Miðgarðr No More di The_Viking (/viewuser.php?uid=92879)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -- PARTE PRIMA -- ***
Capitolo 2: *** Verso Ísland ***
Capitolo 3: *** Il campo ***
Capitolo 4: *** Inquietudine ***
Capitolo 5: *** Assemblea ***
Capitolo 6: *** Tempo di guerra ***
Capitolo 7: *** Cena con Odino ***
Capitolo 8: *** Ghiaccio e Fuoco ***
Capitolo 9: *** Rottura ***
Capitolo 10: *** Jötunn ***
Capitolo 11: *** Lealtà ***
Capitolo 12: *** Assalto ***
Capitolo 13: *** Percezione ***
Capitolo 14: *** Incontro ***
Capitolo 15: *** Straordinarietà ***
Capitolo 16: *** Mossa decisiva ***
Capitolo 17: *** Uomini e dèi ***
Capitolo 18: *** Odio ***
Capitolo 19: *** Senza tregua ***
Capitolo 20: *** Nobildonne ***
Capitolo 21: *** L’abbraccio dell’Oceano infinito I ***
Capitolo 22: *** L’abbraccio dell’Oceano infinito II ***
Capitolo 23: *** L'attesa ha un termine ***
Capitolo 24: *** Ricongiungimento ***
Capitolo 25: *** -- PARTE SECONDA -- ***
Capitolo 26: *** Foresta incantata ***
Capitolo 27: *** Il villaggio ***
Capitolo 1 *** -- PARTE PRIMA -- ***
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Capitolo 2 *** Verso Ísland ***
"[...] Fleygði
Óðinn
ok í folk of
skaut;
þas vas enn
folkvíg
fyrst í
heimi."
"[...] Levava la lancia
Óðinn
e la scagliava nella mischia:
quella fu la battaglia
prima nel mondo."
(Edda poetica, 24)
Era passato mezzogiorno, a giudicare dalla
posizione del
Sole nel firmamento. Piccole onde percuotevano ritmicamente lo scafo
del drakkar
su cui viaggiavano Thorgrim Haraldsson e compagni, rendendo il moto
della nave simile al gesto dolce di una madre che faccia dondolare la
culla del proprio figlio per farlo addormentare.
Una brezza lieve si alzava a intervalli regolari, gonfiando le vele
quanto bastava per sostenere la marcia dell'imbarcazione attraverso le
fredde acque del Mar di Norvegia; ah, se solo ci fosse stata anche il
giorno prima! Di certo il viaggio sarebbe stato più rapido e
indolore; tuttavia Thorgrim aveva troppa esperienza di navigazione alle
spalle per scoraggiarsi per così poco.
Baldrir, il fidato aiutante e amico, sostava a prua, riflettendo forse
sulla propria esistenza, ispirato dall'immensità dei mari.
Thorgrim, saltando con balzi regolari le funi che giacevano accatastate
sul ponte, lo raggiunse.
- Mio fidato amico, qualcosa ti affligge?
- La nostalgia, mio signore. Jàrnsa mi attende in patria,
sola, ed io mi trovo lontano molte mil
da lei. Non fraintendetemi: è per me un onore seguirvi in
ogni impresa, tuttavia ella... mi manca.
- Comprendo appieno le tue ragioni e sono lusingato dall'importanza che
attribuisci alle mie, alle nostre azioni. Ti invito a farti forza e a
resistere. Prima faremo, meglio sarà: vale anche per me.
Un marinaio gridò che si vedeva terra all'orizzonte.
Thorgrim guardò davanti a sé e vide una sottile e
confusa linea scura delinearsi laddove cielo e mare si univano: si
figurava il loro approdo in terra d'Islanda.
Molte leggende si erano succedute su quella terra, di scoperta tanto
recente da essere rimasta ancora parzialmente inesplorata; si diceva
che fossero stati gli dèi a guidare i primi scopritori sulle
sue spiagge e che fosse essa stessa dimora di
divinità. Thorgrim conosceva appena quell'isola, vi era
stato solo una volta, molto tempo prima e, per di più, per
breve periodo, eppure il fascino misterioso della stessa, la sua
posizione così distante dalla Terra Madre, la Scandinavia, e
da quasi tutte le terre abitate dagli uomini rendevano ai suoi occhi
l'Islanda collocabile ai confini del mondo dei vivi, Miðgarðr,
la Terra di Mezzo.
L'equipaggio sussurrò, uomo per uomo, una preghiera
agli Æsir, i
signori del cielo, affinché garantissero la riuscita
dell'impresa che stavano per condurre; se fosse andata a buon fine,
tutti gli uomini presenti su quella nave sarebbero entrati nella
leggenda e i posteri avrebbero tramandato per millenni le loro memorie,
Thorgrim ne era certo.
Le coste frastagliate e rocciose d'Islanda si delinearono a poco a
poco, dando all'equipaggio la preoccupazione di cercare un luogo adatto
all'approdo.
Baldrir gettò in mare dei pali
affinché la corrente, guidata dal volere degli
dèi, li portasse in quel luogo;
così era stato fatto pochi anni prima da Ingólfur
Arnarson
per decidere dove fondare la città di Reykjavík,
così l'equipaggio del drakkar
avrebbe fatto per decidere dove approdare.
Cosa rende un uomo felice? La fiducia nella riuscita di quel che si fa
o semplicemente il sapere che si sta facendo ciò che
è giusto?, si chiese Thorgrim osservando l'amico.
- Jàrnsa deve essere fiera di te, caro Baldrir.
- Vi ringrazio, mio signore. Sono qui anche per lei.
- Sei un bravo marito e un bravo guerriero, verrai ricompensato come
meriti. Per quanto riguarda l'immediato, oltre che mio vicecomandante
sei nominato capo dei combattenti sul campo.
- Io... non sono certo di meritare tanto!
- Lo meriti. Ma ora stiamo arrivando, prepariamoci all'impresa.
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Capitolo 3 *** Il campo ***
L'approdo fu relativamente semplice grazie sia
all'abilità
dei manovratori, sia alla conformazione della costa che, laddove i pali
erano stati condotti dalla corrente, formava degli scogli simili a
terrazzamenti rocciosi a gradini in grado di riparare dalle onde il
vascello.
Thorgrim, in qualità di guida della spedizione, decise di
scendere per primo. Baciò quel suolo freddo e duro e
ringraziò gli dèi di avergli concesso di
raggiungerlo; fatto questo scalò la bassa parete rocciosa
che separava il luogo dell'approdo dal suolo vero e proprio dell'isola
ed osservò la conformazione del luogo.
Non si vedeva anima viva. Si era da poco alzato un vento che veniva da
terra e dava all'intera scena un aspetto ancora più
selvaggio; non si vedevano alberi, cosa che turbò abbastanza
il condottiero, abituato alle grandi foreste della sua Svezia, e
sembrava che la vegetazione fosse quella tipica della steppa.
Gli altri, scaricando dalla nave il materiale necessario, lo seguirono
facendosi strada faticosamente lungo la parete rocciosa; Baldrir ed
Erik Magnusson, uno dei combattenti di Thorgrim, furono i primi a
giungere, portando con sé materiale da campo.
- Non lavorate soltanto voi, concedetemi di darvi una mano. - disse
Thorgrim.
- Se è questo che desiderate, signore, ve lo concederemo, ma
in confidenza posso domandarvi dove pensate di porre il campo? - fece
Erik.
- Non ne sono ancora sicuro, preferirei perlustrare il luogo prima di
prendere una qualunque decisione.
Depositarono a terra del materiale, poi Thorgrim ordinò agli
altri di occuparsene.
- Lasciate agli altri quello che state
portando e seguitemi.
I tre uomini si avviarono attraverso una distesa piatta e desolata che
sembrava avrebbe potuto estendersi all'infinito. Il Sole stava per
tramontare e il cielo incominciava già a tingersi dei colori
vivaci del crepuscolo; nubi filiformi tingevano di bianco
l'immensità di quel mare azzurro che era il firmamento.
Baldrir, marciando, osservava quei colori.
- Pensate che gli Æsir
abitino lassù?
- Forse, Baldrir. Indipendentemente da dove sono, però, sono
certo che ci stiano seguendo: abbiamo invocato la loro protezione -
rispose Thorgrim.
Alcuni uccelli marini volavano sopra di loro in stormi regolari, come
danzando. Il loro verso, il flebile fischio del vento e, in lontananza,
l'infrangersi delle onde sugli scogli erano i soli rumori che li
accompagnavano.
Giunsero finalmente in prossimità di un basso colle che, se
dal lato da cui giungevano era troppo impervio per poter essere
percorso, una volta aggirato scendeva piuttosto dolcemente ai loro
piedi, offrendo così un luogo adatto a dominare una zona
più ampia.
I tre salirono in cima e osservarono un piccolo corso d'acqua che
pareva scendere da una montagna distante.
- Questo luogo mi sembra adatto a porre il campo, c'è anche
l'acqua. Per trovare la fauna dovremo faticare un poco, tuttavia credo
sia il posto migliore nelle vicinanze. - sentenziò Thorgrim.
Baldrir tornò al drakkar
per avvisare gli altri della decisione del capo e subito lo seguì Erik. Thorgrim, invece, rimase da solo ad osservare, dall'alto, quel luogo così singolare.
Surtr, il terribile gigante del fuoco, osservava la scena dal Múspellsheimr
e rideva.
- Che illusi, quegli umani! Credono di essere degli eroi e invece non
valgono nulla. Possono anche finire tutti nell'Hel, per quanto mi
riguarda, e restarci per l'eternità, tanto non sono che
delle stupide pulci, dei fastidiosi insetti tra noi e gli
dèi!
Gli rispose un altro figlio
di Múspell.
- La loro "impresa" fallirà, mio Surtr, è
destinata a fallire. Credono di poter cambiare il corso degli eventi,
di andare contro disegni che non possono essere modificati; la loro
superbia verrà punita. Siamo o non siamo giganti? Abbiamo o
no il potere di combattere gli dèi? Sì? Ebbene,
non saranno dei piccoli ed insignificanti umani a fermare quello che
è necessario
accada.
- Non è solo necessario, è giusto! La nostra
superiorità è sempre stata ovvia, evidente,
inequivocabile, eppure tutti si sono ostinati a nasconderla. Ecco
perché dico che è giusto che accada: noi meritiamo un
riconoscimento, lo chiede il nostro onore. Tu potrai chiederti: cosa dovrebbe spingermi a
considerare il mio onore prima del bene generale? Non dovrebbe essere
qualcosa che viene dopo?
La mia risposta è questa: certo, puoi trascurare l'onore.
Puoi addirittura negarlo. Ma ti accorgerai, in questo caso, che avrai
annullato te stesso, che da gigante quale sei ti sarai ridotto a uno di
quegli sciocchi umani, che avrai perso quello che ti rende superiore ai
mortali. Vuoi diventare come loro? Vuoi perdere l'orgoglio, vuoi
confonderti nella massa senza valore?
- No, sicuramente no. Mi unisco a te, Surtr, parteciperò
alla tua battaglia. Spazzeremo secoli di infamia, di superbia, di
falsità e porteremo finalmente la giustizia.
- Dici bene, caro fratello. Dobbiamo solo aspettare; nel frattempo
godiamoci lo spettacolo di queste ridicole formiche piene di
sé!
Risero entrambi.
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Capitolo 4 *** Inquietudine ***
In una sala del castello Bilskirnir, nel
regno di Þrúðvangar,
Thor, giocando con il suo martello, il noto Mjöllnir,
stava considerando tra sé e sé quanto fossero
negativi gli eventi accaduti recentemente.
Che odiasse i giganti e fosse da quelli odiato era ben noto: le sue
gigantomachie e i successi conseguiti in tali lotte lo avevano
glorificato tra gli dèi e tra i mortali. Eppure pochi erano
realmente consapevoli di quanto, oltre ad odiarli, egli temesse quegli
stessi giganti.
Forse l'unica che avesse pienamente colto questo fatto era Sif, la
moglie di Thor: la dea della fertilità era non solo bella ma
anche molto sensibile e sapeva leggere i sentimenti dallo sguardo di
chi li provava. Vedendo il marito far roteare, sconsolato, il Mjöllnir
per terra, gli si accostò.
- Marito, marito, qualcosa ti affligge, lo sento.
Quello si girò verso di lei senza cessare il gioco.
- E' così, moglie, è così.
- Non me ne vuoi parlare?
- Per darti nuove cure? Non sono sufficienti quelle che hai
già subìto in passato?
- Mi causa più preoccupazione il non sapere cosa ti
affligge, posso assicurartelo. Se mi dirai qual è il
problema non ti prometto che riuscirò a risolverlo, ma
sicuramente che proverò a farlo.
Thor sorrise.
- Apprezzo molto i tuoi propositi, Sif, accontenterò
pertanto la tua curiosità.
- Ti ringrazio.
- Devi sapere che il fatto di essere tra i più forti degli
dèi non è per me garanzia di successo in ogni
scontro. In passato ho combattuto e vinto diversi giganti, anche molto
abili e tenaci; tuttavia erano scontri alla pari, scontri che avrei
potuto vincere.
- Ebbene?
- Ora non è più così. Un gigante, un figlio di Múspell di
nome Org, mi ha inviato pochi giorni fa un segnale di guerra molto
chiaro. I giganti vogliono imporre la propria supremazia e sono
disposti a coalizzarsi per eliminare me, che considerano la principale
minaccia alla loro ascesa. Ignoro quali siano le loro strategie ma,
come vedi, so a cosa saranno mirate.
- Ma tu sei il più forte tra gli dei! Gli uomini ti adorano,
gli dèi ti rispettano, i giganti ti hanno sempre temuto.
Com'è possibile che tutto questo venga spazzato via come una
foglia da una folata di vento autunnale?
- Proprio questo è il problema: non lo so. Certo, questo
segnale potrebbe essere solo una minaccia, forse un avvertimento,
addirittura uno scherzo degno di quel burlone di Loki; non sapendolo,
però, non posso rischiare di non prenderlo sul serio.
Inoltre temo non solo per me ma per tutta Ásgarðr:
i piani dei giganti potrebbero andare oltre ogni nostra immaginazione.
- Loro non possono ucciderti, marito: non è questo il tuo
destino.
- Chi siamo noi, in fondo, per dire quale sarà il nostro
destino? Non è forse quello al di sopra di noi
dèi?
- Forse. Io, però, non riesco a credere che qualcuno possa
farti del male; magari è solo perché sei mio
marito, ma proprio non riesco.
- Sei una moglie fedele e giusta - disse Thor accarezzando i capelli dorati
di Sif.
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Capitolo 5 *** Assemblea ***
Rimasto solo sulla collina, Thorgrim rifletteva su se stesso.
Sono un condottiero, uno
tra i più fidati servi del mio re; ho sempre creduto nella
patria e per quella ho combattuto aspre battaglie. I miei uomini mi
rispettano e, talvolta, ammirano; il mio stesso re è fiero
di me.
Più negative considerazioni seguirono queste.
Sono amato, eppure sono
solo; forse sono il più solo tra tutti gli uomini che sono
giunti con me in Islanda. Baldrir ha una moglie che ama e che lo
ricambia anche adesso, nonostante la grande distanza che li separa;
molti altri dell'equipaggio condividono la sua situazione e, di questi,
alcuni sono anche padri. Io sono solo. Non ho figli, non ho moglie, non
ho nemmeno dei parenti: io sono tutto me stesso. Avendo di
più da amare, i miei uomini sarebbero forse più
motivati di me a difendere l'oggetto del loro amore.
In quel momento Thorgrim si chiese se fosse
davvero meritevole di essere il loro capo, di guidare degli uomini che,
tutto sommato, in un combattimento avevano solo da perdere e nulla da
guadagnare.
Estrasse dal fodero la sua spada, Göta, fedele servitrice in
tante occasioni. Sorrise: la spada non poteva avere le sue
preoccupazioni; forse stava meglio di lui, ma nonostante ciò
gli piacque attribuirle dei pensieri. Immaginò prima che lo
rimproverasse per la sua superbia, che lo aveva condotto a diventare il
capo di quella spedizione, poi si figurò l'arma deriderlo
per i suoi sciocchi crucci e incoraggiarlo a proseguire l'opera
intrapresa.
Queste riflessioni furono interrotte dal rumore degli uomini che si
avvicinavano, marciando, al lato scosceso della collina.
Adesso faranno il giro! pensò
Thorgrim.
Non aveva quasi fatto in tempo a pensarlo che la colonna armata
cambiò direzione e si avviò verso il lato opposto
del colle. Thorgrim si sporse verso le sue truppe e le
salutò dall'alto; gli uomini ricambiarono il gesto.
