Miðgarðr No More

di The_Viking
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -- PARTE PRIMA -- ***
Capitolo 2: *** Verso Ísland ***
Capitolo 3: *** Il campo ***
Capitolo 4: *** Inquietudine ***
Capitolo 5: *** Assemblea ***
Capitolo 6: *** Tempo di guerra ***
Capitolo 7: *** Cena con Odino ***
Capitolo 8: *** Ghiaccio e Fuoco ***
Capitolo 9: *** Rottura ***
Capitolo 10: *** Jötunn ***
Capitolo 11: *** Lealtà ***
Capitolo 12: *** Assalto ***
Capitolo 13: *** Percezione ***
Capitolo 14: *** Incontro ***
Capitolo 15: *** Straordinarietà ***
Capitolo 16: *** Mossa decisiva ***
Capitolo 17: *** Uomini e dèi ***
Capitolo 18: *** Odio ***
Capitolo 19: *** Senza tregua ***
Capitolo 20: *** Nobildonne ***
Capitolo 21: *** L’abbraccio dell’Oceano infinito I ***
Capitolo 22: *** L’abbraccio dell’Oceano infinito II ***
Capitolo 23: *** L'attesa ha un termine ***
Capitolo 24: *** Ricongiungimento ***
Capitolo 25: *** -- PARTE SECONDA -- ***
Capitolo 26: *** Foresta incantata ***
Capitolo 27: *** Il villaggio ***



Capitolo 1
*** -- PARTE PRIMA -- ***


Parte prima

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Capitolo 2
*** Verso Ísland ***



"[...] Fleygði Óðinn

ok í folk of skaut;
þas vas enn folkvíg
fyrst í heimi."

"[...] Levava la lancia Óðinn
e la scagliava nella mischia:
quella fu la battaglia
prima nel mondo."

(Edda poetica, 24)


Era passato mezzogiorno, a giudicare dalla posizione del Sole nel firmamento. Piccole onde percuotevano ritmicamente lo scafo del drakkar su cui viaggiavano Thorgrim Haraldsson e compagni, rendendo il moto della nave simile al gesto dolce di una madre che faccia dondolare la culla del proprio figlio per farlo addormentare.
Una brezza lieve si alzava a intervalli regolari, gonfiando le vele quanto bastava per sostenere la marcia dell'imbarcazione attraverso le fredde acque del Mar di Norvegia; ah, se solo ci fosse stata anche il giorno prima! Di certo il viaggio sarebbe stato più rapido e indolore; tuttavia Thorgrim aveva troppa esperienza di navigazione alle spalle per scoraggiarsi per così poco.
Baldrir, il fidato aiutante e amico, sostava a prua, riflettendo forse sulla propria esistenza, ispirato dall'immensità dei mari. Thorgrim, saltando con balzi regolari le funi che giacevano accatastate sul ponte, lo raggiunse.
- Mio fidato amico, qualcosa ti affligge?
- La nostalgia, mio signore. Jàrnsa mi attende in patria, sola, ed io mi trovo lontano molte mil da lei. Non fraintendetemi: è per me un onore seguirvi in ogni impresa, tuttavia ella... mi manca.
- Comprendo appieno le tue ragioni e sono lusingato dall'importanza che attribuisci alle mie, alle nostre azioni. Ti invito a farti forza e a resistere. Prima faremo, meglio sarà: vale anche per me.
Un marinaio gridò che si vedeva terra all'orizzonte. Thorgrim guardò davanti a sé e vide una sottile e confusa linea scura delinearsi laddove cielo e mare si univano: si figurava il loro approdo in terra d'Islanda.
Molte leggende si erano succedute su quella terra, di scoperta tanto recente da essere rimasta ancora parzialmente inesplorata; si diceva che fossero stati gli dèi a guidare i primi scopritori sulle sue spiagge e che fosse essa stessa dimora di divinità. Thorgrim conosceva appena quell'isola, vi era stato solo una volta, molto tempo prima e, per di più, per breve periodo, eppure il fascino misterioso della stessa, la sua posizione così distante dalla Terra Madre, la Scandinavia, e da quasi tutte le terre abitate dagli uomini rendevano ai suoi occhi l'Islanda collocabile ai confini del mondo dei vivi, Miðgarðr, la Terra di Mezzo.
L'equipaggio sussurrò, uomo per uomo, una preghiera agli 
Æsir, i signori del cielo, affinché garantissero la riuscita dell'impresa che stavano per condurre; se fosse andata a buon fine, tutti gli uomini presenti su quella nave sarebbero entrati nella leggenda e i posteri avrebbero tramandato per millenni le loro memorie, Thorgrim ne era certo.
Le coste frastagliate e rocciose d'Islanda si delinearono a poco a poco, dando all'equipaggio la preoccupazione di cercare un luogo adatto all'approdo.
Baldrir gettò in mare dei pali affinché la corrente, guidata dal volere degli dèi, li portasse in quel luogo; così era stato fatto pochi anni prima da Ingólfur Arnarson per decidere dove fondare la città di Reykjavík, così l'equipaggio del drakkar avrebbe fatto per decidere dove approdare.
Cosa rende un uomo felice? La fiducia nella riuscita di quel che si fa o semplicemente il sapere che si sta facendo ciò che è giusto?, si chiese Thorgrim osservando l'amico.
- Jàrnsa deve essere fiera di te, caro Baldrir.
- Vi ringrazio, mio signore. Sono qui anche per lei.
- Sei un bravo marito e un bravo guerriero, verrai ricompensato come meriti. Per quanto riguarda l'immediato, oltre che mio vicecomandante sei nominato capo dei combattenti sul campo.
- Io... non sono certo di meritare tanto!
- Lo meriti. Ma ora stiamo arrivando, prepariamoci all'impresa.

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Capitolo 3
*** Il campo ***


L'approdo fu relativamente semplice grazie sia all'abilità dei manovratori, sia alla conformazione della costa che, laddove i pali erano stati condotti dalla corrente, formava degli scogli simili a terrazzamenti rocciosi a gradini in grado di riparare dalle onde il vascello.
Thorgrim, in qualità di guida della spedizione, decise di scendere per primo. Baciò quel suolo freddo e duro e ringraziò gli dèi di avergli concesso di raggiungerlo; fatto questo scalò la bassa parete rocciosa che separava il luogo dell'approdo dal suolo vero e proprio dell'isola ed osservò la conformazione del luogo.
Non si vedeva anima viva. Si era da poco alzato un vento che veniva da terra e dava all'intera scena un aspetto ancora più selvaggio; non si vedevano alberi, cosa che turbò abbastanza il condottiero, abituato alle grandi foreste della sua Svezia, e sembrava che la vegetazione fosse quella tipica della steppa.
Gli altri, scaricando dalla nave il materiale necessario, lo seguirono facendosi strada faticosamente lungo la parete rocciosa; Baldrir ed Erik Magnusson, uno dei combattenti di Thorgrim, furono i primi a giungere, portando con sé materiale da campo.
- Non lavorate soltanto voi, concedetemi di darvi una mano. - disse Thorgrim.
- Se è questo che desiderate, signore, ve lo concederemo, ma in confidenza posso domandarvi dove pensate di porre il campo? - fece Erik.
- Non ne sono ancora sicuro, preferirei perlustrare il luogo prima di prendere una qualunque decisione.
Depositarono a terra del materiale, poi Thorgrim ordinò agli altri di occuparsene.
- Lasciate agli altri quello che state portando e seguitemi.
I tre uomini si avviarono attraverso una distesa piatta e desolata che sembrava avrebbe potuto estendersi all'infinito. Il Sole stava per tramontare e il cielo incominciava già a tingersi dei colori vivaci del crepuscolo; nubi filiformi tingevano di bianco l'immensità di quel mare azzurro che era il firmamento.
Baldrir, marciando, osservava quei colori.
- Pensate che gli Æsir abitino lassù?
- Forse, Baldrir. Indipendentemente da dove sono, però, sono certo che ci stiano seguendo: abbiamo invocato la loro protezione - rispose Thorgrim.
Alcuni uccelli marini volavano sopra di loro in stormi regolari, come danzando. Il loro verso, il flebile fischio del vento e, in lontananza, l'infrangersi delle onde sugli scogli erano i soli rumori che li accompagnavano.
Giunsero finalmente in prossimità di un basso colle che, se dal lato da cui giungevano era troppo impervio per poter essere percorso, una volta aggirato scendeva piuttosto dolcemente ai loro piedi, offrendo così un luogo adatto a dominare una zona più ampia.
I tre salirono in cima e osservarono un piccolo corso d'acqua che pareva scendere da una montagna distante.
- Questo luogo mi sembra adatto a porre il campo, c'è anche l'acqua. Per trovare la fauna dovremo faticare un poco, tuttavia credo sia il posto migliore nelle vicinanze. - sentenziò Thorgrim.
Baldrir tornò al drakkar per avvisare gli altri della decisione del capo e subito lo seguì Erik. Thorgrim, invece, rimase da solo ad osservare, dall'alto, quel luogo così singolare.


Surtr, il terribile gigante del fuoco, osservava la scena dal Múspellsheimr e rideva.
- Che illusi, quegli umani! Credono di essere degli eroi e invece non valgono nulla. Possono anche finire tutti nell'Hel, per quanto mi riguarda, e restarci per l'eternità, tanto non sono che delle stupide pulci, dei fastidiosi insetti tra noi e gli dèi!
Gli rispose un altro figlio di Múspell.
- La loro "impresa" fallirà, mio Surtr, è destinata a fallire. Credono di poter cambiare il corso degli eventi, di andare contro disegni che non possono essere modificati; la loro superbia verrà punita. Siamo o non siamo giganti? Abbiamo o no il potere di combattere gli dèi? Sì? Ebbene, non saranno dei piccoli ed insignificanti umani a fermare quello che è necessario accada.
- Non è solo necessario, è giusto! La nostra superiorità è sempre stata ovvia, evidente, inequivocabile, eppure tutti si sono ostinati a nasconderla. Ecco perché dico che è giusto che accada: noi meritiamo un riconoscimento, lo chiede il nostro onore. Tu potrai chiederti: cosa dovrebbe spingermi a considerare il mio onore prima del bene generale? Non dovrebbe essere qualcosa che viene dopo?
La mia risposta è questa: certo, puoi trascurare l'onore. Puoi addirittura negarlo. Ma ti accorgerai, in questo caso, che avrai annullato te stesso, che da gigante quale sei ti sarai ridotto a uno di quegli sciocchi umani, che avrai perso quello che ti rende superiore ai mortali. Vuoi diventare come loro? Vuoi perdere l'orgoglio, vuoi confonderti nella massa senza valore?
- No, sicuramente no. Mi unisco a te, Surtr, parteciperò alla tua battaglia. Spazzeremo secoli di infamia, di superbia, di falsità e porteremo finalmente la giustizia.
- Dici bene, caro fratello. Dobbiamo solo aspettare; nel frattempo godiamoci lo spettacolo di queste ridicole formiche piene di sé!
Risero entrambi.

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Capitolo 4
*** Inquietudine ***


In una sala del castello Bilskirnir, nel regno di Þrúðvangar, Thor, giocando con il suo martello, il noto Mjöllnir, stava considerando tra sé e sé quanto fossero negativi gli eventi accaduti recentemente.
Che odiasse i giganti e fosse da quelli odiato era ben noto: le sue gigantomachie e i successi conseguiti in tali lotte lo avevano glorificato tra gli dèi e tra i mortali. Eppure pochi erano realmente consapevoli di quanto, oltre ad odiarli, egli temesse quegli stessi giganti.
Forse l'unica che avesse pienamente colto questo fatto era Sif, la moglie di Thor: la dea della fertilità era non solo bella ma anche molto sensibile e sapeva leggere i sentimenti dallo sguardo di chi li provava. Vedendo il marito far roteare, sconsolato, il Mjöllnir per terra, gli si accostò.
- Marito, marito, qualcosa ti affligge, lo sento.
Quello si girò verso di lei senza cessare il gioco.
- E' così, moglie, è così.
- Non me ne vuoi parlare?
- Per darti nuove cure? Non sono sufficienti quelle che hai già subìto in passato?
- Mi causa più preoccupazione il non sapere cosa ti affligge, posso assicurartelo. Se mi dirai qual è il problema non ti prometto che riuscirò a risolverlo, ma sicuramente che proverò a farlo.
Thor sorrise.
- Apprezzo molto i tuoi propositi, Sif, accontenterò pertanto la tua curiosità.
- Ti ringrazio.
- Devi sapere che il fatto di essere tra i più forti degli dèi non è per me garanzia di successo in ogni scontro. In passato ho combattuto e vinto diversi giganti, anche molto abili e tenaci; tuttavia erano scontri alla pari, scontri che avrei potuto vincere.
- Ebbene?
- Ora non è più così. Un gigante, un figlio di Múspell di nome Org, mi ha inviato pochi giorni fa un segnale di guerra molto chiaro. I giganti vogliono imporre la propria supremazia e sono disposti a coalizzarsi per eliminare me, che considerano la principale minaccia alla loro ascesa. Ignoro quali siano le loro strategie ma, come vedi, so a cosa saranno mirate.
- Ma tu sei il più forte tra gli dei! Gli uomini ti adorano, gli dèi ti rispettano, i giganti ti hanno sempre temuto. Com'è possibile che tutto questo venga spazzato via come una foglia da una folata di vento autunnale?
- Proprio questo è il problema: non lo so. Certo, questo segnale potrebbe essere solo una minaccia, forse un avvertimento, addirittura uno scherzo degno di quel burlone di Loki; non sapendolo, però, non posso rischiare di non prenderlo sul serio. Inoltre temo non solo per me ma per tutta Ásgarðr: i piani dei giganti potrebbero andare oltre ogni nostra immaginazione.
- Loro non possono ucciderti, marito: non è questo il tuo destino.
- Chi siamo noi, in fondo, per dire quale sarà il nostro destino? Non è forse quello al di sopra di noi dèi?
- Forse. Io, però, non riesco a credere che qualcuno possa farti del male; magari è solo perché sei mio marito, ma proprio non riesco.
- Sei una moglie fedele e giusta - disse Thor accarezzando i capelli dorati di Sif.

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Capitolo 5
*** Assemblea ***


Rimasto solo sulla collina, Thorgrim rifletteva su se stesso.
Sono un condottiero, uno tra i più fidati servi del mio re; ho sempre creduto nella patria e per quella ho combattuto aspre battaglie. I miei uomini mi rispettano e, talvolta, ammirano; il mio stesso re è fiero di me.
Più negative considerazioni seguirono queste.
Sono amato, eppure sono solo; forse sono il più solo tra tutti gli uomini che sono giunti con me in Islanda. Baldrir ha una moglie che ama e che lo ricambia anche adesso, nonostante la grande distanza che li separa; molti altri dell'equipaggio condividono la sua situazione e, di questi, alcuni sono anche padri. Io sono solo. Non ho figli, non ho moglie, non ho nemmeno dei parenti: io sono tutto me stesso. Avendo di più da amare, i miei uomini sarebbero forse più motivati di me a difendere l'oggetto del loro amore.
 In quel momento Thorgrim si chiese se fosse davvero meritevole di essere il loro capo, di guidare degli uomini che, tutto sommato, in un combattimento avevano solo da perdere e nulla da guadagnare.
Estrasse dal fodero la sua spada, Göta, fedele servitrice in tante occasioni. Sorrise: la spada non poteva avere le sue preoccupazioni; forse stava meglio di lui, ma nonostante ciò gli piacque attribuirle dei pensieri. Immaginò prima che lo rimproverasse per la sua superbia, che lo aveva condotto a diventare il capo di quella spedizione, poi si figurò l'arma deriderlo per i suoi sciocchi crucci e incoraggiarlo a proseguire l'opera intrapresa.
Queste riflessioni furono interrotte dal rumore degli uomini che si avvicinavano, marciando, al lato scosceso della collina.
Adesso faranno il giro! pensò Thorgrim.
Non aveva quasi fatto in tempo a pensarlo che la colonna armata cambiò direzione e si avviò verso il lato opposto del colle. Thorgrim si sporse verso le sue truppe e le salutò dall'alto; gli uomini ricambiarono il gesto.

