Lui sorrideva

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Deserto ***
Capitolo 2: *** Mahmoud Ascari ***
Capitolo 3: *** Vittime e carnefici ***
Capitolo 4: *** Addio, figlio. Gloria a te, o shaid! ***
Capitolo 5: *** Bassamat al-farah ***



Capitolo 1
*** Deserto ***


Prompt: deserto, sofferenza;

Personaggi: Mac Taylor, altri minori di cui taluni realmente esistiti;

Rating: arancione;

Genere: drammatico;

Disclaimer: Questi personaggi non appartengono a me, bensì alla CBS Broadcasting Inc. che ne detiene tutti i diritti. Questa storia non è stata scritta a fini di lucro.
 
Avvertimenti: non sono sicura se sia un missing moment o un what if?, contenuti forti;
 
Il racconto è stato scritto per il contest “War tales-racconti dal fronte”, indetto da Filira su efp e adesso affidato a MyPride come giudice sostitutivo.
 
Introduzione: La storia si inserisce nel periodo che il personaggio di Mac Taylor trascorse presso i marines e in specie nel corso della missione di pace in Libano nel 1982-83. Si tratta di una fase della sua vita di cui non viene raccontato praticamente niente; ne abbiamo notizia solo attraverso un paio di flashback, sui quali mi sono basata per costruire la trama che, per altri versi, tenta di rispettare la verità storica degli accadimenti, per come ricostruita.
In particolare, nell’episodio finale della seconda stagione (La sentinella) apprendiamo che il giovane Mac era rimasto coinvolto nell’attentato kamikaze che il 23 ottobre 1983 devastò la caserma dei marines a Beirut, uccidendo 220 marines, 18 marinai e 3 soldati e ferendone gravemente altre decine. La scena finale è ispirata appunto a quella mostrata fugacemente nel telefilm (che magari, se ne hai la possibilità, di consiglio di rivedere) in cui si vede Mac che, a sua volta ferito, soccorre il collega Whitney, il quale muore dopo poco tra le sue braccia.
 
 
A coloro che non hanno avuto sepoltura, a coloro che non hanno nemmeno un nome.
 
