Di semidei e tinte pastello

di HappyCloud
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mortofrutta ***
Capitolo 2: *** Ronzii - Parte I ***
Capitolo 3: *** Ronzii - Parte II ***
Capitolo 4: *** Donne ***



Capitolo 1
*** Mortofrutta ***


Di semidei e tinte pastello.
 
Mortofrutta.
 
 
Pessima idea. Davvero una pessima, pessima idea.
Come le era saltato in mente di invitare a cena il capo e la moglie? Lei e il suo stupido istinto da crocerossina. Il loro matrimonio era destinato a finire, lo si sapeva da tempo ed entrambi parevano averlo accettato. Loro sì, ma Azzurra proprio no. Non poteva rassegnarsi, né tantomeno voleva farlo. Il signor De Carlis e consorte erano il suo modello, la sua favola, la sua piccola creatura; li aveva fatti incontrare, frequentare, convivere, sposare… e ad un tratto volevano farle credere che tutto fosse finito. Puff, svanito. Niente più amore, comunione dei beni, progetti insieme; ora c’era spazio solo per risentimento, spartizione del patrimonio, strade separate.
E lei non aveva idea di come ciò potesse essere accaduto e soprattutto quando. Aveva consegnato nelle loro mani i loro destini con tanto di chiave per la felicità eterna, aveva provato a farli camminare da soli con le proprie gambe, ma l’intera situazione era andata a scatafascio. Evidentemente avevano bisogno di gattonare ancora per un po’. Madornale errore di valutazione, il suo, aveva sbagliato e ne era consapevole. Di certo ne erano consci anche i diretti interessati, magari addirittura la odiavano e la utilizzavano come pretesto per litigare; l’idea la terrorizzava: stava logorando il suo piccolo capolavoro d’ingegneria sentimentale.
La sua cucina, poi, non avrebbe aiutato. Non bastava aver guardato Julie&Julia una dozzina di volte e avere la televisione sempre sintonizzata su Gambero Rosso per imparare a spadellare. Quella cena sarebbe stata un fiasco, lo sentiva, e le sue spicce nozioni di psicologia non avrebbero salvato il matrimonio del capo. Il colpo di grazia, insomma. Lei aveva creato, lei avrebbe distrutto.
Doveva, comunque, affrontare una cosa per volta: innanzitutto, la spesa. Aveva fatto una lista sommaria di ciò che le serviva per preparare antipasti vari, crespelle ai funghi, arrosto e tiramisù.
La giornata non prometteva bene, nemmeno meteorologicamente parlando: pioveva a dirotto e il cielo era un’incombente gregge grigio che sovrastava minaccioso l’intera città.
Azzurra scese dalla macchina già trafelata e corse ad accaparrarsi un carrello. Frugò nel portafoglio, nella borsa, nelle tasche del trench e dei jeans, ma naturalmente non aveva con sé neanche una moneta da infilare nel meccanismo per poter sganciare un carrello, perciò decise che si sarebbe accontentata di uno dei cestini con le ruote che stavano all’interno del supermercato. Vi entrò fradicia, con i capelli che già si stavano increspando grazie all’acqua e all’umidità, ma per fortuna era l’ora della pausa pranzo e i clienti erano pochissimi.
Come al solito, constatò di aver lasciato la lista della spesa in macchina; a volte si domandava perché perdere tempo a scriverla, quando era matematico che la scordasse in ufficio, a casa, in un altro paio di pantaloni, in auto. Si rispondeva sempre allo stesso modo: scrivere l’aiutava a ricordare… in teoria. In pratica, era bravissima a dimenticare.
Sarebbe andata a braccio, a cominciare dall’ortofrutta. Pomodorini, le servivano i pomodorini per le bruschette. E un po’ d’insalata di contorno, almeno ci sarebbe stato qualcosa di mangiabile sulla tavola. Prese anche un po’ di frutta mista, dopo averla attentamente analizzata, e s’impegnò affinché tutto fosse perfettamente ordinato nel suo carrellino. Da brava architetto, ogni minima cosa doveva essere organizzata e pianificata. Beh, tutto tranne la propria vita.
Stava procedendo verso le conserve, tranquilla e rilassata in quello spazio gigante al momento solo suo, quando un turbine con due piedi e quattro ruote quasi travolse lei e il povero cestino, che non si rovesciò per miracolo, riportando soltanto una lieve botta sul lato sinistro.
