You're the truth not I

di Ato
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anche tu puoi essere perfetto ***
Capitolo 2: *** Poi incroci le dita così ***
Capitolo 3: *** Io vivo in te ***



Capitolo 1
*** Anche tu puoi essere perfetto ***


 

Questa storia ha partecipato a La Bella Estate [Uchihacest Summer Contest indetto dal forum New Moon – II Edizione] classificandosi terza.

Ne approfitto per ringraziare la giudice che è stata puntualissima e soddisfacente coi giudizi. In più ho già letto quasi tutte le altre storie partecipanti e non posso fare a meno di suggerirvene la lettura, quindi complimenti anche a tutte le altre ragazze!

 

Passando a questa fanfiction nello specifico ho una premessa da fare – spero di essere breve ma vi invito anche a mettervi comodi XD

È un po’ particolare, l’ho scritta come sfida pur sapendo che non fosse per niente adatta a partecipare a un contest. Ci tengo a precisarlo perché per ragioni di trama Itachi non è sempre IC. Questo non significa che mi sono presa la briga di farlo OOC per capriccio, ma spero di riuscire ad argomentare bene le mie ragioni nel corso della storia. L’alternanza tra IC!Itachi e OOC!Itachi è un punto focale della trama, quindi spero che abbiate il coraggio e la pazienza di perdonarmi XD

Altre note sparse:

-         Ci sono spoiler e riferimenti all’ultimo arco narrativo con Itachi e Sasuke, fino al capitolo 593.

-         Nekomata è il duecode. L’ho associato a Sasuke perché tra i demoni è quello legato al regno dei morti, viene chiamato spirito della vendetta, e poi è un gatto, quindi mi sembrava l’animale più vicino al clan Uchiha.

-         Il titolo della fiction è un omaggio a Brian Molko, You’re the truth not I  è un verso di Twenty years dei Placebo.

Questo è il primo dei tre capitoletti. Buona lettura! J

 

You’re the truth not I

Prologo

Nekomata sentiva che gli occhi stavano andando in fiamme. Sotto il suo sguardo giaceva un ragazzo che gli somigliava tantissimo. Il demone si chiese come fosse possibile che un essere umano, così giovane, così piccolo, così provvisorio, avesse il suo stesso fuoco negli occhi.

Una ragazza era in ginocchio vicino a lui. Aveva poggiato la testa del ragazzo sulle proprie ginocchia e gli sfiorava il polso destro con due dita fermissime. Anche lei non riusciva a distogliere lo sguardo da quello del ragazzo. Nekomata si chiese cosa ci fosse di magnetico in uno sguardo così tremendamente rosso e piatto.

Poco distante da loro, c’era un altro ragazzo. Quello che pronunciava promesse con leggerezza e solennità – un altro umano così sprovveduto da pensare di poter conciliare quelle due cose nello spazio di una frase. L’unico che poteva dargli retta era proprio Kurama, tanto disilluso e arrabbiato da rivelarsi credulone come un bambino. Nekomata si chiese come mai il jinchuuriki non si fosse lasciato ammaliare dallo sguardo rosso di quello disteso a terra, nonostante fosse evidente che in quegli occhi avrebbe desiderato persino morirci pur di vederli ancora per qualche istante.

Poi lo vide rivolgersi alla ragazza inginocchiata a terra. «Allora, hai capito cos’è successo? Cosa faccio?».

Lei sollevò il viso, lo guardò con una limpidità che sapeva di speranza – di quella speranza tipica dei soliti umani sprovveduti. «Sì», disse. «Devi continuare ad attaccarlo, mettilo sotto pressione».

Nekomata colse le occhiate che si scambiarono quello dai sorrisi impropri e quella dalle mani ferme. Si chiese come fosse possibile che esistesse qualcuno dotato di uno sguardo in cui bruciava qualcosa più forte delle fiamme della vendetta.

 

 

 

Capitolo 1

 

«Se ti liberi di Itachi, sparisce anche l’estate» lo avvisò Shisui, ilare. «È colpa sua se fa tanto caldo».

Sasuke sbuffò, avviandosi a spalancare le finestre. Venne investito da aria talmente afosa che il solo pensiero di tirare un altro respiro riusciva a riempirlo di angoscia. Gettò un’occhiata alla scrivania, valutando l’utilità del ventaglio che aveva abbandonato tra un mucchio di carte troppo impegnative e una macchina persino più insidiosa.

Il poligrafo lo usava ogni giorno, riponendo piena fiducia nei suoi meccanismi. Sin da quando ne era entrato in possesso, l’aveva trovato molto utile nella soluzione di interrogatori che conduceva personalmente in quanto membro di spicco della polizia di Konoha.

«Se continui a guardarlo così rischi di incenerire ventimila soffertissimi ryo dell’hokage», osservò Shisui, senza particolare sussiego.

«Non ho intenzione di liberarmene, se è questo che speri».

Sasuke lo scrutò con attenzione e decise di non insistere oltre quando lui di tutta risposta dopo un’occhiata severa scrollò lo spalle.

Erano due giorni che Shisui aveva ripreso a insistere con quella storia: condannava rigorosamente l’uso del poligrafo. Sasuke ricordava alla perfezione le poche parole che suo cugino utilizzava con cadenza pressappoco mensile per diffondere quello che sembrava il suo nuovo credo ninja. Non esiste nessuna macchina della verità, Sasuke, diceva, con un sorriso gentile, come di uno che si prepara a dare una terribile notizia a una mente instabile. Non esiste nessuna macchina della verità, Sasuke. Perché la verità non esiste.

«Sai come la penso», ribadì Sasuke, ignorando il proposito di pochi istanti prima. «Credo che la verità sia alla base di tutto. Voglio solo capire se questa macchina può aiutarmi a conoscerla».

«E quanti uomini dovranno morire ancora prima che tu capirai?»

La porta si spalancò proprio nel momento in cui la sentenza di Shisui finiva di gettare ombre scure sul viso di Sasuke.

Itachi entrò con calma e si concesse qualche secondo per studiare la situazione. «Sento odore di vecchi dissapori» esordì, col chiaro intento di alleggerire l’atmosfera. «Mantieni ancora la tua posizione, otouto?»

Sasuke annuì seccamente, girando attorno alla scrivania. Si avventò con nervosismo malcelato sui cavi del poligrafo tentando di venire a capo del groviglio di nodi. Senza sollevare lo sguardo, fece segno a Itachi di sedersi sulla sedia che aveva preparato per lui. «Sto cercando di fare la cosa giusta», precisò, e gli sembrò sbagliata l’idea stessa di doverlo precisare, come se tutti in quella stanza avessero avuto bisogno della sua rassicurazione.

Itachi prese posto davanti alla macchina, gli porse le mani e lo lasciò fare quando Sasuke iniziò a piazzare i sensori sulle sue dita.

La sera prima Sasuke gli aveva chiesto se fosse disposto a fare una prova al poligrafo per vedere se fosse possibile evaderne il controllo. Non era stato piacevole perché era chiaro che Sasuke si era rivolto a lui in qualità di bugiardo esemplare. Ma era anche vero che dare del bugiardo a suo fratello era un diritto che riteneva squisitamente suo e di nessun altro. Sapeva di capricci di bimbo – sei un bugiardo, nii-san – di sorrisi imbarazzati e caldi, di buffetti sulla fronte, di promesse mancate ma sentite – perdonami Sasuke, sarà per la prossima volta – sapeva di esclusività perché Sasuke aveva l’incoerenza sufficiente a fulminare con lo sguardo chiunque altro avesse dato del bugiardo a Itachi.

«Sei pronto?» lo interrogò, prendendo il blocco per gli appunti.

Itachi lo invitò a proseguire senza mostrare alcun segno di nervosismo, ed era esattamente la stessa cosa che faceva davanti a un nemico prima di farlo inginocchiare graziosamente ai suoi piedi e risparmiarlo per buona misura con un sorriso più o meno gentile, a seconda dei casi.

Sasuke tentò di non lasciarsi irritare da tutta quella calma. «Sei Uchiha Itachi?»

«Sì».

Osservò la registrazione del poligrafo e si appuntò i parametri vitali che corrispondevano alla sincerità di Itachi.

«Fa caldo?»

«Sì, ma è sopportabile».

Sasuke arricciò il naso, gettando uno sguardo al colletto della divisa di Itachi: era perfettamente composto e il pensiero di respirare afa evidentemente in lui non risvegliava istinti suicidi.

Sasuke odiava l’estate.

«Siamo tre persone in questa stanza?»

«Dipende».

«Itachi».

 

Quella storia andava avanti da un po’. Da un bel po’, a dire il vero. Tanto che Sasuke non avrebbe saputo dire quando fosse cominciata con precisione. Sapeva solo che a un certo punto della sua vita non era stato più solo, nemmeno nei momenti in cui la solitudine gli era sembrata un tesoro prezioso invece che qualcosa per cui morire di nostalgia.

