Omnia Vicit Amor! di esmeralda92 (/viewuser.php?uid=71176)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parigi 23 Luglio 1482: Incontri. ***
Capitolo 2: *** Parigi 24-25 Luglio 1482: Lei dov'è? ***
Capitolo 3: *** Scuse e Perdono ***
Capitolo 4: *** Sorprese e Scelte ***
Capitolo 5: *** miO fEBo ***
Capitolo 1 *** Parigi 23 Luglio 1482: Incontri. ***
Claude Frollo
La
notte era fredda e ormai si intravedevano le primi luci
dell’alba. Erano di un rosato tenue, confuse con il color oro
arancio del Sole
che ormai si avviava a sorgere su uno sfondo che andava
dall’azzurro celeste al
nero profondo della notte. Ormai mancava poco al momento in cui tutti
avrebbero
saputo che la zingara era fuggita, non si trovava più nella
cattedrale, era
sparita. Come per magia. Quella stessa magia di cui era stata accusata
per aver
ferito il capitano Febo di Chateaupers. E quella stessa magia, molto
più
gentile e forte che aveva portato l’Arcidiacono Claude Frollo
lontano dal suo
Re e Signore, Dio.
Tornava dal Buco dei Topi, dove aveva lasciato la bella gitana
in compagnia della reclusa Gudule, dopo che la prima aveva preferito la
forca a
lui. Un pezzo di legno che non le avrebbe dato alcuna gioia. Anzi,
avrebbe
soltanto riso quando quell’esile quanto bello corpo di
fanciulla avrebbe
danzato per l’ultima volta per lei e per tutta quella
plebaglia troppo
ignorante per capire che quella dolce fanciulla era una vittima
innocente, non
dell’uomo, ma della vita e della fatalità con la
corda al collo sospesa tra
terra e cielo, tra vita e morte, tra Inferno e Paradiso.
A quei pensieri che gli si agitavano fortemente nel petto, tanto
da far scuotere ogni angolo più recondito del suo cuore e
del suo spirito,
Claude Frollo si fermò nel vicolo in cui camminava da un
po’ senza meta alcuna
e si sedette sui gradini di una casa. Si guardò indietro e
si accorse di non
aver fatto poi molta strada dalla Place de Grève, dove
immaginava che a ogni
secondo di più si delineassero i contorni scuri della forca,
del patibolo che
con tanto ardore la giovane aveva preferito a lui. In un improvviso
moto di
rabbia, l’Arcidiacono pensò di andare dal Capitano
delle guardie, l’amato Febo
che da lui era stato ferito senza che mai lo sapesse, e rivelargli dove
si
trovava la zingara. Si alzò come per far diventare
realtà quel pensiero, ma
qualcosa lo fermò: l’amore incondizionato e
infinito, ne era certo, che sentiva
nei confronti della Esmeralda. Quella ragazzina che aveva guardato con
disprezzo, insultandolo, chiamandolo “Assassino”,
ferendolo più di quanto un
uomo potesse essere ferito dalla donna che ama. Non aveva mosso un
muscolo
quando le aveva confessato ripetutamente l’amore che provava
per lei; i suoi
occhi erano rimasti aridi quando l’aveva visto piangere per
lei; lo aveva
guardato con indifferenza, con odio, per aver ferito Febo. Eppure,
anche se lei
ormai sapeva che il suo amato capitano era vivo, aveva continuato a
chiamarlo
assassino. Ogni spiegazione che aveva cercato di fornirle, non era
valsa a
niente. Lei lo odiava e così avrebbe fatto per tutta la
vita, breve o lunga che
fosse.
Ripensò al suo viso, ai suoi capelli ricci, neri, ai suoi
occhi
che coprivano le sfumature dal miele all’ambrato al nocciola;
a quel corpo
sinuoso che lei muoveva con grazia e sensualità ogni volta
che danzava. Si era
dannato nell’istante in cui aveva visto il corpo di lei.
Sentì la propria anima
bruciare, il corpo andare a fuoco e tremare di scosse violenti.
Bruciava, si
consumava ogni giorno, ogni ora, ogni minto, ogni secondo, ogni istante
di più
per quella fanciulla, e nonostante lei lo odiasse, lui continuava ad
amarla,
anzi.. sembrava che più lei lo odiasse, più il
suo amore per lei aumentasse.
L’avrebbe amata per tutta la vita, si sarebbe dannato per
l’eternità, sarebbe bruciato tra le fiamme
dell’Inferno per lei. Anche
all’istante. Come poteva affermare di amarla, se poi la
consegnava alle
guardie? Se la faceva condannare dopo averla salvata solo
perché lei lo aveva
rifiutato. Si era tolto da quel vicolo e stava camminando avvolto nella
scura
veste da prete diretto al Palazzo di Giustizia, quando quel pensiero
gli balenò
in mente. Si strinse nel mantello per il freddo, si voltò e
si diresse verso la
Place de Grève a passi lunghi e veloci. Doveva sbrigarsi se
voleva che la
ragazzina attraversasse la piazza senza essere vista, cosa che iniziava
a
diventare molto improbabile con il Sole che si innalzava sempre
più e gli
abitanti di Parigi che si svegliavano. Claude tornò al Buco
dei Topi e chiamò
la reclusa.
- Gudule… Gudule!- ripeté più volte a
bassa voce.
-Chi siete?- domandò la donna dalla perpetua ombra della sua
cella.
-Sono colui che vi ha portato la zingara!- lei si avvicinò.
-Voi mi avete portato non una zingara, ma mia figlia! Siate
benedetto, signore.- l’Arcidiacono, che benedetto non si
sentiva proprio e che
aveva ben altri progetti che far conversazione con la reclusa, non
perse tempo,
non sapendo inoltre come rispondere a una frase del genere, visiti i
pochi
rapporti umani che aveva avuto durante la sua vita, se non con uomini
colti e
sapienti.
-Ho bisogno che mi riconsegnate la fanciulla. Devo portarla
dagli zingari prima che sia troppo tardi e che venga vista attraversare
la
piazza e impiccata.-
-Non privatemi della mia bambina, signore, non ora che l’ho
ritrovata dopo quindici lunghi anni..- fece pregandolo.
-È l’unico modo per evitare che venga trovata.-
-Io non me ne vado senza mia madre. E poi.. Non vi voglio. Io
appartengo solo a Febo. – disse in tono duro Esmeralda
guardandolo a testa
alta. Lui cercò di ignorare la fitta di dolore che aveva
colpito il suo cuore e
che lo aveva fatto sanguinare. Non avrebbe mai potuto averla, mai
avrebbe
potuto amarla come neanche il capitano poteva pensare si potesse amare
una
persona, la propria amata.
-Peccato che l’unica persona disposta ad aiutarvi ora sia IO
e
non il vostro bel capitano.- ribatté con altrettanta
durezza, come per
sottolineare il concetto.
-Dove ci volete portare?- chiese la donna che non aveva compreso
il motivo della durezza nella melodiosa voce della figlia.
-Nel posto in cui vostra figlia è cresciuta. È
l’unico posto
dove sarete al sicuro. Dopo l’assedio di Notre Dame della
notte appena
trascorsa, non posso garantirvi sicurezza e protezione
all’interno delle mura
della cattedrale, giacché il diritto di asilo è
stato infranto dai ministri del
Re. - parlò così e guardò le due
donne, e poi volse lo sguardo verso il cielo.
–Sarà bene che prendiate in fretta una decisione.
Se restare qui e temere, o
seguirmi e ritrovare la Libertà.- disse tenendo lo sguardo
fisso su Esmeralda,
mentre pronunciava queste ultime parole. Le due donne si guardarono e
annuirono.
-Vi seguiremo- affermò alla fine la donna più
anziana.
Claude annuì. E aiutò a passare le due donne
attraverso il buco
neanche un’oretta prima, la madre aveva aperto per far
entrare la figlia.
Quando le due donne tornarono alla luce del sole, sorrisero. Poi
Esmeralda senza che dicesse niente, iniziò a camminare
davanti ai due,
guidandoli.
L’arcidiacono la seguì. D’altronde, lui
non sapeva dove si
trovasse con precisione. La seguì, senza mai distogliere lo
sguardo da quella
figura che possedeva una grazia e una bellezza incredibile e
indicibile, anche
se portava ancora i segni della prigionia, nonostante il suo soggiorno
a Notre
Dame. Allora gli era sembrata un fantasma. Ora aveva ripreso un
po’ di forze
grazie al cibo e alle attenzioni che lui tramite il gobbo e Quasimodo
stesso si
erano premurati di darle.
Camminava sicura, con passo veloce e aggraziato sul selciato
freddo di Parigi, quasi stesse danzando, e non stesse fuggendo dalle
guardie
che molto probabilmente non avendola trovata nella cattedrale, quei
pagani
profanatori della Casa del Signore!, si sarebbero subito messi alla sua
ricerca.
Lei questo probabilmente lo ignorava, o forse non se ne dava
pensiero per la sua ingenuità. Sta di fatto che quella
zingara, correndo,
danzando stava guidando se stessa, la madre appena ritrovata, a dire
della
donna, e l’anima dell’Arcidiacono verso la
salvezza.
Sì, anche l’anima di lui, perché,
nonostante sapesse che non
avrebbe mai potuto possederla o amarla, saperla viva avrebbe fatto
nutrire in
lui la speranza che un giorno, dimentica sia di ciò che lui
aveva fatto al
capitano, sia dell’amore provato per quel bel giovane che
l’aveva aggirata,
illusa solo per il proprio piacere, avrebbe potuto amarlo. Allora tutti
i
tormenti che fino ad allora avevano scosso il cuore
dell’Arcidiacono, sarebbero
svaniti per sempre, lasciando posto alla felicità e
all’amore per lei.
Pensava a questo quando la bella gitana si fermò. Lui si
fermò a
sua volta a debita distanza.
-Cosa succede?- chiese egli guardandola.
-Non potete seguirci. Siamo alle porte di Parigi, qui inizia la Corte.
Non è consigliato agli stranieri entrare.- disse rimarcando
il termine
stranieri con una nota di disprezzo nei suoi confronti.
–Sempre che voi teniate
alla vostra pelle.- aggiunse poi. Lui annuì.
-Sarà meglio per voi non farvi più vedere a
Parigi. Almeno il
tempo necessario perché tutta questa vicenda. Madonna, conto
sul vostro
buonsenso.- disse poi rivolto alla madre. La donna annuì.
Lui rivolse alla
fanciulla un ultimo sguardo e quello che ottenne in cambio fu uno
sguardo colmo
d’ira nei suoi confronti. Le labbra serrate e il capo chino
mentre gli occhi
erano fissi nei suoi e lo guardavano con odio. L’uomo di Dio
dovette fare una
fatica immensa per ricambiare lo sguardo. Non tanto per il timore di
ferirla,
visto che lei non sembrava assolutamente curarsi dei suoi sentimenti.
Piuttosto
per il fatto che quegli sguardi colmi d’astio, quel tono duro
e colmo di
disprezzo che la giovane usava sempre quando gli rivolgeva la parola,
lo
feriva, vedendosi allontanare sempre più la già
flebile speranza che la gitana
potesse amarlo.
Distolse lo sguardo dopo pochi istanti e si rivolse alla madre
di Esmeralda.
-Che il cielo vi assista, Madonna. Pregherò per le vostre
anime.- le disse con cortesia.
-Che il cielo assista anche voi, monsignore. Dio le renderà
grazia per averci salvate.- rispose lei sinceramente riconoscente.
L’uomo chinò
il capo e tornò sui suoi passi, senza mai voltarsi indietro. Quando arrivò
nei pressi della piazza
principale, la aggirò ripercorrendo la strada che quella
stessa notte, poche
ore prima, aveva percorso tenendo per mano la zingara. Quella dolce
piccola e
morbida mano che aveva accettato senza protestare la sua, che
l’aveva stretta
per paura di essere lasciata indietro ed essere portata a morire.
Quella stessa
strada che lui aveva percorso trascinandola senza opposizione da parte
di lei
fino al patibolo. Lei che l’aveva seguito intravedendo una
speranza di vita, o
forse semplicemente, troppo terrorizzata dalla morte ventura, troppo
spaventata
dal futuro, per poter avere da ridire in quel momento.
Quando arrivò alla porta laterale che dava
l’accesso a una rampa
di scale che dava sulla galleria, entrò. Percorse di fretta
le scale e si gettò
sul letto non appena arrivò nella sua stanza.
***
Esmeralda
rimase ferma in mezzo al viottolo a guardare l’uomo
che si allontanava finché non lo vide più. Il suo
sguardo era ancora carico
d’odio e disprezzo; infatti, anche se l’Arcidiacono
aveva distolto lo sguardo,
troppo debole, preso dalla sua passione per lei, ebbene, lei non si
poteva dire
avesse fatto altrettanto. Non aveva distolto lo sguardo da lui un solo
istante.
-Tesoro, stai bene?- chiese la voce di sua madre. lei distolse lo
sguardo da quel punto fisso e la guardò. E tutti i suoi
problemi e le
preoccupazioni, soprattutto legate alla salute del suo amato Febo,
sparirono.
Ora era con sua madre!! Con la sua vera madre! L’aveva
ritrovata finalmente.
-Sì, madre, sto bene! Benissimo ora che siete con me!-
rispose
abbracciandola mentre sentiva finalmente il suo cuore sciogliersi dalle
catene
della paura della morte, che tanto l’aveva accompagnata in
quegli ultimi mesi.
–Dai, vieni, ti porto alla corte! Sarai sicuramente la
benvenuta!- disse
prendendola per mano e mettendosi a correre leggiadra come una farfalla
tra le
vie anguste che si diramavano al di fuori della città. La
donna sembrò aver
ritrovato le forze di un tempo, perché la seguì
senza arrancare. La gioia di
aver ritrovato la sua piccola le aveva una ragione per vivere, e
avrebbe fatto
di tutto per tenersi stretta la sua bambina. Nessuno
l’avrebbe più separata
dalla sua Agnès.
Dal canto suo, la giovine, felice, continuava a correre.
L’unico
pensiero che affollava la sua mente era quello di essere tornata a
casa. Di
essere nuovamente libera. Era viva e libera. E presto avrebbe rivisto
il suo
amato Febo. Appena fatto passare il tempo sufficiente per poter tornare
a
Parigi e non essere catturata, sarebbe tornata in città e si
sarebbe gettata
tra le braccia del suo amato Febo, del suo Sole. Forse la
città si sarebbe
dimenticata di lei, ma lui no! La amava. Come avrebbe potuto
dimenticarsi della
sua amata. L’avrebbe amata e l’avrebbe sposata. Al
diavolo la iettatura di quel
prete assassino. O che quantomeno aveva cercato di ucciderlo. Non
avrebbe mai
avuto lei, né tantomeno il suo amore. Lei era solo del suo
Febo. E di nessun
altro.
Camminò
a lungo tra i vicoli felice, talmente tanto da non
rendersi conto che le strade erano deserte, e che la solita musica non
c’era e
che le risate, provenienti dalla taverna centrale, il cuore pulsante
della
Corte, dove si tenevano le riunioni e venivano prese le decisioni
importanti,
anche quelle, quella sera mancavano. Se ne accorse quando ormai erano
all’inizio del vicolo. Era troppo silenzioso. Si
fermò di botto e si guardò
intorno. Era tutto deserto.
Presa
dal panico strinse forte la mano della madre. che ricambiò
ancora più spaventata della figlia. Fino a quel momento lei
si era sentita al
sicuro in quel posto. Era il luogo in cui Agnes viveva e
l’aveva seguita senza
alcun timore. Se però adesso anche sua figlia era
terrorizzata, lei lo era
cento volte di più.
-Perché non sento le loro voci?- domandò la
giovane gitana più a
se stessa che alla madre, con voce tremante e flebile. Lentamente si
diresse
camminando verso la taverna. Passò davanti alle finestre che
davano sulla
strada, ma si rifiutò di guardare per paura di quello che
avrebbe potuto
vedere, o meglio, non vedere. Mille pensieri, uno peggiore
dell’altro, si
affollarono nella sua mente. Continuò a stringere la mano
della madre, mentre
si fermava di fronte alla porta.
La mano esitò un attimo sospesa tra il suo corpo, fragile
come
un cristallo, e l’anello di ferro della spessa porta di legno
borchiata dello
stesso materiale del grande anello. Poi si decise: stare fuori dalla
porta non
aveva senso, e prima o poi avrebbe dovuto sapere cos’era
successo agli altri,
alla sua famiglia. Afferrò con forza l’anello e
tirò. La pesante porta si aprì
e un fascio debole di luce illuminò la strada. Lei
entrò imitata prontamente
dalla madre.
La stanza era vuota. I tavoli ancora da sparecchiare, i boccali
di vino erano rovesciati sui tavoli o per terra e le sedie erano state
ribaltate.
In quel posto regnava il caos più assoluto.
Guardò istintivamente verso il
camino e vide che la fiamma si stava spegnendo lentamente.
Andò subito a
prendere altra legna e ve la gettò sopra. In poco tempo la
fiamma si ravvivò e
tornò nella stanza lo scoppiettio tipico del fuoco.
La madre si avvicinò alla figlia.
-Cosa è successo?- chiese preoccupata.
-Non.. Non lo so.. Di solito resta sempre qualcuno qui. Deve
essere successo qualcosa di davvero importante perché si
siano allontanati
tutti dalla Corte…- fece triste. La madre la
abbracciò forte a sé come per
tranquillizzarla e infonderle coraggio. La giovane rimase tra le
braccia della
madre a lungo, finché il sole non fu alto nel cielo. Allora
con la madre si
alzò da terra e iniziò a mettere a posto quel
luogo. Solo quando ebbero finito,
ormai era arrivato il mezzodì, sentirono gli effetti della
stanchezza. Quelle
ultime ore erano state così intense e le emozioni erano
tante e tanto forti che
l’adrenalina aveva fatto loro dimenticare che erano mesi per
la giovane, e anni
per la donna che non dormivano in un letto.
-Preparo il pranzo e poi… andiamo a riposarci.-
affermò la
gitana con voce atona.
-Come… Come desideri.- asserì la madre. anche se
quei gitani le
avevano portato via la sua bambina, lei era cresciuta con loro. Erano
diventati
la sua famiglia. Lei era affezionata a loro. E vederla così
fragile le fece
stringere il cuore. Non era giusto. Aveva sofferto troppo la sua
bambina. Non
era giusto che soffrisse ancora. E pregò la Maria Vergine
che la famiglia della
piccola tornasse a casa.
