: era suo padre.
Se la prese prima col destino: l’aveva appena dimenticato, aveva smesso di cercarlo ovunque potesse , aveva smesso di aggrapparsi alle false speranze che spuntavano come funghi ad ogni discussione in famiglia su suo padre. ‘Eeh, Jacqueline, –- dicevano  senza pronuncia alcuna del nome – sicuramente tuo padre non è morto. Sarà da qualche parte… Tu non ti arrendere!’ e così finalmente aveva imparato ad annuire senz’anima a quelle frasi che erano diventate consuetudini.
   Sì, sì, era lui. Ne era sicura.
«…Pensa che, quella stessa sera, – proseguì Jamie – , lui aveva bevuto qualche bicchiere di vino in più e aveva iniziato a ballare come un perfetto idiota saltando da una gamba all’altra. Con una mano si aggrappava a una bretella, così, senza senso alcuno, e con l’altra teneva il bicchiere di vino in mano. E saltellava! — rise lei – Però era molto gaio e mi trascinò dalla panchina a ballare. Ero molto tesa da giovane, perché ero cresciuta in fretta ed ero già un’adulta, e quindi presi i suoi comportamenti come quelli tipici di un bambinone irresponsabile. Ma dicevo, riuscì proprio a trascinarmi in pista! E mostrai anche, a tutti quelli sbruffoni che si atteggiavano da duri quando iniziavano a ballare come degli elefanti un un negozio di gioielleria, cosa sapevo fare: tirai su il vestito sino al ginocchio, ed iniziai a volteggiare come una ballerina di danza classica! Poi lui mi fece ritornare ai miei passi normali ed iniziammo a ballare qualcosa come il can-can. Successivamente mi lasciò a me stessa e azzittì tutti: doveva parlare. Setacciò qualsiasi figura presente nella sala e la fissò negli occhi per catturare l’attenzione. Era così dolce che scherzava con i bambini: quando loro lo fissavano, lui faceva il buffo e voltava lo sguardo, e poi lo riposava su di loro. Finito il giochetto iniziò di nuovo a fissare tutti, sorridendo soddisfatto. Ed iniziò a parlare.»


Juliet's space: emhhh ok. da tre giorni dalla pubblicazione del primo capitolo ho ricevuto 67 visite complessive, 2 recensioni e 3 mi piace su fb. LOL. senza la mia Martina non mi sento di considerare ciò una buona o cattiva cosa çwç mi manca il mio pinguinorosa scritto in viola :c recensite! :)

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto. ***


Capitolo Quinto.