Il campo richiese diverse ore per essere allestito; la luce solare non
abbandonò però il cielo, a causa della stagione
estiva, e questo consentì la visibilità
necessaria a proseguire l'allestimento. Al termine delle operazioni,
Thorgrim convocò i suoi in assemblea, che si tenne nella
tenda più grande.
Tra le luci di alcune torce e il luccichio delle armi trovavano posto
circa cinquanta uomini tra guerrieri, marinai, artigiani e altri; il
condottiero salì su una piccola pedana improvvisata posta ai
piedi di una parete della tenda, mentre gli altri lo osservavano in
file regolari.
- Uomini, ora che abbiamo posto l'accampamento posso rivelare a quelli
che ancora non lo conoscono il motivo di questa nostra spedizione.
Si levò qualche commento dalla folla.
- Lo so, vi starete sicuramente chiedendo perché non vi sia
stato detto prima; me lo sarei chiesto anch'io, al vostro posto.
Ebbene, ho ricevuto dal re l'ordine di non farlo. Non ho potuto
domandargli direttamente il motivo di questa scelta, ma essendo suo
suddito ho obbedito senza oppormi.
Il mormorio cessò.
- Questa è prima di ogni altra cosa una spedizione di
ricognizione. Ciò significa che siamo stati inviati su
questa terra con lo scopo di verificare l'assenza di pericoli e,
qualora se ne verificasse il rilevamento, di scongiurarli.
Parlò Sweyn Sigurdsson, uno dei guerrieri.
- Di che pericoli si tratta, mio signore?
- Di pericoli solo parzialmente noti. Alcuni esploratori norvegesi
hanno riferito di aver visto presenze sinistre sull'isola: descrivono
creature antropomorfe quasi sicuramente non umane, ma i racconti sono
diversi e, talvolta, contraddittori. Il nostro scopo è
quello di far luce su queste creature e, se esistono, di verificare la
loro pericolosità.
Numerosi furono gli sguardi scambiati nella tenda.
- Se volete il mio parere, credo si tratti di troll: in questo caso
dovremo combatterli.
Si alzò un forte clamore.
Tutti parlarono, alcuni cercarono di soprastare gli altri urlando
più forte, alla fine ebbe la meglio Björn Toste dal
Jämtland.
- Signore, con tutto il rispetto parlando non comprendo per quale
motivo il re ci abbia mandati in una terra ancora quasi disabitata come
l'Islanda a scongiurare un possibile attacco di troll. Siamo guerrieri
abili e abbiamo già combattuto molte volte, in passato, ma
perché rischiare le nostre vite per proteggere questo luogo?
Thorgrim sorrise.
- Le tue domande sono frutto del buon senso, Björn, non ti
devi preoccupare di porle. Io non conosco il volere del nostro re; mi
limito unicamente a seguirlo. Tuttavia ritengo probabile che abbia
voluto inviarci qui per garantire protezione ai coloni e, forse, per
scongiurare un pericolo che potrebbe estendersi alla nostra patria.
- Obbedisco, signore, come ho sempre fatto; spero di riuscire a
comprendere quanto prima i motivi della nostra impresa.
- Anch'io, Björn, anch'io. Sicuramente saremmo tutti
più motivati sapendo qual è il nostro scopo, ma
invochiamo gli dèi affinché tutto vada nel
migliore dei modi.
L'assemblea fu sciolta e gli uomini si recarono nei propri ricoveri,
addormentandosi con in bocca l'amarezza di ignorare il
perché fossero lì.
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Capitolo 6 *** Tempo di guerra ***
Thorgrim non aveva mai visto degli Dvergar,
dei
nani. Sapeva che vivevano in uno dei nove mondi, Svartálfaheimr,
ma era fermamente convinto che non ne potessero uscire e che, a maggior
ragione, non potessero raggiungere Miðgarðr.
Per questo motivo rimase molto sorpreso quando, uscito da solo dalla
propria tenda per fare una breve passeggiata attorno al campo,
poiché non riusciva a prendere sonno, ne vide alcune decine,
in parte illuminate dalla luce lunare, in parte dalle torce infuocate
che portavano con loro. Si trovavano quasi ai piedi della collina e
sembrava che fossero diretti proprio lì; alla
velocità a cui si muovevano sarebbero arrivati in poco
tempo. Non erano troll, quelli che erano stati rilevati su quell'isola,
ma nani! Erano infatti simili a uomini ma molto bassi di statura e, da
quanto a Thorgrim era stato narrato, i troll erano più
grandi degli uomini.
Le sentinelle dovevano aver visto quelle luci, poiché
Thorgrim non ebbe nemmeno il tempo di girarsi verso il campo che
udì le loro grida. Il condottiero si affrettò a
tornare tra i suoi uomini, senza preoccuparsi del proprio sguardo che
tradiva un'istintiva paura per quelle creature sconosciute.
Alcuni altri uomini non erano riusciti ad addormentarsi ed erano
perciò rimasti all'erta; quelli che avevano dormito si erano
svegliati di soprassalto udendo le grida confuse che imperversavano per
tutto il campo. Furono tutti atterriti dall'espressione del condottiero
ancor prima che dalla visione dei nani.
Thorgrim inciampò e si rialzò immediatamente,
sempre più spaventato; non si girò nemmeno per
verificare se i nani stessero proseguendo. Infine arrivò,
sudato, al campo.
- Alle armi! Alle armi! - gridò.
Nessuno assicurava agli uomini che i nani li avrebbero attaccati;
nessuno, tuttavia, avrebbe rischiato che si avvicinassero. Ovunque si
vedeva un frenetico armarsi: chi caricava gli archi, chi impugnava
picche, spade ed asce, chi improvvisava armi da difesa con quello che
trovava sotto mano, chi infine metteva al riparo munizioni e provviste.
Riorganizzatosi, lo stesso Thorgrim impugnò la sua
Göta, più perché gli infondeva coraggio
che perché ritenesse che gli sarebbe servita.
Baldrir lo vide e colse la sua espressione di terrore.
- Signore, non vi ho mai visto così turbato. Temete che non
possiamo respingerli?
- Baldrir, dannazione, pensa a te stesso e alle truppe!
- Lo farò, signore, fatto sta che, se posso esprimermi,
credo dovreste mostrare più sicurezza agli uomini.
- Vai a guidare gli uomini, ho detto! Non ti voglio tra i piedi, adesso!
Baldrir, più intimidito che offeso da quell'atteggiamento di
Thorgrim, corse via e andò a dirigere le sue truppe.
Ora che i nani erano sulle pendici della collina si potevano scorgere
armi di vario genere nelle loro mani: ogni dubbio sulle loro intenzioni
era stato fugato.
- Vogliono attaccarci! - gridarono le sentinelle.
Nessuno degli uomini aveva mai combattuto contro esseri diversi dagli
umani: molti uomini erano stati uccisi dalle loro mani, ma mai altre cose.
Baldrir, senza aver avuto tempo di preparare un piano, dovette basarsi
sul buon senso e sull'esperienza creata dall'osservazione degli scontri
tra umani per elaborare una strategia.
Thorgrim era un buon combattente e una buona guida, ma non aveva
esperienza di strategie e tattiche: la sua giovane età non
gliene aveva data l'opportunità; perciò lasciava
il compito a Baldrir, più anziano, per quanto non
nascondesse a se stesso quanto ciò ferisse il suo orgoglio.
Chi si era autonomamente occupato di caricare armi difensive o di
improvvisarle fu incaricato di colpire i nani dalla maggior distanza
possibile. Da stratega quale era, l'ufficiale sapeva che colpire i
nemici con maggiore anticipo significava avere un utile vantaggio in
partenza.
Vi erano due catapulte in grado di lanciare massi a una discreta distanza; senza perdere tempo vennero caricate e utilizzate,
mentre gli arcieri attendevano che i nani si avvicinassero a
sufficienza.
I massi caddero, con buona precisione, nel centro della colonna di
nani; come sperava Baldrir, la pendenza della collina fece rotolare le
pietre, che falciarono così non solo i nani sopra cui
caddero ma anche alcuni di quelli che li seguivano.
I sopravvissuti avanzarono senza sembrare troppo scossi dall'accaduto;
Thorgrim, dall'alto, notò che non possedevano armi da getto
ma solo armi per il corpo a corpo, come le picche.
I nani dovevano essere all'incirca un'ottantina, anche se ora che
alcuni di essi erano caduti non si riusciva a capire quanti fossero
ancora sani e quanti feriti o morti.
- Non sembrano invincibili! - disse felice Baldrir a Erik Magnusson,
che si era armato con un'ascia da guerra.
I nemici erano praticamente arrivati al campo; gli arcieri li accolsero
con una pioggia di frecce, che uccise le prime file di nani ma
risparmiò quasi completamente le successive.
- Non smettete di tirare frecce finché non lo dico io! -
urlò Baldrir, mentre le altre truppe si preparavano a
difendere il campo.
L'avanzata dei nani si arrestò, sia sotto la pressione degli
arcieri sia per la vicinanza con le altre truppe.
- Arcieri, fermatevi! Tutti gli altri vadano all'attacco! -
ordinò l'ufficiale.
Erik Magnusson, a capo degli armati con asce di guerra,
avanzò per primo al fianco di spadaccini e lanceri.
Lo scontro fu breve ma intenso; i nani si batterono strenuamente, ma i
più alti e meglio armati umani ebbero alla fine la meglio,
facendo strage di nemici.
Alla fine si contarono due caduti e otto feriti tra gli umani,
ottantatré caduti tra i nani.
Gli uomini, tuttavia, non erano felici.
Subire perdite, pur contenute, e rischiare la propria vita senza sapere
il perché non rende felice nessuno; inoltre Thorgrim, lo
stesso che aveva condotto in Islanda quegli uomini, aveva lasciato
Baldrir a dirigere le operazioni. Aveva combattuto anch'egli e nessuno
lo discuteva, ma era sembrato un guerriero tra gli altri piuttosto che
il capo di tutti quegli uomini. Dapprima nessuno lo notò, ma
più tardi qualcuno se ne accorse e nel campo ci si chiese
come mai la guida di tutti loro non fosse il vittorioso Baldrir.
Thorgrim
iniziò a temere per la propria credibilità.
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Capitolo 7 *** Cena con Odino ***
Odino scrutava incuriosito i due nuovi arrivati: erano
giovani e spaesati in quel luogo sconosciuto.
Non poteva biasimarli. Nell'arco di un lunghissimo tempo numerosissimi
uomini erano arrivati lì, senza rendersene pienamente conto,
scortati dalle Valchirie prima, accolti calorosamente dal dio Bragi
poi; tutti avevano impiegato lunghi periodi per abituarsi all'idea di
aver lasciato la loro Miðgarðr e
di essere giunti in un mondo nuovo.
I due uomini erano atterriti dalle dimensioni del Valhalla, che non
riuscirono a descrivere con parole a loro note. Questo stupore
scemò tuttavia quando a parlare loro fu niente meno che lo
stesso Odino.
- Benvenuti ad Ásgarðr,
guerrieri! Immagino che Bragi vi abbia già ricevuti; intanto
sedetevi con gli altri. Gradireste i posti vicino a me? Mi piacerebbe
parlarvi.
I due ragazzi si guardarono, attoniti, senza riuscire a credere di
essere stati appena invitati a cena da Odino.
- Lo prendo per un sì. Seguitemi.
Il dio, accompagnato da due Valchirie, andò a sedersi ad un
capo dell'immensa tavolata già colma di commensali. I
giovani, come incapaci di decidere autonomamente la più
piccola cosa, seguirono passivamente il trio.
Infine tutti sedettero e Odino parlò.
- Dunque, voi due siete i caduti nello scontro con i nani in Islanda,
dico bene?
Uno dei due riuscì, senza sapere come, a trovare la
lucidità per rispondere.
- Sì, sign... cioé... sì, Fjölnsviðr Óðinn,
siamo noi.
- Come vi chiamate?
- Önundr Egilsson, Fjölnsviðr-
fece il primo, un ragazzo con le lentiggini e i capelli rossi.
- Rögnvaldr Björnsson, Forni
- gli fece eco il secondo, un biondino robusto ma non molto alto.
- Come siete morti?
- Siamo stati uccisi in un corpo a corpo con alcuni nani, sapientissimo
Odino. Abbiamo avuto la peggio perché i nani hanno attaccato
in massa noi due prima che gli altri; siamo stati i soli ad essere
caduti, o almeno così ci è parso fin quando non
siamo... morti. - disse Rögnvaldr.
- D'accordo, d'accordo. Eravate al seguito di Thorgrim Haraldsson?
- È così, sapientissimo - fece Önundr.
- Chi ci comandava sul campo, però, era Baldrir - aggiunse
Rögnvaldr.
- Va bene. I vostri compagni non dovrebbero essere stati informati
della ragione per cui siete stati mandati in Islanda, mi sbaglio forse?
- Non lo sono stati, Saðr -
continuò Rögnvaldr.
- È giusto che almeno voi due, che non siete più
con loro a combattere, ne veniate a conoscenza. Dovete sapere che mio
figlio Thor e sua moglie Sif mi hanno espresso profonda preoccupazione
per il comportamento dei giganti di Múspellsheimr.
Conoscete la loro esistenza?
- Sì, sapientissimo, ci vengono... chiedo scusa, ci venivano
narrati racconti su di loro - rispose Önundr.
- Ottimo. Purtroppo quei giganti hanno intenzioni bellicose e
desiderano attaccare altri mondi.
- Ma... voi siete il più sapiente degli dèi, Fornölvir!
Non sapete già se vinceranno o meno?
Il dio sorrise.
- Voi mortali... siete tutti beatamente ingenui. Certo, io conosco
molto di più degli uomini e più anche di taluni
dèi; eppure il vero sapiente non è colui che
tutto crede di sapere ma, piuttosto, colui che è cosciente
dei propri limiti. Io conosco il futuro della vostra stirpe, il destino
finale dell'Universo, l'ordine dei mondi e l'origine di tutto;
mentirei, tuttavia, se dicessi di sapere cosa precisamente faranno quei
giganti. Non conquisteranno l'intero Universo, questo no; eppure
è oscuro perfino a me quello che esattamente
comporterà la loro azione.
- Ma quindi cosa desiderate sapere da noi, Saðr?
- domandò perplesso Rögnvaldr.
- Desidero che mi diciate perché tutti voi temevate quei
nani.
- Dunque lo ignorate, Saðr?
- No, lo so benissimo ma voglio sentirlo dire da voi ugualmente.
- Li temevamo perché... non avevamo mai visto dei nani,
prima, e l'idea di combattere creature sconosciute ci angosciava; non
importava se erano più bassi di noi, erano comunque diversi. Quello che
temiamo di più noi mortali è l'ignoto, Fornölvir.
- chiarì Önundr.
Odino annuì col capo; intanto le due Valchirie versarono
dell'idromele ai due che, sull'onda di emozioni tanto forti,
lo bevvero tutto d'un sorso.
- Vi è un collegamento tra i nani e i giganti, Sannr?
- chiese Rögnvaldr.
Il dio sillabò con le labbra una sola parola, "alleanza",
poi bevve anch'egli.
Prima di crollare sul tavolo ubriachi come tutti gli altri einherjar Önundr
e Rögnvaldr ebbero il tempo di chiedersi cosa avrebbe potuto
trattenere gli uomini dal ridere di un'alleanza tra pulci e balene.
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Capitolo 8 *** Ghiaccio e Fuoco ***
Il clima a Niflheimr
era rigido e nebbioso come sempre. Surtr, abituato alle fiamme
di Múspellsheimr,
sentiva un gran freddo e si trovava spiazzato nel mondo opposto al suo;
avrebbe voluto stare lì soltanto per il minor tempo
possibile.
Le nevi si stendevano ovunque e niente e nessuno parevano costituire
elementi di discontinuità in quell'unica visione di candore;
la nebbia stessa rendeva bianca la visuale in ogni direzione. Non c'era
vento ma l'aria era pungente anche da ferma; il gigante di fuoco si
domandò come fosse possibile che nell'Universo esistessero
due realtà tanto diverse come il fuoco e il ghiaccio,
peraltro entrambe dimore di creature viventi.
Stava per essere convinto dalla desolazione del posto a tornare
indietro pur senza aver ottenuto nulla, quando Surtr si
imbatté, finalmente, in colei che cercava.
La dea Hel era un'entità molto particolare e, per alcuni
versi, di un fascino tremendamente perverso.