Quasi sempre, di notte e di giorno, persino nel dormiveglia, riflessi rossi si posavano ai limiti del suo campo visivo, tracciando linee discontinue. Era come finire tra braccia troppo piccole per circondarlo tutto, ma sufficienti a soffocarlo.

I riflessi rossi erano un velo finissimo che si posava su ogni superficie e quasi la cristallizzava, la rendeva parte di un momento sospeso nel tempo. A volte sembrava che tutto quel rosso fosse in grado di mangiarsi l’aria; altre volte tutto quel rosso era così discreto da sembrare solo il riflesso di una lanterna che per fargli strada restava sempre accesa.

A volte Sasuke aveva tentato di trovare la fonte di tutto quel rosso. Non sempre ci riusciva, ma quando accadeva gli mancava il respiro, il cuore gli balzava in gola, il sangue nelle vene scorreva impazzito come se la paura ne assecondasse il rigurgito. Quando Sasuke si girava di scatto, spesso vedeva un enorme occhio rosso, uno solo. Ed era grande, così grande che Sasuke nei momenti di panico riusciva solo a pensare che l’occhio gemello dovesse essere visibile all’altro capo del mondo e che insieme, quegli occhi, fossero lo sguardo di qualche demone infernale.

Itachi non gli credeva, nonostante si mostrasse molto apprensivo ogni volta che ne parlavano. Gli rivolgeva domande accorte e intelligenti, con gentilezza lo induceva ad ammettere che tutto quello aveva un che di assurdo, che non era sano sentirsi spiati e che soprattutto nessuno ci sarebbe riuscito.

Quando era di particolare buonumore, Itachi gli dava un buffetto sulla fronte, gli sorrideva, mormorava qualcosa come sono certo che hai già superato l’età dell’amico immaginario, Sasuke.

 

Siamo tre persone in questa stanza?

Dipende.

«Non ricominciare con la storia dell’amico immaginario» lo avvertì Sasuke, abbastanza seccato, puntando un dito nell’aria che a lui sembrava comunque ammantata di riflessi rossi. Solo a lui, in ogni caso.

«Non era mia intenzione, Sasuke. In realtà stavo invitando nostro cugino a lasciarci soli».

Shisui li guardò con aria innocente e petulante. «Me ne vado subito se mi dici come si chiama il tuo amichetto immaginario, Sasuke» sorrise, e c’era un che di luciferino nel suo sguardo: luciferino ma delicato.

Quel comportamento riusciva a far sentire Sasuke come il più immaturo dei bambini, uno di quelli che non erano nemmeno entrati nell’età dei perché ma erano ancora troppo preda delle proprie fantasie per porsi qualche domanda sulla realtà delle cose.

«Si chiama chidori e sta per arrivarti in faccia» gli rispose lui, bruscamente.

«Va bene, va bene» acconsentì l’altro, per nulla scomposto, «me ne vado. Vi lascio lavorare».

Sasuke trasse un lungo respiro quando vide la porta ritornare nella sua cornice, finalmente chiusa. Respirare afa gli sembrava più sopportabile senza quell’imbecille di Shisui. «Riprendiamo?»

Itachi annuì con calma. Se era divertito, era comunque abbastanza bravo da non lasciarlo intendere.

«Ti piacciono i dolci?»

«Sì».

«Ti piace provare a farmeli mangiare?»

«È uno dei miei passatempi preferiti, otouto».

Sasuke assottigliò lo sguardo, minaccioso, eppure le sue labbra si arricciarono nel tentativo di trattenere un sorriso. «Credi in Konoha?»

«Assolutamente».

«Ora cominciamo con le bugie» avvisò Sasuke, ignorando il modo strano in cui l’ultima risposta gli aveva stretto lo stomaco. «Alle prossime domande devi mentire, così io posso vedere se il poligrafo segna la menzogna o continua a registrare le tue risposte come verità».

«Va bene».

«Mi chiederai perdono per aver tentato di farmi mangiare quei dolci?»

«Sì» sorrise Itachi, trattenendo tra le labbra una verità molto più sottile – non gli avrebbe mai più chiesto perdono.

Eppure il poligrafo diceva che quel era stato sincero.

«Hai detto la verità?»

«Sì».

«Itachi, questa era una domanda al di fuori dell’esperimento», sbuffò Sasuke, esasperato. «Vuoi davvero chiedermi perdono?»

«Devo dirti la verità o devo mentirti?»

C’era una luce particolare negli occhi di Itachi, forse la stessa che gli animava lo sguardo ogni volta che Sasuke gli faceva notare quanto fosse irritante che un tipo serio come lui sfruttava il suo otouto per fare del sottile umorismo.

«Lascia stare, andiamo avanti e rispondi con una bugia», decise, pensando alla domanda seguente. «La smetterai mai di chiamarmi Dr. Snake?»

«Sì».

Sasuke sbarrò gli occhi, puntandoli più urgentemente sul tracciato del poligrafo. Ancora una volta indicava che Itachi non stava mentendo. Sasuke serrò le labbra in una linea sottilissima.

Il poligrafo non sbagliava mai.

«Credi che gli uomini vivano immersi nei propri preconcetti?»

«No».

Il poligrafo non sbagliava mai. Il poligrafo non confondeva verità e menzogne.

Sasuke si agitò sulla poltrona, controllando l’ago e la carta su cui veniva inciso il tracciato.

«Hai sempre desiderato che io avessi i tuoi occhi?»

«No».

Bugia. Sasuke sapeva che Itachi non aveva desiderato altro da quando aveva tredici anni. Sarò la tua luce, Sasuke. Era sempre stato così.

Eppure il poligrafo diceva il contrario. Il poligrafo diceva che Itachi non stava mentendo.

Sasuke incassò la punta della penna nel blocco degli appunti, la sentì scoppiare tra le mani. Osservò senza vederle davvero le proprie dita sporche di inchiostro. I riflessi violetti si confondevano con altri più tenui ma penetranti alla vista e rossi.

«Shisui ha ragione a dire che questa macchina non serve a niente?» sfiatò, senza energia.

Itachi gli lanciò una lunga occhiata. «Vuoi sapere la verità o vuoi un’altra bugia?»

Lui sventolò lentamente la mano, portandosela sugli occhi. «Non importa».

«Penso che abbia ragione».

E lui invece aveva sbagliato.

Sasuke sentì quella consapevolezza al centro del petto come se fosse stato istantaneamente penetrato dalla più affilata delle armi.

Si era fidato del poligrafo. Aveva sbagliato.

Qualcuno era morto per questo.

Più di qualcuno, a dire il vero.

«Credi che le persone forti siano in grado di perdonarsi?» chiese, attendendo una risposta che credeva di conoscere, qualcuna in cui avrebbe trovato conforto – sì, otouto.

Itachi si sfilò lentamente i sensori dalle dita, si sporse verso di lui incrociando le braccia sopra la scrivania. «Credo che se non è la vittima a perdonare per prima, allora il carnefice non potrà mai perdonarsi. E credo che i morti non perdonino, Sasuke».

 

***

 

Itachi era riuscito a battere la macchina della verità.

A volte Sasuke si lasciava ancora accarezzare dal pensiero che suo fratello fosse perfetto – e cos’era la perfezione se non la capacità di vincere sempre? Itachi l’aveva avuta vinta persino su una macchina di ultima generazione, a cui avevano lavorato le menti più sofisticate del loro secolo.

Il colmo era stato che mentre lui si stizziva per determinati pensieri – la perfezione non esiste, per questo nasciamo in grado di assorbire le cose – Itachi aveva smesso di parlare con una ragazza che l’aveva definito perfetto. Le aveva rivolto un sorriso misurato, l’aveva ringraziata con un paio di parole di cortesia e si era avviato verso di lui, in mezzo a migliaia di riflessi rossi.

«Perdonami, Sasuke, sono stato trattenuto» si scusò.

Sasuke si irrigidì a sentire quella parola che aveva archiviato da tempo tra ricordi piacevoli, pur sapendo che sarebbe stato ancora più piacevole non ascoltarla più.

«Mi sembri nervoso, Sasuke».

La strada verso casa invece sembrava un calvario. «Sai che odio questo calore assurdo».

«Non dovresti» osservò Itachi, tenendo il passo. «Ti ho già detto cosa significa ora l’estate per Konoha, no?»

«Sì, solo un centinaio di volte» lo smorzò lui, abbassando un po’ la zip della divisa sul petto.

«Magari devo ripetertelo».

«Perché mai?»

«È che mi sembra strano…» ragionò Itachi, invitandolo a rallentare. «Tu ami così tanto la verità e poi odi l’estate».

«Non c’è niente di strano».

«So che eri in coma quando con l’hokage abbiamo tenuto un discorso in tuo onore, perciò probabilmente non ti rendi conto delle nostre decisioni. Tu ci hai insegnato il valore della verità. E quando pensavamo che non ti saresti ripreso abbiamo deciso di fare qualcosa in memoria di te».