***
Claude
Frollo si svegliò che il sole era già alto nel
cielo
terso. Si preparò e scese nella cattedrale dove di
lì a poco si sarebbero
raccolti i fedeli per la S. Messa. Percorse l’intera galleria
a passo lento.
Pensando a cosa avrebbe potuto dire alla folla quella mattina?
Si fermò meravigliato quando notò che la porta
che dava sulla
stanza dove fino a quella notte la zingara era stata scardinata dalla
folla dei
gitani che erano venuti a cercarla. O forse erano stati i soldati. Poco
importava. Era una barbarie che nessuno poteva permettersi di
commettere per
poi continuare a professarsi cristiano.
Guardò dentro la stanzetta. Gli sembrò ancora di
vederla lì,
distesa con la schiena rivolta alla porta, che dormiva di un sonno
angelico. A
quell’ora era già sveglia e si apprestava a
intrattenersi con Quasimodo,
l’unico di quel mondo parigino di cui sembrava accettare la
compagnia e con il
quale avesse instaurato un legame.
Quanto avrebbe voluto che quell’angelo avesse preferito lui
al
patibolo. Perché non accettava di capire che quel
soldataccio da caserma, per
quanto potesse essere bello, non la amava e probabilmente la volta in
cui
l’avesse rincontrata… l’avrebbe
arrestata e fatta condannare? Non era un
concetto difficile da capire. Eppure era certo che non gli avrebbe dato
ragione
neanche se l’avesse visto con i propri occhi.
Sospirò e riprese a camminare. Non percorse molti metri che
inciampò in qualcosa. Era un cadavere. il corpo di un
gitano, vista l’assenza
di uniforme, era riverso a terra con
una
pozza di sangue che si spargeva intorno alla figura
all’altezza del ventre. Era
stato passato con la spada di un soldato. Fece il segno della croce, e
poi
furioso si diresse verso le scale. Con sua grande sorpresa quel corpo
non fu il
solo che incontrò lungo il tragitto che portava alla
cattedrale. A un tratto
decise di non contare neanche più, tanti erano i corpi, di
soli zingari, che
aveva incontrato. E quello fu niente rispetto a ciò che lo
aspettò nella
cattedrale. L’immensa cattedrale era tutta cosparsa di corpi
ovunque.
-Kyrie Eleison per costoro che hanno profanato il tuo tempio e
si sono permessi di irrompere armati nella tua casa e infrangere il
sesto
comandamento sotto ai tuoi occhi. O Dio onnipotente, perdonali
perché nella
loro presunzione hanno peccato e si sono condannati
all’Inferno. E perdona
anche me che nella mia miseria e nullità mi permetto di
giudicarli; proprio io
che pecco ogni istante pensando a quella fanciulla, che antepongo lei a
te, mio
Signore. Che sono arrivato a ferire un uomo spinto dalla passione e
dall’amore
per quella fanciulla. Volevo soltanto impedire che quell’uomo
le facesse del
male. Fisicamente e soprattutto spiritualmente..- poi si
fermò. Cosa c’entrava
l’amore per lei con il massacro che quegli empi avevano
commesso? Niente.
–Perdona il tuo pastore che discerne più la
realtà dal sogno, ciò che è
amore…
da ciò che è vana passione. Perdona questo
dannato e le anime dei soldati che
hanno compiuto questo sacrilegio. Sia fatta la tua volontà.-
disse terminando
la sua preghiera. Poi tornò su nella galleria e
andò a cercare Quasimodo. Lo
trovò che era nella cella dove aveva vissuto per quel mese
la zingara.
-Dov’è?- chiese il guercio con la voce roca di chi
parla
raramente.
-Al sicuro. Alla Corte.- rispose lui sospirando.
-Davvero?-
-Sì, Quasimodo. Davvero.- rispose l’arcidiacono di
josas. Egli
annuì, parendo convinto della risposta.
-Chi.. Ha fatto tutto questo?- disse riferendosi a un corpo
morto poco distante dalla cella. L’ennesimo clandestino.
-I soldati del Re.- affermò l’uomo in nero.
–E quell’uomo non è
il solo. Ne hanno uccisi molti. Anche nella cattedrale. Mi daresti una
mano a…
portarli via?- chiese poi. Il gobbo annuì, e mentre il sole
raggiungeva il suo
apice in cielo, la galleria si illuminava rendendo ancora
più reale quel
massacro. La cattedrale illuminò tramite i colori sgargianti
delle vetrate
quello scempio donando una luce irreale a quello spettacolo crudo cui
il prete
dovette assistere.
Quel girono le campane di Notre Dame non suonarono.
***
La
fanciulla si svegliò che il Sole anche quel giorno era
giunto
ormai al termine del suo corso. Osservò il luogo in cui si
era addormentata.
Era vicino al camino della Grande Sala della Corte, ormai vuota. Il
fuoco era
ancora acceso e nell’aria si sentiva un ottimo profumo di
zuppa e di pane
fresco. Si alzò a sedere appoggiandosi con le mani per
terra. E con una visuale
più ampia, notò sua madre dietro al bancone che
toglieva il lenzuolo di sopra
alle pagnotte appena lievitate e che si avvicinava al camino. Quando la
vide
sorrise.
-Finalmente ti sei svegliata, tesoro! Alzati così posso
cuocere
il pane…- lei sorrise e si tolse. Guardando il pentolone
dove si sentiva
ribollire la zuppa.
-Come… Hai fatto?- chiese stupita.
-Mi sono arrangiata con quello che ho trovato. Era avanzato
ancora qualcosa..- asserì la donna.
-Bene! Ho una fame..- esclamò lei felice.
-Sono contenta! Intanto apparecchia la tavola..- disse la madre
mentre la figlia prontamente ubbidiva. Non poteva crederci…
Finalmente era con
sua madre. aveva sognato tanto a lungo quel momento.. Istintivamente
guardò
verso il trono e sentì le lacrime velargli il viso. Clopin..
Dove sei? Perché
non sei qui? Dove siete andati? Perché mi hai lasciato qui,
sola? Non mi hai
mai abbandonata. Mi giurasti che non sarebbe mai successo…
Perché mi hai
abbandonata? Pensò la zingarella sull’orlo delle
lacrime. Si sentiva così
fragile senza nessuno della famiglia accanto.
-Tesoro… Cosa è successo?- chiese Paquette.
-Non… Non ci sono.. Mi hanno abbandonata.- disse lei per poi
scoppiare a piangere come una bambina.
-Sono sicura che se la caveranno. Sono persone di mondo, sanno
ciò che fanno.- disse la donna.
-Ma mi avevano giurato..- poi il suo cuore balzò fuori dal
petto
al sentire qualcuno passare per la strada e uno scalpiccio come di
zoccoli
dietro all’uomo. Arrestò il pianto e si nascose
dietro la finestra sulla strada
per poter identificare chi fosse.
Il mio Febo è venuto a portarmi via! Ce ne andremo insieme
da
qualche parte tutti e tre insieme! Sarà contento di
conoscere mia madre! lui mi
ama tanto!! Pensò la giovine in trepida attesa sentendo i
passi dell’uomo
avvicinarsi così come lo scalpiccio, figurandosi
già di vedere il suo amato in
armatura che teneva per le redini il proprio cavallo, sul quale avrebbe
viaggiato insieme alla madre verso un luogo dove avrebbero potuto
amarsi liberi
dal fatto delle loro condizioni sociali.
I suoi sogni furono ben presto infranti quando vide passare il
poeta Pierre Gringoire affiancato dall’inseparabile capretta
Djali. Delusa ma
contenta in fin dei conti di vedere di non essere stata abbandonata,
uscì di
corsa dalla taverna e cose loro dietro.
-Djali!!- esclamò tutta contenta con la sua melodiosa voce
da
bambina. La capretta nel riconoscere la voce della padroncina si
voltò e le
corse incontro saltellando felice. Il nostro beneamato poeta, invece,
fece
ancora qualche passo continuando a filosofare. Quando si accorse che la
sua
intelligentissima allieva però non era più al suo
fianco, si voltò e sorrise
nel vedere quella graziosa fanciulla che era oltretutto sua moglie,
secondo i
costumi zingareschi, sana e salva e ben lontana dal pericolo. La
capretta felice
di rivedere la propria padroncina le saltò in braccio
belando allegra. Pierre
raggiunse entrambe le creature che gli avevano radicalmente cambiato la
vita.
La ragazza, felice di vedere finalmente una faccia amica, lo
abbracciò.
-Finalmente! Che cosa.. è successo? Perché
Clopin… Non c’è?-
chiese poi spaventata. –Dove sono tutti gli altri?- Aggiunse.
Gringoire la
guardò. Quegli occhi ancora da bambina terrorizzati dal
vuoto che li
circondava, lo guardavano con la speranza che i suoi più
grandi timori fossero
smentiti. Povera piccola graziosa
rondine, cosa puoi saperne tu dei dolori della vita? Questo non
è che l’inizio
di tante e future disgrazie che incontrerai. Tu, che ballavi
spensierata e
leggiadra come una farfalla e allietavi il buon popolo di Parigi, tu, o
dolce
zingarella, che ne sai delle sofferenze che toccano noi umani? Mi
dispiace che
tocchi proprio a me il ruolo di latore delle tue disgrazie, piccola.
Non avrei
mai voluto che le cose andassero così.
-Entriamo in casa, non mi piace rimanere in strada a parlare.-
disse lui per poi cingere affettuosamente le spalle di Esmeralda con un
braccio. Ed entrare in casa. Quando vide la madre, Paquette,
guardò la giovane
sorpreso. –Chi è costei?- chiese l’uomo.
-Mia madre, Paquette la Chantefleurie.- disse sorridendo orgogliosa
la figlia. E brevemente raccontò al poeta cosa era successo
da quando loro due,
quella notte, si erano divisi.
-Sono molto contento per voi, signore mie.- fece lui davvero
contento. Almeno aveva qualcuno al fianco che sarebbe stato forte per
lei.
-Ma ora dimmi, poeta, che cosa è successo a Clopin! Ti
supplico!-
esclamò tra le lacrime come una bambina. E fu allora il
turno del poeta di
narrare i fatti.
-Perché? Perché mi avete portata via da lui?!
Cosa volevate da
me?- fece piangendo.
-Nulla, solo salvarti. Se fossi rimasta non l’avresti visto
comunque Clopin. È morto prima di mettere piede nella
Cattedrale di Nostra
Signora.- fece triste. –Comunque… Qualcuno si
è salvato e starà sicuramente
vagando da queste parti. Ne sono sicuro.- rispose lui.
Ma la giovine rondine ormai non dava più ascolto a nessuno,
si
era chiusa nel suo piccolo quanto stravolto mondo interiore e rimase
tutta la
sera muta come la più bella statua di Venere.
Cenò e poi salutando
con
un lieve e flebile mormorio, andò a coricarsi in un angolo.
***
Aveva
impiegato tutto il giorno a sgomberare la chiesa e a pulirla
dal sangue versato da quei….. Non sapeva neanche come
definirli! Sentiva montargli
una rabbia dentro di sé ogni volta che pensava
all’orrore che era stato
consumato tra quelle sacre mura. E Quasimodo, per tutto il giorno gli
era stato
vicino e lo aveva aiutato. L’unica persona pura e innocente
oltre la sua bella rondine!
Era lui, semplice e ingenuo, che faceva tutto ciò che lui
gli chiedeva di fare.
Povero Quasimodo! Sospirò. Poi un passo cadenzato e
metallico lo distolse dai
suoi pensieri. Si voltò verso l’entrata. E vide il
capitano Febo di Chateaupers.
Sentì la rabbia montargli addosso. Lui! Che aveva rubato il
cuore della sua
piccina! Che l’aveva fatta innamorare perdutamente del suo
bell’aspetto e della
sua magnifica armatura! Lui che l’aveva illusa e abbandonata!
E che aveva osato
profanare la casa del Signore!
-VOI!! Come osate recarvi ancora in Chiesa armato e con aria
tanto spavalda, dopo aver profanato questa stessa Dimora di Dio! Uscite
immediatamente!
Che sia di monito una volta per tutte.-fece duro in volto trattenendo a
stento
la propria ira.
-Non mi fate paura, prete.- disse canzonatorio.
-Arcidiacono.- puntualizzò per poi sospirare. –Voi
potete
mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma sappiate, capitano- disse marcando il titolo con
disprezzo- che scappare però non potrete giammai
perché qua, vi sta guardando
Notre Dame. Sarà ella stessa a giudicarvi. E Dio
nell’altro mondo. Rimetto a
Dio ciò che non è di mia competenza, sta a voi
scegliere se seguire una volta
per tutte sulla retta via e salvare la vostra anima, o bruciare per
l’eternità
tra le fiamme dell’Inferno.- disse mentre lo sguardo
diventava glaciale e il tono
calmo, tanto che avrebbe disarmato il diavolo in persona. E poi si
voltò per
poi tornare verso l’altare, donde era venuto. Quando si
voltò poco tempo dopo,
il valoroso capitano degli arcieri di Re Luigi XI era sparito.
–La tua
spavalderia serbala per gli idioti
del
tuo seguito, non usatela con me. - mormorò più a
se stesso che non davvero al
Capitano con un piccolo sorriso trionfante sulle labbra.
La sera mangiò e si coricò nel letto troppo
stanco per
sperimentare ancora filtri nel suo piccolo laboratorio di alchimia. Se solo mi avessi visto quest’oggi in
Chiesa, ti saresti accorta di quanto il tuo “amato
Febo” sia solo un involucro
contenente pura e semplice boria e nulla più. Poi
si riscosse. È inutile prendersi
in giro, Claude, ti
avrebbe odiato solo di più. E con questi pensieri
in testa rimase sveglio
tutta la notte a rigirarsi nel letto.
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Capitolo 2 *** Parigi 24-25 Luglio 1482: Lei dov'è? ***
Il
sole era sorto da appena tre ore, la città era nel pieno
della
propria attività quando gli occhi caldi e grandi della
piccola
fanciulla si riaprirono. Da lontano giunsero i rumori della folla che
tranquilla aveva ripreso la sua normale attività dopo il
primo
giorno di smarrimento. La corte dei Miracoli era talmente silenziosa
e vuota che qualsiasi rumore, anche la più piccola
percezione era
palpabile e udibile come se quel suono si fosse propagato solo a
pochi metri dal loro rifugio. Si alzò e si lavò
il viso con l'acqua
fredda. Era stata una nottata lunga, quasi interminabile dovuta anche
alle alte temperature e all'umidità caratteristiche del mese
di
Luglio. Il vestito, ancora quello bianco che le avevano dato in
prigione e che lei aveva tenuto anche quando era rimasta a Notre
Dame, nella stessa casa di quel vecchio prete, ora le era aderente al
corpo, bagnato. Attraversò in punta di piedi il salone,
mentre la
sua mente ripercorreva tutti gli eventi cui aveva assistito in quella
sala, non per ultimo il racconto di Pierre sull'assalto alla
cattedrale e della fine che avevano fatto gli altri zingari. Quando
arrivò alla porta, la sua mano esitò. Fuori c'era
il mondo, immenso
e crudele, che in quegli ultimi mesi non aveva fatto altro che
portarle dolore e sofferenza, che era stato cattivo nei suoi
confronti, giovane zingara spensierata, semplice e ingenua che era
uscita dal proprio bozzolo per ballare fresca e leggiadra, come una
ventata di primavera anticipata per le vie di Parigi. Già, e
proprio
danzando aveva attirato l'attenzione del suo bellissimo Febo, il suo
sole. Aveva fatto breccia nel cuore della persona che amava e che
sarebbe arrivata un giorno a portarla via; via da quella
città, da
quel paese, via da quel mondo tanto crudele che le aveva fatto male.
Sarebbero
partiti insieme per un viaggio senza meta, con l'unico scopo di
scappare, fuggire via e non far sapere più niente di loro.
Liberi di
amarsi, lontano dagli occhi di tutti, e soprattutto, lontano da quel
prete che tanto la voleva senza però amarla! Quel vecchio
prete che
aveva tentato di uccidere il suo Febo, il suo bellissimo e splendente
sole! Ah, ma il bene trionfa sempre! Il suo Febo, ferito gravemente,
era tornato e presto, molto presto, il prete avrebbe pagato per le
sue azioni. Sarebbe andata da lui, avrebbe raccontato a lui la
verità, come effettivamente erano andate le cose e avrebbero
trovato
insieme il modo di farla pagare a quel vecchiaccio della malora. E
poi... Sarebbero fuggiti in un posto dove nessuno poteva conoscerli e
lì, finalmente, avrebbero vissuto felici e contenti. Djali e
sua
madre sarebbero partiti con loro e tutti avrebbero vissuto felici e
contenti.
Prese
un respiro e aprì la porta tutta contenta. Il Sole, bello,
rotondo
giallo illuminava le strade su uno sfondo celeste. Il cielo era
limpido, senza una nuvola. E le case diroccate della Corte, che di
notte assumevano toni spaventosi e lugubri, neanche fossero le
abitazioni di qualche spirito fantasma, si mostravano nella loro vera
natura, quella di case troppo malandate per ospitare nelle ore
più
fredde della notte, soprattutto d'inverno, i suoi coraggiosi quanto
incoscienti abitanti. Per questa ragione gli accattoni tutte le notti
si ritrovavano in quella sudicia taverna, in cui restavano fino a ora
tarda. Diede ancora un ultimo sguardo alla taverna e poi
guardò il
sole. E alla fine scelse il sole. Uscì da quella
tavernaccia, e
iniziò a correre ridendo per le strade e guardando
più il cielo che
non la strada, che avrebbe potuto benissimo percorrere a occhi
chiusi, tanto la conosceva bene. Corse a più non posso
finché ebbe
forza nelle gambe, a perdifiato. Corse, allontanandosi un poco dalla
città, correndo per i campi di fiori, e di grano appena
mietuto.
