Omnia Vicit Amor!

di esmeralda92
(/viewuser.php?uid=71176)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parigi 23 Luglio 1482: Incontri. ***
Capitolo 2: *** Parigi 24-25 Luglio 1482: Lei dov'è? ***
Capitolo 3: *** Scuse e Perdono ***
Capitolo 4: *** Sorprese e Scelte ***
Capitolo 5: *** miO fEBo ***



Capitolo 1
*** Parigi 23 Luglio 1482: Incontri. ***


Claude Frollo

La notte era fredda e ormai si intravedevano le primi luci dell’alba. Erano di un rosato tenue, confuse con il color oro arancio del Sole che ormai si avviava a sorgere su uno sfondo che andava dall’azzurro celeste al nero profondo della notte. Ormai mancava poco al momento in cui tutti avrebbero saputo che la zingara era fuggita, non si trovava più nella cattedrale, era sparita. Come per magia. Quella stessa magia di cui era stata accusata per aver ferito il capitano Febo di Chateaupers. E quella stessa magia, molto più gentile e forte che aveva portato l’Arcidiacono Claude Frollo lontano dal suo Re e Signore, Dio.
Tornava dal Buco dei Topi, dove aveva lasciato la bella gitana in compagnia della reclusa Gudule, dopo che la prima aveva preferito la forca a lui. Un pezzo di legno che non le avrebbe dato alcuna gioia. Anzi, avrebbe soltanto riso quando quell’esile quanto bello corpo di fanciulla avrebbe danzato per l’ultima volta per lei e per tutta quella plebaglia troppo ignorante per capire che quella dolce fanciulla era una vittima innocente, non dell’uomo, ma della vita e della fatalità con la corda al collo sospesa tra terra e cielo, tra vita e morte, tra Inferno e Paradiso.
A quei pensieri che gli si agitavano fortemente nel petto, tanto da far scuotere ogni angolo più recondito del suo cuore e del suo spirito, Claude Frollo si fermò nel vicolo in cui camminava da un po’ senza meta alcuna e si sedette sui gradini di una casa. Si guardò indietro e si accorse di non aver fatto poi molta strada dalla Place de Grève, dove immaginava che a ogni secondo di più si delineassero i contorni scuri della forca, del patibolo che con tanto ardore la giovane aveva preferito a lui. In un improvviso moto di rabbia, l’Arcidiacono pensò di andare dal Capitano delle guardie, l’amato Febo che da lui era stato ferito senza che mai lo sapesse, e rivelargli dove si trovava la zingara. Si alzò come per far diventare realtà quel pensiero, ma qualcosa lo fermò: l’amore incondizionato e infinito, ne era certo, che sentiva nei confronti della Esmeralda. Quella ragazzina che aveva guardato con disprezzo, insultandolo, chiamandolo “Assassino”, ferendolo più di quanto un uomo potesse essere ferito dalla donna che ama. Non aveva mosso un muscolo quando le aveva confessato ripetutamente l’amore che provava per lei; i suoi occhi erano rimasti aridi quando l’aveva visto piangere per lei; lo aveva guardato con indifferenza, con odio, per aver ferito Febo. Eppure, anche se lei ormai sapeva che il suo amato capitano era vivo, aveva continuato a chiamarlo assassino. Ogni spiegazione che aveva cercato di fornirle, non era valsa a niente. Lei lo odiava e così avrebbe fatto per tutta la vita, breve o lunga che fosse.
Ripensò al suo viso, ai suoi capelli ricci, neri, ai suoi occhi che coprivano le sfumature dal miele all’ambrato al nocciola; a quel corpo sinuoso che lei muoveva con grazia e sensualità ogni volta che danzava. Si era dannato nell’istante in cui aveva visto il corpo di lei. Sentì la propria anima bruciare, il corpo andare a fuoco e tremare di scosse violenti. Bruciava, si consumava ogni giorno, ogni ora, ogni minto, ogni secondo, ogni istante di più per quella fanciulla, e nonostante lei lo odiasse, lui continuava ad amarla, anzi.. sembrava che più lei lo odiasse, più il suo amore per lei aumentasse.
L’avrebbe amata per tutta la vita, si sarebbe dannato per l’eternità, sarebbe bruciato tra le fiamme dell’Inferno per lei. Anche all’istante. Come poteva affermare di amarla, se poi la consegnava alle guardie? Se la faceva condannare dopo averla salvata solo perché lei lo aveva rifiutato. Si era tolto da quel vicolo e stava camminando avvolto nella scura veste da prete diretto al Palazzo di Giustizia, quando quel pensiero gli balenò in mente. Si strinse nel mantello per il freddo, si voltò e si diresse verso la Place de Grève a passi lunghi e veloci. Doveva sbrigarsi se voleva che la ragazzina attraversasse la piazza senza essere vista, cosa che iniziava a diventare molto improbabile con il Sole che si innalzava sempre più e gli abitanti di Parigi che si svegliavano. Claude tornò al Buco dei Topi e chiamò la reclusa.
- Gudule… Gudule!- ripeté più volte a bassa voce.
-Chi siete?- domandò la donna dalla perpetua ombra della sua cella.
-Sono colui che vi ha portato la zingara!- lei si avvicinò.
-Voi mi avete portato non una zingara, ma mia figlia! Siate benedetto, signore.- l’Arcidiacono, che benedetto non si sentiva proprio e che aveva ben altri progetti che far conversazione con la reclusa, non perse tempo, non sapendo inoltre come rispondere a una frase del genere, visiti i pochi rapporti umani che aveva avuto durante la sua vita, se non con uomini colti e sapienti.
-Ho bisogno che mi riconsegnate la fanciulla. Devo portarla dagli zingari prima che sia troppo tardi e che venga vista attraversare la piazza e impiccata.-
-Non privatemi della mia bambina, signore, non ora che l’ho ritrovata dopo quindici lunghi anni..- fece pregandolo.
-È l’unico modo per evitare che venga trovata.-
-Io non me ne vado senza mia madre. E poi.. Non vi voglio. Io appartengo solo a Febo. – disse in tono duro Esmeralda guardandolo a testa alta. Lui cercò di ignorare la fitta di dolore che aveva colpito il suo cuore e che lo aveva fatto sanguinare. Non avrebbe mai potuto averla, mai avrebbe potuto amarla come neanche il capitano poteva pensare si potesse amare una persona, la propria amata.
-Peccato che l’unica persona disposta ad aiutarvi ora sia IO e non il vostro bel capitano.- ribatté con altrettanta durezza, come per sottolineare il concetto.
-Dove ci volete portare?- chiese la donna che non aveva compreso il motivo della durezza nella melodiosa voce della figlia.
-Nel posto in cui vostra figlia è cresciuta. È l’unico posto dove sarete al sicuro. Dopo l’assedio di Notre Dame della notte appena trascorsa, non posso garantirvi sicurezza e protezione all’interno delle mura della cattedrale, giacché il diritto di asilo è stato infranto dai ministri del Re. - parlò così e guardò le due donne, e poi volse lo sguardo verso il cielo. –Sarà bene che prendiate in fretta una decisione. Se restare qui e temere, o seguirmi e ritrovare la Libertà.- disse tenendo lo sguardo fisso su Esmeralda, mentre pronunciava queste ultime parole. Le due donne si guardarono e annuirono.
-Vi seguiremo- affermò alla fine la donna più anziana.
Claude annuì. E aiutò a passare le due donne attraverso il buco neanche un’oretta prima, la madre aveva aperto per far entrare la figlia.
Quando le due donne tornarono alla luce del sole, sorrisero. Poi Esmeralda senza che dicesse niente, iniziò a camminare davanti ai due, guidandoli.
L’arcidiacono la seguì. D’altronde, lui non sapeva dove si trovasse con precisione. La seguì, senza mai distogliere lo sguardo da quella figura che possedeva una grazia e una bellezza incredibile e indicibile, anche se portava ancora i segni della prigionia, nonostante il suo soggiorno a Notre Dame. Allora gli era sembrata un fantasma. Ora aveva ripreso un po’ di forze grazie al cibo e alle attenzioni che lui tramite il gobbo e Quasimodo stesso si erano premurati di darle.
Camminava sicura, con passo veloce e aggraziato sul selciato freddo di Parigi, quasi stesse danzando, e non stesse fuggendo dalle guardie che molto probabilmente non avendola trovata nella cattedrale, quei pagani profanatori della Casa del Signore!, si sarebbero subito messi alla sua ricerca.
Lei questo probabilmente lo ignorava, o forse non se ne dava pensiero per la sua ingenuità. Sta di fatto che quella zingara, correndo, danzando stava guidando se stessa, la madre appena ritrovata, a dire della donna, e l’anima dell’Arcidiacono verso la salvezza.
Sì, anche l’anima di lui, perché, nonostante sapesse che non avrebbe mai potuto possederla o amarla, saperla viva avrebbe fatto nutrire in lui la speranza che un giorno, dimentica sia di ciò che lui aveva fatto al capitano, sia dell’amore provato per quel bel giovane che l’aveva aggirata, illusa solo per il proprio piacere, avrebbe potuto amarlo. Allora tutti i tormenti che fino ad allora avevano scosso il cuore dell’Arcidiacono, sarebbero svaniti per sempre, lasciando posto alla felicità e all’amore per lei.
Pensava a questo quando la bella gitana si fermò. Lui si fermò a sua volta a debita distanza.
-Cosa succede?- chiese egli guardandola.
-Non potete seguirci. Siamo alle porte di Parigi, qui inizia la Corte. Non è consigliato agli stranieri entrare.- disse rimarcando il termine stranieri con una nota di disprezzo nei suoi confronti. –Sempre che voi teniate alla vostra pelle.- aggiunse poi. Lui annuì.
-Sarà meglio per voi non farvi più vedere a Parigi. Almeno il tempo necessario perché tutta questa vicenda. Madonna, conto sul vostro buonsenso.- disse poi rivolto alla madre. La donna annuì. Lui rivolse alla fanciulla un ultimo sguardo e quello che ottenne in cambio fu uno sguardo colmo d’ira nei suoi confronti. Le labbra serrate e il capo chino mentre gli occhi erano fissi nei suoi e lo guardavano con odio. L’uomo di Dio dovette fare una fatica immensa per ricambiare lo sguardo. Non tanto per il timore di ferirla, visto che lei non sembrava assolutamente curarsi dei suoi sentimenti. Piuttosto per il fatto che quegli sguardi colmi d’astio, quel tono duro e colmo di disprezzo che la giovane usava sempre quando gli rivolgeva la parola, lo feriva, vedendosi allontanare sempre più la già flebile speranza che la gitana potesse amarlo.
Distolse lo sguardo dopo pochi istanti e si rivolse alla madre di Esmeralda.
-Che il cielo vi assista, Madonna. Pregherò per le vostre anime.- le disse con cortesia.
-Che il cielo assista anche voi, monsignore. Dio le renderà grazia per averci salvate.- rispose lei sinceramente riconoscente. L’uomo chinò il capo e tornò sui suoi passi, senza mai voltarsi indietro.  Quando arrivò nei pressi della piazza principale, la aggirò ripercorrendo la strada che quella stessa notte, poche ore prima, aveva percorso tenendo per mano la zingara. Quella dolce piccola e morbida mano che aveva accettato senza protestare la sua, che l’aveva stretta per paura di essere lasciata indietro ed essere portata a morire. Quella stessa strada che lui aveva percorso trascinandola senza opposizione da parte di lei fino al patibolo. Lei che l’aveva seguito intravedendo una speranza di vita, o forse semplicemente, troppo terrorizzata dalla morte ventura, troppo spaventata dal futuro, per poter avere da ridire in quel momento.
Quando arrivò alla porta laterale che dava l’accesso a una rampa di scale che dava sulla galleria, entrò. Percorse di fretta le scale e si gettò sul letto non appena arrivò nella sua stanza.

 

                                                                                                               ***

 

Esmeralda rimase ferma in mezzo al viottolo a guardare l’uomo che si allontanava finché non lo vide più. Il suo sguardo era ancora carico d’odio e disprezzo; infatti, anche se l’Arcidiacono aveva distolto lo sguardo, troppo debole, preso dalla sua passione per lei, ebbene, lei non si poteva dire avesse fatto altrettanto. Non aveva distolto lo sguardo da lui un solo istante.
-Tesoro, stai bene?- chiese la voce di sua madre. lei distolse lo sguardo da quel punto fisso e la guardò. E tutti i suoi problemi e le preoccupazioni, soprattutto legate alla salute del suo amato Febo, sparirono. Ora era con sua madre!! Con la sua vera madre! L’aveva ritrovata finalmente.
-Sì, madre, sto bene! Benissimo ora che siete con me!- rispose abbracciandola mentre sentiva finalmente il suo cuore sciogliersi dalle catene della paura della morte, che tanto l’aveva accompagnata in quegli ultimi mesi. –Dai, vieni, ti porto alla corte! Sarai sicuramente la benvenuta!- disse prendendola per mano e mettendosi a correre leggiadra come una farfalla tra le vie anguste che si diramavano al di fuori della città. La donna sembrò aver ritrovato le forze di un tempo, perché la seguì senza arrancare. La gioia di aver ritrovato la sua piccola le aveva una ragione per vivere, e avrebbe fatto di tutto per tenersi stretta la sua bambina. Nessuno l’avrebbe più separata dalla sua Agnès.
Dal canto suo, la giovine, felice, continuava a correre. L’unico pensiero che affollava la sua mente era quello di essere tornata a casa. Di essere nuovamente libera. Era viva e libera. E presto avrebbe rivisto il suo amato Febo. Appena fatto passare il tempo sufficiente per poter tornare a Parigi e non essere catturata, sarebbe tornata in città e si sarebbe gettata tra le braccia del suo amato Febo, del suo Sole. Forse la città si sarebbe dimenticata di lei, ma lui no! La amava. Come avrebbe potuto dimenticarsi della sua amata. L’avrebbe amata e l’avrebbe sposata. Al diavolo la iettatura di quel prete assassino. O che quantomeno aveva cercato di ucciderlo. Non avrebbe mai avuto lei, né tantomeno il suo amore. Lei era solo del suo Febo. E di nessun altro.

Camminò a lungo tra i vicoli felice, talmente tanto da non rendersi conto che le strade erano deserte, e che la solita musica non c’era e che le risate, provenienti dalla taverna centrale, il cuore pulsante della Corte, dove si tenevano le riunioni e venivano prese le decisioni importanti, anche quelle, quella sera mancavano. Se ne accorse quando ormai erano all’inizio del vicolo. Era troppo silenzioso. Si fermò di botto e si guardò intorno. Era tutto deserto.

Presa dal panico strinse forte la mano della madre. che ricambiò ancora più spaventata della figlia. Fino a quel momento lei si era sentita al sicuro in quel posto. Era il luogo in cui Agnes viveva e l’aveva seguita senza alcun timore. Se però adesso anche sua figlia era terrorizzata, lei lo era cento volte di più.
-Perché non sento le loro voci?- domandò la giovane gitana più a se stessa che alla madre, con voce tremante e flebile. Lentamente si diresse camminando verso la taverna. Passò davanti alle finestre che davano sulla strada, ma si rifiutò di guardare per paura di quello che avrebbe potuto vedere, o meglio, non vedere. Mille pensieri, uno peggiore dell’altro, si affollarono nella sua mente. Continuò a stringere la mano della madre, mentre si fermava di fronte alla porta.
La mano esitò un attimo sospesa tra il suo corpo, fragile come un cristallo, e l’anello di ferro della spessa porta di legno borchiata dello stesso materiale del grande anello. Poi si decise: stare fuori dalla porta non aveva senso, e prima o poi avrebbe dovuto sapere cos’era successo agli altri, alla sua famiglia. Afferrò con forza l’anello e tirò. La pesante porta si aprì e un fascio debole di luce illuminò la strada. Lei entrò imitata prontamente dalla madre.
La stanza era vuota. I tavoli ancora da sparecchiare, i boccali di vino erano rovesciati sui tavoli o per terra e le sedie erano state ribaltate. In quel posto regnava il caos più assoluto. Guardò istintivamente verso il camino e vide che la fiamma si stava spegnendo lentamente. Andò subito a prendere altra legna e ve la gettò sopra. In poco tempo la fiamma si ravvivò e tornò nella stanza lo scoppiettio tipico del fuoco.
La madre si avvicinò alla figlia.
-Cosa è successo?- chiese preoccupata.
-Non.. Non lo so.. Di solito resta sempre qualcuno qui. Deve essere successo qualcosa di davvero importante perché si siano allontanati tutti dalla Corte…- fece triste. La madre la abbracciò forte a sé come per tranquillizzarla e infonderle coraggio. La giovane rimase tra le braccia della madre a lungo, finché il sole non fu alto nel cielo. Allora con la madre si alzò da terra e iniziò a mettere a posto quel luogo. Solo quando ebbero finito, ormai era arrivato il mezzodì, sentirono gli effetti della stanchezza. Quelle ultime ore erano state così intense e le emozioni erano tante e tanto forti che l’adrenalina aveva fatto loro dimenticare che erano mesi per la giovane, e anni per la donna che non dormivano in un letto.
-Preparo il pranzo e poi… andiamo a riposarci.- affermò la gitana con voce atona.
-Come… Come desideri.- asserì la madre. anche se quei gitani le avevano portato via la sua bambina, lei era cresciuta con loro. Erano diventati la sua famiglia. Lei era affezionata a loro. E vederla così fragile le fece stringere il cuore. Non era giusto. Aveva sofferto troppo la sua bambina. Non era giusto che soffrisse ancora. E pregò la Maria Vergine che la famiglia della piccola tornasse a casa.