«Creare un’illusione per cui è sempre estate non è stata una mossa intelligente, nii-san», si lamentò lui, senza mostrarsi troppo toccato dal gesto. Si passò una mano tra i capelli umidi. Chiuse gli occhi quando gli parve che la testa minacciasse di mettersi a vorticare.

«Esiste qualcosa che sia più vero e sincero dell’estate?» gli chiese Itachi, dimostrando una certa delicatezza quando non scoppiò a ridergli in faccia.

Sasuke sollevò un sopracciglio, sul punto di organizzare una piccola ma dignitosa rappresaglia.

«L’estate è vera, otouto. Nessuno riesce a girare con delle maschere o a indossare pesanti cappotti per nascondere chissà cosa. La gente si spoglia e non ha paura di mostrare la propria pelle; è di buonumore perché è come se tutta questa luce sia quella della speranza, di una speranza che non muore mai…»

«Questi motivi potrei recitarli a memoria, nii-san» lo informò Sasuke, accorgendosi dello sguardo compiaciuto di suo fratello. «Ma continuo a trovarli imbecilli».

«Sei impossibile» sorrise l’altro, quasi leggiadro.

«Ma almeno io sono sempre lo stesso». Sasuke si voltò per osservare attentamente il profilo di suo fratello: se si era sentito attaccato da quella frase sicuramente aveva fatto in modo di non darlo a vedere.

Era Itachi, quello che l’aveva spuntata persino contro la macchina della verità.

«Che cosa intendi, Sasuke?»

«Dico che a volte mi sembri strano» gli fece presente, guardando avanti per trovare le parole adatte a spiegarsi. «A volte non sembri nemmeno tu. E perché diavolo sembra che ora credi nella perfezione?»

Itachi sorrise, allungando una mano verso di lui. «Hai ascoltato la conversazione con quella ragazza?» indagò, sostenuto. «Vuoi sapere cosa avrei risposto a te se mi avessi detto qualcosa del genere?»

Sasuke rimase immobile, a occhi chiusi, attendendo parole rassicuranti.

La perfezione non esiste, per questo nasciamo in grado di assorbire le cose.

Arrivò il solito buffetto sulla fronte. «Anche tu puoi essere perfetto».

 

***

 

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Capitolo 2
*** Poi incroci le dita così ***


 

Siccome è una storia che perlopiù va letta quasi come oneshot pubblico anche oggi. Domani posto la fine. Ringrazio chi ha commentato nonostante gli avvertimenti XD

 

Qualche nota a inizio capitolo: per la storia delle illusioni mi sono ispirata un po’ a Inception – senza la vana speranza di emularlo, chiaramente – e invece per quella del clone oscuro ho inserito un piccolo rimando al manga.

Buona lettura! J

 

 

Capitolo 2

 

L’engawa era invaso dalla luce del sole e Sasuke non aveva mai sentito tanto vicino il giardino di casa: come lui, probabilmente, con tutto quel calore rischiava di morirne.

Fortunatamente Sasuke aveva altro da fare, e respirare afa non gli sembrava tanto fastidioso quando di fianco a lui c’era Itachi.

Itachi aveva dieci anni e la perfezione incastrata negli occhi e tra le dita.

«Cosa mi insegni oggi, nii-san?»

«La moltiplicazione».

Sasuke scattò in piedi in preda all’agitazione e all’entusiasmo. Strinse le mani in due piccoli pugni attorno alla maglietta di suo fratello. «Proprio adesso? Dai, dai» lo pregò, impaziente.

«Ascoltami attentamente, Sasuke, questa è una lezione difficile».

«Sono attentissimo».

Itachi sorrise, e lui non riuscì a immaginare un modo più interessante per cominciare la lezione.

«Ci sono modi diversi di concepire la moltiplicazione. Esiste per esempio la moltiplicazione del corpo, o quella dello spazio e del tempo».

«Quando le imparo io queste tecniche?» indagò, tentando di ricordarsi come fare a raccogliere il chakra nelle mani.

«Prima è necessario che tu conosca la teoria, otouto».

«Uffa».

«Quando decidiamo di moltiplicare il nostro corpo possiamo ricorrere a varie tecniche. Una di base è quella coi cloni d’ombra, che imparerai subito all’accademia e di questa te ne ho già parlato».

Sasuke annuì, intento a sembrare l’allievo migliore del mondo per far arrivare Itachi al punto più importante.

«Poi c’è la tecnica superiore della moltiplicazione del corpo. Ti permette di dividerti in due entità identiche e separate e dà luogo a veri e propri cloni. Un’altra tecnica invece ti permette di dividerti in due entità separate e opposte: si usa per far emergere la parte oscura delle persone».

«E come si fa?» indagò Sasuke, improvvisamente molto più interessato.

«Si crea un clone animato da tutti i pensieri più intimi e malvagi di una persona. Spesso questo clone ha le sclere nere».

«Cosa sono le sclere?» Sasuke non vedeva l’ora di imparare quella tecnica. Magari avrebbe fatto uno scherzo alla mamma, se le sclere non erano qualcosa di troppo pericoloso.

Itachi scoppiò a ridere, indicando una parte precisa dei suoi occhi. «Questa è la sclera» spiegò, e Sasuke non mancò di considerare di nuovo come fosse bella la perfezione incastrata negli occhi di suo fratello.

«Ho capito», lo rassicurò, «dimmi qualcos’altro su questa tecnica».

«Dialogare con la propria parte oscura è quanto di più pericoloso possa affrontare uno shinobi, Sasuke. Rischia di scoprire cose di se stesso di cui forse non era pronto ad ammettere l’esistenza».

«Quali cose?»

«Cose terribili. E poi la nostra parte oscura molto spesso su cose importanti la pensa all’opposto di noi».

«Per esempio?»

«La mia parte oscura potrebbe… fare del male alla mamma, per esempio».

Sasuke inorridì e tentando di non farsi scoprire lanciò un’occhiata accorta alle sclere di suo fratello. Non sembravano nere. Alla mamma non sarebbe mai successo niente, se lo sentiva. Sasuke lo sapeva e basta. In più Itachi era così forte che nessuna parte oscura avrebbe potuto vincere contro di lui.

«Poi, Sasuke, ci sono tecniche che permettono di moltiplicare spazio e tempo, fanno parte della categoria dei genjutsu», riprese a spiegare Itachi. «Cosa sono i genjutsu, Sasuke?»

Sasuke lo guardò mortalmente offeso. Come se fosse possibile che lui ignorasse una cosa tanto facile! «Le arti illusorie, nii-san».

Itachi gli scompigliò i capelli compiaciuto. «Molto bene. Essendo noi dotati di sharingan, possiamo ricorrere a tecniche molto eleganti. Cioè non solo possiamo creare un’illusione con gli occhi, ma con questi stessi occhi, se allenati a dovere, possiamo creare vari livelli di illusione».

«Che significa?»

«Possiamo creare un’illusione nell’illusione. Cioè moltiplicare le realtà illusorie».

«Bellissimo!» Sasuke non riuscì a impedirsi di scattare di nuovo in piedi, già dimentico del clone oscuro. «Questa devi proprio insegnarmela, nii-san».

«Ma prima devi risvegliare lo sharingan, otouto».

Sasuke sussultò, come se il peso della realtà si fosse moltiplicato sulle sue esili spalle tutto d’un colpo. Si disse che non avrebbe dovuto mostrarsi tanto abbattuto, ma non riuscì a impedire alle palpebre di abbassarsi un po’, o alle labbra di incurvarsi in giù, o al naso di arricciarsi appena per lo sconforto.

«Però posso insegnarti a difenderti da queste tecniche».

«Va bene», sospirò Sasuke, appuntandosi mentalmente un per ora dal tono abbastanza sinistro.

«Le illusioni in genere hanno qualcosa di caratteristico. Quando ti catapultano in realtà diverse non te ne accorgi e, se lo shinobi è bravo come Shisui, non saprai mai di essere davvero finito in un’illusione. Comunque se qualcosa di strano ti fa sorgere dei dubbi, la prima cosa a cui devi pensare è: come ci sono arrivato qui? Se non lo ricordi, potresti essere vittima di un’illusione».

«Come faccio a capire se si tratta di un’illusione semplice o di due illusioni?»

«In genere il secondo livello di illusione ha regole diverse dal primo. Nel secondo livello l’illusione è più imprecisa, più vaga... però è più confusa anche la coscienza della vittima. La vittima diventa più facile da manipolare».

«Va bene, ma come faccio a vincere?» insisté Sasuke, senza preoccuparsi di sembrare petulante.

Itachi ne sorrise, piazzandogli le mani davanti al viso. «Devi essere ben allenato con lo sharingan. E poi devi usare questi sigilli: pecora, tigre, drago. Alla fine incroci le dita così» spiegò, mostrandogli più lentamente ogni passo della tecnica.