Corse leggera, come se i suoi piedini di fata non toccassero il
suolo, come se ella fosse fatta di aria, o una graziosa ninfa dei
campi. Corse felice ridendo, con una leggera brezza che le
scompigliava quei capelli color dell'ebano. Corse assaporando dopo
mesi di sofferenze e dolori l'aria pura della Libertà,
così dolce e
fresca che capì perché tutti la cercassero, a
volte per tutta la
vita. Donava una carica e un'energia tale che chi la possedeva si
sentiva padrone di se stesso, e padrone del mondo. Almeno questo era
quello che molti gitani le avevano sempre detto fin da quando era
piccola, quando lei con i lacrimoni agli occhi chiedeva
perché gli
altri bambini, quelli che non era gitani, non volevano giocare con
lei e la escludevano e venivano portati via dalle madri.
“Perché
sono invidiosi di noi. Perché noi gitani siamo liberi! Non
abbiamo
fissa dimora e possiamo girare il mondo; perché la nostra
società
non deve rispettare le loro stupide etichette e soprattutto
perché
siamo tutti liberi di gestire la nostra vita come più
crediamo.
Perché non c'è legge, se non la nostra, cui
dobbiamo sottostare.
Perché anche se non siamo ricchi e non viviamo in mezzo a
tutti
quegli agi come fanno loro, noi siamo più felici di
loro.” questa
solitamente era la spiegazione dei più grandi; e anche
Clopin
gliel'aveva ripetuto queste cose.
Al
ricordo di colui che era stato suo padre, suo fratello, e il suo
migliore amico si fermò, con le lacrime agli occhi. Si
fermò e
cadde in ginocchio piangendo. L'aveva lasciata sola anche lui. Alla
fine. L'aveva lasciata quando invece le aveva promesso che le sarebbe
stata accanto finché lei avesse voluto e ne avesse avuto
bisogno.
Perché non hai mantenuto la promessa? Io mi fidavo
di te!! io ho
ancora bisogno di te, papà. Papà dove sei...
perché mi hai
abbandonata? Io sono sola al mondo... Ho ritrovato la mia mamma,
è
vero ma... non è la stessa cosa. Tu.. mi hai cresciuta, mi
hai amata
come una figlia. Sei stato l'unico a esserti preso cura di me. Cosa
ho fatto di male da farti arrabbiare? Perché mi hai
lasciato? Avevi
promesso...pensò
rimanendo
inginocchiata per terra per lungo tempo.
***
E
mentre la piccola e innocente piangeva, qualcun altro, ignaro di
ciò,
si svegliò per poter svolgere le proprie funzioni religiose.
Ripeteva a macchinetta quelle parole che ormai dopo anni di
predicazione, sapeva a memoria. La cattedrale, maestosa e silente,
trasmetteva ai fedeli, o almeno gli sembrava, poiché questa
era la
sensazione che egli percepiva, un'aura di sacralità solenne
e
incombente, accentuata dai lumi dei lampadari a candele e dei ceri
accesi dagli stessi fedeli per chiedere aiuto e soccorso per se
stessi e i propri familiari. Era un'aura che non percepiva da anni, o
che forse fino a quel momento non aveva mai percepito. Era l'aura di
una cattedrale ancora offesa per l'umiliazione subita. Umiliazione
che ancora bruciante si manifestava ai fedeli, come per renderli
colpevoli e complici di quanto era accaduto. Per non essere
intervenuti a proteggere la loro Signora che tante volte aveva
accolto le loro richieste e che era sempre stata presente e pronta ad
accogliere chi aveva bisogno del suo aiuto. Non si era mai negata a
nessuno. E cosa aveva ottenuto, a aiutare sempre il prossimo? La
più
totale indifferenza. Quei fedeli, che si erano proclamati tanto
devoti, nel momento del bisogno l'aveva abbandonata in balia del
proprio destino, di quel massacro reputato ingiusto persino
dall'arcidiacono, per quanto odiasse i “sans
papiers”. Un'empietà
commessa nella dimora di Dio! Come potevano ancora quei soldati
professarsi cristiani cattolici e entrare in chiesa con disinvoltura,
come se niente fosse successo?! Come osavano?!
Quei
pensieri annebbiavano la mente dell'arcidiacono, e la rabbia era
talmente grande che quasi, per qualche strano e fortuito caso, era
riuscito a tenere lontano da lui il pensiero della bella zingara
dalla sua mente per qualche istante. Quella zingara! Riusciva a
penetrare nei suoi pensieri anche durante le funzioni! Era
incredibile! Non le bastava più presentarglisi davanti ai
suoi occhi
sotto forma di visione a tutte le ore del giorno e della notte. Lo
voleva per sé anche durante le funzioni religiose, in uno
dei
momenti più sacri della giornata. L'avrebbe davvero
distrutto se
avesse continuato a tormentarlo così. Quel disprezzo nello
sguardo
quando aveva preferito il patibolo a lui, quell'indifferenza quando
lui per l'ennesima volta le aveva confessato il proprio amore e
desiderio piangendo, inginocchiato di fronte a lei, come non aveva
mai fatto nella sua vita, quelle parole dure e taglienti che gli
aveva rivolto dopo che lui era tornato indietro per salvarla dalla
forca, perché, nonostante il dolore, lui l'amava, tutto
ciò era
ancora ben impresso nella sua mente, e bruciava, e il suo cuore era
diviso in due: da una parte l'Orgoglio ferito, che reclamava Vendetta
per l'oltraggio subìto, dall'altra parte il Cuore, che
nonostante
soffrisse per l'essere stato respinto era sempre innamorato di lei e
che voleva impedire che alla fanciulla fosse torto un capello,
perché
quella leggiadra e graziosa piccina aveva già troppo
sofferto le
ingiustizie del mondo a causa sua.
Vacillante
e con le immagini della bella donzella davanti ai propri occhi,
riuscì ad arrivare integro, almeno fisicamente, alla fine
della S.
Messa. Quando tutti i fedeli si furono allontanati, si
appoggiò
all'altare e chinò il capo. E prese dei respiri profondi.
Doveva
calmarsi. Doveva farlo. Dei non riusciva a togliersi dalla mente
quello sguardo duro che gli aveva rivolto quando si era fermata per
poi dividersi da lui definitivamente. Le faceva così tanto
orrore?
Perché? Perché aveva ferito il suo bel capitano?
Che, ne era certo,
non l'amava ma la desiderava soltanto? Perché non voleva
capire che
in realtà lui non la amava, che l'aveva desiderata soltanto.
Che
l'unica persona che l'amava davvero.. era un povero prete che si era
ritrovato a consacrare la sua anima a quella fanciulla, per la quale
provava un amore grande quanto era l'odio che lei gli riservava nei
loro incontri.
Sì,
incontri, perché di questo si trattava, di pochi, brevi e
taglienti
incontri. Si stava dannando l'anima e niente e nessuno avrebbe mai
potuto distoglierlo da quel pensiero fisso che gli stava logorando e
lacerando l'anima. Mai niente e nessuno aveva occupato così
invadentemente e prepotentemente la sua mente, fino a farlo delirare
durante le notti, nelle quali prendere sonno diventava notte dopo
notte una impresa sempre più ardua. La Religione, la
Scienza,
l'Alchimia con i loro misteri ancora da scoprire, persino loro
discipline severe e rigide, erano state più clementi di
quella
fanciulla. Persino loro avevano concesso riposo all'arcidiacono, per
permettergli di riacquistare le forze per poter tornare all'opera il
giorno seguente. Invece lei no, non gli dava tregua. Sembrava che il
tormento della sua anima fosse la forma più sublime di
divertimento
per quella bambina. Che vederlo piangere d'amore, essere il centro di
tutte quelle attenzioni, e rifiutarlo ogni volta, provocasse un
piacere talmente forte da convincerla a perseguire su quella strada.
Per torturarlo ancora, fargli visita nei sogni, durante gli
esperimenti di alchimia che da mesi non riusciva a concludere, come
se avesse spazzato in un attimo la conoscenza che aveva accumulato in
tutti quegli anni di studio, in cui tanto aveva primeggiato e si era
distinto dagli altri suoi coetanei. Sospirò e dopo aver
messo a
posto, se ne tornò nella sua torre. A finire gli esperimenti
che il
giorno prima aveva interrotto per la troppa stanchezza.
Sospirò e si
mise all'opera, senza arrivare, ovviamente, ad alcun risultato.
***
Non
seppe da quanto era lì in quel campo a piangere, ma quando
alzò
nuovamente lo sguardo verso il cielo, si accorse che era passato
comunque troppo tempo. Sua madre si sarebbe preoccupata per lei,
doveva assolutamente tornare a casa prima che calasse il sole.
Mancava ancora qualche ora al tramonto. E visto che non sapeva dove
fosse, non avendo badato alla strada che aveva percorso quel mattino,
presa da un momento di liberazione. Da tutte quelle angosce, paure,
da quelle mura che avevano tenuto imprigionata la sua anima e il suo
corpo in un luogo tetro e lugubre come doveva essere la morte. Quella
morte che aveva evitato per un soffio, proprio grazie all'intervento
di quel vecchio prete che l'aveva accusata di stregoneria. Quell'uomo
che l'aveva posta di fronte a una scelta. O il patibolo, o lui, o la
morte o l'amore. E che amore! “L'amore di un
dannato!” aveva
detto lui. E quello era. Niente di più niente di meno. Non
sapeva
molto sulla religione delle Chiese, chi era quel Dio che il buon
popolo di Parigi, come quello delle molte altre città che
lei nella
sua breve vita da zingara aveva visitato, tanto osannava. L'unica
cosa che sapeva era che i pastori, così si facevano anche
chiamare i
preti, l'aveva scoperto la sera precedente, non potevano sposarsi
né
amare nessuno che non fosse il loro Dio. Ne ignorava la ragione ma
tanto bastava per far nascere nel palpitante cuore della zingarella
nuovo odio e disprezzo nei confronti di quell'uomo tutto vestito di
nero che tanto la desiderava. Si alzò da quel suolo dove
aveva
riposato per ore, pensando a tutti i tristi eventi che avevano
caratterizzato quegli ultimi mesi. Si alzò e scosse la terra
che
aveva macchiato il suo misero abito. E poi iniziò a vagare
cercando
di ripercorrere la strada che aveva percorsa all'andata.
Iniziò a
camminare con passo sempre più spedito mentre il cielo
diveniva
sempre più scuro e il sole si avviava sempre più
verso il momento
del tramonto, colorandosi di toni sempre più accesi, fino al
rosso
sangue. La povera bambina, sola, lontana dalla città,
lontana da
tutto e da tutti, senza alcuna possibilità di incontrare
nessuno e
di essere dunque portata a casa. Era lontana da sua madre, dall'unica
persona della sua famiglia che le fosse rimasta e che potesse
prendersi cura di lei. Corse a perdifiato verso il Sole, sperando di
intravedere i primi casolari della città, mentre lucenti e
cocenti
lacrime le solcavano il viso. Non era mai stata da sola lontano da
casa per più di qualche ora, né mai si era
allontanata, né ne
aveva avuto il desiderio. In seguito però a quella serie di
eventi
che si erano susseguiti, e a quel perenne essere circondata da mura,
e fredde pareti di pietra, la tentazione di evadere, di liberarsi da
tutte quelle costrizioni, non adeguate al proprio animo libero, era
stato troppo forte e non aveva saputo resistere.
Corse
e camminò a fasi alternate, quando i polmoni bruciavano per
lo
sforzo cui la giovane fanciulla li sottoponeva. Infine la notte
calò,
e il Sole, anche quel giorno, andò a salutare l'altra parte
del
mondo, nascondendosi agli occhi della gitana, che man mano la notte
si faceva sempre più nera, si sentiva sempre più
spersa. E a poco
valeva la presenza delle stelle luminose in una notte come quella.
Non riusciva a tranquillizzarla niente. Solo la presenza del suo bel
capitano avrebbe potuto alleviare quella tetra notte, nera come nera
era la veste di quell'uomo del demonio. E questo la terrorizzava, la
rendeva ancora più insicura di quanto già non
fosse. Dei... che
cosa le era saltato in testa di uscire da sola senza neanche Djali
con se e non badare alla strada che percorreva. Era sola in un posto
che non conosceva. E non sapeva quali brutti e spaventosi ceffi si
potessero nascondere nell'oscurità della notte. Notte nera
senza
Luna, oltretutto. Con tante stelle, sì, ma senza luna.
Iniziò a
pregare la sua famiglia, Clopin e la sua anima che l'accompagnasse e
l'assistesse. Che non l'abbandonasse proprio quella notte. Che
tornasse a casa sana e salva. Pregò camminando
finché le gambe non
cedettero e lei dovette arrestare la sua camminata. Forse
è
meglio fermarmi. So quello che ho visto ma non quello che
vedrò. Se
andassi avanti probabilmente potrei fare brutti incontri, e ora come
ora è l'ultima cosa di cui ho bisogno. Qualcuno mi
verrà a
cercare... Almeno spero. Pensò la fanciulla.
***
E
non aveva tutti i torti. Più di una persona, sua madre e
Gringoire,
si erano messi a cercarla, non avendola vista tutto il giorno. Con il
cuore in affanno aveva girato quelle vie per tutto il giorno
cercandola, con il terrore di averla persa nuovamente, proprio quando
l'aveva ritrovata dopo quindici lunghi anni lontana da lei. A lei si
era unita subito la capretta, seguita a ruota dal giovane poeta,
timoroso egli di perdere la capretta, nonché la sua migliore
allieva. L'avevano cercata in lungo e in largo azzardando persino
qualche via vicino alle porte di Parigi, senza però
inoltrarsi più
del necessario nella città.
-La
mia bambina, la mia bambina... Hai trovato la mia bambina, la mia
piccola Agnes, Pierre, dimmi di sì!- ripeteva ormai come una
cantilena ogni volta che lo incontrava in un punto di ritrovo che
decidevano di volta in volta, per evitare di non perdersi, almeno
loro. E ogni volta il poeta dissentiva.
All'ennesimo
incontro, Pierre sorrise e propose:
-Sentite,
signora, e se andassimo a chiedere al monsignore della Cattedrale?
È
un mio amico e sono certo che se gli chiederemo aiuto per trovare la
nostra giovine rondine, non ce lo negherà.- fece sorridendo
al
ricordo del suo amico che qualche giorno prima, proprio con lui,
aveva ammesso di pensare a quella fanciulla. Inutile dire che la
donna accolse con entusiasmo la proposta. Poi parve riflettere bene
un attimo sull'idea.
-E
se ci vedessero le guardie?- chiese lei timorosa. -L'arcidiacono ci
ha detto di non farci vedere in città per un po'.- disse
ricordando
le parole del prete.
-Andremo
non appena il sole sarà tramontato. Stanotte è
una notte senza
luna.- disse lui. La donna rincuorata sorrise.
-Ottimo,
allora.- rispose lei anche se l'idea di non fare nulla fino al
tramonto non la tranquillizzava per niente. Guardò il cielo
e
rivolse alla sua bambina un pensiero di conforto, come se potesse
sentirla. E poi ritornò al rifugio accompagnata dalla
capretta e dal
poeta.
***
Il
sole era tramontato da tre ore, la notte era buia e nei vicoli poco
lontano dalla cattedrale si stava già animando la notte cui
partecipavano tutti i malviventi della città. Ladri,
tagliaborse,
prostitute, allibratori, soldatacci da taverna animavano quella
città
dalla duplice natura, sostituendo la ricca borghesia benpensante di
Parigi. Si sentiva già il vociare della feccia della
città, così
l'arcidiacono di Josas definiva quelle anime perse e senza morale e
dignità da fare del proprio corpo e dei vizi capitali la
loro
principale fonte di guadagno.
La
notte era senza luna, solo le stelle illuminavano una notte che
altrimenti sarebbe stata nera. Sulla città, già
ampiamente
oscurata, si stagliava l'immensa figura dell'imponente cattedrale.
Era nera come la notte e le sculture, i Gargoyle e gli altri mostri
incombevano nella loro mostruosità e repellenza sulla
popolazione
parigina. Solo una luce testimoniava la presenza di una persona
vivente all'interno di quell'architettura gotica. La luce flebile di
una candela, tanto forte da sembrare un fuoco infernale per la gente
ignorante, illuminava, nella torre di destra di Notre Dame, una
scrivania di legno cosparsa di fogli e pergamene, alcune scritte e
altre vuote, e un volume di alchimia aperto sopra tutto il resto.
Chino su di esso, Claude Frollo vergava con nero inchiostro appunti,
parole scritte nella speranza di scoprire finalmente il segreto della
pietra filosofale, e riuscire a trovarla. Stava scrivendo
meccanicamente, senza soffermarsi realmente sull'esatto significato
delle parole, tanto era concentrato dal seguire la linea d'ombra che
si andava creando sulla pergamena a mano a mano che il pennino
rilasciava l'inchiostro nero. Nero come la notte, come la sua tonaca
che mai avrebbe potuto togliere e disconoscere, quella stessa tunica
per il quale era tanto odiato dalla sua bella Esmeralda. Nero come
l'ebano, il colore dei suoi capelli, ricci. Ancora lei! Dannazione
non è possibile che mi torturi così anche ora!
Lasciò cadere
stanco il pennino sulla scrivania e si appoggiò stancamente
sulla
sedia, passandosi stancamente la mano sugli occhi e sul viso. Forse
avrebbe dovuto dormire un po'. Stava per alzarsi e andare a dormire
quando sentì bussare alla porta.
-Avanti.-
disse lui stancamente.
-So
che è tardi, Arcidiacono. Mi dispiace disturbarvi. Posso?-
chiese il
poeta aprendo la porta.
-Non
stavo facendo niente di particolare: in cosa posso aiutarti?- chiese
sorridendo.
-Non
è me che dovresti aiutare, ma una donna.- fece lui per poi
voltarsi
verso l'uscio, dove Paquette restava timorosa. Erano anni che non
entrava nella dimora di un uomo di Chiesa e i ricordi ora
riaffioravano prepotentemente alla memoria. -Non avere paura,
Paquette, vieni pure.- fece il poeta sorridendo. La donna prese un
sospiro ed entrò. Rimanendo stupita quando vide Claude, e
tirò un
sospiro di sollievo. Claude a sua volta la guardò
preoccupato. Era
la madre della sua piccina, perché venire se non per...
-È
successo qualcosa a Esmeralda?- chiese tradendo leggermente il tono
preoccupato della sua voce.
-Non
la trovo più. È tutto il giorno che la cerco, che
la cerchiamo, ma
non la troviamo. L'abbiamo cercata ovunque. Potete aiutarci?- chiese
lei con le lacrime agli occhi. Tutte uguali le donne. Quando hanno
bisogno non esitano a fare gli occhi dolci e pietosi e una volta che
ottengono ciò che desiderano, si voltano dall'altra parte e
ti
disprezzano.