 

                                                                                                           ***

 
Claude Frollo si svegliò che il sole era già alto nel cielo terso. Si preparò e scese nella cattedrale dove di lì a poco si sarebbero raccolti i fedeli per la S. Messa. Percorse l’intera galleria a passo lento. Pensando a cosa avrebbe potuto dire alla folla quella mattina?
Si fermò meravigliato quando notò che la porta che dava sulla stanza dove fino a quella notte la zingara era stata scardinata dalla folla dei gitani che erano venuti a cercarla. O forse erano stati i soldati. Poco importava. Era una barbarie che nessuno poteva permettersi di commettere per poi continuare a professarsi cristiano.
Guardò dentro la stanzetta. Gli sembrò ancora di vederla lì, distesa con la schiena rivolta alla porta, che dormiva di un sonno angelico. A quell’ora era già sveglia e si apprestava a intrattenersi con Quasimodo, l’unico di quel mondo parigino di cui sembrava accettare la compagnia e con il quale avesse instaurato un legame.
Quanto avrebbe voluto che quell’angelo avesse preferito lui al patibolo. Perché non accettava di capire che quel soldataccio da caserma, per quanto potesse essere bello, non la amava e probabilmente la volta in cui l’avesse rincontrata… l’avrebbe arrestata e fatta condannare? Non era un concetto difficile da capire. Eppure era certo che non gli avrebbe dato ragione neanche se l’avesse visto con i propri occhi.
Sospirò e riprese a camminare. Non percorse molti metri che inciampò in qualcosa. Era un cadavere. il corpo di un gitano, vista l’assenza di uniforme, era riverso a terra  con una pozza di sangue che si spargeva intorno alla figura all’altezza del ventre. Era stato passato con la spada di un soldato. Fece il segno della croce, e poi furioso si diresse verso le scale. Con sua grande sorpresa quel corpo non fu il solo che incontrò lungo il tragitto che portava alla cattedrale. A un tratto decise di non contare neanche più, tanti erano i corpi, di soli zingari, che aveva incontrato. E quello fu niente rispetto a ciò che lo aspettò nella cattedrale. L’immensa cattedrale era tutta cosparsa di corpi ovunque.
-Kyrie Eleison per costoro che hanno profanato il tuo tempio e si sono permessi di irrompere armati nella tua casa e infrangere il sesto comandamento sotto ai tuoi occhi. O Dio onnipotente, perdonali perché nella loro presunzione hanno peccato e si sono condannati all’Inferno. E perdona anche me che nella mia miseria e nullità mi permetto di giudicarli; proprio io che pecco ogni istante pensando a quella fanciulla, che antepongo lei a te, mio Signore. Che sono arrivato a ferire un uomo spinto dalla passione e dall’amore per quella fanciulla. Volevo soltanto impedire che quell’uomo le facesse del male. Fisicamente e soprattutto spiritualmente..- poi si fermò. Cosa c’entrava l’amore per lei con il massacro che quegli empi avevano commesso? Niente. –Perdona il tuo pastore che discerne più la realtà dal sogno, ciò che è amore… da ciò che è vana passione. Perdona questo dannato e le anime dei soldati che hanno compiuto questo sacrilegio. Sia fatta la tua volontà.- disse terminando la sua preghiera. Poi tornò su nella galleria e andò a cercare Quasimodo. Lo trovò che era nella cella dove aveva vissuto per quel mese la zingara.
-Dov’è?- chiese il guercio con la voce roca di chi parla raramente.
-Al sicuro. Alla Corte.- rispose lui sospirando.
-Davvero?-
-Sì, Quasimodo. Davvero.- rispose l’arcidiacono di josas. Egli annuì, parendo convinto della risposta.
-Chi.. Ha fatto tutto questo?- disse riferendosi a un corpo morto poco distante dalla cella. L’ennesimo clandestino.
-I soldati del Re.- affermò l’uomo in nero. –E quell’uomo non è il solo. Ne hanno uccisi molti. Anche nella cattedrale. Mi daresti una mano a… portarli via?- chiese poi. Il gobbo annuì, e mentre il sole raggiungeva il suo apice in cielo, la galleria si illuminava rendendo ancora più reale quel massacro. La cattedrale illuminò tramite i colori sgargianti delle vetrate quello scempio donando una luce irreale a quello spettacolo crudo cui il prete dovette assistere.
Quel girono le campane di Notre Dame non suonarono.

 

                                                                                                                         ***

La fanciulla si svegliò che il Sole anche quel giorno era giunto ormai al termine del suo corso. Osservò il luogo in cui si era addormentata. Era vicino al camino della Grande Sala della Corte, ormai vuota. Il fuoco era ancora acceso e nell’aria si sentiva un ottimo profumo di zuppa e di pane fresco. Si alzò a sedere appoggiandosi con le mani per terra. E con una visuale più ampia, notò sua madre dietro al bancone che toglieva il lenzuolo di sopra alle pagnotte appena lievitate e che si avvicinava al camino. Quando la vide sorrise.
-Finalmente ti sei svegliata, tesoro! Alzati così posso cuocere il pane…- lei sorrise e si tolse. Guardando il pentolone dove si sentiva ribollire la zuppa.
-Come… Hai fatto?- chiese stupita.
-Mi sono arrangiata con quello che ho trovato. Era avanzato ancora qualcosa..- asserì la donna.
-Bene! Ho una fame..- esclamò lei felice.
-Sono contenta! Intanto apparecchia la tavola..- disse la madre mentre la figlia prontamente ubbidiva. Non poteva crederci… Finalmente era con sua madre. aveva sognato tanto a lungo quel momento.. Istintivamente guardò verso il trono e sentì le lacrime velargli il viso. Clopin.. Dove sei? Perché non sei qui? Dove siete andati? Perché mi hai lasciato qui, sola? Non mi hai mai abbandonata. Mi giurasti che non sarebbe mai successo… Perché mi hai abbandonata? Pensò la zingarella sull’orlo delle lacrime. Si sentiva così fragile senza nessuno della famiglia accanto.
-Tesoro… Cosa è successo?- chiese Paquette.
-Non… Non ci sono.. Mi hanno abbandonata.- disse lei per poi scoppiare a piangere come una bambina.
-Sono sicura che se la caveranno. Sono persone di mondo, sanno ciò che fanno.- disse la donna.
-Ma mi avevano giurato..- poi il suo cuore balzò fuori dal petto al sentire qualcuno passare per la strada e uno scalpiccio come di zoccoli dietro all’uomo. Arrestò il pianto e si nascose dietro la finestra sulla strada per poter identificare chi fosse.
Il mio Febo è venuto a portarmi via! Ce ne andremo insieme da qualche parte tutti e tre insieme! Sarà contento di conoscere mia madre! lui mi ama tanto!! Pensò la giovine in trepida attesa sentendo i passi dell’uomo avvicinarsi così come lo scalpiccio, figurandosi già di vedere il suo amato in armatura che teneva per le redini il proprio cavallo, sul quale avrebbe viaggiato insieme alla madre verso un luogo dove avrebbero potuto amarsi liberi dal fatto delle loro condizioni sociali.
I suoi sogni furono ben presto infranti quando vide passare il poeta Pierre Gringoire affiancato dall’inseparabile capretta Djali. Delusa ma contenta in fin dei conti di vedere di non essere stata abbandonata, uscì di corsa dalla taverna e cose loro dietro.
-Djali!!- esclamò tutta contenta con la sua melodiosa voce da bambina. La capretta nel riconoscere la voce della padroncina si voltò e le corse incontro saltellando felice. Il nostro beneamato poeta, invece, fece ancora qualche passo continuando a filosofare. Quando si accorse che la sua intelligentissima allieva però non era più al suo fianco, si voltò e sorrise nel vedere quella graziosa fanciulla che era oltretutto sua moglie, secondo i costumi zingareschi, sana e salva e ben lontana dal pericolo. La capretta felice di rivedere la propria padroncina le saltò in braccio belando allegra. Pierre raggiunse entrambe le creature che gli avevano radicalmente cambiato la vita. La ragazza, felice di vedere finalmente una faccia amica, lo abbracciò.
-Finalmente! Che cosa.. è successo? Perché Clopin… Non c’è?- chiese poi spaventata. –Dove sono tutti gli altri?- Aggiunse. Gringoire la guardò. Quegli occhi ancora da bambina terrorizzati dal vuoto che li circondava, lo guardavano con la speranza che i suoi più grandi timori fossero smentiti. Povera piccola graziosa rondine, cosa puoi saperne tu dei dolori della vita? Questo non è che l’inizio di tante e future disgrazie che incontrerai. Tu, che ballavi spensierata e leggiadra come una farfalla e allietavi il buon popolo di Parigi, tu, o dolce zingarella, che ne sai delle sofferenze che toccano noi umani? Mi dispiace che tocchi proprio a me il ruolo di latore delle tue disgrazie, piccola. Non avrei mai voluto che le cose andassero così.
-Entriamo in casa, non mi piace rimanere in strada a parlare.- disse lui per poi cingere affettuosamente le spalle di Esmeralda con un braccio. Ed entrare in casa. Quando vide la madre, Paquette, guardò la giovane sorpreso. –Chi è costei?- chiese l’uomo.
-Mia madre, Paquette la Chantefleurie.- disse sorridendo orgogliosa la figlia. E brevemente raccontò al poeta cosa era successo da quando loro due, quella notte, si erano divisi.
-Sono molto contento per voi, signore mie.- fece lui davvero contento. Almeno aveva qualcuno al fianco che sarebbe stato forte per lei.
-Ma ora dimmi, poeta, che cosa è successo a Clopin! Ti supplico!- esclamò tra le lacrime come una bambina. E fu allora il turno del poeta di narrare i fatti.
-Perché? Perché mi avete portata via da lui?! Cosa volevate da me?- fece piangendo.
-Nulla, solo salvarti. Se fossi rimasta non l’avresti visto comunque Clopin. È morto prima di mettere piede nella Cattedrale di Nostra Signora.- fece triste. –Comunque… Qualcuno si è salvato e starà sicuramente vagando da queste parti. Ne sono sicuro.- rispose lui.
Ma la giovine rondine ormai non dava più ascolto a nessuno, si era chiusa nel suo piccolo quanto stravolto mondo interiore e rimase tutta la sera muta come la più bella statua di Venere.
Cenò e poi  salutando con un lieve e flebile mormorio, andò a coricarsi in un angolo.

 

                                                                                                             ***

Aveva impiegato tutto il giorno a sgomberare la chiesa e a pulirla dal sangue versato da quei….. Non sapeva neanche come definirli! Sentiva montargli una rabbia dentro di sé ogni volta che pensava all’orrore che era stato consumato tra quelle sacre mura. E Quasimodo, per tutto il giorno gli era stato vicino e lo aveva aiutato. L’unica persona pura e innocente oltre la sua bella rondine! Era lui, semplice e ingenuo, che faceva tutto ciò che lui gli chiedeva di fare. Povero Quasimodo! Sospirò. Poi un passo cadenzato e metallico lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò verso l’entrata. E vide il capitano Febo di Chateaupers. Sentì la rabbia montargli addosso. Lui! Che aveva rubato il cuore della sua piccina! Che l’aveva fatta innamorare perdutamente del suo bell’aspetto e della sua magnifica armatura! Lui che l’aveva illusa e abbandonata! E che aveva osato profanare la casa del Signore!
-VOI!! Come osate recarvi ancora in Chiesa armato e con aria tanto spavalda, dopo aver profanato questa stessa Dimora di Dio! Uscite immediatamente! Che sia di monito una volta per tutte.-fece duro in volto trattenendo a stento la propria ira.
-Non mi fate paura, prete.- disse canzonatorio.
-Arcidiacono.- puntualizzò per poi sospirare. –Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma sappiate, capitano- disse marcando il titolo con disprezzo- che scappare però non potrete giammai perché qua, vi sta guardando Notre Dame. Sarà ella stessa a giudicarvi. E Dio nell’altro mondo. Rimetto a Dio ciò che non è di mia competenza, sta a voi scegliere se seguire una volta per tutte sulla retta via e salvare la vostra anima, o bruciare per l’eternità tra le fiamme dell’Inferno.- disse mentre lo sguardo diventava glaciale e il tono calmo, tanto che avrebbe disarmato il diavolo in persona. E poi si voltò per poi tornare verso l’altare, donde era venuto. Quando si voltò poco tempo dopo, il valoroso capitano degli arcieri di Re Luigi XI era sparito. –La tua spavalderia serbala per gli  idioti del tuo seguito, non usatela con me. - mormorò più a se stesso che non davvero al Capitano con un piccolo sorriso trionfante sulle labbra.
La sera mangiò e si coricò nel letto troppo stanco per sperimentare ancora filtri nel suo piccolo laboratorio di alchimia. Se solo mi avessi visto quest’oggi in Chiesa, ti saresti accorta di quanto il tuo “amato Febo” sia solo un involucro contenente pura e semplice boria e nulla più. Poi si riscosse. È inutile prendersi in giro, Claude, ti avrebbe odiato solo di più. E con questi pensieri in testa rimase sveglio tutta la notte a rigirarsi nel letto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parigi 24-25 Luglio 1482: Lei dov'è? ***


Il sole era sorto da appena tre ore, la città era nel pieno della propria attività quando gli occhi caldi e grandi della piccola fanciulla si riaprirono. Da lontano giunsero i rumori della folla che tranquilla aveva ripreso la sua normale attività dopo il primo giorno di smarrimento. La corte dei Miracoli era talmente silenziosa e vuota che qualsiasi rumore, anche la più piccola percezione era palpabile e udibile come se quel suono si fosse propagato solo a pochi metri dal loro rifugio. Si alzò e si lavò il viso con l'acqua fredda. Era stata una nottata lunga, quasi interminabile dovuta anche alle alte temperature e all'umidità caratteristiche del mese di Luglio. Il vestito, ancora quello bianco che le avevano dato in prigione e che lei aveva tenuto anche quando era rimasta a Notre Dame, nella stessa casa di quel vecchio prete, ora le era aderente al corpo, bagnato. Attraversò in punta di piedi il salone, mentre la sua mente ripercorreva tutti gli eventi cui aveva assistito in quella sala, non per ultimo il racconto di Pierre sull'assalto alla cattedrale e della fine che avevano fatto gli altri zingari. Quando arrivò alla porta, la sua mano esitò. Fuori c'era il mondo, immenso e crudele, che in quegli ultimi mesi non aveva fatto altro che portarle dolore e sofferenza, che era stato cattivo nei suoi confronti, giovane zingara spensierata, semplice e ingenua che era uscita dal proprio bozzolo per ballare fresca e leggiadra, come una ventata di primavera anticipata per le vie di Parigi. Già, e proprio danzando aveva attirato l'attenzione del suo bellissimo Febo, il suo sole. Aveva fatto breccia nel cuore della persona che amava e che sarebbe arrivata un giorno a portarla via; via da quella città, da quel paese, via da quel mondo tanto crudele che le aveva fatto male.
Sarebbero partiti insieme per un viaggio senza meta, con l'unico scopo di scappare, fuggire via e non far sapere più niente di loro. Liberi di amarsi, lontano dagli occhi di tutti, e soprattutto, lontano da quel prete che tanto la voleva senza però amarla! Quel vecchio prete che aveva tentato di uccidere il suo Febo, il suo bellissimo e splendente sole! Ah, ma il bene trionfa sempre! Il suo Febo, ferito gravemente, era tornato e presto, molto presto, il prete avrebbe pagato per le sue azioni. Sarebbe andata da lui, avrebbe raccontato a lui la verità, come effettivamente erano andate le cose e avrebbero trovato insieme il modo di farla pagare a quel vecchiaccio della malora. E poi... Sarebbero fuggiti in un posto dove nessuno poteva conoscerli e lì, finalmente, avrebbero vissuto felici e contenti. Djali e sua madre sarebbero partiti con loro e tutti avrebbero vissuto felici e contenti.
Prese un respiro e aprì la porta tutta contenta. Il Sole, bello, rotondo giallo illuminava le strade su uno sfondo celeste. Il cielo era limpido, senza una nuvola. E le case diroccate della Corte, che di notte assumevano toni spaventosi e lugubri, neanche fossero le abitazioni di qualche spirito fantasma, si mostravano nella loro vera natura, quella di case troppo malandate per ospitare nelle ore più fredde della notte, soprattutto d'inverno, i suoi coraggiosi quanto incoscienti abitanti. Per questa ragione gli accattoni tutte le notti si ritrovavano in quella sudicia taverna, in cui restavano fino a ora tarda. Diede ancora un ultimo sguardo alla taverna e poi guardò il sole. E alla fine scelse il sole. Uscì da quella tavernaccia, e iniziò a correre ridendo per le strade e guardando più il cielo che non la strada, che avrebbe potuto benissimo percorrere a occhi chiusi, tanto la conosceva bene. Corse a più non posso finché ebbe forza nelle gambe, a perdifiato. Corse, allontanandosi un poco dalla città, correndo per i campi di fiori, e di grano appena mietuto. Corse leggera, come se i suoi piedini di fata non toccassero il suolo, come se ella fosse fatta di aria, o una graziosa ninfa dei campi. Corse felice ridendo, con una leggera brezza che le scompigliava quei capelli color dell'ebano. Corse assaporando dopo mesi di sofferenze e dolori l'aria pura della Libertà, così dolce e fresca che capì perché tutti la cercassero, a volte per tutta la vita. Donava una carica e un'energia tale che chi la possedeva si sentiva padrone di se stesso, e padrone del mondo. Almeno questo era quello che molti gitani le avevano sempre detto fin da quando era piccola, quando lei con i lacrimoni agli occhi chiedeva perché gli altri bambini, quelli che non era gitani, non volevano giocare con lei e la escludevano e venivano portati via dalle madri.