«Sembra facile» considerò Sasuke, esaltandosi. Iniziò subito a ripetere la sequenza dei sigilli e sorrise beato quando scoprì di saperla eseguire velocemente. «Prova a intrappolarmi, ti faccio vedere come mi libero subito».

«Non si scherza con le illusioni, Sasuke. Le illusioni confondono e ti fanno perdere il contatto con la realtà. Ma ricordati sempre che la realtà è una. Ed è l’unico posto in cui valga la pena vivere».

Sasuke annuì, fissando suo fratello negli occhi. Il primo impulso era stato quello di liquidare quei discorsi perché ormai era davvero annoiato dalla teoria, però qualcosa sul suo viso gli aveva fatto capire quanto Itachi fosse serio. A Sasuke piaceva quando il suo nii-san lo guardava con espressione seria. Lo faceva sentire grande, e importante, e intelligente abbastanza da capire i pensieri di quello che la gente chiamava genio.

«Ho capito», lo rassicurò, tentando di imitare con la fronte la linea severa delle sopracciglia di Itachi. «E come mi libero di un clone oscuro?»

«Con gli stessi sigilli di prima. Pecora, tigre, drago. Ma alla fine devi incrociare le mani in quest’altro modo» disse Itachi, mostrandogli la nuova sequenza.

Sasuke trovò di saper eseguire anche quella, e non poté impedirsi di sorridere. «Almeno me la mostri qualcuna di queste tecniche?»

Itachi parve pensieroso per un istante, poi lo attirò a sé, posandogli con leggerezza due dita sulla fronte. «Ora non ho più tempo, otouto», sorrise, scusandosi. «Perdonami, sarà per la prossima volta».

Sasuke sbatté un paio di volte i pugni sulle gambe. «Dici sempre così», lo accusò. «Non è che sto parlando con un tuo clone oscuro?»

L’altro sospirò, palesemente divertito. «Allora prova a liberartene».

Sasuke accolse la sfida senza timore. Si alzò a fronteggiare suo fratello e cominciò a formare i sigilli che gli aveva appena insegnato.

Chiaramente Itachi non sparì, e lui non sapeva se esserne felice o deluso.

«C’è anche un altro modo per liberarsi di un clone oscuro».

«Qual è?»

«Abbracciarlo».

Sasuke arricciò il naso, contrariato. Pensò di essere davvero arrabbiato quando Itachi si alzò a sua volta e fece per lasciarlo solo sull’engawa.

Quello doveva proprio essere il suo clone oscuro.

Sasuke non si accorse nemmeno di aver fatto qualche passo, ma un istante dopo stava abbracciando suo fratello.

Che non spariva, e forse – forse – non era proprio oscuro.

Ma almeno era ancora con lui. 

 

Sasuke si chiese quanto potesse fare schifo la regola per cui se il giorno era stato mostruosamente terribile allora la notte doveva essere anche peggio, se possibile.

Si alzò di scatto dal letto, avventandosi sul comodino per vuotare un bicchiere d’acqua. Quel sogno l’aveva svuotato di qualsiasi energia. Era stato così vero… forse perché era l’esatta replica di un ricordo che Sasuke conservava gelosamente tra le pareti della memoria.

E poi quel particolare ricordo innescava la visione a catena di altri.

Per esempio, Sasuke ricordava dei momenti in cui aveva sperato che fosse un clone oscuro di Itachi quello che aveva perpetrato il massacro – eppure le sclere di quell’Itachi che gli aveva parlato con voce fredda erano bianche, quasi vitree. Sasuke ricordava dei momenti in cui aveva sperato di essere finito in un’illusione potentissima, e forse per questo non riusciva sempre a capire se valesse la pena vivere – si vive solo nella realtà, Sasuke. Allora Sasuke aveva deciso che la sua unica realtà fosse il passato e che la realtà originale non fosse altro che un sogno lasciato a metà, perché era davvero troppo orribile per essere vissuto in pieno.

Sasuke ricordava dei momenti in cui aveva capito che anche se non si vede sempre, la parte oscura delle persone esiste e Itachi aveva perso contro la propria – ma non era perfetto, suo fratello?

Ricordava dei momenti in cui aveva tentato di convincersi che sua madre fosse immortale, ma poi, sfiorandosi il viso graffiato durante gli allenamenti, scopriva che nessuno aveva applicato un cerotto sulle ferite e che per questo quelle ferite facevano ancora più male.

Sasuke ricordava dei momenti in cui aveva odiato la solitudine, e aveva trascorso lunghissime notti insonni a fissare la porta della sua camera, in attesa che Itachi la aprisse e gli sorridesse e…

«C’è qualcosa che non va, otouto?»

I riflessi rossi erano spariti.

«È solo il caldo», mormorò Sasuke, riempiendo di nuovo il bicchiere sul comodino.

«Il caldo non ti fa tremare le mani» obiettò l’altro, avvicinandosi al letto. Si inginocchiò di fronte a lui, indagandogli gli occhi nonostante Sasuke si ostinasse a tenere le palpebre abbassate.

«Ho fatto un sogno, ma non era male».

«E nelle sei ore precedenti al sogno che hai fatto?»

Sasuke si accorse di non voler rispondere, e non perché volesse mentire a suo fratello, ma perché finalmente per qualche ragione riusciva di nuovo a sentirlo così vicino da non dubitare che lui avesse già capito tutto.

Itachi immerse le dita nel bicchiere d’acqua, inumidendole fino alle nocche bianchissime. Poi gli prese un braccio e gli rinfrescò l’interno del polso coi polpastrelli bagnati. Era una cura per il caldo, ma anche una carezza, fresca al punto da fargli pensare che l’afa fosse solo un’illusione, mentre quelle dita erano così vere…

«Non sono arrabbiati con te, Sasuke».

«E allora perché mi tormentano?» contestò lui, senza ritirare i polsi.

«Non lo fanno. Ti chiedono solo di non dimenticarli».

Sasuke sussultò, il tocco di suo fratello sulla pelle si fece più deciso. Era un conforto lievissimo, ma sufficiente a fargli tentare un nuovo ragionamento.

Era la prima volta che Itachi lo invitava a considerare il problema da quella particolare prospettiva.

Da tempo ormai quando tornava a casa, quando tentava di dormire, Sasuke aveva la testa infestata dai fantasmi del passato. Ma non era qualcosa che accadeva solo dentro di lui: i fantasmi erano ovunque. Contro i vetri del suo balcone, fingevano di nascondersi dietro le tende finissime e ricamate dalla mamma. Poi erano nei cassetti del suo comodino, in cui ogni giorno riponeva il coprifronte e il ventaglio col simbolo del clan. I fantasmi erano tra le lenzuola bianche e le inondavano di luce madreperlacea così sinistra da far pensare che all’inferno non bruciavano le fiamme, ma bastavano i riflessi dei morti a rendere terribile la punizione eterna promessa da quel luogo. E quei corpi ineffabili ricoperti da veli avevano anche petti possenti, per assurdo, perché dai polmoni traevano voci così acute e penetranti da far sanguinare in un istante le orecchie che le ascoltavano e il cuore che le accoglieva in sé – ci hai sfruttati, Sasuke; hai disturbato il nostro sonno, Sasuke; e poi ci hai abbandonati. Per Konoha. Per il villaggio che ci ha voluti morti, Sasuke.

Nelle notti peggiori, oltre ai fantasmi del suo clan e alle anime di tutti quelli che aveva importunato lungo la sua ricerca della verità con Orochimaru, Sasuke vedeva anche gli shinobi morti più recentemente a causa sua – si era fidato del poligrafo, e della verità, e aveva sbagliato.

«Ho sbagliato», ripeté a Itachi, «forse non dovevo disturbarli».

«Non è questo».

«Non li ho dimenticati. Come si fa a dimenticarsi dei propri genitori? Non li ho messi da parte per il villaggio, non…»

«Lo so», gli assicurò Itachi, immergendo di nuovo le dita nel bicchiere. L’istante successivo gli passò una mano tra i capelli, liberandogli la fronte dalla frangia.

«Ci sono stati dei momenti in cui ho persino desiderato raggiungerli…»

«Mi hai già detto anche questo, lo so, ma…» Itachi gli inumidì il viso e qualche ciocca di capelli particolarmente ribelle. «Quello è successo quando non sapevi bene come elaborare il passato. Quando facevi in modo di sentirti tanto vicino al passato da restarne intrappolato. Invece io credo che l’unico modo di concepire il passato sia osservarlo dall’esterno, così da non permettergli di diventare una gabbia, ma solo una fonte di salvezza».

L’acqua sulle tempie era freschissima, tanto che Sasuke chiuse gli occhi.

Itachi era così vicino, ed era così… lui.

«E i riflessi rossi? E l’occhio gigante?» lo sfidò a dire che fosse tutto a posto, che c’era solo bisogno di tempo.

Le dita di Itachi scivolarono sul suo viso, sulle palpebre, lambendogli le ciglia e poi le tempie. «Credo che non sia compito mio rispondere. E credo anche che tu abbia già la risposta, solo che ancora non lo sai».