 
«Jacqueline, per piacere, metteresti a posto tu gli ultimi ordini sull’apposito scaffale e chiuderesti il salone?»
Lei annuì.
Prese in mano il cupcake alla fragola decorato con una glassa biancastra, ricoperto di altri strati sempre più sottili e affusolati di altra glassa colorata.
‘Jamie Giggs’ lesse.
«Carino, vero?» chiese Tiffany da fuori.
Jacqueline infilò il dolcetto nella scatolina di plastica. Annuì distrattamente.
Tiffany si strinse a sé. Buttò fuori una nuvola di aria fredda. La città, di notte, si faceva sempre più gelida. La guardò. «Ho bisogno che tu mi dica che cosa ti sta succedendo.» esplose lei, ma cercò di moderare il tono, «Non sei più la stessa di quando iniziasti a lavorare qui.»
Jacqueline rimase in posa col braccio avvinghiato al cupcake sulle punte delle sue CONVERSE. Non rispose.
«Insomma, Jacqueline!» gridò, facendo fare un giro semicircolare alla mano protesa in alto. «Sei come una figlia per me. Non posso vederti così.» Le si avvicinò.
La ragazza si decise a mollare il cupcake dove le avevano ordinato. Soffiò sul ciuffo moro cadutole sugli occhi e si mise le mani a pugno sui fianchi, fissandola negli occhi.
«Assomigli a Julia Roberts, sai?» scherzò l’anziana signora.
«Il fatto è che.. ho scoperto una cosa… E be’, forse può essere bella, ma forse per me non lo è. Cioè… la signora Giggs mi disturba.»
Tiffany sgranò gli occhi e la squadrò. «Scusa…?»
Jacqueline tacque e continuò a guardarla.
Regnò il silenzio e le due non fecero altro che osservarsi, scrupolosamente: Jacqueline la guardava negli occhi, osservandole il loro blu profondo, segnato da qualche schizzo di azzurro; Tiffany, invece, cercava di scavare nei suoi occhi la motivazione per la quale parlava così di Jamie.
L’anziana si toccò il suo cappello con una mano. Ne avvertì l’umidità, e si portò la mano davanti agli occhi; sfregava tra pollice e indice una sostanza umidiccia, bianca, semiliquida. «Nevica» gridò sorridendo. Alzò allegra gli occhi al cielo e con sé le mani: aperte in segno di fede. «Nevica!» gridò ancora. Jacqueline poggiò il gomito sul muro e la guardò ridendo.  «Nevica! » gridò ancora. La guardò ancora ridendo.
Tiffany la guardò sorridendo.
Soffici granuli di neve caddero dal cielo, uno alla volta, lentamente.
«Il miracolo della neve!» soggiunse.
«Ma che ci vedi di così speciale nella neve?» Chiese lei. Si accorse di essersi rivolta con un tu, e chiese scusa.
«Chiamami Tiffany, Jacqueline. E comunque, non vedi quant’è bella? Mi mette così gaia che salterei dall’euforia!»
Jacqueline sorrise.
La neve si fece fitta.
Tiffany girò a braccia aperte attorno a se stessa e continuò a sorridere.
«Fa freddo, - osservò Jacqueline, - sarebbe meglio se chiudessimo.» Chiuse la porta e tirò giù le tapparelle metalliche.
La donna si riprese. «Allora. Dimmi che c’è che non va.»
«È una storia lunga» annunciò la ragazza per sviare il discorso e andarsene.
«Bene – disse Tiffany, - rialza le tapparelle che ne parliamo in privato, davanti a un bel dolcetto e a una cioccolata calda.»
 
«Quindi il fatto che hai scoperto, così, da un discorso qualunque che Jack era tuo padre e che progettava aerei ti ha sconvolta?»
«Sì, esatto.» rispose, leccandosi gli angoli della bocca per togliere la cioccolata calda rimasta.
  «Non è detto che sia tuo padre.» disse ferma. «Dovremmo chiedere a Jamie se sa…»
«No.»
«Perché? Prima sei tutta interessata e poi dici di no? Devi affrontare la realtà, ragazzina. Il tuo comportamento è sconcertante e ridicolo.»
«Non so che voglio… non… Non lo so, ecco. Avevo provato a dimenticarmi di quel padre che non c’era mai stato, che avevo sepolto nei ricordi, di cui mi ero sbarazzata delle foto. Ero riuscita a farmi passare l’odio dei confronti di quel padre che non c’era mai stato, che se n’era andato, o che forse era morto. Mi ero sbarazzata di lui, o almeno dei frammenti che ne rimanevano. Anche mia madre l’aveva fatto. Ci eravamo semplicemente fatte capire che avremmo dimenticato quei rimasugli di tempo nel vuoto. Che non ci avremo più pensato.»
«Tutti tornano, sai? Strano da dirsi, strano da rendersene conto, ma anche lui è tornato. E anche la tua voglia di aggrapparti ai ricordi è tornata, ne sono sicura.»
Jamie poggia rumorosamente la tazza di cioccolata sul suo piattino e inizia a fissare il vuoto. Si lecca il labbro superiore, sporcatasi nuovamente, e si ritrova gli occhi blu di Tiffany sui suoi così grandi e azzurri che la guardano interrogativa. Erano sicuramente più interessati loro piuttosto che lei, a una risposta. Si passò la mano tra i capelli portandoseli all’indietro e guardò Tiffany. «Hai ragione. Ho bisogno di sapere come sono andate le cose.»
Un attimo gelido e silenzioso si scontrò coi pensieri così evidenti delle due. S’incastrarono l’un l’altro. Cercarono di riportare il silenzio anche dentro di loro.
«Hai mai visto… Jacques?»
«No. Come fai a conoscere il suo vero nome?»
«Una madre intuisce sempre tutto. Non siamo in Francia, è vero. Ma hai mai pensato al fatto che ‘Jacques’ fosse il maschile del tuo nome?»
«No» rifletté.
«Forse tuo padre non era così maligno come credi, e forse tua madre hai qualcosa da dirti», sorrise lei. Sorrise Jacqueline.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto. ***


Capitolo Sesto.
 