Lui sorrideva
 
Capitolo primo.
Deserto
 
Libano-Valle della Bekaa,  22 ottobre 1983 ore 16.00.
Nel pomeriggio del 22 ottobre 1983, sotto un sole luminoso e ancora cocente, la pattuglia della ventiquattresima unità anfibia dei marines degli Stati Uniti comandata dal secondo tenente Mac Taylor avanzava lungo il nastro d’asfalto srotolato sul fondo della grande valle della Bekaa, appena a sud del confine con la Siria.
Il convoglio, composto da due jeep, aveva scortato una delegazione di diplomatici delle Nazioni Unite nella città di Hermel e adesso tornava verso Beirut, dove si trovava la base della missione internazionale di peacekeeping denominata M.N.F., schierata per difendere i civili e i profughi palestinesi dagli attacchi dell’esercito israeliano, che aveva cinto d’assedio la capitale libanese nel tentativo di sconfiggere una volta per tutte l’O.L.P. di Yasser Arafat.
Una campagna dura, pericolosa e difficile, che il tenente e i suoi commilitoni avevano fino ad allora trascorso tra la fatica, le veglie, il caldo insopportabile dell’autunno mediorientale (che in particolare lui, abituato agli inverni gelidi e alle estati miti di Chicago, stentava davvero a sopportare) e la noia, spezzata solo dalle notizie tragiche che a volte riguardavano taluni dei loro compagni, feriti o caduti in combattimento.
Due uomini, seduti sul fondo delle vetture scoperte, proteggevano le spalle   al gruppo imbracciando i fucili mentre il graduato, in piedi accanto al guidatore, si guardava intorno per scorgere eventuali pericoli; avanzavano veloci in mezzo alla sabbia e alle pietre, quasi senza rumore, seguendo il percorso rettilineo della strada che tagliava in due la valle desertica.
Il vento soffiava incessante: l’alito del deserto, ardente di giorno e gelido di notte, che sollevava la sabbia e sferzava il volto degli uomini, costretti a cercare di ripararsi calcandosi di più il berretto della divisa sugli occhi.
Il vento che tagliava la pelle, riempiva loro gli occhi e il naso di sabbia finissima color ocra e asciugava il sudore che scorreva lentamente sul viso, le guance, le braccia dei soldati.
Il vento che faceva sanguinare le labbra e impastava la gola per l’arsura, che stordiva la mente e intorpidiva le membra.
Il vento che portava via i rumori e gli odori tutto disseccando, spaccando, levigando: vento carico di particelle di luce nelle giornate torride, quando il sole brucia in mezzo al cielo corrusco, vento di ghiaccio nella notte del deserto, trapunta di stelle immobili.
Il sole era ancora alto nel cielo nudo e intorno agli uomini stranieri, a perdita d’occhio, si stendevano solo le creste mobili delle dune, le pianure di rocce taglienti calcinate dal sole, i crepacci in cui stenti crescevano pochi arbusti, le strisce di sabbia rossastra che riverberavano la luce tingendola di riflessi accecanti; il cielo lì non aveva confini, si stendeva infinito e vuoto, di un azzurro talmente vivo da far male agli occhi.
Solo verso l’orizzonte s’innalzavano le cime arrotondate dell’Anti-Libano, coperte di neve che scintillava al sole, mentre in lontananza i vapori ondeggianti che si levavano dalle sabbie millenarie, la luce e le ombre creavano miraggi sospesi tra terra e cielo: città bianche, carovane di uomini e animali, forme fantastiche e sogni ingannevoli.
La valle si apriva in lunghezza sopra un vasto altopiano sabbioso e la scabra estensione di terra spoglia non sembrava poter offrire nascondigli adatti a chi volesse tendere un agguato ai militari, ma Taylor e i suoi non ignoravano come abili nemici, abituati a vivere in quei luoghi a loro invece estranei, ben potessero celarsi dietro le rocce e attaccarli all’improvviso cogliendoli di sorpresa.
Occorreva stare in guardia, quindi, e vigilare per la salvezza propria e dei compagni.  
All’improvviso, dal fondo del deserto vertiginoso sbucarono due sagome scure: apparvero da dietro una cunetta come in un sogno, in silenzio, seminascoste dalla sabbia che i loro piedi sollevavano camminando. Avanzavano piano, senza guardare dove andavano, avvolte in pesanti mantelli scuri nonostante il caldo soffocante.
Mac fece segno ai due autisti di rallentare la marcia e istintivamente tutti i soldati strinsero le dita sull’arma di ordinanza, i nervi tesi fino allo spasmo e il cuore che martellava di colpo più forte in mezzo al petto: poteva trattarsi di una trappola o di kamikaze che, servendosi di una scusa, tentavano di avvicinarsi a loro per poi farsi saltare in aria.
Martiri della fede, shaid, kamikaze: molti nomi per designare un solo, folle, proposito di vendetta. Durante i mesi passati nella terra biblica del latte e del miele Mac e i suoi avevano imparato a conoscere questi fanatici messaggeri di morte, spesso all’apparenza del tutto inoffensivi.
Quando furono abbastanza vicini, si accorsero però che si trattava di due donne, abbigliate con il tradizionale chador e con il capo coperto da uno spesso gutra nero che lasciava libero solo il viso impolverato e rigato di lacrime; l’una, più giovane, sosteneva l’altra che pareva sofferente e faticava a  reggersi in piedi. In verità tutte e due avevano l’aria di essere allo stremo e di stare avanzando solo grazie alla forza di volontà.  
Il tenente Taylor non ignorava il rischio che poteva celarsi dietro quell’incontro all’apparenza casuale, ma il suo istinto gli suggeriva che quelle donne non rappresentavano un pericolo per lui e la sua squadra e che, anzi, avevano assolutamente bisogno del loro aiuto.
Impartì perciò l’ordine di fermare le auto e scese con un balzo, fece alcuni passi verso le due donne e si arrestò a quattro-cinque metri da loro; a quel punto la più giovane - forse nemmeno venti anni e profondi occhi neri, simili a gocce di metallo fuso - con gentilezza fece sedere l’altra, che non riusciva a tenersi su da sola, per terra sul ciglio della strada e poi si avvicinò a sua volta al militare.
Mac adesso ne distingueva il volto dai lineamenti fieri, la pelle ambrata e lo sguardo deciso: il tenente provò a chiederle in inglese chi fossero e cosa facessero a piedi in mezzo al deserto, ma lei gli rivolse un’occhiata interrogativa - segno che non aveva capito - e non rispose. L’uomo ritentò allora utilizzando le sue scarsissime conoscenze di francese, lingua che aveva appena imparato a masticare e con la quale, di solito, riusciva a farsi intendere dai libanesi: niente da fare neppure così.
A quel punto il soldato fece un cenno al caporale Stan Whitney (1) che, avendo la madre di origine tunisina, parlava un po’ di arabo; il ragazzo, bruno e grassoccio, smontò a sua volta dalla jeep e rivolse le medesime domande alla ragazza, che finalmente annuì e iniziò a raccontare la sua storia (2).
Si chiamava Shirin Ascari e lei e sua madre stavano viaggiando verso l’interno del paese per raggiungere il resto della famiglia insieme ad altri parenti quando, presso il confine, erano stati attaccati da una banda di predoni. Avevano tentato di difendersi, ma non erano preparati e avevano avuto la peggio quasi subito: i malviventi avevano ucciso immediatamente gli uomini e tentato di portare via le donne del gruppo ma loro due, approfittando della confusione, erano riuscite a scappare inoltrandosi nel deserto. Camminavano dalla sera precedente senza bere né mangiare e soprattutto senza sapere dove andare, stordite dalla violenza e dal sangue che avevano visto versato, sole e perdute nel deserto. La loro meta si chiamava Btid’i, aggiunse, e le era stato detto che si trovava a pochi chilometri da Baalbek.
Whitney traduceva al graduato non senza difficoltà, dato che la giovane parlava velocemente e con un accento differente rispetto ai cittadini di Beirut con i quali lui aveva avuto già qualche contatto nei mesi precedenti; quando la ragazza terminò, i due uomini si avvicinarono alla jeep per decidere il da farsi.
Il tenente era dubbioso: accompagnarle a Baalbek avrebbe comportato una notevole deviazione rispetto al percorso stabilito e, come se non bastasse, li avrebbe condotti in una zona nella quale forte era la presenza degli Hezbollah filoiraniani, circostanza questa che per loro costituiva un indiscutibile pericolo. Come avrebbe potuto dimenticare, infatti, ciò che solo pochi mesi prima era avvenuto all’ambasciata del suo paese (3)? Le esplosioni, i morti americani, il terrore: c’era lì chi li considerava degli invasori, li odiava ferocemente e avrebbe fatto di tutto per costringerli ad andarsene.
Eppure non ignorava nemmeno che se le avessero lasciate nel deserto, anche cedendo loro un po’ di acqua e viveri, non sarebbero andate lontano: soprattutto la più anziana, infatti, sembrava veramente provata e difficilmente avrebbe superato un’altra notte all’addiaccio. Ciò senza contare il pericolo rappresentato dalle bande di delinquenti comuni che spesso attraversavano quelle lande desolate in cerca di convogli da depredare.  
Il caporale gli si avvicinò e gli disse a bassa voce: “Tenente, la ragazza non parla con un accento libanese e certamente sono straniere; non vorrei sbagliarmi, ma credo provengano dalla Siria o peggio dall’Iran…”.
“Iran?” mormorò il graduato, ben sapendo ciò che quella rivelazione implicava: il paese dell’Ayatollah Khomeini era tra i nemici più spietati degli Stati Uniti e quelle due donne dall’aria innocente forse erano moglie, figlia o sorella di terroristi filo-palestinesi.
Il tenente deglutì e rivolse lo sguardo verso di loro, divorato dall’incertezza; come se gli avesse letto nel pensiero, Shirin lo raggiunse e, indicandogli la madre, lo pregò - lo implorò - di aiutarle a raggiungere Baalbek perché, come tradusse Whitney, dovevano assolutamente arrivare lì prima della mattina seguente per dare l’addio a una persona che era loro molto cara, altrimenti sarebbe stato troppo tardi e non avrebbero mai più potuto vederla.
Mac Taylor chiese al caporale di domandare alla ragazza delle ulteriori spiegazioni, ma quella non aggiunse altro e anzi abbassò gli occhi, come timorosa di avere già commesso un errore a rivelare a uno sconosciuto una cosa tanto importante e privata. Allora il tenente pensò che forse si stavano spostando per partecipare al funerale di un congiunto che, secondo la tradizione islamica, avrebbe dovuto essere sepolto il giorno stesso della morte e che quindi, se avessero tardato, non avrebbero più potuto dirgli addio.
Lei si limitò a tacere e a fissarlo con i suoi occhi giovani e alteri: l’aveva implorato, è vero, ma conservando una dignità e una compostezza ammirevoli.
Adesso la scelta spettava a lui, che senza sosta si domandava cosa avrebbe fatto un buon comandante: era consapevole che non sarebbe stato saggio esporre se stesso e i suoi uomini a un potenziale pericolo per aiutare due donne sconosciute, anche considerato che probabilmente appartenevano a un paese i cui governanti vedevano gli americani come Satana in Terra.
Senza parlare guardò prima l’orizzonte, che aveva lo stesso colore della sabbia, e poi i suoi uomini in volto, uno per uno.
Trasse un sospiro e serrò le mascelle: aveva deciso.
 