Sasuke si rilassò per un istante, un solo momento. Poi lo colse una fitta lancinante alla testa.

«Perdonami, Sasuke».

Spalancò gli occhi e venne sommerso da una miriade di riflessi rossi.

Itachi non avrebbe più dovuto chiedergli perdono. Non doveva. Non doveva importargli.

Sasuke si accorse del respiro un po’ accelerato, sentì il sudore freddo sulla pelle prima ancora di riuscire a parlare. «Come hai detto?»

«Perdonami, forse ti ho bagnato un po’ troppo».

Sasuke lo sentì di nuovo distante, diverso. Il solo pensiero riusciva a inquietarlo al punto che gli sembrò impossibile guardarlo negli occhi. «Ci sono di nuovo i riflessi rossi».

Itachi sospirò – Itachi? Era davvero lui? «Senti, otouto, forse te l’ho già detto ma… può capitare. Capita di vedere tutto rosso, di sentirsi spiati dagli occhi delle persone defunte. Capita a chi ha troppe vite sulla coscienza, a chi disturba il sonno dei morti… per cosa poi? Per un ideale irraggiungibile».

La verità.

«Ma prima hai detto che i nostri genitori non erano arrabbiati. Sei incoerente, Itachi» lo rimproverò lui, senza aspettarsi una reazione particolare.

«Non c’è niente di male in questo» obiettò il fratello, con calma. «L’esistenza della coerenza è la seconda illusione più grande di tutti i tempi».

«E la prima quale sarebbe?»

«L’esistenza della verità».

 

***

 

Succedeva ogni mese. Qualche shinobi veniva condannato per sbaglio – perché la verità sul suo conto era solo parziale, perché qualcuno al riguardo mentiva. Shisui ricominciava con la storia del poligrafo e compiangeva i ventimila ryo dell’hokage mandati in fumo. Sasuke si stressava al punto che vedeva anime in pena ovunque. Itachi, di buona lena, si alzava una mattina e lo trascinava con sé al centro benessere.

Affittavano sempre la solita stanza, in cui trovavano sempre le stesse lenzuola e la stessa frutta fresca. Da quelle parti a ogni ora del giorno c’era qualche ninja capace di manipolare il vento, e la notte era piacevole dormire con la finestra aperta riparati solo dalle tende svolazzanti: la brezza era lievissima e soffiava sui corpi distesi tra le lenzuola come se avesse segreti discreti da affidare alla pelle dei ragazzi. A volte Sasuke aveva l’impressione di coglierli, quando per un istante si soffermava a osservare i capelli di Itachi mossi dall’aria, quando discretamente gli scostava una ciocca dal viso. Gli sembrava che quell’aria avesse qualcosa di bello da dire e che lui fosse pronto a capirlo – i morti affidano la loro voce al vento, Sasuke. E il vento ti sfiora dappertutto, ti accarezza come tua madre non può fare più.

Quando sentì un richiamo lontano, aprì gli occhi. Non si era nemmeno accorto di averli chiusi, ma evidentemente era riuscito a dormire tutta la notte senza svegliarsi nemmeno una volta.

La stanza era ammantata dai soliti riflessi rossi, eppure gli sembravano più discreti, sicuramente meno fastidiosi.

Un corvo continuò a gracchiare sul comodino e lui si decise ad alzarsi. Riuscì a raggiungere Itachi in poco tempo e lo trovò completamente immerso nell’acqua di fonte. Un brivido gli attraversò la schiena al pensiero di quanto fosse fredda; era carico di aspettativa e impazienza. Si sfilò la maglietta gettandola su una sedia lì vicino e si avvicinò al limite della conca.

«Avvicinati, Sasuke» lo richiamò suo fratello, incoraggiante.

Sasuke sospirò, e un momento dopo si fece coraggio. Lasciarsi cadere nell’acqua gelida era sempre un’esperienza ai limiti del tollerabile. Contrarre i muscoli e lasciare che la pelle si ritirasse su stessa non era sufficiente come meccanismo di difesa.

Guardò minacciosamente le bollicine che salivano a pelo d’acqua direttamente dal fondale: erano piccole, animate da una forza sconosciuta e nascosta dalla sabbia scura. L’acqua gli arrivava a malapena sui fianchi. Sasuke allungò le mani congiungendo le braccia e senza nemmeno pensarci si immerse completamente nella polla.

Riemergere fu come rinascere, come se l’abbraccio della sorgente fosse quello di una madre e l’aria intorno a lui fosse quella di un nuovo mondo.

Sasuke sentì la pelle gelida e rabbrividì quando un alito di vento scivolò sulle sue spalle e poi sul suo petto.

«Almeno ora avrai capito che si trema per il freddo, otouto, non per il caldo».

Sasuke lanciò uno sguardo irritato a suo fratello, trovando che sulla sua pelle bagnata i riflessi rossi assumevano sfumature particolari. Il sole era alto in cielo, eppure sembrava che all’orizzonte stesse tramontando una luna di sangue – c’è sangue ovunque, Sasuke, ed è quello dei defunti che hai disturbato, quello degli shinobi che hai condannato.

Sasuke scosse un po’ la testa, desiderando che i capelli si liberassero di tutte le gocce d’acqua incastrate tra di essi per evitare che continuassero a scorrergli sulla schiena. Qualcuna di quelle gocce andò a finire addosso a Itachi. Non si era nemmeno accorto che Itachi fosse tanto vicino fin quando non notò che la sua pelle bianca era tirata e ruvida come la propria – la sorgente era davvero gelida.

«Continui a odiare l’estate?»

«Certo».

«Davvero?»

Sasuke esitò, accorgendosi che dopotutto quel momento non era così male.

«E non ti piace nemmeno il pensiero che d’estate… tutti si comportino in maniera più naturale? Che di solito c’è qualcosa che ci ingabbia e sembra addirittura razionale questo qualcosa, fin quando il sole non diventa così bollente e l’aria così calda che il freno si scioglie e non rimane altro che… la voglia di comportarsi come si è sempre desiderato». Itachi gli posò una mano sul polso, fermandosi davanti a lui, con le spalle riuscì persino a ripararlo da un altro soffio di vento.

«Che assurdità».

«Come funziona il poligrafo Sasuke?»

Lui osservò con attenzione suo fratello, che aveva l’aria di uno che stava seguendo un filo di pensieri molto particolare, col viso vicino al suo e gli occhi puntati sulle sue braccia. «Misura l’aumento della pressione, il polso, la respirazione, la temperatura corporea…»

Itachi posizionò due dita sui suoi polsi, attirandolo un po’ a sé dopo aver trovato l’arteria. «Non è curioso…» osservò, sorridente, «non è curioso che il nostro corpo reagisce allo stesso modo quando mentiamo e quando proviamo emozioni fortissime?»

«Abbastanza», accordò Sasuke, guardando le dita di Itachi fermissime sul suo polso. Era strano, e quella stranezza gli mandava il cuore in gola perché non era una di quelle cose che aveva imparato ad affrontare.

«Il meccanismo del poligrafo si basa su alcune evidenze. Quando dici la verità il sangue non scorre impazzito nelle vene, il cuore non batte più forte, la pelle è asciutta e fresca invece di essere calda come quella di una persona veramente viva». Itachi poggiò le labbra sul suo collo, erano soffici e nascondevano ancora qualche parola insidiosa.

Sasuke non ci capiva niente. Non sapeva nemmeno se dovesse trovarlo piacevole o sgradevole, sapeva solo che era strano, e anche sbagliato.

La mano di Itachi abbandonò il suo polso e gli accarezzò lentamente l’avambraccio, la spalla, poi il centro del petto – lui lo sentiva col cuore che batteva più forte e il sangue impazzito nelle vene e il respiro mozzato in gola e il collo e le guance in fiamme.

«Quando dici la verità non succede tutto questo, perché è priva di emozioni, è diversa da queste emozioni». Itachi gli baciò la pelle poco al di sopra della clavicola, sospingendo un ginocchio tra le sue gambe.

Sasuke gettò la testa all’indietro, con gli occhi quasi sul punto di chiudersi. Era pieno di rabbia.

Era pieno di rabbia quando vide di sfuggita un occhio rosso che sovrastava il cielo.

«Dipende dal tipo di verità, Itachi» disse, allontanandolo da sé, e gli sembrò sbagliato il fatto stesso di averlo chiamato col nome di suo fratello.

Quello non era Itachi.

Non era di quell’amore che si amavano.

L’amore di Itachi non era provocante, ma protettivo.

«Il caldo ti ha dato alla testa» mormorò Sasuke, senza sapere bene dove guardare. C’era rosso dappertutto.

«Puoi liberartene se vuoi». Itachi gli dedicò uno sguardo lungo, eloquente. «Posso dirti come liberarti dell’estate, otouto. Ma ricordati che sarà come rinnegare per sempre l’ideale della verità».