-E
perché chiedete a me? Sono certo che non ha alcuna
intenzione di
farsi trovare da me.-
-Vi
scongiuro, monsignore.- fece lei piangendo. La guardò per
qualche
istante. Prese il mantello e mentre spegneva la luce della candela,
iniziò a scendere le scale seguito dai due per poi uscire
fuori
all'aria fresca della notte in piazza. In quella piazza che aspettava
fremente di poter mettere fine alla vita della piccola rondine.
-Avete
cercato anche in città?-chiese lui.
-No
ma non vedo perché avrebbe dovuto allontanarsi da sola
così tanto.-
fece la madre. I due uomini si guardarono.
-Per
andare dal suo bel capitano.- fece lui. E iniziò a dirigersi
verso
la casa della giovane ricca borghese. Le luci erano ancora accese e
il palafreno di quel soldato c'era. Se era qui, non poteva esserci la
zingarella: avrebbe passato il tempo nelle segrete a interrogarla e
processarla, magari anche torturarla. Trasalì a quel
pensiero mentre
gli tornavano in mente le grida della sua piccina mentre la
torturavano e lui non poteva fare niente per evitarle tutta quella
sofferenza.
Sospirò
e riprese a cercare in città fino a spingersi fuori
città, oltre le
porte di Parigi, lanciando più volte occhiate al cielo,
sempre più
nero. Il tempo passava, la visibilità sempre più
scarsa. Si spinse
fino ad allontanarsi dalla città totalmente e iniziare a
camminare
per i campi, chiamandola per nome con tutto il fiato che aveva in
gola. Sia per trovarla, sia per poter gridare al mondo il nome della
sua amata, trovando un certo sollievo nel poter dire quel nome tanto
dolce ad alta voce. La chiamò mentre il suo cuore esplodeva
dalla
gioia nel gridare quel nome.
***
La
notte era sempre più buia, fredda e non riusciva
più a tenere il
corpo fermo, che tremava dal freddo. Era rimasta ferma per ore, senza
mai muoversi per quanto il suo corpo lo desiderasse. Presto era
arrivato il formicolio ai piedi, poi alle gambe. E ora muovere ogni
minimo arto la infastidiva fortemente. Il viso nascosto tra le
ginocchia era perennemente bagnato da lacrime di terrore, paura
solitudine e disperazione. Voleva il suo sole, il suo amore. Voleva
il giorno, il suo Febo. Quella notte la spaventava. Le ricordava quel
prete di cui non sapeva neanche il nome. Tutta quella sofferenza,
quel dolore! Voleva solo dimenticare lui e tutto quello che era
successo.
Vieni
a portarmi via! Portami via sui monti dell'Andalusia! Ti scongiuro.
Questa è una città cattiva, che mi ha fatto
soffrire tanto. Non
voglio più vederla questa città. Mai
più nella mia vita! Pensò
lei. Voleva andarsene, voltare pagina, farsi una nuova vita lontano
da quel mondo pieno di violenza. Voleva scappare lontano da quel
vecchio prete che la desiderava e che non perdeva occasione di
riconfermare il suo amore.
Pianse
fino a non avere più lacrime da versare. Proprio in quel
momento
sentì l'erba accanto a sé frusciare. E una figura
avvicinarsi.
-Chi..
Chi è?- chiese spaventata strozzando un urlo in gola, pronta
a
urlare nel caso ce ne fosse stato bisogno; intanto la nera figura
avvolta in un mantello si avvicinava a passo sicuro verso di lei,
come se fosse lei, proprio lei che voleva.
***
L'aveva
cercata per ore e ore, nel freddo della notte. Chiamandola
continuamente. Finché non sentì dei sussulti. E
dei singhiozzi. Si
avvicinò titubante finché
nell'oscurità non vide una sagoma
rannicchiata. La schiena scossa da sussulti, mentre si raggomitolava
per i brividi sempre di più.
Si
avvicinò sempre di più e quando la fanciulla
alzò gli occhi neri,
i capelli ricci di ugual colore, il suo cuore perse dei battiti.
Iniziò a battere sempre più forte. Più
forte di un tamburo. Si
avvicinò a passo sempre più sicuro, mentre la
fanciulla arretrava,
o almeno ci provava sempre di più. Quella graziosa ninfa,
quella
piccola leggiadra rondine danzante, intimorita ora, era poco distante
da lui, a pochi passi. Quel corpo da dea, che aveva sognato per notti
intere, giovane, caldo, era lì. E ora che erano soli... No!
La
desiderava moltissimo.. ma non l'avrebbe mai presa senza la sua
volontà. Per quanto la desiderasse non si sarebbe mai
comportato
come quel soldataccio che lei amava tanto. Perché se i ruoli
fossero
stati invertiti, lui ne avrebbe approfittato di certo.
-Esmeralda,
piccina mia, sono io. Non avere paura.- disse lui dolcemente.
***
Nel
vedere quella figura, lei si ritraeva. Le mani a terra arretrava
mentre le gambe trovavano di nuovo la loro vitalità e si
sottraevano
a quella figura spaventosa e inquietante. Quella voce...
-No!
Va via prete maledetto! Va via! Io voglio il mio Febo!- fece lei
mentre sentiva le lacrime salire nuovamente. -Lui mi ama.
Perché non
c'è? Che ne hai fatto?!- e mentre le lacrime sgorgavano
mentre la
sua mente ricordava quella terrificante notte.
Lui
la guardò e la prese per i polsi, mentre lei si ribellava
dimenandosi come una furia. Lui la fece girare e la strinse
fortemente a sé, con la sua schiena contro il proprio petto.
-lasciami! Lasciami!- fece lei gridando e piangendo.
***
La
stava tenendo stretta a sé, ancora non gli sembrava ancora
vero. La
sua pelle giovane e morbida, ambrata, era separata dal suo corpo solo
da qualche strato di vestiti. Lei che si dimenava, versava lacrime,
desiderando di essere salvata da una persona che non la voleva e non
la amava.
-Sht,
tesoro, non piangere. Va tutto bene... Tua madre è venuta a
cercarti, con Pierre. Ma tuo marito non è stato abbastanza
bravo da
trovarti.- disse mentre le sue dita accarezzavano i suoi capelli e il
suo collo. Il corpo ora era rigido, come se aspettasse da un momento
all'altro la colpisse.
-Perché?
Perché non mi lasciate in pace? Perché non mi
lasciate andare dal
mio Febo.- chiese lei.
-Perché
ti amo e lui no. Perché IO sono qui. IO sono venuto a
cercarti. IO e
non lui. IO ti amo. Io, lo capisci?- chiese lui voltandola verso di
sé, tenendola per le braccia. Lei si divincolò.
-Non
toccatemi, vecchio prete. So che lui mi ama. E io amo lui. Lui e non
te, prete infernale. Non toccarmi mai più.- fece lei. Claude
la
lasciò andare, senza cercare di afferrarla.
In
quel momento arrivarono la madre e il marito della ragazza.
***
-Mamma!-
fece vedendo la figura femminile dietro quell'uomo nero. Lo
superò
come se non ci fosse e corse tra le braccia della madre piangendo
felice.
-Tesoro!!
Ma dove eri finita! Non farlo mai più. Mai più
mai più tesoro mio!
Sono stata così tanto in pena...- fece lei piangendo a sua
volta.
-Scusa,
mamma, non accadrà più. Volevo... allontanarmi,
dimenticare tutto
ciò che era successo quest'anno e poi... ho perso la strada
del
ritorno. Perdonami mamma, non lo farò mai più.-
fece stringendosi a
lei, ricambiata.
-Non
importa. L'importante è che tu ora stia bene. Dai, torniamo
a casa.-
disse la madre dolcemente. E dopo aver ringraziato ancora i due
uomini, tornò con la sua bambina alla Corte dei Miracoli.
Angolo
Autrice: chiedo perdono per il ritardo con cui ho postato il
capitolo ma sono state due settimane piene e questo è
l'ultimo anno di liceo.. però questa storia la sto scrivendo
con tanta partecipazione e credo che sarà la prima che
finirò.... XD magari potrei postare un capitolo a
settimana... così aggiornerei regolarmente per la mia e la
vostra felicità!!! (spero!! XD). Ringrazio ancora tantissimo
Minimelania per aver recensito e aver aggiunto la la storia tra i
preferiti. Ringrazio ancora Claudio Frollo e
x_LucyLilSytherin per aver aggiunto la storia tra i preferiti. e
chiunque sia passato di qui a leggere. per qualunque consiglio o
critica eventuale... Sono pronta ad ascoltarvi!!!!! Al prossimo
capitolo un bacio a tutti!!
Lady N.
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Capitolo 3 *** Scuse e Perdono ***
Frollo
arrivò alla cattedrale poco dopo l'alba. Entrò da
una porta
laterale e poi percorse le scale di pietra a chiocciola che portavano
alla galleria. Attraversò la galleria vedendo il sole
alzarsi sempre
più in cielo. Poi sospirò e si recò
nella sua stanza angusta che
aveva lasciato per andare a cercare la sua bella e piccola rondine.
Già... quella stessa giovane e leggiadra fanciulla che gli
aveva
urlato contro quando lui l'aveva trovata. Come se potesse davvero
farle male, o volerla davvero contro la sua volontà.
Forse,
in un momento di pura follia o di insana passione e lussuria poteva
anche formulare un siffatto pensiero ma poi... L'immagine di lei,
della sua dolcezza ingenuità e tutto ciò che lui
le aveva imposto
di patire e soffrire, gli si presentava dinanzi ai suoi occhi, come
sempre avrebbe fatto, e avrebbe soffocato un tale pensiero,
cacciandolo con la medesima violenza che esso aveva impiegato nel
presentarglisi alla mente. Avrebbe provato un tale orrore da
vergognarsi di ciò che la sua mente aveva elaborato.
Quella
fanciulla così giovane e divinamente bella, si meritava
molto di più
che un semplice rapporto mosso da passione e puro desiderio. Si
meritava tutto l'amore del mondo, tutta la dolcezza che un uomo
solitario e introverso come lui poteva donarle, e anche di
più. Le
avrebbe dato tutto ciò che possedeva. Che importa se poi
sarebbe
stato dannato per l'eternità! Che cosa gli importava? Se il
prezzo
da pagare per qualche ora d'amore con l'unica fanciulla che aveva mai
amato, fosse stato l'Inferno, pur di poterla amare un solo istante,
avrebbe pagato volentieri il suo prezzo. La sua mente erano mesi che
non faceva altro che ricordargli la sua posizione, il suo status, il
voto di castità che aveva sempre rispettato.
Dell'impossibilità del
tutto, ricordandogli che la sua bellissima fanciulla lo odiava, non
lo voleva, voleva il bel capitano. Ogni volta che questi pensieri
affioravano alla sua mente, egli li scacciava con forza, ripetendosi
che avrebbe capito, che avrebbe imparato ad amarlo, che prima o poi
sarebbe cresciuta e avrebbe capito. Che sarebbe tornata da lui,
magari in quella stessa stanza, e che gli avrebbe chiesto di
amarla... mentre questi pensieri e fantasie prendevano sempre
più
forma nella sua mente, egli vagava nella sua camera a passi lenti una
volta, e veloci un'altra, seguendo il corso e l'impetuosità
dei suoi
pensieri. Era incredibile come in pochi istanti il passo
dell'arcidiacono potesse variare. Alla formulazione di quelle ultime
fantasie, l'arcidiacono sorrise amaramente e scosse il capo dandosi
mentalmente dello stupido. Mai, neanche se effettivamente si fosse
accorta di amarlo, mai sarebbe tornata da lui a confessare il suo
amore, né, tanto meno, gli avrebbe mai chiesto di amarla.
Erano solo
fantasie. Mai niente di ciò che la sua mente potesse
elaborare
sarebbe mai avvenuto, per quanto concerneva la piccola Esmeralda.
***
Intanto,
il trio, dopo essersi separato dall'arcidiacono, stava tornando verso
la corte. La fanciulla, con indosso un mantello e un cappuccio alzato
in modo da nasconderle il viso, camminava a testa bassa, sia per non
farsi riconoscere, sia per non far incollerire ancor di più
la
madre, che dopo i primi momenti di gioia le aveva fatto intendere di
essere in fallo e che una volta a casa avrebbero dovuto parlare.
Si
erano da poco separati da Claude, quando la madre, non riuscendosi
più a trattenere, sbottò:
-Si
può sapere che ti è preso, signorina? Sparire
così, senza lasciare
un bigliettino, senza lasciar detto a nessuno dove andavi. Ma lo sai
che ti abbiamo cercata per tutto il giorno e tutta la notte?! Ti pare
questo il modo di comportarti?! Far morire di crepacuore a tua
madre!! non guardarmi così spaventata, come puoi ben vedere
non sono
ancora morte di crepacuore. Ma sarebbe successo se quel brav'uomo non
ti avesse trovata.- disse lei una volta che ebbero superato le porte
di Parigi, trovandosi nella Corte. Al sentire la madre elogiare quel
prete, la fanciulla inarcò il sopracciglio sinistro. Di
tutti gli
aggettivi che esistevano per descrivere quella persona,
“brav'uomo”
le sembrava proprio il meno adatto. -E non fare quell'espressione. Se
non t'avesse trovata a quest'ora saresti ancora là, da sola,
spaventata e al freddo.- continuò la madre non capendo
perché lei
ce l'avesse tanto con lui.
Al
ricordo del freddo e della paura che aveva provato, la fanciulla
rabbrividì e chinò il capo. Molto probabilmente
sua madre non
avrebbe mai capito la natura di quell'uomo, che lei invece conosceva
così bene. Diceva di amarla, ma in realtà
sapevano bene entrambi
che tutto ciò che voleva era il suo corpo e soltanto il suo
corpo.
-Sì.
Immagino che tu abbia ragione.- disse lei rassegnata.
-Ora
torniamo a casa e mi racconti tutto.-
-Non
c'è niente da dire, mamma.- disse entrando nella taverna.
-Allora
puoi spiegarmi perché lo guardavi con odio?- la fanciulla la
guardò
e sospirò. Non aveva alcuna intenzione di litigare con lei
per quel
prete dannato. E alzò le spalle.
-Non
mi è mai piaciuto. Tutto qui. Non ho voglia di parlarne,
ora.-
-Ma...
devi essere riconoscente, ti ha trovata. Se non fosse per lui,
saresti ancora là.-
-L'ultima
cosa che gli devo è la vita.- disse lei per poi prendere una
brocca
d'acqua e versarla in un bicchiere. E bere.
-Come
ti sei comportata con lui? L'hai ringraziato per quello che ha fatto
per te?-
-No,
e non ci penso neanche. Non gli devo niente.- disse lei dura.
-Appena
siamo andati da lui, è venuto a cercarti senza chiedere
altro. Era
preoccupato per te. Anche se non ha mai voluto ammetterlo. Ci tiene a
te, credimi. E non si merita odio e disprezzo da parte tua. Riposa,
tesoro. Più tardi ti porto da lui. E mi farai il favore di
chiedergli perdono per il tuo comportamento da bambina. Ti
costringerò se è necessario, non mi importa. Hai
quasi diciassette
anni, è ora che cresci.- disse lei seria.
-Ma..-
ribatté debolmente la figlia guardandola supplicante.
-Niente
ma! Tu non devi ribattere. Vai da lui e gli chiedi umilmente scusa!-
-Umilmente
no!- ribatté lei. - Sarà già difficile
chiedergli scusa...- disse
lei.
-Umilmente.
Come pensi che ti sentiresti se qualcuno ti ferisse? Se la persona
che ami di più al mondo ti ferisse?- chiese lei.
-Non
accadrà mai. Febo mi ama.- disse lei.
-Non
conosco questo Febo, ma conosco quest'uomo e so che ci tiene tanto a
te.- disse lei.
-Ma
io non lo voglio vedere. Non lo voglio. Io voglio Febo. Solo lui.-
disse lei.
-Va
bene. Questo però non toglie che devi essere gentile con chi
lo è
con te.- disse lei. La ragazzina annui.
-Sì..
è giusto...- fece lei. -vado a riposarmi.. poi vado a
parlargli.-
disse sospirando sconfitta. Si recò nella stanza del retro e
si
stese sul letto di fortuna che aveva fatto il giorno prima. Chiuse
gli occhi e senza neanche avere il tempo di pensare, lasciò
scivolare la propria mente nel mondo dei sogni.
***
Quella
fanciulla, quella dolce rondine che occupava continuamente i suoi
pensieri, quel giorno non si era vista sul sagrato. Sapeva bene il
perché, visto che aveva contribuito alla sua mancata
esecuzione.
Eppure, sebbene sapesse perfettamente il motivo della sua assenza,
gli mancava. Gli mancavano i suoi piedini piccoli, ambrati, che
saltellavano da una pietra all'altra del sagrato facendo roteare,
volteggiare l'ampia gonna rossa da gitana. Gli mancava l'aumentare
vertiginosamente del proprio battito nel vedere per brevi istanti
parte di quella gamba ambrata tanto stupenda che delineava lo spazio
vuoto con movimenti ispanici. Gli mancava vedere quel vitino sottile
e quel ventre che si avvitavano su se stessi compiendo movimenti
fluttuanti degni di una piccola ninfa. Gli mancavano le sue braccia
che si levavano alte contro il cielo a lanciare il tamburello. Gli
mancava il tintinnio prodotto dalle monete che lei portava tra i
capelli e che si muovevano a ritmo con loro. Le mancava la sua chioma
corvina riccia, che contornava quel viso da bambina, ovale. Quegli
occhi color nocciola, profondi, grandi da bambina, ma anche fieri e
selvaggi come un po' era lei, come era insito nella sua natura. Non
si trattava di una selvaggeria barbara, sgraziata, rozza. Era
bensì
fiera, e altera. Una di quelle tanto indomite da lasciare senza
fiato. Sì, gli mancavano quegli occhi che gli avevano
riservato
occhiate di indifferenza e di superiorità o spavento anche
quando le
aveva dichiarato in ginocchio davanti a lei piangendo il suo amore.
Gli
mancavano le labbra carnose di lei, che spesso gli avevano riservato
odio, disprezzo, insulti e ferite laceranti per il suo cuore di prete
innamorato. Cosa avrebbe dato per averla lì, in quella
stanza. Che
lo torturasse nella maniera che più preferiva! Non importava
assolutamente. Niente aveva più importanza! Solo... Avrebbe
voluto
averla lì. Per un solo istante.