Il campo richiese diverse ore per essere allestito; la luce solare non abbandonò però il cielo, a causa della stagione estiva, e questo consentì la visibilità necessaria a proseguire l'allestimento. Al termine delle operazioni, Thorgrim convocò i suoi in assemblea, che si tenne nella tenda più grande.
Tra le luci di alcune torce e il luccichio delle armi trovavano posto circa cinquanta uomini tra guerrieri, marinai, artigiani e altri; il condottiero salì su una piccola pedana improvvisata posta ai piedi di una parete della tenda, mentre gli altri lo osservavano in file regolari.
- Uomini, ora che abbiamo posto l'accampamento posso rivelare a quelli che ancora non lo conoscono il motivo di questa nostra spedizione.
Si levò qualche commento dalla folla.
- Lo so, vi starete sicuramente chiedendo perché non vi sia stato detto prima; me lo sarei chiesto anch'io, al vostro posto. Ebbene, ho ricevuto dal re l'ordine di non farlo. Non ho potuto domandargli direttamente il motivo di questa scelta, ma essendo suo suddito ho obbedito senza oppormi.
Il mormorio cessò.
- Questa è prima di ogni altra cosa una spedizione di ricognizione. Ciò significa che siamo stati inviati su questa terra con lo scopo di verificare l'assenza di pericoli e, qualora se ne verificasse il rilevamento, di scongiurarli.
Parlò Sweyn Sigurdsson, uno dei guerrieri.
- Di che pericoli si tratta, mio signore?
- Di pericoli solo parzialmente noti. Alcuni esploratori norvegesi hanno riferito di aver visto presenze sinistre sull'isola: descrivono creature antropomorfe quasi sicuramente non umane, ma i racconti sono diversi e, talvolta, contraddittori. Il nostro scopo è quello di far luce su queste creature e, se esistono, di verificare la loro pericolosità.
Numerosi furono gli sguardi scambiati nella tenda.
- Se volete il mio parere, credo si tratti di troll: in questo caso dovremo combatterli.
Si alzò un forte clamore.
Tutti parlarono, alcuni cercarono di soprastare gli altri urlando più forte, alla fine ebbe la meglio Björn Toste dal Jämtland.
- Signore, con tutto il rispetto parlando non comprendo per quale motivo il re ci abbia mandati in una terra ancora quasi disabitata come l'Islanda a scongiurare un possibile attacco di troll. Siamo guerrieri abili e abbiamo già combattuto molte volte, in passato, ma perché rischiare le nostre vite per proteggere questo luogo?
Thorgrim sorrise.
- Le tue domande sono frutto del buon senso, Björn, non ti devi preoccupare di porle. Io non conosco il volere del nostro re; mi limito unicamente a seguirlo. Tuttavia ritengo probabile che abbia voluto inviarci qui per garantire protezione ai coloni e, forse, per scongiurare un pericolo che potrebbe estendersi alla nostra patria.
- Obbedisco, signore, come ho sempre fatto; spero di riuscire a comprendere quanto prima i motivi della nostra impresa.
- Anch'io, Björn, anch'io. Sicuramente saremmo tutti più motivati sapendo qual è il nostro scopo, ma invochiamo gli dèi affinché tutto vada nel migliore dei modi.
L'assemblea fu sciolta e gli uomini si recarono nei propri ricoveri, addormentandosi con in bocca l'amarezza di ignorare il perché fossero lì.

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Capitolo 6
*** Tempo di guerra ***


Thorgrim non aveva mai visto degli Dvergar, dei nani. Sapeva che vivevano in uno dei nove mondi, Svartálfaheimr, ma era fermamente convinto che non ne potessero uscire e che, a maggior ragione, non potessero raggiungere Miðgarðr.
Per questo motivo rimase molto sorpreso quando, uscito da solo dalla propria tenda per fare una breve passeggiata attorno al campo, poiché non riusciva a prendere sonno, ne vide alcune decine, in parte illuminate dalla luce lunare, in parte dalle torce infuocate che portavano con loro. Si trovavano quasi ai piedi della collina e sembrava che fossero diretti proprio lì; alla velocità a cui si muovevano sarebbero arrivati in poco tempo. Non erano troll, quelli che erano stati rilevati su quell'isola, ma nani! Erano infatti simili a uomini ma molto bassi di statura e, da quanto a Thorgrim era stato narrato, i troll erano più grandi degli uomini.
Le sentinelle dovevano aver visto quelle luci, poiché Thorgrim non ebbe nemmeno il tempo di girarsi verso il campo che udì le loro grida. Il condottiero si affrettò a tornare tra i suoi uomini, senza preoccuparsi del proprio sguardo che tradiva un'istintiva paura per quelle creature sconosciute.
Alcuni altri uomini non erano riusciti ad addormentarsi ed erano perciò rimasti all'erta; quelli che avevano dormito si erano svegliati di soprassalto udendo le grida confuse che imperversavano per tutto il campo. Furono tutti atterriti dall'espressione del condottiero ancor prima che dalla visione dei nani.
Thorgrim inciampò e si rialzò immediatamente, sempre più spaventato; non si girò nemmeno per verificare se i nani stessero proseguendo. Infine arrivò, sudato, al campo.
- Alle armi! Alle armi! - gridò.
Nessuno assicurava agli uomini che i nani li avrebbero attaccati; nessuno, tuttavia, avrebbe rischiato che si avvicinassero. Ovunque si vedeva un frenetico armarsi: chi caricava gli archi, chi impugnava picche, spade ed asce, chi improvvisava armi da difesa con quello che trovava sotto mano, chi infine metteva al riparo munizioni e provviste. Riorganizzatosi, lo stesso Thorgrim impugnò la sua Göta, più perché gli infondeva coraggio che perché ritenesse che gli sarebbe servita.
Baldrir lo vide e colse la sua espressione di terrore.
- Signore, non vi ho mai visto così turbato. Temete che non possiamo respingerli?
- Baldrir, dannazione, pensa a te stesso e alle truppe!
- Lo farò, signore, fatto sta che, se posso esprimermi, credo dovreste mostrare più sicurezza agli uomini.
- Vai a guidare gli uomini, ho detto! Non ti voglio tra i piedi, adesso!
Baldrir, più intimidito che offeso da quell'atteggiamento di Thorgrim, corse via e andò a dirigere le sue truppe.
Ora che i nani erano sulle pendici della collina si potevano scorgere armi di vario genere nelle loro mani: ogni dubbio sulle loro intenzioni era stato fugato.
- Vogliono attaccarci! - gridarono le sentinelle.

Nessuno degli uomini aveva mai combattuto contro esseri diversi dagli umani: molti uomini erano stati uccisi dalle loro mani, ma mai altre cose.
Baldrir, senza aver avuto tempo di preparare un piano, dovette basarsi sul buon senso e sull'esperienza creata dall'osservazione degli scontri tra umani per elaborare una strategia.
Thorgrim era un buon combattente e una buona guida, ma non aveva esperienza di strategie e tattiche: la sua giovane età non gliene aveva data l'opportunità; perciò lasciava il compito a Baldrir, più anziano, per quanto non nascondesse a se stesso quanto ciò ferisse il suo orgoglio.
Chi si era autonomamente occupato di caricare armi difensive o di improvvisarle fu incaricato di colpire i nani dalla maggior distanza possibile. Da stratega quale era, l'ufficiale sapeva che colpire i nemici con maggiore anticipo significava avere un utile vantaggio in partenza.
Vi erano due catapulte in grado di lanciare massi a una discreta distanza; senza perdere tempo vennero caricate e utilizzate, mentre gli arcieri attendevano che i nani si avvicinassero a sufficienza.
I massi caddero, con buona precisione, nel centro della colonna di nani; come sperava Baldrir, la pendenza della collina fece rotolare le pietre, che falciarono così non solo i nani sopra cui caddero ma anche alcuni di quelli che li seguivano.
I sopravvissuti avanzarono senza sembrare troppo scossi dall'accaduto; Thorgrim, dall'alto, notò che non possedevano armi da getto ma solo armi per il corpo a corpo, come le picche.
I nani dovevano essere all'incirca un'ottantina, anche se ora che alcuni di essi erano caduti non si riusciva a capire quanti fossero ancora sani e quanti feriti o morti.
- Non sembrano invincibili! - disse felice Baldrir a Erik Magnusson, che si era armato con un'ascia da guerra.
I nemici erano praticamente arrivati al campo; gli arcieri li accolsero con una pioggia di frecce, che uccise le prime file di nani ma risparmiò quasi completamente le successive.
- Non smettete di tirare frecce finché non lo dico io! - urlò Baldrir, mentre le altre truppe si preparavano a difendere il campo.
L'avanzata dei nani si arrestò, sia sotto la pressione degli arcieri sia per la vicinanza con le altre truppe.
- Arcieri, fermatevi! Tutti gli altri vadano all'attacco! - ordinò l'ufficiale.
Erik Magnusson, a capo degli armati con asce di guerra, avanzò per primo al fianco di spadaccini e lanceri.
Lo scontro fu breve ma intenso; i nani si batterono strenuamente, ma i più alti e meglio armati umani ebbero alla fine la meglio, facendo strage di nemici.
Alla fine si contarono due caduti e otto feriti tra gli umani, ottantatré caduti tra i nani.
Gli uomini, tuttavia, non erano felici.
Subire perdite, pur contenute, e rischiare la propria vita senza sapere il perché non rende felice nessuno; inoltre Thorgrim, lo stesso che aveva condotto in Islanda quegli uomini, aveva lasciato Baldrir a dirigere le operazioni. Aveva combattuto anch'egli e nessuno lo discuteva, ma era sembrato un guerriero tra gli altri piuttosto che il capo di tutti quegli uomini. Dapprima nessuno lo notò, ma più tardi qualcuno se ne accorse e nel campo ci si chiese come mai la guida di tutti loro non fosse il vittorioso Baldrir.
Thorgrim iniziò a temere per la propria credibilità.

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Capitolo 7
*** Cena con Odino ***


Odino scrutava incuriosito i due nuovi arrivati: erano giovani e spaesati in quel luogo sconosciuto.
Non poteva biasimarli. Nell'arco di un lunghissimo tempo numerosissimi uomini erano arrivati lì, senza rendersene pienamente conto, scortati dalle Valchirie prima, accolti calorosamente dal dio Bragi poi; tutti avevano impiegato lunghi periodi per abituarsi all'idea di aver lasciato la loro Miðgarðr e di essere giunti in un mondo nuovo.
I due uomini erano atterriti dalle dimensioni del Valhalla, che non riuscirono a descrivere con parole a loro note. Questo stupore scemò tuttavia quando a parlare loro fu niente meno che lo stesso Odino.
- Benvenuti ad Ásgarðr, guerrieri! Immagino che Bragi vi abbia già ricevuti; intanto sedetevi con gli altri. Gradireste i posti vicino a me? Mi piacerebbe parlarvi.
I due ragazzi si guardarono, attoniti, senza riuscire a credere di essere stati appena invitati a cena da Odino.
- Lo prendo per un sì. Seguitemi.
Il dio, accompagnato da due Valchirie, andò a sedersi ad un capo dell'immensa tavolata già colma di commensali. I giovani, come incapaci di decidere autonomamente la più piccola cosa, seguirono passivamente il trio.
Infine tutti sedettero e Odino parlò.
- Dunque, voi due siete i caduti nello scontro con i nani in Islanda, dico bene?
Uno dei due riuscì, senza sapere come, a trovare la lucidità per rispondere.
- Sì, sign... cioé... sì, Fjölnsviðr Óðinn, siamo noi.
- Come vi chiamate?
- Önundr Egilsson,  Fjölnsviðr- fece il primo, un ragazzo con le lentiggini e i capelli rossi.
- Rögnvaldr Björnsson, Forni - gli fece eco il secondo, un biondino robusto ma non molto alto.
- Come siete morti?
- Siamo stati uccisi in un corpo a corpo con alcuni nani, sapientissimo Odino. Abbiamo avuto la peggio perché i nani hanno attaccato in massa noi due prima che gli altri; siamo stati i soli ad essere caduti, o almeno così ci è parso fin quando non siamo... morti. - disse Rögnvaldr.
- D'accordo, d'accordo. Eravate al seguito di Thorgrim Haraldsson?
- È così, sapientissimo - fece Önundr.
- Chi ci comandava sul campo, però, era Baldrir - aggiunse Rögnvaldr.
- Va bene. I vostri compagni non dovrebbero essere stati informati della ragione per cui siete stati mandati in Islanda, mi sbaglio forse?
- Non lo sono stati, Saðr - continuò Rögnvaldr.
- È giusto che almeno voi due, che non siete più con loro a combattere, ne veniate a conoscenza. Dovete sapere che mio figlio Thor e sua moglie Sif mi hanno espresso profonda preoccupazione per il comportamento dei giganti di Múspellsheimr. Conoscete la loro esistenza?
- Sì, sapientissimo, ci vengono... chiedo scusa, ci venivano narrati racconti su di loro - rispose Önundr.
- Ottimo. Purtroppo quei giganti hanno intenzioni bellicose e desiderano attaccare altri mondi.
- Ma... voi siete il più sapiente degli dèi, Fornölvir! Non sapete già se vinceranno o meno?
Il dio sorrise.
- Voi mortali... siete tutti beatamente ingenui. Certo, io conosco molto di più degli uomini e più anche di taluni dèi; eppure il vero sapiente non è colui che tutto crede di sapere ma, piuttosto, colui che è cosciente dei propri limiti. Io conosco il futuro della vostra stirpe, il destino finale dell'Universo, l'ordine dei mondi e l'origine di tutto; mentirei, tuttavia, se dicessi di sapere cosa precisamente faranno quei giganti. Non conquisteranno l'intero Universo, questo no; eppure è oscuro perfino a me quello che esattamente comporterà la loro azione.
- Ma quindi cosa desiderate sapere da noi, Saðr? - domandò perplesso Rögnvaldr.
- Desidero che mi diciate perché tutti voi temevate quei nani.
- Dunque lo ignorate, Saðr?
- No, lo so benissimo ma voglio sentirlo dire da voi ugualmente.
- Li temevamo perché... non avevamo mai visto dei nani, prima, e l'idea di combattere creature sconosciute ci angosciava; non importava se erano più bassi di noi, erano comunque diversi. Quello che temiamo di più noi mortali è l'ignoto, Fornölvir. - chiarì Önundr.
Odino annuì col capo; intanto le due Valchirie versarono dell'idromele ai due che, sull'onda di emozioni tanto forti, lo bevvero tutto d'un sorso.
- Vi è un collegamento tra i nani e i giganti, Sannr? - chiese Rögnvaldr.
Il dio sillabò con le labbra una sola parola, "alleanza", poi bevve anch'egli.
Prima di crollare sul tavolo ubriachi come tutti gli altri einherjar Önundr e Rögnvaldr ebbero il tempo di chiedersi cosa avrebbe potuto trattenere gli uomini dal ridere di un'alleanza tra pulci e balene.