Sasuke socchiuse gli occhi.

Quello non era Itachi. Itachi una volta aveva detto che la verità era bella – l’aveva detto con occhi commossi, quasi intendesse che la verità fosse bella come lui (come te, Sasuke, come te).

Quello doveva essere una sua pallida imitazione, il suo clone oscuro.

Sasuke sospirò, stringendo i pugni. Era abbastanza grande da sapere che un clone oscuro non sparisce con un abbraccio. Ma non riusciva a impedirsi di pensare a Itachi – al vero Itachi, quello che aveva rincontrato per pochi attimi di due sere prima – e a Sasuke veniva in mente che il modo giusto per guardare al passato era usarlo come fonte di salvezza, non come gabbia.

E lui aveva così tanto bisogno di salvarsi, solo per un momento…

Sollevò le braccia lentamente, un po’ esitante. Poggiare le mani dietro la schiena di suo fratello fu sorprendentemente strano. L’ultima persona che aveva abbracciato nella sua vita era stato proprio Itachi – quello vero, non il suo clone oscuro – e Sasuke allora aveva otto anni.

Ora ne aveva molti di più, e Itachi aveva la stessa pelle liscia e la stessa schiena rigida.

«Dimmi come mi libero dell’estate, nii-san».

Sarà come rinnegare l’ideale della verità.

«È facile otouto. Servono solo tre sigilli: pecora, tigre, drago. Poi incroci le dita».

Pecora, tigre, drago. Poi incroci le dita così – Così come?

 

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Capitolo 3
*** Io vivo in te ***


 

Così finisce anche questa storia, ovviamente con un tema che è la mia ossessione del momento.

Mi era capitato solo una volta di scrivere una sottospecie di thriller psicologico – associare questo genere alla fanfiction poi mi fa più ridere che altro XD – comunque ho scoperto che mi piace tentare di riannodare i fili di una trama che si è sciolta nei capitoli precedenti.

Ovviamente, non sono certa di esserci riuscita. Perciò se qualcosa non dovesse essere chiaro, aggiungerò qualche spiegazione modificando le note.

Per ora me ne sto tranquilla nel mio angolino di rete col buon proposito di pubblicare presto qualche altra storia.

Buona lettura J

 

 

Capitolo 3

 

Sasuke aveva trascorso qualche giorno completamente rinchiuso in camera, senza nemmeno aprire bocca, eccetto per assaggiare frutta rigorosamente estiva o per mormorare qualche no privo di energia, solo a volte rabbioso.

Pecora, tigre, drago. Poi incroci le dita.

Qualcuno l’aveva incastrato con una tecnica particolare, sottile. Era diventata la sua verità senza che lui nemmeno se ne accorgesse. Liberarsi dell’estate l’avrebbe aiutato ad annullare la tecnica, eppure la sua natura gli sfuggiva ancora.

Se ti liberi di Itachi, sparisce anche l’estate. È colpa sua se fa tanto caldo.

Era stato Itachi a creare l’illusione di un’estate perpetua.

Qualcuno aveva creato un clone oscuro di Itachi? Forse quando lui era in coma, forse… qualcuno aveva moltiplicato le realtà e l’aveva incastrato in una vaghissima illusione?

Sasuke sapeva di doversi liberare – non sapeva bene come incrociare le dita alla fine della sequenza di sigilli, ma ne sarebbe uscito. Sapeva anche che in qualsiasi modo sarebbe stato doloroso, come un addio che ti strappa un pezzo di cuore e ricordi e ti fa impazzire di dolore. Perciò Sasuke aveva temporeggiato, senza sapere bene se un giorno avrebbe trovato una giustificazione a quell’indugio. Aveva atteso ore intere che i riflessi rossi intorno a lui si attenuassero, come era accaduto per pochi istanti di quella notte in cui Itachi gli aveva parlato del passato non solo come un uomo che del passato conservi gelosamente i segreti, ma come un uomo che quei segreti di vita vissuta è pronto a condividerli con una persona amata.

Era il tramonto quando Sasuke si accorse che i riflessi rossi nell’aria erano unicamente quelli emanati dal sole basso dietro la collina all’orizzonte. Si guardò intorno sospettoso, e scoprì che era sparito anche l’occhio rosso: non riusciva a scorgerlo nemmeno se si voltava repentinamente con l’intento di coglierlo alla sprovvista.

Sasuke si precipitò fuori dall’albergo e quando vide Itachi seduto ai margini della sorgente… non se ne rese conto subito, ma tra le labbra aveva una preghiera intima e solidissima – fa’ che sia lui.

«Hai intenzione di chiedermi perdono per il comportamento strano di qualche giorno fa?» cominciò, senza muovere un passo verso di lui.

Itachi continuò a dargli le spalle, nonostante a un certo punto della domanda si fossero fatte appena più rigide. «Ti ho già detto tempo fa che non ti avrei più chiesto perdono, Sasuke».

Lui non avrebbe saputo dire precisamente l’effetto che gli fece quella risposta. Forse ascoltarla era stato qualcosa di simile a riemergere dalla sorgente dopo un tuffo avventato – come rinascere, trovare il vero Itachi era come rinascere.

Sasuke gli si avvicinò, con le labbra umide e poche parole impastate tra i denti, incapace di farle uscire fuori.

«Immergi solo le gambe nell’acqua, otouto, ti farà bene per… dopo».

Sasuke ascoltò il consiglio di suo fratello. Si sedette sul marmo che rivestiva il margine della conca e gettò i piedi nell’acqua fino a bagnarsi anche i polpacci.

«Sai perché non ho intenzione di chiederti perdono, no?»

Non c’è bisogno che tu mi perdoni, Sasuke.

Perché quando una persona ama davvero arriva un certo momento nella sua vita in cui si rende conto che il suo amore basta a se stesso.

«Lo so», annuì Sasuke, gettando uno sguardo a suo fratello nascosto dietro ciocche di capelli scurissimi.

«Allora…» riprese Itachi, senza palesare alcuna intenzione di voltarsi verso di lui, «ti libererai dell’estate, no?»

«Vorrei capire se tu sei… cioè eri, ora mi sembri il vero te stesso…» Sasuke trovò che era troppo difficile spiegarsi «se ho trascorso mesi vicino al tuo clone oscuro, a una pallida imitazione di ciò che sei veramente; oppure tutto questo è un’illusione e io ho vissuto davvero per anni senza sapere quanto fosse gelida l’acqua sorgiva» disse, tentando di mettere le cose nella maniera più semplice possibile.

«Non posso dirtelo io».

«E poi tu sparirai in ogni caso, no?»

Itachi annuì lentamente. Sorrise, ma la linea delle labbra non nascondeva alcuna scintilla di divertimento. «Almeno ti libererai anche di tutto questo calore».

«È che mi sembra tutto prematuro», ragionò Sasuke. «Sia dirti di nuovo addio sia vivere l’estate come fanno tutti qui intorno, come dicevi tu. Forse hai ragione a dire che le persone sono più felici d’estate, forse è tutta questa luce, forse è l’aria di libertà… ma non fa per me, non ancora. Mi ricordo che un giorno ero pieno di odio, e di rabbia… non sono nemmeno certo che non sia ancora così. Come si fa a diventare felici da un giorno all’altro? Non manca qualcosa tra la devastazione e la felicità? Qualcosa che faccia da ponte…»

«Certo».

«E cos’è?»

«L’odio ti distrugge, mentre la serenità ti fortifica. Ma prima che questo possa accadere, probabilmente c’è bisogno di rinascere, di rimettere a posto i pezzi, di ricomporsi».

«E sarà possibile?»

«Sarà come riemergere dalla sorgente dopo un tuffo avventato».

Sasuke sfiatò, senza nemmeno capire se fosse meravigliato dal fatto che Itachi aveva scelto parole uguali alle sue per rassicurarlo. «E probabilmente sarò ancora ossessionato dalla verità».

«Questo non è sbagliato, otouto, nel profondo lo sai anche tu».

«Non lo so… bene», precisò, un po’ confuso. «Per conoscere la verità ho disturbato il sonno dei morti. E non sono nemmeno sicuro di averlo fatto solo per questa sete di conoscenza, forse volevo solo rivederli», ammise, tentando di tenere gli occhi bene aperti, perché sapeva che dietro le palpebre, se solo le avesse abbassate, avrebbe scorto il sorriso di sua madre e il volto fiero di suo padre.

«Tu hai fatto bene a pensare che il passato sia vero. È vero perché è immutabile, e rivederli ti è servito a tante cose», mormorò Itachi, con un sorriso lieve, prima di assumere un’espressione più severa. «È stato l’amore per la verità a risvegliare davvero la tua coscienza. Senza di quello avresti rischiato di cedere di nuovo a sentimenti distruttivi».