Perché sono invidiosi di noi. Perché noi gitani siamo liberi! Non abbiamo fissa dimora e possiamo girare il mondo; perché la nostra società non deve rispettare le loro stupide etichette e soprattutto perché siamo tutti liberi di gestire la nostra vita come più crediamo. Perché non c'è legge, se non la nostra, cui dobbiamo sottostare. Perché anche se non siamo ricchi e non viviamo in mezzo a tutti quegli agi come fanno loro, noi siamo più felici di loro.” questa solitamente era la spiegazione dei più grandi; e anche Clopin gliel'aveva ripetuto queste cose.
Al ricordo di colui che era stato suo padre, suo fratello, e il suo migliore amico si fermò, con le lacrime agli occhi. Si fermò e cadde in ginocchio piangendo. L'aveva lasciata sola anche lui. Alla fine. L'aveva lasciata quando invece le aveva promesso che le sarebbe stata accanto finché lei avesse voluto e ne avesse avuto bisogno. Perché non hai mantenuto la promessa? Io mi fidavo di te!! io ho ancora bisogno di te, papà. Papà dove sei... perché mi hai abbandonata? Io sono sola al mondo... Ho ritrovato la mia mamma, è vero ma... non è la stessa cosa. Tu.. mi hai cresciuta, mi hai amata come una figlia. Sei stato l'unico a esserti preso cura di me. Cosa ho fatto di male da farti arrabbiare? Perché mi hai lasciato? Avevi promesso...pensò rimanendo inginocchiata per terra per lungo tempo.


***

E mentre la piccola e innocente piangeva, qualcun altro, ignaro di ciò, si svegliò per poter svolgere le proprie funzioni religiose. Ripeteva a macchinetta quelle parole che ormai dopo anni di predicazione, sapeva a memoria. La cattedrale, maestosa e silente, trasmetteva ai fedeli, o almeno gli sembrava, poiché questa era la sensazione che egli percepiva, un'aura di sacralità solenne e incombente, accentuata dai lumi dei lampadari a candele e dei ceri accesi dagli stessi fedeli per chiedere aiuto e soccorso per se stessi e i propri familiari. Era un'aura che non percepiva da anni, o che forse fino a quel momento non aveva mai percepito. Era l'aura di una cattedrale ancora offesa per l'umiliazione subita. Umiliazione che ancora bruciante si manifestava ai fedeli, come per renderli colpevoli e complici di quanto era accaduto. Per non essere intervenuti a proteggere la loro Signora che tante volte aveva accolto le loro richieste e che era sempre stata presente e pronta ad accogliere chi aveva bisogno del suo aiuto. Non si era mai negata a nessuno. E cosa aveva ottenuto, a aiutare sempre il prossimo? La più totale indifferenza. Quei fedeli, che si erano proclamati tanto devoti, nel momento del bisogno l'aveva abbandonata in balia del proprio destino, di quel massacro reputato ingiusto persino dall'arcidiacono, per quanto odiasse i “sans papiers”. Un'empietà commessa nella dimora di Dio! Come potevano ancora quei soldati professarsi cristiani cattolici e entrare in chiesa con disinvoltura, come se niente fosse successo?! Come osavano?!
Quei pensieri annebbiavano la mente dell'arcidiacono, e la rabbia era talmente grande che quasi, per qualche strano e fortuito caso, era riuscito a tenere lontano da lui il pensiero della bella zingara dalla sua mente per qualche istante. Quella zingara! Riusciva a penetrare nei suoi pensieri anche durante le funzioni! Era incredibile! Non le bastava più presentarglisi davanti ai suoi occhi sotto forma di visione a tutte le ore del giorno e della notte. Lo voleva per sé anche durante le funzioni religiose, in uno dei momenti più sacri della giornata. L'avrebbe davvero distrutto se avesse continuato a tormentarlo così. Quel disprezzo nello sguardo quando aveva preferito il patibolo a lui, quell'indifferenza quando lui per l'ennesima volta le aveva confessato il proprio amore e desiderio piangendo, inginocchiato di fronte a lei, come non aveva mai fatto nella sua vita, quelle parole dure e taglienti che gli aveva rivolto dopo che lui era tornato indietro per salvarla dalla forca, perché, nonostante il dolore, lui l'amava, tutto ciò era ancora ben impresso nella sua mente, e bruciava, e il suo cuore era diviso in due: da una parte l'Orgoglio ferito, che reclamava Vendetta per l'oltraggio subìto, dall'altra parte il Cuore, che nonostante soffrisse per l'essere stato respinto era sempre innamorato di lei e che voleva impedire che alla fanciulla fosse torto un capello, perché quella leggiadra e graziosa piccina aveva già troppo sofferto le ingiustizie del mondo a causa sua.
Vacillante e con le immagini della bella donzella davanti ai propri occhi, riuscì ad arrivare integro, almeno fisicamente, alla fine della S. Messa. Quando tutti i fedeli si furono allontanati, si appoggiò all'altare e chinò il capo. E prese dei respiri profondi. Doveva calmarsi. Doveva farlo. Dei non riusciva a togliersi dalla mente quello sguardo duro che gli aveva rivolto quando si era fermata per poi dividersi da lui definitivamente. Le faceva così tanto orrore? Perché? Perché aveva ferito il suo bel capitano? Che, ne era certo, non l'amava ma la desiderava soltanto? Perché non voleva capire che in realtà lui non la amava, che l'aveva desiderata soltanto. Che l'unica persona che l'amava davvero.. era un povero prete che si era ritrovato a consacrare la sua anima a quella fanciulla, per la quale provava un amore grande quanto era l'odio che lei gli riservava nei loro incontri.
Sì, incontri, perché di questo si trattava, di pochi, brevi e taglienti incontri. Si stava dannando l'anima e niente e nessuno avrebbe mai potuto distoglierlo da quel pensiero fisso che gli stava logorando e lacerando l'anima. Mai niente e nessuno aveva occupato così invadentemente e prepotentemente la sua mente, fino a farlo delirare durante le notti, nelle quali prendere sonno diventava notte dopo notte una impresa sempre più ardua. La Religione, la Scienza, l'Alchimia con i loro misteri ancora da scoprire, persino loro discipline severe e rigide, erano state più clementi di quella fanciulla. Persino loro avevano concesso riposo all'arcidiacono, per permettergli di riacquistare le forze per poter tornare all'opera il giorno seguente. Invece lei no, non gli dava tregua. Sembrava che il tormento della sua anima fosse la forma più sublime di divertimento per quella bambina. Che vederlo piangere d'amore, essere il centro di tutte quelle attenzioni, e rifiutarlo ogni volta, provocasse un piacere talmente forte da convincerla a perseguire su quella strada. Per torturarlo ancora, fargli visita nei sogni, durante gli esperimenti di alchimia che da mesi non riusciva a concludere, come se avesse spazzato in un attimo la conoscenza che aveva accumulato in tutti quegli anni di studio, in cui tanto aveva primeggiato e si era distinto dagli altri suoi coetanei. Sospirò e dopo aver messo a posto, se ne tornò nella sua torre. A finire gli esperimenti che il giorno prima aveva interrotto per la troppa stanchezza. Sospirò e si mise all'opera, senza arrivare, ovviamente, ad alcun risultato.

***


Non seppe da quanto era lì in quel campo a piangere, ma quando alzò nuovamente lo sguardo verso il cielo, si accorse che era passato comunque troppo tempo. Sua madre si sarebbe preoccupata per lei, doveva assolutamente tornare a casa prima che calasse il sole. Mancava ancora qualche ora al tramonto. E visto che non sapeva dove fosse, non avendo badato alla strada che aveva percorso quel mattino, presa da un momento di liberazione. Da tutte quelle angosce, paure, da quelle mura che avevano tenuto imprigionata la sua anima e il suo corpo in un luogo tetro e lugubre come doveva essere la morte. Quella morte che aveva evitato per un soffio, proprio grazie all'intervento di quel vecchio prete che l'aveva accusata di stregoneria. Quell'uomo che l'aveva posta di fronte a una scelta. O il patibolo, o lui, o la morte o l'amore. E che amore! “L'amore di un dannato!” aveva detto lui. E quello era. Niente di più niente di meno. Non sapeva molto sulla religione delle Chiese, chi era quel Dio che il buon popolo di Parigi, come quello delle molte altre città che lei nella sua breve vita da zingara aveva visitato, tanto osannava. L'unica cosa che sapeva era che i pastori, così si facevano anche chiamare i preti, l'aveva scoperto la sera precedente, non potevano sposarsi né amare nessuno che non fosse il loro Dio. Ne ignorava la ragione ma tanto bastava per far nascere nel palpitante cuore della zingarella nuovo odio e disprezzo nei confronti di quell'uomo tutto vestito di nero che tanto la desiderava. Si alzò da quel suolo dove aveva riposato per ore, pensando a tutti i tristi eventi che avevano caratterizzato quegli ultimi mesi. Si alzò e scosse la terra che aveva macchiato il suo misero abito. E poi iniziò a vagare cercando di ripercorrere la strada che aveva percorsa all'andata. Iniziò a camminare con passo sempre più spedito mentre il cielo diveniva sempre più scuro e il sole si avviava sempre più verso il momento del tramonto, colorandosi di toni sempre più accesi, fino al rosso sangue. La povera bambina, sola, lontana dalla città, lontana da tutto e da tutti, senza alcuna possibilità di incontrare nessuno e di essere dunque portata a casa. Era lontana da sua madre, dall'unica persona della sua famiglia che le fosse rimasta e che potesse prendersi cura di lei. Corse a perdifiato verso il Sole, sperando di intravedere i primi casolari della città, mentre lucenti e cocenti lacrime le solcavano il viso. Non era mai stata da sola lontano da casa per più di qualche ora, né mai si era allontanata, né ne aveva avuto il desiderio. In seguito però a quella serie di eventi che si erano susseguiti, e a quel perenne essere circondata da mura, e fredde pareti di pietra, la tentazione di evadere, di liberarsi da tutte quelle costrizioni, non adeguate al proprio animo libero, era stato troppo forte e non aveva saputo resistere.
Corse e camminò a fasi alternate, quando i polmoni bruciavano per lo sforzo cui la giovane fanciulla li sottoponeva. Infine la notte calò, e il Sole, anche quel giorno, andò a salutare l'altra parte del mondo, nascondendosi agli occhi della gitana, che man mano la notte si faceva sempre più nera, si sentiva sempre più spersa. E a poco valeva la presenza delle stelle luminose in una notte come quella. Non riusciva a tranquillizzarla niente. Solo la presenza del suo bel capitano avrebbe potuto alleviare quella tetra notte, nera come nera era la veste di quell'uomo del demonio. E questo la terrorizzava, la rendeva ancora più insicura di quanto già non fosse. Dei... che cosa le era saltato in testa di uscire da sola senza neanche Djali con se e non badare alla strada che percorreva. Era sola in un posto che non conosceva. E non sapeva quali brutti e spaventosi ceffi si potessero nascondere nell'oscurità della notte. Notte nera senza Luna, oltretutto. Con tante stelle, sì, ma senza luna. Iniziò a pregare la sua famiglia, Clopin e la sua anima che l'accompagnasse e l'assistesse. Che non l'abbandonasse proprio quella notte. Che tornasse a casa sana e salva. Pregò camminando finché le gambe non cedettero e lei dovette arrestare la sua camminata. Forse è meglio fermarmi. So quello che ho visto ma non quello che vedrò. Se andassi avanti probabilmente potrei fare brutti incontri, e ora come ora è l'ultima cosa di cui ho bisogno. Qualcuno mi verrà a cercare... Almeno spero. Pensò la fanciulla.


***


E non aveva tutti i torti. Più di una persona, sua madre e Gringoire, si erano messi a cercarla, non avendola vista tutto il giorno. Con il cuore in affanno aveva girato quelle vie per tutto il giorno cercandola, con il terrore di averla persa nuovamente, proprio quando l'aveva ritrovata dopo quindici lunghi anni lontana da lei. A lei si era unita subito la capretta, seguita a ruota dal giovane poeta, timoroso egli di perdere la capretta, nonché la sua migliore allieva. L'avevano cercata in lungo e in largo azzardando persino qualche via vicino alle porte di Parigi, senza però inoltrarsi più del necessario nella città.
-La mia bambina, la mia bambina... Hai trovato la mia bambina, la mia piccola Agnes, Pierre, dimmi di sì!- ripeteva ormai come una cantilena ogni volta che lo incontrava in un punto di ritrovo che decidevano di volta in volta, per evitare di non perdersi, almeno loro. E ogni volta il poeta dissentiva.
All'ennesimo incontro, Pierre sorrise e propose:
-Sentite, signora, e se andassimo a chiedere al monsignore della Cattedrale? È un mio amico e sono certo che se gli chiederemo aiuto per trovare la nostra giovine rondine, non ce lo negherà.- fece sorridendo al ricordo del suo amico che qualche giorno prima, proprio con lui, aveva ammesso di pensare a quella fanciulla. Inutile dire che la donna accolse con entusiasmo la proposta. Poi parve riflettere bene un attimo sull'idea.
-E se ci vedessero le guardie?- chiese lei timorosa. -L'arcidiacono ci ha detto di non farci vedere in città per un po'.- disse ricordando le parole del prete.
-Andremo non appena il sole sarà tramontato. Stanotte è una notte senza luna.- disse lui. La donna rincuorata sorrise.
-Ottimo, allora.- rispose lei anche se l'idea di non fare nulla fino al tramonto non la tranquillizzava per niente. Guardò il cielo e rivolse alla sua bambina un pensiero di conforto, come se potesse sentirla. E poi ritornò al rifugio accompagnata dalla capretta e dal poeta.


***


Il sole era tramontato da tre ore, la notte era buia e nei vicoli poco lontano dalla cattedrale si stava già animando la notte cui partecipavano tutti i malviventi della città. Ladri, tagliaborse, prostitute, allibratori, soldatacci da taverna animavano quella città dalla duplice natura, sostituendo la ricca borghesia benpensante di Parigi. Si sentiva già il vociare della feccia della città, così l'arcidiacono di Josas definiva quelle anime perse e senza morale e dignità da fare del proprio corpo e dei vizi capitali la loro principale fonte di guadagno.
La notte era senza luna, solo le stelle illuminavano una notte che altrimenti sarebbe stata nera. Sulla città, già ampiamente oscurata, si stagliava l'immensa figura dell'imponente cattedrale. Era nera come la notte e le sculture, i Gargoyle e gli altri mostri incombevano nella loro mostruosità e repellenza sulla popolazione parigina. Solo una luce testimoniava la presenza di una persona vivente all'interno di quell'architettura gotica. La luce flebile di una candela, tanto forte da sembrare un fuoco infernale per la gente ignorante, illuminava, nella torre di destra di Notre Dame, una scrivania di legno cosparsa di fogli e pergamene, alcune scritte e altre vuote, e un volume di alchimia aperto sopra tutto il resto. Chino su di esso, Claude Frollo vergava con nero inchiostro appunti, parole scritte nella speranza di scoprire finalmente il segreto della pietra filosofale, e riuscire a trovarla. Stava scrivendo meccanicamente, senza soffermarsi realmente sull'esatto significato delle parole, tanto era concentrato dal seguire la linea d'ombra che si andava creando sulla pergamena a mano a mano che il pennino rilasciava l'inchiostro nero. Nero come la notte, come la sua tonaca che mai avrebbe potuto togliere e disconoscere, quella stessa tunica per il quale era tanto odiato dalla sua bella Esmeralda. Nero come l'ebano, il colore dei suoi capelli, ricci. Ancora lei! Dannazione non è possibile che mi torturi così anche ora! Lasciò cadere stanco il pennino sulla scrivania e si appoggiò stancamente sulla sedia, passandosi stancamente la mano sugli occhi e sul viso. Forse avrebbe dovuto dormire un po'. Stava per alzarsi e andare a dormire quando sentì bussare alla porta.
-Avanti.- disse lui stancamente.
-So che è tardi, Arcidiacono. Mi dispiace disturbarvi. Posso?- chiese il poeta aprendo la porta.
-Non stavo facendo niente di particolare: in cosa posso aiutarti?- chiese sorridendo.
-Non è me che dovresti aiutare, ma una donna.- fece lui per poi voltarsi verso l'uscio, dove Paquette restava timorosa. Erano anni che non entrava nella dimora di un uomo di Chiesa e i ricordi ora riaffioravano prepotentemente alla memoria. -Non avere paura, Paquette, vieni pure.- fece il poeta sorridendo. La donna prese un sospiro ed entrò. Rimanendo stupita quando vide Claude, e tirò un sospiro di sollievo. Claude a sua volta la guardò preoccupato. Era la madre della sua piccina, perché venire se non per...
-È successo qualcosa a Esmeralda?- chiese tradendo leggermente il tono preoccupato della sua voce.
-Non la trovo più. È tutto il giorno che la cerco, che la cerchiamo, ma non la troviamo. L'abbiamo cercata ovunque. Potete aiutarci?- chiese lei con le lacrime agli occhi. Tutte uguali le donne. Quando hanno bisogno non esitano a fare gli occhi dolci e pietosi e una volta che ottengono ciò che desiderano, si voltano dall'altra parte e ti disprezzano.
-E perché chiedete a me? Sono certo che non ha alcuna intenzione di farsi trovare da me.-
-Vi scongiuro, monsignore.- fece lei piangendo. La guardò per qualche istante. Prese il mantello e mentre spegneva la luce della candela, iniziò a scendere le scale seguito dai due per poi uscire fuori all'aria fresca della notte in piazza. In quella piazza che aspettava fremente di poter mettere fine alla vita della piccola rondine.
-Avete cercato anche in città?-chiese lui.
-No ma non vedo perché avrebbe dovuto allontanarsi da sola così tanto.- fece la madre. I due uomini si guardarono.
-Per andare dal suo bel capitano.- fece lui. E iniziò a dirigersi verso la casa della giovane ricca borghese. Le luci erano ancora accese e il palafreno di quel soldato c'era. Se era qui, non poteva esserci la zingarella: avrebbe passato il tempo nelle segrete a interrogarla e processarla, magari anche torturarla. Trasalì a quel pensiero mentre gli tornavano in mente le grida della sua piccina mentre la torturavano e lui non poteva fare niente per evitarle tutta quella sofferenza.
Sospirò e riprese a cercare in città fino a spingersi fuori città, oltre le porte di Parigi, lanciando più volte occhiate al cielo, sempre più nero. Il tempo passava, la visibilità sempre più scarsa. Si spinse fino ad allontanarsi dalla città totalmente e iniziare a camminare per i campi, chiamandola per nome con tutto il fiato che aveva in gola. Sia per trovarla, sia per poter gridare al mondo il nome della sua amata, trovando un certo sollievo nel poter dire quel nome tanto dolce ad alta voce. La chiamò mentre il suo cuore esplodeva dalla gioia nel gridare quel nome.