- Ma che cavolo…? – Azzurra guardò allibita la ferita di guerra che aveva riportato il suo mezzo – Mi ha fatto la fiancata al carrello!
- Scusi, vado di fretta! – Si giustificò una voce maschile, ma lei non gli stava prestando attenzione, intenta com’era a fare la conta dei danni.
- Mi ha ammaccato due pesche noci e un’albicocca, si rende conto? – Stavolta si decise a guardarlo dritto n faccia. Era un uomo sui trenta, alto, riccio, con gli occhi chiari e un soprabito scuro. E la guardava stralunato  – Dieci minuti per sceglierle con cura e con il guanto in plastica, eh, mica come alcuni furbetti, e ora sono irrimediabilmente rovinate perché lei va di fretta!
Si curò bene di scimmiottare il suo tono, mentre l’occhio le cadeva sul carrello del disgraziato. Dio mio, mai visto un tale caos: succhi di frutta sparsi, biscotti schiacciati sotto alcune bottiglie di vino, yogurt incastrati tra il pane e delle lattine di cibo per gatti. In ultimo, a mo’ di stendardo della virilità perduta, una confezione da dodici di carta igienica che svettava sopra a tutto. Il che non era necessariamente un male, pensò Azzurra: almeno significava che il selvaggio non usava le foglie dell’albero del vicino per pulirsi.
- M-mi dispiace… – bofonchiò lo Schumacher dei poveri, stupito dalla reazione della ragazza – Non avevo intenzione di provocare dei feriti.
Commise l’errore di ridacchiare della propria battuta, sperando di contagiare anche lei, ma il piano non funzionò: se possibile, causò ancora più danni dell’incidente di qualche minuto prima.
- Mi auguro che lei non guidi l’auto come conduce il suo carrello, altrimenti temo che abbiamo un problema.
- Senta, – tentò lui per mediare, visto che la tizia non dava cenno di scherzare – sono desolato per la perdita delle sue albicocche e della pesca…
- Sono due pesche e un’albicocca – lo corresse prontamente lei.
- Sì, – sospirò lui impercettibilmente – per le due pesche e l’albicocca. C’è qualcosa che posso fare per rimediare? Gliele pago, d’accordo? E lei può sceglierne altre.
A quel punto, lo sguardo di Azzurra si fece più triste che insofferente. La perdita della frutta le stava provocando dell’autentico dolore.
- Ma io volevo quelle… – brontolò, corrucciando le labbra in una buffa smorfia.
Il mondo le stava dicendo qualcosa, era più che evidente. Tutto ciò che sceglieva lei era destinato a fare una brutta fine: la begonia pendula rinsecchita, la coppia di criceti Roborowskij scannatisi a vicenda, la nuova e tecnologica tenda da sole incendiata dalla cenere della sigaretta del vicino al piano di sopra, il non-così-felice matrimonio di Sergio e Dalila De Carlis e ora della frutta innocente agonizzante.
- Ho davvero molta fretta, signorina – la implorò, cercando di sfruttare il momento di debolezza della donna. Si sentì un po’ idiota e pure un briciolo meschino, ma aveva ancora ventun minuti prima della fine della pausa pranzo e non aveva tempo di preparare una commemorazione tra cavolfiori e mele verdi.
Azzurra, però, tornò a guardarlo in cagnesco.
- Anche io, sa? A quest’ora contavo di aver già finito il giro e pagato e invece sono ancora all’ortofrutta, depauperata di due pesche noci e di un’albicocca.
In realtà sarebbe stata ancora impegnata a scegliere il pezzo di maiale più adatto per celebrare degnamente la fine dell’amore della sua vita. Cioè della vita del capo e della moglie. Che comunque ormai era diventata anche la sua vita. In fondo, loro tre erano davvero una splendida coppia.
- Non c’è nulla da fare. La situazione è irreparabile  – dichiarò il ragazzo, che si era accucciato per accertarsi delle ormai disperate condizioni della frutta nel carrellino.
Irreparabile? Anche il riccio non dava ai De Carlis una seconda chance. Tutti quei segnali divini cominciavano a darle i brividi. Lei era la solitaria albicocca che aveva aiutato le due altrettanto solitarie pesche noci ad unirsi in matrimonio e proprio mentre le aveva lasciate andar via verso le conserve – una chiara metafora del futuro – un imprevisto le aveva fatte deragliare tutte e tre. Rimaneva solo da capire chi rappresentasse il riccio: il destino, forse?