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Capitolo 8
*** Ghiaccio e Fuoco ***


Il clima a Niflheimr era rigido e nebbioso come sempre. Surtr, abituato alle fiamme di Múspellsheimr, sentiva un gran freddo e si trovava spiazzato nel mondo opposto al suo; avrebbe voluto stare lì soltanto per il minor tempo possibile.
Le nevi si stendevano ovunque e niente e nessuno parevano costituire elementi di discontinuità in quell'unica visione di candore; la nebbia stessa rendeva bianca la visuale in ogni direzione. Non c'era vento ma l'aria era pungente anche da ferma; il gigante di fuoco si domandò come fosse possibile che nell'Universo esistessero due realtà tanto diverse come il fuoco e il ghiaccio, peraltro entrambe dimore di creature viventi.
Stava per essere convinto dalla desolazione del posto a tornare indietro pur senza aver ottenuto nulla, quando Surtr si imbatté, finalmente, in colei che cercava.
La dea Hel era un'entità molto particolare e, per alcuni versi, di un fascino tremendamente perverso.
La si sarebbe potuta definire bella, con lineamenti fini ed eleganti, una figura davvero ben proporzionata; eppure, in alcuni dettagli, somigliava più al cadavere di una donna che ad una viva. Surtr, che pure l'aveva già vista in passato, non poté fare a meno di ravvisarlo nei suoi occhi, contornati da aloni di oscurità e spenti essi stessi, e nella sua carnagione, molto vicina al bianco. Le sue labbra, morfologicamente vicine alla perfezione di quelle di una statua, erano altresì pallide come se non vi fosse contenuto sangue, come se la dea fosse fatta di pietra.
La visione che il gigante ne ebbe fu simile a quella di un fantasma nella nebbia. Con un tale aspetto ella non avrebbe potuto avere altra mansione se non quella di regina dell'Helheimr, il regno di morti, contiguo a quella piana innevata e immersa nelle nebbie.
Le parlò.
- Regina dell'Helheimr, sono Surtr, vengo dalla terra di Múspellsheimr.
- Ti ricordo, ti conobbi ormai molto tempo fa. A cosa devo questa visita in una terra a te tanto ostile?
- Sono venuto per proporti un patto, regina.
Hel, grazie alla propria inespressività, riuscì a non manifestare perplessità che, in chiunque altro, avrebbe comportato l'inarcamento di un sopracciglio.
Costui viene a propormi patti? Cosa vuole da me?
- Di che si tratta, Surtr?
- Probabilmente è inutile che ti ricordi il motivo per il quale ti trovi a essere alla guida di Helheimr, regina.
- Esattamente, è inutile. So bene di essere stata mandata a governare l'Helheimr da Odino; devo ricordarti il mio dono di ringraziamento a lui?
- No, so di Huginn e Muninn, i due corvi.
La dea iniziava a spazientirsi.
- E dunque? Sei venuto qui per farmi ricordare le origini del mio potere o per propormi un patto?
- Per proporti un patto, regina. Sono venuto qui perché l'onore di noi giganti è sempre stato calpestato: dagli dèi, dagli umani, talvolta dagli elfi e dalle altre creature. Siamo stati considerati inferiori nonostante la nostra altezza, considerati forti ma stupidi; un'onta simile non è per noi sopportabile. Riteniamo che il giusto sia dalla nostra parte e che, perché giustizia sia fatta, sia necessario imporci, finalmente, su chi non ci ha rispettati. Il mio patto si basa sul fatto che, essendo tu figlia del dio Loki, Odino ti abbia considerata pericolosa come considera pericoloso Loki stesso e abbia causato anche a te un'offesa imperdonabile relegandoti in questo mondo sperduto. Noi dovremmo quindi unirci per...
- Fermati, ho capito. Tu vuoi che io mi unisca alla tua ribellione contro gli dèi per vendicarci così contro Odino in primis, poi contro gli altri.
- Non solo contro gli dèi, regina, anche contro gli uomini e tutti coloro che hanno offeso il nostro e il tuo onore.
Hel scosse la testa.
- Mi dispiace, io non nutro propositi di vendetta né contro Odino, né contro gli altri dèi né contro gli uomini.
Surtr si fece scuro in volto e non riuscì a trattenersi.
- Insomma, tutti hanno capito che hai regalato quei due dannati corvi a Odino solo perché non volevi averlo contro di te! Se ti unirai a me potrai finalmente toglierti questa maschera.
Hel iniziò a diventare espressiva: da inespressivamente lugubre il suo sguardo si volse in iracondo.
- Non ti permetto di avanzare simili insinuazioni. Ho donato quei corvi a Odino per ringraziarlo di questo regno: è freddo, tutti lo temono e lo ritengono inospitale, nessuno vorrebbe finirci; a me piace. Non mi importa se voleva relegarmi ai confini dell'Universo, a me va bene così. Inoltre non ho motivo di nutrire rancori verso gli altri dèi o verso gli uomini: se abbiano avuto pensieri negativi nei miei riguardi o meno, non è questione di mio interesse.
Surtr era amareggiato da questa risposta, ciononostante tentò di dissimulare il proprio disappunto.
- Fa' come vuoi. Io tornerò, più avanti, poi mi dirai cosa avrai deciso. Fammi però ribadire che sarebbe l'occasione ideale per riscattare il tuo onore. Pensaci.
- D'accordo. È stato un piacere l'averti rivisto, Surtr.
- Grazie, anche per me - concluse il gigante.
Ma quale piacere! - pensò Hel mentre Surtr si allontanava nella nebbia. Non ho alcuna intenzione di unirmi a quel megalomane: sto bene dove sono. Può provare a chiedere agli Hrímþursar, i giganti di brina che abitano qui, ma a me no.
Per me ho solo voglia di tranquillità.

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Capitolo 9
*** Rottura ***


Ormai venuto il dì, Thorgrim Haraldsson si aggirava, pensieroso, per il teatro della battaglia da poco finita.
I soldati toglievano le armi ai caduti e ne facevano un mucchio in mezzo al campo; i corpi erano invece accatastati, in fila, pronti per essere bruciati.
Spade, lance ed asce riflettevano la luce del mattino dando luccichii dorati; sarebbe stato bello a vedersi in qualunque contesto tranne, forse, in quello.
Il condottiero, dedicato un pensiero ai suoi due guerrieri, che ritenne essere ormai stati accolti nel Valhalla, osservò quei nemici contro cui mai prima aveva avuto occasione di imbattersi e, a maggior ragione, di combattere.
I nani erano simili a uomini, solo più bassi e più villosi. Forse possedevano anche altre caratteristiche che egli non notava ad un esame approssimativo, eppure ebbe la strana sensazione che non vi fosse poi molta differenza tra quelle creature e lui e compagni.
Avrete degna crematura anche voi.
Guardò quei nani in volto: possibile ch'egli li avesse temuti come la peggiore delle minacce? Ora che erano morti sembravano così inoffensivi... eppure li aveva molto temuti e, per di più, aveva trasmesso la propria paura a tutto il campo.
Come ci sono riuscito?
Arrivò Baldrir, giunto sul luogo per aiutare gli uomini a rimuovere i resti dello scontro, e vide Thorgrim, pensieroso, osservare i nemici caduti.
- Ti devo delle scuse, Baldrir. Prima della battaglia ti ho trattato male ma hai invece fatto un ottimo lavoro: abbiamo difeso il campo e chi organizzava la difesa eri tu.
- Non preoccupatevi di quello che mi avete detto, signore, non mi sono offeso; piuttosto vi ringrazio per il riconoscimento che mi state dando ora.
I due si scambiarono un abbraccio in segno di riconciliazione: anche se Baldrir era un sottoposto, Thorgrim gli concedeva questo onore.
I fatti seguenti, tuttavia, avrebbero seriamente compromesso quella pace.

Sweyn Sigurdsson era un uomo di carattere, nessuno ne dubitava.
Di un forte senso della giustizia e di una personalità estremamente forte, che non mancava di procurargli simpatie, aveva imparato l'arte bellica prima ancora di essere un uomo pienamente adulto, tanto che si diceva che da bambino il suo gioco preferito fosse l'omicidio dei briganti nei boschi. Non si sapeva molto di suo padre Sigurd, se non che era stato uno dei temutissimi Berserkir: ciò significava che doveva certamente essere stato un guerriero di ferocia tanto grande da tendere alla brutalità più animalesca e nessuno ne dubitava, osservando quanto fosse temibile il figlio.
Quella mattina Sweyn ritenne di sapere esattamente cosa il suo senso della giustizia avesse deciso: Thorgrim non poteva essere il suo condottiero.
Sapeva di doversi sforzare per riuscire a cavalcare il disappunto dei soldati e mise così in atto il proprio piano.
Mentre si trovava in mezzo al campo con altri, per ripulirlo dai segni dello scontro, con buone argomentazioni e buone doti oratorie, non mancando di far leva sull'autorevolezza che gli derivava dall'essere giudicato un guerriero forte e giusto, convinse diversi suoi compagni che Baldrir era il solo degno di essere considerato il capo della spedizione: Thorgrim si era dimostrato troppo insicuro ed inesperto e, vista la reale presenza di un pericolo come quello costituito dai nani, non si poteva rischiare che egli detenesse ancora un ruolo così importante immeritatamente. L'inizialmente piccolo gruppo si allargò a poco a poco all'insaputa sia di Baldrir che di Thorgrim.

A mezzogiorno circa, terminate le operazioni di ripristino della normalità, fu convocata una nuova assemblea per fare un bilancio della battaglia e discutere delle strategie da prendere per il futuro; come la precedente, anche questa venne indetta da Thorgrim, pur con il consenso di tutti. Curiosamente, colui che pareva più desideroso di partecipare all'assemblea rispondeva al nome di Sweyn Sigurdsson.
Thorgrim fece tuttavia appena in tempo a salire sul palco: alcuni uomini lo presero di peso e lo costrinsero a scendere.
- Non potete trattarmi così, sono la vostra guida! Che vi è saltato in mente? Cosa volete da me? Lasciatemi!
- Taci, Thorgrim - fece uno di loro, un marinaio.
Il condottiero si trovò completamente spiazzato da tale insubordinazione e ciò gli procurò troppa vergogna per consentirgli di riprendere la parola.
Sul palco salì Sweyn al posto suo.
- Uomini, guerrieri della Scandinavia, equipaggio del drakkar ancorato in acque islandesi! Solo gli dèi ci sono testimoni di quanto ci pesi prendere questa decisione, ma gli stessi dèi sono sicuramente con noi nel giudicare giusto il provvedimento. Agiamo, dunque, facciamo quel che sappiamo essere giusto!
- Evviva Sweyn! - gridarono gli uomini.
- Vi ringrazio per la fiducia che mi tributate, tuttavia non sono io quello da lodare ma colui che, questa notte, ha organizzato la difesa del campo. A costui tributiamo gli onori che gli spettano poiché egli è il nostro vero e unico condottiero: lodiamo dunque Baldrir, nostra salvezza, e concediamogli di divenire a tutti gli effetti nostra guida!
- Sì! - gridarono all'unisono gli uomini raccolti in assemblea, che condussero sul palco Baldrir; Sweyn, in segno di rispetto, scese e si confuse nella massa.
Thorgrim fu come colpito al petto da un colpo di spada; gli parve che qualcuno gli avesse affondato la sua Göta nelle carni, trapassandolo da parte a parte.
Gridò senza nemmeno pensarci.
- Baldrir, maledetto traditore! Questo è dunque il tuo ringraziamento a chi ti ha nominato comandante sul campo? Questo il ringraziamento a chi proprio questa mattina lodava il tuo operato?
- Thorgrim, devi credermi, mi hanno nominato loro guida gli uomini, non mi sono accaparrato di mia volontà questo titolo! Rispetto la volontà degli uomini ma, lo ripeto, non ho scelto io di sostituirti! - si difese Baldrir.
- Bugiardo! Siete traditori anche voialtri! Il re, il re ha nominato me, non quel criminale! - gridò ancora Thorgrim, che tentò di correre verso il palco ma fu fermato da alcuni uomini e trattenuto a forza.
Da qualche parte riemerse Sweyn, che si accostò all'ormai ex-comandante.
- Rassegnati, Thorgrim. Il re è lontano da qui e tu non puoi essere un comandante senza nessuno da comandare; ora il nostro comandante è Baldrir, che ti piaccia o no, e tu sarai un suo sottoposto. Sarai uno di noi, niente di più.
La sorpresa e la rabbia sul volto di Thorgrim si mutarono a poco a poco nella disperazione, finché egli tacque, caduto in un profondo stato di apatia.
L'assemblea fu sciolta e Thorgrim, così umiliato, venne mandato a dormire in uno degli alloggi delle truppe, sotto lo sguardo feroce di coloro che aveva ritenuto essere suoi compagni.

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Capitolo 10
*** Jötunn ***


Mi scuso per non aver aggiunto capitoli negli ultimi due giorni: il quinto anno di studio matto e disperatissimo al liceo sa talvolta essere indigesto! :S


I Dieci Múspellsmegir erano seduti ormai da un po' al tavolo delle trattative. Il re Þrymr, intento ad ascoltare con attenzione tutte le argomentazioni degli arrivati, non si accorse di stare per cadere dal grosso scranno di legno su cui sedeva e piombò a terra con notevole fragore; gli altri si contennero per evitare inopportuni attacchi di risa. Rialzatosi il re, Surtr riprese subito il filo del discorso per evitare che quest'ultimo passasse in secondo piano.
- Maestà, quella che vi offriamo è un'opportunità unica: realizzeremo finalmente la nostra rivincita e compiremo quello che finora non è stato fatto, a mio giudizio a torto. Sono convinto che potremmo farcela, con le forze di cui disponiamo: siamo forti, determinati e numerosi.
Þrymr muggì in segno di assenso.
- Va bene, Surtr, mi avete convinto. Anch'io, da tempo, pensavo a una rivincita contro gli uomini ma, soprattutto, gli dèi, in particolare quel vile e arrogante di Thor; forse è venuto il tempo di mettere in pratica questi propositi. Devo tuttavia avvisare te e i tuoi fratelli, mio caro Surtr, che la mia autorità su Jötunheimr non è illimitata: dovrò sottoporre il provvedimento alla votazione del Consiglio, l'organo amministrativo di dodici Consiglieri che mi coaudiuva nel governo del regno.

- Ce ne rendiamo conto, Altezza, e rispettiamo le decisioni dei Consiglieri, indipendentemente da quali esse saranno; auspichiamo tuttavia che vi uniate a noi perché, è bene ripeterlo ancora, questa occasione è probabilmente unica.
- Comprendo. Ora permettetemi di comunicare il quesito ai Consiglieri; frattanto restate nel mio palazzo, è per me un onore ospitarvi!

Fu riunito il Consiglio e portato da un messo il quesito della votazione.
I Consiglieri, durante un'assemblea a porte chiuse, discussero accesamente una materia tanto importante.
Alcuni, i più patriottici ed orgogliosi, sostennero che l'occasione di imporsi sulle altre razze era per gli jotnar troppo succulenta per poter lasciarla sfuggire; altri ritenevano giusta la causa ma troppo deboli le forze di cui i giganti potevano disporre; gli ultimi, infine, non volevano inimicarsi gli dèi più di quanto già non avessero fatto in passato.
La discussione ebbe alcune fasi più rilassate e altre più tese, con punte in cui si rischiò la rissa; alla fine, comunque, il risultato delle votazioni arrivò.
Su dodici votanti si ebbero due astenuti, coloro che ritenevano giusta la causa ma insufficienti i mezzi, mentre i dieci restanti rimasero divisi esattamente a metà tra interventisti e neutralisti; tale risultato fu tempestivamente comunicato al re, che si trovava in un'altra sala del palazzo, il quale ne rimase deluso, sperando in una maggiore abbondanza di interventisti.
Fu lo stesso re Þrymr a comunicare l'avvenuto ai Dieci Múspellsmegir in missione diplomatica ospitati nel palazzo; Surtr montò su tutte le furie.
- Maledizione, esattamente metà! Che succede, ora? Cosa facciamo noi con un simile branco di idioti?
- Calmati, Surtr. Forse non conosci a sufficienza le leggi del mio regno oppure non le ricordi; ti rinfrescherò dunque la memoria. Devi sapere che il Consiglio è un organo di discreta importanza all'interno della nostra amministrazione, tuttavia è per me nulla di più che un'istituzione puramente rappresentativa. Ogni decisione del Consiglio altro non è che l'orientamento dei Consiglieri sulle materie trattate in assemblea: il re può tenerne conto oppure trascurarlo. Non esiste dunque alcun problema poiché, in qualità di re di questo regno, sono tenuto a sottoporre i quesiti alla votazione del Consiglio ma non a sottostare alle decisioni che esso prende; pertanto a me spetta l'ultima parola.
Un lampo di speranza si accese negli occhi di Surtr.
- Maestà, non sapete che consolazione mi diano le vostre parole. Confesso la mia ignoranza sulla vostra amministrazione e me ne scuso; confido ora nella vostra decisione.
- Non avete di che temere, voi Múspellsmegir: la mia decisione è ancora quella che vi comunicai prima di convocare il Consiglio. Combatteremo al vostro fianco perché così ho deciso io, che sono indiscutibilmente il re di Jötunheimr.
Venne così firmato un trattato con il quale Þrymr si impegnava a diventare alleato dei Múspellsmegir nella loro guerra: Surtr rientrò così a Múspellsheimr, fiero del risultato ottenuto.