«Mamma – gridò Jacqueline appena sua madre fece ‘Pronto?’ al telefono – c’è qualcosa che non mi hai detto. A proposito di… papà
«Je n’ai rien caché!»
«No mamma, no! Non parlarmi in francese! Non ora!»
«Que s’est-il passé?!»
«Mamma, taci! Mi fai bestemmiare in arabo quando non mi ascolti! Sentimi bene. Un ‘angelo’ mi ha spifferato il passato di papà. Ma non mi ha detto tutto. – fece una breve pausa – È bene che tu mi dica tutto, capito? Tutto! E nella lingua che si parla in questo paese, pas dans votre!»
«Jacqueline, non è la mia lingua, è la nostra
«Credi di essere ancora a Parigi?! Be’, ti sbagli. E ora voglio tutta la verità. Oppure questa sarà la nostra ultima conversazione.»

Stettero zitte, quando sua madre ruppe il silenzio.
«Non c’è molto da dire, Jacqueline. La verità è che tuo padre era un fuori di testa. Quando lo incontrai la prima volta, era appena tornato da un viaggio in Germania. Wendy, tua nonna, era a capo, con tuo nonno, di una grande azienda internazionale, e quando faceva viaggi li faceva alla grande. Così un giorno chiese a mio padre, cioè a tuo nonno materno, di trovar loro un posto modesto per le loro vacanze e di far fare loro il giro della città. Tuo nonno si ammalò gravemente, e mandò me a far loro da guida.  La prima persona che vidi fu tuo padre. Era così bello… aveva gli occhi esattamente come i tuoi, e benché anche io ce li abbia azzurri, non azzurri come i suoi. Alla sua vista capii che era l’uomo giusto per me, che anche se non era delle mie parti credetti che per noi ci sarebbe stato un futuro, o almeno un noi. Mi disse che si sarebbe fermato a Parigi solo per poco tempo ma che avrebbe voluto viverci, là. Poi, poco a poco, iniziai a conoscerlo: non faceva altro che parlarmi dei suoi progetti futuri, di quanto avesse voluto essere un ingegnere professionista, di quanto stesse lavorando al suo aereo, o jet, o quel che era; e io lo guardavo, imbambolata, e gli rispondevo solo con un ‘uh’ di esclamazione. Pensavo che tutto quello che lo riguardasse fosse bello. Poi, un giorno, lo sorpresi a fare a botte con uno: un bell’uomo, vestito bene; in poche parole un uomo ben distinto. Gli sferrava colpi al viso, all’addome… ovunque. Poi, quest’uomo, che penso fosse tedesco, gli diede un pugno di risposta. Solo che Jack si fece prendere di sbieco, e non gli rimase in faccia nemmeno un graffio. Poi arrivò una donna, o forse è meglio dire una ragazzina, a fargli la morale. Poi, questo uomo (il tedesco) e questa se ne andarono. Jack capì che assistii alla scena, e mi guardò male.Poi mi prese per un braccio. Non so perché ma decidemmo di fare l’amore. Lo amavo tanto, - sospira - e poi rimasi incinta. Successe tutto così in fretta… E quando non glielo dissi ancora mi disse che doveva partire, che doveva andare altrove. Che quello stesso pomeriggio avrebbe chiesto alla sua famiglia di portarmi con loro. E poi morì.»
Jacqueline ascoltò tutto molto attentamente, e poi le chiese il seguito.
La madre tacque.
Si lasciò andare alla tentazione di parlarle di nuovo in francese e Jacqueline, coerente del fatto che la madre era stata sincera, inizò a conversare con lei come le piaceva. La madre le disse che non sapeva com’erano andate le cose. Nessuno seppe mai di lei, nemmeno di lei, riferita a Jacqueline. Nessuno seppe niente. Tranne Grace, che non le permise di venire al funerale, che non le diede nemmeno una spiegazione. ‘Tu hai rovinato mio fratello, tu l’hai spronato a fare quel che ha fatto!’ sosteneva. Ma non diede mai una spiegazione più dettagliata di questa.
Dopo la chiacchierata, s’era fatto primo mattino. Jacqueline non se ne rese nemmeno conto e, sonnolenta, andò a prepararsi per il giorno di lavoro seguente.
 