- Irreparabile un corno! Tutto si può aggiustare! – replicò con forza lei, stupendo il ragazzo. – Solo perché lei non è in grado, non significa che io non possa!
Lui stava per perdere definitivamente la pazienza, ma si promise di sforzarsi comunque di non risponderle in maniera sgarbata.
- E allora mi faccia vedere come ci riesce lei.
Aveva promesso di sforzarsi, non di riuscirci.
Azzurra prese il sacchetto con le vittime, rivoltandoselo tra le mani per trovare un modo per farle tornare all’originale splendore. Dopo due minuti di tentativi, le parve chiaro che sarebbe stato impossibile far sparire quei bozzi profondi da quelle belle bucce.
- D’accordo, forse non tutto – si arrese con riluttanza.
- Grazie!
- Beh, ma cosa vuol fare? – domandò indignata.
- Io nulla, lascio decidere lei – Azzurra si prese un attimo di riflessione, vagliò diverse opzioni, si ricordò di dover modificare il balcone dei Falconi e di ricalcolare i millesimi della proprietà dei Gambardella… –  Allora?
Ah, sì, il riccio doveva espiare.
- Si scusi pubblicamente. – esclamò, dopo il parto mentale.
- Come? – Lui sperò di aver capito male, ma la faccia determinata di lei non gli dava molte speranze.
- Si scusi pubblicamente. – ripeté, infatti.
Fallo, sarà un po’ umiliante e un tantino stupido, ma se servirà a togliertela di torno, fallo e basta, fu la decisione finale del ragazzo.
- D’accordo. Le chiedo perdono, signorina.
Stava già per ritornare al carrello e spingerlo il più possibile lontano da lei, quando la sua voce lo bloccò.
- Ma non a me, a loro!
No, non voleva girarsi, non voleva nemmeno lontanamente prendere in considerazione l’ipotesi che lei stesse indicando la frutta nel carrello.
Una coppia di anziani gli passò accanto stupita e lui aspettò con pazienza che lo superassero, prima di girarsi e dimostrare che la tizia urlante con la testa nel cestino stesse parlando proprio con lui. Sorrise ai due, tornò a grandi falcate vicino ad Azzurra e parlò sottovoce.
- Dovrei chiedere scusa a due pesche e ad un’albicocca? – chiese incredulo, ma la ragazza pareva irremovibile. La nanetta era fuori di melone, giusto per rimanere in reparto. Però decise di farlo, qualunque cosa per piantarla in asso e procedere con la spesa. – Okay. Scusate… ragazze.
- Bene, – gioì Azzurra, battendo le mani – giustizia è fatta. Buona giornata.
Non solo si era appena umiliato, implorando perdono a della frutta, ma, alla fine, era stato lui quello a rimanere da solo nell’ortofrutta.
 
Si sentiva leggera, aveva risolto l’inconveniente col riccio nel migliore dei modi ed ora doveva solo affrontare il problema di quanta panna da cucina comprare. Stava per imboccare la corsia apposita, quando, dando una rapida occhiata al carrello si rese conto di un buco che non avrebbe dovuto esserci nella programmazione dello spazio; ergo, aveva dimenticato qualcosa. A giudicare dalle dimensioni, poteva trattarsi di due pacchi di pasta da 500 grammi o di due confezioni di biscotti. Savoiardi, ecco che cosa mancava.
Fece una rapida retromarcia – per quanto le rotelline ossidate le consentissero – verso le corse inziali e lo rivide. Il riccio non era andato lontano, stazionava con aria confusa davanti agli scaffali delle conserve di pomodoro, probabilmente aspettando delle rispose dall’alto per comprare la migliore. Guardava le etichette dei prezzi, confrontava il peso netto dei prodotti, le offerte in corso. Azzurra non aveva mai visto tanta superficialità nell’affrontare una scelta di quella portata. E, sebbene una parte di lei auspicava che il tizio toppasse clamorosamente la sfida che aveva dinnanzi, il suo istinto da massaia chioccia non poteva lasciare che l’inesperienza fuorviasse il pulcino di un’altra gallina in quel modo.