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Capitolo 11
*** Lealtà ***


Tre giorni erano passati dall'approdo in Islanda. Grandi nubi plumbee avevano fatto capolino nel cielo e l'atmosfera tendeva ad incupirsi, come se qualcosa di terribile stesse per accadere. Il mare, da lontano, si vedeva agitarsi e incresparsi, mentre gli uccelli che volteggiavano nell'aria faticavano a volare contro vento.
Baldrir, quella notte, non aveva dormito. Non era tanto e solo il fatto di essere stato nominato comandante di quell'armata, a seguito dell'ammutinamento appena avvenuto; no, quello che più lo tormentava era il pensiero di come in quel momento dovesse sentirsi Thorgrim.
Baldrir aveva sempre stimato Thorgrim. Lo conosceva da quando era un ragazzo e si ricordava di quanto fosse sempre stato ligio al dovere: più volte aveva posto l'adempimento dei doveri davanti alla garanzia della propria sopravvivenza, collaborando in diversi modi con tutti coloro che facevano parte della sua comunità.
Il tradimento era una cosa che Baldrir non aveva mai sopportato; ma il fatto di essere stato fatto passare egli stesso per un traditore era qualcosa che proprio non riusciva a concepire. No, egli non voleva tradire Thorgrim: i suoi uomini lo avevano costretto a farlo, dunque non aveva di che rimproverarsi.
Eppure il senso di colpa lo angustiava, gli pesava come un macigno e lo inchiodava alla realtà dei fatti.
Decise di andare da Thorgrim per spiegargli la verità: non avrebbe potuto infatti tollerare di farlo soffrire per nulla un momento di più.
Quella mattina uscì dalla tenda, illuminato dal debole chiarore del Sole coperto dalle nuvole, così presto che solo un paio di sentinelle si trovavano all'aperto oltre a lui. Le salutò; dovevano aver appena dato il cambio ad altre due sentinelle, perché vide due uomini rientrare nelle rispettive tende.
La tenda di Thorgrim era appunto una di quelle due; se ricordava esatto, era stato destinato a una tenda divisa con tre compagni. Trovò il posto piuttosto facilmente e, con delicatezza, entrò.
Vide, sdraiata, una delle due guardie appena rientrate e la salutò ma, evidentemente per il sonno eccessivo, quella non lo ricambiò, ormai immersa nel mondo dei sogni. Altri due dormivano sdraiati sul terreno, uno che russava sonoramente e l'altro che stava rannicchiato in una posizione del tutto innaturale.
Mancava solo Thorgrim. Baldrir ne era certo, la tenda era quella, eppure di lui non c'era traccia. Abbandonò la tenda.
Se era uscito non poteva aver fatto molta strada senza essere visto dalle sentinelle, a meno che...
A meno che non sia uscito proprio durante il cambio della guardia - pensò Baldrir.
Poteva averlo fatto solo per un motivo: non essere individuato.
Il comandante percorse il perimetro del campo, guardando all'interno di questo e ai piedi della collina, ma non trovò nulla fin quando non raggiunse il lato orientale.
Thorgrim era in basso e sembrava camminare senza meta e in maniera sgraziata. Nella mano destra impugnava la spada, che urtava frequentemente il terreno sollevando piccole nuvole di terra. Baldrir non ci avrebbe giurato ma, forse, Thorgrim stava per fare qualcosa di folle.
Non far nulla non era nemmeno un'ipotesi considerabile; Baldrir scese con cautela, cercando di raggiungere Thorgrim senza far rumore.
Quello aveva intanto percorso un tratto irregolare che, per un attimo, sembrò ricondurlo al campo, poi di nuovo volse verso il mare. Baldrir camminava a passi lunghi e controllati, riuscendo a non farsi sentire pur muovendosi a una discreta velocità.
Manca poco!
Era alle spalle di Thorgrim, ancora qualche metro e lo avrebbe raggiunto.
A quel punto Thorgrim sollevò da terra la spada, la sua Göta, si inginocchiò a terra e impugnò l'elsa con entrambe le mani. Baldrir, adesso, era certo di cosa volesse fare.
Sfidando se stesso, Baldrir riuscì letteralmente a correre in silenzio e, giunto dietro Thorgrim, tentò di fermare il gesto.
- Fermo! Non lo fare!
Thorgrim, ignorando la preghiera del comandante, volse la lama verso se stesso e vibrò il colpo.
Baldrir, in extremis, afferrò le braccia di Thorgrim e deviò la spada.
La lama colpì Thorgrim nel ventre, risparmiando così il cuore, ciononostante sgorgò diverso sangue.
- Aiutatemi! - gridò a gran voce Baldrir, attirando così l'attenzione delle sentinelle, che non mancarono di accorrere con un curatore.
Thorgrim, ferito, venne portato nel campo e medicato, così che l'emorragia venne arrestata, anche se perdurava il pericolo di infezioni.
Baldrir attese che il suo ex-comandante si risvegliasse, senza mai abbandonare la tenda in cui era stato portato Thorgrim.
- Ce la farà? - chiese al curatore.
- Se gli dèi vogliono. Ora è ancora presto per dirlo, possiamo solo aspettare.
Passò tutto il giorno. La sera, finalmente, Thorgrim si risvegliò.
- Io... sono nell'Hel? - disse.
- No, Thorgrim, perlomeno non ancora. Stavi cercando di ucciderti e ho tentato di evitarlo.
Thorgrim aprì lentamente gli occhi. Parlare gli era piuttosto doloroso, dunque parlava piano e lentamente.
- Tu... perché mi fai questo? Cosa ti ho fatto di così grave da spingerti a farmi soffrire ancora?
- Io non voglio che tu soffra, Thorgrim. Voglio inoltre che tu sappia che non mentivo quando, ieri, affermavo che non ho scelto io di essere nominato comandante. Lo hanno deciso gli uomini e non ho potuto oppormi: sai di cosa siano capaci Sweyn e la sua orda.
- Vorrei fidarmi, Baldrir, ma che cosa mi garantisce che tu stia affermando il vero?
- Nulla può garantirci tutto, Thorgrim. Posso solo prometterti, poi saranno i fatti a giudicare se le mie siano state parole sincere o meno; so quanto questo possa pesarti e mi dispiace, ma voglio chiederti di fidarti. Non ti deluderò. Non potrei perdonarmi di deludere il mio comandante.
- Il tuo ex-comandante, Baldrir: il comandante ora sei tu.
- No. Per me sarai sempre tu, il comandante. Io non ho mai voluto esserlo: troppe resposabilità, troppi oneri. Preferisco essere un subordinato: mi riesce meglio. Se fosse stato per me non avrei mai ottenuto questa carica.
- Voglio crederti, Baldrir. Se gli dèi mi concederanno di sopravvivere, spero che un giorno potremo mettere una pietra sopra quello che è accaduto.
- Lo voglio anch'io, comandante Haraldsson.

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Capitolo 12
*** Assalto ***


Heimdallr osservava attentamente il Bifröst, come era del resto abituato a fare sempre. Il ponte arcobaleno era lì, saldo e portentoso nei suoi colori sgargianti che non mancavano di infondergli sicurezza ed un senso di tranquillità che gli ricordava la spensieratezza dell'infanzia. Quante volte aveva fissato quel ponte! Ásgarðr sarebbe stata al sicuro fintanto che egli avesse respinto ogni possibile minaccia incombente sul Bifröst, ne era certo.
Compì una piccola perlustrazione, salendo un poco sull'arcobaleno. Per chiunque sarebbe stata un'emozione unica, per lui era un incarico ordinario; eppure nemmeno Heimdallr era esente da una certa emozione ogni volta che varcava le soglie di Ásgarðr marciando sul Bifröst. Miðgarðr era lì sotto, poteva scorgerla coperta dalle nubi; molti uomini dovevano essere là sotto, intenti a compiere le proprie mansioni o a darsi ai diletti, così come alle sue spalle gli dèi regnavano su Ásgarðr e ne amministravano l'esistenza.
Talvolta l'emozione si trasformava in noia e il Dio Bianco si domandava perché quel ruolo importante ma ripetitivo fosse toccato proprio a lui.
Chissà se anche i mortali hanno simili problemi - si chiedeva allora.
Quando si annoiava, gli unici rimedi che escogitava consistevano nel ripetere mentalmente dei canti, nell'inventare indovinelli o giochi di parole e nel lasciarsi avvolgere e inebriare dalla forza dei ricordi: per tutto il lunghissimo tempo nel quale aveva svolta l'attività di guardiano aveva di certo avuto tempo per raccoglierli e rielaborarli, i ricordi! La sua capacità di percepire anche solo lo spostamento di un insetto a terra lo aveva costretto a dotarsi di una memoria incredibilmente prodigiosa, tanto da esser giunto a memorizzare tutti i movimenti di quei piccoli esserini da quando esistevano e, con essi, molti altri particolari che, per chiunque altro, sarebbero stati impercettibili, oltre che trascurabili.
La parte più alta del ponte era a posto, non sembrava che nessuno l'avesse varcata negli ultimi tempi, a parte ovviamente gli dèi per una delle loro riunioni.
Heimdallr scese, così da verificare che le cose andassero per il verso giusto anche più vicino a Miðgarðr.
La marcia non fu molto lunga: egli era troppo esperto del Bifröst per non sapere come attraversarlo velocemente.
Il suo arrivo a Miðgarðr fu felice, non altrettanto la vista di quel che vi trovò.
Quelli che vedeva erano, e non avrebbero potuto essere altro, dei Múspellsmegir arrivati in qualche modo a Miðgarðr, ben difficilmente con intenzioni pacifiche.
Heimdallr conosceva il pericolo: Odino lo aveva prontamente informato. Per questo la vista di un centinaio di giganti di fuoco non lo costrinse a riflettere molto sull'opportunità o meno di utilizzare il Gjallarhorn, il suo potentissimo corno, che emise un suono fortissimo, presto udito in tutti i mondi.
I Múspellsmegir, accortisi dell'allarme, corsero in massa mentre Heimdallr, prestando fede alla propria mansione, saliva sul Bifröst cercando di respingere i giganti con il fortissimo suono del suo corno.
Ad aiutarlo giunsero presto Odino, il figlio Thor e il dio Freyr con il suo fidato verro dalle setole d'oro, Gullinbursti.
I tre dèi, senza dir nulla, armati di lance e fulmini uccisero alcuni giganti e ne ferirono degli altri, riuscendo a cacciarli dal Bifröst prima, da Miðgarðr dopo. Al termine del combattimento si contarono venti giganti uccisi.
- Abbiamo cacciato questi, è vero, ma ce ne saranno certamente degli altri - disse Odino.
- Adoro uccidere quelle nullità, padre. Se ci attaccheranno, io li farò pentire di averci anche solo pensato - fece Thor.
- Potete contare su di me, in tal caso, e in quasi tutti gli altri dèi, credo - concluse Freyr.
I tre dèi tornarono ad Ásgarðr e il buon Heimdallr, fiero del proprio operato, riprese a far la guardia al suo Bifröst.

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Capitolo 13
*** Percezione ***


Thorgrim correva, correva con tutto il fiato che aveva in corpo e non si voltava mai.
Doveva fuggire, lo sapeva. Doveva farlo il più velocemente possibile, ogni esitazione avrebbe infatti potuto essergli fatale.
Sfidava forse la sua stessa resistenza agli sforzi fisici portandola ai massimi, incapace di concepire anche solo per un attimo di fermarsi, di rassegnarsi a essere sconfitto e annientato.
Ciò da cui scappava non aveva nome né volto. Probabilmente era solo una sua paura irrazionale tramutata nel nemico da un perverso gioco della sua mente, magari per la suggestione datagli dall'incontro con i nani di appena due giorni prima; di certo non avrebbe potuto rappresentare graficamente quell'inseguitore formidabile e determinato, non ne aveva modo: anche se non si era girato a osservarlo, era come se sapesse che non avrebbe dovuto farlo per nessuna ragione al mondo.
Correva ancora, dimentico della fatica, quando la cosa lo raggiunse.
È finita - pensò.

Si risvegliò, sudato, in una posizione particolarmente scomoda, mentre il forte dolore al ventre riprendeva il dominio delle sue facoltà mentali.
Era solo un sogno. La realtà è altra cosa - si disse per tranquillizzarsi; eppure non si sentiva per nulla tranquillo.
Tante volte gli avevano parlato di sogni premonitori e, anche se non ne aveva sperimentati direttamente, Thorgrim non aveva motivo di dubitare della loro esistenza.
Non poteva alzarsi dal suo giaciglio, il curatore glielo aveva negato: restò quindi lì, in balìa dei dolori fisici e delle sue fantasie di morte, da solo.
Il tempo passava e l'unico segno della presenza di altre persone era il loro vociferare all'esterno della tenda; giusto un paio di volte entrò il curatore a verificare le condizioni di Thorgrim, poi uscì e Thorgrim rimase ancora solo.
Cominciava ad annoiarsi seriamente, quando egli udì delle grida; subito dopo, un gran clamore.
Non poteva vedere nulla, dalla tenda, ma aveva partecipato a un numero di battaglie sufficiente a fargli capire che i suoi si stavano preparando allo scontro; lo deduceva semplicemente dai rumori che egli udiva.
Chi può essere? Ancora quei nani? - si domandò.
Gli uomini, fuori, gridavano e si udiva il rumore degli archi che scoccavano: qualunque essere stesse attaccando il suo campo, di certo stava assaggiando una discreta dose di spiedini.
Poi cessò lo scoccare degli archi e si udì il clangore delle spade e delle lance, che faceva intuire l'inizio dello scontro diretto; le grida si fecero ancora più forti.
Dopo un po' si udì il rumore di passi veloci e l'apertura della tenda venne allargata.
- Metteteli lì! Lì c'è posto! - gridava il curatore.
Due uomini portavano un guerriero ferito in molte parti del corpo; Thorgrim non avrebbe scommesso molto sulle sue possibilità di sopravvivere. Poi giunsero altri feriti, sulle cui condizioni Thorgrim smise presto di volersi pronunciare.
- Chi sta attaccando? - chiese Thorgrim.
Il curatore, che nella foga del momento si era dimenticato della sua esistenza, gli mostrò uno sguardo sconvolto.
- Nani, come l'altra volta. Non da soli, stavolta.
- Che significa?
- Ci sono dei giganti con loro! Siamo attaccati da nani e giganti insieme!
Incredibile - pensò Thorgrim.
- La maggior parte è stata messa in fuga e ora stiamo respingendo gli ultimi, ma siamo convinti che torneranno, magari in forze - aggiunse il curatore.
Maledizione.
Fu allora che Thorgrim si pentì di aver cercato codardamente la morte. C'erano i suoi uomini a rischiare le proprie vite combattendo contro nemici mai visti e sprecare la sua, di vita, era tutto quello di cui egli era capace?
Decise che, se fosse riuscito a rimettersi, sarebbe sempre rimasto con i suoi a combattere; dopotutto era stato lui a portarli in Islanda. Indipendentemente dall'ammutinamento che aveva subito, lo doveva loro.