La si sarebbe potuta definire bella, con lineamenti fini ed
eleganti, una figura davvero ben proporzionata; eppure, in alcuni
dettagli, somigliava più al cadavere di una donna che ad una
viva. Surtr, che pure l'aveva già vista in passato, non
poté fare a meno di ravvisarlo nei suoi occhi, contornati da
aloni di oscurità e spenti essi stessi, e nella sua
carnagione, molto vicina al bianco. Le sue labbra, morfologicamente
vicine alla perfezione di quelle di una statua, erano
altresì pallide come se non vi fosse contenuto sangue, come
se la dea fosse fatta di pietra.
La visione che il gigante ne ebbe fu simile a quella di un fantasma
nella nebbia. Con un tale aspetto ella non avrebbe potuto avere altra
mansione se non quella di regina dell'Helheimr, il regno
di morti, contiguo a quella piana innevata e immersa nelle nebbie.
Le parlò.
- Regina dell'Helheimr,
sono Surtr, vengo dalla terra di Múspellsheimr.
- Ti ricordo, ti conobbi ormai molto tempo fa. A cosa devo questa
visita in una terra a te tanto ostile?
- Sono venuto per proporti un patto, regina.
Hel, grazie alla propria inespressività, riuscì a
non manifestare perplessità che, in chiunque altro, avrebbe
comportato l'inarcamento di un sopracciglio.
Costui viene a propormi
patti? Cosa vuole da me?
- Di che si tratta, Surtr?
- Probabilmente è inutile che ti ricordi il motivo per il
quale ti trovi a essere alla guida di Helheimr, regina.
- Esattamente, è inutile. So bene di essere stata mandata a
governare l'Helheimr
da Odino; devo ricordarti il mio dono di ringraziamento a lui?
- No, so di Huginn e Muninn, i due corvi.
La dea iniziava a spazientirsi.
- E dunque? Sei venuto qui per farmi ricordare le origini del mio
potere o per propormi un patto?
- Per proporti un patto, regina. Sono venuto qui perché
l'onore di noi giganti è sempre stato calpestato: dagli
dèi, dagli umani, talvolta dagli elfi e dalle altre
creature. Siamo stati considerati inferiori nonostante la nostra
altezza, considerati forti ma stupidi; un'onta simile non è
per noi sopportabile. Riteniamo che il giusto sia dalla nostra parte e
che, perché giustizia sia fatta, sia necessario imporci,
finalmente, su chi non ci ha rispettati. Il mio patto si basa sul fatto
che, essendo tu figlia del dio Loki, Odino ti abbia considerata
pericolosa come considera pericoloso Loki stesso e abbia causato anche
a te un'offesa imperdonabile relegandoti in questo mondo sperduto. Noi
dovremmo quindi unirci per...
- Fermati, ho capito. Tu vuoi che io mi unisca alla tua ribellione
contro gli dèi per vendicarci così contro Odino
in primis, poi contro gli altri.
- Non solo contro gli dèi, regina, anche contro gli uomini e
tutti coloro che hanno offeso il nostro e il tuo onore.
Hel scosse la testa.
- Mi dispiace, io non nutro propositi di vendetta né contro
Odino, né contro gli altri dèi né
contro gli uomini.
Surtr si fece scuro in volto e non riuscì a trattenersi.
- Insomma, tutti hanno capito che hai regalato quei due dannati corvi a
Odino solo perché non volevi averlo contro di te! Se ti
unirai a me potrai finalmente toglierti questa maschera.
Hel iniziò a diventare espressiva: da inespressivamente
lugubre il suo sguardo si volse in iracondo.
- Non ti permetto di avanzare simili insinuazioni. Ho donato quei corvi
a Odino per ringraziarlo di questo regno: è freddo, tutti lo
temono e lo ritengono inospitale, nessuno vorrebbe finirci; a me piace.
Non mi importa se voleva relegarmi ai confini dell'Universo, a me va
bene così. Inoltre non ho motivo di nutrire rancori verso
gli altri dèi o verso gli uomini: se abbiano avuto pensieri
negativi nei miei riguardi o meno, non è questione di mio
interesse.
Surtr era amareggiato da questa risposta, ciononostante
tentò di dissimulare il proprio disappunto.
- Fa' come vuoi. Io tornerò, più avanti, poi mi
dirai cosa avrai deciso. Fammi però ribadire che sarebbe
l'occasione ideale per riscattare il tuo onore. Pensaci.
- D'accordo. È stato un piacere l'averti rivisto, Surtr.
- Grazie, anche per me - concluse il gigante.
Ma quale piacere! - pensò
Hel mentre Surtr si allontanava nella nebbia. Non ho alcuna intenzione di
unirmi a quel megalomane: sto bene dove sono. Può provare a
chiedere agli Hrímþursar, i giganti di brina che abitano
qui, ma a me no.
Per me ho solo voglia di tranquillità.
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Capitolo 9 *** Rottura ***
Ormai venuto il dì, Thorgrim Haraldsson si
aggirava, pensieroso, per il teatro della battaglia da poco finita.
I soldati toglievano le armi ai caduti e ne facevano un mucchio in
mezzo al campo; i corpi erano invece accatastati, in fila, pronti per
essere bruciati.
Spade, lance ed asce riflettevano la luce del mattino dando luccichii
dorati; sarebbe stato bello a vedersi in qualunque contesto tranne,
forse, in quello.
Il condottiero, dedicato un pensiero ai suoi due guerrieri, che ritenne
essere ormai stati accolti nel Valhalla, osservò quei nemici
contro cui mai prima aveva avuto occasione di imbattersi e, a maggior
ragione, di combattere.
I nani erano simili a uomini, solo più bassi e
più villosi. Forse possedevano anche altre caratteristiche
che egli non notava ad un esame approssimativo, eppure ebbe la strana
sensazione che non vi fosse poi molta differenza tra quelle creature e
lui e compagni.
Avrete degna crematura
anche voi.
Guardò quei nani in volto: possibile ch'egli li
avesse temuti come la peggiore delle minacce? Ora che erano morti
sembravano così inoffensivi... eppure li aveva
molto temuti e, per di più, aveva trasmesso la propria paura
a tutto il campo.
Come ci sono riuscito?
Arrivò Baldrir, giunto sul luogo per aiutare gli uomini a
rimuovere i resti dello scontro, e vide Thorgrim, pensieroso,
osservare i nemici caduti.
- Ti devo delle scuse, Baldrir. Prima della battaglia ti ho trattato
male ma hai invece fatto un ottimo lavoro: abbiamo difeso il campo e
chi organizzava la difesa eri tu.
- Non preoccupatevi di quello che mi avete detto, signore, non mi sono
offeso; piuttosto vi ringrazio per il riconoscimento che mi state dando
ora.
I due si scambiarono un abbraccio in segno di riconciliazione: anche se
Baldrir era un sottoposto, Thorgrim gli concedeva questo onore.
I fatti seguenti, tuttavia, avrebbero seriamente compromesso quella
pace.
Sweyn Sigurdsson era un uomo di carattere, nessuno ne dubitava.
Di un forte senso della giustizia e di una personalità
estremamente forte, che non mancava di procurargli simpatie, aveva
imparato l'arte bellica prima ancora di essere un uomo pienamente
adulto, tanto che si diceva che da bambino il suo gioco preferito fosse
l'omicidio dei briganti nei boschi. Non si sapeva molto di suo padre
Sigurd, se non che era stato uno dei temutissimi Berserkir:
ciò significava che doveva certamente essere stato un
guerriero di ferocia tanto grande da tendere alla brutalità
più animalesca e nessuno ne dubitava, osservando quanto
fosse temibile il figlio.
Quella mattina Sweyn ritenne di sapere esattamente cosa il suo senso
della giustizia avesse deciso: Thorgrim non poteva essere il suo
condottiero.
Sapeva di doversi sforzare per riuscire a cavalcare il disappunto dei
soldati e mise così in atto il proprio piano.
Mentre si trovava in mezzo al campo con altri, per ripulirlo dai segni
dello scontro, con buone argomentazioni e buone doti oratorie, non
mancando di far leva sull'autorevolezza che gli derivava dall'essere
giudicato un guerriero forte e giusto, convinse diversi suoi compagni
che Baldrir era il solo degno di essere considerato il capo della
spedizione: Thorgrim si era dimostrato troppo insicuro ed inesperto e,
vista la reale presenza di un pericolo come quello costituito dai nani,
non si poteva rischiare che egli detenesse ancora un ruolo
così importante immeritatamente. L'inizialmente piccolo gruppo si
allargò a poco a poco all'insaputa sia di Baldrir che di
Thorgrim.
A mezzogiorno circa, terminate le operazioni di ripristino della
normalità, fu convocata una nuova assemblea per fare un
bilancio della battaglia e discutere delle strategie da prendere per il
futuro; come la precedente, anche questa venne indetta da Thorgrim, pur
con il consenso di tutti. Curiosamente, colui che pareva più
desideroso di partecipare all'assemblea rispondeva al nome di Sweyn
Sigurdsson.
Thorgrim fece tuttavia appena in tempo a salire sul palco: alcuni
uomini lo presero di peso e lo costrinsero a scendere.
- Non potete trattarmi così, sono la vostra guida! Che vi
è saltato in mente? Cosa volete da me? Lasciatemi!
- Taci, Thorgrim - fece uno di loro, un marinaio.
Il condottiero si trovò completamente spiazzato da tale
insubordinazione e ciò gli procurò troppa
vergogna per consentirgli di riprendere la parola.
Sul palco salì Sweyn al posto suo.
- Uomini, guerrieri della Scandinavia, equipaggio del drakkar ancorato in
acque islandesi! Solo gli dèi ci sono testimoni di quanto ci
pesi prendere questa decisione, ma gli stessi dèi sono
sicuramente con noi nel giudicare giusto il provvedimento. Agiamo,
dunque, facciamo quel che sappiamo essere giusto!
- Evviva Sweyn! - gridarono gli uomini.
- Vi ringrazio per la fiducia che mi tributate, tuttavia non sono io
quello da lodare ma colui che, questa notte, ha organizzato la difesa
del campo. A costui tributiamo gli onori che gli spettano
poiché egli è il nostro vero e unico condottiero:
lodiamo dunque Baldrir, nostra salvezza, e concediamogli di divenire a
tutti gli effetti nostra guida!
- Sì! - gridarono all'unisono gli uomini raccolti in
assemblea, che condussero sul palco Baldrir; Sweyn, in segno di
rispetto, scese e si confuse nella massa.
Thorgrim fu come colpito al petto da un colpo di spada; gli parve che
qualcuno gli avesse affondato la sua Göta nelle carni,
trapassandolo da parte a parte.
Gridò senza nemmeno pensarci.
- Baldrir, maledetto traditore! Questo è dunque il tuo
ringraziamento a chi ti ha nominato comandante sul campo? Questo il
ringraziamento a chi proprio questa mattina lodava il tuo operato?
- Thorgrim, devi credermi, mi hanno nominato loro guida gli uomini, non mi
sono accaparrato di mia volontà questo titolo! Rispetto la
volontà degli uomini ma, lo ripeto, non ho scelto io di
sostituirti! - si difese Baldrir.
- Bugiardo! Siete traditori anche voialtri! Il re, il re ha nominato me, non quel criminale! - gridò ancora Thorgrim, che tentò di
correre verso il palco ma fu fermato da alcuni uomini e trattenuto a
forza.
Da qualche parte riemerse Sweyn, che si accostò all'ormai
ex-comandante.
- Rassegnati, Thorgrim. Il re è lontano da qui e tu non puoi essere un comandante senza nessuno da
comandare; ora il nostro comandante è Baldrir, che ti
piaccia o no, e tu sarai un suo sottoposto. Sarai uno di noi, niente di
più.
La sorpresa e la rabbia sul volto di Thorgrim si mutarono a poco a poco nella disperazione, finché egli
tacque, caduto in un profondo stato di apatia.
L'assemblea fu sciolta e Thorgrim, così umiliato, venne mandato a dormire in
uno degli alloggi delle truppe, sotto lo sguardo feroce di coloro che
aveva ritenuto essere suoi compagni.
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Capitolo 10 *** Jötunn ***
Mi scuso
per non aver aggiunto capitoli negli ultimi due giorni: il quinto anno
di studio matto e
disperatissimo al liceo sa talvolta essere indigesto! :S
I Dieci Múspellsmegir
erano seduti ormai da un po' al tavolo delle trattative. Il
re Þrymr, intento ad ascoltare con attenzione tutte
le argomentazioni degli arrivati, non si accorse di stare per cadere
dal grosso scranno di legno su cui sedeva e piombò a terra
con notevole fragore; gli altri si contennero per evitare inopportuni
attacchi di risa. Rialzatosi il re, Surtr riprese subito il filo del
discorso per evitare che quest'ultimo passasse in secondo piano.
- Maestà, quella che vi offriamo è
un'opportunità unica: realizzeremo finalmente la nostra
rivincita e compiremo quello che finora non è stato fatto, a
mio giudizio a torto. Sono convinto che potremmo farcela, con le forze
di cui disponiamo: siamo forti, determinati e numerosi.
Þrymr muggì in segno di assenso.
- Va bene, Surtr, mi avete convinto. Anch'io, da tempo, pensavo a una
rivincita contro gli uomini ma, soprattutto, gli dèi, in
particolare quel vile e arrogante di Thor; forse è venuto il
tempo di mettere in pratica questi propositi. Devo tuttavia avvisare te
e i tuoi fratelli, mio caro Surtr, che la mia autorità su Jötunheimr non
è illimitata: dovrò sottoporre il
provvedimento alla votazione del Consiglio, l'organo amministrativo di
dodici Consiglieri che mi coaudiuva nel governo del regno.
- Ce ne rendiamo conto, Altezza, e rispettiamo le decisioni dei
Consiglieri, indipendentemente da quali esse saranno; auspichiamo
tuttavia che vi uniate a noi perché, è bene
ripeterlo ancora, questa occasione è probabilmente unica.
- Comprendo. Ora permettetemi di comunicare il quesito ai Consiglieri;
frattanto restate nel mio palazzo, è per me un onore
ospitarvi!
Fu riunito il Consiglio e portato da un messo il quesito della
votazione.
I Consiglieri, durante un'assemblea a porte chiuse, discussero
accesamente una materia tanto importante.
Alcuni, i più patriottici ed orgogliosi, sostennero che
l'occasione di imporsi sulle altre razze era per gli jotnar troppo
succulenta per poter lasciarla sfuggire; altri ritenevano giusta la
causa ma troppo deboli le forze di cui i giganti potevano disporre; gli
ultimi, infine, non volevano inimicarsi gli dèi
più di quanto già non avessero fatto in passato.
La discussione ebbe alcune fasi più rilassate e altre
più tese, con punte in cui si rischiò la rissa;
alla fine, comunque, il risultato delle votazioni arrivò.
Su dodici votanti si ebbero due astenuti, coloro che ritenevano giusta
la causa ma insufficienti i mezzi, mentre i dieci restanti rimasero
divisi esattamente a metà tra interventisti e neutralisti;
tale risultato fu tempestivamente comunicato al re, che si trovava in
un'altra sala del palazzo, il quale ne rimase deluso, sperando in una
maggiore abbondanza di interventisti.
Fu lo stesso re Þrymr a comunicare l'avvenuto ai
Dieci Múspellsmegir
in missione diplomatica ospitati nel palazzo; Surtr
montò su tutte le furie.
- Maledizione, esattamente metà! Che succede, ora? Cosa
facciamo noi con un simile branco di idioti?
- Calmati, Surtr. Forse non conosci a sufficienza le leggi del mio
regno oppure non le ricordi; ti rinfrescherò dunque la
memoria. Devi sapere che il Consiglio è un organo di
discreta importanza all'interno della nostra amministrazione, tuttavia
è per me nulla di più che un'istituzione puramente
rappresentativa. Ogni decisione del Consiglio altro non è
che l'orientamento dei Consiglieri sulle materie trattate in assemblea:
il re può tenerne conto oppure trascurarlo. Non esiste
dunque alcun problema poiché, in qualità di re di
questo regno, sono tenuto a sottoporre i quesiti alla votazione del
Consiglio ma non a sottostare alle decisioni che esso prende; pertanto
a me spetta l'ultima parola.
Un lampo di speranza si accese negli occhi di Surtr.
- Maestà, non sapete che consolazione mi diano le vostre
parole. Confesso la mia ignoranza sulla vostra amministrazione e me ne
scuso; confido ora nella vostra decisione.
- Non avete di che temere, voi Múspellsmegir:
la mia decisione è ancora quella che vi comunicai prima di
convocare il Consiglio. Combatteremo al vostro fianco perché
così ho deciso io, che sono indiscutibilmente il re
di Jötunheimr.