***

La notte era sempre più buia, fredda e non riusciva più a tenere il corpo fermo, che tremava dal freddo. Era rimasta ferma per ore, senza mai muoversi per quanto il suo corpo lo desiderasse. Presto era arrivato il formicolio ai piedi, poi alle gambe. E ora muovere ogni minimo arto la infastidiva fortemente. Il viso nascosto tra le ginocchia era perennemente bagnato da lacrime di terrore, paura solitudine e disperazione. Voleva il suo sole, il suo amore. Voleva il giorno, il suo Febo. Quella notte la spaventava. Le ricordava quel prete di cui non sapeva neanche il nome. Tutta quella sofferenza, quel dolore! Voleva solo dimenticare lui e tutto quello che era successo.
Vieni a portarmi via! Portami via sui monti dell'Andalusia! Ti scongiuro. Questa è una città cattiva, che mi ha fatto soffrire tanto. Non voglio più vederla questa città. Mai più nella mia vita! Pensò lei. Voleva andarsene, voltare pagina, farsi una nuova vita lontano da quel mondo pieno di violenza. Voleva scappare lontano da quel vecchio prete che la desiderava e che non perdeva occasione di riconfermare il suo amore.
Pianse fino a non avere più lacrime da versare. Proprio in quel momento sentì l'erba accanto a sé frusciare. E una figura avvicinarsi.
-Chi.. Chi è?- chiese spaventata strozzando un urlo in gola, pronta a urlare nel caso ce ne fosse stato bisogno; intanto la nera figura avvolta in un mantello si avvicinava a passo sicuro verso di lei, come se fosse lei, proprio lei che voleva.


***


L'aveva cercata per ore e ore, nel freddo della notte. Chiamandola continuamente. Finché non sentì dei sussulti. E dei singhiozzi. Si avvicinò titubante finché nell'oscurità non vide una sagoma rannicchiata. La schiena scossa da sussulti, mentre si raggomitolava per i brividi sempre di più.
Si avvicinò sempre di più e quando la fanciulla alzò gli occhi neri, i capelli ricci di ugual colore, il suo cuore perse dei battiti. Iniziò a battere sempre più forte. Più forte di un tamburo. Si avvicinò a passo sempre più sicuro, mentre la fanciulla arretrava, o almeno ci provava sempre di più. Quella graziosa ninfa, quella piccola leggiadra rondine danzante, intimorita ora, era poco distante da lui, a pochi passi. Quel corpo da dea, che aveva sognato per notti intere, giovane, caldo, era lì. E ora che erano soli... No! La desiderava moltissimo.. ma non l'avrebbe mai presa senza la sua volontà. Per quanto la desiderasse non si sarebbe mai comportato come quel soldataccio che lei amava tanto. Perché se i ruoli fossero stati invertiti, lui ne avrebbe approfittato di certo.
-Esmeralda, piccina mia, sono io. Non avere paura.- disse lui dolcemente.


***


Nel vedere quella figura, lei si ritraeva. Le mani a terra arretrava mentre le gambe trovavano di nuovo la loro vitalità e si sottraevano a quella figura spaventosa e inquietante. Quella voce...
-No! Va via prete maledetto! Va via! Io voglio il mio Febo!- fece lei mentre sentiva le lacrime salire nuovamente. -Lui mi ama. Perché non c'è? Che ne hai fatto?!- e mentre le lacrime sgorgavano mentre la sua mente ricordava quella terrificante notte.
Lui la guardò e la prese per i polsi, mentre lei si ribellava dimenandosi come una furia. Lui la fece girare e la strinse fortemente a sé, con la sua schiena contro il proprio petto. -lasciami! Lasciami!- fece lei gridando e piangendo.


***


La stava tenendo stretta a sé, ancora non gli sembrava ancora vero. La sua pelle giovane e morbida, ambrata, era separata dal suo corpo solo da qualche strato di vestiti. Lei che si dimenava, versava lacrime, desiderando di essere salvata da una persona che non la voleva e non la amava.
-Sht, tesoro, non piangere. Va tutto bene... Tua madre è venuta a cercarti, con Pierre. Ma tuo marito non è stato abbastanza bravo da trovarti.- disse mentre le sue dita accarezzavano i suoi capelli e il suo collo. Il corpo ora era rigido, come se aspettasse da un momento all'altro la colpisse.
-Perché? Perché non mi lasciate in pace? Perché non mi lasciate andare dal mio Febo.- chiese lei.
-Perché ti amo e lui no. Perché IO sono qui. IO sono venuto a cercarti. IO e non lui. IO ti amo. Io, lo capisci?- chiese lui voltandola verso di sé, tenendola per le braccia. Lei si divincolò.
-Non toccatemi, vecchio prete. So che lui mi ama. E io amo lui. Lui e non te, prete infernale. Non toccarmi mai più.- fece lei. Claude la lasciò andare, senza cercare di afferrarla.
In quel momento arrivarono la madre e il marito della ragazza.


***


-Mamma!- fece vedendo la figura femminile dietro quell'uomo nero. Lo superò come se non ci fosse e corse tra le braccia della madre piangendo felice.
-Tesoro!! Ma dove eri finita! Non farlo mai più. Mai più mai più tesoro mio! Sono stata così tanto in pena...- fece lei piangendo a sua volta.
-Scusa, mamma, non accadrà più. Volevo... allontanarmi, dimenticare tutto ciò che era successo quest'anno e poi... ho perso la strada del ritorno. Perdonami mamma, non lo farò mai più.- fece stringendosi a lei, ricambiata.
-Non importa. L'importante è che tu ora stia bene. Dai, torniamo a casa.- disse la madre dolcemente. E dopo aver ringraziato ancora i due uomini, tornò con la sua bambina alla Corte dei Miracoli.

Angolo Autrice:  chiedo perdono per il ritardo con cui ho postato il capitolo ma sono state due settimane piene e questo è l'ultimo anno di liceo.. però questa storia la sto scrivendo con tanta partecipazione e credo che sarà la prima che finirò.... XD magari potrei postare un capitolo a settimana... così aggiornerei regolarmente per la mia e la vostra felicità!!! (spero!! XD). Ringrazio ancora tantissimo Minimelania per aver recensito e aver aggiunto la la storia tra i preferiti.  Ringrazio ancora Claudio Frollo e x_LucyLilSytherin per aver aggiunto la storia tra i preferiti. e chiunque sia passato di qui a leggere. per qualunque consiglio o critica eventuale... Sono pronta ad ascoltarvi!!!!! Al prossimo capitolo un bacio a tutti!! 

Lady N.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Scuse e Perdono ***


Frollo arrivò alla cattedrale poco dopo l'alba. Entrò da una porta laterale e poi percorse le scale di pietra a chiocciola che portavano alla galleria. Attraversò la galleria vedendo il sole alzarsi sempre più in cielo. Poi sospirò e si recò nella sua stanza angusta che aveva lasciato per andare a cercare la sua bella e piccola rondine. Già... quella stessa giovane e leggiadra fanciulla che gli aveva urlato contro quando lui l'aveva trovata. Come se potesse davvero farle male, o volerla davvero contro la sua volontà.

Forse, in un momento di pura follia o di insana passione e lussuria poteva anche formulare un siffatto pensiero ma poi... L'immagine di lei, della sua dolcezza ingenuità e tutto ciò che lui le aveva imposto di patire e soffrire, gli si presentava dinanzi ai suoi occhi, come sempre avrebbe fatto, e avrebbe soffocato un tale pensiero, cacciandolo con la medesima violenza che esso aveva impiegato nel presentarglisi alla mente. Avrebbe provato un tale orrore da vergognarsi di ciò che la sua mente aveva elaborato.

Quella fanciulla così giovane e divinamente bella, si meritava molto di più che un semplice rapporto mosso da passione e puro desiderio. Si meritava tutto l'amore del mondo, tutta la dolcezza che un uomo solitario e introverso come lui poteva donarle, e anche di più. Le avrebbe dato tutto ciò che possedeva. Che importa se poi sarebbe stato dannato per l'eternità! Che cosa gli importava? Se il prezzo da pagare per qualche ora d'amore con l'unica fanciulla che aveva mai amato, fosse stato l'Inferno, pur di poterla amare un solo istante, avrebbe pagato volentieri il suo prezzo. La sua mente erano mesi che non faceva altro che ricordargli la sua posizione, il suo status, il voto di castità che aveva sempre rispettato. Dell'impossibilità del tutto, ricordandogli che la sua bellissima fanciulla lo odiava, non lo voleva, voleva il bel capitano. Ogni volta che questi pensieri affioravano alla sua mente, egli li scacciava con forza, ripetendosi che avrebbe capito, che avrebbe imparato ad amarlo, che prima o poi sarebbe cresciuta e avrebbe capito. Che sarebbe tornata da lui, magari in quella stessa stanza, e che gli avrebbe chiesto di amarla... mentre questi pensieri e fantasie prendevano sempre più forma nella sua mente, egli vagava nella sua camera a passi lenti una volta, e veloci un'altra, seguendo il corso e l'impetuosità dei suoi pensieri. Era incredibile come in pochi istanti il passo dell'arcidiacono potesse variare. Alla formulazione di quelle ultime fantasie, l'arcidiacono sorrise amaramente e scosse il capo dandosi mentalmente dello stupido. Mai, neanche se effettivamente si fosse accorta di amarlo, mai sarebbe tornata da lui a confessare il suo amore, né, tanto meno, gli avrebbe mai chiesto di amarla. Erano solo fantasie. Mai niente di ciò che la sua mente potesse elaborare sarebbe mai avvenuto, per quanto concerneva la piccola Esmeralda.


***


Intanto, il trio, dopo essersi separato dall'arcidiacono, stava tornando verso la corte. La fanciulla, con indosso un mantello e un cappuccio alzato in modo da nasconderle il viso, camminava a testa bassa, sia per non farsi riconoscere, sia per non far incollerire ancor di più la madre, che dopo i primi momenti di gioia le aveva fatto intendere di essere in fallo e che una volta a casa avrebbero dovuto parlare.

Si erano da poco separati da Claude, quando la madre, non riuscendosi più a trattenere, sbottò:

-Si può sapere che ti è preso, signorina? Sparire così, senza lasciare un bigliettino, senza lasciar detto a nessuno dove andavi. Ma lo sai che ti abbiamo cercata per tutto il giorno e tutta la notte?! Ti pare questo il modo di comportarti?! Far morire di crepacuore a tua madre!! non guardarmi così spaventata, come puoi ben vedere non sono ancora morte di crepacuore. Ma sarebbe successo se quel brav'uomo non ti avesse trovata.- disse lei una volta che ebbero superato le porte di Parigi, trovandosi nella Corte. Al sentire la madre elogiare quel prete, la fanciulla inarcò il sopracciglio sinistro. Di tutti gli aggettivi che esistevano per descrivere quella persona, “brav'uomo” le sembrava proprio il meno adatto. -E non fare quell'espressione. Se non t'avesse trovata a quest'ora saresti ancora là, da sola, spaventata e al freddo.- continuò la madre non capendo perché lei ce l'avesse tanto con lui.
Al ricordo del freddo e della paura che aveva provato, la fanciulla rabbrividì e chinò il capo. Molto probabilmente sua madre non avrebbe mai capito la natura di quell'uomo, che lei invece conosceva così bene. Diceva di amarla, ma in realtà sapevano bene entrambi che tutto ciò che voleva era il suo corpo e soltanto il suo corpo.
-Sì. Immagino che tu abbia ragione.- disse lei rassegnata.
-Ora torniamo a casa e mi racconti tutto.-
-Non c'è niente da dire, mamma.- disse entrando nella taverna.
-Allora puoi spiegarmi perché lo guardavi con odio?- la fanciulla la guardò e sospirò. Non aveva alcuna intenzione di litigare con lei per quel prete dannato. E alzò le spalle.

-Non mi è mai piaciuto. Tutto qui. Non ho voglia di parlarne, ora.-

-Ma... devi essere riconoscente, ti ha trovata. Se non fosse per lui, saresti ancora là.-

-L'ultima cosa che gli devo è la vita.- disse lei per poi prendere una brocca d'acqua e versarla in un bicchiere. E bere.

-Come ti sei comportata con lui? L'hai ringraziato per quello che ha fatto per te?-

-No, e non ci penso neanche. Non gli devo niente.- disse lei dura.

-Appena siamo andati da lui, è venuto a cercarti senza chiedere altro. Era preoccupato per te. Anche se non ha mai voluto ammetterlo. Ci tiene a te, credimi. E non si merita odio e disprezzo da parte tua. Riposa, tesoro. Più tardi ti porto da lui. E mi farai il favore di chiedergli perdono per il tuo comportamento da bambina. Ti costringerò se è necessario, non mi importa. Hai quasi diciassette anni, è ora che cresci.- disse lei seria.

-Ma..- ribatté debolmente la figlia guardandola supplicante.

-Niente ma! Tu non devi ribattere. Vai da lui e gli chiedi umilmente scusa!-

-Umilmente no!- ribatté lei. - Sarà già difficile chiedergli scusa...- disse lei.

-Umilmente. Come pensi che ti sentiresti se qualcuno ti ferisse? Se la persona che ami di più al mondo ti ferisse?- chiese lei.

-Non accadrà mai. Febo mi ama.- disse lei.

-Non conosco questo Febo, ma conosco quest'uomo e so che ci tiene tanto a te.- disse lei.

-Ma io non lo voglio vedere. Non lo voglio. Io voglio Febo. Solo lui.- disse lei.

-Va bene. Questo però non toglie che devi essere gentile con chi lo è con te.- disse lei. La ragazzina annui.

-Sì.. è giusto...- fece lei. -vado a riposarmi.. poi vado a parlargli.- disse sospirando sconfitta. Si recò nella stanza del retro e si stese sul letto di fortuna che aveva fatto il giorno prima. Chiuse gli occhi e senza neanche avere il tempo di pensare, lasciò scivolare la propria mente nel mondo dei sogni.


***


Quella fanciulla, quella dolce rondine che occupava continuamente i suoi pensieri, quel giorno non si era vista sul sagrato. Sapeva bene il perché, visto che aveva contribuito alla sua mancata esecuzione. Eppure, sebbene sapesse perfettamente il motivo della sua assenza, gli mancava. Gli mancavano i suoi piedini piccoli, ambrati, che saltellavano da una pietra all'altra del sagrato facendo roteare, volteggiare l'ampia gonna rossa da gitana. Gli mancava l'aumentare vertiginosamente del proprio battito nel vedere per brevi istanti parte di quella gamba ambrata tanto stupenda che delineava lo spazio vuoto con movimenti ispanici. Gli mancava vedere quel vitino sottile e quel ventre che si avvitavano su se stessi compiendo movimenti fluttuanti degni di una piccola ninfa. Gli mancavano le sue braccia che si levavano alte contro il cielo a lanciare il tamburello. Gli mancava il tintinnio prodotto dalle monete che lei portava tra i capelli e che si muovevano a ritmo con loro. Le mancava la sua chioma corvina riccia, che contornava quel viso da bambina, ovale. Quegli occhi color nocciola, profondi, grandi da bambina, ma anche fieri e selvaggi come un po' era lei, come era insito nella sua natura. Non si trattava di una selvaggeria barbara, sgraziata, rozza. Era bensì fiera, e altera. Una di quelle tanto indomite da lasciare senza fiato. Sì, gli mancavano quegli occhi che gli avevano riservato occhiate di indifferenza e di superiorità o spavento anche quando le aveva dichiarato in ginocchio davanti a lei piangendo il suo amore.

Gli mancavano le labbra carnose di lei, che spesso gli avevano riservato odio, disprezzo, insulti e ferite laceranti per il suo cuore di prete innamorato. Cosa avrebbe dato per averla lì, in quella stanza. Che lo torturasse nella maniera che più preferiva! Non importava assolutamente. Niente aveva più importanza! Solo... Avrebbe voluto averla lì. Per un solo istante.