Dio,
mio Dio, perdonami! Indicami la strada per la tua salvezza!! Io... mi
sono perso nel peccato. Ho colto la mela rossa, quel desiderio di
amore, voluttà, passione che lei danzando con il suo bel
corpo e le
sue movenze sul sagrato di Nostra Signora, mi ha stregato, facendomi
pensare sempre di più a lei, invece che a Dio, di cui io
sono
fedelissimo servitore, o meglio: lo sono sempre stato. Fino alla
festa dell'Epifania. Vederla ballare sul sagrato mi ha tolto il lume
della Ragione. Mi ha fatto provare emozioni che non avevo mai
affrontato, neanche da giovane, troppo occupato dalla Scienza e dalla
Religione. Quella stessa Religione ch'io ho servito controvoglia,
obbligato dai miei genitori. E ora sono intrappolato in questi abiti
clericali, senza via d'uscita mentre il mio corpo si consuma e brucia
d'amore, passione e desiderio per la bella zingara, e la mia anima si
logora combattuta tra l'amore spirituale per Dio, il Creatore, e
l'amore terreno per Esmeralda.
Avrebbe
voluto così tanto rivederla, un solo istante e spiegarle la
verità.
Farle capire che il suo bel capitano non era innamorato di lei, che
per lui era tutto un gioco! Se solo lei l'avesse capito! Oh, povera
bambina mia, innamorata di un uomo per la sua esteriorità,
ignara
del fatto che la sua bellezza esteriore non corrisponda alla
beltà
della sua anima! Forse chiedere il tuo amore è troppo,
Esmeralda...
Puoi anche non amarmi, ma ti prego, non amare un uomo che non
può
offrirti niente, neanche il suo cuore. Non continuare a ripetermi il
suo nome. Quel nome che tanto mi ferisce. Perché lo pronunci
se lo
sai che non sopporto il suo nome ancor meno della sua persona. Oh mio
Dio! Perdonami per questo amore illecito, immorale che il tuo servo
prova! Puniscimi come più ti aggrada, giacché sei
il mio padrone,
magnanimo e misericordioso e io ho fallato nel tradire il tuo amore
immenso. Non sono degno di servirti e non posso far altro che
richiedere la tua Grazia.
E
mentre la sua mente elaborava questi pensieri tumultuosi, le sue mani
eseguivano esperimenti di alchimia, cercando di ottenere quella
formula che da anni ricercava. Ma tutto era così confuso!
No, lui
era confuso. Una scienza come l'alchimia non poteva esserlo. La colpa
era sua, che non era in grado di cogliere quel segreto, quella
formula. Era lui a essere l'incapace. La colpa non era d'altri. Solo
ed esclusivamente sua.
***
-Tesoro,
è quasi buio! Hai dormito tutto il pomeriggio. E devi andare
da
lui.- disse la madre scuotendola dolcemente. -Sì... Arrivo.
Non ho
alcuna fretta.. Ancora qualche istante..- mormorò lei ancora
mezza
addormentata.
-Esmeralda..
è tardi? Se non ti sbrighi farà poi troppo buio
per andare da lui e
tornare.- disse lei.
-Uffa!
Ho capito, ho capito. Vado. Mi alzo e vado.- disse lei. Si
alzò,
mise un po' a posto, soprattutto i capelli ancora un po'
scarmigliati, e poi scese nella via, mentre la madre di lontano la
seguiva con lo sguardo. Avrebbe tanto voluto non dover andare da lui.
Ma purtroppo aveva promesso alla madre di andarci, e ci sarebbe
andata. Lei manteneva sempre le promesse. E l'avrebbe fatto anche
questa volta. Anche se controvoglia. La cattedrale era sempre buia e
lui, vestito di nero, appariva ancora più tenebroso di
quanto non
fosse in realtà. Percorse le vie della Corte. Per poi
percorrere
quelle della città. Il sole era calato da poco, e il cielo
non era
ancora totalmente buio, e ciò permetteva alla giovane
zingara di
riuscire a vedere la strada che percorreva e di non essere vista
dagli altri cittadini che l'avrebbero fatta catturare e mettere in
prigione. E lei non voleva. Si ricordava ancora il freddo, la fame e
il buio patito in cella. E voleva evitare il più possibile
dimenticarsi tutta quell'esperienza. Sia per ciò che aveva
subito
sia perché le ricordava lui. Quella visita in cella, il
tentato
stupro e il fatto che era per colpa di quel prete se era finita in
prigione. Al solo pensiero la poverella inorridiva, e stava ancora
più attenta di quanto non avesse mai fatto in vita sua.
Ma
a ogni passo il battito del cuore accelerava sempre di più,
temendo
che qualcuno la seguisse e la catturasse. Sempre più
indecisa se
tornare indietro e vagare per la corte fino a un'ora tarda, e
raccontare una bugia, la prima della sua vita, oppure mantenere la
promessa fatta alla madre e recarsi alla cattedrale, quell'edificio
tanto alto e imponente che le aveva fatto da prigione per qualche
giorno. Se non altro era stata una magnifica prigione, e non
aveva
sofferto la fame, la sete e il freddo. Pensò lei.
Sospirò
e si diresse di buon passo verso la piazza, dove c'era il patibolo ad
aspettarla. Lo guardò e al buio della notte era orribile,
ancora di
più di quando quel prete le aveva chiesto di scegliere tra
lui e la
morte. In quel momento non avrebbe saputo cosa rispondere. C'era
ancora la corda appesa e al solo vederla si passò la mano
intorno al
collo, deglutendo dalla paura, immaginandosi l'osso del collo
spezzarsi, il rumore secco. E sentì i brividi percorrerle
l'intero
corpo. Forse... E il suo sguardo si rivolse alla
cattedrale,
per la precisione alla torre di destra, illuminata di un rosso
arancio, del colore del fuoco. No, niente sarebbe stato peggiore che
donare la propria verginità, il tesoro più
prezioso che avesse in
quel momento, a quel vecchio prete infernale e assassino.
Nonostante
i suoi pensieri, la giovane prese un respiro e quando vide la strada
totalmente libera, attraversò di corsa la piazza, percorse
con fiato
affannoso le gradinate della cattedrale e aprì i pesanti
portoni
quanto bastava per sgusciare all'interno di essa. Dalle vetrate
colorate giungeva una luce bianca, segno che stava sorgendo la Luna.
L'interno sembrava essere blu, nonostante lei sapesse bene che non
era quello il colore dell'edificio. I ceri illuminati conferivano
alla chiesa un'aura di sacralità che non aveva mai visto.
Era...
Magica. Unica, speciale e irripetibile. Ne rimase incantata, e la
rimirò talmente a lungo da dimenticarsi del
perché si trovasse lì.
Camminò lentamente lungo la navata centrale, col nasino da
bambina
all'insù e gli occhi grandi spalancati da così
tanta meraviglia.
Arrivò fin davanti all'altare. Dove c'era la grande vetrata
rotonda
che era quella che maggiormente illuminava quel luogo sacro.
Era
talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse neanche del
rumore di passi che scendevano le scale e che si avvicinavano a lei.
***
Claude
al calare del sole aveva acceso un paio di candele per illuminare
quella che ben presto sarebbe diventata una cella totalmente buia. E
poi aveva ripreso a vergare come un forsennato su quella pergamena
formule su formule, come se il trascriverle da un libro a un foglio
di pergamena potesse svelare il segreto celato quelle parole.
La
cattedrale regnava nel più assoluto silenzio. Quasimodo per
quell'ora di certo era nella sua stanza, come sempre. L'unico rumore
era quello prodotto dal pennino della penna d'oca che veniva
abilmente e velocemente fatta percorrere sul foglio di pergamena da
Claude, e il battito del cuore di lui, che tamburava tumultuoso nel
suo petto, anche se le ragioni erano tutt'altre. Non per la folle e
insana ricerca di una risposta che molto probabilmente non avrebbe
mai trovato. Bensì per Esmeralda. Per quella fanciulla che
meno di
un giorno prima aveva stretto contro il suo petto. Della quale aveva
sentito il profumo della sua pelle, la morbidezza dei suoi capelli, e
la perfetta aderenza dei loro corpi. Tenerla stretta a sé,
anche se
per pochi istanti, era stato il Paradiso al centro dell'Inferno. Una
sensazione unica e travolgente che lo aveva tormentato per tutto il
giorno seguente, torturandolo nei modi più crudeli e
svariati di cui
la memoria, l'amore e il desiderio potevano usufruire per far
impazzire un uomo. Oh, piccola Esmeralda! Se solo tu vedessi dentro
di me quanto sia puro e vero il mio amore!!! Sarebbe... Ah, inutile!
Tanto anche se lo vedesse... Rimarrà sempre innamorata del
suo bel
capitano. Tutto ciò che avrebbe detto o fatto... Non sarebbe
valso a
niente se lei avesse continuato ad amare quel Febo di Chateaupers.
Oh,
piccina mia! Amore della mia vita! Se solo tu sapessi quanto conti
per quest'uomo di Dio! Sei tutto ciò per cui da sette mesi a
questa
parte vivo. Sei diventata una pietra miliare per me. Salvami da
questo inferno in terra che è diventata la mia vita. Sei
tutto ciò
che desidero, tutto ciò che voglio. Mi hai strappato gli
occhi da
Dio, e ora il tuo pensiero mi strugge e tormenta giorno e notte. Ti
odio. Perché ti amo e so che da te non avrò altro
che il tuo
disprezzo. Perché seppure io tenti di tornare ad amare Dio
come un
tempo, non ci riesco. Penso sempre a te. Alla tua danza, al tuo dolce
sorriso che sveli ai passanti per ricevere in cambio qualche moneta.
Per quella tua voce d'usignolo, celestiale che ogni mattina sentivo
dall'alto della mia torre, che mi accompagnava tutti i giorni tutto
il giorno.
Abbi
pietà di questo povero prete innamorato di te!
Poi,
d'improvviso sentì un tintinnio nella piazza che lo riscosse
dai
suoi pensieri. E il rumore del portone immenso chiuso gli
confermò
il sospetto: qualcuno era entrato nella cattedrale. Che fosse lei?
Che il Signore avesse ascoltato le sue preghiere e gli avesse
concesso una notte d'amore con quella piccola e dolce creatura? Il
tintinnio l'aveva riconosciuto. Era quello delle monete che aveva tra
i capelli d'ebano la sua amata rondine! Era entrata nella cattedrale!
Che volesse andare da lui? No, non poteva essere vero! Decise di
aspettarla. E iniziò a girare per la stanza con passo veloce
e
nervoso, impaziente di sentire bussare la porta e vedere quel musetto
da dietro quel rude legno.
Dopo
qualche minuto, che a lui sembrò un'eternità, si
fermò al centro
della stanza. E prese un bel respiro profondo -Va bene, Claude,
calmati.- disse a se stesso. Poi si diresse e scese le scale,
imponendosi di stare calma.
Quando
arrivò fu come se il tempo si fosse fermato e con cautela si
avvicinò a lei. Era... Un angelo. Bella da impazzire. E lei
neanche
lo sapeva. E non l'avrebbe amato mai. Come era ingiusta la vita a
volte! Si schiarì la voce.
-Posso
aiutarti?- chiese lui dolcemente.
***
La
fanciulla si voltò di scatto spaventata, come se fosse stata
trovata
con le dita nel vasetto della marmellata.
-Io..-
disse per poi rimanere in silenzio. Non aveva idea di come mandare
avanti il discorso. Era totalmente incapace di intendere e volere.
Doveva chiedergli perdono ma non sapeva proprio cosa fare. Come
dirlo. Era stata tanto occupata a decidere se andare o meno che non
aveva pensato a cosa dirgli. E senza sapere cosa dire, non avendo il
coraggio di domandargli perdono, rimase in silenzio. Quell'uomo,
vestito di nero, sempre cupo in volto, le metteva una certa
soggezione.
***
Claude
la guardò, incantato. I raggi del sole attraverso alla
vetrata
donavano alla figura una nota divina che lo lasciò senza
fiato. Non
poteva crederci. La sua bambina era così bella da sembrare
una dea.
Una piccola dea dell'amore. Le sue labbra carnose si erano schiuse e
avevano emesso un sussurro. Melodioso quanto impercettibile. Per poi
guardarlo con quei suoi occhioni grandi da bambina. Occhi che avevano
espresso tutto il timore e il rispetto nei suoi confronti. Tutto in
un fuggevole sguardo. Che gli aveva concesso per pochi istanti prima
di chinare lo sguardo.
-No...
Non avere paura di me. Non voglio farti del male.- disse cercando di
rassicurarla con la sua voce. -C'è qualcosa che vuoi dirmi,
bambina
mia?- chiese ancora lui.
***
Esmeralda
alzò lo sguardo con quei suoi occhi spalancati meravigliosi,
chiedendosi se potesse fidarsi di quell'uomo che tanto l'aveva fatta
soffrire in passato. Quell'uomo nero che l'aveva seguita più
di una
volta, che aveva pugnalato il suo Febo, il suo sole. Il suo amore.
Che aveva cercato di possederla proprio in quella stessa cattedrale,
in una cella di una delle due torri, non ricordava bene dove. Che le
aveva fatto scegliere tra la morte e l'amore. Forse non poteva
fidarsi, ma doveva mantenere la parola data a sua madre. Non poteva
deluderla, teneva troppo a quella donna per vedere sul suo viso
un'espressione delusa. E dopo lunghissimi minuti durante i quali
rimase in silenzio, schiuse le labbra per parlare.
***
Vuoi
uccidermi mia piccola rondine? Sarebbe molto più facile e
veloce
farmi bruciare all'Inferno che rimanere di fronte a me, a
così poca
distanza, sgranando i tuoi begli occhioni dolci, intensi, profondi.
Il tuo corpo divino, risplendente della luce di Dio, è caldo
e vivo
e anche immobile riesce a scatenare in me delle sensazioni che mi
tormenteranno per i prossimi giorni e le prossime notti. Il mio corpo
brucia di desiderio per te, povera piccola innocente che non sai
niente dell'amore e che ti ritrovi a essere oggetto di contesa, anche
se non dichiarata, non potrà mai esserlo!, tra un bel
capitano che
ti incanta con il fascino della sua armatura e delle sue belle
parole, ma che non t'ama, e me, che pur non essendo bello come lui,
fremo d'amore per te. Se solo riuscissi a capire che oltre alla
bellezza il tuo Febo non ha niente di meritevole per te! Oh, mia
dolce creatura! Hai schiuso nuovamente le labbra! Cosa vorrai dirmi
mai? Parole d'odio un'altra volta? Ti prego no! Non avvelenare per me
quelle labbra di rugiada per ferire ulteriormente il mio cuore, che
pulsa ancora sangue nelle mie vene solo grazie al fatto che tu sei
viva e salva! Non ne sopravviverei! Ti prego... Ti imploro mia
dolcissima rondine!
***
La
zingara, non immaginandosi mai più i pensieri che passavano
nella
mente del tenebroso arcidiacono, rimase sorpresa da quell'espressione
implorante che vide dipingersi sul volto dell'uomo nero.
Deglutì e
poi si decise a parlare.
-Io..
Sono venuta per... Chiedervi perdono per.. il mio comportamento
dell'altra sera. Mia madre.. Mi ha mandato qui per chiedere il vostro
perdono e.. In effetti... Se voi non mi aveste trovata forse a
quest'ora non sarei più con mia madre. Vi siete...
Comportato bene e
io.. Sono stata maleducata con voi. Spero.. Che possiate perdonarmi.-
disse chinando il capo non riuscendo a sostenere il suo sguardo. Ora
che si era umiliata, voleva solamente sparire da quel posto, non
aveva più alcun motivo di restare lì. Accetta le
scuse e lasciami
andare via! Ti prego, ti prego ti prego! Pensò la
fanciulla
terrorizzata all'idea di dover restare ancora un istante di
più in
quel posto.
***
Perdono?
Perché mai dovrei perdonarti? Io... Non ho niente da
perdonarti. So
che non volevi ti trovassi io, che mi odi perché ho ferito
il tuo
capitano. So che per quello che ho fatto non mi perdonerai mai. Sono
io che devo implorare il tuo perdono. Se dovessi tornare indietro lo
rifarei, tuttavia. Perché non cambierò mai
opinione su di lui. Nei
suoi occhi c'era solo lussuria e desiderio. Io invece...Ti amo. Il
mio desiderio è dovuto all'amore smisurato che sento nascere
in me
nei tuoi confronti. So che non è giusto. E questo mi
tormenta ogni
istante della mia vita. Ma è più forte di me. Non
riesco a non
amarti. Sei l'essenza dei miei giorni. Io avrò vita solo
fino a
quando tu sarai in questo mondo. Ah, smettila di dire tutte queste
belle cose a te stesso, Claude! Non serve a niente dirle a se stesso.
Pensa piuttosto a qualcosa da dirle. L'uomo si schiarì la
voce.
-Io..
Non ho niente da perdonarti, mia piccina. Tu.. mi odi. Ti capisco. Se
solo tu riuscissi a capire il motivo delle mie azioni, allora
forse... Riusciresti a apprezzare ciò che ho fatto per te.-
fece
lui.
-Mai!
Non potrò mai capirti, né tanto meno potrei
apprezzare l'uomo che
ha pugnalato il mio Febo, il Sole!- rispose lei con gli occhi
furiosi.
***
Apprezzarti,
maledetto prete infernale? MAI. Non potrei mai farlo! Solo un pazzo
potrebbe apprezzare il gesto di un assassino pazzo e geloso! Io non
lo sono ancora. E il mio odio per te è troppo radicato.
Perché
oltre a ferire lui, hai fatto del male anche a me! Non ti è
bastato
privarmi della luce?! no. Dovevi farmi soffrire ancora!
Perché la
sofferenza che ho provato non era abbastanza, vero?! Ah, ma tu
brucerai all'Inferno! Pagherai per le tue azioni, maledetto. In
questa o nell'altra vita. Ma qualcosa la bloccò dal dire
ciò che
pensava. L'aveva affrancata. Ora poteva tornarsene a casa da sua
madre.
-Vi..