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Capitolo 2
*** Mahmoud Ascari ***


Capitolo secondo.
Mahmoud Ascari
 
Libano-Valle della Bekaa, 22 ottobre 1983 ore 20.30
 
La notte era calata veloce: il cielo immenso e freddo del deserto si apriva ora sopra la terra spenta.
Mac Taylor guardò in alto dove nascevano le stelle: Orione appena spuntato sopra l’orizzonte, la punta dell’Orsa Minore, che lì chiamavano Cabri la solitaria, e all’altra estremità della costellazione l’azzurra Kochab. La Via Lattea come un mare di sabbia: sabbia che splende sopra altra sabbia, che assorbe la luce calda del giorno e la restituisce pallida e fredda nella liquida oscurità notturna.
Le stesse stelle che lui e suo padre contemplavano durante le rare vacanze in campeggio, perché le luci di Chicago rendevano impossibile distinguerle; quelle che gli mostrava raccontandogli le leggende che gli uomini avevano inventato per ciascuna di esse.
Un cielo identico sotto il quale si consumavano altre vite, completamente diverse; un altro mondo sul quale gravava lo stesso cielo, spettatore immobile delle sue miserie.  
Ora il piccolo convoglio aveva raggiunto un modesto villaggio: dietro le palme stente si scorgevano povere case col tetto di sterpi, tende di lana pesante e muretti di pietra a secco che dividevano la terra in piccoli poderi. Nello piazzo sterrato al centro ardeva un fuoco, ma intorno a esso non si scorgeva anima viva.
I due veicoli si fermarono e i soldati a bordo iniziarono a guardarsi intorno nervosamente, temendo un’imboscata a causa del silenzio e di quell’insolita solitudine: infatti dopo qualche istante dalle ombre circostanti, non rischiarate da alcuna luce tranne i fari delle jeep e i riflessi rossastri del falò, emersero senza alcun rumore prima il luccichio minaccioso delle canne dei fucili e subito dopo le sagome di dieci, forse quindici uomini.
Il tenente mormorò un’imprecazione: erano in trappola e la colpa era sua!
Fissò i suoi uomini tentando di cogliere se sui loro visi vi fosse la rabbia che lui era convinto di meritare per averli infilati in quel maledetto pasticcio, ma vi scorse solo determinazione e una sorta di disperato coraggio, forse quello che i soldati in guerra sono costretti a trasformare in odio per poter continuare a uccidere.  
I secondi colavano via con insopportabile lentezza: da una parte e dall’altra nessuno muoveva un muscolo, come attendendo il segnale che avrebbe scatenato l’inferno. 
All’improvviso Shirin scese dall’auto e, apparentemente senza alcuna paura delle armi spianate, attraversò lo spiazzo, giungendo fino alla grande tenda scura che sorgeva alla sua estremità. Si fermò sulla soglia e pronunciò alcune parole che nessuno riuscì a udire, nonostante il silenzio carico di tensione; in risposta a queste si levò un lembo di stoffa ed emersero dall’oscurità interna un uomo di circa cinquant’anni, vestito di una thobe scura e con il capo coperto, e subito dopo un giovane alto che imbracciava un mitra.
Mac vide la ragazza parlare animatamente, voltandosi ogni tanto verso di loro e gesticolando, e non gli fu difficile comprendere che stava raccontando quello che era le era successo e che tentava di intercedere per la salvezza dei soldati che avevano soccorso lei e sua madre. Poi a un tratto si inginocchiò e tacque; l’uomo più anziano dopo qualche istante di silenzio annuì, le posò una mano sulla testa (unico gesto affettuoso, considerò il marine, nei confronti di una giovanetta - forse una figlia - che aveva rischiato di non rivedere mai più!) e, dopo averle fatto cenno col capo affinché entrasse all’interno della tenda, si accostò alle due macchine.
A quel punto Mac scese a sua volta e avanzò nella sua direzione: ben presto furono l’uno di fronte all’altro. L’uomo lo squadrò a lungo da capo a piedi e il tenente non distolse gli occhi, sostenendo il suo sguardo nel quale, sotto la patina di una diffidenza mista a gratitudine, bruciava - lo comprese chiaramente - un odio profondo e inestinguibile.
“Non siete i benvenuti qui” disse poi a voce alta, in un inglese corretto e sorprendentemente privo di inflessioni straniere “Ma non posso ignorare che avete salvato la vita a mia figlia e a mia moglie…”.
“Ti meravigli, americano, che io parli la tua lingua?” proseguì leggendo lo stupore sul volto abbronzato del militare “Non tutti qui sono selvaggi come tu e i tuoi capi pensate: l’ho appresa molti anni fa, ma da allora non l’ho mai dimenticata. Mi chiamo Mahmoud Ascari e non è costume della mia famiglia tradire le sacre leggi dell’ospitalità, per cui hai la mia parola che né a te né ai tuoi uomini sarà fatto alcun male fino a che resterete qui”.
Fece un gesto deciso con la mano destra e le armi che fino a un secondo prima erano puntate sul gruppo di soldati si abbassarono in un unico movimento, come sincronizzate.
“Venite” aggiunse l’uomo senza sorridere, ma in tono meno teso “il viaggio è stato lungo e la notte è gelida: mangerete qualcosa insieme a noi e poi potrete riprendere il vostro cammino”.
Mac si voltò verso i compagni rivolgendo loro una silenziosa domanda: i suoi uomini erano stanchi e affamati e il tragitto per tornare a Beirut sarebbe stato ancora lungo e faticoso, per cui tutti loro sentivano il bisogno di una sosta.
Eppure lui esitava di nuovo, chiedendosi se accettare quello strano invito oppure no; quella volta però furono i suoi sottoposti a decidere, dopo essersi scambiati un’occhiata, scendendo dal veicolo e schierandosi compatti alle spalle del tenente.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Vittime e carnefici ***