Dio, mio Dio, perdonami! Indicami la strada per la tua salvezza!! Io... mi sono perso nel peccato. Ho colto la mela rossa, quel desiderio di amore, voluttà, passione che lei danzando con il suo bel corpo e le sue movenze sul sagrato di Nostra Signora, mi ha stregato, facendomi pensare sempre di più a lei, invece che a Dio, di cui io sono fedelissimo servitore, o meglio: lo sono sempre stato. Fino alla festa dell'Epifania. Vederla ballare sul sagrato mi ha tolto il lume della Ragione. Mi ha fatto provare emozioni che non avevo mai affrontato, neanche da giovane, troppo occupato dalla Scienza e dalla Religione. Quella stessa Religione ch'io ho servito controvoglia, obbligato dai miei genitori. E ora sono intrappolato in questi abiti clericali, senza via d'uscita mentre il mio corpo si consuma e brucia d'amore, passione e desiderio per la bella zingara, e la mia anima si logora combattuta tra l'amore spirituale per Dio, il Creatore, e l'amore terreno per Esmeralda.

Avrebbe voluto così tanto rivederla, un solo istante e spiegarle la verità. Farle capire che il suo bel capitano non era innamorato di lei, che per lui era tutto un gioco! Se solo lei l'avesse capito! Oh, povera bambina mia, innamorata di un uomo per la sua esteriorità, ignara del fatto che la sua bellezza esteriore non corrisponda alla beltà della sua anima! Forse chiedere il tuo amore è troppo, Esmeralda... Puoi anche non amarmi, ma ti prego, non amare un uomo che non può offrirti niente, neanche il suo cuore. Non continuare a ripetermi il suo nome. Quel nome che tanto mi ferisce. Perché lo pronunci se lo sai che non sopporto il suo nome ancor meno della sua persona. Oh mio Dio! Perdonami per questo amore illecito, immorale che il tuo servo prova! Puniscimi come più ti aggrada, giacché sei il mio padrone, magnanimo e misericordioso e io ho fallato nel tradire il tuo amore immenso. Non sono degno di servirti e non posso far altro che richiedere la tua Grazia.

E mentre la sua mente elaborava questi pensieri tumultuosi, le sue mani eseguivano esperimenti di alchimia, cercando di ottenere quella formula che da anni ricercava. Ma tutto era così confuso! No, lui era confuso. Una scienza come l'alchimia non poteva esserlo. La colpa era sua, che non era in grado di cogliere quel segreto, quella formula. Era lui a essere l'incapace. La colpa non era d'altri. Solo ed esclusivamente sua.


***


-Tesoro, è quasi buio! Hai dormito tutto il pomeriggio. E devi andare da lui.- disse la madre scuotendola dolcemente. -Sì... Arrivo. Non ho alcuna fretta.. Ancora qualche istante..- mormorò lei ancora mezza addormentata.

-Esmeralda.. è tardi? Se non ti sbrighi farà poi troppo buio per andare da lui e tornare.- disse lei.

-Uffa! Ho capito, ho capito. Vado. Mi alzo e vado.- disse lei. Si alzò, mise un po' a posto, soprattutto i capelli ancora un po' scarmigliati, e poi scese nella via, mentre la madre di lontano la seguiva con lo sguardo. Avrebbe tanto voluto non dover andare da lui. Ma purtroppo aveva promesso alla madre di andarci, e ci sarebbe andata. Lei manteneva sempre le promesse. E l'avrebbe fatto anche questa volta. Anche se controvoglia. La cattedrale era sempre buia e lui, vestito di nero, appariva ancora più tenebroso di quanto non fosse in realtà. Percorse le vie della Corte. Per poi percorrere quelle della città. Il sole era calato da poco, e il cielo non era ancora totalmente buio, e ciò permetteva alla giovane zingara di riuscire a vedere la strada che percorreva e di non essere vista dagli altri cittadini che l'avrebbero fatta catturare e mettere in prigione. E lei non voleva. Si ricordava ancora il freddo, la fame e il buio patito in cella. E voleva evitare il più possibile dimenticarsi tutta quell'esperienza. Sia per ciò che aveva subito sia perché le ricordava lui. Quella visita in cella, il tentato stupro e il fatto che era per colpa di quel prete se era finita in prigione. Al solo pensiero la poverella inorridiva, e stava ancora più attenta di quanto non avesse mai fatto in vita sua.

Ma a ogni passo il battito del cuore accelerava sempre di più, temendo che qualcuno la seguisse e la catturasse. Sempre più indecisa se tornare indietro e vagare per la corte fino a un'ora tarda, e raccontare una bugia, la prima della sua vita, oppure mantenere la promessa fatta alla madre e recarsi alla cattedrale, quell'edificio tanto alto e imponente che le aveva fatto da prigione per qualche giorno. Se non altro era stata una magnifica prigione, e non aveva sofferto la fame, la sete e il freddo. Pensò lei.

Sospirò e si diresse di buon passo verso la piazza, dove c'era il patibolo ad aspettarla. Lo guardò e al buio della notte era orribile, ancora di più di quando quel prete le aveva chiesto di scegliere tra lui e la morte. In quel momento non avrebbe saputo cosa rispondere. C'era ancora la corda appesa e al solo vederla si passò la mano intorno al collo, deglutendo dalla paura, immaginandosi l'osso del collo spezzarsi, il rumore secco. E sentì i brividi percorrerle l'intero corpo. Forse... E il suo sguardo si rivolse alla cattedrale, per la precisione alla torre di destra, illuminata di un rosso arancio, del colore del fuoco. No, niente sarebbe stato peggiore che donare la propria verginità, il tesoro più prezioso che avesse in quel momento, a quel vecchio prete infernale e assassino.

Nonostante i suoi pensieri, la giovane prese un respiro e quando vide la strada totalmente libera, attraversò di corsa la piazza, percorse con fiato affannoso le gradinate della cattedrale e aprì i pesanti portoni quanto bastava per sgusciare all'interno di essa. Dalle vetrate colorate giungeva una luce bianca, segno che stava sorgendo la Luna. L'interno sembrava essere blu, nonostante lei sapesse bene che non era quello il colore dell'edificio. I ceri illuminati conferivano alla chiesa un'aura di sacralità che non aveva mai visto. Era... Magica. Unica, speciale e irripetibile. Ne rimase incantata, e la rimirò talmente a lungo da dimenticarsi del perché si trovasse lì. Camminò lentamente lungo la navata centrale, col nasino da bambina all'insù e gli occhi grandi spalancati da così tanta meraviglia. Arrivò fin davanti all'altare. Dove c'era la grande vetrata rotonda che era quella che maggiormente illuminava quel luogo sacro.

Era talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse neanche del rumore di passi che scendevano le scale e che si avvicinavano a lei.


***

Claude al calare del sole aveva acceso un paio di candele per illuminare quella che ben presto sarebbe diventata una cella totalmente buia. E poi aveva ripreso a vergare come un forsennato su quella pergamena formule su formule, come se il trascriverle da un libro a un foglio di pergamena potesse svelare il segreto celato quelle parole.

La cattedrale regnava nel più assoluto silenzio. Quasimodo per quell'ora di certo era nella sua stanza, come sempre. L'unico rumore era quello prodotto dal pennino della penna d'oca che veniva abilmente e velocemente fatta percorrere sul foglio di pergamena da Claude, e il battito del cuore di lui, che tamburava tumultuoso nel suo petto, anche se le ragioni erano tutt'altre. Non per la folle e insana ricerca di una risposta che molto probabilmente non avrebbe mai trovato. Bensì per Esmeralda. Per quella fanciulla che meno di un giorno prima aveva stretto contro il suo petto. Della quale aveva sentito il profumo della sua pelle, la morbidezza dei suoi capelli, e la perfetta aderenza dei loro corpi. Tenerla stretta a sé, anche se per pochi istanti, era stato il Paradiso al centro dell'Inferno. Una sensazione unica e travolgente che lo aveva tormentato per tutto il giorno seguente, torturandolo nei modi più crudeli e svariati di cui la memoria, l'amore e il desiderio potevano usufruire per far impazzire un uomo. Oh, piccola Esmeralda! Se solo tu vedessi dentro di me quanto sia puro e vero il mio amore!!! Sarebbe... Ah, inutile! Tanto anche se lo vedesse... Rimarrà sempre innamorata del suo bel capitano. Tutto ciò che avrebbe detto o fatto... Non sarebbe valso a niente se lei avesse continuato ad amare quel Febo di Chateaupers.

Oh, piccina mia! Amore della mia vita! Se solo tu sapessi quanto conti per quest'uomo di Dio! Sei tutto ciò per cui da sette mesi a questa parte vivo. Sei diventata una pietra miliare per me. Salvami da questo inferno in terra che è diventata la mia vita. Sei tutto ciò che desidero, tutto ciò che voglio. Mi hai strappato gli occhi da Dio, e ora il tuo pensiero mi strugge e tormenta giorno e notte. Ti odio. Perché ti amo e so che da te non avrò altro che il tuo disprezzo. Perché seppure io tenti di tornare ad amare Dio come un tempo, non ci riesco. Penso sempre a te. Alla tua danza, al tuo dolce sorriso che sveli ai passanti per ricevere in cambio qualche moneta. Per quella tua voce d'usignolo, celestiale che ogni mattina sentivo dall'alto della mia torre, che mi accompagnava tutti i giorni tutto il giorno.

Abbi pietà di questo povero prete innamorato di te!

Poi, d'improvviso sentì un tintinnio nella piazza che lo riscosse dai suoi pensieri. E il rumore del portone immenso chiuso gli confermò il sospetto: qualcuno era entrato nella cattedrale. Che fosse lei? Che il Signore avesse ascoltato le sue preghiere e gli avesse concesso una notte d'amore con quella piccola e dolce creatura? Il tintinnio l'aveva riconosciuto. Era quello delle monete che aveva tra i capelli d'ebano la sua amata rondine! Era entrata nella cattedrale! Che volesse andare da lui? No, non poteva essere vero! Decise di aspettarla. E iniziò a girare per la stanza con passo veloce e nervoso, impaziente di sentire bussare la porta e vedere quel musetto da dietro quel rude legno.

Dopo qualche minuto, che a lui sembrò un'eternità, si fermò al centro della stanza. E prese un bel respiro profondo -Va bene, Claude, calmati.- disse a se stesso. Poi si diresse e scese le scale, imponendosi di stare calma.

Quando arrivò fu come se il tempo si fosse fermato e con cautela si avvicinò a lei. Era... Un angelo. Bella da impazzire. E lei neanche lo sapeva. E non l'avrebbe amato mai. Come era ingiusta la vita a volte! Si schiarì la voce.

-Posso aiutarti?- chiese lui dolcemente.


***


La fanciulla si voltò di scatto spaventata, come se fosse stata trovata con le dita nel vasetto della marmellata.

-Io..- disse per poi rimanere in silenzio. Non aveva idea di come mandare avanti il discorso. Era totalmente incapace di intendere e volere. Doveva chiedergli perdono ma non sapeva proprio cosa fare. Come dirlo. Era stata tanto occupata a decidere se andare o meno che non aveva pensato a cosa dirgli. E senza sapere cosa dire, non avendo il coraggio di domandargli perdono, rimase in silenzio. Quell'uomo, vestito di nero, sempre cupo in volto, le metteva una certa soggezione.


***


Claude la guardò, incantato. I raggi del sole attraverso alla vetrata donavano alla figura una nota divina che lo lasciò senza fiato. Non poteva crederci. La sua bambina era così bella da sembrare una dea. Una piccola dea dell'amore. Le sue labbra carnose si erano schiuse e avevano emesso un sussurro. Melodioso quanto impercettibile. Per poi guardarlo con quei suoi occhioni grandi da bambina. Occhi che avevano espresso tutto il timore e il rispetto nei suoi confronti. Tutto in un fuggevole sguardo. Che gli aveva concesso per pochi istanti prima di chinare lo sguardo.

-No... Non avere paura di me. Non voglio farti del male.- disse cercando di rassicurarla con la sua voce. -C'è qualcosa che vuoi dirmi, bambina mia?- chiese ancora lui.


***


Esmeralda alzò lo sguardo con quei suoi occhi spalancati meravigliosi, chiedendosi se potesse fidarsi di quell'uomo che tanto l'aveva fatta soffrire in passato. Quell'uomo nero che l'aveva seguita più di una volta, che aveva pugnalato il suo Febo, il suo sole. Il suo amore. Che aveva cercato di possederla proprio in quella stessa cattedrale, in una cella di una delle due torri, non ricordava bene dove. Che le aveva fatto scegliere tra la morte e l'amore. Forse non poteva fidarsi, ma doveva mantenere la parola data a sua madre. Non poteva deluderla, teneva troppo a quella donna per vedere sul suo viso un'espressione delusa. E dopo lunghissimi minuti durante i quali rimase in silenzio, schiuse le labbra per parlare.


***


Vuoi uccidermi mia piccola rondine? Sarebbe molto più facile e veloce farmi bruciare all'Inferno che rimanere di fronte a me, a così poca distanza, sgranando i tuoi begli occhioni dolci, intensi, profondi. Il tuo corpo divino, risplendente della luce di Dio, è caldo e vivo e anche immobile riesce a scatenare in me delle sensazioni che mi tormenteranno per i prossimi giorni e le prossime notti. Il mio corpo brucia di desiderio per te, povera piccola innocente che non sai niente dell'amore e che ti ritrovi a essere oggetto di contesa, anche se non dichiarata, non potrà mai esserlo!, tra un bel capitano che ti incanta con il fascino della sua armatura e delle sue belle parole, ma che non t'ama, e me, che pur non essendo bello come lui, fremo d'amore per te. Se solo riuscissi a capire che oltre alla bellezza il tuo Febo non ha niente di meritevole per te! Oh, mia dolce creatura! Hai schiuso nuovamente le labbra! Cosa vorrai dirmi mai? Parole d'odio un'altra volta? Ti prego no! Non avvelenare per me quelle labbra di rugiada per ferire ulteriormente il mio cuore, che pulsa ancora sangue nelle mie vene solo grazie al fatto che tu sei viva e salva! Non ne sopravviverei! Ti prego... Ti imploro mia dolcissima rondine!


***


La zingara, non immaginandosi mai più i pensieri che passavano nella mente del tenebroso arcidiacono, rimase sorpresa da quell'espressione implorante che vide dipingersi sul volto dell'uomo nero. Deglutì e poi si decise a parlare.

-Io.. Sono venuta per... Chiedervi perdono per.. il mio comportamento dell'altra sera. Mia madre.. Mi ha mandato qui per chiedere il vostro perdono e.. In effetti... Se voi non mi aveste trovata forse a quest'ora non sarei più con mia madre. Vi siete... Comportato bene e io.. Sono stata maleducata con voi. Spero.. Che possiate perdonarmi.- disse chinando il capo non riuscendo a sostenere il suo sguardo. Ora che si era umiliata, voleva solamente sparire da quel posto, non aveva più alcun motivo di restare lì. Accetta le scuse e lasciami andare via! Ti prego, ti prego ti prego! Pensò la fanciulla terrorizzata all'idea di dover restare ancora un istante di più in quel posto.


***


Perdono? Perché mai dovrei perdonarti? Io... Non ho niente da perdonarti. So che non volevi ti trovassi io, che mi odi perché ho ferito il tuo capitano. So che per quello che ho fatto non mi perdonerai mai. Sono io che devo implorare il tuo perdono. Se dovessi tornare indietro lo rifarei, tuttavia. Perché non cambierò mai opinione su di lui. Nei suoi occhi c'era solo lussuria e desiderio. Io invece...Ti amo. Il mio desiderio è dovuto all'amore smisurato che sento nascere in me nei tuoi confronti. So che non è giusto. E questo mi tormenta ogni istante della mia vita. Ma è più forte di me. Non riesco a non amarti. Sei l'essenza dei miei giorni. Io avrò vita solo fino a quando tu sarai in questo mondo. Ah, smettila di dire tutte queste belle cose a te stesso, Claude! Non serve a niente dirle a se stesso. Pensa piuttosto a qualcosa da dirle. L'uomo si schiarì la voce.

-Io.. Non ho niente da perdonarti, mia piccina. Tu.. mi odi. Ti capisco. Se solo tu riuscissi a capire il motivo delle mie azioni, allora forse... Riusciresti a apprezzare ciò che ho fatto per te.- fece lui.

-Mai! Non potrò mai capirti, né tanto meno potrei apprezzare l'uomo che ha pugnalato il mio Febo, il Sole!- rispose lei con gli occhi furiosi.


***


Apprezzarti, maledetto prete infernale? MAI. Non potrei mai farlo! Solo un pazzo potrebbe apprezzare il gesto di un assassino pazzo e geloso! Io non lo sono ancora. E il mio odio per te è troppo radicato. Perché oltre a ferire lui, hai fatto del male anche a me! Non ti è bastato privarmi della luce?! no. Dovevi farmi soffrire ancora! Perché la sofferenza che ho provato non era abbastanza, vero?! Ah, ma tu brucerai all'Inferno! Pagherai per le tue azioni, maledetto. In questa o nell'altra vita. Ma qualcosa la bloccò dal dire ciò che pensava. L'aveva affrancata. Ora poteva tornarsene a casa da sua madre.