Ringrazio per la vostra clemenza, monsignore.- disse più
cordialmente che le riuscì. Poi accennò con il
capo a un inchino,
come le aveva raccomandato di fare sua madre, e si dileguò
da quel
posto. Percorse tutta la navata di corsa e una volta fuori,
tornò a
casa di corsa, senza mai guardarsi indietro, temendo che lui la
seguisse.
Claude
dal canto suo rimase fermo. Guardandola sparire oltre il portone
immenso della cattedrale. Rivolgendo pensieri colmi di amore a quella
leggiadra e imprevedibile rondine.
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Capitolo 4 *** Sorprese e Scelte ***
Il
mattino seguente la giovane zingara si alzò presto dal
letto, non
appena i raggi del sole illuminarono il suo letto. Si andò a
lavare,
osservando il proprio corpo. La sua pelle, abbronzata per la continua
esposizione ai raggi del sole, era macchiata da lividi in
corrispondenza delle braccia, nel punto in cui lui l'aveva afferrata
la sera prima. Vivido era ancora il ricordo del terrore provato.
Odiava la notte. Era una paura che derivava dal lungo periodo che
ella aveva trascorso in prigione, privata di cibo, acqua e luce.
Privata di tutto ciò che era necessario per gli uomini,
quasi che
lei non fosse una creatura umana, bensì infernale, come quel
prete
maledetto aveva affermato nel corso della sua visita. La amava, ma
lei no. Lei aveva sempre temuto quell'uomo vestito sempre di nero,
cupo in volto e solitario. Clopin le aveva sempre insegnato che
quelle sono le persone più pericolose che esistano,
perché non si
sa mai cosa passi per la testa.
Lei
amava il sole, la luce, la vita, il suo Febo. Tutto ciò le
ricordava
i momenti felici della sua vita breve, innumerevoli e tanto distanti.
Le sembrava di aver vissuto un'altra vita prima di quel fatale 6
gennaio. O di aver sognato tutto ed essersi svegliata solo in quel
momento da un sogno tanto bello quanto illusorio.
Non
poteva tornare a Notre Dame. Quasimodo non avrebbe potuto aiutarla,
anche se questo le aveva promesso. Come poteva esserle d'aiuto una
persona che prendeva ordini dal prete? Non era possibile. E
così
doveva cavarsela da sola. O restava e sopravviveva nei sobborghi di
Parigi, sola e abbandonata da tutti, in compagnia del poeta e della
madre, o sarebbe dovuta partire. Partire? E lasciare così il
suo
Febo solo, nella malinconia e nella tristezza? Senza di lei? La stava
cercando. Che speranze avrebbe avuto di trovarla, se lei fosse
scappata via? Doveva restare. Piuttosto di andarsene via e rischiare,
sarebbe meglio restare al sicuro e vivere, nella speranza che lui la
trovasse.
Si
rivestì e nel farlo sentì un dolore pulsare sulle
braccia. I lividi
si erano gonfiati. Sospirò. Perché riusciva a
farle del male anche
solo a toccarla? Perché la odiava così tanto da
ferirla non solo
psichicamente, ma ance fisicamente? Perché le faceva male?
Non aveva
sofferto abbastanza? Forse non gli bastava. A lui no, ma a lei
sì.
Lei che non aveva mai provato l'esperienza del dolore, era sempre
sfuggita a ogni piccola ferita, ora si trovava a piangere, soffrire,
una cosa che non si era mai aspettata di provare. Dolore. Una parola
tanto sconosciuta allora e così familiare adesso. E tutto
per una
sola persona. Il prete. Lo odiava, l'aveva fatta soffrire, lei e la
sua gente. L'aveva perseguitata, decimata, aveva sterminato il suo
popolo, che ora non era più su questa terra.
Odiava
lui, uomo di Dio, che fingeva la pietà e la misericordia e
la
fratellanza verso gli indigenti, i pezzenti come lei che erano
costretti a vivere della bontà degli uomini, troppo egoisti
per
pensare agli altri. Come poteva un uomo come lui provare anche solo a
pensare di sapere cos'era l'amore e sperare di essere ricambiato? Mai
avrebbe potuto innamorarsi di lui. Come poteva? L'odio per lui
scorreva nelle sue vene ancor prima che tutti questi eventi
prendessero l'avvio.
Non
sapeva il suo nome, però riconosceva distintamente la sua
figura, il
suo passo, la sua voce, il suo sguardo, la sua forza e... il suo
tocco. Violento e possessivo. Bramoso. Le faceva ribrezzo. Come tutto
d'altronde le era odioso. Guardò fuori dalla stanza e
guardò il
sole. Febo l'avrebbe trovata, ne era certa. Non sapeva come, ma era
certa che un uomo bello e forte come lui l'avrebbe ritrovata presto.
Anzi, lei l'avrebbe aiutato.. sarebbe andata da lui. Non poteva
aspettare. Con lui sarebbe stata al sicuro da tutto e tutti. Persino
da quel prete maledetto. L'avrebbe amata e protetta, ne era sicura.
***
Il
mattino seguente Claude Frollo fu svegliato, come ogni mattina, da
Quasimodo.
Aveva
trascorso maggior parte della notte sveglio, pensando alla sua
bellissima gitana. A quel momento in cui ella era entrata e aveva
colmato la stanza con il suo profumo, con la sua giovane e bella
immagine, con i suoi occhi da cerbiatta. Con la sua
ingenuità e con
il suo amore per quel bel capitano. Era riuscita a nominare il suo
nome anche lì dentro, nella sua cella. Non sapeva
perché lo odiasse
tanto. Però sapeva che questa era la situazione e che a
nulla
sarebbero valsi i suoi sforzi di farle cambiare idea. Era
così certa
dell'amore del suo bel Febo che non credeva possibile che lui
l'avesse abbandonata. Non ne aveva la conferma, l'aveva letto la sera
prima nei suoi occhi. Quando era fuggita. Lo considerava l'essere
più
odioso del mondo perché aveva ferito il suo sole. Ebbene
sì,
l'aveva fatto. Però per proteggerla. Il suo atto di amore a
poco era
valso, perché lei... si era persa dietro l'illusione di un
cavaliere, solo per la sua bella presenza. Egli sì, era
bello e
giovane, più di lui. Ma dentro era vuoto di ogni sentimento.
Se
avesse saputo, la povera piccina, che era stato lui a guidarlo,
ignaro di tutto e troppo idiota per comprendere chi egli fosse, che
era stato lui a farlo entrare nella stanza, a nasconderlo
nell'armadio. Se avesse saputo che l'aveva seguito solo per
verificare che avesse appuntamento con lei, che il colpo inferto non
era stato dettato da un'azione premeditata, ma dalla gelosia,
dall'impulso di proteggerla dal dolore che egli, rude, rozzo e
insensibile soldato, le avrebbe inflitto, perché
così sarebbe
andata, forse allora avrebbe smesso di pensare a lui. A quel soldato
fidanzato con quella ricca borghese, che l'aveva costretto a guardare
l'esecuzione.
Lui
non poteva averla. Così rude e ignorante, incapace persino
di
ricordarsi il suo nome, storpiandolo e ridendo del suo errore,
accampando scuse tanto ignobili come solo un soldataccio da birreria
e bordello poteva fare. Era l'essere più inutile sul pianeta
e
ancora pretendeva di poterla toccare impunito. L'aveva ferito
profondamente, e ancora si malediva per non averlo eliminato
fisicamente una volta per tutte. Poi si rammentò le parole
che la
sua piccina aveva pronunciato quando le era andato a far visita, in
quella cella. “
è morto? Perché mi parlate di vivere
allora?” gli
aveva chiesto guardandolo con degli occhi vuoti, privi di alcuna
volontà. Come se lui, privandola del suo Febo, le avesse
estirpato
la linfa vitale, il sangue dalle vene, l'ossigeno dai polmoni, la
luce dagli occhi. Ma come poteva una creatura divina e infernale come
lei, avere a che fare con un uomo come quel capitano? Non era
possibile. Come non lo era che amasse lui. Una ragazza così
attenta
alla bellezza esteriore, non avrebbe mai potuto amare un uomo
più
grande di lei e così.. vecchio. Nonostante l'età,
presentava già
dei capelli color argento e la fronte a stempiarsi. Mai l'avrebbe
amato. Non era giusto. Non era giusto che fosse lei così
giovane e
lui così vecchio. Ella così bella ed egli
così brutto. Ella
zingara ed egli prete. Entrambi innamorati di qualcuno non
ricambiava. Entrambi dannati per questo amore doloroso, ingenuo e
sconfinato.
Dio,
dio, dio! Perché lui? Perché aveva dovuto tentare
proprio lui?
Perché la sua anima doveva dannarsi? Perché il
suo pensiero essere
fisso su lei? Perché lui e non qualcun altro?
Perché? Cosa aveva
fatto di sbagliato, lui che aveva sempre fortificato il proprio animo
con la fede in dio, la religione, la scienza, e aveva resistito,
forte come la cattedrale che lo ospitava, qualsivoglia tentazione?
Nessuno ama quanto dio. Era una frase banale quanto vera e potente.
Una di quelle frasi che si insegnano fin dalla tenera età ai
bambini, perché rifiutino il demonio e accolgano l'amore
eterno e
infinito di dio.
Egli
stesso si vedeva insegnare queste parole ogni giorno a messa,
soprattutto la domenica, giorno della messa per i fedeli, anche
quelli meno bigotti e frequentatori. Dio è uno, è
trino, è divino.
Dio è perdono e amore. Se è vero ciò
che si dice di te, mio
signore, perdonami, perché io amo infinitamente una
fanciulla. Ella
è più di te, è la mia dannazione e
ciò che desidero. Più del
paradiso eterno, più del tuo amore, e forse anche del tuo
perdono. È
il mio pensiero fisso. E temo di non poterci rinunciarci, nonostante
le mie intenzioni. Perdonami, signore.
***
Esmeralda
guardava il sole. Giallo, grande, caldo, movente, ma inespressivo. Da
quando si era svegliata era rimasta al sole a guardare le case, o
meglio dire, baracche, che la gente aveva costruito per ripararsi dal
gelido inverno e come fresco riposo nelle serate d'estate. Per quanto
lo desiderasse, essendo nella propria natura di girovaga, non poteva
abbandonare Parigi. Sua madre non l'avrebbe mai capita, non l'avrebbe
seguita. E lei non voleva staccarsi da sua madre, anche se questo
significava non poter girare liberamente per le strade, non poter
ballare e dover condividere la città con quel prete, dormire
e
svegliarsi sotto lo stesso cielo e lo stesso sole.
Sua
madre era l'unica famiglia che le fosse rimasta e non poteva
abbandonarla. Da quanto le raccontava ogni sera, aveva viaggiato
molto, conosciuto molte persone e visto molti posti. Ora voleva
restare a Parigi. Vederla dalla superficie, dopo essere costretta a
guardarla da un buco scavato nella pietra. Suo marito, invece, no
creava particolari problemi. Diceva sempre che si sarebbe adattato,
qualunque fosse la loro decisione.
Aveva
una grande voglia di partire, di lasciare tutto e dimenticare le
persone che aveva incontrato. Tutte le avevano fatto del male, tutte,
tranne il suo Febo. Che però non arrivava mai. Lei lo
aspettava ogni
giorno, sempre, sperando di vederlo comparire da un giorno all'altro.
Sperava che la trovasse e la portasse via di lì. Allora
forse, in
sua compagnia, sarebbe anche potuta restare, vivere a Parigi non da
zingara, ma da moglie del capitano. Sarebbe potuta andare dal prete e
dirgli che, nonostante tutti i suoi tentativi, lei avrebbe sposato il
suo bel capitano e che sarebbe stata felice. Forse avrebbe anche
pregato il suo promesso sposo di far celebrare le nozze lì,
in
quella chiesa, da lui. Per vedere quel prete che tanto le aveva fatto
male, essere costretto a pronunciare quelle parole fatidiche... davvero
voleva fargli così male? Egli l'amava e aveva cercato di
uccidere il
su Febo, di toglierle l'unica ragione di vita. Però anche
lei amava,
e per questo amore soffriva. Come lei si sarebbe uccisa senza dubbio,
se avesse visto Febo, il suo sole, sposarsi con un'altra donna
all'infuori di lei, come poteva condannare alla stessa sorte un uomo,
nonostante fosse quell'uomo che tanto le aveva fatto patire? Lei non
era così cattiva. Non aveva mai ucciso nessuno né
desiderato che
alcuno lo facesse. Clopin diceva che chi desiderava la morte di
un’altra persona, era cattivo quanto chi commetteva il
crimine. Lei
non era così. Non voleva la morte del prete, solo che la
lasciasse
in pace. Voleva che la dimenticasse, che ritornasse in sé e
svolgesse il proprio ruolo di prete. A quanto sapeva, i preti non
potevano sposarsi né avere amanti.
Voleva
essere felice. Non per sempre, giusto il tempo per dimenticare
ciò
che era accaduto. Aveva rischiato più volte di morire e
tutto nel
giro di pochi giorni. Aveva patito e visto la sua breve e allegra
vita scivolarle via due volte nel giro di neanche una settimana. Non
c’era niente che desiderasse più al mondo che non
fosse pace,
serenità. Desiderava che lui la abbandonasse e smettesse di
amarla e
seguirla. Voleva poter vivere la propria vita lontana da tutto e
tutti, tranne ovviamente, ciò che della sua famiglia le
restava. E
il suo sole. L’avrebbe cercato e trovato, e insieme avrebbero
potuto vivere felici, per quanto ne dicesse quel prete pazzo e
geloso. Lui non l’avrebbe mai avuta. Lei era di Febo, e Febo
soltanto. Lei amava Febo, solo lui. Non c’era nessuno che
glielo
potesse impedire. Sua madre non capiva ciò che lei provava.
La
guardava come se la deridesse. Come se lei fosse una bambina ancora
troppo piccola per poter capire.
Ella
credeva che quel prete fosse migliore di Febo, perché lo
conosceva.
Avesse saputo cosa aveva dovuto soffrire a causa sua, forse si
sarebbe ricreduta. Come poteva pensare che Febo fosse peggiore di
quel prete? Egli voleva solo amarla, tenerla stretta a sé,
baciarla
e sussurrarle parole dolci colme di amore e amarla. Lei voleva essere
sua. Solo del suo Febo. Nessun altro uomo avrebbe avuto niente da
lei, nessuno che non fosse il suo Febo, cui ella apparteneva. Voleva
trascorrere il resto della sua vita lontano da quella città,
con la
madre, Gringoire, Djali e il suo amato Febo. Tutti insieme avrebbero
potuto vivere a Parigi al sicuro in un primo tempo, e poi andarsene
da lì, chiudere definitivamente con quella città
infernale. Il
pensiero di vivere con lui e formare una famiglia, la rendeva piena
di gioia. Le fece tornare il sorriso e quando la madre si
svegliò
dopo un lungo sonno, trovò la ragazza che cantava e
preparava con
ciò che aveva trovato in giro, il pranzo.
***
Era
pieno mattino quando alla cella dell’arcidiacono bussarono
Coicitier e monsieur Tourangeau. Claude Frollo li fece entrare,
costretto dall’importanza degli ospiti più che da
una sincera
voglia di vedere il medico di corte che accompagnava in segreto il re
in persona Luigi XI. Al re non si poteva certo negare una visita! E
li accolse come se non sapesse chi fosse il misterioso ospite.
-Buongiorno,
maestro Claude.- disse Coicitier entrando e rimanendo sulla porta,
dopo averla chiusa.
-Buongiorno
a voi, mastro Jaques.- disse cordialmente, guardandolo.
Fortunatamente entrambi non avevano nessuna voglia, quella mattina,
di perdersi nei complimenti di circostanza che anticipano
qualsivoglia discussione tra persone che si detestino cordialmente. E
così l’arcidiacono ebbe modo di condurre, sempre
accompagnato dal
medico di corte, il regale personaggio fuori le mura della
cattedrale, impartendo qualche nozione fondamentale di alchimia,
sotto lo sguardo rassegnato e discorde del medico, che ancora non
aveva dimenticato la discussione avuta mesi prima tra quelle mura con
l’arcidiacono. Disprezzare la medicina! Pazzo, pazzo, pazzo!
Qual
uomo di buonsenso, alla luce del XV secolo, sarebbe così
pazzo da
ricercare una pietra leggendaria e rinnegare la medicina, scienza
tanto più reale e concreta, che affondava le radici
nell’antica
Grecia, nel metodo scientifico di Aristotele e nelle cure primitive
di Ippocrate? Forse in tutta la Francia egli era il solo uomo che
pensasse così. Che anche le migliori teste fossero un
po’ pazze,
era risaputo, ma mai aveva pensato che tale fosse il livello di
pazzia che un uomo potesse arrivare a possedere. Era veramente indice
di un uomo geniale questa dose di pazzia? O questo grado elevatissimo
altro non era che indice della sua follia, e rischiava di mettere in
dubbio la lucidità dell’arcidiacono? Tra tutti gli
uomini colti e
illustri che egli avrebbe potuto trovare a Parigi, proprio
l’arcidiacono di Notre Dame aveva suscitato
l’interesse del re di
Francia?
Il
nostro arcidiacono, dal canto suo era tanto preso
dall’esplicare a
sua altezza reale Luigi XI le teorie alchemiche, che non si curava
minimamente di ciò che frullasse nella mente di monsieur
Coicitier.
In realtà non si curava neanche del fatto che lui fosse
lì con
loro, che ascoltasse o intervenisse. Sciorinava le teorie e si
preoccupava di rispondere alle domande e ai dubbi solamente del
sovrano. E non per alterigia o qualsivoglia superbia. Per quel
semplice fenomeno che colpisce gli esseri umani, l’ascoltare
solo
ciò che ci interessa davvero, e non prestare ascolto a
lezioni o
persone che non suscitino in noi altri sentimenti che siano noia,
disinteresse o indifferenza. E proprio da quest’ultimo
sentimento
l’arcidiacono era affetto nei confronti del medico di corte.
Era
un’indifferenza dettata dal fatto che l’uomo in
considerazione
provava già antipatia e quello stesso sentimento nei suoi
confronti.
E dalle idee che egli propinava come vere, senza ragionare su
ciò
che diceva.
E
mentre giravano per la capitale, con il cielo terso e il sole caldo e
afoso di Luglio che bruciava le loro teste, sentiva come un richiamo
a guardarsi intorno, a cercarla, a controllare che fosse al sicuro.