Prese l’autobus quand’era ancora addormentata e cercava di stare in piedi correttamente, senza dare troppo a vedere il suo stato di coma. Prese posto in piedi vicino a della gente che sapeva di caffè fresco; al loro confronto, lei sapeva ancora di sbavatura da cuscino. Ma fece finta di niente, ed iniziò a guardare il paesaggio innevato fuori dal mezzo. Si strinse la sciarpa al suo collo, e lasciò che i pensieri si affluissero sempre meno. Si addormentò.
«Signora, signora!» rise il ragazzo al quale si era appoggiata per ‘chiudere gli occhi’ (autogiustificazione mentale). I suoi occhi incontrarono quelli verdi smeraldo incorniciati da ricci, o meglio boccoli castani e da un sorriso perfetto: bianco, diritto, sincero. Ancora incerta tra il dormire e il ‘vivere’ non ascoltò nemmeno le sue parole e lo osservò e basta.
«Sei così bello…» sussurrò.
Lui rise sonoramente, e la sua voce profonda rimbombò nella mente di Jacqueline. Poi il ragazzo infilò la mano con la quale si aggrappava all’apposito mezzo sul bus, e scese. Questo fece una pausa, giusto il tempo di una fumata di sigaretta del guidatore. Occhi verdi, come l’aveva soprannominato lei nella sua testa, scese. Lui le rivolse un altro sguardo.
«Per caso… - chiese lui – lei ferma qui?»
Jacqueline si risvegliò dal sonno, si guardò intorno e fece sì con la testa. Poi ripeté il gesto dell’amico e scese.
Lui si rigirò verso di lei, mentre Jacqueline tirava dritto. Lui la riguardò.
«Mi sta seguendo?» chiese lui ridacchiando.
«Eh?» rispose stranita lei.
«Mi sta seguendo?» ripeté sghignazzando lui.
«Non sia ridicolo, - disse acida Jacqueline, - non pedinerei mai… uno come lei.»
«Sarebbe a dire?» proseguì.
Lei lo guardò alzando gli occhi al cielo e proseguì.
«Humg, andiamo nella stessa direzione, allora!»
«Spero di no.»
Il ragazzo le diede un’amichevole botta sulla spalla. «Mi chiamo Harold.»
«Jacqueline.» rispose ferma per ricambiare la presentazione. Lui le sorrise allegrissimo.
Fece gli ultimi passi verso il salone di Tiffany, semplicemente descritto con un ‘Tiffany’ in nero sull’insegna curata blu.
«Io sono arrivata. Ci si vede, Ha… He… Harold?»
«Anche io sono arrivato! Vengo a trovare mia nonna Jamie, del resto a quest’ora è sempre qui!» rise lui, fermandosi.
«Ma tu ridi sempre?» gli chiese retorica, guardandolo come farebbe un adulto con un bambino. E questo annuì.
  La fece entrare trionfalmente dentro, perché ‘prima le signore’ si giustificò. Poi entrò lui.
Ella lasciò che Harold si lasciasse abbracciare da sua nonna, mentre lei si fiondò da Tiffany, come se non dovesse lavorare ma solo scambiarci quattro chiacchiere. Poi Harold la fermò. «Cosa ci fai qui, tu?»
«Naah, niente. Quattro chiacchiere da Tiffany.» disse.
L’anziana donna sbucò dal nonnulla e, con le mani dietro i fianchi, annuì.
«Allora, com’è andata?»
«Niente male.» rispose lei, togliendosi giacca e sciarpa poggiandoli all’appendiabiti. «Ma non mi ha detto tutto.»
«Immagino che manchi solo un ultimo pezzo del puzzle» azzardò Tiffany.
«E quel pezzo me lo potrà dare solo Jamie Giggs.» concluse lei, prendendo da dietro il bancone, facendo gentilmente spostare Tiffany di lì, la divisa del salone.
«No no tesoro, chettocchi!» disse tutto attaccato. «Oggi è ritornata una commessa dalla maternità, quindi per te oggi è giorno di ferie. Ma ferie come dico io. – specificò lei – Ora tu vai da Jamie, oppure stai qui con me finché non lo farai, e poi andrai lì a dirle come stanno le cose e a farle incastrare l’ultimo pezzo di un puzzle che fa parte della tua vita.»
Jacqueline, basita, si fece calare una lacrima dagli occhi e l’abbracciò.
«Sei come la figlia che non ho mai avuto», commentò Tiffany.
«E tu sei come la nonna che non ho mai avuto» disse lei.
«Mi staresti dando della vecchia?!» rise la donna.
«No, no! Non era questo che…» rise lei, e rise pure Tiffany, e risero tutti.
«Nonna, chi è quella ragazza lì, che sta abbracciando Tiffany?»
«È la donna giusta per te, Harold caro.»
Harold la ammirò da lontano, in silenzio, con aria di assenso.
Osservò la scena e se ne innamorò: si innamorò di quelle braccia calde che non aveva mai sfiorato, giunte a quelle di Tiffany; si innamorò delle sue labbra, il cui rossetto si stava disperdendo ai bordi delle sue labbra; e infine, notò i suoi occhi. Ci notò qualcosa di indescrivibile, qualcosa che gli fece venire una strana sensazione alla pancia. Sì, forse aveva ragione sua nonna. Era fatta per lui.