-Vi.. Ringrazio per la vostra clemenza, monsignore.- disse più cordialmente che le riuscì. Poi accennò con il capo a un inchino, come le aveva raccomandato di fare sua madre, e si dileguò da quel posto. Percorse tutta la navata di corsa e una volta fuori, tornò a casa di corsa, senza mai guardarsi indietro, temendo che lui la seguisse.



Claude dal canto suo rimase fermo. Guardandola sparire oltre il portone immenso della cattedrale. Rivolgendo pensieri colmi di amore a quella leggiadra e imprevedibile rondine.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sorprese e Scelte ***


Il mattino seguente la giovane zingara si alzò presto dal letto, non appena i raggi del sole illuminarono il suo letto. Si andò a lavare, osservando il proprio corpo. La sua pelle, abbronzata per la continua esposizione ai raggi del sole, era macchiata da lividi in corrispondenza delle braccia, nel punto in cui lui l'aveva afferrata la sera prima. Vivido era ancora il ricordo del terrore provato. Odiava la notte. Era una paura che derivava dal lungo periodo che ella aveva trascorso in prigione, privata di cibo, acqua e luce. Privata di tutto ciò che era necessario per gli uomini, quasi che lei non fosse una creatura umana, bensì infernale, come quel prete maledetto aveva affermato nel corso della sua visita. La amava, ma lei no. Lei aveva sempre temuto quell'uomo vestito sempre di nero, cupo in volto e solitario. Clopin le aveva sempre insegnato che quelle sono le persone più pericolose che esistano, perché non si sa mai cosa passi per la testa.

Lei amava il sole, la luce, la vita, il suo Febo. Tutto ciò le ricordava i momenti felici della sua vita breve, innumerevoli e tanto distanti. Le sembrava di aver vissuto un'altra vita prima di quel fatale 6 gennaio. O di aver sognato tutto ed essersi svegliata solo in quel momento da un sogno tanto bello quanto illusorio.
Non poteva tornare a Notre Dame. Quasimodo non avrebbe potuto aiutarla, anche se questo le aveva promesso. Come poteva esserle d'aiuto una persona che prendeva ordini dal prete? Non era possibile. E così doveva cavarsela da sola. O restava e sopravviveva nei sobborghi di Parigi, sola e abbandonata da tutti, in compagnia del poeta e della madre, o sarebbe dovuta partire. Partire? E lasciare così il suo Febo solo, nella malinconia e nella tristezza? Senza di lei? La stava cercando. Che speranze avrebbe avuto di trovarla, se lei fosse scappata via? Doveva restare. Piuttosto di andarsene via e rischiare, sarebbe meglio restare al sicuro e vivere, nella speranza che lui la trovasse.
Si rivestì e nel farlo sentì un dolore pulsare sulle braccia. I lividi si erano gonfiati. Sospirò. Perché riusciva a farle del male anche solo a toccarla? Perché la odiava così tanto da ferirla non solo psichicamente, ma ance fisicamente? Perché le faceva male? Non aveva sofferto abbastanza? Forse non gli bastava. A lui no, ma a lei sì. Lei che non aveva mai provato l'esperienza del dolore, era sempre sfuggita a ogni piccola ferita, ora si trovava a piangere, soffrire, una cosa che non si era mai aspettata di provare. Dolore. Una parola tanto sconosciuta allora e così familiare adesso. E tutto per una sola persona. Il prete. Lo odiava, l'aveva fatta soffrire, lei e la sua gente. L'aveva perseguitata, decimata, aveva sterminato il suo popolo, che ora non era più su questa terra.
Odiava lui, uomo di Dio, che fingeva la pietà e la misericordia e la fratellanza verso gli indigenti, i pezzenti come lei che erano costretti a vivere della bontà degli uomini, troppo egoisti per pensare agli altri. Come poteva un uomo come lui provare anche solo a pensare di sapere cos'era l'amore e sperare di essere ricambiato? Mai avrebbe potuto innamorarsi di lui. Come poteva? L'odio per lui scorreva nelle sue vene ancor prima che tutti questi eventi prendessero l'avvio.
Non sapeva il suo nome, però riconosceva distintamente la sua figura, il suo passo, la sua voce, il suo sguardo, la sua forza e... il suo tocco. Violento e possessivo. Bramoso. Le faceva ribrezzo. Come tutto d'altronde le era odioso. Guardò fuori dalla stanza e guardò il sole. Febo l'avrebbe trovata, ne era certa. Non sapeva come, ma era certa che un uomo bello e forte come lui l'avrebbe ritrovata presto. Anzi, lei l'avrebbe aiutato.. sarebbe andata da lui. Non poteva aspettare. Con lui sarebbe stata al sicuro da tutto e tutti. Persino da quel prete maledetto. L'avrebbe amata e protetta, ne era sicura.



                                                                                                                                 ***


Il mattino seguente Claude Frollo fu svegliato, come ogni mattina, da Quasimodo.
Aveva trascorso maggior parte della notte sveglio, pensando alla sua bellissima gitana. A quel momento in cui ella era entrata e aveva colmato la stanza con il suo profumo, con la sua giovane e bella immagine, con i suoi occhi da cerbiatta. Con la sua ingenuità e con il suo amore per quel bel capitano. Era riuscita a nominare il suo nome anche lì dentro, nella sua cella. Non sapeva perché lo odiasse tanto. Però sapeva che questa era la situazione e che a nulla sarebbero valsi i suoi sforzi di farle cambiare idea. Era così certa dell'amore del suo bel Febo che non credeva possibile che lui l'avesse abbandonata. Non ne aveva la conferma, l'aveva letto la sera prima nei suoi occhi. Quando era fuggita. Lo considerava l'essere più odioso del mondo perché aveva ferito il suo sole. Ebbene sì, l'aveva fatto. Però per proteggerla. Il suo atto di amore a poco era valso, perché lei... si era persa dietro l'illusione di un cavaliere, solo per la sua bella presenza. Egli sì, era bello e giovane, più di lui. Ma dentro era vuoto di ogni sentimento. Se avesse saputo, la povera piccina, che era stato lui a guidarlo, ignaro di tutto e troppo idiota per comprendere chi egli fosse, che era stato lui a farlo entrare nella stanza, a nasconderlo nell'armadio. Se avesse saputo che l'aveva seguito solo per verificare che avesse appuntamento con lei, che il colpo inferto non era stato dettato da un'azione premeditata, ma dalla gelosia, dall'impulso di proteggerla dal dolore che egli, rude, rozzo e insensibile soldato, le avrebbe inflitto, perché così sarebbe andata, forse allora avrebbe smesso di pensare a lui. A quel soldato fidanzato con quella ricca borghese, che l'aveva costretto a guardare l'esecuzione.
Lui non poteva averla. Così rude e ignorante, incapace persino di ricordarsi il suo nome, storpiandolo e ridendo del suo errore, accampando scuse tanto ignobili come solo un soldataccio da birreria e bordello poteva fare. Era l'essere più inutile sul pianeta e ancora pretendeva di poterla toccare impunito. L'aveva ferito profondamente, e ancora si malediva per non averlo eliminato fisicamente una volta per tutte. Poi si rammentò le parole che la sua piccina aveva pronunciato quando le era andato a far visita, in quella cella.
“ è morto? Perché mi parlate di vivere allora?” gli aveva chiesto guardandolo con degli occhi vuoti, privi di alcuna volontà. Come se lui, privandola del suo Febo, le avesse estirpato la linfa vitale, il sangue dalle vene, l'ossigeno dai polmoni, la luce dagli occhi. Ma come poteva una creatura divina e infernale come lei, avere a che fare con un uomo come quel capitano? Non era possibile. Come non lo era che amasse lui. Una ragazza così attenta alla bellezza esteriore, non avrebbe mai potuto amare un uomo più grande di lei e così.. vecchio. Nonostante l'età, presentava già dei capelli color argento e la fronte a stempiarsi. Mai l'avrebbe amato. Non era giusto. Non era giusto che fosse lei così giovane e lui così vecchio. Ella così bella ed egli così brutto. Ella zingara ed egli prete. Entrambi innamorati di qualcuno non ricambiava. Entrambi dannati per questo amore doloroso, ingenuo e sconfinato.
Dio, dio, dio! Perché lui? Perché aveva dovuto tentare proprio lui? Perché la sua anima doveva dannarsi? Perché il suo pensiero essere fisso su lei? Perché lui e non qualcun altro? Perché? Cosa aveva fatto di sbagliato, lui che aveva sempre fortificato il proprio animo con la fede in dio, la religione, la scienza, e aveva resistito, forte come la cattedrale che lo ospitava, qualsivoglia tentazione? Nessuno ama quanto dio. Era una frase banale quanto vera e potente. Una di quelle frasi che si insegnano fin dalla tenera età ai bambini, perché rifiutino il demonio e accolgano l'amore eterno e infinito di dio.
Egli stesso si vedeva insegnare queste parole ogni giorno a messa, soprattutto la domenica, giorno della messa per i fedeli, anche quelli meno bigotti e frequentatori. Dio è uno, è trino, è divino. Dio è perdono e amore. Se è vero ciò che si dice di te, mio signore, perdonami, perché io amo infinitamente una fanciulla. Ella è più di te, è la mia dannazione e ciò che desidero. Più del paradiso eterno, più del tuo amore, e forse anche del tuo perdono. È il mio pensiero fisso. E temo di non poterci rinunciarci, nonostante le mie intenzioni. Perdonami, signore.



                                                                                                                                            ***


Esmeralda guardava il sole. Giallo, grande, caldo, movente, ma inespressivo. Da quando si era svegliata era rimasta al sole a guardare le case, o meglio dire, baracche, che la gente aveva costruito per ripararsi dal gelido inverno e come fresco riposo nelle serate d'estate. Per quanto lo desiderasse, essendo nella propria natura di girovaga, non poteva abbandonare Parigi. Sua madre non l'avrebbe mai capita, non l'avrebbe seguita. E lei non voleva staccarsi da sua madre, anche se questo significava non poter girare liberamente per le strade, non poter ballare e dover condividere la città con quel prete, dormire e svegliarsi sotto lo stesso cielo e lo stesso sole.
Sua madre era l'unica famiglia che le fosse rimasta e non poteva abbandonarla. Da quanto le raccontava ogni sera, aveva viaggiato molto, conosciuto molte persone e visto molti posti. Ora voleva restare a Parigi. Vederla dalla superficie, dopo essere costretta a guardarla da un buco scavato nella pietra. Suo marito, invece, no creava particolari problemi. Diceva sempre che si sarebbe adattato, qualunque fosse la loro decisione.
Aveva una grande voglia di partire, di lasciare tutto e dimenticare le persone che aveva incontrato. Tutte le avevano fatto del male, tutte, tranne il suo Febo. Che però non arrivava mai. Lei lo aspettava ogni giorno, sempre, sperando di vederlo comparire da un giorno all'altro. Sperava che la trovasse e la portasse via di lì. Allora forse, in sua compagnia, sarebbe anche potuta restare, vivere a Parigi non da zingara, ma da moglie del capitano. Sarebbe potuta andare dal prete e dirgli che, nonostante tutti i suoi tentativi, lei avrebbe sposato il suo bel capitano e che sarebbe stata felice. Forse avrebbe anche pregato il suo promesso sposo di far celebrare le nozze lì, in quella chiesa, da lui. Per vedere quel prete che tanto le aveva fatto male, essere costretto a pronunciare quelle parole fatidiche... davvero voleva fargli così male? Egli l'amava e aveva cercato di uccidere il su Febo, di toglierle l'unica ragione di vita. Però anche lei amava, e per questo amore soffriva. Come lei si sarebbe uccisa senza dubbio, se avesse visto Febo, il suo sole, sposarsi con un'altra donna all'infuori di lei, come poteva condannare alla stessa sorte un uomo, nonostante fosse quell'uomo che tanto le aveva fatto patire? Lei non era così cattiva. Non aveva mai ucciso nessuno né desiderato che alcuno lo facesse. Clopin diceva che chi desiderava la morte di un’altra persona, era cattivo quanto chi commetteva il crimine. Lei non era così. Non voleva la morte del prete, solo che la lasciasse in pace. Voleva che la dimenticasse, che ritornasse in sé e svolgesse il proprio ruolo di prete. A quanto sapeva, i preti non potevano sposarsi né avere amanti.
Voleva essere felice. Non per sempre, giusto il tempo per dimenticare ciò che era accaduto. Aveva rischiato più volte di morire e tutto nel giro di pochi giorni. Aveva patito e visto la sua breve e allegra vita scivolarle via due volte nel giro di neanche una settimana. Non c’era niente che desiderasse più al mondo che non fosse pace, serenità. Desiderava che lui la abbandonasse e smettesse di amarla e seguirla. Voleva poter vivere la propria vita lontana da tutto e tutti, tranne ovviamente, ciò che della sua famiglia le restava. E il suo sole. L’avrebbe cercato e trovato, e insieme avrebbero potuto vivere felici, per quanto ne dicesse quel prete pazzo e geloso. Lui non l’avrebbe mai avuta. Lei era di Febo, e Febo soltanto. Lei amava Febo, solo lui. Non c’era nessuno che glielo potesse impedire. Sua madre non capiva ciò che lei provava. La guardava come se la deridesse. Come se lei fosse una bambina ancora troppo piccola per poter capire.
Ella credeva che quel prete fosse migliore di Febo, perché lo conosceva. Avesse saputo cosa aveva dovuto soffrire a causa sua, forse si sarebbe ricreduta. Come poteva pensare che Febo fosse peggiore di quel prete? Egli voleva solo amarla, tenerla stretta a sé, baciarla e sussurrarle parole dolci colme di amore e amarla. Lei voleva essere sua. Solo del suo Febo. Nessun altro uomo avrebbe avuto niente da lei, nessuno che non fosse il suo Febo, cui ella apparteneva. Voleva trascorrere il resto della sua vita lontano da quella città, con la madre, Gringoire, Djali e il suo amato Febo. Tutti insieme avrebbero potuto vivere a Parigi al sicuro in un primo tempo, e poi andarsene da lì, chiudere definitivamente con quella città infernale. Il pensiero di vivere con lui e formare una famiglia, la rendeva piena di gioia. Le fece tornare il sorriso e quando la madre si svegliò dopo un lungo sonno, trovò la ragazza che cantava e preparava con ciò che aveva trovato in giro, il pranzo.


                                                                                                                                                 ***


Era pieno mattino quando alla cella dell’arcidiacono bussarono Coicitier e monsieur Tourangeau. Claude Frollo li fece entrare, costretto dall’importanza degli ospiti più che da una sincera voglia di vedere il medico di corte che accompagnava in segreto il re in persona Luigi XI. Al re non si poteva certo negare una visita! E li accolse come se non sapesse chi fosse il misterioso ospite.
-Buongiorno, maestro Claude.- disse Coicitier entrando e rimanendo sulla porta, dopo averla chiusa.
-Buongiorno a voi, mastro Jaques.- disse cordialmente, guardandolo. Fortunatamente entrambi non avevano nessuna voglia, quella mattina, di perdersi nei complimenti di circostanza che anticipano qualsivoglia discussione tra persone che si detestino cordialmente. E così l’arcidiacono ebbe modo di condurre, sempre accompagnato dal medico di corte, il regale personaggio fuori le mura della cattedrale, impartendo qualche nozione fondamentale di alchimia, sotto lo sguardo rassegnato e discorde del medico, che ancora non aveva dimenticato la discussione avuta mesi prima tra quelle mura con l’arcidiacono. Disprezzare la medicina! Pazzo, pazzo, pazzo! Qual uomo di buonsenso, alla luce del XV secolo, sarebbe così pazzo da ricercare una pietra leggendaria e rinnegare la medicina, scienza tanto più reale e concreta, che affondava le radici nell’antica Grecia, nel metodo scientifico di Aristotele e nelle cure primitive di Ippocrate? Forse in tutta la Francia egli era il solo uomo che pensasse così. Che anche le migliori teste fossero un po’ pazze, era risaputo, ma mai aveva pensato che tale fosse il livello di pazzia che un uomo potesse arrivare a possedere. Era veramente indice di un uomo geniale questa dose di pazzia? O questo grado elevatissimo altro non era che indice della sua follia, e rischiava di mettere in dubbio la lucidità dell’arcidiacono? Tra tutti gli uomini colti e illustri che egli avrebbe potuto trovare a Parigi, proprio l’arcidiacono di Notre Dame aveva suscitato l’interesse del re di Francia?
Il nostro arcidiacono, dal canto suo era tanto preso dall’esplicare a sua altezza reale Luigi XI le teorie alchemiche, che non si curava minimamente di ciò che frullasse nella mente di monsieur Coicitier. In realtà non si curava neanche del fatto che lui fosse lì con loro, che ascoltasse o intervenisse. Sciorinava le teorie e si preoccupava di rispondere alle domande e ai dubbi solamente del sovrano. E non per alterigia o qualsivoglia superbia. Per quel semplice fenomeno che colpisce gli esseri umani, l’ascoltare solo ciò che ci interessa davvero, e non prestare ascolto a lezioni o persone che non suscitino in noi altri sentimenti che siano noia, disinteresse o indifferenza. E proprio da quest’ultimo sentimento l’arcidiacono era affetto nei confronti del medico di corte. Era un’indifferenza dettata dal fatto che l’uomo in considerazione provava già antipatia e quello stesso sentimento nei suoi confronti. E dalle idee che egli propinava come vere, senza ragionare su ciò che diceva.
E mentre giravano per la capitale, con il cielo terso e il sole caldo e afoso di Luglio che bruciava le loro teste, sentiva come un richiamo a guardarsi intorno, a cercarla, a controllare che fosse al sicuro. Ciò che era successo la notte prima non sapeva ancora come definirlo. Né sapeva con esattezza quali fossero le sue emozioni chiaramente. Era tutto così confuso nella mente del prete, che per un po’ non seppe più cosa stesse dicendo, parlava in automatico e non osava immaginare cosa il compare Tourangeau stesse capendo delle sue spiegazioni. Ma poco importava.
Come poteva essere che quella giovane strega … l’avesse incantato al punto tale dal distogliere la sua mente in una conversazione così importante? Forse che lui stesse realmente impazzendo? Che fosse a un passo dalla follia pura, dalla sua totale perdizione? Possibile, anche se in realtà il nostro arcidiacono sapeva fin troppo bene che così non doveva essere.
Finalmente arrivarono alla cappella di Saint-Michel e il prete ritornò padrone di se stesso, ben conscio di ciò che avrebbe dovuto dire. E iniziò a parlare.