Venne così firmato un trattato con il quale Þrymr
si impegnava a diventare alleato dei Múspellsmegir nella
loro guerra: Surtr rientrò così a Múspellsheimr,
fiero del risultato ottenuto.
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Capitolo 11 *** Lealtà ***
Tre giorni erano passati dall'approdo in Islanda. Grandi
nubi plumbee avevano fatto capolino nel cielo e l'atmosfera tendeva ad
incupirsi, come se qualcosa di terribile stesse per accadere. Il mare,
da lontano, si vedeva agitarsi e incresparsi, mentre gli uccelli che
volteggiavano nell'aria faticavano a volare contro vento.
Baldrir, quella notte, non aveva dormito. Non era tanto e solo il fatto
di essere stato nominato comandante di quell'armata, a seguito
dell'ammutinamento appena avvenuto; no, quello che più lo
tormentava era il pensiero di come in quel momento dovesse sentirsi
Thorgrim.
Baldrir aveva sempre stimato Thorgrim. Lo conosceva da quando era un
ragazzo e si ricordava di quanto fosse sempre stato ligio al dovere:
più volte aveva posto l'adempimento dei doveri davanti alla
garanzia della propria sopravvivenza, collaborando in diversi modi con
tutti coloro che facevano parte della sua comunità.
Il tradimento era una cosa che Baldrir non aveva mai sopportato; ma il
fatto di essere stato fatto passare egli stesso per un traditore era
qualcosa che proprio non riusciva a concepire. No, egli non voleva
tradire Thorgrim: i suoi uomini lo avevano costretto a farlo, dunque
non aveva di che rimproverarsi.
Eppure il senso di colpa lo angustiava, gli pesava come un macigno e lo
inchiodava alla realtà dei fatti.
Decise di andare da Thorgrim per spiegargli la verità: non
avrebbe potuto infatti tollerare di farlo soffrire per nulla un momento
di più.
Quella mattina uscì dalla tenda, illuminato dal debole
chiarore del Sole coperto dalle nuvole, così presto che solo
un paio di sentinelle si trovavano all'aperto oltre a lui. Le
salutò; dovevano aver appena dato il cambio ad altre due
sentinelle, perché vide due uomini rientrare nelle
rispettive tende.
La tenda di Thorgrim era appunto una di quelle due; se ricordava
esatto, era stato destinato a una tenda divisa con tre compagni.
Trovò il posto piuttosto facilmente e, con delicatezza,
entrò.
Vide, sdraiata, una delle due guardie appena rientrate e la
salutò ma, evidentemente per il sonno eccessivo, quella non
lo ricambiò, ormai immersa nel mondo dei sogni. Altri due
dormivano sdraiati sul terreno, uno che russava sonoramente e l'altro
che stava rannicchiato in una posizione del tutto innaturale.
Mancava solo Thorgrim. Baldrir ne era certo, la tenda era quella,
eppure di lui non c'era traccia. Abbandonò la tenda.
Se era uscito non poteva aver fatto molta strada senza essere visto
dalle sentinelle, a meno che...
A meno che non sia
uscito proprio durante il cambio della guardia -
pensò Baldrir.
Poteva averlo fatto solo per un motivo: non essere individuato.
Il comandante percorse il perimetro del campo, guardando all'interno di
questo e ai piedi della collina, ma non trovò nulla fin
quando non raggiunse il lato orientale.
Thorgrim era in basso e sembrava camminare senza meta e in maniera
sgraziata. Nella mano destra impugnava la spada, che urtava
frequentemente il terreno sollevando piccole nuvole di terra. Baldrir
non ci avrebbe giurato ma, forse, Thorgrim stava per fare qualcosa di
folle.
Non far nulla non era nemmeno un'ipotesi considerabile; Baldrir scese
con cautela, cercando di raggiungere Thorgrim senza far rumore.
Quello aveva intanto percorso un tratto irregolare che, per un attimo,
sembrò ricondurlo al campo, poi di nuovo volse verso il
mare. Baldrir camminava a passi lunghi e controllati, riuscendo a non
farsi sentire pur muovendosi a una discreta velocità.
Manca poco!
Era alle spalle di Thorgrim, ancora qualche metro e lo
avrebbe raggiunto.
A quel punto Thorgrim sollevò da terra la spada, la sua
Göta, si inginocchiò a terra e impugnò
l'elsa con entrambe le mani. Baldrir, adesso, era certo di cosa volesse
fare.
Sfidando se stesso, Baldrir riuscì letteralmente a correre
in silenzio e, giunto dietro Thorgrim, tentò di fermare il
gesto.
- Fermo! Non lo fare!
Thorgrim, ignorando la preghiera del comandante, volse la lama verso se
stesso e vibrò il colpo.
Baldrir, in extremis, afferrò le braccia di Thorgrim e
deviò la spada.
La lama colpì Thorgrim nel ventre, risparmiando
così il cuore, ciononostante sgorgò diverso sangue.
- Aiutatemi! - gridò a gran voce Baldrir, attirando
così l'attenzione delle sentinelle, che non mancarono di
accorrere con un curatore.
Thorgrim, ferito, venne portato nel campo e medicato, così
che l'emorragia venne arrestata, anche se perdurava il pericolo di
infezioni.
Baldrir attese che il suo ex-comandante si risvegliasse, senza mai
abbandonare la tenda in cui era stato portato Thorgrim.
- Ce la farà? - chiese al curatore.
- Se gli dèi vogliono. Ora è ancora presto per
dirlo, possiamo solo aspettare.
Passò tutto il giorno. La sera, finalmente, Thorgrim si
risvegliò.
- Io... sono nell'Hel?
- disse.
- No, Thorgrim, perlomeno non ancora. Stavi cercando di ucciderti e ho
tentato di evitarlo.
Thorgrim aprì lentamente gli occhi. Parlare gli era
piuttosto doloroso, dunque parlava piano e lentamente.
- Tu... perché mi fai questo? Cosa ti ho fatto di
così grave da spingerti a farmi soffrire ancora?
- Io non voglio che tu soffra, Thorgrim. Voglio inoltre che tu sappia
che non mentivo quando, ieri, affermavo che non ho scelto io di essere
nominato comandante. Lo hanno deciso gli uomini e non ho potuto
oppormi: sai di cosa siano capaci Sweyn e la sua orda.
- Vorrei fidarmi, Baldrir, ma che cosa mi garantisce che tu stia
affermando il vero?
- Nulla può garantirci tutto, Thorgrim. Posso solo
prometterti, poi saranno i fatti a giudicare se le mie siano state
parole sincere o meno; so quanto questo possa pesarti e mi dispiace, ma
voglio chiederti di fidarti. Non ti deluderò. Non potrei
perdonarmi di deludere il mio comandante.
- Il tuo ex-comandante, Baldrir: il comandante ora sei tu.
- No. Per me sarai sempre tu, il comandante. Io non ho mai voluto
esserlo: troppe resposabilità, troppi oneri. Preferisco
essere un subordinato: mi riesce meglio. Se fosse stato per me non
avrei mai ottenuto questa carica.
- Voglio crederti, Baldrir. Se gli dèi mi concederanno di
sopravvivere, spero che un giorno potremo mettere una pietra sopra
quello che è accaduto.
- Lo voglio anch'io, comandante Haraldsson.
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Capitolo 12 *** Assalto ***
Heimdallr osservava attentamente il Bifröst,
come era del resto abituato a fare sempre. Il ponte arcobaleno era
lì,
saldo e portentoso nei suoi colori sgargianti che non mancavano di
infondergli sicurezza ed un senso di tranquillità che gli
ricordava la spensieratezza dell'infanzia. Quante volte aveva fissato
quel ponte! Ásgarðr
sarebbe stata al sicuro fintanto che egli avesse respinto ogni
possibile minaccia incombente sul Bifröst,
ne era certo.
Compì una piccola perlustrazione, salendo un poco
sull'arcobaleno. Per chiunque sarebbe stata un'emozione unica, per lui
era un incarico ordinario; eppure nemmeno Heimdallr era esente da una
certa emozione ogni volta che varcava le soglie di Ásgarðr marciando
sul Bifröst.
Miðgarðr
era lì sotto, poteva scorgerla coperta dalle nubi; molti
uomini dovevano essere là sotto, intenti a compiere le
proprie mansioni o a darsi ai diletti, così come alle sue
spalle gli dèi regnavano su Ásgarðr e
ne amministravano l'esistenza.
Talvolta l'emozione si trasformava in noia e il Dio Bianco si
domandava perché quel ruolo importante ma ripetitivo fosse
toccato proprio a lui.
Chissà se
anche i mortali hanno simili problemi - si chiedeva
allora.
Quando si annoiava, gli unici rimedi che escogitava consistevano
nel ripetere mentalmente dei canti, nell'inventare indovinelli o giochi
di parole e nel lasciarsi avvolgere e inebriare dalla forza dei
ricordi: per tutto il lunghissimo tempo nel quale aveva svolta
l'attività di guardiano aveva di certo avuto tempo per
raccoglierli e rielaborarli, i ricordi! La sua capacità di
percepire anche solo lo spostamento di un insetto a terra lo aveva
costretto a dotarsi di una memoria incredibilmente prodigiosa, tanto da
esser giunto a memorizzare tutti i movimenti di quei piccoli esserini
da quando esistevano e, con essi, molti altri particolari che, per
chiunque altro, sarebbero stati impercettibili, oltre che trascurabili.
La parte più alta del ponte era a posto, non sembrava che
nessuno l'avesse varcata negli ultimi tempi, a parte ovviamente gli
dèi per una delle loro riunioni.
Heimdallr scese, così da verificare che le cose andassero
per il verso giusto anche più vicino a Miðgarðr.
La marcia non fu molto lunga: egli era troppo esperto del Bifröst per
non sapere come attraversarlo velocemente.
Il suo arrivo a Miðgarðr
fu felice, non altrettanto la vista di quel che vi trovò.
Quelli che vedeva erano, e non avrebbero potuto essere altro, dei Múspellsmegir
arrivati in qualche modo a Miðgarðr,
ben difficilmente con intenzioni pacifiche.
Heimdallr conosceva il pericolo: Odino lo aveva prontamente informato.
Per questo la vista di un centinaio di giganti di fuoco non lo
costrinse a riflettere molto sull'opportunità o meno di
utilizzare il Gjallarhorn,
il suo potentissimo corno, che emise un suono fortissimo, presto udito
in tutti i mondi.
I Múspellsmegir,
accortisi dell'allarme, corsero in massa mentre Heimdallr, prestando
fede alla propria mansione, saliva sul Bifröst
cercando di respingere i giganti con il fortissimo suono del suo corno.
Ad aiutarlo giunsero presto Odino, il figlio Thor e il dio Freyr con il
suo fidato verro dalle setole d'oro, Gullinbursti.
I tre dèi, senza dir nulla, armati di lance e fulmini uccisero alcuni
giganti e ne ferirono degli altri, riuscendo a cacciarli dal
Bifröst prima, da Miðgarðr
dopo. Al termine del combattimento si contarono venti giganti uccisi.
- Abbiamo cacciato questi, è vero, ma ce ne saranno
certamente degli altri - disse Odino.
- Adoro uccidere quelle nullità, padre. Se ci attaccheranno,
io li farò pentire di averci anche solo pensato - fece Thor.
- Potete contare su di me, in tal caso, e in quasi tutti gli altri
dèi, credo - concluse Freyr.
I tre dèi tornarono ad Ásgarðr
e il buon Heimdallr, fiero del proprio operato, riprese a far
la guardia al suo Bifröst.
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Capitolo 13 *** Percezione ***
Thorgrim correva, correva con tutto il fiato che aveva in
corpo e non si voltava mai.
Doveva fuggire, lo sapeva. Doveva farlo il più velocemente
possibile, ogni esitazione avrebbe infatti potuto essergli fatale.
Sfidava forse la sua stessa resistenza agli sforzi fisici portandola ai
massimi, incapace di concepire anche solo per un attimo di fermarsi, di
rassegnarsi a essere sconfitto e annientato.
Ciò da cui scappava non aveva nome né volto.
Probabilmente era solo una sua paura irrazionale tramutata nel nemico
da un perverso gioco della sua mente, magari per la suggestione datagli
dall'incontro con i nani di appena due giorni prima; di certo non
avrebbe potuto rappresentare graficamente quell'inseguitore formidabile
e determinato, non ne aveva modo: anche se non si era girato a
osservarlo, era come se sapesse che non avrebbe dovuto farlo per
nessuna ragione al mondo.
Correva ancora, dimentico della fatica, quando la cosa lo
raggiunse.
È finita
- pensò.
Si risvegliò, sudato, in una posizione particolarmente
scomoda, mentre il forte dolore al ventre riprendeva il dominio delle
sue facoltà mentali.
Era solo un sogno. La
realtà è altra cosa - si disse per
tranquillizzarsi; eppure non si sentiva per nulla tranquillo.
Tante volte gli avevano parlato di sogni premonitori e, anche se non ne
aveva sperimentati direttamente, Thorgrim non aveva motivo di dubitare
della loro esistenza.
Non poteva alzarsi dal suo giaciglio, il curatore glielo aveva negato:
restò quindi lì, in balìa dei dolori
fisici e delle sue fantasie di morte, da solo.
Il tempo passava e l'unico segno della presenza di altre persone era il
loro vociferare all'esterno della tenda; giusto un paio di volte
entrò il curatore a verificare le condizioni di Thorgrim,
poi uscì e Thorgrim rimase ancora solo.
Cominciava ad annoiarsi seriamente, quando egli udì delle
grida; subito dopo, un gran clamore.
Non poteva vedere nulla, dalla tenda, ma aveva partecipato a un numero
di battaglie sufficiente a fargli capire che i suoi si stavano
preparando allo scontro; lo deduceva semplicemente dai rumori che egli
udiva.
Chi può
essere? Ancora quei nani? - si domandò.
Gli uomini, fuori, gridavano e si udiva il rumore degli archi che
scoccavano: qualunque essere stesse attaccando il suo campo, di certo
stava assaggiando
una discreta dose di spiedini.
Poi cessò lo scoccare degli archi e si udì il
clangore delle spade e delle lance, che faceva intuire l'inizio dello
scontro diretto; le grida si fecero ancora più forti.
Dopo un po' si udì il rumore di passi veloci e l'apertura
della tenda venne allargata.
- Metteteli lì! Lì c'è posto! -
gridava il curatore.
Due uomini portavano un guerriero ferito in molte parti del corpo;
Thorgrim non avrebbe scommesso molto sulle sue possibilità
di sopravvivere. Poi giunsero altri feriti, sulle cui condizioni Thorgrim smise presto di volersi pronunciare.
- Chi sta attaccando? - chiese Thorgrim.
Il curatore, che nella foga del momento si era dimenticato della sua
esistenza, gli mostrò uno sguardo sconvolto.
- Nani, come l'altra volta. Non da soli, stavolta.
- Che significa?
- Ci sono dei giganti con loro! Siamo attaccati da nani e giganti
insieme!
Incredibile
- pensò Thorgrim.
- La maggior parte è stata messa in fuga e ora stiamo
respingendo gli ultimi, ma siamo convinti che torneranno, magari in
forze - aggiunse il curatore.
Maledizione.
Fu allora che Thorgrim si pentì di aver cercato codardamente
la morte. C'erano i suoi uomini a rischiare le proprie vite combattendo
contro nemici mai visti e sprecare la sua, di vita, era tutto quello di
cui egli era capace?
Decise che, se fosse riuscito a rimettersi, sarebbe sempre rimasto con
i suoi a combattere; dopotutto era stato lui a portarli in Islanda.
Indipendentemente dall'ammutinamento che aveva subito, lo doveva loro.
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Capitolo 14 *** Incontro ***
Dopo quell'attacco di nani erano passati giorni interi,
incessantemente tormentati da avvistamenti, schermaglie e veri e propri
attacchi.
I nani parevano molto numerosi, anche se non particolarmente forti,
mentre il contrario era supponibile per i giganti; ormai i guerrieri
scandinavi conoscevano quei nemici prima ignoti, sapevano come agivano
e, non di rado, quali fossero i loro punti deboli e quali quelli di
forza.
Eppure, nonostante le numerose sconfitte da essa
subita, l'alleanza nani-giganti perdurava e, anzi, pareva
prendere vigore ogni attimo di più, al punto che la
situazione cominciò a farsi insostenibile.
Gli uomini non dormivano quasi più, ormai
pressoché certi dell'imminenza di un attacco anche di notte;
erano stanchi, sempre meno motivati, sempre meno numerosi. Le perdite
erano state contenute, non superiori alla decina di vittime, tuttavia
nessuno avrebbe scommesso sulla tenuta di quell'armata spossata e
sempre più inaffidabile.