Si avvicinò di soppiatto, ancora incerta sul da farsi: non voleva dimenticare l’incidente di poco prima.
Taci, Azzurra, sono affari suoi.
D’altra parte, però, la tentazione di fare la maestrina e cercare di indirizzarlo nella giusta direzione con la salsa di pomodoro era molto forte. Anche perché, ad essere proprio onesti, lui ne aveva disperatamente bisogno, vista la poca professionalità con cui aveva sistemato gli acquisti nel carrello.
- S-senta… – per  poco lui non lasciò cadere la bottiglia di sugo per terra. Che le aveva fatto, ora? Calpestato il piede del suo amico immaginario? Invaso il suo spazio vitale? Respirato il suo ossigeno?
- Scusi – disse d’istinto, tanto sapeva che ad un certo punto di quella seconda conversazione avrebbe dovuto dirlo.
- Mi permetta di darle una mano. – Senza attendere risposta, lei gli strappò dalle mani la confezione di vetro e la ripose sullo scaffale – Lei deve analizzare la situazione con maggiore oculatezza. Ha nozioni di chimica?
Il ragazzo rimase con la mano vuota a mezzaria e la bocca aperta. La pazzoide ora parlava di chimica con aria di chi la sapeva lunga a riguardo.
L’unica risposta che gli veniva da fornire era in realtà un’altra domanda: perché? Perché diamine avrebbe dovuto saperne di chimica per comprare del sugo? Perché diavolo stava parlando ancora con lei? Perché cavolo l’aveva sfiorata con il carrello mentre correva verso il reparto macelleria? E soprattutto, perché cazzo era entrato in quel supermercato? Sarebbe potuto rimanere in ufficio, alla banca, a mangiare la sua insalata preconfezionata, sperando di ritrovare nel pomeriggio Ingrid Geschwätz , una delle clienti fisse dello sportello, una valchiria tedesca con le spalle larghe il doppio delle sue – accompagnata dal fidanzato di un metro e cinquanta e dal chihuahua Arnold –, che gli rivolgeva sempre le solite parole.
- Puonciorno, sighnor Qvaresmini. Mein Gott, in qvesta banka ci è troppo kaldo! Ich krede kolpa è di zuoi pelli okki plu. Blaue Augen, rechts Ciofanni?
Seguiva un’abituale pacca sulla spalla del povero Ciofanni, che forse nemmeno capiva quel che lei diceva, ma non smetteva di guardare il suo bel donnone germanico con uno sguardo d’ammirazione e colmo d’amore. Oppure le guardava le tette, ancora non s’era capito.
Fatto sta che ormai lui si era affezionato a quell’improbabile trio; si preoccupava se non li vedeva almeno tre giorni a settimana, a ritirare cento euro alla volta. Erano cinque anni che lavorava lì e non avevano mai mancato l’appuntamento, né nel frattempo l’accento e l’italiano di Ingrid avevano dato segni di miglioramento. Si era abituato ad essere il signor Qvaresmini, solo per loro; una piccola concessione per l’unica famiglia che vedeva più della sua, fatta eccezione per quella rompipalle di sua sorella Elettra. E a proposito di rompipalle…
- Chimica?  – rispose con cautela. La ragazza che gli stava accanto sembrava calma al momento, ma non voleva rischiare di svegliare il gigante dormiente.
Azzurra lo guardò con aria scocciata. Ecco, era successo: si era pentita di aver offerto il proprio aiuto allo sconosciuto, che palesemente non capiva un corno di chimica. Che ci era andato a fare in un supermercato, se non ne sapeva una mazza in materia?
- Capisce cosa intendo quando parlo di stati di aggregazione? – Sì, okay, ora stava facendo un po’ la pretenziosa, giusto per dimostrare al pirata della corsia che non era una svitata. Obiettivo che non le stava riuscendo molto bene, a giudicare dagli occhi strabuzzati di lui – Stati della materia? No, niente?
A quel punto il riccio parve scorgere la luce in fondo al tunnel. Il liceo era lontano quasi dieci anni, ma talvolta qualche reminiscenza gli ricordava di quella vita passata tra i banchi, sui libri, in mezzo al sapere e alle gambe di Arianna.
- Intende lo stato gassoso, liquido e solido?
Azzurra sorrise forzatamente. Forse c’era ancora speranza per il tontolone.