Sasuke annuì, pensando di avere sempre avuto quella sensibilissima propensione a conoscere la verità, ma non l’aveva mai elaborata del tutto perché per troppo tempo non si era sentito in diritto di scegliere la sua via. Solo una persona gli aveva restituito quel diritto – non importa cosa decidi di fare, Sasuke…

«Ma non puoi pensare che le verità del passato siano utili a determinare le verità che cerchi nel presente, otouto. Non funziona così, non sempre».

«Stai di nuovo dicendo che non esiste davvero la verità?» Sasuke sentì il panico nella sua voce e sentì il bisogno di studiare attentamente il profilo di suo fratello. Il timore che di nuovo non fosse lui, che fosse diverso, un clone oscuro o un’illusione poco studiata… quel timore rischiava di distruggerlo.

«Sto dicendo che la verità è soggetta a cambiamenti. È in continuo divenire. Come la vita».

Sasuke scosse la testa, scostando lentamente una ciocca di capelli dalla fronte. Quella era proprio un’uscita tipica di suo fratello. Non riusciva nemmeno a capirla del tutto, sembrava qualcosa di ineffabile ma suadente. «La verità sarebbe la vita?» indagò, quasi divertito.

«Guarda qui» bisbigliò Itachi.

«Che cosa?»

Itachi si avvicinò piano a lui, posandogli due dita sul polso. Con la spalla sfiorava la sua e Sasuke notò che avevano davvero la stessa pelle. «Come potresti dire che io non sono qui in questo momento? Che non ti sto toccando?»

Sasuke trattenne il respiro per un istante, chiuse gli occhi. Qualcuno gli sfiorava la spalla – lo proteggeva? – qualcuno gli sfiorava il polso – controllava se fosse vivo?

«Quando tornerai a casa, otouto, e io non ci sarò…»

«Non sono certo che tornerò a casa», precisò Sasuke, senza nemmeno sapere bene cosa intendesse per casa.

«Devi decidere tu, ovviamente. Ma a casa…»

 

«Casa è dove c’è qualcuno che pensa a te, Sasuke».

«Ti ho detto che non ci torno, cretino».

Qualcuno gli toccava le spalle, la schiena…

 

«Le persone sono davvero felici solo a casa. Non nel senso che altrove non si possa essere felici… ma solo a casa si conosce un tipo di felicità compiuta, mentre in giro per il mondo la felicità tende sempre a cambiare, e può sfuggirti dalle mani in niente» ragionò Itachi. Parlava con le parole di sempre, ma nel suo petto era seppellita un’esperienza tanto dolorosa da sembrare assoluta.

Sasuke sentì che fosse anche sua, perché quel dolore si espandeva e lui non poteva fare a meno di provarlo insieme a suo fratello.

«E quando tornerai a casa, otouto… se tornerai» soggiunse Itachi, per evitare qualcuna delle sue rappresaglie, «ti prego di non cercarmi nella mia stanza, o in giardino, o nello studio. Non andare a parlare sulla mia tomba e non passare inutilmente alla mia pasticceria preferita per comprare dolci che non mangerai. Vieni alla sorgente ogni tanto, e tenta di non venirci da solo. Ti ho mai detto che non esiste nessuna verità se non hai qualcuno con cui condividerla?

«E poi, otouto, non piangere mai quando ripenserai alle mie parole come se fosse impossibile ascoltarle ancora…» Itachi sollevò lentamente il braccio, passandoglielo sulle spalle. Avvicinò il viso al suo, sospingendo la fronte contro la sua tempia. La pelle di Itachi era caldissima e non mentiva. «Non cercarmi altrove, Sasuke. Io sono dentro di te. Io vivo in te».

Sasuke si sentì tremare per un momento, e sentiva il sangue che scorreva impazzito nelle vene, e il cuore che rimbalzava tra le pareti del petto come in tumulto, e la nuca e le guance in fiamme…

Il corpo reagisce ugualmente alle emozioni forti e alle bugie.

Eppure a volte… il corpo reagisce ugualmente alle emozioni forti e alla verità.

Dipende dalla verità.

Ti amerò per sempre, Sasuke.

Io vivo in te.

«Come faccio a liberarmi dell’estate?» chiese, senza allontanarsi.

«Secondo te sono un’illusione o un clone oscuro?»

Sasuke strinse i pugni.

Ed eseguì i sigilli.

Pecora, tigre, drago. Poi incroci le dita.

Così.

 

***

 

Un occhio rosso lo scrutava attentamente. Era poco distante da lui, ma non era gigante. Era quello del tipo mascherato che si faceva chiamare Madara Uchiha.

«Mi fa piacere rivederti, Sasuke», lo salutò. «Vedo che ti sei liberato dell’estate».

Sasuke annuì seccamente, con le braccia rigide lungo i fianchi e lo sharingan attivo.

«E l’hai fatto nel modo giusto», continuò l’altro, «liberandoti dal secondo livello di illusione. Posso presumere che hai capito che anche la verità non è che una mera illusione?»

Sasuke assottigliò lo sguardo, tentando di tenere a freno la rabbia.

Aveva capito che tutto quel mondo era frutto di un’illusione di Tobi – Shisui era morto, e anche Itachi, e Konoha non era più quella che lui aveva conosciuto da piccolo. Aveva sempre saputo tutte quelle cose, ma in una maniera vaghissima, come se la realtà – la realtà che erano tutti morti e che lui era solo – non fosse altro che un sogno lontano, di bambino.

Gli sembrava di aver passato mesi o anni in quell’illusione, e se all’inizio l’aveva fatto con tanta partecipazione, come se fosse semplicemente giusto essere circondati da persone morte, dopo un po’ aveva trovato qualcosa che non era per niente giusto: Itachi in quella dimensione lo amava, ma non nel modo in cui tentava ancora di trattarlo come un bambino manipolabile, non nel modo in cui lo invitava a essere perfetto, non nel modo in cui gli ripeteva che la verità non esiste ed esistono solo genitori morti che chiedono pietà e vendetta.

Itachi, il vero Itachi, aveva imparato ad amarlo nel modo in cui si ama qualcuno che è degno di ogni forma di amore, lo amava nel modo in cui lo faceva sentire libero e in diritto di scegliere, nel modo in cui lo invitava ad aprire gli occhi sul mondo invece di tenerli chiusi nell’oscurità, perché la perfezione non esiste, e per questo nasciamo in grado di assorbire le cose.

E poi – Sasuke se ne accorgeva solo in quel momento – era abbastanza certo che lui non avrebbe mai condannato a morte qualche shinobi con tanta leggerezza, non quando aveva il controllo di sé. Capì quanto fosse impossibile che per tutto quel tempo non avesse sentito nemmeno i sensi di colpa per il suo operato – c’erano stati, ovviamente, ma erano stati lievissimi.

Solo in quel momento sentì di essersi tolto un enorme peso dal cuore: non aveva mai ucciso nessuno, nemmeno in nome di un ideale.

E non aveva sbagliato – non quando aveva eseguito i sigilli giusti.

Aveva capito che Tobi lo aveva pian piano indotto a liberarsi dell’illusione – dell’estate… no, della verità – per essere certo di riportarlo dalla sua parte. È stato l’amore per la verità a risvegliare davvero la tua coscienza. Senza di quello avresti rischiato di cedere di nuovo a sentimenti distruttivi.

«Non ti devi preoccupare, Sasuke. Anche se è appena crollata la certezza che vale la pena combattere per la verità… tu hai ancora l’amore dei tuoi genitori. E la vendetta nei confronti del villaggio che te li ha tolti. Distruggerlo sarà il dolore e il piacere di un attimo, poi sarai con me e non esisterà più alcuna sofferenza quando guarderemo la luna insieme».

Nessuna sofferenza.

Sasuke sorrise amaramente, sfiorandosi la spalla, poi il polso.

Nessuna verità – la vita – i vivi, qualcuno che fosse tanto vero da toccarlo e salvarlo col suo tocco, e assicurarsi che fosse vivo col suo tocco.

«Non me ne importa niente del tuo piano» proclamò, tentando di tenere a freno l’istinto di attaccarlo nella sua stessa illusione.

«Noto che sei più testardo di quanto avessi immaginato. Eppure avevo capito che morivi dalla voglia di uccidere il jinchuuriki della volpe. Hai cambiato idea troppo velocemente».

«Sono cambiato io», gli assicurò Sasuke, ripensando a quello che aveva detto a Orochimaru. Persino lui si era reso conto di non poter essere ancora un bambino manipolabile. E ora odiava ancora di più tutti quelli che ne avevano approfittato ed erano stati i suoi marionettisti.

«Lo sai, Sasuke…» riprese Tobi, senza dare a vedere di essersi scomposto, «se invece di eseguire i sigilli per liberarti dell’illusione avessi eseguito quelli per liberarti di un clone oscuro… avrei continuato a darti il tormento. Ti avrei presentato un altro Itachi e ti avrei messo in condizione di odiarlo… ci riuscivi così bene un tempo, no? E poi sono convinto che eseguivi i suoi ordini in maniera molto più fedele quando dicevi di odiarlo piuttosto che quando dicevi di amarlo, Sasuke».