Thorgrim Haraldsson, in via di guarigione, ancora nel proprio letto
chiese aiuto direttamente agli dèi.
- Fjölnir Óðinn,
aiutaci a respingere questi nemici venuti da altri mondi! Vinci i
malvagi nani, coalizzatisi contro l'ignaro e innocente mondo
di Miðgarðr! Potente Thor,
colpisci col tuo Mjöllnir
i vili giganti! Freyr, Freyja, pervadete della vostra grandezza i
rigidi cuori delle creature che hanno deciso di inimicarsi noi!
Gli dèi non lasciarono cadere nel vuoto l'appello dell'uomo.
Il saggio Odino convocò assemblea ad Ásgarðr,
nella sala del Valhalla,
facendovi partecipare eccezionalmente non solo gli einherjar ma anche
gli dèi.
- Fratelli, sorelle, guerrieri e tutti coloro che hanno l'onore e la
responsabilità di sedere qui.
Questo è il giorno
della decisione, della coesione, della solidarietà.
Siamo stati invocati dagli uomini, e io stesso ho potuto constatarne
l'effettiva necessità, affinché rendiamo loro un
aiuto nella difficile guerra che essi stanno combattendo contro nemici
troppo numerosi per le loro forze. Non lo nasconderò: non
sarà solo un intervento in loro aiuto ma anche in supporto a
noi stessi. I nemici, infatti, hanno subdolamente creato una grande
alleanza per arrivare alla conquista non solo di Miðgarðr
ma anche di Ásgarðr.
Nella sala si alzò un boato di stupore, che non nascondeva
una certa preoccupazione.
- Voi non dovete avere paura: siamo dalla parte del giusto e non lo
dobbiamo dimenticare. Abbiate paura e i nostri nemici ci vinceranno!
Il mormorio tacque, sostituito da un teso silenzio.
- Desidero che conosciate le dinamiche dei fatti degli ultimi tempi: vi
sarà fondamentale la consapevolezza della realtà.
Tutto è nato a Mùspellsheimr,
regno dei giganti di fuoco, per opera del più temibile di
loro: Surtr.
Ricominciò il trambusto, all'interno del quale
riuscì a prendere la parola Thor.
- Padre, quel gradasso non ci avrà! Lo brucierò
con i miei fulmini, lo farò pentire di essere comparso
nell'Universo, di aver pensato e di aver poi agito. Voi, qui presenti!
Volete che uno stupido gigante presuntuoso vinca anche solo uno di noi?
Volete dargli la soddisfazione di far parlare di sé per
l'eternità, di imporre la propria arrogantocrazia su
tutte le creature che nacquero dal sacro albero di Yggdrasill?
Un unico, fortissimo boato di no
scosse l'immensa sala dei guerrieri. Odino sorrise dentro di
sé, pensando al piglio oratorio del figlio.
Il sapiente
proseguì.
- Thor ha ragione: non dobbiamo cedere. Tuttavia, per motivarvi
maggiormente, mi addentrerò più nei dettagli.
Dovete sapere che i giganti hanno intenzione di sterminare gli
uomini per insediarsi stabilmente a Miðgarðr
e, da lì, di attaccarci ripetutamente. La motivazione che essi
adducono è del tutto infondata: ritengono che il loro
orgoglio sia stato scosso da noi, dagli uomini e, in sostanza, da tutti
coloro con cui essi hanno dei disaccordi. Si sono dimenticati di quanti
giganti si sono trovati e si trovano tuttora dalla nostra:
evidentemente il loro orgoglio è cieco e infantile.
Freyja intervenne.
- Sapiente Odino, queste sono le motivazioni dei giganti; i nani che
scopo desiderano perseguire?
- Uno scopo analogo, Freyja: come vedi, l'ottusità
è una caratteristica comune a molti. Ma tornando a noi,
voglio solo chiedere la vostra collaborazione in questo scontro con i
giganti e i nani. Noi non vogliamo sterminare le popolazioni di interi
mondi, - e qui Odino fece un mezzo sorriso al figlio Thor, che egli
sapeva ardere del desiderio di eliminare anche solo le tracce dei
giganti - bensì far tornare ognuno nella propria area di
competenza. Vogliamo punire i nostri nemici per la loro arroganza, non
cancellarli; speriamo che, nonostante la loro stupidità, un
giorno capiscano quanto siano state sciocche e infondate le loro
attuali motivazioni. Allora, chi è con me?
Gli einherjar
furono i primi ad alzarsi in piedi; accompagnarono il gesto con grida
di battaglia, che incutevano effettivamente un certo timore. Ad essi
fecero seguito Thor, entusiasta, e sua moglie Sif, che era stata fra i
primi a sentire il pericolo costituito dai giganti; fu poi il turno di
Freyr, Freyja e, poco alla volta, tutti gli dèi. Uno solo
non disse nulla e, al contrario degli altri, scoppiò a
ridere divertito; non fu tuttavia notato, in mezzo al trambusto. Costui
era Loki.
Poco dopo una sentinella del campo islandese sotto il comando di
Baldrir vide, in lontananza, delle armature luccicanti portate da
uomini e donne così particolari che si sarebbero potuti dire... dèi.
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Capitolo 15 *** Straordinarietà ***
Surtr era arrogante e prepotente, ma non per questo uno
sprovveduto: non appena si accorse che qualcosa si stava muovendo tra i
suoi avversari, corse infatti a convocare i suoi a Mùspellsheimr.
- Fratelli, stiamo vincendo quegli umani, non c'è dubbio, ma
mi preoccupa l'intervento degli dèi: essi sono stati
avvistati da alcune nostre sentinelle. In realtà non trovo
strana questa loro intromissione: era inevitabile che avvenisse, prima
o poi; eppure l'ho trovata stranamente tempestiva, come se essi ci
temessero davvero.
- Non è forse positivo, Surtr? Li abbiamo spaventati! - fece
il gigante Ulf.
- Certamente, caro fratello, tuttavia il fatto che siano intimoriti
comporterà sicuramente un più massiccio
intervento da parte loro. Se tu fossi minacciato da un orso
affamato non agiresti con maggiore determinazione di quanta ne
useresti per mandar via una formica molesta?
- Sì, senza dubbio.
- Allora immedesimati negli dèi: a un'azione maggiore
corrisponde una reazione maggiore. Forse non abbiamo messo in calcolo
che l'esser potenti non è sempre un vantaggio, quando ci
siamo lanciati in questa avventura.
- Ma fratello... questa avventura andava intrapresa, lo hai sostenuto
tu stesso! Ti sei pentito di quel che dicesti?
Surtr, sfoderando la propria arroganza, si sentì punto
nell'orgoglio.
- Io non mi sono pentito proprio di nulla! Continueremo fin quando non
avremo vinto, indipendentemente da quali saranno le nostre scelte nel
frattempo. Non ci ritiriamo, noi; se tu vuoi farlo sei libero di
infangare il tuo onore, a te la scelta!
- No, non lo farò! Fedeltà assoluta, Surtr!
Gloria ai figli di
Mùspell e alla loro nobile impresa, morte agli
infami degli altri mondi!
Nonostante queste parole, però, Ulf non era del tutto
convinto.
Odino sapeva esattamente cosa fare. Tutto, dentro di lui, lo portava a
dirigersi verso quella collina sopra cui, senza ombra di dubbio,
sorgeva l'accampamento degli umani.
I suoi compagni erano silenziosi e ordinati nella loro fila,
consapevoli dell'altezza del proprio compito. Thor, incuriosito dalla
vita del campo, voleva conoscere di persona quegli uomini; Freyr,
altero, camminava subito dietro Odino, pronto a usare la propria
bonarietà per trattare con gli umani. Gli altri
dèi e le dee, un po' incuriositi dalla singolare esperienza
di un'alleanza con degli umani, si lanciavano volentieri in quel
curioso evento. Sif, carezzando i propri capelli dorati, era desiderosa
di entrare in contatto con le usanze degli uomini, proprio come il
marito dal forte Mjöllnir,
Thor; non sperava di ottenere nulla di utile da quel tipo di
conoscenza, se non l'appagamento della propria curiosità.
Loki non era con loro.
La sentinella, sul campo, avvisò prontamente Baldrir
dell'arrivo di quella guarnigione celeste; il comandante, ancora mezzo
assopito per le poche ore di sonno trascorse, con il cuore in gola fece
il possibile per rendersi presentabile agli dèi, atterrito
dall'importanza del compito che stava per svolgere.
Andò invece tutto molto più tranquillamente di
come si era aspettato.
Il primo a farsi avanti fu Freyr, in groppa allo splendido verro dalle
setole auree, Gullinbursti. Baldrir fu investito da una luce fortissima
che tuttavia, contrariamente a quanto si sarebbe potuto credere, diede
ai suoi occhi uno strano senso di benessere, paragonabile all'incirca a
quello derivante da un grande desiderio appagato.
Successivamente venne Odino, modesto nell'aspetto ma grandioso nel
portamento, che gli conferiva grande dignità: anche non
sapendo chi fosse, lo si sarebbe giudicato sicuramente saggio.
Dopo fu il turno di Thor, che indossava una stupenda armatura rosso
fuoco perfettamente abbinata con il Mjöllnir, in un duo che
conferiva una notevole immagine di forza; di fianco a lui camminava
imperiosa la moglie dai capelli d'oro, Sif, il cui sorriso tradiva tuttavia un poco di
imbarazzo dovuto alla singolarità della situazione.
Freyja, di un fascino enigmatico e difficilmente descrivibile, faceva
la propria comparsa successivamente, assieme agli altri dèi,
che non mancarono di salutare calorosamente gli uomini, ancora
sbalorditi dall'incontro con quegli esseri superiori. Gli uomini risposero, senza riuscire a smettere di fissare Freyja.
Baldrir, non meno sorpreso degli altri, riuscì comunque a
mantenere il dovuto contegno istituzionale e si fece avanti.
- Magnifici, eccelsi, superbi dèi. Per noi è un
onore avervi qui tra noi e siamo disposti ad obbedire umilmente al
vostro volere; ci scusiamo per il cattivo aspetto del nostro campo e
speriamo che non ne siate offesi. La vostra apparizione è
per noi un grande dono: permetteteci dunque di esprimervi la nostra
gratitudine!
Parlò Freyr.
- Grazie, comandante, apprezziamo molto le vostre parole. Siamo qui per
aiutarvi, dunque non temete di offenderci con la sola modestia del
vostro accampamento; essa, anzi, non può che comunicarci un
senso di pragmatismo che sicuramente vi contraddistingue e che, in
frangenti bellici, è il benvenuto.
Baldrir, non sapendo cosa dire, sorrise. Freyr sorrise in risposta.
Mi sono già
simpatici! - pensarono contemporaneamente Sif e Thor.
Thorgrim, dalla sua tenda, poté solo udire quel che accadeva
fuori ma sorrise anch'egli, sapendo che gli dèi avevano ascoltato le sue richieste d'aiuto.
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Capitolo 16 *** Mossa decisiva ***
I giganti facevano sul serio e non si sarebbero arresi prima
di aver
combattuto duramente.
Surtr, al fine di limitare l'efficacia dell'alleanza
umani-dèi, decise che lo sforzo bellico sarebbe stato
intensificato.
Þrymr, l'alleato di Jötunheimr,
incontrò
il gigante di fuoco alle porte di Miðgarðr
per stabilire
con lui la strategia da seguire.
- Maestà, i nemici si coalizzano per respingerci con
maggiore forza; propongo pertanto un intervento deciso e coordinato per
imporre la nostra superiorità e far volgere definitivamente
a nostro favore lo scontro.
- Bene, Surtr, sono d'accordo. Che idee hai?
- Se non possiamo intensificare la guerra in Islanda, lo faremo
esportandola altrove.
- Intendi dire... che vorresti attaccare Miðgarðr
anche altrove?
- Certamente. Ricordate il motivo per cui attaccammo l'Islanda e non
altri luoghi? Era legato alla vicinanza di quella terra ai confini del
mondo: conquistando l'isola, ci saremmo accaparrati un'importante
avamposto per attaccare poi tutta Miðgarðr.
- Sì, ricordo. Hai dunque modificato la tua opinione?
- In parte. Continueremo lo sforzo in Islanda ma lo affiancheremo ad un
attacco alla patria di quegli stessi uomini con cui stiamo combattendo:
la Scandinavia.
- Non potrebbe accadere che, così facendo, le forze siano
troppo sparse per risultare realmente efficaci?
- Forse. Ma pensate a cosa significherebbe vedere la propria patria
invasa da noi: ci sarebbero panico, sconforto e
disorganizzazione. Questa, Altezza, è una strategia
psicologica prima ancora che bellica: lo scopo è piegare la
resistenza nemica dall'interno, fino a farla implodere definitivamente.
- Comprendo. É un piano interessante, penso valga la pena di
prenderlo in considerazione.
- Sapevo che avrei potuto contare su di voi, maestà! - fece
soddisfatto Surtr.
Non passò molto tempo perché Þrymr si
decidesse definitivamente.
Jàrnsa,
moglie di Baldrir, osservava il mare dalla piccola piazza del villaggio.
Esso sembrava sempre lo stesso, come sempre gli stessi erano gli
abitanti di quel luogo e tutto ciò che ella poteva vedere.
Tutto era uguale a prima, tranne ciò che la addolorava
allora: l'assenza del marito.
Quel mare così agitato per i forti venti pareva riflettere
lo stato del cuore in tumulto della donna, priva di notizie di Baldrir
da alcune settimane.
Cosa può
essergli successo? - si domandava in preda all'ansia,
conquistata dall'angoscia dell'incertezza. Ella era per natura una
ottimista e ciò la aveva spesso aiutata non poco, in
precedenza; eppure ora sentiva che non sarebbe più bastato.
La vita, spesso, si dimostrava ostile e Jàrnsa, che era una
persona tranquilla e felice con poco, si sentiva tradita da
quella stessa vita che, tuttavia, amava ancora.
Vita, vita,
perché mi fai questo? Io ti ho sempre amata come una figlia.
Si voltò per tornare a casa: era inutile piangere.
Percorse pochi metri, con la mente offuscata da pensieri malinconici,
quando udì grida convulse venire da svariate parti del
villaggio.
Alcuni correvano, altri gridavano senza pensare a cosa dicessero, altri
ancora si barricavano nelle abitazioni.
Sorpresa ancor più che spaventata, Jàrnsa
riuscì infine a trovare qualcuno che le spiegasse cosa
stesse avvenendo.
Un soldato, armato di tutto punto e con un'ascia di guerra in mano, le
spiegò che stava giungendo un attacco temibile sul villaggio.
- Da parte di chi, buon uomo?
- Beh... non ha importanza, ora corri a casa tua e restaci! Non uscire
per nessun motivo!
Ora la paura arrivò.
Ignorando ancora le proporzioni e la natura di quell'evento,
Jàrnsa corse finché le gambe glielo permisero,
poi finalmente arrivò in casa. Tutto intorno era deserto.
Chiuse la porta bloccandola con assi di legno e qualsiasi cosa massiva
le capitasse tra le mani; poi aprì appena una finestra per
sbirciare attraverso.
Fuori c'erano dei soldati, molti dei quali equipaggiati come l'uomo che
aveva incontrato poco prima, che correvano convulsamente, dirigendosi
verso le montagne, a nord est. Il nemico, chiunque fosse, stava
scendendo dai monti.
Rimase a guardare, più per paura che per
curiosità, infine vide delle sagome particolarmente massicce
farsi largo tra la vegetazione e arrivare nel campo vicino alla sua
casa, ove si erano radunati diversi soldati.
Quando furono abbastanza vicini, riuscì a percepire le loro
effettive dimensioni.
- Sono... giganti!
L'ultima cosa che ricordò di aver fatto, prima di svenire,
fu l'aver emesso un grido acuto e penetrante.
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Capitolo 17 *** Uomini e dèi ***
In modo non particolarmente diplomatico, ma di certo
efficace, una imponente figura con in mano un martello fece la propria
apparizione all'entrata della tenda di Thorgrim.
L'uomo, perplesso, si sporse in avanti con la testa, pur
restando sdraiato, per vedere di chi si trattasse;
lanciò un grido quando se ne fu reso conto.
- Thor! Fortissimo e potentissimo Thor, sei proprio tu? -
domandò sorpreso Thorgrim.
- Precisamente. Tu devi essere Thorgrim, sbaglio? - disse Thor
avvicinandosi al giaciglio.
- Non sbagli per nulla! Sono veramente onorato che tu sia qui, mio dio!