- Esatto. Vedo che comincia a capire. – Qualcosa, in effetti, il ragazzo cominciava a capire: la pasta, d’ora in poi, solo in bianco. Purtroppo all’orizzonte non c’era nemmeno l’ombra di un altro cliente a cui scaricare la pazza. C’era solo una ragazzina, ma sarebbe stato troppo codardo appiopparla a lei; roba da rovinarle l’adolescenza. Doveva solo comportarsi da uomo e sopportarla, magari prima di arrivare al parcheggio, o, meglio ancora, alla cassa – Mi dica, come sceglie di solito la salsa di pomodoro?
Alt. E che fine avevano fatto gli stati di aggregazione della materia? Tanto clamore per recuperarli in un angolo recondito della memoria e ora si passava ad altro?
- Non so… guardo le offerte, direi. – fece spallucce – Oppure la prima che mi capita tra le mani.
- Ah-a! – il ragazzo indietreggiò lievemente, tutt’ad un tratto non si sentiva così sicuro vicino a lei – Lei è il classico pollo, senza offesa eh, facile da raggirare. Lei è vittima dei messaggi subliminali della pubblicità. Lo sa che si dice che la disposizione dei prodotti negli scaffali influenzi l’acquisto degli stessi? Pare che gli utenti ignari siano portati a comprare ciò che sta nel centro e nella parete destra della corsia. O era la sinistra, ora non ricordo benissimo.
Lui colse al volo l’attimo d’indecisione e provò a limitare la fiumana di parole che uscivano da quella bocca maledetta.
- Tutto ciò è molto interessante, le assicuro. Però, devo andare a lav…
- Mi perdoni, – lo interruppe lei, alzando il palmo della mano verso di lui – stavamo parlando della sua passata di pomodoro. Voglio aiutarla a sceglierla.
- La ringrazio, – davvero  la voleva ringraziare? E di cosa, di grazia? Di avergli fatto sprecare dieci minuti in un supermercato, in una serie di conversazioni totalmente inutili? – ma non è necessario. Prenderò questa.
Ne prese una a caso, proprio non gli importava che fosse biologica, d’importazione, di contrabbando o quant’altro. Gli importava soltanto di liberarsi di quella zavorra umana.
- Sguizza? – chiese lei all’improvviso.
- S-sguizza? – Doveva essere un modo per chiedergli se scherzava. – N-non so se sguizzo.
Azzurra lo guardò sconcertata: no, non c’era proprio speranza, quello non capiva nemmeno l’italiano.
- Ma non lei, per Diana! La salsa… dico, sguizza?
Non aveva idea di che cosa intendesse con quel verbo. Non che non l’avesse mai sentito, ma gli sfuggiva cosa c’entrasse nel contesto. Decise, quindi, di rimanere neutrale.
- Non saprei.
Scandalizzata. Lei era scandalizzata: trent’anni e non aveva le minime regole di base per fare la spesa. Ringraziasse il cielo di averla incontrata!
- Non ha controllato, prima di decidere di acquistare quella?
- Temo di aver perso le fila del discorso.
- Le chiedevo il grado di sguizzo che ha il barattolo di salsa che ha in mano: grande sguizzo, medio sguizzo o piccolo sguizzo?
- I-io…
Il tizio era veramente tardo, non c’erano altre spiegazioni.
- Sua madre non gliel’ha insegnato?
- No, purtroppo mia madre non c’è.
Ecco, che gaffe. Certo avrebbe potuto avvisarla prima che era orfano di un genitore, senza costringerla a fare una terribile figura, riesumando vecchi dolori, ferite profonde, Natali, Pasque, compleanni a fissare un posto vuoto a tavola, dopo quell’incidente in macchina, quella malattia, quello scontro in motoscafo, quel morso di vipera Russel, quell’attacco di squalo bianco o qualsiasi altra causa di morte.
- Oh, mi dispiace.
- No, – il riccio capì l’equivoco e  lo chiarì subito – non è morta, è solo che abita a centoventi chilometri da qua, non abbiamo occasione di fare le spese insieme e non mi ha introdotto alla tecnica… dello… ehm, sguizzo. – si sentiva un idiota già solo a dirla, quella parola.