Capitolo terzo.
Vittime e carnefici
 
Gli uomini senza nome della valle avevano offerto ai loro guardinghi ospiti una specie di spezzatino di riso, frutta secca, spezie ed erbe aromatiche con carne e ceci spezzati chiamato Khorèsht, accompagnato da un pane sottile e rotondo, non lievitato ma saporito, detto Nan.
Niente alcolici, ovviamente, ma dopo l’arsura del giorno i marines avevano imparato che non esisteva nulla di più piacevole dell’acqua dei pozzi, fresca e dal sentore leggermente terroso.
Prima di riprendere il loro viaggio si erano radunati intorno alle macchine a fumare e a discutere tra loro, resistendo alla tentazione di tirare fuori dalle tasche un mazzo di carte e sfidarsi in un’improvvisata mano di poker alla luce tremolante delle torce elettriche. Ogni tanto qualcuno volgeva lo sguardo verso l’altra estremità dello spiazzo di terra battuta dove, intorno al fuoco, gli arabi bevevano il loro tè bollente e zuccherato in silenzio, fino a quando non uscì dalla tenda più lontana un uomo apparentemente vecchissimo, col volto abbronzato quasi deformato dalle rughe profonde e i capelli d’un bianco abbagliante.
Si sedette accanto al falò, prese un sorso dal bicchierino che Azar gli aveva porto con filiale devozione e poi cominciò a parlare con voce cantilenante come se recitasse una poesia, ma in un tono comunque solenne. Mac ne fu subito incuriosito e si avvicinò al gruppo, senza riflettere sul fatto che non sarebbe riuscito a comprendere niente del racconto del vecchio; per fortuna Mahmoud gli si mise accanto e di nuovo lo fissò, questa volta con aperta curiosità.
“Cosa fai qui, americano?” domandò nel suo inglese perfetto ma senza sentimento “Ti incuriosiscono le storie di questa terra?”.
L’altro annuì lentamente, cosicché l’uomo gli fece segno di sedersi per terra, accanto a loro.
Le crescenti fiamme del fuoco di sterpi illuminavano tutti quelli che guardavano e ascoltavano: il giovane tenente, la bellezza misteriosa di Shirin nella sua veste scura, l’anello degli uomini e delle donne, i soldati  nelle loro uniformi impolverate. Con le rocce e le povere case di pietra appena rischiarate simili a un palcoscenico dietro di loro e i rossi bagliori alternati alle ombre fuligginose che giocavano dappertutto, sui visi e negli occhi, avrebbero potuto essere il quadro di qualche opera altamente drammatica.
L’uomo fece un gesto con la mano ossuta, quasi ad abbracciare la valle semidesertica che si stendeva davanti a loro, immersa nel buio e nel silenzio.
Poi riprese a parlare: “Raccontano gli uomini degni di fede (ma solo Allah è onnisciente e onnipotente e non dorme) che una volta - non importa quando - in questo luogo si combatté un’aspra battaglia: tutto avvenne in una lunga giornata d’estate sotto il sole crudele di mezzogiorno, quando l’erba verde ancora ondeggiava in questa valle oggi desolata”.
Mahmoud traduceva scandendo piano le parole.
“Potete immaginare quanti fiori delicati, creati da Allah il Misericordioso affinché i loro petali fossero tazza di rugiada, ebbero invece la loro coppa colma fino all’orlo di sangue e caddero spezzati sotto quel peso orrendo? Quante farfalle videro le loro ali multicolori macchiarsi di rosso? Quanti insetti che trascinano le loro misere esistenze nella polvere le terminarono travolti da uomini moribondi, che in quella stessa polvere trovarono la fine della loro vita? Le acque chiare del fiume che prima scorreva quieto in questa vallata si tinsero del colore del sangue versato, mentre il terreno calpestato si mutò in una disgustosa fanghiglia purpurea attraversata dalle orme degli uomini e dei cavalli.  
Il silenzio allora fu riempito dalle grida dei vivi, che si ersero come un unico, interminabile gemito: era un suono pieno di orrore e di sofferenza che saliva da tutte le parti, dalla pianura devastata e dal fiume insozzato.
Potete forse sognare - che Allah il Grande ci risparmi - su quali scene si spalancò l’occhio pallido della luna allorché si levò da dietro la linea nera delle colline, contemplando la terra disseminata di morti? A quali spettacoli dovettero assistere la volpe, il falco e lo sciacallo aggirandosi tra i cadaveri che, con pupille vuote e immobili, fissavano senza vederlo il cielo terso con quegli stessi occhi che un tempo avevano cercato il volto amato di una madre, oppure si erano serenamente chiusi tra le sue braccia amorevoli?”.
Mac Taylor, seduto con le gambe incrociate e le braccia conserte, rabbrividì; e non fu a causa del freddo pungente della notte. Lo turbava ulteriormente sentire su di sé lo sguardo di Shirin che aveva seguito ogni suo movimento e, senza dire nulla, continuava solo a fissarlo.
“Il vento sepolcrale spirò incessante su questo luogo atroce” riprese il vecchio la cui voce era divenuta adesso tremula da sembrare quasi una ninnananna, ma che invece di cantare di vita cantava di morte.
 “Le stelle lo vegliarono mestamente, sorgendo e tramontando su di esso innumerevoli volte prima che tutte le tracce del massacro fossero sepolte dalla sabbia. E anche quando esse svanirono, cancellate dal tempo, e il sole sorrise a questo luogo contaminato come gli aveva sorriso quando era ancora innocente, tuttavia del male rimase traccia: non un filo d’erba, non più un fiore cresce in questi luoghi che il male ha reso sterili…”.
Il tenente era rimasto colpito da quel racconto più di quanto avrebbe voluto mostrare e quindi si levò in piedi e fece un paio di passi verso i compagni, ma Mahmoud lo seguì e gli rivolse di nuovo la parola: per quanto strano potesse sembrare in uno che la pensava come lui, quello straniero lo incuriosiva e sentiva il desiderio di parlargli ancora.
“Ti infastidiscono i racconti di guerra?” domandò mentre Mac, appressatosi al fuoco, si stava accendendo una sigaretta presa dal pacchetto che portava nella bisaccia. “Eppure per tanti la guerra è solo una scusa per uccidere senza essere puniti e, anzi, ottenendo la riconoscenza della gente”.
L’altro prese una boccata e aspirò il fumo avidamente, ma non rispose.
“E tu, tu hai mai ucciso?” insistette il primo.
Il marine trasse un sospiro e finalmente disse, scegliendo con cura le parole: “Sì, più di una volta. Ma senza piacere e anzi con sofferenza, anche se si trattava di coloro che abbiamo il dovere di uccidere, che ci viene ordinato di uccidere”.
“Però lo hai fatto…” ribatté l’arabo senza smettere di fissarlo.
“L’ho fatto e lo rifarò, se sarà necessario” rispose il soldato con uno scintillio triste nello sguardo “ma so che, quando sarà finita, se rimarrò vivo dovrò fare i conti con il mio Dio e con la mia coscienza”.