                                                                                                                                ***


-Hai dormito bene?- chiese Paquette, con la voce semi addormentata.
-Sì, madre. Ho dormito bene, anche se non a lungo quanto voi.- rispose la Esmeralda, con la sua voce tenera e gioiosa.
-Sono contenta di vederti di buon umore questa mattina. Sei più raggiante del solito… È successo qualcosa?- chiese curiosa la madre.
-Andrò dal mio Febo, oggi…- disse tutta contenta, mentre terminava di preparare delle focaccine.
-Oh. Ma sei sicura che sia una buona idea? Non sarà troppo presto?- chiese lei.
-No, il mio Febo deve sapere che la sua Esmeralda è viva e che lo ama ancora. E così poi… potremmo stare insieme. E magari un giorno andarcene da Parigi. Io voglio... dimenticare ciò che ho passato qui. Non voglio più avere niente a che fare con questa città.- disse lei con la tristezza nella voce.
-Sai che quando vuoi puoi sfogarti con me…- affermò abbracciandola dolcemente. La stretta provocò alla fanciulla una piccola fitta di dolore. I lividi facevano ancora male. –Scusa… non volevo farti male..- aggiunse preoccupata.
-Non è colpa vostra, madre. È.. quel prete. L’altra sera quando mi ha trovata ho cercato di sfuggirgli e.. lui mi ha stretta per impedirmi di scappare. Ora ho dei segni viola sul braccio.- affermò lei.
-Non volevi tornare?- chiese la madre.
-Sì, lo volevo. Ma non volevo vedere lui, avevo paura di lui.- disse lei.
-Oh. A me non sembra così terribile. Comunque, gli hai chiesto umilmente perdono?- chiese lei. La figlia annuì.
-Non è stato così.. terribile come mi aspettavo. Credevo fosse peggio.- rispose la fanciulla. Poi sorrise. –Ora vado dal mio Febo… ci vediamo stasera.- disse lei per poi correre alla porta.
-Il pranzo!!- gridò Paquette.
-Mangiate voi, non ho fame!- fece lei per poi uscire e correre lontano da lì, per le vie di Parigi, fino a arrivare alle porte della città. E si fermò. Lo stomaco in subbuglio e un certo terrore che la attanagliava. E se avesse rivisto il prete e non Febo. Se… l’avesse fatta arrestare? Se l’avesse condannata al patibolo, facendola morire, togliendola al suo bel capitano? Se…? No, non poteva rimanere inerme e aspettare ancora. Aveva bisogno del suo sole, del suo Febo. Doveva vederlo e dirgli che era viva e vegeta. Che era salva. Doveva dirglielo. Doveva vederlo. Prese un respiro, coraggio, e mise piede nella città. I passanti erano troppo occupati nel loro chiacchiericcio per notarla, o forse era cambiata talmente tanto in quei mesi che nessuno la riconosceva più. Si districò con la sua andatura leggera e sinuosa fra il popolo di Parigi, sempre più vicina al luogo dove aveva tanto ballato in passato, sulla gelida pietra invernale. Nessuno sembrava notarla, e così camminò felice e spensierata verso la piazza, dove era certa che avrebbe incontrato il suo Febo.
Incurante del brusio che lentamente si era andato a creare, lei camminava per le strade, finché non vide dei soldati bloccare il vicolo e, vistala, correre verso di lei. Lei si guardò intorno e vide il popolo che, riconosciutala, la indicava come la strega di Notre Dame. La Esmeralda indietreggiò e iniziò a correre infilandosi in un vicolo, correndo a perdifiato. Quegli uomini armati erano sì alle dipendenze del suo bel capitano, ma non erano lui, e molto probabilmente le avrebbero fatto del male, come era già successo in passato.
Corse a perdifiato, come fosse ammattita, girando continuamente nei vicoli, senza mai voltarsi indietro, cercando di seminare quei soldati che le gridavano insulti e facevano baccano, facendo risuonare il rumore metallico dell’armatura. Rumore di cui lei aveva una paura folle, che ricordava bene e distintamente, e il freddo metallo contro la sua pelle delicata, che le aveva piagato la caviglia e l’aveva fatta gemere dal dolore. Correva, correva. Sperando di arrivare da qualche parte, sbucare ovunque, in un luogo affollato in modo tale che loro perdessero le sue tracce.
Il terrore che le scorreva nelle vene le faceva rigare il volto di lacrime.
Giunse a un tratto in una piazzetta piccola, discretamente affollata. E fece come per attraversarla, quando d’improvviso si fermò. Il prete. Era di fronte alla chiesa e stava parlando con due uomini. Indossava sempre la toga nera e ruvida. Si immobilizzò pietrificata e spaventata, come avesse visto un fantasma, lo guardò. Vide uno dei due uomini guardarla e poi richiamare l’attenzione del prete. Oh, no.


                                                                                                                                        ***


Erano ore che i tre uomini stavano sotto il sole a parlare. Claude iniziava a non poter più sopportare quel caldo di fine luglio che invadeva la città, e lui che, con la tonaca nera, pativa il caldo più di tutti.
Da quando erano giunti lì, la sua mente era riuscita a rimuovere ogni cosa che non fosse necessario alla spiegazione. Stava andando tutto bene, finché Claude Frollo non si sentì tirare leggermente la manica da Coicitier.
-Mi scusi se la interrompo, maestro Claude. C’è qualcuno che chiede di voi..- disse quasi balbettando per l’imbarazzo.
-Chi è?- chiese allora, spazientito dall’interruzione. Jacques Coicitier non rispose, ma lo invitò a spostare lo sguardo su quella ragazza. Lui si voltò, e la vide. I suoi occhi erano dilatati dal terrore, il suo labbro inferiore tremava e il suo petto si alzava e abbassava a ritmo irregolare. Poi, a un tratto si voltò spaventata come se avesse sentito qualcosa di spaventevole. Lo guardò ancora un’ultima volta e poi attraversò la piazza e trovò rifugio nella prima via.
Claude la seguì con la coda dell’occhio per poi guardare il gruppo di soldati.
-Perché tanta fretta, cavalieri?- chiese, costringendoli a fermarsi. Quelli si fermarono e si avvicinarono.
-Monsignore arcidiacono… noi stiamo cercando una zingara. La strega che era sfuggita alla giustizia qualche giorno fa. È stata riconosciuta mentre girava per le strade della città. Lei per caso… non l’avrà vista?-
-L’ho vista che correva in quella direzione.- disse indicando il lato opposto.
-Speriamo di prenderla. Capitano Febo di Chateaupers ci ha ordinato di prenderla e consegnarla alla giustizia.- disse uno del gruppo al proprio compagno, abbastanza forte da farsi sentire dall’arcidiacono e dalla folla in piazza.
-Non avevo dubbi.- mormorò tra sé e sé il prete. Poi si voltò verso gli altri e riprese a parlare da dove era stato interrotto.


                                                                                                                                         ***

La Esmeralda non appena aveva visto il prete, aveva sentito il cuore aumentare il numero dei battiti, terrorizzata all’idea che potesse riconsegnarla alla giustizia. Lei, povera innocente che aveva confessato menzogne per non soffrire. Lei che l’unica colpa che aveva avuto era stata di amare un uomo. Lei che per colpa del prete si era vista andare al patibolo una volta, ora si ritrovava a mettere la propria vita nelle mani di quel prete. Eppure quegli occhi tanto gelidi in passato, la stavano guardando, ma non con gli stessi sentimenti. Erano arrabbiati un po’ e molto sorpresi di vederla lì, a Parigi. Lei lo guardò, incapace di decifrare il suo sguardo. E incerta se si potesse fidare dell’uomo che l’aveva mandata a morire.
Il rumore metallico, lontano ma incalzante e continuo, si avvicinava sempre più. Gli occhi terrorizzati lo guardarono ancora una volta, prima di prendere a correre verso sinistra e rifugiarsi dietro un angolo sporgente del muro che dava sulla piazza. Si rannicchiò per terra, con le gambe strette al petto, circondate dalle braccia. I soldati non erano ancora arrivati a prenderla.. come mai?
Lentamente, con cautela, si alzò e sporse pochissimo il viso, quanto bastava per vedere cosa succedeva. Le guardie stavano parlando con il prete. Il terrore tornò nel profondo del suo animo e del suo cuore. Si staccò, certa che l’avrebbe consegnata, e riprese a correre per le vie di Parigi. Corse a perdifiato, non sapendo più cosa stesse facendo né dove stesse andando. Non sapeva più niente, e aveva paura. Il sole era ancora alto, nonostante fosse passata qualche ora dall’incontro improvviso con il prete.
Si fermò sulla riva della Senna, e riposò all’ombra di un albero. Il sudore le tergeva la fronte. Sentiva le gocce scivolare sul suo corpo e, presa un po’ d’acqua dal fiume limpido si lavò le braccia e il viso. Le gocce d’acqua fresca le provocarono il sollievo sperato, e iniziò a bagnare anche il resto del corpo. Ignara del fatto che qualcuno la stesse osservando.


                                                                                                                                                ***


Durante quei pochi giorni, dall’alba del 23 luglio, anche qualcun’altro aveva trascorso dei momenti tormentati e affannati, e non era il nostro arcidiacono.

All’alba il patibolo era pronto, tutta la folla scalpitava come cavalli e tori per vedere l’impiccagione della bella zingara, di cui già una volta si era vista privata ingiustamente. Ricordava ancora un gruppetto di vecchie comari che gli si erano avvicinate, non appena aveva messo piede fuori dalla casa della sua bella quanto fredda Fleur-de-lys. L’avevano scongiurato, rifacendosi a tutti quei santi che abitavano il paradiso, di trovare la strega e impiccarla, perché loro erano delle donne vecchie, che non potevano sopportare che una zingara e una strega vivesse. L’avevano supplicato di riportare l’ordine in città, di fare qualcosa, lui, il capitano.
Spazientito dalla ressa di vecchie zitelle che si erano avvicinate a lui, il valente capitano si era allontanato liquidando quelle lamentevoli e leziose preghiere con un “lasciate che me ne occupi io, signore”, per poi andarsene.
Ora che la zingara era stata catturata, tutti aspettavano frementi di vederla morire, finalmente, la strega! La zingara che incantava gli uomini e che ne aveva ferito mortalmente uno.
Ora, in divisa, in sella al proprio destriero, guardava la folla ammassata, mentre i suoi uomini cercavano di contenere la folla, lasciando il corridoio aperto per il carretto e una certa distanza dalla forca alla schiera inferocita quasi del popolo grasso.
La zingara che aveva portato al bordello, così giovane e bella, l’aveva pugnalato proprio nel momento in cui stava per riuscire ad averla. Quella zingara con il corpo da gatta, gli occhi di bambina e le sue danze era riuscita a risvegliare fantasie che neanche la migliore delle puttane era riuscita a suscitargli. L’aveva desiderata in una maniera che non pensava esistesse, e tutta quella gentilezza ostentata altro non era che finalizzata a poterla rivedere senza la sua fidanzata e le sue amiche e poterla avere. Tanto ella lo amava, non avrebbe certo fatto resistenza.
E invece l’aveva pugnalato alle spalle, rivelando sotto quella maschera di giovane e tenera innamorata la natura malvagia che è propria degli zingari.
Peccato però che si fosse rivelata uguale a tutti gli altri… sarebbe stata una bella preda da cacciare, conquistare e vincere, magari anche più volte. Una bella fanciulla così, non poteva sfuggirgli. Non era certo tipo da avere rimorsi di coscienza, per il fatto di tradire la sua fidanzata. Non era colpa sua se le leggi non prevedevano rapporti prima del matrimonio. Eppure in qualche modo doveva pur dar sfogo ai suoi impulsi, con puttane e zingare, le uniche categorie di donne che, visto la bassissima considerazione che aveva di loro la società, non avevano diritti. Un vero peccato, comunque.
Lui e il resto della folla avevano aspettato qualche ora in silenzio, sudando sotto quel sole cocente di luglio. Perché il carretto ci metteva così tanto ad arrivare? Perché non arrivava quella stramaledetta zingara? Perché non moriva? Se da un lato, infatti, la zingara aveva risvegliato nel capitano pensieri poco casti, era anche vero che, dopo il tentato omicidio subito, il suo desiderio si era trasformato in odio puro. Aveva rischiato di morire per quella zingara, e ora voleva comunque la sua morte sopra ogni cosa.
Il tempo passava e la zingara non arrivava. Eppure aveva mandato i soldati a prenderla a Notre Dame. E aveva ordinato loro di cercarla, qualora non l’avessero trovata. Erano già due ore e mezza, pressappoco, che aspettava. Fece cenno a uno dei soldati di avvicinarsi.
-Dov’è la zingara?- chiese lui adirato, digrignando i denti.
-Non si è trovata. Non è nella cattedrale, signore. Lei è… scomparsa. Non la si riesce a trovare.- rispose quello, titubante e spaventato dalla minacciosa aria del capitano.
-Come è scomparsa? È pur sempre una donna. Trovatela e portatela qui. Non può essersi volatilizzata nel nulla.- disse irato come lo si era visto poche volte.
-Agli ordini.- disse lui per poi sparire in mezzo alla folla.
Era andato dal prete di Notre Dame e ne era uscito più furioso di quando era entrato. Maledetto prete dei miei stivali. L’aveva fatto arrabbiare così tanto che si era scordato del motivo per cui si era recato lì. Avevano violato Notre Dame, però questo non dava a lui il permesso di far sparire la fanciulla… Ah! Prete della malora!

Da quel giorno aveva trascorso le intere giornate a cercarla. Doveva trovarla. Doveva trovarla per riconquistare la fiducia della sua amata cugina e per riconquistare il favore del popolo e del re, soprattutto. Nella speranza di poter fare carriera e essere promosso al grado successivo.
E dopo tante ricerche, ora, eccola lì, che si bagnava fuori Parigi nelle acque della Senna. Nonostante i mesi passati in cella, si era ripresa dalla trasandatezza, ed era tornata la rondine libera di sempre. Bella come prima e ancora più seducente.. no! Era una cosa da dimenticare. Bisognava consegnarla alla giustizia, per ottenere la promozione e far sì che Fleur-de-lys fosse orgogliosa di lui.

La spiò. Rimase a guardarla mentre lei, non vedendo nessuno, si immergeva nelle deboli correnti della Senna e riemergeva tutta bagnata, con la sola camicia addosso. Sola, o almeno convinta di esserlo, e vigile, si ristorava nelle acque del fiume, limpide e cristalline...


                                                                                                                                                   ***


Dopo quel fuggevole incontro con la Esmeralda, Claude Frollo aveva terminato la lezione e si era congedato dai suoi illustri interlocutori e si era diretto verso il luogo dove aveva visto sparire la zingara. Non c’era. E lui che aveva pensato che fosse rimasta tutto il tempo dietro quel nascondiglio, aspettando che le guardie se ne andassero. Probabilmente dopo un po’ se n’era andata., chissà dove. Sospirò rassegnato. E si avviò alla cattedrale. Doveva ancora finire delle faccende lì. Non aveva tempo di cercare la zingara, nonostante avesse tanto voluto. E per dirle cosa? Tutto quello che aveva da dirle l’aveva già detto. Perché continuare? Perché cercare ancora di persuaderla che il suo capitano non la amava? Se l’avesse incontrato, l’avrebbe di certo capito da sé, forse.
Tornò alla cattedrale, illuminata. Salì le scale della torre e si rinchiuse nella sua cella. Tutto era esattamente come l’aveva lasciato. Era come se non fosse cambiato niente. E in quella immobilità, in quell'immutabilità, egli scorse come un segno, il segno divino che da tanto aspettava. Sulle grigie, scure e fredde pareti della cella, egli scorse in caratteri cubitali la parola, tra le tante formule, che aveva inciso all'apice della sua follia: ANAGKH. Decise in quel momento che non l'avrebbe più cercata, non si sarebbe più interessato a lei. A meno che lei non fosse venuta da lui, egli sarebbe rimasto nella sua cella a pensare, filosofeggiare, ricercare disperatamente la pietra filosofale, e impartire lezioni private al re, Luigi XI di Francia. Quella sarebbe rimasta la sua vita. Quella e nient'altro.






Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** miO fEBo ***


Il sole, alto nel cielo, stava ormai declinando. Si avviava al tramonto. Esmeralda si rivestì e iniziò a dirigersi a passo veloce attraverso i vicoli angusti, verso la città, per recarsi alla corte. Sì, anche se non c'era più nessuno della sua famiglia, lei avrebbe continuato a chiamarla così. I piedini morbidi e ambrati si muovevano agili e veloci sul selciato caldo, che le trasmetteva una piacevole sensazione di calore, torpore, e famiglia. Improvvisamente, dopo lungo tempo, aveva iniziato a ricordare qualcosa che non fosse legato alla prigionia.