- Ah, – Azzurra tornò subito alla realtà, con un briciolo di delusione – allora non mi dispiace. Cioè, mi dispiace che lei non abbia ricevuto un’educazione adeguata, perciò, in nome della connessione che si è creata tra me e lei nel momento del perimento delle due pesche noci e dell’albicocca, da lei causato ricordiamoci, mi offro d’indottrinarla a riguardo. – Indicò una prima confezione di tetrapak, completamente colorata – Cosa mi dice di questa?
- Beh, non vedo nulla.
- Esatto, – urlò lei, in piena estasi da salsa di pomodoro – come può giudicare lo sguizzo se non vede il prodotto? Scartato. – Dunque, questo sguizzo era qualcosa di visibile, era già un indizio. – Passiamo al prossimo: bottiglia trasparente, marca PappaPronta. Qui, finalmente, possiamo introdurre la tecnica vera e propria. Ecco, la prenda lei.
Lui l’afferrò con la stessa apprensione con cui aveva preso in braccio la prima volta la sua nipotina in fasce: come se potesse romperla stringendola un po’ di più.
- E ora?
- Faccia oscillare il sugo all’interno. – lui, appurato che la bottiglia sembrava abbastanza solida, prese a scuoterla con violenza – Non le ho detto di agitarlo come una batida! Immagini di decantare un vino pregiato su una spiaggia dorata, con le palme che si muovono nel vento e le onde del mare che s’infrangono sulla battigia…
Il riccio cominciò a battere il piede sul pavimento, spazientito. Non sapeva più in che lingua dirle che non aveva tempo da perdere, figuriamoci poi per scegliere se doveva starsene ad ascoltare tecniche di rilassamento da maestro di yoga.
- È necessaria la cornice caraibica per decifrare lo sguizzo?
Azzurra interruppe la descrizione con un grugnito contrariato.
- Per una mente limitata come lei, ovvio che no. Quindi, la sua conclusione? – lo esortò.
Il ragazzo seguì le istruzioni.
- Sembra un po’ liquida. Un po’ troppo.
Il sorriso sornione che si dipinse sulla faccia di Azzurra denotava una certo orgoglio da insegnante di fronte ad un alunno che ha appreso bene la lezione.
- Bravo l’élève. Questa passata scivola sulla mezza penna rigata e non me l’avvolge con il calore necessario; se mi permette un’espressione colorita, è buona per lubrificare, non per fare l’amore con la suddetta mezza penna. Grande sguizzo, grande delusione. Proviamo con la Pommipiù.
La lasciò cadere nella mano di lui, che evitò per un pelo di farla rovinare a terra, mentre lei già valutava quale sarebbe stata la prossima salsa da fargli valutare; ormai le conosceva a memoria, perciò sapeva bene cosa sottoporre al suo allievo.
- Questa neanche si muove. Sembra cementata.
- Piccolo sguizzo, la categoria peggiore. – decretò lei – Ingloba il maccherone e non lo molla più. È la fidanzata, quella gelosa e morbosa che non accetta di essere piantata, la stalker dei sughi insomma. – Si abbassò all’altezza dell’ultimo scaffale e prese un’altra bottiglia – Che mi dice della Salsy?
- Sembra un giusto compromesso, non le pare? Densa, ma non in modo esagerato, dà l’idea di saper coccolare il fusillo con quel misto di decisione e morbidezza che richiede una passata. Non ci veda doppi sensi in quest’ultima frase.
Tralasciando le sue battute, che comunque erano piuttosto carucce doveva ammetterlo, il riccio aveva una qualche sorta di talento per riconoscere gli sguizzi. Poteva ritenersi soddisfatta del lavoro svolto, perché era più che certa che il merito fosse suo. D’altronde, era sempre stata una magnifica insegnante.
- È l’amore della vita: ama il fusillo e vuole aiutarlo ad esprimersi al meglio, non lo lascerà mai. – sospirò e lasciò che i pensieri parlassero per lei – Loro sono i Sergio e i Dalila De Carlis.
I chi?
- Come prego?
Azzurra venne colta da una strana sensazione d’ansia e di inquietudine. Doveva pensare alla cena, punto e basta, senza perder tempo dietro a un bell’imbusto, che comunque non era neppure granché, togliendo gli occhi blu e quel ciuffo ricciolo che pareva la banana di Elvis Presley.
- Devo andare, de-devo finire il giro e sono in ritardo. Buona giornata. – si affrettò a dire.