Esistono gli ordini, pensava il tenente, e agli ordini si deve obbedire: chi era lui per discuterli? Lui, tutti i suoi compagni alla fine non contavano niente, erano solo ingranaggi in un meccanismo più grande di loro, che forse prima o poi li avrebbe stritolati tutti, fino all’ultimo. Semplici strumenti nelle mani di chi decideva il loro destino.
E anche se quella non era la sua guerra, anche se erano lì per proteggere i civili e non vedeva quegli uomini come nemici, sapeva che invece Mahmoud e la sua famiglia li odiavano e che se li avesse incontrati in una situazione diversa probabilmente avrebbe dovuto combattere contro di loro, difendersi anche a costo di ucciderli.
Del resto, aveva scelto liberamente di arruolarsi perché credeva nei valori di cui il suo paese si faceva portavoce nel mondo e perché voleva disperatamente assomigliare a suo padre, eguagliare la sua forza e il suo coraggio, dimostrati in una guerra persino più sanguinosa di quella che ora stava lacerando il Medio Oriente. 
“Il tuo Dio” proseguì l’altro, distogliendo lo sguardo da lui e appuntandolo sulle persone sedute intorno al fuoco “consente che donne e bambini innocenti, che avevano trovato un rifugio alla loro miserevole sorte di profughi, siano massacrati uno a uno senza che voi occidentali, che vi ritenete l’emblema stesso della civiltà, facciate nulla per salvarli? Anzi, con la complicità del vostro silenzio e della vostra inerzia?”.
Sabra e Chatila(4).
Ecco di cosa parlava, trattenendo a stento il furore che adesso gli faceva tremare leggermente la voce: il tremendo massacro portato a termine daifalangisti cristiani con la piena copertura degli israeliani - si diceva - e che aveva reso la situazione libanese ancor più incandescente. Certo, nessuno dei suoi si sarebbe azzardato a parlare apertamente della cosa, né tanto meno a contestarla, eppure non si potevano ignorare le voci che circolavano tra i soldati in missione, né fare altro che ammettere l’atrocità di quel gesto insensato.
 “A volte” rifletté amaramente il soldato “penso che se ci fosse davvero un Dio non avrebbe mai permesso che avvenisse ciò che io stesso ho visto con i miei occhi. Però in fondo chi sono per poter giudicare la sua volontà? Io ho bisogno di credere che ci sia qualcuno, qualcosa di superiore che perdona e comprende la mia debolezza”.
“Non credo che il tuo Dio e il mio Dio abbiano idee diverse al riguardo” rispose però secco, sperando che l’altro cogliesse il riferimento celato dietro le sue parole solo apparentemente concilianti: quanti delitti erano stati commessi anche nel nome di Allah? Quanti misfatti giustificati in base alla sua pretesa volontà? Che colpa avevano, ad esempio, gli impiegati libanesi morti assieme ai soldati americani nell’attacco kamikaze che ad aprile aveva devastato l’ambasciata USA a Beirut?
L’altro per tutta risposta stirò le labbra sottili in una specie di sorriso e rispose: “Tu sei diverso, americano, l’ho capito fin dal primo momento; se solo tu e i tuoi non foste dalla parte di quei maledetti israeliani…”.
Ecco, quello era il punto: l’odio feroce verso Israele che aveva scacciato i palestinesi dalla loro terra, che lottava per espandere i propri confini rappresentando una minaccia per i paesi circostanti.
“Io sono dalla parte del mio paese e delle Nazioni Unite” ribatté il tenente, mentre dentro di lui il ricordo scavava la sua anima come un ruscello la roccia. Chissà perché in quel momento gli tornò in mente ancora una volta suo padre: il marine Mckenna Boyd Taylor senior apparteneva alla Sesta Divisione Corazzata che nel 1945 partecipò alla liberazione del campo di sterminio di Buchenwald e, rare volte, aveva raccontato al figlio gli orrori che era stato costretto a vedere e la cui memoria, lo si capiva, l’aveva accompagnato fino al suo ultimo istante di vita.
Le fosse piene di cadaveri, gli uomini ridotti a scheletri, con gli occhi spenti e l’anima devastata, eppure ostinatamente vivi. Di uno in particolare suo padre gli aveva parlato: dormiva sul pavimento di una baracca e, quando lui lo aveva svegliato, aveva sussultato per il terrore forse pensando che fossero le guardie del campo o le SS che, avendo capito che la guerra era persa, stavano cercando di eliminare quanti più testimoni potevano delle loro efferatezze.
Però poi lo aveva guardato in viso, aveva squadrato la sua divisa e letto l’orrore nei suoi occhi; il prigioniero era calvo, forse pesava sì e no quaranta chili e la sua pelle era grigia e fredda come quella un cadavere, ma nonostante ciò suo padre lo aveva tirato su vincendo la repulsione che quel contatto suo malgrado gli provocava, gli aveva offerto la sua giacca e  poi lo aveva portato fuori dalla baracca piena di morti accatastati tenendolo tra le braccia perché non riusciva a camminare.
Una barretta di cioccolato era stato tutto ciò che aveva potuto dargli, tutto ciò che il suo stomaco vuoto sarebbe stato capace di tollerare, però il prigioniero gli aveva sussurrato tra le lacrime che nulla in tutta la sua vita avrebbe avuto mai lo stesso sapore (5).
La storia umana aveva le sue vendette e la sua amara, amarissima, ironia.
Vittime e carnefici. Dolore subito e dolore inflitto.
L’odio ricevuto può giustificare il male?
Mac Taylor era solo un ragazzo sperduto sotto un cielo straniero e non sarebbe riuscito a trovare una risposta a quelle domande nemmeno se da ciò fosse dipesa la sua vita. Ciò che aveva, però, compreso era che adesso dovevano andarsene, tornare a Beirut, perché quella strana situazione poteva degenerare da un momento all’altro in maniera imprevista.
Perciò si alzò e prese congedo da Mahmoud, ordinando ai soldati di prepararsi in fretta e riprendere posto sulle auto; avrebbe voluto salutare anche Shirin che - lo aveva sentito anche quando non era voltato verso di lei - non lo aveva abbandonato nemmeno un istante, seguendolo con lo sguardo in ogni gesto, parola ed espressione del viso, ma comprese che suo padre non avrebbe consentito gesti del genere.
Più di una volta durante quella serata, quando fugacemente i loro occhi si erano incontrati e lei non li aveva abbassati come invece lui si sarebbe aspettato facesse, era stato attraversato dalla sensazione che volesse dirgli qualcosa. Ma non era stato possibile e del resto, anche se ne avessero avuto l’occasione, forse non sarebbero comunque riusciti a intendersi: appartenevano a due mondi troppo distanti, che forse nulla avevano in comune, e il loro sarebbe rimasto per sempre un dialogo impossibile.
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Addio, figlio. Gloria a te, o shaid! ***


Capitolo quarto
Addio, figlio. Gloria a te, o shaid!
 