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Capitolo 14
*** Incontro ***


Dopo quell'attacco di nani erano passati giorni interi, incessantemente tormentati da avvistamenti, schermaglie e veri e propri attacchi.
I nani parevano molto numerosi, anche se non particolarmente forti, mentre il contrario era supponibile per i giganti; ormai i guerrieri scandinavi conoscevano quei nemici prima ignoti, sapevano come agivano e, non di rado, quali fossero i loro punti deboli e quali quelli di forza.
Eppure, nonostante le numerose sconfitte da essa subita, l'alleanza nani-giganti perdurava e, anzi, pareva prendere vigore ogni attimo di più, al punto che la situazione cominciò a farsi insostenibile.
Gli uomini non dormivano quasi più, ormai pressoché certi dell'imminenza di un attacco anche di notte; erano stanchi, sempre meno motivati, sempre meno numerosi. Le perdite erano state contenute, non superiori alla decina di vittime, tuttavia nessuno avrebbe scommesso sulla tenuta di quell'armata spossata e sempre più inaffidabile.
Thorgrim Haraldsson, in via di guarigione, ancora nel proprio letto chiese aiuto direttamente agli dèi.
- Fjölnir Óðinn, aiutaci a respingere questi nemici venuti da altri mondi! Vinci i malvagi nani, coalizzatisi contro l'ignaro e innocente mondo di Miðgarðr! Potente Thor, colpisci col tuo Mjöllnir i vili giganti! Freyr, Freyja, pervadete della vostra grandezza i rigidi cuori delle creature che hanno deciso di inimicarsi noi!
Gli dèi non lasciarono cadere nel vuoto l'appello dell'uomo.
Il saggio Odino convocò assemblea ad Ásgarðr, nella sala del Valhalla, facendovi partecipare eccezionalmente non solo gli einherjar ma anche gli dèi.
- Fratelli, sorelle, guerrieri e tutti coloro che hanno l'onore e la responsabilità di sedere qui.
Questo è il giorno della decisione, della coesione, della solidarietà.
Siamo stati invocati dagli uomini, e io stesso ho potuto constatarne l'effettiva necessità, affinché rendiamo loro un aiuto nella difficile guerra che essi stanno combattendo contro nemici troppo numerosi per le loro forze. Non lo nasconderò: non sarà solo un intervento in loro aiuto ma anche in supporto a noi stessi. I nemici, infatti, hanno subdolamente creato una grande alleanza per arrivare alla conquista non solo di Miðgarðr ma anche di Ásgarðr.
Nella sala si alzò un boato di stupore, che non nascondeva una certa preoccupazione.
- Voi non dovete avere paura: siamo dalla parte del giusto e non lo dobbiamo dimenticare. Abbiate paura e i nostri nemici ci vinceranno!
Il mormorio tacque, sostituito da un teso silenzio.
- Desidero che conosciate le dinamiche dei fatti degli ultimi tempi: vi sarà fondamentale la consapevolezza della realtà. Tutto è nato a Mùspellsheimr, regno dei giganti di fuoco, per opera del più temibile di loro: Surtr.
Ricominciò il trambusto, all'interno del quale riuscì a prendere la parola Thor.
- Padre, quel gradasso non ci avrà! Lo brucierò con i miei fulmini, lo farò pentire di essere comparso nell'Universo, di aver pensato e di aver poi agito. Voi, qui presenti! Volete che uno stupido gigante presuntuoso vinca anche solo uno di noi? Volete dargli la soddisfazione di far parlare di sé per l'eternità, di imporre la propria arrogantocrazia su tutte le creature che nacquero dal sacro albero di Yggdrasill?
Un unico, fortissimo boato di no scosse l'immensa sala dei guerrieri. Odino sorrise dentro di sé, pensando al piglio oratorio del figlio.
Il sapiente proseguì.
- Thor ha ragione: non dobbiamo cedere. Tuttavia, per motivarvi maggiormente, mi addentrerò più nei dettagli. Dovete sapere che i giganti hanno intenzione di sterminare gli uomini per insediarsi stabilmente a Miðgarðr e, da lì, di attaccarci ripetutamente. La motivazione che essi adducono è del tutto infondata: ritengono che il loro orgoglio sia stato scosso da noi, dagli uomini e, in sostanza, da tutti coloro con cui essi hanno dei disaccordi. Si sono dimenticati di quanti giganti si sono trovati e si trovano tuttora dalla nostra: evidentemente il loro orgoglio è cieco e infantile.
Freyja intervenne.
- Sapiente Odino, queste sono le motivazioni dei giganti; i nani che scopo desiderano perseguire?
- Uno scopo analogo, Freyja: come vedi, l'ottusità è una caratteristica comune a molti. Ma tornando a noi, voglio solo chiedere la vostra collaborazione in questo scontro con i giganti e i nani. Noi non vogliamo sterminare le popolazioni di interi mondi, - e qui Odino fece un mezzo sorriso al figlio Thor, che egli sapeva ardere del desiderio di eliminare anche solo le tracce dei giganti - bensì far tornare ognuno nella propria area di competenza. Vogliamo punire i nostri nemici per la loro arroganza, non cancellarli; speriamo che, nonostante la loro stupidità, un giorno capiscano quanto siano state sciocche e infondate le loro attuali motivazioni. Allora, chi è con me?
Gli einherjar furono i primi ad alzarsi in piedi; accompagnarono il gesto con grida di battaglia, che incutevano effettivamente un certo timore. Ad essi fecero seguito Thor, entusiasta, e sua moglie Sif, che era stata fra i primi a sentire il pericolo costituito dai giganti; fu poi il turno di Freyr, Freyja e, poco alla volta, tutti gli dèi. Uno solo non disse nulla e, al contrario degli altri, scoppiò a ridere divertito; non fu tuttavia notato, in mezzo al trambusto. Costui era Loki.
Poco dopo una sentinella del campo islandese sotto il comando di Baldrir vide, in lontananza, delle armature luccicanti portate da uomini e donne così particolari che si sarebbero potuti dire... dèi.

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Capitolo 15
*** Straordinarietà ***


Surtr era arrogante e prepotente, ma non per questo uno sprovveduto: non appena si accorse che qualcosa si stava muovendo tra i suoi avversari, corse infatti a convocare i suoi a Mùspellsheimr.
- Fratelli, stiamo vincendo quegli umani, non c'è dubbio, ma mi preoccupa l'intervento degli dèi: essi sono stati avvistati da alcune nostre sentinelle. In realtà non trovo strana questa loro intromissione: era inevitabile che avvenisse, prima o poi; eppure l'ho trovata stranamente tempestiva, come se essi ci temessero davvero.
- Non è forse positivo, Surtr? Li abbiamo spaventati! - fece il gigante Ulf.
- Certamente, caro fratello, tuttavia il fatto che siano intimoriti comporterà sicuramente un più massiccio intervento da parte loro. Se tu fossi minacciato da un orso affamato non agiresti con maggiore determinazione di quanta ne useresti per mandar via una formica molesta?
- Sì, senza dubbio.
- Allora immedesimati negli dèi: a un'azione maggiore corrisponde una reazione maggiore. Forse non abbiamo messo in calcolo che l'esser potenti non è sempre un vantaggio, quando ci siamo lanciati in questa avventura.
- Ma fratello... questa avventura andava intrapresa, lo hai sostenuto tu stesso! Ti sei pentito di quel che dicesti?
Surtr, sfoderando la propria arroganza, si sentì punto nell'orgoglio.
- Io non mi sono pentito proprio di nulla! Continueremo fin quando non avremo vinto, indipendentemente da quali saranno le nostre scelte nel frattempo. Non ci ritiriamo, noi; se tu vuoi farlo sei libero di infangare il tuo onore, a te la scelta!
- No, non lo farò! Fedeltà assoluta, Surtr! Gloria ai figli di Mùspell e alla loro nobile impresa, morte agli infami degli altri mondi!
Nonostante queste parole, però, Ulf non era del tutto convinto.

Odino sapeva esattamente cosa fare. Tutto, dentro di lui, lo portava a dirigersi verso quella collina sopra cui, senza ombra di dubbio, sorgeva l'accampamento degli umani.
I suoi compagni erano silenziosi e ordinati nella loro fila, consapevoli dell'altezza del proprio compito. Thor, incuriosito dalla vita del campo, voleva conoscere di persona quegli uomini; Freyr, altero, camminava subito dietro Odino, pronto a usare la propria bonarietà per trattare con gli umani. Gli altri dèi e le dee, un po' incuriositi dalla singolare esperienza di un'alleanza con degli umani, si lanciavano volentieri in quel curioso evento. Sif, carezzando i propri capelli dorati, era desiderosa di entrare in contatto con le usanze degli uomini, proprio come il marito dal forte Mjöllnir, Thor; non sperava di ottenere nulla di utile da quel tipo di conoscenza, se non l'appagamento della propria curiosità.
Loki non era con loro.

La sentinella, sul campo, avvisò prontamente Baldrir dell'arrivo di quella guarnigione celeste; il comandante, ancora mezzo assopito per le poche ore di sonno trascorse, con il cuore in gola fece il possibile per rendersi presentabile agli dèi, atterrito dall'importanza del compito che stava per svolgere.
Andò invece tutto molto più tranquillamente di come si era aspettato.
Il primo a farsi avanti fu Freyr, in groppa allo splendido verro dalle setole auree, Gullinbursti. Baldrir fu investito da una luce fortissima che tuttavia, contrariamente a quanto si sarebbe potuto credere, diede ai suoi occhi uno strano senso di benessere, paragonabile all'incirca a quello derivante da un grande desiderio appagato.
Successivamente venne Odino, modesto nell'aspetto ma grandioso nel portamento, che gli conferiva grande dignità: anche non sapendo chi fosse, lo si sarebbe giudicato sicuramente saggio.
Dopo fu il turno di Thor, che indossava una stupenda armatura rosso fuoco perfettamente abbinata con il Mjöllnir, in un duo che conferiva una notevole immagine di forza; di fianco a lui camminava imperiosa la moglie dai capelli d'oro, Sif, il cui sorriso tradiva tuttavia un poco di imbarazzo dovuto alla singolarità della situazione.
Freyja, di un fascino enigmatico e difficilmente descrivibile, faceva la propria comparsa successivamente, assieme agli altri dèi, che non mancarono di salutare calorosamente gli uomini, ancora sbalorditi dall'incontro con quegli esseri superiori. Gli uomini risposero, senza riuscire a smettere di fissare Freyja.
Baldrir, non meno sorpreso degli altri, riuscì comunque a mantenere il dovuto contegno istituzionale e si fece avanti.
- Magnifici, eccelsi, superbi dèi. Per noi è un onore avervi qui tra noi e siamo disposti ad obbedire umilmente al vostro volere; ci scusiamo per il cattivo aspetto del nostro campo e speriamo che non ne siate offesi. La vostra apparizione è per noi un grande dono: permetteteci dunque di esprimervi la nostra gratitudine!
Parlò Freyr.
- Grazie, comandante, apprezziamo molto le vostre parole. Siamo qui per aiutarvi, dunque non temete di offenderci con la sola modestia del vostro accampamento; essa, anzi, non può che comunicarci un senso di pragmatismo che sicuramente vi contraddistingue e che, in frangenti bellici, è il benvenuto.
Baldrir, non sapendo cosa dire, sorrise. Freyr sorrise in risposta.
Mi sono già simpatici! - pensarono contemporaneamente Sif e Thor.
Thorgrim, dalla sua tenda, poté solo udire quel che accadeva fuori ma sorrise anch'egli, sapendo che gli dèi avevano ascoltato le sue richieste d'aiuto.

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Capitolo 16
*** Mossa decisiva ***


I giganti facevano sul serio e non si sarebbero arresi prima di aver combattuto duramente.
Surtr, al fine di limitare l'efficacia dell'alleanza umani-dèi, decise che lo sforzo bellico sarebbe stato intensificato.
Þrymr, l'alleato di J
ötunheimr, incontrò il gigante di fuoco alle porte di Miðgarðr per stabilire con lui la strategia da seguire.
- Maestà, i nemici si coalizzano per respingerci con maggiore forza; propongo pertanto un intervento deciso e coordinato per imporre la nostra superiorità e far volgere definitivamente a nostro favore lo scontro.
- Bene, Surtr, sono d'accordo. Che idee hai?
- Se non possiamo intensificare la guerra in Islanda, lo faremo esportandola altrove.
- Intendi dire... che vorresti attaccare Miðgarðr anche altrove?
- Certamente. Ricordate il motivo per cui attaccammo l'Islanda e non altri luoghi? Era legato alla vicinanza di quella terra ai confini del mondo: conquistando l'isola, ci saremmo accaparrati un'importante avamposto per attaccare poi tutta Miðgarðr.
- Sì, ricordo. Hai dunque modificato la tua opinione?
- In parte. Continueremo lo sforzo in Islanda ma lo affiancheremo ad un attacco alla patria di quegli stessi uomini con cui stiamo combattendo: la Scandinavia.
- Non potrebbe accadere che, così facendo, le forze siano troppo sparse per risultare realmente efficaci?
- Forse. Ma pensate a cosa significherebbe vedere la propria patria invasa da noi: ci sarebbero panico, sconforto e disorganizzazione. Questa, Altezza, è una strategia psicologica prima ancora che bellica: lo scopo è piegare la resistenza nemica dall'interno, fino a farla implodere definitivamente.
- Comprendo. É un piano interessante, penso valga la pena di prenderlo in considerazione.
- Sapevo che avrei potuto contare su di voi, maestà! - fece soddisfatto Surtr.
Non passò molto tempo perché Þrymr si decidesse definitivamente.

Jàrnsa, moglie di Baldrir, osservava il mare dalla piccola piazza del villaggio.
Esso sembrava sempre lo stesso, come sempre gli stessi erano gli abitanti di quel luogo e tutto ciò che ella poteva vedere. Tutto era uguale a prima, tranne ciò che la addolorava allora: l'assenza del marito.
Quel mare così agitato per i forti venti pareva riflettere lo stato del cuore in tumulto della donna, priva di notizie di Baldrir da alcune settimane.
Cosa può essergli successo? - si domandava in preda all'ansia, conquistata dall'angoscia dell'incertezza. Ella era per natura una ottimista e ciò la aveva spesso aiutata non poco, in precedenza; eppure ora sentiva che non sarebbe più bastato. La vita, spesso, si dimostrava ostile e Jàrnsa, che era una persona tranquilla e felice con poco, si sentiva tradita da quella stessa vita che, tuttavia, amava ancora.
Vita, vita, perché mi fai questo? Io ti ho sempre amata come una figlia.
Si voltò per tornare a casa: era inutile piangere.
Percorse pochi metri, con la mente offuscata da pensieri malinconici, quando udì grida convulse venire da svariate parti del villaggio.
Alcuni correvano, altri gridavano senza pensare a cosa dicessero, altri ancora si barricavano nelle abitazioni.
Sorpresa ancor più che spaventata, Jàrnsa riuscì infine a trovare qualcuno che le spiegasse cosa stesse avvenendo.
Un soldato, armato di tutto punto e con un'ascia di guerra in mano, le spiegò che stava giungendo un attacco temibile sul villaggio.
- Da parte di chi, buon uomo?
- Beh... non ha importanza, ora corri a casa tua e restaci! Non uscire per nessun motivo!
Ora la paura arrivò.
Ignorando ancora le proporzioni e la natura di quell'evento, Jàrnsa corse finché le gambe glielo permisero, poi finalmente arrivò in casa. Tutto intorno era deserto.
Chiuse la porta bloccandola con assi di legno e qualsiasi cosa massiva le capitasse tra le mani; poi aprì appena una finestra per sbirciare attraverso.
Fuori c'erano dei soldati, molti dei quali equipaggiati come l'uomo che aveva incontrato poco prima, che correvano convulsamente, dirigendosi verso le montagne, a nord est. Il nemico, chiunque fosse, stava scendendo dai monti.
Rimase a guardare, più per paura che per curiosità, infine vide delle sagome particolarmente massicce farsi largo tra la vegetazione e arrivare nel campo vicino alla sua casa, ove si erano radunati diversi soldati.
Quando furono abbastanza vicini, riuscì a percepire le loro effettive dimensioni.
- Sono... giganti!
L'ultima cosa che ricordò di aver fatto, prima di svenire, fu l'aver emesso un grido acuto e penetrante.