Lo prese in contropiede e fu talmente rapida nel trascinare il carrellino e rifugiarsi nella corsia successiva che le parole di lui si dispersero nell’aria, senza che lei potesse udirle.
- Ma…? Aspetti. Aspetti! Volevo solo dirle… grazie.
 
Uno strano soggetto, senza dubbio. Quella nanetta con la lingua biforcuta e amante dei diritti dei vegetali non era di certo un tipetto convenzionale. Almeno gli aveva insegnato l’universale tecnica dello sguizzo; il tempo perso dietro le sue assurde teorie alla fine si era rivelato moderatamente utile.
- Signor macellaio? Ehilà, c’è nessuno? Mi dispiace per l’incidente con la mannaia dell’ultima volta. Volevo solo farle uno scherzo! L’importante è che abbia ancora tutte le dita, no? Signor macellaio?
Ed ecco riemergere dal fondo del supermercato la sua voce acuta alla ricerca di Giancarlo, capo della macelleria. Uomo simpatico e meritevole di solidarietà, se aveva avuto a che fare con lei e un coltello in mano.
Si rese di compassione e decise di dare lui una mano alla ragazza, per ricambiare il favore di qualche minuto prima. Si mosse con attenzione, onde evitare di investire nuovamente lei, o pane in cassetta, o pesci volanti. La trovò quasi arrampicata sul banco frigo per sbirciare all’interno della macelleria.
Forse era ancora in tempo per scappare.
- Credo sia in pausa. – disse, invece.
Azzurra si voltò e mise fine con un salto alla scalata che aveva intrapreso. Si sistemò il cerchietto sulla testa e si lisciò il trench spiegazzato.
- E io come faccio?
- Io non gliele presto le mie dita per giocare con la mannaia.
Meglio mettere le mani avanti con lei. Pessimo modo di dire, però, in questo caso.
- Cosa? No, mi serviva un pezzo di carne.
- La mia?
L’aveva presa in simpatia? Perché sembrava molto meno impostato dello stronzo ricciolone incapace di guidare un carrello dell’ortofrutta.
- Le detrarrò una libbra di carne per ogni brutta battuta che fa – lo avvertì.
- D’accordo. Posso darle una mano? Così, giusto per rimediare al danno di poco fa e ringraziarla dell’aiuto con la passata.
Lei lo guardò sospettosa.
- Non andava di fretta?
- Sì, ma lei ha fatto leva sul mio senso di colpa per il triplice ferimento, perciò posso utilizzare due minuti – e rimarcò bene la quantità di tempo che aveva intenzione di destinarle – ad aiutarla.
Okay, magari poteva dargli credito, non che poi avesse molte alternative: la sua conoscenza dei maiali si limitava a Babe, maialino coraggioso; carino sì, utile no.
- Ne sa di suini?
- Come se fossi uno di loro. – Era una brutta similitudine per dirle che era un donnaiolo? Il ragazzo parve accorgersi dell’ambiguità dell’espressione e si spiegò meglio. – Come uno nato e cresciuto in cascina. 
- E di lombi?
- Parliamo sempre di suini, vero?
Dalla simpatia si era approdati alla malizia, ma Azzurra era troppo concentrata sulla carne per poterla assecondare.
- Siamo già a quota tre libbre, l’avverto. – Lo minacciò, invece.
- Stemperavo solo la situazione, suvvia. Innanzitutto, qui c’è il vitello. Il maiale è là, sulla destra. – Le fece cenno di seguirlo verso la fine dell’enorme banco frigo – Eccoci.
Lei diede una rapida occhiata a tutti i pezzi confezionati disponibili: costine, guanciale, coscia, filetto…
- Qui non c’è nessun lombo! – Sapeva di doversi rivolgere ad un professionista, invece che al Lupo ammazzafrutta. – Signor macellaio?
- Si rilassi.– Prese una vaschetta e gliela mostrò – Eccolo, lonza di suino.
Allora davvero non capiva l’italiano.
- Ma a me serve il lombo!
Il riccio s’impose di restare calmo e di non urlarle di smettere di starnazzare: se solo fosse riuscita a tenere la bocca chiusa per più di tre nanosecondi, lui avrebbe avuto l’immenso piacere di illustrarle una spiegazione più che esaustiva.