Ciò che era successo la notte prima non sapeva ancora come
definirlo. Né sapeva con esattezza quali fossero le sue
emozioni
chiaramente. Era tutto così confuso nella mente del prete,
che per
un po’ non seppe più cosa stesse dicendo, parlava
in automatico e
non osava immaginare cosa il compare Tourangeau stesse capendo delle
sue spiegazioni. Ma poco importava.
Come
poteva essere che quella giovane strega … l’avesse
incantato al
punto tale dal distogliere la sua mente in una conversazione
così
importante? Forse che lui stesse realmente impazzendo? Che fosse a un
passo dalla follia pura, dalla sua totale perdizione? Possibile,
anche se in realtà il nostro arcidiacono sapeva fin troppo
bene che
così non doveva essere.
Finalmente
arrivarono alla cappella di Saint-Michel e il prete ritornò
padrone
di se stesso, ben conscio di ciò che avrebbe dovuto dire. E
iniziò
a parlare.
***
-Hai
dormito bene?- chiese Paquette, con la voce semi addormentata.
-Sì,
madre. Ho dormito bene, anche se non a lungo quanto voi.- rispose la
Esmeralda, con la sua voce tenera e gioiosa.
-Sono
contenta di vederti di buon umore questa mattina. Sei più
raggiante
del solito… È successo qualcosa?- chiese curiosa
la madre.
-Andrò
dal mio Febo, oggi…- disse tutta contenta, mentre terminava
di
preparare delle focaccine.
-Oh.
Ma sei sicura che sia una buona idea? Non sarà troppo
presto?-
chiese lei.
-No,
il mio Febo deve sapere che la sua Esmeralda è viva e che lo
ama
ancora. E così poi… potremmo stare insieme. E
magari un giorno
andarcene da Parigi. Io voglio... dimenticare ciò che ho
passato
qui. Non voglio più avere niente a che fare con questa
città.-
disse lei con la tristezza nella voce.
-Sai
che quando vuoi puoi sfogarti con me…- affermò
abbracciandola
dolcemente. La stretta provocò alla fanciulla una piccola
fitta di
dolore. I lividi facevano ancora male. –Scusa… non
volevo farti
male..- aggiunse preoccupata.
-Non
è colpa vostra, madre. È.. quel prete.
L’altra sera quando mi ha
trovata ho cercato di sfuggirgli e.. lui mi ha stretta per impedirmi
di scappare. Ora ho dei segni viola sul braccio.- affermò
lei.
-Non
volevi tornare?- chiese la madre.
-Sì,
lo volevo. Ma non volevo vedere lui, avevo paura di lui.- disse lei.
-Oh.
A me non sembra così terribile. Comunque, gli hai chiesto
umilmente
perdono?- chiese lei. La figlia annuì.
-Non
è stato così.. terribile come mi aspettavo.
Credevo fosse peggio.-
rispose la fanciulla. Poi sorrise. –Ora vado dal mio
Febo… ci
vediamo stasera.- disse lei per poi correre alla porta.
-Il
pranzo!!- gridò Paquette.
-Mangiate
voi, non ho fame!- fece lei per poi uscire e correre lontano da
lì,
per le vie di Parigi, fino a arrivare alle porte della
città. E si
fermò. Lo stomaco in subbuglio e un certo terrore che la
attanagliava. E se avesse rivisto il prete e non Febo. Se…
l’avesse
fatta arrestare? Se l’avesse condannata al patibolo,
facendola
morire, togliendola al suo bel capitano? Se…? No, non poteva
rimanere inerme e aspettare ancora. Aveva bisogno del suo sole, del
suo Febo. Doveva vederlo e dirgli che era viva e vegeta. Che era
salva. Doveva dirglielo. Doveva vederlo. Prese un respiro, coraggio,
e mise piede nella città. I passanti erano troppo occupati
nel loro
chiacchiericcio per notarla, o forse era cambiata talmente tanto in
quei mesi che nessuno la riconosceva più. Si
districò con la sua
andatura leggera e sinuosa fra il popolo di Parigi, sempre
più
vicina al luogo dove aveva tanto ballato in passato, sulla gelida
pietra invernale. Nessuno sembrava notarla, e così
camminò felice e
spensierata verso la piazza, dove era certa che avrebbe incontrato il
suo Febo.
Incurante
del brusio che lentamente si era andato a creare, lei camminava per
le strade, finché non vide dei soldati bloccare il vicolo e,
vistala, correre verso di lei. Lei si guardò intorno e vide
il
popolo che, riconosciutala, la indicava come la strega di Notre Dame.
La Esmeralda indietreggiò e iniziò a correre
infilandosi in un
vicolo, correndo a perdifiato. Quegli uomini armati erano sì
alle
dipendenze del suo bel capitano, ma non erano lui, e molto
probabilmente le avrebbero fatto del male, come era già
successo in
passato.
Corse
a perdifiato, come fosse ammattita, girando continuamente nei vicoli,
senza mai voltarsi indietro, cercando di seminare quei soldati che le
gridavano insulti e facevano baccano, facendo risuonare il rumore
metallico dell’armatura. Rumore di cui lei aveva una paura
folle,
che ricordava bene e distintamente, e il freddo metallo contro la sua
pelle delicata, che le aveva piagato la caviglia e l’aveva
fatta
gemere dal dolore. Correva, correva. Sperando di arrivare da qualche
parte, sbucare ovunque, in un luogo affollato in modo tale che loro
perdessero le sue tracce.
Il
terrore che le scorreva nelle vene le faceva rigare il volto di
lacrime.
Giunse
a un tratto in una piazzetta piccola, discretamente affollata. E fece
come per attraversarla, quando d’improvviso si
fermò. Il prete.
Era di fronte alla chiesa e stava parlando con due uomini. Indossava
sempre la toga nera e ruvida. Si immobilizzò pietrificata e
spaventata, come avesse visto un fantasma, lo guardò. Vide
uno dei
due uomini guardarla e poi richiamare l’attenzione del prete.
Oh,
no.
***
Erano
ore che i tre uomini stavano sotto il sole a parlare. Claude iniziava
a non poter più sopportare quel caldo di fine luglio che
invadeva la
città, e lui che, con la tonaca nera, pativa il caldo
più di tutti.
Da
quando erano giunti lì, la sua mente era riuscita a
rimuovere ogni
cosa che non fosse necessario alla spiegazione. Stava andando tutto
bene, finché Claude Frollo non si sentì tirare
leggermente la
manica da Coicitier.
-Mi
scusi se la interrompo, maestro Claude. C’è
qualcuno che chiede di
voi..- disse quasi balbettando per l’imbarazzo.
-Chi
è?- chiese allora, spazientito dall’interruzione.
Jacques
Coicitier non rispose, ma lo invitò a spostare lo sguardo su
quella
ragazza. Lui si voltò, e la vide. I suoi occhi erano
dilatati dal
terrore, il suo labbro inferiore tremava e il suo petto si alzava e
abbassava a ritmo irregolare. Poi, a un tratto si voltò
spaventata
come se avesse sentito qualcosa di spaventevole. Lo guardò
ancora
un’ultima volta e poi attraversò la piazza e
trovò rifugio nella
prima via.
Claude
la seguì con la coda dell’occhio per poi guardare
il gruppo di
soldati.
-Perché
tanta fretta, cavalieri?- chiese, costringendoli a fermarsi. Quelli
si fermarono e si avvicinarono.
-Monsignore
arcidiacono… noi stiamo cercando una zingara. La strega che
era
sfuggita alla giustizia qualche giorno fa. È stata
riconosciuta
mentre girava per le strade della città. Lei per
caso… non l’avrà
vista?-
-L’ho
vista che correva in quella direzione.- disse indicando il lato
opposto.
-Speriamo
di prenderla. Capitano Febo di Chateaupers ci ha ordinato di
prenderla e consegnarla alla giustizia.- disse uno del gruppo al
proprio compagno, abbastanza forte da farsi sentire
dall’arcidiacono
e dalla folla in piazza.
-Non
avevo dubbi.- mormorò tra sé e sé il
prete. Poi si voltò verso
gli altri e riprese a parlare da dove era stato interrotto.
***
La
Esmeralda non appena aveva visto il prete, aveva sentito il cuore
aumentare il numero dei battiti, terrorizzata all’idea che
potesse
riconsegnarla alla giustizia. Lei, povera innocente che aveva
confessato menzogne per non soffrire. Lei che l’unica colpa
che
aveva avuto era stata di amare un uomo. Lei che per colpa del prete
si era vista andare al patibolo una volta, ora si ritrovava a mettere
la propria vita nelle mani di quel prete. Eppure quegli occhi tanto
gelidi in passato, la stavano guardando, ma non con gli stessi
sentimenti. Erano arrabbiati un po’ e molto sorpresi di
vederla lì,
a Parigi. Lei lo guardò, incapace di decifrare il suo
sguardo. E
incerta se si potesse fidare dell’uomo che l’aveva
mandata a
morire.
Il
rumore metallico, lontano ma incalzante e continuo, si avvicinava
sempre più. Gli occhi terrorizzati lo guardarono ancora una
volta,
prima di prendere a correre verso sinistra e rifugiarsi dietro un
angolo sporgente del muro che dava sulla piazza. Si
rannicchiò per
terra, con le gambe strette al petto, circondate dalle braccia. I
soldati non erano ancora arrivati a prenderla.. come mai?
Lentamente,
con cautela, si alzò e sporse pochissimo il viso, quanto
bastava per
vedere cosa succedeva. Le guardie stavano parlando con il prete. Il
terrore tornò nel profondo del suo animo e del suo cuore. Si
staccò,
certa che l’avrebbe consegnata, e riprese a correre per le
vie di
Parigi. Corse a perdifiato, non sapendo più cosa stesse
facendo né
dove stesse andando. Non sapeva più niente, e aveva paura.
Il sole
era ancora alto, nonostante fosse passata qualche ora
dall’incontro
improvviso con il prete.
Si
fermò sulla riva della Senna, e riposò
all’ombra di un albero. Il
sudore le tergeva la fronte. Sentiva le gocce scivolare sul suo corpo
e, presa un po’ d’acqua dal fiume limpido si
lavò le braccia e
il viso. Le gocce d’acqua fresca le provocarono il sollievo
sperato, e iniziò a bagnare anche il resto del corpo. Ignara
del
fatto che qualcuno la stesse osservando.
***
Durante
quei pochi giorni, dall’alba del 23 luglio, anche
qualcun’altro
aveva trascorso dei momenti tormentati e affannati, e non era il
nostro arcidiacono.
All’alba
il patibolo era pronto, tutta la folla scalpitava come cavalli e tori
per vedere l’impiccagione della bella zingara, di cui
già una
volta si era vista privata ingiustamente. Ricordava ancora un
gruppetto di vecchie comari che gli si erano avvicinate, non appena
aveva messo piede fuori dalla casa della sua bella quanto fredda
Fleur-de-lys. L’avevano scongiurato, rifacendosi a tutti quei
santi
che abitavano il paradiso, di trovare la strega e impiccarla,
perché
loro erano delle donne vecchie, che non potevano sopportare che una
zingara e una strega vivesse. L’avevano supplicato di
riportare
l’ordine in città, di fare qualcosa, lui, il
capitano.
Spazientito
dalla ressa di vecchie zitelle che si erano avvicinate a lui, il
valente capitano si era allontanato liquidando quelle lamentevoli e
leziose preghiere con un “lasciate che me ne occupi io,
signore”,
per poi andarsene.
Ora
che la zingara era stata catturata, tutti aspettavano frementi di
vederla morire, finalmente, la strega! La zingara che incantava gli
uomini e che ne aveva ferito mortalmente uno.
Ora,
in divisa, in sella al proprio destriero, guardava la folla
ammassata, mentre i suoi uomini cercavano di contenere la folla,
lasciando il corridoio aperto per il carretto e una certa distanza
dalla forca alla schiera inferocita quasi del popolo grasso.
La
zingara che aveva portato al bordello, così giovane e bella,
l’aveva
pugnalato proprio nel momento in cui stava per riuscire ad averla.
Quella zingara con il corpo da gatta, gli occhi di bambina e le sue
danze era riuscita a risvegliare fantasie che neanche la migliore
delle puttane era riuscita a suscitargli. L’aveva desiderata
in una
maniera che non pensava esistesse, e tutta quella gentilezza
ostentata altro non era che finalizzata a poterla rivedere senza la
sua fidanzata e le sue amiche e poterla avere. Tanto ella lo amava,
non avrebbe certo fatto resistenza.
E
invece l’aveva pugnalato alle spalle, rivelando sotto quella
maschera di giovane e tenera innamorata la natura malvagia che
è
propria degli zingari.
Peccato
però che si fosse rivelata uguale a tutti gli
altri… sarebbe stata
una bella preda da cacciare, conquistare e vincere, magari anche
più
volte. Una bella fanciulla così, non poteva sfuggirgli. Non
era
certo tipo da avere rimorsi di coscienza, per il fatto di tradire la
sua fidanzata. Non era colpa sua se le leggi non prevedevano rapporti
prima del matrimonio. Eppure in qualche modo doveva pur dar sfogo ai
suoi impulsi, con puttane e zingare, le uniche categorie di donne
che, visto la bassissima considerazione che aveva di loro la
società,
non avevano diritti. Un vero peccato, comunque.
Lui
e il resto della folla avevano aspettato qualche ora in silenzio,
sudando sotto quel sole cocente di luglio. Perché il
carretto ci
metteva così tanto ad arrivare? Perché non
arrivava quella
stramaledetta zingara? Perché non moriva? Se da un lato,
infatti, la
zingara aveva risvegliato nel capitano pensieri poco casti, era anche
vero che, dopo il tentato omicidio subito, il suo desiderio si era
trasformato in odio puro. Aveva rischiato di morire per quella
zingara, e ora voleva comunque la sua morte sopra ogni cosa.
Il
tempo passava e la zingara non arrivava. Eppure aveva mandato i
soldati a prenderla a Notre Dame. E aveva ordinato loro di cercarla,
qualora non l’avessero trovata. Erano già due ore
e mezza,
pressappoco, che aspettava. Fece cenno a uno dei soldati di
avvicinarsi.
-Dov’è
la zingara?- chiese lui adirato, digrignando i denti.
-Non
si è trovata. Non è nella cattedrale, signore.
Lei è… scomparsa.
Non la si riesce a trovare.- rispose quello, titubante e spaventato
dalla minacciosa aria del capitano.
-Come
è scomparsa? È pur sempre una donna. Trovatela e
portatela qui. Non
può essersi volatilizzata nel nulla.- disse irato come lo si
era
visto poche volte.
-Agli
ordini.- disse lui per poi sparire in mezzo alla folla.
Era
andato dal prete di Notre Dame e ne era uscito più furioso
di quando
era entrato. Maledetto prete dei miei stivali. L’aveva fatto
arrabbiare così tanto che si era scordato del motivo per cui
si era
recato lì. Avevano violato Notre Dame, però
questo non dava a lui
il permesso di far sparire la fanciulla… Ah! Prete della
malora!
Da
quel giorno aveva trascorso le intere giornate a cercarla. Doveva
trovarla. Doveva trovarla per riconquistare la fiducia della sua
amata cugina e per riconquistare il favore del popolo e del re,
soprattutto. Nella speranza di poter fare carriera e essere promosso
al grado successivo.
E
dopo tante ricerche, ora, eccola lì, che si bagnava fuori
Parigi
nelle acque della Senna. Nonostante i mesi passati in cella, si era
ripresa dalla trasandatezza, ed era tornata la rondine libera di
sempre. Bella come prima e ancora più seducente.. no! Era
una cosa
da dimenticare. Bisognava consegnarla alla giustizia, per ottenere la
promozione e far sì che Fleur-de-lys fosse orgogliosa di
lui.
La
spiò. Rimase a guardarla mentre lei, non vedendo nessuno, si
immergeva nelle deboli correnti della Senna e riemergeva tutta
bagnata, con la sola camicia addosso. Sola, o almeno convinta di
esserlo, e vigile, si ristorava nelle acque del fiume, limpide e
cristalline...
***
Dopo
quel fuggevole incontro con la Esmeralda, Claude Frollo aveva
terminato la lezione e si era congedato dai suoi illustri
interlocutori e si era diretto verso il luogo dove aveva visto
sparire la zingara. Non c’era. E lui che aveva pensato che
fosse
rimasta tutto il tempo dietro quel nascondiglio, aspettando che le
guardie se ne andassero. Probabilmente dopo un po’ se
n’era
andata., chissà dove. Sospirò rassegnato. E si
avviò alla
cattedrale. Doveva ancora finire delle faccende lì. Non
aveva tempo
di cercare la zingara, nonostante avesse tanto voluto. E per dirle
cosa? Tutto quello che aveva da dirle l’aveva già
detto. Perché
continuare? Perché cercare ancora di persuaderla che il suo
capitano
non la amava? Se l’avesse incontrato, l’avrebbe di
certo capito
da sé, forse.
Tornò
alla cattedrale, illuminata. Salì le scale della torre e si
rinchiuse nella sua cella. Tutto era esattamente come l’aveva
lasciato. Era come se non fosse cambiato niente. E in quella
immobilità, in quell'immutabilità, egli scorse
come un segno, il
segno divino che da tanto aspettava. Sulle grigie, scure e fredde
pareti della cella, egli scorse in caratteri cubitali la parola, tra
le tante formule, che aveva inciso all'apice della sua follia:
ANAGKH.
Decise in quel momento che non
l'avrebbe più cercata, non si sarebbe
più interessato a lei. A meno che lei non fosse venuta da
lui, egli
sarebbe rimasto nella sua cella a pensare, filosofeggiare, ricercare
disperatamente la pietra filosofale, e impartire lezioni private al
re, Luigi XI di Francia. Quella sarebbe rimasta la sua vita. Quella e
nient'altro.
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Capitolo 5 *** miO fEBo ***
Il
sole, alto nel cielo, stava ormai declinando. Si avviava al tramonto.
Esmeralda
si rivestì e iniziò a dirigersi a passo veloce
attraverso i vicoli angusti,
verso la città, per recarsi alla corte. Sì, anche
se non c'era più nessuno
della sua famiglia, lei avrebbe continuato a chiamarla così.
I piedini morbidi
e ambrati si muovevano agili e veloci sul selciato caldo, che le
trasmetteva
una piacevole sensazione di calore, torpore, e famiglia.