Libano-Valle della Bekaa, 23 ottobre 1983 ore 03.00
 
L’alba è ancora lontana, l’aria grigia e immobile della notte è attraversata solo dalle grida lugubri di qualche sciacallo lontano.
Ismalal Ascari (6) si è già levato dal suo letto, si è rasato perfettamente, ha terminato di compiere le abluzioni rituali e recitato la preghiera dei morti; adesso pronuncerà le parole della preghiera dell’alba, poi ascolterà dal padre Mahmoud l’ultimo sermone della sua vita.
Quella notte non ha dormito molto e beve avidamente l’ultimo bicchierino di tè che Azar gli porge; la bevanda bollente e dolcissima lo rianima un po’.
Rimane solo con se stesso mentre la madre s’infila di nuovo per un attimo sotto la tenda cercando di nascondere le lacrime; non ha paura lui, no, né alcuna incertezza. Ha ripetuto mille volte i gesti della sua missione, conosce a memoria tutti i movimenti che dovrà compiere.
Lui e gli altri hanno progettato di sequestrare il camion che ogni giorno porta l’acqua alla base americana situata vicino all’aeroporto internazionale di Beirut; ne hanno studiato per giorni il percorso e gli orari e sanno che non vengono mai modificati. Ne conoscono il modello e il colore e sono riusciti e procurarsene uno identico, poi dipinto in maniera da assomigliare in tutto e per tutto a quello vero; solo che non porterà agli americani acqua, bensì morte. Perché sarà imbottito con l’equivalente di quindicimila chili di tritolo.
A lui toccherà il compito di guidarlo fin dentro alla base e farlo esplodere in modo da causare più danni possibile.
Non piange lui e, anzi, è felice perché sa che gli è stato tributato l’onore più alto: morire per Allah.
Non teme la fine, ma al contrario la cerca con gioia; sa che diventerà uno shaid, un testimone che conosce la verità ed è disposto a morire per essa, e pensa con fierezza che tra la sua gente si parlerà di lui come di un modello da imitare.
Dio vuole la sua morte, il suo martirio per la verità, e questa è l’unica cosa importante.
Mahmoud lo raggiunge e lo bacia sulla fronte, tremando; improvvisamente sembra molto più vecchio dei suoi cinquant’anni.
“Gli StatiUniti, Israele e il mondo intero devono sapere che noi abbiamo il senso delmartirio e che i nostri slogan diventeranno realtà” gli dice, pur sapendo bene che il figlio non ha bisogno di ulteriori motivazioni e che quelle parole sono solo un conforto per chi le pronuncia “La flotta americana non cispaventa. Con la nostra fede e con la nostra forza daremo agli americani unalezione che non dimenticheranno mai… ciò che stai per fare sarà una buona azione, perché scuoterà il trono dell’America e il potere della Francia”.
Sa che Ismalal nel compiere la sua missione adempirà a due obblighi: l’uno verso Dio, l’altro per difendere se stesso e il suo paese. Sa che è un privilegio, che in Paradiso si sposerà con settantadue vergini dai profondi occhi scuri e che sulla sua testa sarà posata una corona di gloria di cui un solo rubino vale più del mondo intero.
Lo sa, ma il suo cuore si consuma lo stesso. Segretamente.
 
***
 
Shirin, non avendo la forza di dire addio a suo fratello Ismalal,  all’ultimo momento ha preferito rimanere dentro la tenda; ora che il ragazzo è partito Azar non si trattiene più e singhiozza disperatamente, mentre la figlia la guarda senza dire nulla, incapace di parlare di fronte a quella che le sembra una follia.
D’un tratto la donna solleva su di lei il volto stravolto dalla sofferenza e geme: “Mi guardi come se fossi pazza! Pensi che io abbia il cuore di pietra? Credi forse che non soffra? Le mie lacrime non dovevano impedire a Ismalal di compiere la sua missione; il mio cuore è spezzato, ma sono disposta a sacrificarmi per qualcosa di più prezioso e sacro della nostra vita terrena… Lo capisci, figlia?”.
Shirin fa un cenno affermativo col capo perché sì, lo capisce.
 
***
 
Azar, disfatta dal dolore, si è assopita per un po’ e quando, destatasi, ha cercato la figlia si è accorta con stupore che la ragazza non si trovava lì, nel villaggio; lo ha riferito al marito che, con un atteggiamento che l’ha meravigliata ancor di più, è rimasto in silenzio quasi che la notizia non lo avesse sorpreso.
Mahmoud non le ha risposto: non era necessario che sapesse tutto, era soltanto una donna e probabilmente non avrebbe comunque capito. Così Shirin l’aveva fatto davvero - considera con rabbia - gli aveva disobbedito nonostante tutto.
L’aveva sottovalutata, non credeva che ne sarebbe stata capace, e invece avrebbe dovuto leggere cosa si agitava nei suoi occhi da puledra selvaggia…
La notte prima, non appena il convoglio dei marines era scomparso nella notte, lei si gli era avvicinata e gli aveva detto: “Padre, perché non mi hai permesso di avvisarli? Non è giusto, quegli uomini mi hanno salvato la vita, perché adesso io non ho potuto fare altrettanto per loro?”.
“Loro?” aveva subito pensato Mahmoud con un moto di indignazione “Loro o, piuttosto, lui?”.
In un momento diverso, se non avesse saputo quanto era stato vicino a non rivederla più viva, le avrebbe di certo chiuso la bocca con un manrovescio ma quella volta no, non lo fece perché, nonostante tutto, quell’idea folle aveva attraversato per una frazione di secondo anche il suo cervello.
Ma era stato solo un istante e poi aveva capito che non si poteva tornare indietro, così aveva riaffermato con forza a se stesso le parole della loro guida, l’Ayatollah Khomeini: non esiste un imperativo più vincolante per un musulmano dell’ordine di sacrificare la sua vita per difendere e sostenere l’islam.
La guerra ha le sue regole e non bisogna avere pietà dei nemici, neppure se per avventura arriviamo a provare rispetto per loro. O addirittura gratitudine.
 