- fece ancora Thorgrim, come se stesse parlando con un caro amico che
non vedeva da molto tempo; avrebbe dovuto mantenere di certo un tono
diverso ma provava un senso di eccitamento piuttosto infantile, come
quello di un bimbo che riceva un regalo da lungo tempo desiderato. Si
destreggiò in un improbabile inchino da sdraiato.
- È un piacere anche per me. Baldrir, il tuo comandante, mi
ha detto che ti avrei trovato qui; cosa ti ha costretto in queste
condizioni?
- Ho avuto un momento di... debolezza, ma ora è passato.
Cosa ti spinge a Miðgarðr,
se posso domandarlo?
- Puoi, ci mancherebbe. Sono venuto con gli altri dèi per
aiutarvi a respingere i nemici: come forse già sai, nani e
giganti sono anche contro di noi.
- In realtà non ne ero molto sicuro... ma quindi... qui
fuori ci sono tutti gli dèi? - chiese speranzoso Thorgrim.
- Quasi tutti. Abbiamo pensato che avremmo potuto esservi utili! -
disse Thor, non senza fingere una certa umiltà, che
risultava indubbiamente umoristica in un dio.
- È... fantastico! Non so davvero cosa dire, io non credevo
nemmeno che avrei mai visto divinità, a Miðgarðr,
da vivo! È tutto così straordinario!
- Lo è anche per noi, in parte: un nostro
intervento in massa al fianco dei mortali non è certo comune.
- No, certo che no... sappi che apprezzo moltissimo la tua visita, te
ne sono grato e, dato che sono un grande ammiratore delle tue doti in
combattimento, sono onorato di poterti conoscere personalmente!
- Le mie doti in combattimento, sì... talvolta vorrei
fossero anche maggiori, ma penso di essere l'ultimo a potersi lamentare!
L'uomo e il dio risero.
Thor uscì dalla tenda e trovò la moglie, Sif.
- Moglie, hai avuto modo di parlare con dei mortali?
- Con un paio, sì! Sembrano simpatici.
- Anch'io ho avuto la stessa sensazione. Credo possano essere buoni
alleati, eppure sono piuttosto deboli.
- Deboli in che senso? Per il fatto che muoiono?
- Non solo per quello: sono intrinsecamente deboli anche
perché si accorgono della propria caducità, ne
sono consapevoli. Ti confesso che la cosa mi impressiona un poco: avere
un destino segnato ed esserne consapevoli deve essere spaventoso.
Sif si fece pensierosa.
- Forse. Oppure è per loro una spinta in più a
trarre il massimo giovamento da quel poco che la brevità
dell'esistenza concede loro. Questo li porterà
inevitabilmente a commettere errori o inadempienze, ad assumere idee
pericolose, perfino a far del male a loro stessi, ma è
comprensibile.
- Probabilmente hai ragione. Per quanto mi riguarda, non li invidio e
sono un poco in pena per loro.
Hel, regina del regno dei morti, camminava con sguardo attento tra i
soldati ancora increduli per l'arrivo di ospiti così
speciali.
Sentiva l'odore della morte, lo avrebbe riconosciuto ovunque; ora lo
cercava. Il suo intuito la condusse alla tenda dei feriti.
Sbirciò attraverso una piccola apertura su un lato della
tenda: riusciva a scorgere un uomo sdraiato.
Portava dei capelli lunghi, a metà tra il biondo e il
castano, e la barba incolta, che sembrava invecchiarlo. Una mano
toccava il ventre proprio come se stesse sorreggendo un peso molto
grande; Hel ne dedusse che fosse la parte ferita.
Si concentrò sullo sguardo: non sembrava quello di chi
avesse scampato una morte portata da altri. Piuttosto, concluse Hel,
dava l'impressione di un animo di per sé tormentato,
afflitto da qualcosa che ella non conosceva. Era una dea curiosa e
questo la portò a decidere che avrebbe seguito, nei giorni a
venire, la condizione di quell'uomo pensieroso.
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Capitolo 18 *** Odio ***
Jàrnsa
si risvegliò. Non
avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato dal suo svenimento; la
sola cosa
di cui era certa era il forte mal di testa che l’attanagliava.
Davanti a lei, illuminata da una candela, una grossa creatura sgraziata
e
maleodorante ghignava malignamente.
- Dormito bene, mortale? - si divertì a chiederle Surtr.
- Chi sei, mostro? - gli chiese Jàrnsa. Si accorse di essere
legata a una
sedia.
- Modera i toni, donna! Magari ho un po' di pancia, ma non credo
d'essere un
mostro! - continuò il gigante.
- Cosa vuoi da me? Lasciami!
- Eh, no, non sarebbe abbastanza divertente! Voglio raccontarti un po'
di cose.
- Non voglio sentire niente, lasciami e basta!
Jàrnsa urlava e fissava Surtr con sguardo pieno d'odio. Non
aveva idea di cosa
volesse da lei e non era del tutto certa di volerlo sapere.
- Suvvia. Volevo raccontarti che sono stato in Islanda, recentemente.
Ti dice
nulla, questo? - sorrise.
La donna ebbe una stretta al cuore.
- Se... se hai anche solo osato sfiorare mio marito, ti giuro che...
che...
- Che cosa? Che mi ucciderai?
Il gigante rise sguaiatamente. Allungò una mano su una
spalla di Jàrnsa.
- Lasciami, lombrico! Spero che ti capitino le peggiori cose!
- Tranquilla, non c'è possibilità che questo
avvenga. Comunque, proseguendo il
mio discorso...
Jàrnsa tentò di sputargli in faccia, ma il
bersaglio si era nel frattempo
allontanato.
- Sarai più fortunata la prossima volta! - la
provocò ancora Surtr. Lei gli
lanciò un'occhiata gelida.
- Dicevo, sarai sollevata sapendo che non dovrai più
preoccuparti di tuo
marito!
- Che cosa stai dicendo, maiale?
- Piano con i complimenti, piano! Sto solo dicendo che tuo marito... puff!
A quest'ora deve già essere stato accolto dal tuo amato
Odino nel Valhalla, se
non sbaglio...
La donna strinse i pugni fino a ferirsi. Lanciò un grido
penetrante,
desiderando avere in mano un qualsiasi tipo di arma per fare a piccoli
pezzi quell’essere.
- Dai, così mi dai fastidio. Io ora ti devo salutare, ho
impegni che mi
chiamano: devo massacrare i tuoi concittadini e, dopo loro, tutti gli
altri
porci umani che infestano Miðgarðr.
Tu adesso divertiti, magari
riuscirai a liberarti prima di morire di fame. Piacere, il mio nome
è Surtr!
Il gigante uscì dalla stanza.
Jàrnsa
scoppiò a piangere a dirotto.
Cosa ho fatto di male? Ho sempre servito la mia famiglia, la
mia patria e
gli dèi. Ho commesso degli errori? Se sì, quali
errori possono giustificare una
simile cattiveria nei miei confronti?
L'idea di poter patire il male senza averlo commesso dava alla donna un
forte senso
di straniamento, come se tutto ciò che la circondava non la
riguardasse.
Dov'erano le cause, dove gli effetti?
Improvvisamente
lo scoramento fu cancellato
dall'odio.
Cercò di girare il capo verso le proprie mani, senza
tuttavia riuscirvi. Aveva
urlato tanto da essere quasi rimasta afona; non con potendo contare su
aiuto
dall'esterno, studiò ogni modo per liberarsi da sola dalle
corde. Una gamba,
forse, era poco meno stretta dell'altra; dopo un lasso di tempo che non
seppe
stimare le riuscì di liberarsela. Non ci volle molto per
fare lo stesso con
l'altra gamba, ora meno stretta dalla fune: poteva così
camminare.
L'ostacolo,
adesso, era rappresentato dalla
porta, che Surtr aveva chiuso, evidentemente, con la chiave a lei
rubata mentre
era svenuta. Da fuori nessun rumore; Jàrnsa, con un nodo in
gola, scacciò
l'idea che l'intero paese fosse stato sterminato.
Come uscire?
Le finestre erano sbarrate: le aveva chiuse lei stessa, prima di
svenire, per
respingere i giganti; l'idea di usarle come vie di fuga, specie a causa
delle
sue mani legate, era improponibile. Occorreva un'idea.
Si
ricordò che, nella stanza a fianco, un'asse
di legno era a sbalzo, essendo saltati dei chiodi. Si recò
là, ormai con le
gambe libere, quindi provò a forzare l'asse con un piede.
Dapprima il legno
sembrò inamovibile, poi cominciò a traballare
nella propria sede e, infine, si
staccò con fragore dalla parete.
Si
apriva così un varco, largo a malapena per
permettere a Jàrnsa di passarvi attraverso. Non le fu facile
farcela ma,
infine, vi riuscì, stanca e dolorante.
Contrariamente a quanto immaginava non si vedeva anima viva,
né uomini né
giganti; in quel momento non le importava. Raggiunse un capanno di
attrezzi
agricoli lì vicino e, dopo vari tentativi, riuscì
a liberarsi le mani.
Ti troverò, Surtr, e te la farò pagare;
non mi interessa se sono una donna.
Ti pentirai di ciò che hai fatto fin quando avrai la
sfortuna di esistere. Io
ti odio.
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Capitolo 19 *** Senza tregua ***
La colonna avanzava a
passo lento, con circospezione, in
attesa dell’avvistamento dei nemici. Si era alzato un forte
vento che batteva
insistentemente, facendo ondeggiare ed increspare le vesti di
quell’armata
mista, umana e divina; sui volti degli uomini si leggeva la tensione
causata
dall’attesa, dalla perpetua imminenza del pericolo, che a
lungo andare logora
chiunque.
Freyr rendeva
più vario, con lo scorrere del carro, il
monotono rumore di calpestio del terreno causato da tutti gli altri.
Tutti
assieme, uomini e dèi sembravano un’unica,
grandissima orchestra che eseguiva
una sinfonia fatta di stivali, lame e sassi urtati durante la marcia.
Odino,
massimamente saggio e onnisciente, sapeva cosa stesse per succedere, ma
nemmeno
le divinità sono infallibili; anche la consapevolezza di
ciò rendeva quel dio
tanto saggio.
Thorgrim accarezzava la
sua Göta, la stessa spada che aveva
usato, solo pochi giorni prima, per tentare di uccidersi. Beato ferro… non riguardano te le
preoccupazioni degli uomini; non ti
preoccupano le carestie, le guerre, le sofferenze d’amore o i
tormenti della
malattia. Sei inanimato, insensibile, quindi invincibile,
perché se anche
venissi distrutto materialmente non lo potresti essere
nell’animo, essendone
privo. Condivise queste riflessioni con Thor, che camminava,
al fianco di
Sif, proprio dinanzi a lui. Il dio gli rispose che sì, aveva
ragione dicendo
che una spada non soffre come un uomo, ma che, oltre a questo, una
spada non
può gioire di nulla, mentre un uomo può farlo.
Sif, sorridendo, si chiedeva
come facesse il marito a sapere cosa provassero gli esseri umani, ma
evitò di
manifestare tale pensiero. In fondo, si disse, forse la
sensibilità è qualcosa
di trasversale, umano e divino, proprio degli esseri più
intelligenti ed
elevati; se fosse stato proprio così, un dio non avrebbe
avuto problemi ad
immedesimarsi in un uomo.
Le riflessioni di tutti
vennero bruscamente interrotte dal
suono greve del corno di una vedetta, che annunciava così
l’avvistamento dei
nemici. Le sagome dei giganti e dei nani, tanto sproporzionate tra
loro,
apparivano come un grottesco accostamento di colori non abbinabili tra
loro;
all’armonia del concerto umano-divino si opponeva la
dissonanza di quelle
creature, pure antropomorfe. Furono loro a caricare per prime, selvagge
nei
modi e nei pensieri. Un intenso fragore di ferri colmò
l’altrimenti silenziosa
distesa, mentre i primi caduti tingevano il suolo di sangue. Uomini e
dèi, sia
pure dotati di forza ben diversa tra loro, erano accomunati dal valore
con cui
combattevano; anche Thorgrim, ormai, aveva vinto quella paura che gli
era
costata la sfiducia dei suoi uomini prima, l’ammutinamento
degli stessi dopo.
Lo scontro si
perpetuò per un tempo imprecisato, mentre sia
l’una che l’altra parte avvertivano il logoramento
portato da quello sforzo
prolungato. Alla fine i nani e giganti superstiti batterono in
ritirata,
sperando di potersi poi riorganizzare per un contrattacco.
Sul campo rimase, tra gli
altri, un gigante che, ancora
morente, fu avvicinato da Freyr e Thor.
- Hai qualcosa da dire,
prima di essere inghiottito per
sempre dall’oscurità? – gli chiese Freyr.
- Certamente. Voi forse
avete vinto questo scontro, ma…
- Ma? – lo
incalzò Thor.
- Miðgarðr
non è
solo l’Islanda. Non avrete pace:
ci rivedrete
nella terra d’origine di questi uomini!
Mentre il gigante moriva
con un sorriso malevolo stampato in
volto, i due dèi si guardarono l’un
l’altro, consapevoli che il prossimo
scontro sarebbe avvenuto in Scandinavia.
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Capitolo 20 *** Nobildonne ***
Hel, si
comprende da quanto già è stato detto, era una
dea molto riservata. Le altre
divinità non la odiavano né la amavano, ma
provavano per lei una sorta di
fascinoso timore: era come se ne fossero attratti e respinti al tempo
stesso. I
loro sentimenti verso di lei erano un misto di ammirazione, invidia e
un
pizzico di paura. Da quando Surtr era sceso a Niflheimr
per discutere con lei della sua eventuale partecipazione
al suo piano, la dea non aveva avuto quasi alcun contatto con altri
individui
di nessun genere. Durante questa lunga pausa aveva riflettuto molto a
lungo su
di sé e sul suo rapporto con gli altri mondi: era giunta
esattamente alle
stesse conclusioni cui era già pervenuta dialogando con
Surtr, cioè che non lo
avrebbe seguito nel suo folle attacco a uomini e divinità.
Infine, constatando
la volontà degli dèi di intervenire al fianco
degli umani a Miðgarðr,
aveva deciso di unirsi al
gruppo, senza tuttavia dare troppo nell’occhio e senza mai
schierarsi
apertamente con esso. Voleva vedere cosa accadesse laggiù
per pura curiosità,
non per convinzione.
Aprire i miei
orizzonti non potrà farmi
male. Conoscere non potrà farmi male.
Dopo
essere
stata in Islanda con gli altri dèi, appena
saputo che si sarebbe aperto un nuovo fronte in
Scandinavia non aveva
perso tempo e aveva preceduto tutti gli altri, arrivando con leggero
anticipo
sugli stessi giganti in procinto di invadere quella terra. Ora vagava,
travestita da mendicante, per una foresta di abeti in Norvegia.
Il Sole
filtrava tra le fronde gettando bagliori irregolari sul sottobosco.
Soffiava
una lieve brezza che spandeva tutt’attorno un morbido profumo
di muschio e
funghi: se ne aveva un’impressione di pace e
tranquillità, proprio come piaceva
a Hel. La dea cercava con la vista un segno che l’informasse
su dove si trovava;
per alcuni minuti vagò senza punti di riferimento, poi
finalmente apparve la
fine di quella foresta. Usciva silenziosamente dalla selva, guardando
ammirata
la magnificenza del paesaggio montuoso, quando vide una donna sulla
trentina d’anni
con le mani e le gambe graffiate e un’aria piuttosto spaesata
e afflitta. Non
avendo idee migliori le si avvicinò, intenzionata a
conoscere lo stato di
quella persona.
- Chi sei,
mendicante, che vuoi da me? – le chiese Jàrnsa.
- Sono una
donna che ha vagato a lungo e senza meta. C’è
nulla che io possa fare per te?
- A meno che
tu non abbia poteri sovrumani e un gran cuore temo proprio di no,
grazie.
Hel avrebbe
sorriso, se ne fosse stata capace.
- A seconda
della situazione potrei averli oppure no – disse.
Jàrnsa la
guardò, perplessa.
- Che
significa? – chiese.
- Sai dirmi
perché non c’è nessuno oltre a te qui
nei dintorni? – fece Hel.
- Ci hanno
attaccato i giganti. Ne so quasi quanto te: sono appena riuscita a
liberarmi,
non so cosa sia successo nel frattempo, maledetto verme che hai norme
Surtr, io
ti…
- Surtr? Ho
sentito bene?
- Sì,
purtroppo. Quel… quello schifoso ha ucciso mio marito, il
nobile Baldrir!
Scoppiò a
piangere. Hel le si avvicinò e le carezzò i
capelli con una mano.
- Lo sai,
penso che per te potrei usare poteri sovraumani, Jàrnsa
– le disse Hel.