 

Era una giornata come tante, lei era ancora una bambina, poteva aver avuto al massimo tre o quattro anni. Non si trovavano a Parigi, ma nell'aperta campagna, vicino a una cittadina.

Anche quella mattina c'era il sole, ma era pallido, invernale, freddo. Lei si era alzata che la stella era già alta nel cielo bianco. Dentro il carro del duca d'Egitto, il suo tenero e piccolo musetto era riemerso dalle coltri della pesante trapunta che Clopin usava per dormire, visto che condivideva il carro con lei. Gli occhioni grandi, scuri, si erano aperti emergendo da sotto la coperta. E avevano scrutato l'ambiente circostante alla ricerca del volto familiare e benevolo del patrigno. La chioma castana era sparsa sul cuscino, e dalla coltre emergevano le piccole manine che tenevano i lembi della coperta. Sbadigliò e si alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi tenendo le mani a pugnetto. Quando tutt'a un tratto, un profumo insolito aveva colto la sua attenzione. Era un buon odore, e la sua giovane mente si chiedeva cosa fosse. Non era il profumo dell'erba, l'avrebbe riconosciuta. Non era neanche qualche fiore particolare, giacché conosceva quella zona abbastanza bene dal conoscere a memoria i profumi di tutti i fiori lì vicino. Con la sua poca esperienza non sapeva descrivere cosa quel profumo caldo, che le ispirava qualcosa di avvolgente e croccante, chissà perché?, e di buono. Si era alzata e si era avviata verso l'uscita del carro, sua casa.

Lentamente aveva percorso i gradini di legno che la separavano dalla superficie terrestre. Aveva leggermente mosso il labbro mentre le manine si serravano al materiale e i suoi occhioni si fissavano sul punto dove i suoi deliziosi piedini avrebbero dovuto poggiarsi. Era agitata. Voleva andare da Clopin per chiedergli cosa fosse quel profumo. Inoltre, quella era la prima volta che usciva dal carro senza l'accompagnamento del padre. Clopin sarebbe stato orgoglioso di lei!

Quando finalmente il suo corpo toccò terra senza problemi, zampettò sui piedini verso il campo vero e proprio, ovvero il cerchio composto da tronchi di legno, intorno alle pietre che delimitavano il focolare.

Si era avvicinata tutta sorridente al cerchio, dove aveva riconosciuto il suo papà, e correva. E notò che più gli si avvicinava, più l'odore era buono e forte. Doveva essere il suo papà a emanare quel profumo... Il suo papà era tanto buono...

-Papà, papà... che cos'è questo profumo?- chiese tenera.

-È il profumo del pane. È la cosa più semplice e buona che ci sia al mondo. E ciò di cui tutti hanno bisogno per poter vivere. È il simbolo della nostra vita, tesoro.- le aveva spiegato allora e la piccola si era accontentata di quella spiegazione e l'aveva conservata, quasi avesse il terrore che quelle parole potessero scivolare via e abbandonarla sola proprio in quel momento.

 

Quell'odore che anni prima aveva tanto destato la sua curiosità, lo sentiva anche lì, per le vie acciottolate di Parigi, mentre cercava di ricordare quale strada avesse intrapreso al mattino per sfuggire alle guardie. Perché doveva sempre scappare da qualcosa o qualcuno, correre senza meta e ritrovarsi in posti sconosciuti? Sempre al tramonto, per di più. La giovane, rincuorata dal ricordo appena riaffiorato alla mente, ma spaventata all'idea di essersi persa di nuovo, vagò per le strade, pensando a Febo, ignara del fatto che l'amato soldato fosse vivo e la stesse seguendo e spiando da tutto il giorno.

 

                                                                 ***

 

La guadava da tutto il giorno, nascosto dagli arbusti che la sponda del fiume offriva, come perfetto nascondiglio. Non voleva ancora rivelarsi, per quello ci sarebbe stato tempo. Voleva prima vedere cosa facesse esattamente la giovane, dove vivesse e se fosse sopravvissuto qualche altro sans-papiers alla strage della settimana precedente.

Ancora doveva capire come diavolo avesse fatto a sfuggire al patibolo... Non si dava pace per questo affronto che aveva subito da parte di quella giovane spaurita e assassina. Come aveva fatto a eludere le guardie che soprassedevano Notre Dame a ogni porta? Come era riuscita a non essere riconosciuta da nessuno? Eppure la notte precedente la sua presunta esecuzione, la luna era piena, quindi avrebbe dovuto risultare evidente a chiunque passasse di lì... ah! Ma che senso aveva, ormai? Ora l'aveva ritrovata, e questa volta, niente al mondo sarebbe riuscito a frapporsi tra lui e la strega: l'avrebbe avvicinata, e poi portata in cella, per farla morire il giorno stesso, se fosse stato necessario. Non l'avrebbe scampata, questo era certo, chiarissimo nella sua mente.

Verso il tramonto la giovane si era alzata, rivestita di tutto punto, con grande disapprovazione del capitano, che, mentre aveva elaborato quel diabolico, a suo dire, quanto infallibile piano, aveva indugiato più volte senza alcun ritegno sul corpo della bella zingara, che, doveva ammetterlo, riusciva ancora a risvegliare nella sua mente pensieri che di pudico avevano ben poco. Aveva indugiato sui suoi virginei seni, sul suo ventre, sulle sue gambe lasciate al sole, forse anche eccessivamente scoperte. Ma cosa poteva saperne la zingara, che dietro a quegli arbusti si nascondeva l'uomo che aveva detto di amare e che ora, mentre pensava a una maniera efficace per ucciderla una volta per tutte, si eccitava al vedere il suo corpo bagnato e mal coperto dai suoi vestiti? Di certo sarebbe stata entusiasta di saperlo lì, e avrebbe avuto la folle idea di corrergli incontro, magari chiamarlo anche “amore”, come è solito che si comportino le giovani ragazze innamorate. Avrebbe anche potuto dirgli che l'amava e che non poteva vivere senza di lui. Dai ricordi di quella sera fatale, visti i discorsi che lei aveva fatto, sarebbe anche potuta andare così. Anzi, quasi sicuramente sarebbe andata così, non aveva dubbi.

Quando la vide alzarsi e allontanarsi, aspettò qualche istante e poi la seguì. Seguiva il suo passo leggero e danzante di una fanciulla troppo spensierata, dolce e bella per destare sospetti sulla sua colpevolezza. Eppure quel pugnale era della fanciulla, ne era certo: si ricordava di averlo intravisto sotto la gonna di Esmeralda, quel mattino in cui lei era salita nell'appartamento della sua fidanzata, Fleur-de-lys. E una cosa che aveva sempre avuto, era buona memoria. L'unica cosa che lo stupiva era quanto lei fosse stata abile nel nasconderlo al capitano degli arcieri del re, e di averlo saputo tirare fuori nel momento più opportuno, quando ormai lui era a un passo dal poterla avere. 

Ormai non aveva più importanza, lei l'aveva pugnalato e niente di quello che sarebbe potuto essere stato, sarebbe accaduto. Quella fanciulla, all'apparenza tanto ingenua, ma scaltra come una volpe e agile come un felino, non poteva che vederla come una nemica, una strega che aveva cercato di ucciderlo, incantandolo con la sua bellezza e il suo atteggiamento di bambina innocente. L'avrebbe presa con sé con l'inganno, esattamente come aveva fatto lei, e poi l'avrebbe condotta in prigione, e questa volta non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarsi alla cella, a costo di doverla sorvegliare di persona.

La fanciulla vagava per la città, quasi fosse incerta su dove andare, e lui colse l'occasione per avvicinarsi.

-Vi siete persa, bambina mia?- chiese lui, sorridente. La zingara si era bloccata e dopo qualche istante si voltò verso di lui.

 

                                                                              ***

 

Esmeralda stava vagando per la città, ignara di dove fosse e quanto tempo fosse passato. Pensava solo ed esclusivamente al suo Febo. Al suo sole senza il quale non poteva vivere... Chissà se stava pensando a lei, o si era trovato qualcuno che colmasse quel vuoto che il suo amore aveva lasciato in lui.

Vagava da ore probabilmente, quando sentì una voce, quella voce, rivolgersi a lei. Il cuore tamburellò forte forte come non accadeva da tanto tempo. Come se niente fu desse, la voce dell'arcidiacono scomparve dalla sua mente, sostituita da quella del suo bel capitano. L'aveva trovata, infine! L'aveva sempre saputo! Sarebbero rimasti insieme e sarebbero fuggiti via da quella città, che tanto aveva causato loro del male e tanto dolore: non voleva più rivedere quel vecchio prete.. Voleva dimenticare, rifarsi una nuova vita, lontana da Parigi, con la persona che più amava.

-Sì…- rispose voltandosi verso di lui. Con un nodo che le serrava la gola e le lacrime agli occhi dall’emozione.

-Ti sono mancato?- chiese lui con un sorriso beffardo sul volto. Lei sorrise nel vederlo.

-Sì, molto, mio Febo!!- rispose riscuotendosi da quello stato intorpidito e stupito, per lasciare spazio alla sua solarità, appena riconquistata alla vista del suo amato. Lui sorrise.

-Che ci fate tutta sola fuori Parigi, bambina mia?- disse senza cercare di nascondere una certa voluttà.

-Camminavo…- rispose lei –e mi sono persa…- riprese lei.

-Posso riaccompagnarvi in città, se lo gradite.- ribatté lui, sfoggiando tutta la cavalleria di cui era capace. A tanta dimostrazione di cavalleria, la gitana arrossì, e annuì, afferrando saldamente il braccio che l’uomo le stava offrendo. Un soldato e una zingara. Per lei non c’era niente di più logico al momento. Febo era più grande di lei, ma non così vecchio come il prete. La sua armatura rifulgeva splendente ai raggi del sole, donando una gioia immensa alla piccola zingara. Non sapeva perché, ma stare con Febo la rassicurava. Era tranquilla, non solo perché lui era il suo amato e l’aveva cercata in lungo e in largo, dando così prova del suo cieco amore; anche perché sapeva che, finché sarebbe rimasta al suo fianco, le guardie non le avrebbero torto un solo capello. Lui non l’avrebbe permesso.

Con lui stava bene, lo sentiva. Non poteva sentirsi meglio di sì. Il cuore era palpitante e dopo giorni, mesi di totale buio, con Febo era tornato anche il sole. Era come se la vita fosse tornata a scorrerle nelle vene… La paura provata in quei pochi giorni di libertà, di incontrare quel prete a ogni angolo della strada, che una volta trovata avrebbe potuto… Continuare a cercare di averla, ormai senza alcun controllo, la terrorizzava, finché, tornata a casa, al sicuro, non tirava un sospiro di sollievo. Ora tutto quel timore era scomparso, con la gioia e la conferma della sua speranza, che Febo era vivo e che il prete le aveva mentito, in carcere.

 

                                                                            ***

 

Febo, dentro di sé, sorrideva. Molto presto l’avrebbero elevato di grado. Perché come aveva promesso alla zingara, la stava sì, riportando in città, ma non le aveva precisato ancora quale sarebbe stata la destinazione. Ciò non significava che lui non lo sapesse: le segrete del Palazzo di Giustizia. L’avrebbe fatta rinchiudere lì, e questa volta niente avrebbe impedito alla zingara di finire al patibolo. Nessuno poteva attentare alla sua vita senza pagare. Non importava chi fosse e perché l’avesse fatto (anche se al capitano il movente sfuggiva ancora!), doveva pagare, ed era disposto a tutto pur di farsi giustizia. Ignorando ciò che la zingara ancora, nonostante tutto, fosse in grado di suscitare in lui, continuò per la sua strada, trascinandola dietro con sé.

La giovane non aveva ancora realizzato dove stessero andando, quando oltrepassarono le porte della città e le vie, man mano che si avvicinavano alla cattedrale, all’Ile de Cité, sempre ingombre di banchetti delle botteghe, i carretti che passavano, trainati da muli o asini e poi le carrozze nobiliari, trainate da eleganti cavalli purosangue.

 

                                                                           ***

 

 

 Lei si guardava intorno, cercando di riconoscere la strada che l’avrebbe riportata a casa da sua madre, il poeta Pierre e dalla sua Djali, che quel giorno aveva deciso di rimanere con il suo padrone. Come sarebbe stata contenta sua madre di conoscere finalmente l’uomo di cui tanto lei le parlava! Finalmente avrebbe visto quanto bello e gentile era, e avrebbe smesso di difendere quel prete maledetto, infernale, che la desiderava.

Era talmente felice ora, finalmente, dopo tutti quei mesi di terrore, che poco importava dove stessero andando, l’importante, almeno per la giovane zingarella, era stare insieme. Voleva solo questo. Un dubbio la assillava, però non ebbe il coraggio di aprire bocca. E invece di pensare al peggio, cosa che in qualunque altra situazione avrebbe fatto (soprattutto in compagnia del prete!) la Esmeralda pensò, da ragazza ingenua e innamorata che si stessero dirigendo a casa sua, del suo bel capitano.

-Mi state portando a casa vostra?- chiese lei, ingenuamente.

-Vicino a casa mia... se non ti dispiace..- rispose non più gentile come prima, facendo scaturire un moto di sorpresa in Esmeralda. Perché ora si comportava così?

-N..no…- farfugliò lei confusa.

 

                                                                                ***

 

Febo, dal canto suo, era stanco di voler fingere con quella strega, bellissima strega. Voleva semplicemente consegnare la fanciulla, vederla sulla pubblica piazza e essere aumentato di grado, in modo tale da poter sposare la bella Fleur-de-Lys. Da quando la zingara era sfuggita per la seconda volta, alla giustizia, era più irrequieta del solito, e sospettava che lui centrasse qualcosa nel fatto che fosse sfuggita alla giustizia.

Doveva farla morire. Non poteva permettere che fosse macchiato il suo onore di capitano delle guardie. Se voleva essere qualcuno, doveva dimostrare che niente e nessuno poteva prendersi gioco di lui, soprattutto una zingara accusata di stregoneria.

Erano ormai arrivati di fronte al maestoso palazzo, severo e austero, quando dovette fermarsi e voltarsi verso la sua accompagnatrice.

-Qualcosa non va?- chiese lui sornione, un malvagio ghigno dipinto sul volto.

 

                                                                          ***

-Perché… mi avete portato qui?- chiese lei spaventata. In effetti era in quello stato di pensieri da quando aveva visto il profilo del minaccioso palazzo rivelarsi da lontano. Non aveva capito perché si stessero dirigendo là, finché il profilo non si era materializzato nella facciata, con le sue porte di bronzo e ferro, quelle pesanti porte che per mesi le avevano vietato di vedere il suo sole.

-Perché voi mi avete ferito, zingara. Mi hai pugnalato quasi mortalmente e non ho alcuna intenzione di far passare l’azione impunita. Chi commette un crimine, deve pagare. E per quanto tu, con il tuo visetto grazioso possa piacermi.. devo far rispettare la legge. Sono il capitano degli arcieri del re. Devo rispettare per primo la legge, se voglio che gli altri lo facciano. Quindi ora vieni con me per pagare le tue colpe.- concluse Febo di Chateaupers in tono duro. Lei sgranò gli occhi.

-No! Io non vi ho fatto niente! Credetemi. Come avrei potuto farvi del male? Voi siete tutto per me! Il mio sole, la mia vita… Io vi amo, Febo, come non è umanamente possibile. Perché mai avrei dovuto pugnalarvi in quella stanza? Io.. Lo so di essere stata trovata accanto a voi, ma… io non vi avrei mai potuto fare del male! Lo giuro sulla mia vita!- disse lei, disperata, con le lacrime agli occhi. Non aveva fatto niente per meritarsi tutti quei mesi di prigionia e tortura.

 

                                                                                   ***

 

–Se non sei stata tu, chi è stato allora?- aveva chiesto il capitano guardandola diffidente. Che cercasse di discolparsi, era un cliché, una scena già vista e rivista. Però quella ragazza sembrava sincera. Era una zingara, però già solo per la propria bellezza e giovane età (infatti non aveva mai incontrato una zingara bella e giovane allo stesso tempo!) dubitava che potesse essere falsa come gli altri. La ragazza, alla sua domanda aveva titubato a lungo, come se ci fosse qualcosa che la turbasse. E per questo lui non aveva esitato a farle pressione.  –Allora? Si può sapere chi è stato se non tu?- chiese lei.

 

                                                                              ***

Esmeralda titubava. Doveva raccontare proprio tutto quello che sapeva al capitano? Doveva consegnare un uomo alla giustizia? Non sapeva se sarebbe stato giusto, cosa avrebbe detto Clopin se fosse stato lì. Però sapeva chi era l’uomo in questione, e cosa le aveva fatto patire. Quel prete maledetto, che odiava con tutta se stessa. Che aveva commesso un crimine e poi l’aveva accusata. Che l’aveva fatta torturare e le aveva fatto quella proposta indecente nella cella. Che, anche se non l’aveva consegnata alle guardie, continuava a guardarla con la stessa lussuria e lo stesso desiderio che gli aveva visto negli occhi quel mattino nella cella. Si sentì terribilmente in colpa. Ma fu più veloce di lei, le parole le sfuggirono di bocca ancora prima di poterle frenare.

-Il prete maledetto.- rispose lei per poi raccontargli tutto ciò che lui le aveva raccontato. –è stato lui, io non c’entro niente, mio Febo. Credimi.- rispose lei.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=845311