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Capitolo 5
*** Bassamat al-farah ***


 
Capitolo quinto.
Bassamat al-farah
 
Libano-Beirut, 23 ottobre 1983 ore 05.15
 
Shirin Ascari scende piano dalla camionetta che l’ha raccolta lungo la strada e portata fino alla città; tira il velo sul viso, infastidita dalla polvere e dagli sguardi dei soldati francesi che le hanno dato un passaggio. Si allontana a passo svelto senza salutare, senza ringraziare, ignorando le battute e le risate che gli uomini in divisa lanciano al suo indirizzo.
Sospira e guarda in alto: verso oriente la luce pallida del giorno spegne una a una le stelle nel cielo ancora grigio. La Capra, il Cane, il Serpente, lo Scorpione e più in là le tre sorelle - Mintaka, Alnilam, Alnitak - svaniscono avvolte nella federa biancastra dell’alba. 
Non sa che ore sono, né precisamente dove dirigersi; eppure, nonostante tutto spera di fare in tempo.
 
Libano - Beirut, caserma dei marines, 23 ottobre 1983 ore 6.18
 
Il sole sta sorgendo e fa già piuttosto caldo; è domenica e la maggior parte dei mille marines arrivati in città il maggio precedente si trova ancora nelle camerate a riposare.
Mac Taylor, invece, è già sveglio da ore; ha trascorso anzi una notte agitata, tormentato da un’ansia che non è riuscito a spiegare razionalmente e ripensando agli avvenimenti della sera precedente, a tutte le persone che ha conosciuto e che con ogni probabilità non rivedrà mai più.
Eppure - considera - tutto sommato è stata una notte tranquilla, una delle poche che hanno potuto passare nelle camerate e non sdraiati sul pavimento, nei bunker al piano terra, per difendersi dai colpi di mortaio.
Esce nello spiazzo al centro dell’edificio e aspira gli odori di caffè e bacon fritto provenienti dalle cucine: è domenica in fondo e bisogna solennizzarla anche se sono lontani dalle loro famiglie, anche se rischiano la vita ogni giorno.
Oggi è di servizio come sentinella e pensa che forse più tardi scriverà una lettera a sua madre e le racconterà quello che gli è successo il giorno prima; chissà, magari se non ci sarà troppa fila riuscirà persino a parlarle a telefono. E per la prima volta non sarà per descriverle ciò a cui lui - addestrato in patria per combattere una guerra - ha dovuto assistere impotente, senza poter intervenire.
Dopo settimane di attacchi, di autobombe esplose e non, di colpi di mortaio sparati al calare della luce - riflette, osservando il via vai di soldati - adesso la situazione sembrava essersi un po' tranquillizzata e nella base l'atmosfera era diventata meno tesa.
Trae un respiro profondo ma, nonostante si sforzi, non riesce a scacciare l’inquietudine che lo turba.
 
***
 
Il soldato semplice Robert T. Giordano monta la guardia all’ingresso laterale della caserma; il suo turno è quasi finito e non vede l’ora di farsi una doccia e infilarsi nella branda. Per fortuna - pensa, scacciando infastidito la mosca che per l’ennesima volta gli si è posata sulla mano che impugna il mitra di ordinanza - era andato tutto liscio quella notte…
Per settimane avevano visto e sentito così tanti scontri armati chelui e i suoi compagni ormai erano in grado di capire, in base al rumore dei colpi e al colore deilampi delle detonazioni, quali fazioni si stessero combattendo e dove.
Ha appena iniziato a rilassarsi pregustando la piacevole frescura dell’acqua sulla pelle quando all’improvviso vede una figura correre a perdifiato verso di lui. È completamente avvolta in una veste scura e pesante e Robert all’inizio non riesce a capire nemmeno se sia un uomo o una donna: dà una voce all’altro marine di guardia insieme a lui, che pareva essersi assopito un momento e sobbalza sentendosi chiamare, ed entrambi puntano l’arma davanti a loro.
Ecco, ricordano, le regole di ingaggio: le maledette dieci regole del peacekeeper. Una di queste praticamente vietava ai soldati in missione di pace di rispondere al fuoco anche dopo che alcuni di loro erano stati uccisi in mezzo al fuoco incrociato della guerra di bande, persino se vedevano morire ammazzati davanti ai loro occhi donne e bambini.
I due marines gridano l’altolà una, due volte come prescrive il regolamento, ma questo non serve a fermare la corsa dello sconosciuto che evidentemente non ha capito e continua a correre disperatamente verso l’ingresso della base. Quando urla qualcosa in arabo - qualcosa che i due ovviamente non possono comprendere - i soldati si accorgono che si tratta di una donna: sentono la sua voce, ma è ancora troppo lontana per distinguerne i lineamenti.
Contemporaneamente, seguendo i protocolli che hanno imparato, i militari imbracciano le armi e prendono la mira. Ripetono l’avvertimento ancora, ma la donna non si ferma neppure stavolta e anzi grida nuovamente come se volesse avvisarli di qualcosa.
I due americani si scambiano uno sguardo carico di ansia: purtroppo sanno perfettamente cosa devono fare.
Troppe volte sono stati tratti in inganno, la loro priorità è difendere se stessi e i compagni da quello che potrebbe essere un attentatore suicida che, con uno stratagemma, sta cercando di avvicinarsi alla base. Non sarebbe la prima volta.
Il marine Robert T. Giordano serra le mascelle e fissa il commilitone. “Fermati, ti prego… fermati, maledizione!” impreca sotto voce.
Fanno un ultimo tentativo intimando l’alt e poi, tutti e due nello stesso istante, aprono il fuoco.
Shirin Ascari avverte un dolore lacerante al petto, alla schiena, al collo e prima che possa rendersi conto di ciò che è accaduto crolla al suolo, fulminata dai proiettili. Il respiro spezzato, il cervello annebbiato dal terrore, tenta di rialzarsi solo una volta ma non ci riesce; si sente scivolare indietro e lontano nel vento, indietro e lontano senza capire, mentre la polvere comincia già a posarsi sulle sue vesti imbrattate di sangue, sul suo corpo di ragazza massacrata, sui suoi occhi ormai spalancati sul nulla.
 
Il tenente Mac Taylor sta bevendo l’ultimo sorso di caffè prima di cominciare il suo turno di sorveglianza quando sente gli spari provenienti dall’ala ovest della caserma: istintivamente si alza da tavola e corre in quella direzione.
 