La donna si
voltò di scatto verso la mendicante, senza capire.
- Come
conosci il mio nome? Che poteri puoi usare? Per che cosa?
Hel si tolse
di dosso gli abiti stracciati da mendicante e si presentò
con una tunica
candida e i capelli neri sciolti. La sua figura si ergeva stagliandosi
contro
il disco solare, conferendosi un aspetto mistico e grandioso: pareva la
personificazione dell’immensità.
- Sono Hel,
regina di Helheimr. Conosco Surtr,
conosco tuo marito Baldrir. Voglio aiutarti.
Jàrnsa la
abbracciò con grande forza, fiduciosa di poter recuperare il
marito
dall’oltretomba.
- Riporterai
indietro mio marito? Puoi farlo?
- Tuo marito
sta benissimo, Jàrnsa. Surtr deve averti mentito per farti
soffrire. Non
tollererò che un bestione imbecille si prenda gioco di una
nobildonna: ti
aiuterò a fare avere a quel bellimbusto quanto si merita,
non temere.
Jàrnsa le
diede un bacio sulla guancia, piangendo ora di felicità per
la lieta notizia.
- Grazie, non
finirò mai di ringraziarti, Regina.
- Non preoccuparti.
Se non ci si
aiuta tra di noi!
Jàrnsa,
annuendo, sorrise.
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Capitolo 21 *** L’abbraccio dell’Oceano infinito I ***
Le
armate in
Islanda avevano iniziato le operazioni per tornare in patria. Baldrir,
ancora a
capo delle forze sull’isola, aveva fatto pressione
perché Thorgrim, appena
rimessosi dalla lunga degenza, potesse al più presto tornare
al comando,
garantendo di nutrire la massima fiducia nei suoi confronti,
cosicché la
maggior parte degli uomini tornò a guardare il vecchio
comandante in modo
favorevole. In particolare, Baldrir faceva affidamento su Thorgrim per
quanto
riguardava il comando del drakkar
che
li aveva condotti in terra d’Islanda e che, da lì,
li avrebbe a breve riportati
indietro per combattere i nemici in casa. All’andata il
comandante Haraldsson aveva
saputo condurre la propria mansione in modo pressoché
impeccabile e nessun
altro nella spedizione aveva un’esperienza di navigazione
paragonabile alla sua,
Baldrir ne era ben conscio.
Le
operazioni per il rimpatrio procedettero senza intoppi di rilievo e,
soprattutto, senza che giungessero attacchi da parte di nani o giganti
a
disturbare il lavoro. Ciò preoccupò in parte
Baldrir e Thorgrim, che temevano significasse
che la maggior parte dei nemici si era già trasferita in
Scandinavia, ma Odino
li rassicurò prontamente, smentendo questo timore. Inoltre
Freyr assicurò che si
sarebbe servito del proprio verro dalle setole d’oro,
Gullinbursti, per
abbagliare con uno straordinario lampo di luce eventuali nani e giganti
che si
fossero avvicinati al sito ove era ormeggiato il drakkar.
Fu
così che
una sera, dopo circa due mesi dall’arrivo in Islanda, i
superstiti
dell’equipaggio del drakkar,
nel
frattempo ribattezzato Fjölnsviðr in
onore di Odino, del quale questo era uno dei numerosi appellativi,
salpò alla
volta della Norvegia per respingere la minaccia incombente. Il Sole era
quasi
completamente sparito sotto l’orizzonte, lasciando dietro di
sé solamente bagliori
vivaci; le tenebre sembravano avvolgere la poca luce rimasta in una
morsa
silenziosa, come annunciando la propria temporanea
superiorità in un conflitto
che si ripeteva tutti i giorni. Il mare era calmo e il cielo sereno,
anche se
da lontano si vedeva incombere una perturbazione piuttosto estesa e
minacciosa,
che pareva dirigersi proprio verso l’imbarcazione. Thorgrim
ordinava frattanto ai
suoi di correggere la rotta basandosi sull’osservazione degli
astri, usati come
riferimento per la navigazione. La Stella Polare era sempre
lì, immobile nel
firmamento, splendida in mezzo a tante altre stelle; il condottiero si
concesse
un attimo per ammirare lo spettacolo, sostanzialmente identico ogni
notte,
eppure commovente ogni volta come se fosse la prima.
L’eternità…
la vediamo tutte le notti, basta semplicemente alzare il capo e sognare.
La
nave
scivolava rapida tra le acque, immerse nel sonno della notte, che
sembravano
estendersi all’infinito in un mondo in cui Thorgrim e
compagni erano le sole
entità distinte da tutto il resto.
Dopo
alcune
ore di tranquilla navigazione il mare cominciò a
incresparsi, mentre le nubi
portavano la prima pioggia.
- Questa
notte ci porta tempesta, comandante – disse Baldrir, che non
aveva mai smesso
di chiamare così Thorgrim.
- Sembra di
sì. Dì agli uomini di prepararsi, non voglio che
nessuno cada in mare: sarebbe infatti
la sua fine, se il tempo dovesse peggiorare.
- Sarà fatto.
Effettivamente
il tempo peggiorò: la pioggia cadde sempre più
copiosa, mentre tuoni e lampi
turbavano la tranquillità che aveva fino a poco prima
contraddistinto quella
notte. Le onde del mare si facevano più alte ed il drakkar oscillava con violenza, colpito
da flutti veloci e forti.
Presto la visibilità si fece scarsa, mentre Thorgrim andava
avanti e indietro
lungo il ponte, preoccupato che niente e nessuno, nave inclusa,
subissero le
conseguenze della burrasca; la cosa si rese sempre più
difficile, poiché il
ponte era diventato scivoloso e le continue oscillazioni rendevano
l’equilibrio
sempre più precario. Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Fulmineo,
inaspettato e spaventoso fuoriuscì dall’acqua un
mostro marino tanto grande che
lo si sarebbe potuto sicuramente vedere anche da molto lontano.
Thorgrim
conosceva abbastanza bene i racconti su quella creatura per sapere di
cosa
avere paura.
Il Miðgarðsormr!
– gridò col terrore negli occhi. Quella volta non
fu lui a portare il panico
tra i suoi uomini: esso si diffuse da solo, contagiando chiunque su
quell’imbarcazione si fosse reso conto di cosa lo aspettava.
Il gigantesco
serpente che si trovava ai confini di Miðgarðr
era lì, davanti ai loro occhi, feroce
nell’aspetto e, si temeva, anche
nelle intenzioni. Sebbene anch’esso generato da Loki, al pari
della dea Hel, ben
diversamente da questa era qualcosa di selvaggio, spaventoso, orribile
ed
arcano. I racconti che lo riguardavano erano avvolti da un alone di
mistero e
di paura; molti marinai ne narravano le vicende, non di rado per
esorcizzare il
timore da cui erano pervasi ogni volta che si imbarcavano e si
abbandonavano al
cullare delle onde. Si diceva che chi avesse osato avventurarsi fino ai
confini
del mondo sarebbe stato ingoiato dalla spaventosa creatura; si
raccontava che
alcuni impavidi avessero sfidato queste credenze e non fossero mai
più tornati
indietro. Ancora, alcuni avanzavano improbabili teorie sulla sorte che
spettasse agli sfortunati che si imbattevano in esso; c’era
anche chi sosteneva
che il serpente fosse così grande proprio in
virtù dei malcapitati di cui si
era cibato da quando esisteva Miðgarðr.
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Capitolo 22 *** L’abbraccio dell’Oceano infinito II ***
In quel
momento Thorgrim e i suoi uomini, appena vista la creatura, ebbero come
una
visione nella quale si mescolavano tutti questi racconti,
sovrapponendosi
talora in ibridi ancora più spaventosi. Tutti si armarono
prontamente, sebbene
nessuno sentisse che sarebbe sopravvissuto a quel mostro, che si stava
intanto
avvicinando al drakkar. Thorgrim si
appellò allora al dio Thor, lo stesso che gli aveva fatto
visita durante la sua
degenza nella tenda dei feriti in Islanda.
Fortissimo
Thor, fa’ che il tuo
possente Mjöllnir
ci difenda dalla brutalità di questo essere che, se
rimaniamo soli, non può concederci possibilità di
sopravvivenza alcuna.
Aiutaci, aiutaci per la salvezza di Miðgarðr, di Ásgarðr e dell’Universo intero.
La
spaventosa creatura arrivò a pochi piedi
dall’imbarcazione, provocando forti
onde con il proprio movimento rapido e violento. Il drakkar,
scosso con veemenza anche lungo la direzione trasversale,
rischiò di ribaltarsi. Thorgrim conosceva a sufficienza il
mare per sapere che,
con onde simili, sarebbe bastato poco perché avvenisse la
sciagura. Il mostro,
tuttavia, non si fermò. La sua orribile testa si
abbatté come una frana sul
ponte a prua, causando una voragine nel legno che lo componeva. Due
marinai
rischiarono di essere travolti dal mostro e si salvarono solo
perché
scivolarono accidentalmente, sul legno bagnato dalla violenta pioggia e
dalla
mareggiata, nella voragine appena formata, prima che il serpente
potesse
prenderli nelle proprie fauci. Due arcieri colpirono con delle frecce
infuocate
il corpo della creatura che, con un ruggito di dolore, si immerse per
un poco
sott’acqua per spegnere l’incendio delle proprie
carni e trovare sollievo;
questo concesse a diversi uomini il tempo per trovare ripari
più appropriati di
quelli, improvvisati, che avevano potuto accaparrarsi prima. Tuttavia
la tregua
durò poco e il mostro riemerse, ancora più
inferocito, strappando un altro
pezzo della prua e provocando anche uno squarcio nello scafo, che gli
uomini
cercarono al più presto di riparare dall’interno
con quel poco che avevano a
disposizione. Baldrir, barricato sottocoperta, era rassegnato.
Non possiamo
farcela. È uno scontro
impari. Siamo finiti.
Anche
Thorgrim ne era ben consapevole. La sua unica speranza era
rappresentata
dall’aiuto divino, che infine arrivò.
Dapprima
nessuno ci fece caso, nel trambusto di quella situazione, ma a poco a
poco si
fecero sempre più nitide, nonostante
l’oscurità e la pioggia ancora imperanti,
le sagome di alcune navi; Thorgrim fu il primo a vederle. Inizialmente
credette
di stare sognando, che quelli che vedeva fossero solo miraggi,
allucinazioni,
ma poi si accorse che decine di drakkar,
simili a quello su cui si trovava, stavano volgendo verso di lui. Sul
più
vicino, in posizione prominente, tenendosi con un braccio alla testa di
drago
scolpita sulla prua dell’imbarcazione, afferrando con
l’altro un grosso
martello, stava Thor, magnifico nella propria armatura, resa lucente
dalla pioggia
e dalle onde che la bagnavano di continuo. Sulle altre navi, che si
avvicinarono a poco a poco, stavano gli altri dèi; tra di
essi svettava Odino,
che seguiva il figlio a breve distanza.
Il drakkar guidato da Thor puntò
verso il
mostro, che aveva ormai devastato la parte di prua del ponte della nave
di
Thorgrim e compagni. Il dio si teneva sempre aggrappato alla testa di
drago:
l’immagine che se ne aveva era di forza e valore incredibili.
Thorgrim riprese dunque
fiducia, confidando nelle doti belliche della divinità da
lui invocata. Il Miðgarðsormr
sembrò essere stato
attirato da questa flotta spuntata dal nulla: trascurò la
nave su cui aveva
infierito fino a quel momento e si lanciò con forza contro
Thor. Thorgrim non
poté fare a meno di domandarsi se il mostro sapesse con chi
stava per avere a
che fare.
Il dio,
senza mai smettere di osservare lo spaventoso nemico venuto dal mare,
faceva
roteare il suo Mjöllnir,
in
segno di sfida. Quando il mostro arrivò a una distanza
sufficiente Thor vibrò
il colpo, che si scaricò con incredibile violenza sopra ad
alcuni denti del
serpente, al punto che questi si troncarono di netto. La creatura si
contrasse
in una smorfia di dolore, mentre il dio si preparava a riattaccare. Il
colpo
seguente fece ondeggiare vistosamente il drakkar
del dio, mentre gli
uomini asserragliati nel Fjölnsviðr osservavano
il combattimento,
tifando a gran voce per la divinità. Thor fu colpito solo
due volte,
procurandosi profonde ferite sulle braccia e su un fianco. Il suo volto
lasciava trasparire solo in minima parte il dolore che il mostro gli
aveva
causato: tante erano la determinazione del dio e la sua resistenza allo
sforzo
e alla sofferenza. Ma la sorpresa più grande venne da alcuni
degli altri drakkar,
su cui fino a quel momento pochi esseri umani si erano concentrati:
nessuno lo
comprese finché a spiegarlo non fu lo stesso Odino, ma su di
essi si trovavano
gli einherjar, i guerrieri caduti in battaglia che,
da tempo immemore,
alimentavano le fila del dio e che ogni giorno si esercitavano al
combattimento
nel Valhalla, in vista della battaglia finale. Non erano presenti
tutti, ma
erano in numero sufficiente a dare un senso di inferiorità
anche al nemico più
formidabile. Alla fine il Miðgarðsormr,
bersagliato dalle frecce di umani ed einherjar e massacrato dai colpi di Thor, si
ritirò nel mare da cui era spuntato,
permettendo che, finalmente, si ristabilisse la quiete.
Gli
dèi scortarono per il
resto del viaggio il drakkar Fjölnsviðr
e aiutarono gli uomini,
colmi di gratitudine, a riparare i danni che esso aveva subito. La
tempesta
cessò e le nubi iniziarono a diradarsi, mentre i primi
bagliori del giorno che
stava venendo abbracciavano con dolcezza la maestosità senza
tempo dell’Oceano
infinito.
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Capitolo 23 *** L'attesa ha un termine ***
La dea Hel e
l’umana Jàrnsa non si erano mai incontrate prima.
Hel conosceva il marito di
Jàrnsa, Baldrir, soltanto di vista, ma nonostante
ciò aveva avuto modo di
sentire l’uomo parlare con affetto della moglie che aveva
lasciato a casa e che
avrebbe voluto riabbracciare quanto prima, ed era certa che questa
ricambiasse
appieno i sentimenti del marito.
Basta
guardarla negli occhi: questa è
sicuramente una persona dotata di grande sensibilità.
La
divinità
aveva prontamente aiutato l’umana a riparare il danno
provocato in casa sua da
Surtr e dalla detenzione che questo le aveva imposto. Subito dopo, la
coppia
umana-divina aveva compiuto un giro di perlustrazione per rendersi
conto di
quale fosse la situazione: la maggior parte del villaggio non era stata
danneggiata ma alcuni abitanti erano scappati, altri stavano ancora
chiusi in
casa, temendo un ritorno dei giganti, che sembravano nel frattempo
essersi
defilati, forse per riorganizzarsi altrove e lanciare così
un contrattacco.
Regnava tutt’attorno un’atmosfera irreale,
conferita dalla quasi totale
mancanza di transito sulle strade. Alcuni contadini avevano lasciato
gli attrezzi
del proprio lavoro lungo la strada; animali da cortile si rincorrevano
liberamente lungo i sentieri che fino a un giorno prima erano percorsi
dagli
abitanti, carri carichi di fieno disposti trasversalmente sbarravano il
passaggio; molti ancora erano i segni di tante occupazioni lasciate a
metà. I
guerrieri che si erano prontamente attivati per respingere
l’orda nemica non
erano quasi mai stati attaccati: i giganti avevano compiuto numerose
azioni di
disturbo, evidentemente con lo scopo di disorganizzare le truppe
piuttosto che
di combatterle direttamente. Regnava in effetti il caos: le
difficoltà di
comunicazione in tali circostanze erano sotto gli occhi di tutti.
La sorpresa
e la paura per l’attacco non durarono tuttavia per molto
tempo ancora: la gente
doveva lavorare per darsi di che vivere e, alla fine, una certa
normalità fu
ristabilita dalla gente stessa. Ritrovando un poco di fiducia nella
situazione,
Jàrnsa e Hel si diressero al porto da cui erano salpati gli
uomini alla volta
dell’Islanda e presso il quale avrebbero dovuto fare ritorno.