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Capitolo 17
*** Uomini e dèi ***


In modo non particolarmente diplomatico, ma di certo efficace, una imponente figura con in mano un martello fece la propria apparizione all'entrata della tenda di Thorgrim.
L'uomo, perplesso, si sporse in avanti con la testa, pur restando sdraiato, per vedere di chi si trattasse; lanciò un grido quando se ne fu reso conto.
- Thor! Fortissimo e potentissimo Thor, sei proprio tu? - domandò sorpreso Thorgrim.
- Precisamente. Tu devi essere Thorgrim, sbaglio? - disse Thor avvicinandosi al giaciglio.
- Non sbagli per nulla! Sono veramente onorato che tu sia qui, mio dio! - fece ancora Thorgrim, come se stesse parlando con un caro amico che non vedeva da molto tempo; avrebbe dovuto mantenere di certo un tono diverso ma provava un senso di eccitamento piuttosto infantile, come quello di un bimbo che riceva un regalo da lungo tempo desiderato. Si destreggiò in un improbabile inchino da sdraiato.
- È un piacere anche per me. Baldrir, il tuo comandante, mi ha detto che ti avrei trovato qui; cosa ti ha costretto in queste condizioni?
- Ho avuto un momento di... debolezza, ma ora è passato. Cosa ti spinge a Miðgarðr, se posso domandarlo?
- Puoi, ci mancherebbe. Sono venuto con gli altri dèi per aiutarvi a respingere i nemici: come forse già sai, nani e giganti sono anche contro di noi.
- In realtà non ne ero molto sicuro... ma quindi... qui fuori ci sono tutti gli dèi? - chiese speranzoso Thorgrim.
- Quasi tutti. Abbiamo pensato che avremmo potuto esservi utili! - disse Thor, non senza fingere una certa umiltà, che risultava indubbiamente umoristica in un dio.
- È... fantastico! Non so davvero cosa dire, io non credevo nemmeno che avrei mai visto divinità, a Miðgarðr, da vivo! È tutto così straordinario!
- Lo è anche per noi, in parte: un nostro intervento in massa al fianco dei mortali non è certo comune.
- No, certo che no... sappi che apprezzo moltissimo la tua visita, te ne sono grato e, dato che sono un grande ammiratore delle tue doti in combattimento, sono onorato di poterti conoscere personalmente!
- Le mie doti in combattimento, sì... talvolta vorrei fossero anche maggiori, ma penso di essere l'ultimo a potersi lamentare!
L'uomo e il dio risero.

Thor uscì dalla tenda e trovò la moglie, Sif.
- Moglie, hai avuto modo di parlare con dei mortali?
- Con un paio, sì! Sembrano simpatici.
- Anch'io ho avuto la stessa sensazione. Credo possano essere buoni alleati, eppure sono piuttosto deboli.
- Deboli in che senso? Per il fatto che muoiono?
- Non solo per quello: sono intrinsecamente deboli anche perché si accorgono della propria caducità, ne sono consapevoli. Ti confesso che la cosa mi impressiona un poco: avere un destino segnato ed esserne consapevoli deve essere spaventoso.
Sif si fece pensierosa.
- Forse. Oppure è per loro una spinta in più a trarre il massimo giovamento da quel poco che la brevità dell'esistenza concede loro. Questo li porterà inevitabilmente a commettere errori o inadempienze, ad assumere idee pericolose, perfino a far del male a loro stessi, ma è comprensibile.
- Probabilmente hai ragione. Per quanto mi riguarda, non li invidio e sono un poco in pena per loro.

Hel, regina del regno dei morti, camminava con sguardo attento tra i soldati ancora increduli per l'arrivo di ospiti così speciali.
Sentiva l'odore della morte, lo avrebbe riconosciuto ovunque; ora lo cercava. Il suo intuito la condusse alla tenda dei feriti.
Sbirciò attraverso una piccola apertura su un lato della tenda: riusciva a scorgere un uomo sdraiato.
Portava dei capelli lunghi, a metà tra il biondo e il castano, e la barba incolta, che sembrava invecchiarlo. Una mano toccava il ventre proprio come se stesse sorreggendo un peso molto grande; Hel ne dedusse che fosse la parte ferita.
Si concentrò sullo sguardo: non sembrava quello di chi avesse scampato una morte portata da altri. Piuttosto, concluse Hel, dava l'impressione di un animo di per sé tormentato, afflitto da qualcosa che ella non conosceva. Era una dea curiosa e questo la portò a decidere che avrebbe seguito, nei giorni a venire, la condizione di quell'uomo pensieroso.

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Capitolo 18
*** Odio ***


Jàrnsa si risvegliò. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato dal suo svenimento; la sola cosa di cui era certa era il forte mal di testa che l’attanagliava.
Davanti a lei, illuminata da una candela, una grossa creatura sgraziata e maleodorante ghignava malignamente.
- Dormito bene, mortale? - si divertì a chiederle Surtr.
- Chi sei, mostro? - gli chiese Jàrnsa. Si accorse di essere legata a una sedia.
- Modera i toni, donna! Magari ho un po' di pancia, ma non credo d'essere un mostro! - continuò il gigante.
- Cosa vuoi da me? Lasciami!
- Eh, no, non sarebbe abbastanza divertente! Voglio raccontarti un po' di cose.
- Non voglio sentire niente, lasciami e basta!
Jàrnsa urlava e fissava Surtr con sguardo pieno d'odio. Non aveva idea di cosa volesse da lei e non era del tutto certa di volerlo sapere.
- Suvvia. Volevo raccontarti che sono stato in Islanda, recentemente. Ti dice nulla, questo? - sorrise.
La donna ebbe una stretta al cuore.
- Se... se hai anche solo osato sfiorare mio marito, ti giuro che... che...
- Che cosa? Che mi ucciderai?
Il gigante rise sguaiatamente. Allungò una mano su una spalla di Jàrnsa.
- Lasciami, lombrico! Spero che ti capitino le peggiori cose!
- Tranquilla, non c'è possibilità che questo avvenga. Comunque, proseguendo il mio discorso...
Jàrnsa tentò di sputargli in faccia, ma il bersaglio si era nel frattempo allontanato.
- Sarai più fortunata la prossima volta! - la provocò ancora Surtr. Lei gli lanciò un'occhiata gelida.
- Dicevo, sarai sollevata sapendo che non dovrai più preoccuparti di tuo marito!
- Che cosa stai dicendo, maiale?
- Piano con i complimenti, piano! Sto solo dicendo che tuo marito... puff! A quest'ora deve già essere stato accolto dal tuo amato Odino nel Valhalla, se non sbaglio...
La donna strinse i pugni fino a ferirsi. Lanciò un grido penetrante, desiderando avere in mano un qualsiasi tipo di arma per fare a piccoli pezzi quell’essere.
- Dai, così mi dai fastidio. Io ora ti devo salutare, ho impegni che mi chiamano: devo massacrare i tuoi concittadini e, dopo loro, tutti gli altri porci umani che infestano Miðgarðr. Tu adesso divertiti, magari riuscirai a liberarti prima di morire di fame. Piacere, il mio nome è Surtr!
Il gigante uscì dalla stanza.

Jàrnsa scoppiò a piangere a dirotto.
Cosa ho fatto di male? Ho sempre servito la mia famiglia, la mia patria e gli dèi. Ho commesso degli errori? Se sì, quali errori possono giustificare una simile cattiveria nei miei confronti?
L'idea di poter patire il male senza averlo commesso dava alla donna un forte senso di straniamento, come se tutto ciò che la circondava non la riguardasse. Dov'erano le cause, dove gli effetti?

Improvvisamente lo scoramento fu cancellato dall'odio.
Cercò di girare il capo verso le proprie mani, senza tuttavia riuscirvi. Aveva urlato tanto da essere quasi rimasta afona; non con potendo contare su aiuto dall'esterno, studiò ogni modo per liberarsi da sola dalle corde. Una gamba, forse, era poco meno stretta dell'altra; dopo un lasso di tempo che non seppe stimare le riuscì di liberarsela. Non ci volle molto per fare lo stesso con l'altra gamba, ora meno stretta dalla fune: poteva così camminare.

L'ostacolo, adesso, era rappresentato dalla porta, che Surtr aveva chiuso, evidentemente, con la chiave a lei rubata mentre era svenuta. Da fuori nessun rumore; Jàrnsa, con un nodo in gola, scacciò l'idea che l'intero paese fosse stato sterminato.
Come uscire?
Le finestre erano sbarrate: le aveva chiuse lei stessa, prima di svenire, per respingere i giganti; l'idea di usarle come vie di fuga, specie a causa delle sue mani legate, era improponibile. Occorreva un'idea.

Si ricordò che, nella stanza a fianco, un'asse di legno era a sbalzo, essendo saltati dei chiodi. Si recò là, ormai con le gambe libere, quindi provò a forzare l'asse con un piede. Dapprima il legno sembrò inamovibile, poi cominciò a traballare nella propria sede e, infine, si staccò con fragore dalla parete.
Si apriva così un varco, largo a malapena per permettere a Jàrnsa di passarvi attraverso. Non le fu facile farcela ma, infine, vi riuscì, stanca e dolorante.
Contrariamente a quanto immaginava non si vedeva anima viva, né uomini né giganti; in quel momento non le importava. Raggiunse un capanno di attrezzi agricoli lì vicino e, dopo vari tentativi, riuscì a liberarsi le mani.
Ti troverò, Surtr, e te la farò pagare; non mi interessa se sono una donna. Ti pentirai di ciò che hai fatto fin quando avrai la sfortuna di esistere. Io ti odio.

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Capitolo 19
*** Senza tregua ***


La colonna avanzava a passo lento, con circospezione, in attesa dell’avvistamento dei nemici. Si era alzato un forte vento che batteva insistentemente, facendo ondeggiare ed increspare le vesti di quell’armata mista, umana e divina; sui volti degli uomini si leggeva la tensione causata dall’attesa, dalla perpetua imminenza del pericolo, che a lungo andare logora chiunque.

Freyr rendeva più vario, con lo scorrere del carro, il monotono rumore di calpestio del terreno causato da tutti gli altri. Tutti assieme, uomini e dèi sembravano un’unica, grandissima orchestra che eseguiva una sinfonia fatta di stivali, lame e sassi urtati durante la marcia. Odino, massimamente saggio e onnisciente, sapeva cosa stesse per succedere, ma nemmeno le divinità sono infallibili; anche la consapevolezza di ciò rendeva quel dio tanto saggio.

Thorgrim accarezzava la sua Göta, la stessa spada che aveva usato, solo pochi giorni prima, per tentare di uccidersi. Beato ferro… non riguardano te le preoccupazioni degli uomini; non ti preoccupano le carestie, le guerre, le sofferenze d’amore o i tormenti della malattia. Sei inanimato, insensibile, quindi invincibile, perché se anche venissi distrutto materialmente non lo potresti essere nell’animo, essendone privo. Condivise queste riflessioni con Thor, che camminava, al fianco di Sif, proprio dinanzi a lui. Il dio gli rispose che sì, aveva ragione dicendo che una spada non soffre come un uomo, ma che, oltre a questo, una spada non può gioire di nulla, mentre un uomo può farlo. Sif, sorridendo, si chiedeva come facesse il marito a sapere cosa provassero gli esseri umani, ma evitò di manifestare tale pensiero. In fondo, si disse, forse la sensibilità è qualcosa di trasversale, umano e divino, proprio degli esseri più intelligenti ed elevati; se fosse stato proprio così, un dio non avrebbe avuto problemi ad immedesimarsi in un uomo.

Le riflessioni di tutti vennero bruscamente interrotte dal suono greve del corno di una vedetta, che annunciava così l’avvistamento dei nemici. Le sagome dei giganti e dei nani, tanto sproporzionate tra loro, apparivano come un grottesco accostamento di colori non abbinabili tra loro; all’armonia del concerto umano-divino si opponeva la dissonanza di quelle creature, pure antropomorfe. Furono loro a caricare per prime, selvagge nei modi e nei pensieri. Un intenso fragore di ferri colmò l’altrimenti silenziosa distesa, mentre i primi caduti tingevano il suolo di sangue. Uomini e dèi, sia pure dotati di forza ben diversa tra loro, erano accomunati dal valore con cui combattevano; anche Thorgrim, ormai, aveva vinto quella paura che gli era costata la sfiducia dei suoi uomini prima, l’ammutinamento degli stessi dopo.

Lo scontro si perpetuò per un tempo imprecisato, mentre sia l’una che l’altra parte avvertivano il logoramento portato da quello sforzo prolungato. Alla fine i nani e giganti superstiti batterono in ritirata, sperando di potersi poi riorganizzare per un contrattacco.

Sul campo rimase, tra gli altri, un gigante che, ancora morente, fu avvicinato da Freyr e Thor.

- Hai qualcosa da dire, prima di essere inghiottito per sempre dall’oscurità? – gli chiese Freyr.

- Certamente. Voi forse avete vinto questo scontro, ma…

- Ma? – lo incalzò Thor.

- Miðgarðr non è solo l’Islanda. Non avrete pace:  ci rivedrete nella terra d’origine di questi uomini!

Mentre il gigante moriva con un sorriso malevolo stampato in volto, i due dèi si guardarono l’un l’altro, consapevoli che il prossimo scontro sarebbe avvenuto in Scandinavia.

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Capitolo 20
*** Nobildonne ***


Hel, si comprende da quanto già è stato detto, era una dea molto riservata. Le altre divinità non la odiavano né la amavano, ma provavano per lei una sorta di fascinoso timore: era come se ne fossero attratti e respinti al tempo stesso. I loro sentimenti verso di lei erano un misto di ammirazione, invidia e un pizzico di paura. Da quando Surtr era sceso a Niflheimr per discutere con lei della sua eventuale partecipazione al suo piano, la dea non aveva avuto quasi alcun contatto con altri individui di nessun genere. Durante questa lunga pausa aveva riflettuto molto a lungo su di sé e sul suo rapporto con gli altri mondi: era giunta esattamente alle stesse conclusioni cui era già pervenuta dialogando con Surtr, cioè che non lo avrebbe seguito nel suo folle attacco a uomini e divinità. Infine, constatando la volontà degli dèi di intervenire al fianco degli umani a Miðgarðr, aveva deciso di unirsi al gruppo, senza tuttavia dare troppo nell’occhio e senza mai schierarsi apertamente con esso. Voleva vedere cosa accadesse laggiù per pura curiosità, non per convinzione.

Aprire i miei orizzonti non potrà farmi male. Conoscere non potrà farmi male.
Dopo essere stata in Islanda con gli altri dèi, appena  saputo che si sarebbe aperto un nuovo fronte in Scandinavia non aveva perso tempo e aveva preceduto tutti gli altri, arrivando con leggero anticipo sugli stessi giganti in procinto di invadere quella terra. Ora vagava, travestita da mendicante, per una foresta di abeti in Norvegia.