Libano - Beirut, caserma dei marines, 23 ottobre 1983 ore 6.23
 
Ismalal Ascari è seduto al posto di guida del camion Dodge giallo; le mani sono appoggiate senza tensione sul volante, è tranquillo e rilassato e nessuno direbbe mai che sta per morire.
Fuori il mattino sorge, ma è la notte che si stenderà sul mondo quella domenica di ottobre.
Si sente leggero, lo shaid, più che mai libero, perché sa che non può tornare indietro: tra pochi istanti consegnerà angoscia e orrore agli invasori, tra pochi istanti diventerà un martire.
Socchiude gli occhi scuri e pensa che sarà condotto in paradiso da uccelli dalle piume verdi, che allo spargimento della prima goccia di sangue sarà perdonato per i suoi peccati e salvato dai tormenti della tomba, che potrà intercedere per settanta suoi parenti.
Guida lentamente, girando nel parcheggio della base militare con studiata calma: poi, con un’improvvisa accelerata, si scaglia contro l’ingresso principale abbattendo barriere e filo spinato.
Qualcuno dall’interno gli spara, ma è troppo tardi e lui lo capisce; supera due posti di guardia e giunge proprio al centro del compound.
Ismalal Ascari sorride.
È il bassamatal-farah, il sorriso di gioia dei martiri.
Sorride perché è felice.
Perché sta attraversando le porte del paradiso.
Perché sta per scorgere il volto di Allah.
Il camion bomba esplode nell’atrio squarciando i quattro piani della caserma: le porte blindate saltano via come un fuscello, gli alberi più vicini vengono sradicati e completamente defoliati all’istante.
 
*** Mac Taylor è appena arrivato all’ingresso secondario dell’edificio e subito i due ragazzi di guardia gli corrono incontro per spiegare l’accaduto; il tenente si affaccia e osserva il cadavere disteso nella polvere, ancora troppo distante per scorgerne il volto. In preda a un’inquietudine di cui non riesce a comprendere l’esatta ragione, fissa quel povero mucchio di stracci insanguinati col cuore che gli batte all’impazzata nel petto È consapevole che uscire dalla base sarebbe un’imprudenza e una follia, che si esporrebbe al pericolo senza nessuna valida motivazione, eppure qualcosa lo spinge ad aprire il cancello metallico… All’improvviso un lampo, come quando lo sportello di un altoforno si spalanca, e un muggito che incomincia bianco e poi diventa rosso e via via si dissolve nello spostamento d’aria; i tre uomini si voltano e nella stessa frazione di secondo un fragoroso boato riempie e squassa l’aria, rovesciandoli all’indietro sullo sterrato. Il fumo e la polvere li accecano e tolgono loro il respiro; pezzi di metallo anneriti, schegge e calcinacci scagliati lontano dalla forza dell’esplosione, punteggiano il suolo.
Il silenzio irreale che è seguito alla deflagrazione della bomba, lo shock e lo stordimento si dissipano poco a poco, sostituiti dai lamenti dei feriti e dalle grida di chi è rimasto indenne.
Mac Taylor si tira su in ginocchio a fatica, lo spostamento d’aria lo ha scaraventato con violenza per terra e il sangue che cola dalla fronte gli offusca la vista; gli sfugge un gemito, sente che sta per svenire, ma con tutte le sue forze resiste. Sbatte le palpebre, la gola irritata dal fumo acre; intorno, il terreno è sconvolto e a pochi centimetri da lui giace fumante un brandello di lamiera contorta. Adesso è in piedi e senza attendere che il fumo si diradi avanza barcollando verso ciò che rimane delle camerate; confusamente, mentre arranca tra i rottami e i gemiti dei feriti, si rende conto che se non fosse corso a vedere cosa era accaduto dall’altra parte della base, se fosse rimasto dov’era fino a pochi minuti prima, l’esplosione l’avrebbe certamente ucciso.
Il caporale Stan Whitney è riverso al suolo, il volto ambrato annerito dalla fuliggine, l’uniforme squarciata sul petto; gli occhi dilatati per la sofferenza, si lamenta in preda ad acuti spasmi di dolore.
Sanguina abbondantemente dalla bocca, dal naso, dalle orecchie, tanto che l’uniforme mimetica ne è inzuppata, e biascica senza sosta parole incomprensibili: sono frasi spezzate, invocazioni, in un mormorio sempre più flebile.
Mac è quasi accecato dal suo stesso sangue e non riesce a pensare lucidamente, eppure dentro di sé capisce che non c’è più nulla da fare.
Gli prende entrambe le mani nelle sue e mente: “Tieni duro, marine!” grida col poco fiato che gli rimane in corpo.
“Resisti, ti porteremo via di qui!”.
Lo tiene disperatamente stretto, quasi potesse in quel modo strapparlo alla morte, portarlo veramente lontano, in un luogo sicuro che sa non esistere da nessuna parte.
Stan trema e si lamenta debolmente; una sostanza vischiosa e rossastra, che il tenente riconosce subito con raccapriccio, inizia a colare con lentezza inesorabile dal margine interno dell’occhio sinistro del caporale.
All’ultimo il ragazzo si solleva appena e tenta di dire qualcosa.
“Io l’ho visto, ho visto quello che guidava” mormora.
Mac sente che le sue mani perdono all’improvviso forza, le stringe ancora ma si rende conto che ormai è finita.
“Lui sorrideva…” 

 

 

FINE

 
(1) Come detto, Stan Whitney è il nome del personaggio effettivamente citato nell’episodio La sentinella di CSI NY.
(2) So che in Iran si parla prevalentemente il farsì, ma per esigenze narrative ho immaginato che i personaggi usassero l’arabo che, del resto, ho letto essere lingua comunque presente nel paese, soprattutto ai confini con la Siria e il Libano.
(3) Il riferimento è all’attentato che il 18 aprile 1983 aveva devastato l’ambasciata americana a Beirut, uccidendo 63 persone.
(4) Tra il 16 e il 18 settembre 1982 i miliziani cristiano-falangisti di Elie Hobeika, in cerca di vendetta per l’omicidio del neo presidente Gemayel e d’accordo con l’esercito israeliano che aveva competenza sulla zona, entrarono nei campi profughi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, che erano stati in precedenza chiusi dagli israeliani, e posero in essere una terribile strage. Il numero esatto delle vittime è tuttora sconosciuto, ma  oscilla tra le 450 e le 3.500 a seconda delle fonti. Fonte wikipedia.
(5) L’episodio è raccontato nella puntata “Yahrzeit” (“Il ricordo”) di CSI NY. In verità, sembrerebbe che Mac apprenda le circostanze del racconto solo in quel momento, ma a me è piaciuto immaginare che egli già lo sapesse e che quel ricordo, indotto dalle particolari circostanze del momento, lo induca a una riflessione più ampia e generale sulla guerra.
(6) Dai documenti rinvenuti sul luogo dell’esplosione, si apprese che effettivamente l’attentatore si chiamava così e che era di nazionalità iraniana.
 

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