Lui sussultò, senza sapere bene cosa rispondere. «È stato facile capire che ero nel secondo livello di un’illusione. Non ero tormentato dai sensi di colpa per le persone che morivano a causa mia, mi rendevo a stento conto che tutto quello si ripeteva in maniera ciclica e Itachi… Itachi non era Itachi. Quell’illusione era solo uno squallido tentativo di imitare la sua Izanami».

«Quindi Itachi ti ha mostrato anche quella tecnica…» Tobi scosse la testa, la voce era molto più profonda, turbata. «È sempre stato la mia spina nel fianco», ammise, palesemente sollevato all’idea di essersene liberato già da tempo. «Eppure non avresti dovuto capire tutto così facilmente…»

Sasuke lo guardò attento. «Probabilmente Naruto lì fuori ti sta mettendo sotto torchio e ogni tanto l’illusione ti è sfuggita di mano».

Probabilmente Naruto stava anche blaterando qualcosa al riguardo del fatto che l’avrebbe salvato, come al solito. Sasuke riusciva quasi a sentirne la voce.

Ma non si era salvato solo grazie a lui.

Era successo qualcosa di più sottile, e c’era dell’altro. Iniziava a sospettare che persino nell’illusione più potente, forse, la vittima conservava un misero spazio di libertà a cui nessun altro uomo poteva accedere. E più quello spazio veniva riempito da emozioni potenti – come le bugie, coma la verità, come quelle derivate dal tocco di una persona amata – più quello stesso spazio si ingigantiva. Fin quando lo spazio libero non diventava più grande di quello in cui si era stati intrappolati.

A lui era successo qualcosa del genere, forse.

«E che combinavi quando non ero io a controllare l’illusione?»

Sasuke attivò lo sharingan ipnotico, pronto a liberarsi anche del primo livello di quel genjutsu.

Non si liberava da solo da tempo, l’ultima volta era stato liberato da Itachi.

Ma in quel momento qualcuno lo stava toccando all’esterno, Sasuke lo sentiva. Sarebbe riuscito a liberarsi.

«Adesso basta».

Che combinavi quando non ero io a controllare l’illusione?

Parlava con Itachi. Quello vero.

Quello che viveva dentro di lui.

 

***

 

La prima cosa che riconobbe come viva fu una mano allacciata al suo polso, che gli indagava la circolazione del sangue con due dita fermissime.

Solo dopo Sasuke si accorse di avere già gli occhi aperti e che un altro paio di occhi – verdi, veri – si specchiavano nei suoi, spalancati.

Sasuke si sollevò di scatto, scoprendo che l’altra mano di Sakura era stata ferma per tanto tempo intorno al suo viso solo quando improvvisamente la sentì scivolare via.

Si strofinò gli occhi per mettere a fuoco quello che lo circondava. Era ancora un po’ confuso.

L’ultima cosa che aveva riconosciuto come viva prima di finire in trappola erano le spalle di Naruto premute contro le sue.

La guerra era andata avanti senza di lui per almeno mezz’ora, forse di più. I demoni erano tutti schierati e col chakra attivato al massimo. A terra c’erano corpi feriti o magari morti. Qua e là combattevano ragazzi che lui a stento riconosceva nei suoi ricordi da tredicenne. Si guardò intorno in cerca di una tuta arancione e di qualcuno abbastanza fuori di testa da fare amicizia coi demoni.

«Naruto!» la voce di Sakura gli trapanò i timpani, ma lo aiutò a capire dove girarsi per trovare il dobe.

Naruto si voltò in uno scatto, il viso illuminato dalla gioia. Lui doveva proprio essere una di quelle persone capaci di godersi l’estate, forse addirittura una di quelle persone che all’estate sono capaci di darle un senso. «Sasuke!» urlò. «Ti sei svegliato? Riporta immediatamente qui quei tuoi occhi da teme e aiutami a sconfiggere questo tizio».

Sasuke scosse la testa, già esasperato. Tentò di alzarsi, ma una mano ferma attorno al suo braccio glielo impedì. Subito dopo sentì la pressione di dita gentili sulle sue palpebre. Sakura lo invitò a chiudere gli occhi senza dire una parola. Lo ripulì velocemente di tutto il sangue che gli era scivolato sulle guance per il prolungato uso dello sharingan e poi gli lenì la pelle gonfia con un po’ di chakra curativo.

Sasuke si alzò dopo averla fissata solo per un misero momento, chiedendosi quale verità si nascondesse tra le dita di una ragazza che prima aveva tentato di ucciderlo, e poi aveva trascorso istanti lunghissimi a tenergli il polso per controllare che fosse vivo e a toccarlo costantemente per farlo uscire al più presto dall’illusione.

Si avviò velocemente verso il centro del campo di battaglia, richiamando il Susano’o e lanciando una freccia alla volta di un demone codato impazzito. Sasuke la osservò nel momento in cui si conficcò nella sua zampa e proseguì subito alla volta di Naruto.

Si disse che quella era l’ora decisiva, che doveva liberare la testa dai migliaia di pensieri in cui desiderava indugiare.

Io credo che l’unico modo di concepire il passato sia osservarlo dall’esterno, così da non permettergli di diventare una gabbia, ma solo una fonte di salvezza.

Una fonte di salvezza.

Sasuke non riuscì a trattenere un sorriso lievissimo, ed era negli occhi più che sulle labbra.

Il passato aveva sempre un modo strano di salvarlo. Come quando aveva ricordato dei giorni in cui Itachi gli aveva insegnato a usare arco e frecce, e poco dopo aveva scoperto che il suo Susano’o era un arciere.

Come quando aveva iniziato a dubitare di essere vicino al vero Itachi, e il passato gli aveva fatto visita in sogno, ricordandogli le lezioni di Itachi sui vari livelli di illusioni.

Sasuke pensò che probabilmente esistono modi molto più eleganti di quelli di Orochimaru per insinuarsi nelle persone. Forse bisognava solo lasciarsi conoscere.

Ed era stato strano, strano e bello, scoprire di conoscere Itachi a tal punto da renderlo reale vicino a sé quando non c’era un occhio rosso a controllare l’illusione. Sasuke si rese conto di conoscere a tal punto Itachi e il modo in cui lui influiva sulla sua vita che il proprio subconscio aveva utilizzato una proiezione di suo fratello per salvarlo – sarebbe sempre stato salvo grazie a lui.

Forse Itachi avrebbe continuato a salvarlo anche da lontano, anche se i morti erano più distanti di quanto sarebbe mai riuscito a immaginare.

Non cercarmi altrove, Sasuke. Io sono dentro di te. Io vivo in te.

O forse Itachi era più vicino di quanto chiunque avesse potuto immaginare. Chiunque tranne lui. Lui lo sentiva.

Sasuke si portò una mano sugli occhi, arretrando di qualche passo.

Sentì la schiena di Naruto contro la sua, e scoprì che quella sensazione gli era già familiare, nonostante avessero combattuto solo mezz’ora così prima che lui fosse caduto nell’illusione. La schiena di Naruto era calda, e ricoperta di chakra luminoso – era attaccata alla sua, per proteggerlo, per ricevere da lui lo stesso tipo di protezione.

Ed era vera. Di una verità che si trova solo tra i vivi.

«Guarda tutto, nii-san».

Avrebbero guardato insieme.

 

***

 

 

Epilogo

 

Nekomata aveva osservato attentamente le mosse del piccolo che gli somigliava. Era rinvenuto all’improvviso dall’illusione che l’aveva fatto giacere a terra con gli occhi sbarrati per quasi un’ora. Aveva fissato turbato e forse anche commosso le dita che la ragazza gli aveva premuto sul polso. Aveva evitato di guardarla negli occhi eppure si era lasciato curare da lei. Nekomata aveva trovato quel comportamento curioso, ed era stato altrettanto meravigliato a vedere come in pochi istanti quello avesse raggiunto il ragazzo improbabile che aveva riempito di chiacchiere la povera testa di Kurama.

Si era avvicinato a lui e aveva ripreso a combattere riparandosi contro la sua schiena come se non avesse fatto altro per tutta la vita.

Nekomata capì due cose.

Il ragazzo che gli somigliava faceva tutto ciò che gli sembrava giusto – lasciarsi toccare, lasciarsi proteggere, forse proteggere a sua volta. E da quanto aveva capito dai discorsi di Tobi, probabilmente confondeva ciò che era giusto con ciò che era vero – lasciarsi toccare, lasciarsi proteggere, forse proteggere a sua volta. Nekomata pensò che non era detto che sbagliasse, dopotutto.

La seconda cosa che Nekomata capì in quell’istante era il motivo per cui quello che blaterava promesse insensate e quella dalle mani ferme desideravano guardare infinitamente gli occhi del ragazzo che chiedeva vendetta.

Nel suo sguardo c’era lo sguardo di due persone che vivevano in un corpo solo.

 

 

Fine

 

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