Il Sole filtrava tra le fronde gettando bagliori irregolari sul sottobosco. Soffiava una lieve brezza che spandeva tutt’attorno un morbido profumo di muschio e funghi: se ne aveva un’impressione di pace e tranquillità, proprio come piaceva a Hel. La dea cercava con la vista un segno che l’informasse su dove si trovava; per alcuni minuti vagò senza punti di riferimento, poi finalmente apparve la fine di quella foresta. Usciva silenziosamente dalla selva, guardando ammirata la magnificenza del paesaggio montuoso, quando vide una donna sulla trentina d’anni con le mani e le gambe graffiate e un’aria piuttosto spaesata e afflitta. Non avendo idee migliori le si avvicinò, intenzionata a conoscere lo stato di quella persona.
- Chi sei, mendicante, che vuoi da me? – le chiese Jàrnsa.
- Sono una donna che ha vagato a lungo e senza meta. C’è nulla che io possa fare per te?
- A meno che tu non abbia poteri sovrumani e un gran cuore temo proprio di no, grazie.
Hel avrebbe sorriso, se ne fosse stata capace.
- A seconda della situazione potrei averli oppure no – disse.
Jàrnsa la guardò, perplessa.
- Che significa? – chiese.
- Sai dirmi perché non c’è nessuno oltre a te qui nei dintorni? – fece Hel.
- Ci hanno attaccato i giganti. Ne so quasi quanto te: sono appena riuscita a liberarmi, non so cosa sia successo nel frattempo, maledetto verme che hai norme Surtr, io ti…
- Surtr? Ho sentito bene?
- Sì, purtroppo. Quel… quello schifoso ha ucciso mio marito, il nobile Baldrir!
Scoppiò a piangere. Hel le si avvicinò e le carezzò i capelli con una mano.
- Lo sai, penso che per te potrei usare poteri sovraumani, Jàrnsa – le disse Hel.
La donna si voltò di scatto verso la mendicante, senza capire.
- Come conosci il mio nome? Che poteri puoi usare? Per che cosa?
Hel si tolse di dosso gli abiti stracciati da mendicante e si presentò con una tunica candida e i capelli neri sciolti. La sua figura si ergeva stagliandosi contro il disco solare, conferendosi un aspetto mistico e grandioso: pareva la personificazione dell’immensità.
- Sono Hel, regina di Helheimr. Conosco Surtr, conosco tuo marito Baldrir. Voglio aiutarti.
Jàrnsa la abbracciò con grande forza, fiduciosa di poter recuperare il marito dall’oltretomba.
- Riporterai indietro mio marito? Puoi farlo?
- Tuo marito sta benissimo, Jàrnsa. Surtr deve averti mentito per farti soffrire. Non tollererò che un bestione imbecille si prenda gioco di una nobildonna: ti aiuterò a fare avere a quel bellimbusto quanto si merita, non temere.
Jàrnsa le diede un bacio sulla guancia, piangendo ora di felicità per la lieta notizia.
- Grazie, non finirò mai di ringraziarti, Regina.
- Non preoccuparti. Se non ci si aiuta tra di noi!
Jàrnsa, annuendo, sorrise.

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Capitolo 21
*** L’abbraccio dell’Oceano infinito I ***


Le armate in Islanda avevano iniziato le operazioni per tornare in patria. Baldrir, ancora a capo delle forze sull’isola, aveva fatto pressione perché Thorgrim, appena rimessosi dalla lunga degenza, potesse al più presto tornare al comando, garantendo di nutrire la massima fiducia nei suoi confronti, cosicché la maggior parte degli uomini tornò a guardare il vecchio comandante in modo favorevole. In particolare, Baldrir faceva affidamento su Thorgrim per quanto riguardava il comando del drakkar che li aveva condotti in terra d’Islanda e che, da lì, li avrebbe a breve riportati indietro per combattere i nemici in casa. All’andata il comandante Haraldsson aveva saputo condurre la propria mansione in modo pressoché impeccabile e nessun altro nella spedizione aveva un’esperienza di navigazione paragonabile alla sua, Baldrir ne era ben conscio.

Le operazioni per il rimpatrio procedettero senza intoppi di rilievo e, soprattutto, senza che giungessero attacchi da parte di nani o giganti a disturbare il lavoro. Ciò preoccupò in parte Baldrir e Thorgrim, che temevano significasse che la maggior parte dei nemici si era già trasferita in Scandinavia, ma Odino li rassicurò prontamente, smentendo questo timore. Inoltre Freyr assicurò che si sarebbe servito del proprio verro dalle setole d’oro, Gullinbursti, per abbagliare con uno straordinario lampo di luce eventuali nani e giganti che si fossero avvicinati al sito ove era ormeggiato il drakkar.

Fu così che una sera, dopo circa due mesi dall’arrivo in Islanda, i superstiti dell’equipaggio del drakkar, nel frattempo ribattezzato Fjölnsviðr in onore di Odino, del quale questo era uno dei numerosi appellativi, salpò alla volta della Norvegia per respingere la minaccia incombente. Il Sole era quasi completamente sparito sotto l’orizzonte, lasciando dietro di sé solamente bagliori vivaci; le tenebre sembravano avvolgere la poca luce rimasta in una morsa silenziosa, come annunciando la propria temporanea superiorità in un conflitto che si ripeteva tutti i giorni. Il mare era calmo e il cielo sereno, anche se da lontano si vedeva incombere una perturbazione piuttosto estesa e minacciosa, che pareva dirigersi proprio verso l’imbarcazione. Thorgrim ordinava frattanto ai suoi di correggere la rotta basandosi sull’osservazione degli astri, usati come riferimento per la navigazione. La Stella Polare era sempre lì, immobile nel firmamento, splendida in mezzo a tante altre stelle; il condottiero si concesse un attimo per ammirare lo spettacolo, sostanzialmente identico ogni notte, eppure commovente ogni volta come se fosse la prima.
L’eternità… la vediamo tutte le notti, basta semplicemente alzare il capo e sognare.
La nave scivolava rapida tra le acque, immerse nel sonno della notte, che sembravano estendersi all’infinito in un mondo in cui Thorgrim e compagni erano le sole entità distinte da tutto il resto.
Dopo alcune ore di tranquilla navigazione il mare cominciò a incresparsi, mentre le nubi portavano la prima pioggia.
- Questa notte ci porta tempesta, comandante – disse Baldrir, che non aveva mai smesso di chiamare così Thorgrim.
- Sembra di sì. Dì agli uomini di prepararsi, non voglio che nessuno cada in mare: sarebbe infatti la sua fine, se il tempo dovesse peggiorare.
- Sarà fatto.
Effettivamente il tempo peggiorò: la pioggia cadde sempre più copiosa, mentre tuoni e lampi turbavano la tranquillità che aveva fino a poco prima contraddistinto quella notte. Le onde del mare si facevano più alte ed il drakkar oscillava con violenza, colpito da flutti veloci e forti. Presto la visibilità si fece scarsa, mentre Thorgrim andava avanti e indietro lungo il ponte, preoccupato che niente e nessuno, nave inclusa, subissero le conseguenze della burrasca; la cosa si rese sempre più difficile, poiché il ponte era diventato scivoloso e le continue oscillazioni rendevano l’equilibrio sempre più precario. Ma il peggio doveva ancora arrivare.

Fulmineo, inaspettato e spaventoso fuoriuscì dall’acqua un mostro marino tanto grande che lo si sarebbe potuto sicuramente vedere anche da molto lontano. Thorgrim conosceva abbastanza bene i racconti su quella creatura per sapere di cosa avere paura.
Il Miðgarðsormr! – gridò col terrore negli occhi. Quella volta non fu lui a portare il panico tra i suoi uomini: esso si diffuse da solo, contagiando chiunque su quell’imbarcazione si fosse reso conto di cosa lo aspettava. Il gigantesco serpente che si trovava ai confini di Miðgarðr era lì, davanti ai loro occhi, feroce nell’aspetto e, si temeva, anche nelle intenzioni. Sebbene anch’esso generato da Loki, al pari della dea Hel, ben diversamente da questa era qualcosa di selvaggio, spaventoso, orribile ed arcano. I racconti che lo riguardavano erano avvolti da un alone di mistero e di paura; molti marinai ne narravano le vicende, non di rado per esorcizzare il timore da cui erano pervasi ogni volta che si imbarcavano e si abbandonavano al cullare delle onde. Si diceva che chi avesse osato avventurarsi fino ai confini del mondo sarebbe stato ingoiato dalla spaventosa creatura; si raccontava che alcuni impavidi avessero sfidato queste credenze e non fossero mai più tornati indietro. Ancora, alcuni avanzavano improbabili teorie sulla sorte che spettasse agli sfortunati che si imbattevano in esso; c’era anche chi sosteneva che il serpente fosse così grande proprio in virtù dei malcapitati di cui si era cibato da quando esisteva Miðgarðr.

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Capitolo 22
*** L’abbraccio dell’Oceano infinito II ***


In quel momento Thorgrim e i suoi uomini, appena vista la creatura, ebbero come una visione nella quale si mescolavano tutti questi racconti, sovrapponendosi talora in ibridi ancora più spaventosi. Tutti si armarono prontamente, sebbene nessuno sentisse che sarebbe sopravvissuto a quel mostro, che si stava intanto avvicinando al drakkar. Thorgrim si appellò allora al dio Thor, lo stesso che gli aveva fatto visita durante la sua degenza nella tenda dei feriti in Islanda.
Fortissimo Thor, fa’ che il tuo possente Mjöllnir ci difenda dalla brutalità di questo essere che, se rimaniamo soli, non può concederci possibilità di sopravvivenza alcuna. Aiutaci, aiutaci per la salvezza di Miðgarðr, di Ásgarðr e dell’Universo intero.


La spaventosa creatura arrivò a pochi piedi dall’imbarcazione, provocando forti onde con il proprio movimento rapido e violento. Il drakkar, scosso con veemenza anche lungo la direzione trasversale, rischiò di ribaltarsi. Thorgrim conosceva a sufficienza il mare per sapere che, con onde simili, sarebbe bastato poco perché avvenisse la sciagura. Il mostro, tuttavia, non si fermò. La sua orribile testa si abbatté come una frana sul ponte a prua, causando una voragine nel legno che lo componeva. Due marinai rischiarono di essere travolti dal mostro e si salvarono solo perché scivolarono accidentalmente, sul legno bagnato dalla violenta pioggia e dalla mareggiata, nella voragine appena formata, prima che il serpente potesse prenderli nelle proprie fauci. Due arcieri colpirono con delle frecce infuocate il corpo della creatura che, con un ruggito di dolore, si immerse per un poco sott’acqua per spegnere l’incendio delle proprie carni e trovare sollievo; questo concesse a diversi uomini il tempo per trovare ripari più appropriati di quelli, improvvisati, che avevano potuto accaparrarsi prima. Tuttavia la tregua durò poco e il mostro riemerse, ancora più inferocito, strappando un altro pezzo della prua e provocando anche uno squarcio nello scafo, che gli uomini cercarono al più presto di riparare dall’interno con quel poco che avevano a disposizione. Baldrir, barricato sottocoperta, era rassegnato.

Non possiamo farcela. È uno scontro impari. Siamo finiti.
Anche Thorgrim ne era ben consapevole. La sua unica speranza era rappresentata dall’aiuto divino, che infine arrivò.

Dapprima nessuno ci fece caso, nel trambusto di quella situazione, ma a poco a poco si fecero sempre più nitide, nonostante l’oscurità e la pioggia ancora imperanti, le sagome di alcune navi; Thorgrim fu il primo a vederle. Inizialmente credette di stare sognando, che quelli che vedeva fossero solo miraggi, allucinazioni, ma poi si accorse che decine di drakkar, simili a quello su cui si trovava, stavano volgendo verso di lui. Sul più vicino, in posizione prominente, tenendosi con un braccio alla testa di drago scolpita sulla prua dell’imbarcazione, afferrando con l’altro un grosso martello, stava Thor, magnifico nella propria armatura, resa lucente dalla pioggia e dalle onde che la bagnavano di continuo. Sulle altre navi, che si avvicinarono a poco a poco, stavano gli altri dèi; tra di essi svettava Odino, che seguiva il figlio a breve distanza.

Il drakkar guidato da Thor puntò verso il mostro, che aveva ormai devastato la parte di prua del ponte della nave di Thorgrim e compagni. Il dio si teneva sempre aggrappato alla testa di drago: l’immagine che se ne aveva era di forza e valore incredibili. Thorgrim riprese dunque fiducia, confidando nelle doti belliche della divinità da lui invocata. Il Miðgarðsormr sembrò essere stato attirato da questa flotta spuntata dal nulla: trascurò la nave su cui aveva infierito fino a quel momento e si lanciò con forza contro Thor. Thorgrim non poté fare a meno di domandarsi se il mostro sapesse con chi stava per avere a che fare.

Il dio, senza mai smettere di osservare lo spaventoso nemico venuto dal mare, faceva roteare il suo Mjöllnir, in segno di sfida. Quando il mostro arrivò a una distanza sufficiente Thor vibrò il colpo, che si scaricò con incredibile violenza sopra ad alcuni denti del serpente, al punto che questi si troncarono di netto. La creatura si contrasse in una smorfia di dolore, mentre il dio si preparava a riattaccare. Il colpo seguente fece ondeggiare vistosamente il drakkar del dio, mentre gli uomini asserragliati nel Fjölnsviðr osservavano il combattimento, tifando a gran voce per la divinità. Thor fu colpito solo due volte, procurandosi profonde ferite sulle braccia e su un fianco. Il suo volto lasciava trasparire solo in minima parte il dolore che il mostro gli aveva causato: tante erano la determinazione del dio e la sua resistenza allo sforzo e alla sofferenza. Ma la sorpresa più grande venne da alcuni degli altri drakkar, su cui fino a quel momento pochi esseri umani si erano concentrati: nessuno lo comprese finché a spiegarlo non fu lo stesso Odino, ma su di essi si trovavano gli einherjar, i guerrieri caduti in battaglia che, da tempo immemore, alimentavano le fila del dio e che ogni giorno si esercitavano al combattimento nel Valhalla, in vista della battaglia finale. Non erano presenti tutti, ma erano in numero sufficiente a dare un senso di inferiorità anche al nemico più formidabile. Alla fine il Miðgarðsormr, bersagliato dalle frecce di umani ed einherjar e massacrato dai colpi di Thor, si ritirò nel mare da cui era spuntato, permettendo che, finalmente, si ristabilisse la quiete.

Gli dèi scortarono per il resto del viaggio il drakkar Fjölnsviðr e aiutarono gli uomini, colmi di gratitudine, a riparare i danni che esso aveva subito. La tempesta cessò e le nubi iniziarono a diradarsi, mentre i primi bagliori del giorno che stava venendo abbracciavano con dolcezza la maestosità senza tempo dell’Oceano infinito.

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Capitolo 23
*** L'attesa ha un termine ***


La dea Hel e l’umana Jàrnsa non si erano mai incontrate prima. Hel conosceva il marito di Jàrnsa, Baldrir, soltanto di vista, ma nonostante ciò aveva avuto modo di sentire l’uomo parlare con affetto della moglie che aveva lasciato a casa e che avrebbe voluto riabbracciare quanto prima, ed era certa che questa ricambiasse appieno i sentimenti del marito.
Basta guardarla negli occhi: questa è sicuramente una persona dotata di grande sensibilità.
La divinità aveva prontamente aiutato l’umana a riparare il danno provocato in casa sua da Surtr e dalla detenzione che questo le aveva imposto. Subito dopo, la coppia umana-divina aveva compiuto un giro di perlustrazione per rendersi conto di quale fosse la situazione: la maggior parte del villaggio non era stata danneggiata ma alcuni abitanti erano scappati, altri stavano ancora chiusi in casa, temendo un ritorno dei giganti, che sembravano nel frattempo essersi defilati, forse per riorganizzarsi altrove e lanciare così un contrattacco. Regnava tutt’attorno un’atmosfera irreale, conferita dalla quasi totale mancanza di transito sulle strade. Alcuni contadini avevano lasciato gli attrezzi del proprio lavoro lungo la strada; animali da cortile si rincorrevano liberamente lungo i sentieri che fino a un giorno prima erano percorsi dagli abitanti, carri carichi di fieno disposti trasversalmente sbarravano il passaggio; molti ancora erano i segni di tante occupazioni lasciate a metà. I guerrieri che si erano prontamente attivati per respingere l’orda nemica non erano quasi mai stati attaccati: i giganti avevano compiuto numerose azioni di disturbo, evidentemente con lo scopo di disorganizzare le truppe piuttosto che di combatterle direttamente. Regnava in effetti il caos: le difficoltà di comunicazione in tali circostanze erano sotto gli occhi di tutti.