Hel aveva
garantito a Jàrnsa che Baldrir e gli altri avevano deciso di
tornare e, salvo
gravi imprevisti, non ci sarebbero volute più di due
settimane perché facessero
il proprio ritorno. Da allora Jàrnsa passò ore e
ore a scrutare l’orizzonte in
attesa della sagoma del drakkar del
marito. Ogni tanto Hel le teneva compagnia, sedendosi al suo fianco,
senza
quasi mai dire nulla. Riteneva che, in certi frangenti, più
che dire tante
parole importasse mostrare la propria partecipazione allo stato
d’animo altrui
con una presenza anche fisica. Quando non accompagnava
Jàrnsa, la dea compiva
delle perlustrazioni silenziose, travestita da mendicante, per rendersi
conto personalmente
di come evolvesse la situazione. Aveva appurato che diversi giganti di Jötunheimr, gli jotnar,
alle dipendenze di re Þrymr, si erano accampati a circa una
trentina di mil di distanza, in
attesa dei rinforzi da parte di Surtr e dei suoi fratelli, i Múspellsmegir. Pareva che,
durante tale
attesa, non avessero nulla di meglio da fare che darsi agli ozi e agli
eccessi,
non perdendo occasione di manifestare una volgarità
inaudita. Hel si era
affrettata a riferire quanto visto alle truppe che difendevano il
villaggio di
Jàrnsa, che non persero l’occasione per motivare
con successo la popolazione,
facendo leva sul ben diverso approccio alla vita di
quest’ultima rispetto ai
giganti.
Questa
continua alternanza di ricognizioni presso l’accampamento
nemico e di compagnia
a Jàrnsa continuarono, per Hel, fin quando finalmente non
arrivò quanto tutti
aspettavano.
Quel giorno
Jàrnsa si era svegliata presto, poco prima
dell’alba, per dirigersi al porto.
Sentiva che era la volta buona: aveva invocato gli dèi
perché la sua sofferta
attesa finisse.
L’attesa
è una micidiale forma di
sofferenza. Non è violenta come un pugno né come
un colpo di spada: è più
subdola, molto più sottile. Si trascina per un tempo che
pare non avere fine, è
una tortura lenta e logorante. L’animo è lacerato
dallo stridente contrasto tra
ciò che si aspetta e la realtà del presente, in
cui l’oggetto dell’attesa
manca. A tratti sembra che il proprio desiderio verrà
appagato quasi
all’istante, altre volte si perde la speranza di riuscirci e
si guarda con
malinconia a quel vuoto che si ostina a perdurare, afflitti dalla
propria
impotenza, consci di non essere veramente artefici della propria
fortuna.
Così
pensava
Jàrnsa, che pure non aveva smesso un attimo di aspettare,
dal momento in cui,
ormai numerosi giorni prima, la sagoma della nave su cui viaggiava il
marito
era scomparsa all’orizzonte, perdendosi nella sconcertante
grandezza del mare.
Si rendeva conto che non avere nulla da aspettare significasse non
avere nulla
per cui soffrire, ma capiva altrettanto bene che non avere nulla per
cui
soffrire volesse dire essere entità puramente materiali,
come le piante o le
rocce; un animo sensibile come il suo era ben lungi dal poter esistere
senza
nulla o nessuno per cui, all’occorrenza, soffrire.
Hel non sapeva
di questa riflessione di Jàrnsa,
tuttavia fu come se gliel’avesse letta negli occhi quando,
quella mattina, la
vide uscire. Si sentiva un po’ strana a pensarci, ma la
verità è che era
diventata amica di una mortale: mortale come le anime di cui ella era
regina a Helheimr. La
seguì a breve distanza,
senza mostrarsi: non voleva disturbarla, a quell’ora.
Entrambe giunsero al
porto presso cui erano state tante volte; ci volle poco
perché Jàrnsa notasse
quella sagoma scura all’orizzonte, seguita poi da tante altre
simili, i drakkar degli einherjar di Odino, di cui ancora non
poteva sapere nulla. Non era
certa che su una di quelle navi ci fosse Baldrir, ma subito il suo
cuore batté
più forte.
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Capitolo 24 *** Ricongiungimento ***
Jàrnsa
ed
Hel, che nel frattempo era corsa ad abbracciare l’umana colma
di gioia,
attesero che la maestosa flotta di drakkar
compisse il proprio ingresso all’imbocco del fiordo. Molta
gente abbandonò le
proprie occupazioni per correre a salutare i nuovi venuti; tutti
rimasero
colpiti dal numero elevatissimo delle navi e dei rispettivi passeggeri.
Nessuno
si era accorto che su quei drakkar
fossero
presenti soprattutto dèi ed einherjar!
Ci si domandava, in effetti, come fosse possibile che, partita una sola
imbarcazione per l’Islanda, ve ne fossero così
tante di ritorno, per di più
cariche di passeggeri, ma la meraviglia del momento mise a freno questi
interrogativi. Subito il locale comandante delle truppe si
recò al porto per
accogliere i rinforzi appena arrivati mentre la folla, festante, si
rallegrava
per l’arrivo di un aiuto così consistente che
avrebbe contribuito alla lotta
contro i giganti, ne erano sicuri. Tutti ritrovarono ottimismo e
speranza alla
sola vista di quelle navi.
C’era
grande
trambusto sulle banchine, quel giorno: civili e truppe si erano
precipitati per
assistere a quell’evento e per dare l’accoglienza
migliore che potessero a
quelli che già consideravano eroi della patria ancor prima
di averli visti
scendere. Hel scortò Jàrnsa, aiutandola a farsi
strada tra la folla, perché
potesse riabbracciare quanto prima il marito Baldrir. Non fu loro
facile, in
effetti, arrivare sul luogo dell’approdo, e diversi furono
gli spintoni che fu
necessario assestare a coloro che erano troppo pigri o troppo poco
riguardosi
per spostarsi, anche dopo una gentile richiesta verbale. Infine
Jàrnsa incrociò
da lontano, in un attimo che non avrebbe di sicuro dimenticato per
molto tempo
a venire, lo sguardo del marito, che si apprestava a scendere
dall’imbarcazione.
Si domandò quali e quante stragi quei cari occhi avessero
visto; subito si
promise di evitare di parlarne con Baldrir. Meglio, piuttosto, dargli
semplicemente l’affetto che gli era mancato per tanto tempo e
che anch’ella non
vedeva l’ora di rendergli, si disse.
Anche se
alla donna parve che ciò avesse richiesto
un’eternità, in poco tempo Baldrir,
facendosi largo tra i compagni e le numerose persone che, festanti,
acclamavano
lui e gli altri a gran voce, riuscì a raggiungerla; non
disse nulla fino ad
allora. Procedeva, deciso, guardandola dritto negli occhi, come se
volesse che
la sua attenzione non fosse attirata, anche solo accidentalmente, da
nulla e
nessuno che non fosse lei. Arrivato dinanzi a lei le diede un lungo e
appassionato bacio, stringendola con le mani ancora graffiate dalle
numerose
battaglie che avevano combattuto. Gli sfuggirono, come sfuggirono a
Jàrnsa,
lacrime di commozione, che sia l’uno che l’altra
avevano temuto di non poter
mai più piangere. La donna chiuse gli occhi, sentendo il
ventre del marito
ondeggiare a ogni respiro, come amava fare ogni volta che si
abbracciavano;
infine i due sciolsero l’abbraccio, sorridendosi felici. Hel
li guardava a
breve distanza, sentendo qualcosa di piacevole dentro di sé,
che non avrebbe tuttavia
saputo descrivere.
- Su quella
neve dovevi esserci tu! –
disse
semplicemente Jàrnsa al marito, piangendo ancora.
Thorgrim
Haraldsson, appena sceso dal drakkar
Fjölnsviðr,
si guardava attorno spaesato. Non si
aspettava un’accoglienza del genere, dato che alla partenza
poche erano le
persone presenti sul molo per salutare la spedizione; a lui che, per di
più,
era un introverso di natura, l’essere acclamato come un eroe
procurava un certo
imbarazzo, compensato solo in parte dalla gratificazione che quel
trattamento
gli garantiva. Lo faceva sentire strano l’idea che,
normalmente, la gente lo
tenesse limitatamente in conto o che, quantomeno, lo trattasse come
chiunque
altro, mentre in quel momento, per come lo guardavano, avrebbe potuto
benissimo
essere un re. Nonostante le sue perplessità cercò
di comportarsi nel modo che
riteneva più opportuno alla situazione, salutando, tra molti
sorrisi, la folla
accorsa anche per lui. Quest’ultima non aveva saputo nulla
dell’ammutinamento
che a Thorgrim era toccato in Islanda, così si era sparsa la
voce che egli
fosse ancora il comandante della spedizione e, naturalmente, questo gli
garantiva
la maggior parte delle attenzioni della folla. Baldrir non vi
badò: in quel
momento pensava solamente a Jàrnsa. Al contrario Thorgrim,
rendendosi conto di
questo fatto, che un poco lo inquietava, cercò di parlarne
con Baldrir, usando
la dovuta discrezione. Felice per l’amico, attese che questo
si allontanasse un
attimo dalla moglie, che salutò gentilmente, e gli
parlò.
- Baldrir… questa gente mi ritiene ancora il comandante.
Dovrebbe
toccare a te, mi dispiace…
- Non c’è nulla di cui dobbiate dispiacervi, comandante.
Anzi,
vista la professionalità che avete dimostrato sulla nave e
viste le vostre
ormai migliorate condizioni di salute, vi rinomino ufficialmente
comandante!
Thorgrim si allontanò un poco da lui, guardandolo fisso,
come per
metterlo meglio a fuoco; non se lo aspettava, ma non gli nascose la
propria
felicità.
- Grazie, Baldrir. Sapere di poter contare su qualcuno come te
è quanto
di meglio si possa chiedere a un amico. Sarai sempre trattato con il
riguardo
che meriti!
Gli sorrise, lasciandolo di nuovo in compagnia della moglie.
Osservò,
felice, i suoi compagni venire accolti. Vide, tra gli altri, Erik
Magnusson e
lo stesso Sweyn Sigurdsson, verso il quale non nutriva più
nessun rancore per
il fatto che fosse stato il fomentatore dell’ammutinamento.
Non era il momento
per serbare rancore, era solo quello di essere felici!
Mentre si
dirigeva dal capo
delle truppe di stanza nella regione, accorso apposta sul luogo, il
comandante
Haraldsson notò una mendicante che, forse solo per
l’eccitazione del momento,
gli parve bellissima, anche sotto degli abiti laceri. Lei lo riconobbe.
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Capitolo 25 *** -- PARTE SECONDA -- ***
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Capitolo 26 *** Foresta incantata ***
La foresta si ergeva in tutta la propria indomita bellezza,
meravigliosa, immersa nell'abbraccio tenero e silente della natura. La
vegetazione si stendeva sul suolo come a volerlo proteggere, madre
amorevole; il ritmico ondeggiare delle fronde era accompagnato dal solo
canto degli uccelli fino a comporvi una musica leggera, al cui
fascino era impossibile restare indifferenti. Era la musica della vita,
che si insinuava inarrestabilmente ovunque le fosse possibile; lo
stesso vento che soffiava ne sembrava pervaso.
Ceallach correva, correva forte, inguaribilmente affamato di bellezza:
non gli bastava mai, per lui non esisteva il momento di fermarsi. Era
velocissimo ma elegante nella propria agilità, a tratti
perfino maestoso. In parte ne era consapevole, certo, e tale
consapevolezza lo rendeva felice, orgoglioso di contribuire, a modo
proprio, alla diffusione della bellezza ovunque gli capitasse di
andare. Ecco apparire ora un maestoso albero secolare, testimone
immobile di chissà quante vicende, ora un piccolo ma
grazioso fiore nel bel mezzo della macchia, ora un fresco ruscello cui
si abbeveravano gli animali del bosco: la bellezza era ovunque,
compariva a poco a poco nello sguardo di Ceallach mentre questi
correva, ma chissà quanta ancora ne restava da scoprire! No,
non si poteva proprio esser lenti: così tanta bellezza
costituiva un tale nutrimento per il cuore che temporeggiare sarebbe
stato un delitto, avrebbe significato rinunciare a... vivere.
Corse e corse, senza curarsi del tempo che passava, delle direzioni che
prendeva o di quelle che trascurava, perché l'importante era
correre, non vi erano altre priorità. Alla fine
stabilì tuttavia di aver appagato la propria sete di
bellezza, almeno per un poco: qualcuno lo attendeva, era giusto tornare.
Pur senza sapere con precisione dove fosse, come al solito
riuscì a ritrovare Damhnait; quando la raggiunse lei lo
abbracciò, lo baciò sulla guancia e gli
tirò uno schiaffo, al quale Ceallach reagì
divertito. Lui le raccontò quante e quali bellezze aveva
potuto vedere; lo fece perché condividerne il racconto con
lei lo rendeva ancora più felice di averle
viste. Damhnait aveva il potere di amplificare la sua
felicità, d'elevarla all'ennesima potenza, ed egli ne era
perfettamente consapevole: si chiedeva in che modo avrebbe potuto fare
a meno di lei. No, non poteva neanche immaginarsi il mondo senza di
lei: per quanto ancora bellissimo, avrebbe perso troppo significato per
meritare di viverci ancora. Assetato di bellezza
com'era, Damhnait costituiva un tale elemento di pace
interiore da rappresentare per lui una divinità... la
più importante in assoluto.
Erano fatti così, la vita per loro era un gioco in cui si
poteva soltanto vincere. Si nutrivano di bellezza e potevano
permettersi di sostentarsene: il loro mondo era troppo vicino alla
perfezione per richieder loro di desiderare altro.
Ceallach la prese per mano e la guardò negli occhi,
sorridendo. Lei ricambiò, con sguardo espressivo, poi
assieme, mantenendo la presa, ricominciarono a correre tra gli alberi.
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Capitolo 27 *** Il villaggio ***
Il villaggio di Fairórga sorgeva proprio laddove
la Valle cambiava improvvisamente direzione, restringendosi ed
elevandosi fino ai monti più impervi. Gli edifici venivano
lambiti dall'ancora timida luce solare fin dal mattino, per poi cedere
a poco a poco il passo all'ombra durante il pomeriggio; il torrente
Ghormuisce donava le proprie acque scintillanti ai pacifici abitanti
del piccolo centro e assicurava l'approvvigionamento idrico all'intera
Valle. Gli edifici erano concentrati perlopiù attorno al
Monumento, ma alcuni si ergevano, solitari, lungo tutto il corso del
torrente, talvolta anche presso le cime.
Ceallach e Damhnait arrivarono nel tardo pomeriggio, alle soglie del
vespro, quando ormai a testimoniare la vita del villaggio ai viandanti
in arrivo non rimanevano che gli ultimi chiarori del sole, sufficienti
solo per occhi acuti come quelli elfici. Il Gran Capo era
lì, alle porte di Fairórga: la sua sagoma si
stagliava sul chiarore della pietra che costituiva il basamento del
Palazzo. Ceallach affrettò il passo verso il padre, presto
seguito da Damhnait; ne temeva l'ira, ma affrettarsi non gli sarebbe
comunque bastato ad evitarla.
- Signore, sono onorata... - cominciò Damhnait. Il Gran Capo
non la guardò neppure.
- Ceallach... sono ore che ti aspetto. Dove sei stato? Forse non ti
ricordi di quante incombenze ci siano qui? Fin qua giunge la tua
incuria?
Ceallach, piuttosto imbarazzato, evitò lo sguardo di
Damhnait.
- Perdonatemi, padre, mi trovavo nella foresta e non ho potuto evitare
di perdermi nella contemplazione della natura.
- Tutti noi amiamo la foresta, Ceallach, essa è per noi
fonte di benessere e di vita; ciononostante non ci si può
astenere dal dovere. Ora rifletti su questo e non costringermi a
ripetertelo in futuro. Non sei più un infante.
- Avete pienamente ragione. Non accadrà più.
- Lo spero.
Ceallach accompagnò Damhnait a casa; durante il tragitto non
disse nulla, imbarazzato per le parole del padre, né lei lo
fece. Gli tenne però la mano, come per ringraziarlo
tacitamente di aver subito quel richiamo sì per le lunghe
corse nei boschi, ma anche per essere stato in compagnia di lei.
I due erano nati e sempre vissuti a Fairórga, eppure ogni
volta che ne percorrevano le vie osservavano la forma e la vita di quel
luogo come fosse la prima volta che vi si trovavano. Le case erano
piccole ma confortevoli, plasmate nei secoli dal lavoro e dal grande
senso estetico degli abitanti, abituati fin dall'infanzia a vivere
nella bellezza più semplice e più autentica; gli
orticelli separavano gli edifici tra loro, i pascoli per gli animali ne
esaltavano i colori con tantissimi fiori e gli alberi, il cielo e le
montagne creavano uno spettacolo cromatico che veniva recitato ogni
giorno, non appena giungeva l'alba, fino a che il disco solare
scompariva dietro la sagoma imponente dei monti.
Ceallach ne era profondamente convinto, non esisteva posto
più bello per vivere in tutto l'Universo.
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