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo. ***


Capitolo Settimo.

 
Harold lasciò sua nonna al suonar del primo pomeriggio.
«Devo andare, scusa nonna!»
«Vai caro. Ricordati quello che ti ho detto, smemorato.» gli borbottò dietro lei.
Così lui passò di fianco a Jacqueline, con le mani in tasca, senza dirle niente. Lasciò una scia di profumo al suo seguito, e questo bastò per dirle qualcosa.
Tiffany la guardò decisa e le bisbigliò un ‘vai’.
Alzò la testa, infilò le mani in tasca, e si diresse verso Jamie.
«Togliti le mani di lì cara, sembri quel birbante di mio nipote!»
Lei se le tolse e rise. «Devo parlarle»
«Sono qui. Dimmi tutto piccina.»
Jacqueline prese posto sulla sedia di Harold e iniziò a raccontarle. A raccontarle tutto, ma proprio tutto tutto. Anche delle sue sensazioni, dei suoi pensieri, dei suoi ricordi. Jamie annuiva sempre e l’ascoltava. Si vedeva che lo faceva!
Quindi le chiese semplicemente di giungere, per lei, a una conclusione.
In tutto il tempo che la conosceva, era solo la seconda volta che la vedeva abbassare lo sguardo. Ma quando lo rialzò, immancabilmente notò la stessa intensità di verde che aveva notato sul bus negli occhi di Harold.
«Tua madre non seppe la fine che fece tuo padre. E Grace non fu così egoista e stupida come puoi pensare tu. Era semplicemente affranta e acciecata dal dolore, capisci? E tua madre non ebbe nemmeno la stoltezza di pensare alle parole di Grace: quando disse che era morto perché le parlava sempre dei suoi marchingegni e lei gli diceva di sì, sì, costantemente sì, pensava che fosse la causa per la quale a lui venne l’idea di provare quei robi che aveva combinato, perché si sentiva sostenuto.
Ecco come morì.
Lui era insicuro dell’esito che avrebbe avuto la sua prova, ma non pensò certo che ci sarebbe rimasto secco, come si suol dire. Mi chiese di accompagnarlo a questa prova, così ci appartammo in una zona verde con un grande, vecchio campo da basket al quale aveva aggiunto una rampa per spiccare il volo. Mi ero seduta su una sediolina arrabattata, e lo guardai morire. In cuor mio sentivo che non era la cosa giusta da fare, e gliel’avevo detto. Invece, lui, cocciuto, insisté per farla. Mi disse che, se ci fosse riuscito, avrebbe sperimentato il primo jet da volo privato più modernizzato, e che poi ci avrebbe fatto un apposito brevetto per non farsi rubare l’idea; successivamente avrebbe fatto un’azienza progettatrice di jet o aerei o com’erano simili, e avrebbe fatto lui la sua fortuna, e avrebbe sposato tua madre. Invece qualcosa andò storto. Una ruota era messa male ed impennò su se stessa; il comando era malridotto; lui era ancora un bambino, e rideva tra sé di quanto sarebbe stato contento di non dipendere più sui sua madre e sua zia. E invece, si andò a schiantare al primo ostacolo che trovò. E così, Jacques morì.»
Jacqueline si fece rigare la guancia da una lacrima. Poi guardò Jamie con lo sguardo basso e sorrise.
«Grazie» gemette. «Grazie davvero. Ora il mio cuore va in pace.»
Lei le sorrise.
Jacqueline tornò da Tiffany e mostrò la sua radiosità. «Ridammi quella divisa, baby!» gridò, infilandosela.