Improvvisamente, dopo
lungo tempo, aveva iniziato a ricordare qualcosa che non fosse legato
alla
prigionia.
Era
una giornata come tante, lei era ancora una bambina, poteva aver avuto
al
massimo tre o quattro anni. Non si trovavano a Parigi, ma nell'aperta
campagna,
vicino a una cittadina.
Anche
quella mattina c'era il sole, ma era pallido, invernale, freddo. Lei si
era
alzata che la stella era già alta nel cielo bianco. Dentro
il carro del duca
d'Egitto, il suo tenero e piccolo musetto era riemerso dalle coltri
della
pesante trapunta che Clopin usava per dormire, visto che condivideva il
carro
con lei. Gli occhioni grandi, scuri, si erano aperti emergendo da sotto
la
coperta. E avevano scrutato l'ambiente circostante alla ricerca del
volto
familiare e benevolo del patrigno. La chioma castana era sparsa sul
cuscino, e
dalla coltre emergevano le piccole manine che tenevano i lembi della
coperta.
Sbadigliò e si alzò a sedere, stropicciandosi gli
occhi tenendo le mani a
pugnetto. Quando tutt'a un tratto, un profumo insolito aveva colto la
sua
attenzione. Era un buon odore, e la sua giovane mente si chiedeva cosa
fosse.
Non era il profumo dell'erba, l'avrebbe riconosciuta. Non era neanche
qualche
fiore particolare, giacché conosceva quella zona abbastanza
bene dal conoscere
a memoria i profumi di tutti i fiori lì vicino. Con la sua
poca esperienza non
sapeva descrivere cosa quel profumo caldo, che le ispirava qualcosa di
avvolgente e croccante, chissà perché?, e di
buono. Si era alzata e si era
avviata verso l'uscita del carro, sua casa.
Lentamente
aveva percorso i gradini di legno che la separavano dalla superficie
terrestre.
Aveva leggermente mosso il labbro mentre le manine si serravano al
materiale e
i suoi occhioni si fissavano sul punto dove i suoi deliziosi piedini
avrebbero
dovuto poggiarsi. Era agitata. Voleva andare da Clopin per chiedergli
cosa
fosse quel profumo. Inoltre, quella era la prima volta che usciva dal
carro
senza l'accompagnamento del padre. Clopin sarebbe stato orgoglioso di
lei!
Quando
finalmente il suo corpo toccò terra senza problemi,
zampettò sui piedini verso
il campo vero e proprio, ovvero il cerchio composto da tronchi di
legno,
intorno alle pietre che delimitavano il focolare.
Si
era avvicinata tutta sorridente al cerchio, dove aveva riconosciuto il
suo
papà, e correva. E notò che più gli si
avvicinava, più l'odore era buono e
forte. Doveva essere il suo papà a emanare quel profumo...
Il suo papà era
tanto buono...
-Papà,
papà... che cos'è questo profumo?- chiese tenera.
-È
il profumo del pane. È la cosa più semplice e
buona che ci sia al mondo. E ciò
di cui tutti hanno bisogno per poter vivere. È il simbolo
della nostra vita,
tesoro.- le aveva spiegato allora e la piccola si era accontentata di
quella
spiegazione e l'aveva conservata, quasi avesse il terrore che quelle
parole
potessero scivolare via e abbandonarla sola proprio in quel momento.
Quell'odore
che anni prima aveva tanto destato la sua curiosità, lo
sentiva anche lì, per
le vie acciottolate di Parigi, mentre cercava di ricordare quale strada
avesse
intrapreso al mattino per sfuggire alle guardie. Perché
doveva sempre scappare
da qualcosa o qualcuno, correre senza meta e ritrovarsi in posti
sconosciuti?
Sempre al tramonto, per di più. La giovane, rincuorata dal
ricordo appena
riaffiorato alla mente, ma spaventata all'idea di essersi persa di
nuovo, vagò
per le strade, pensando a Febo, ignara del fatto che l'amato soldato
fosse vivo
e la stesse seguendo e spiando da tutto il giorno.
***
La
guadava da tutto il giorno, nascosto dagli arbusti che la sponda del
fiume
offriva, come perfetto nascondiglio. Non voleva ancora rivelarsi, per
quello ci
sarebbe stato tempo. Voleva prima vedere cosa facesse esattamente la
giovane,
dove vivesse e se fosse sopravvissuto qualche altro sans-papiers alla
strage
della settimana precedente.
Ancora
doveva capire come diavolo avesse fatto a sfuggire al patibolo... Non
si dava
pace per questo affronto che aveva subito da parte di quella giovane
spaurita e
assassina. Come aveva fatto a eludere le guardie che soprassedevano
Notre Dame
a ogni porta? Come era riuscita a non essere riconosciuta da nessuno?
Eppure la
notte precedente la sua presunta esecuzione, la luna era piena, quindi
avrebbe
dovuto risultare evidente a chiunque passasse di lì... ah!
Ma che senso aveva,
ormai? Ora l'aveva ritrovata, e questa volta, niente al mondo sarebbe
riuscito
a frapporsi tra lui e la strega: l'avrebbe avvicinata, e poi portata in
cella,
per farla morire il giorno stesso, se fosse stato necessario. Non
l'avrebbe
scampata, questo era certo, chiarissimo nella sua mente.
Verso
il tramonto la giovane si era alzata, rivestita di tutto punto, con
grande
disapprovazione del capitano, che, mentre aveva elaborato quel
diabolico, a suo
dire, quanto infallibile piano, aveva indugiato più volte
senza alcun ritegno
sul corpo della bella zingara, che, doveva ammetterlo, riusciva ancora
a
risvegliare nella sua mente pensieri che di pudico avevano ben poco.
Aveva
indugiato sui suoi virginei seni, sul suo ventre, sulle sue gambe
lasciate al
sole, forse anche eccessivamente scoperte. Ma cosa poteva saperne la
zingara,
che dietro a quegli arbusti si nascondeva l'uomo che aveva detto di
amare e che
ora, mentre pensava a una maniera efficace per ucciderla una volta per
tutte,
si eccitava al vedere il suo corpo bagnato e mal coperto dai suoi
vestiti? Di
certo sarebbe stata entusiasta di saperlo lì, e avrebbe
avuto la folle idea di
corrergli incontro, magari chiamarlo anche “amore”,
come è solito che si
comportino le giovani ragazze innamorate. Avrebbe anche potuto dirgli
che
l'amava e che non poteva vivere senza di lui. Dai ricordi di quella
sera
fatale, visti i discorsi che lei aveva fatto, sarebbe anche potuta
andare così.
Anzi, quasi sicuramente sarebbe andata così, non aveva dubbi.
Quando
la vide alzarsi e allontanarsi, aspettò qualche istante e
poi la seguì. Seguiva
il suo passo leggero e danzante di una fanciulla troppo spensierata,
dolce e
bella per destare sospetti sulla sua colpevolezza. Eppure quel pugnale
era
della fanciulla, ne era certo: si ricordava di averlo intravisto sotto
la gonna
di Esmeralda, quel mattino in cui lei era salita nell'appartamento
della sua
fidanzata, Fleur-de-lys. E una cosa che aveva sempre avuto, era buona
memoria.
L'unica cosa che lo stupiva era quanto lei fosse stata abile nel
nasconderlo al
capitano degli arcieri del re, e di averlo saputo tirare fuori nel
momento più
opportuno, quando ormai lui era a un passo dal poterla avere.
Ormai
non aveva più importanza, lei l'aveva pugnalato e niente di
quello che sarebbe
potuto essere stato, sarebbe accaduto. Quella fanciulla, all'apparenza
tanto
ingenua, ma scaltra come una volpe e agile come un felino, non poteva
che
vederla come una nemica, una strega che aveva cercato di ucciderlo,
incantandolo con la sua bellezza e il suo atteggiamento di bambina
innocente.
L'avrebbe presa con sé con l'inganno, esattamente come aveva
fatto lei, e poi
l'avrebbe condotta in prigione, e questa volta non avrebbe permesso a
nessuno
di avvicinarsi alla cella, a costo di doverla sorvegliare di persona.
La
fanciulla vagava per la città, quasi fosse incerta su dove
andare, e lui colse
l'occasione per avvicinarsi.
-Vi
siete persa, bambina mia?- chiese lui, sorridente. La zingara si era
bloccata e
dopo qualche istante si voltò verso di lui.
***
Esmeralda
stava vagando per la città, ignara di dove fosse e quanto
tempo fosse passato.
Pensava solo ed esclusivamente al suo Febo. Al suo sole senza il quale
non poteva
vivere... Chissà se stava pensando a lei, o si era trovato
qualcuno che
colmasse quel vuoto che il suo amore aveva lasciato in lui.
Vagava
da ore probabilmente, quando sentì una voce, quella voce,
rivolgersi a lei. Il
cuore tamburellò forte forte come non accadeva da tanto
tempo. Come se niente
fu desse, la voce dell'arcidiacono scomparve dalla sua mente,
sostituita da
quella del suo bel capitano. L'aveva trovata, infine! L'aveva sempre
saputo!
Sarebbero rimasti insieme e sarebbero fuggiti via da quella
città, che tanto
aveva causato loro del male e tanto dolore: non voleva più
rivedere quel
vecchio prete.. Voleva dimenticare, rifarsi una nuova vita, lontana da
Parigi,
con la persona che più amava.
-Sì…-
rispose voltandosi verso di lui. Con un nodo che le serrava la gola e
le
lacrime agli occhi dall’emozione.
-Ti
sono mancato?- chiese lui con un sorriso beffardo sul volto. Lei
sorrise nel
vederlo.
-Sì,
molto, mio Febo!!- rispose riscuotendosi da quello stato intorpidito e
stupito,
per lasciare spazio alla sua solarità, appena riconquistata
alla vista del suo
amato. Lui sorrise.
-Che
ci fate tutta sola fuori Parigi, bambina mia?- disse senza cercare di
nascondere una certa voluttà.
-Camminavo…-
rispose lei –e mi sono persa…- riprese lei.
-Posso
riaccompagnarvi in città, se lo gradite.- ribatté
lui, sfoggiando tutta la
cavalleria di cui era capace. A tanta dimostrazione di cavalleria, la
gitana
arrossì, e annuì, afferrando saldamente il
braccio che l’uomo le stava
offrendo. Un soldato e una zingara. Per lei non c’era niente
di più logico al
momento. Febo era più grande di lei, ma non così
vecchio come il prete. La sua
armatura rifulgeva splendente ai raggi del sole, donando una gioia
immensa alla
piccola zingara. Non sapeva perché, ma stare con Febo la
rassicurava. Era tranquilla,
non solo perché lui era il suo amato e l’aveva
cercata in lungo e in largo,
dando così prova del suo cieco amore; anche
perché sapeva che, finché sarebbe
rimasta al suo fianco, le guardie non le avrebbero torto un solo
capello. Lui non
l’avrebbe permesso.
Con
lui stava bene, lo sentiva. Non poteva sentirsi meglio di
sì. Il cuore era
palpitante e dopo giorni, mesi di totale buio, con Febo era tornato
anche il
sole. Era come se la vita fosse tornata a scorrerle nelle
vene… La paura
provata in quei pochi giorni di libertà, di incontrare quel
prete a ogni angolo
della strada, che una volta trovata avrebbe potuto…
Continuare a cercare di
averla, ormai senza alcun controllo, la terrorizzava,
finché, tornata a casa,
al sicuro, non tirava un sospiro di sollievo. Ora tutto quel timore era
scomparso, con la gioia e la conferma della sua speranza, che Febo era
vivo e
che il prete le aveva mentito, in carcere.
***
Febo,
dentro di sé, sorrideva. Molto presto l’avrebbero
elevato di grado. Perché come
aveva promesso alla zingara, la stava sì, riportando in
città, ma non le aveva
precisato ancora quale sarebbe stata la destinazione. Ciò
non significava che
lui non lo sapesse: le segrete del Palazzo di Giustizia.
L’avrebbe fatta
rinchiudere lì, e questa volta niente avrebbe impedito alla
zingara di finire
al patibolo. Nessuno poteva attentare alla sua vita senza pagare. Non
importava
chi fosse e perché l’avesse fatto (anche se al
capitano il movente sfuggiva
ancora!), doveva pagare, ed era disposto a tutto pur di farsi
giustizia. Ignorando
ciò che la zingara ancora, nonostante tutto, fosse in grado
di suscitare in
lui, continuò per la sua strada, trascinandola dietro con
sé.
La
giovane non aveva ancora realizzato dove stessero andando, quando
oltrepassarono le porte della città e le vie, man mano che
si avvicinavano alla
cattedrale, all’Ile de Cité, sempre ingombre di
banchetti delle botteghe, i
carretti che passavano, trainati da muli o asini e poi le carrozze
nobiliari,
trainate da eleganti cavalli purosangue.
***
Lei si guardava intorno,
cercando di
riconoscere la strada che l’avrebbe riportata a casa da sua
madre, il poeta
Pierre e dalla sua Djali, che quel giorno aveva deciso di rimanere con
il suo
padrone. Come sarebbe stata contenta sua madre di conoscere finalmente
l’uomo
di cui tanto lei le parlava! Finalmente avrebbe visto quanto bello e
gentile
era, e avrebbe smesso di difendere quel prete maledetto, infernale, che
la
desiderava.
Era
talmente felice ora, finalmente, dopo tutti quei mesi di terrore, che
poco
importava dove stessero andando, l’importante, almeno per la
giovane zingarella,
era stare insieme. Voleva solo questo. Un dubbio la assillava,
però non ebbe il
coraggio di aprire bocca. E invece di pensare al peggio, cosa che in
qualunque
altra situazione avrebbe fatto (soprattutto in compagnia del prete!) la
Esmeralda pensò, da ragazza ingenua e innamorata che si
stessero dirigendo a
casa sua, del suo bel capitano.
-Mi
state portando a casa vostra?- chiese lei, ingenuamente.
-Vicino
a casa mia... se non ti dispiace..- rispose non più gentile
come prima, facendo
scaturire un moto di sorpresa in Esmeralda. Perché ora si
comportava così?
-N..no…-
farfugliò lei confusa.
***
Febo,
dal canto suo, era stanco di voler fingere con quella strega,
bellissima strega.
Voleva semplicemente consegnare la fanciulla, vederla sulla pubblica
piazza e
essere aumentato di grado, in modo tale da poter sposare la bella
Fleur-de-Lys.
Da quando la zingara era sfuggita per la seconda volta, alla giustizia,
era più
irrequieta del solito, e sospettava che lui centrasse qualcosa nel
fatto che
fosse sfuggita alla giustizia.
Doveva
farla morire. Non poteva permettere che fosse macchiato il suo onore di
capitano delle guardie. Se voleva essere qualcuno, doveva dimostrare
che niente
e nessuno poteva prendersi gioco di lui, soprattutto una zingara
accusata di
stregoneria.
Erano
ormai arrivati di fronte al maestoso palazzo, severo e austero, quando
dovette
fermarsi e voltarsi verso la sua accompagnatrice.
-Qualcosa
non va?- chiese lui sornione, un malvagio ghigno dipinto sul volto.
***
-Perché…
mi avete portato qui?- chiese lei spaventata. In effetti era in quello
stato di
pensieri da quando aveva visto il profilo del minaccioso palazzo
rivelarsi da lontano.
Non aveva capito perché si stessero dirigendo là,
finché il profilo non si era
materializzato nella facciata, con le sue porte di bronzo e ferro,
quelle
pesanti porte che per mesi le avevano vietato di vedere il suo sole.
-Perché
voi mi avete ferito, zingara. Mi hai pugnalato quasi mortalmente e non
ho
alcuna intenzione di far passare l’azione impunita. Chi
commette un crimine,
deve pagare. E per quanto tu, con il tuo visetto grazioso possa
piacermi.. devo
far rispettare la legge. Sono il capitano degli arcieri del re. Devo
rispettare
per primo la legge, se voglio che gli altri lo facciano. Quindi ora
vieni con
me per pagare le tue colpe.- concluse Febo di Chateaupers in tono duro.
Lei sgranò
gli occhi.
-No!
Io non vi ho fatto niente! Credetemi. Come avrei potuto farvi del male?
Voi siete
tutto per me! Il mio sole, la mia vita… Io vi amo, Febo,
come non è umanamente
possibile. Perché mai avrei dovuto pugnalarvi in quella
stanza? Io.. Lo so di
essere stata trovata accanto a voi, ma… io non vi avrei mai
potuto fare del
male! Lo giuro sulla mia vita!- disse lei, disperata, con le lacrime
agli
occhi. Non aveva fatto niente per meritarsi tutti quei mesi di
prigionia e
tortura.
***
–Se
non sei stata tu, chi è stato allora?- aveva chiesto il
capitano guardandola
diffidente. Che cercasse di discolparsi, era un cliché, una
scena già vista e
rivista. Però quella ragazza sembrava sincera. Era una
zingara, però già solo
per la propria bellezza e giovane età (infatti non aveva mai
incontrato una
zingara bella e giovane allo stesso tempo!) dubitava che potesse essere
falsa
come gli altri. La ragazza, alla sua domanda aveva titubato a lungo,
come se ci
fosse qualcosa che la turbasse. E per questo lui non aveva esitato a
farle
pressione. –Allora?
Si può sapere chi è
stato se non tu?- chiese lei.
***
Esmeralda
titubava. Doveva raccontare proprio tutto quello che sapeva al
capitano? Doveva
consegnare un uomo alla giustizia? Non sapeva se sarebbe stato giusto,
cosa
avrebbe detto Clopin se fosse stato lì. Però
sapeva chi era l’uomo in
questione, e cosa le aveva fatto patire. Quel prete maledetto, che
odiava con
tutta se stessa. Che aveva commesso un crimine e poi l’aveva
accusata. Che l’aveva
fatta torturare e le aveva fatto quella proposta indecente nella cella.
Che,
anche se non l’aveva consegnata alle guardie, continuava a
guardarla con la
stessa lussuria e lo stesso desiderio che gli aveva visto negli occhi
quel
mattino nella cella. Si sentì terribilmente in colpa. Ma fu
più veloce di lei,
le parole le sfuggirono di bocca ancora prima di poterle frenare.
-Il
prete maledetto.- rispose lei per poi raccontargli tutto ciò
che lui le aveva
raccontato. –è stato lui, io non c’entro
niente, mio Febo. Credimi.- rispose
lei.
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