La sorpresa e la paura per l’attacco non durarono tuttavia per molto tempo ancora: la gente doveva lavorare per darsi di che vivere e, alla fine, una certa normalità fu ristabilita dalla gente stessa. Ritrovando un poco di fiducia nella situazione, Jàrnsa e Hel si diressero al porto da cui erano salpati gli uomini alla volta dell’Islanda e presso il quale avrebbero dovuto fare ritorno. Hel aveva garantito a Jàrnsa che Baldrir e gli altri avevano deciso di tornare e, salvo gravi imprevisti, non ci sarebbero volute più di due settimane perché facessero il proprio ritorno. Da allora Jàrnsa passò ore e ore a scrutare l’orizzonte in attesa della sagoma del drakkar del marito. Ogni tanto Hel le teneva compagnia, sedendosi al suo fianco, senza quasi mai dire nulla. Riteneva che, in certi frangenti, più che dire tante parole importasse mostrare la propria partecipazione allo stato d’animo altrui con una presenza anche fisica. Quando non accompagnava Jàrnsa, la dea compiva delle perlustrazioni silenziose, travestita da mendicante, per rendersi conto personalmente di come evolvesse la situazione. Aveva appurato che diversi giganti di Jötunheimr, gli jotnar, alle dipendenze di re Þrymr, si erano accampati a circa una trentina di mil di distanza, in attesa dei rinforzi da parte di Surtr e dei suoi fratelli, i Múspellsmegir. Pareva che, durante tale attesa, non avessero nulla di meglio da fare che darsi agli ozi e agli eccessi, non perdendo occasione di manifestare una volgarità inaudita. Hel si era affrettata a riferire quanto visto alle truppe che difendevano il villaggio di Jàrnsa, che non persero l’occasione per motivare con successo la popolazione, facendo leva sul ben diverso approccio alla vita di quest’ultima rispetto ai giganti.
Questa continua alternanza di ricognizioni presso l’accampamento nemico e di compagnia a Jàrnsa continuarono, per Hel, fin quando finalmente non arrivò quanto tutti aspettavano.

Quel giorno Jàrnsa si era svegliata presto, poco prima dell’alba, per dirigersi al porto. Sentiva che era la volta buona: aveva invocato gli dèi perché la sua sofferta attesa finisse.
L’attesa è una micidiale forma di sofferenza. Non è violenta come un pugno né come un colpo di spada: è più subdola, molto più sottile. Si trascina per un tempo che pare non avere fine, è una tortura lenta e logorante. L’animo è lacerato dallo stridente contrasto tra ciò che si aspetta e la realtà del presente, in cui l’oggetto dell’attesa manca. A tratti sembra che il proprio desiderio verrà appagato quasi all’istante, altre volte si perde la speranza di riuscirci e si guarda con malinconia a quel vuoto che si ostina a perdurare, afflitti dalla propria impotenza, consci di non essere veramente artefici della propria fortuna.
Così pensava Jàrnsa, che pure non aveva smesso un attimo di aspettare, dal momento in cui, ormai numerosi giorni prima, la sagoma della nave su cui viaggiava il marito era scomparsa all’orizzonte, perdendosi nella sconcertante grandezza del mare. Si rendeva conto che non avere nulla da aspettare significasse non avere nulla per cui soffrire, ma capiva altrettanto bene che non avere nulla per cui soffrire volesse dire essere entità puramente materiali, come le piante o le rocce; un animo sensibile come il suo era ben lungi dal poter esistere senza nulla o nessuno per cui, all’occorrenza, soffrire.

Hel non sapeva di questa riflessione di Jàrnsa, tuttavia fu come se gliel’avesse letta negli occhi quando, quella mattina, la vide uscire. Si sentiva un po’ strana a pensarci, ma la verità è che era diventata amica di una mortale: mortale come le anime di cui ella era regina a Helheimr. La seguì a breve distanza, senza mostrarsi: non voleva disturbarla, a quell’ora. Entrambe giunsero al porto presso cui erano state tante volte; ci volle poco perché Jàrnsa notasse quella sagoma scura all’orizzonte, seguita poi da tante altre simili, i drakkar degli einherjar di Odino, di cui ancora non poteva sapere nulla. Non era certa che su una di quelle navi ci fosse Baldrir, ma subito il suo cuore batté più forte.

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Capitolo 24
*** Ricongiungimento ***


Jàrnsa ed Hel, che nel frattempo era corsa ad abbracciare l’umana colma di gioia, attesero che la maestosa flotta di drakkar compisse il proprio ingresso all’imbocco del fiordo. Molta gente abbandonò le proprie occupazioni per correre a salutare i nuovi venuti; tutti rimasero colpiti dal numero elevatissimo delle navi e dei rispettivi passeggeri. Nessuno si era accorto che su quei drakkar fossero presenti soprattutto dèi ed einherjar! Ci si domandava, in effetti, come fosse possibile che, partita una sola imbarcazione per l’Islanda, ve ne fossero così tante di ritorno, per di più cariche di passeggeri, ma la meraviglia del momento mise a freno questi interrogativi. Subito il locale comandante delle truppe si recò al porto per accogliere i rinforzi appena arrivati mentre la folla, festante, si rallegrava per l’arrivo di un aiuto così consistente che avrebbe contribuito alla lotta contro i giganti, ne erano sicuri. Tutti ritrovarono ottimismo e speranza alla sola vista di quelle navi.

C’era grande trambusto sulle banchine, quel giorno: civili e truppe si erano precipitati per assistere a quell’evento e per dare l’accoglienza migliore che potessero a quelli che già consideravano eroi della patria ancor prima di averli visti scendere. Hel scortò Jàrnsa, aiutandola a farsi strada tra la folla, perché potesse riabbracciare quanto prima il marito Baldrir. Non fu loro facile, in effetti, arrivare sul luogo dell’approdo, e diversi furono gli spintoni che fu necessario assestare a coloro che erano troppo pigri o troppo poco riguardosi per spostarsi, anche dopo una gentile richiesta verbale. Infine Jàrnsa incrociò da lontano, in un attimo che non avrebbe di sicuro dimenticato per molto tempo a venire, lo sguardo del marito, che si apprestava a scendere dall’imbarcazione. Si domandò quali e quante stragi quei cari occhi avessero visto; subito si promise di evitare di parlarne con Baldrir. Meglio, piuttosto, dargli semplicemente l’affetto che gli era mancato per tanto tempo e che anch’ella non vedeva l’ora di rendergli, si disse.

Anche se alla donna parve che ciò avesse richiesto un’eternità, in poco tempo Baldrir, facendosi largo tra i compagni e le numerose persone che, festanti, acclamavano lui e gli altri a gran voce, riuscì a raggiungerla; non disse nulla fino ad allora. Procedeva, deciso, guardandola dritto negli occhi, come se volesse che la sua attenzione non fosse attirata, anche solo accidentalmente, da nulla e nessuno che non fosse lei. Arrivato dinanzi a lei le diede un lungo e appassionato bacio, stringendola con le mani ancora graffiate dalle numerose battaglie che avevano combattuto. Gli sfuggirono, come sfuggirono a Jàrnsa, lacrime di commozione, che sia l’uno che l’altra avevano temuto di non poter mai più piangere. La donna chiuse gli occhi, sentendo il ventre del marito ondeggiare a ogni respiro, come amava fare ogni volta che si abbracciavano; infine i due sciolsero l’abbraccio, sorridendosi felici. Hel li guardava a breve distanza, sentendo qualcosa di piacevole dentro di sé, che non avrebbe tuttavia saputo descrivere.
- Su quella neve dovevi esserci tu! – disse semplicemente Jàrnsa al marito, piangendo ancora.

Thorgrim Haraldsson, appena sceso dal drakkar Fjölnsviðr, si guardava attorno spaesato. Non si aspettava un’accoglienza del genere, dato che alla partenza poche erano le persone presenti sul molo per salutare la spedizione; a lui che, per di più, era un introverso di natura, l’essere acclamato come un eroe procurava un certo imbarazzo, compensato solo in parte dalla gratificazione che quel trattamento gli garantiva. Lo faceva sentire strano l’idea che, normalmente, la gente lo tenesse limitatamente in conto o che, quantomeno, lo trattasse come chiunque altro, mentre in quel momento, per come lo guardavano, avrebbe potuto benissimo essere un re. Nonostante le sue perplessità cercò di comportarsi nel modo che riteneva più opportuno alla situazione, salutando, tra molti sorrisi, la folla accorsa anche per lui. Quest’ultima non aveva saputo nulla dell’ammutinamento che a Thorgrim era toccato in Islanda, così si era sparsa la voce che egli fosse ancora il comandante della spedizione e, naturalmente, questo gli garantiva la maggior parte delle attenzioni della folla. Baldrir non vi badò: in quel momento pensava solamente a Jàrnsa. Al contrario Thorgrim, rendendosi conto di questo fatto, che un poco lo inquietava, cercò di parlarne con Baldrir, usando la dovuta discrezione. Felice per l’amico, attese che questo si allontanasse un attimo dalla moglie, che salutò gentilmente, e gli parlò.
- Baldrir… questa gente mi ritiene ancora il comandante. Dovrebbe toccare a te, mi dispiace…
- Non c’è nulla di cui dobbiate dispiacervi, comandante. Anzi, vista la professionalità che avete dimostrato sulla nave e viste le vostre ormai migliorate condizioni di salute, vi rinomino ufficialmente comandante!
Thorgrim si allontanò un poco da lui, guardandolo fisso, come per metterlo meglio a fuoco; non se lo aspettava, ma non gli nascose la propria felicità.
- Grazie, Baldrir. Sapere di poter contare su qualcuno come te è quanto di meglio si possa chiedere a un amico. Sarai sempre trattato con il riguardo che meriti!
Gli sorrise, lasciandolo di nuovo in compagnia della moglie. Osservò, felice, i suoi compagni venire accolti. Vide, tra gli altri, Erik Magnusson e lo stesso Sweyn Sigurdsson, verso il quale non nutriva più nessun rancore per il fatto che fosse stato il fomentatore dell’ammutinamento. Non era il momento per serbare rancore, era solo quello di essere felici!

Mentre si dirigeva dal capo delle truppe di stanza nella regione, accorso apposta sul luogo, il comandante Haraldsson notò una mendicante che, forse solo per l’eccitazione del momento, gli parve bellissima, anche sotto degli abiti laceri. Lei lo riconobbe.

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Capitolo 25
*** -- PARTE SECONDA -- ***


Parte seconda

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Capitolo 26
*** Foresta incantata ***


La foresta si ergeva in tutta la propria indomita bellezza, meravigliosa, immersa nell'abbraccio tenero e silente della natura. La vegetazione si stendeva sul suolo come a volerlo proteggere, madre amorevole; il ritmico ondeggiare delle fronde era accompagnato dal solo canto degli uccelli fino a comporvi una musica leggera, al cui fascino era impossibile restare indifferenti. Era la musica della vita, che si insinuava inarrestabilmente ovunque le fosse possibile; lo stesso vento che soffiava ne sembrava pervaso.
Ceallach correva, correva forte, inguaribilmente affamato di bellezza: non gli bastava mai, per lui non esisteva il momento di fermarsi. Era velocissimo ma elegante nella propria agilità, a tratti perfino maestoso. In parte ne era consapevole, certo, e tale consapevolezza lo rendeva felice, orgoglioso di contribuire, a modo proprio, alla diffusione della bellezza ovunque gli capitasse di andare. Ecco apparire ora un maestoso albero secolare, testimone immobile di chissà quante vicende, ora un piccolo ma grazioso fiore nel bel mezzo della macchia, ora un fresco ruscello cui si abbeveravano gli animali del bosco: la bellezza era ovunque, compariva a poco a poco nello sguardo di Ceallach mentre questi correva, ma chissà quanta ancora ne restava da scoprire! No, non si poteva proprio esser lenti: così tanta bellezza costituiva un tale nutrimento per il cuore che temporeggiare sarebbe stato un delitto, avrebbe significato rinunciare a... vivere.
Corse e corse, senza curarsi del tempo che passava, delle direzioni che prendeva o di quelle che trascurava, perché l'importante era correre, non vi erano altre priorità. Alla fine stabilì tuttavia di aver appagato la propria sete di bellezza, almeno per un poco: qualcuno lo attendeva, era giusto tornare.
Pur senza sapere con precisione dove fosse, come al solito riuscì a ritrovare Damhnait; quando la raggiunse lei lo abbracciò, lo baciò sulla guancia e gli tirò uno schiaffo, al quale Ceallach reagì divertito. Lui le raccontò quante e quali bellezze aveva potuto vedere; lo fece perché condividerne il racconto con lei lo rendeva ancora più felice di averle viste. Damhnait aveva il potere di amplificare la sua felicità, d'elevarla all'ennesima potenza, ed egli ne era perfettamente consapevole: si chiedeva in che modo avrebbe potuto fare a meno di lei. No, non poteva neanche immaginarsi il mondo senza di lei: per quanto ancora bellissimo, avrebbe perso troppo significato per meritare di viverci ancora. Assetato di bellezza com'era, Damhnait costituiva un tale elemento di pace interiore da rappresentare per lui una divinità... la più importante in assoluto.
Erano fatti così, la vita per loro era un gioco in cui si poteva soltanto vincere. Si nutrivano di bellezza e potevano permettersi di sostentarsene: il loro mondo era troppo vicino alla perfezione per richieder loro di desiderare altro.
Ceallach la prese per mano e la guardò negli occhi, sorridendo. Lei ricambiò, con sguardo espressivo, poi assieme, mantenendo la presa, ricominciarono a correre tra gli alberi.

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Capitolo 27
*** Il villaggio ***


Il villaggio di Fairórga sorgeva proprio laddove la Valle cambiava improvvisamente direzione, restringendosi ed elevandosi fino ai monti più impervi. Gli edifici venivano lambiti dall'ancora timida luce solare fin dal mattino, per poi cedere a poco a poco il passo all'ombra durante il pomeriggio; il torrente Ghormuisce donava le proprie acque scintillanti ai pacifici abitanti del piccolo centro e assicurava l'approvvigionamento idrico all'intera Valle. Gli edifici erano concentrati perlopiù attorno al Monumento, ma alcuni si ergevano, solitari, lungo tutto il corso del torrente, talvolta anche presso le cime.
Ceallach e Damhnait arrivarono nel tardo pomeriggio, alle soglie del vespro, quando ormai a testimoniare la vita del villaggio ai viandanti in arrivo non rimanevano che gli ultimi chiarori del sole, sufficienti solo per occhi acuti come quelli elfici. Il Gran Capo era lì, alle porte di Fairórga: la sua sagoma si stagliava sul chiarore della pietra che costituiva il basamento del Palazzo. Ceallach affrettò il passo verso il padre, presto seguito da Damhnait; ne temeva l'ira, ma affrettarsi non gli sarebbe comunque bastato ad evitarla.
- Signore, sono onorata... - cominciò Damhnait. Il Gran Capo non la guardò neppure.
- Ceallach... sono ore che ti aspetto. Dove sei stato? Forse non ti ricordi di quante incombenze ci siano qui? Fin qua giunge la tua incuria?
Ceallach, piuttosto imbarazzato, evitò lo sguardo di Damhnait.
- Perdonatemi, padre, mi trovavo nella foresta e non ho potuto evitare di perdermi nella contemplazione della natura.
- Tutti noi amiamo la foresta, Ceallach, essa è per noi fonte di benessere e di vita; ciononostante non ci si può astenere dal dovere. Ora rifletti su questo e non costringermi a ripetertelo in futuro. Non sei più un infante.
- Avete pienamente ragione. Non accadrà più.
- Lo spero.
Ceallach accompagnò Damhnait a casa; durante il tragitto non disse nulla, imbarazzato per le parole del padre, né lei lo fece. Gli tenne però la mano, come per ringraziarlo tacitamente di aver subito quel richiamo sì per le lunghe corse nei boschi, ma anche per essere stato in compagnia di lei.
I due erano nati e sempre vissuti a Fairórga, eppure ogni volta che ne percorrevano le vie osservavano la forma e la vita di quel luogo come fosse la prima volta che vi si trovavano. Le case erano piccole ma confortevoli, plasmate nei secoli dal lavoro e dal grande senso estetico degli abitanti, abituati fin dall'infanzia a vivere nella bellezza più semplice e più autentica; gli orticelli separavano gli edifici tra loro, i pascoli per gli animali ne esaltavano i colori con tantissimi fiori e gli alberi, il cielo e le montagne creavano uno spettacolo cromatico che veniva recitato ogni giorno, non appena giungeva l'alba, fino a che il disco solare scompariva dietro la sagoma imponente dei monti.
Ceallach ne era profondamente convinto, non esisteva posto più bello per vivere in tutto l'Universo.

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