E così proseguì il suo giorno, dettosi di ferie, che poi diventò un giorno di extra.
Tornò fra i tavoli bianchi, curati, fra i the, fra le cioccolate calde, di nuovo a muoversi com’era entrara – cioè da umile cameriera – tra gli scaffali e i premi di Tiffany, tra i loro profumi e tra quella gente che in quegli anni (perché furono anni) l’aiutarono. Forse anche Amber e la sua combricola di allegre zitelle l’aiutarono, ad essere più forte.
E quando la giornata lavorativa finì, venne lasciata sola da tutti: rimasero solo lei e l’aria impregnata di profumo di cannella, vaniglia e zenzero in quel negozio.
Sfornò le tortine, le decorò come poté e come le venne ordinato, e le ripose dove dovette. Poi, si tolse il grembiule, lo appese all’attaccapanni sotto la voce Jacqueline Burne, e si sciolse i capelli. Si vestì per affrontare il freddo dell’esterno; chiuse a chiave il negozio e abbassò le tapparelle. Quella sera chiuse prima.
Silenzio, totale e incessante silenzio all’esterno della sua seconda casa.
Il sole stava calando, e i suoi passi emettevano tonfi, nella neve.
Poi si voltò, e rivide la figura di quella mattina: alta, snella, con una sciarpa bianca al collo e il giaccone aperto. E le mani in tasca, ovviamente.
Rivide nei suoi gli occhi verdi speranza di Jamie, e nel suo sorriso quello dolce e rassicurante quello di Tiffany.
Si sentì improvvisamente felice, buttatasi tra le sue braccia, stretta tra quelle braccia. Un gesto improvviso, istintivo, dolce. Harold appoggiò lateralmente la testa su quella scura di Jacqueline, e la strinse forte a sé.
Jacqueline sorrise, tra quel corpo possente e quel profumo. Sorrise senza che nessuno se ne accorgesse, come piaceva a lei; e per la prima volta pianse di felicità.



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La faticaah. Allora, ho visto anche tra le visite che qualcuno che segue la mia stupidaggine(?) c'è. Detto questo, spero che vi piaccia quest'ultimo capitolo. Ho scritto gli ultimi... tre capitoli in una sera. Lo so, non sono tantissimi e il testo non è lunghissimo, comunque ho fatto fatica tra lo scriverlo e il rileggerlo. 
Spero che vi emozioni come ho cercato di fare io.
Questa è la prima, e immagino anche ultima storia che pubblicherò su efp (a meno che non mi vengano altre strane idee e a meno che non le metta in pratica). 
Spero davvero che vi sia piaciuta.
Concludendo, dedico questa 'stupidissima' (che forse è ) ff al mio primo idolo: mio fratello. Gliela dedico perché quando gli dissi che avevo scritto una ff lui intanto mi chiese che cos'era, e poi mi fece capire che forse forse avevo scritto una gran çàzzàtà (perdonate gli accenti da bimbaminghia, era solo per far comparire la parola). E infatti è rimasto di questa idea. Non me l'ha mai nemmeno guardata e non me la guarderà mai. Però lo ringrazio, perché mi ha spronata a migliorare e a cercare di arricchire sempre i miei testi, e a renderli credibili, come li chiama lui. Quindi, semplicemente grazie anche a te, che mi hai sottovalutata, ma che un giorno ti ricrederai. 

Juliet.

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