- Si tratta sempre della stessa parte di carne, che assume denominazioni diverse in base al taglio e alla regione. Se alla carne viene lasciato l’osso, allora si parla di carré; la parte finale del carré contiene, sotto le coste, il filetto. Se tale pezzo viene affettato, si otterrà il nodino; se invece la carne viene disossata, avremo la lonza.
- Amen. Ne è sicuro?
Le aveva appena fatto un’esposizione dettagliata e precisa dell’intero problema e ora lei metteva in dubbio tutto quanto.
- Sicurissimo. – biascicò, coi denti serrati dal nervosismo.
- Guardi che io mi fido, eh. Se poi l’arrosto viene una ciofeca, do la colpa a lei. – disse Azzurra serissima, strappandogli un sorriso.
Non riusciva. Non ce la faceva a rimanere arrabbiato con lei: era buffa – un modo carino per dire pazza –, con una parlantina esasperante e modi di fare ancor più irritanti, ma l’insieme era imprevedibilmente gradevole.
- Mi prendo tutte le responsabilità del caso. – la rassicurò. Forse troppo, perché lei lo prese in parola.
- Quindi lei mi sta dicendo che se non riesco a salvare il matrimonio dei De Carlis, posso sempre dire che è a causa sua…
- Matrimonio? Non stavamo parlando di arrosto?
- No, – lo contraddisse – lei ha detto: “Mi prendo tutte le responsabilità del caso”. Il caso è quello dei De Carlis.
- E l’arrosto? – Decise di stare al gioco.
- Lonza al latte per risvegliare gli istinti materni di Dalila. Se non glieli risveglia, mando i coniugi da lei.  
- Da me?
Non aveva granché esperienza con le coppie, se non con Ingrid e compagnia bella. E in quel caso era un trio. E non era certo che Ciofanni sapesse parlare. Contava lo stesso?
- È lei che mi ha consigliato il pezzo di carne o no? Non cerchi di arrampicarsi sugli specchi, per cortesia.
- Posso almeno sapere il resto del menu?
- Crespelle ai funghi.
- … funghi per far capire a lui che Dalila è il terreno di cui si nutre? – domandò, immaginando un identico percorso cosparso di significati nascosti per il marito.
- Funghi perché è un po’ che li ho nel congelatore e volevo smaltirli. – Azzurra divenne rossa dalla vergogna e si affrettò a completare la risposta. – Ma ovviamente anche perché sono il terriccio di cui si nutre.
- Terreno.
- Quello che è.
Il riccio si appoggiò con gli avambracci sul proprio carrello; la conversazione, incredibile a dirlo, lo stava incuriosendo da morire.
- Dunque, per lui nessun messaggio culinario subliminale? – chiese interessato.
- Ecco…
Le guance di Azzurra si colorarono di un scarlatto ancora più intenso, divertendo il ragazzo.
- Nel dolce, forse? Cosa prepara come dessert? – La incoraggiò, conscio di peggiorare la questione imbarazzo.
- Ehm… tiramisù – sussurrò.
- Oh, giusto – lui trattenne una risata di puro gusto, solo per non farle desiderare una volta per tutte di sprofondare nel pavimento  – Certo, la poesia si perde un po’ per strada, ma anche l’intimità è importante. E se non migliorasse la situazione là sotto per il povero lui, temo dovremmo spartirci la colpa.
- Chi? Lei e Dalila?
- No, io e lei.
Azzurra ripristinò un colorito normale e si preparò a snocciolare uno dei suoi discorsi seri da psicologa con attestato online.
- Se si lasceranno sarà evidentemente perché non ritengono di poter continuare a vivere insieme, nonostante l’opinione contraria dell’esperta.
- Vedono una terapeuta?            
- L’esperta sono io – affermò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
- È una terapeuta?
- No, un architetto. Quindi so come progettare al meglio una relazione, dalle fondamenta ben solide, ai muri portanti, dai dettagli che rendono unico ogni progetto, ai balconi che ti permettono di godere della tua libertà, ma in modo controllato.
- La guru delle storie d’amore, in pratica – scherzò lui, ma lei lo prese sul serio.
- Dice bene. – Il riccio cominciava a piacerle, tutto sommato. La sua nuova denominazione le garbava alquanto. Purtroppo non poteva trattenersi, la cucina l’attendeva – Ora, bando alle ciance e mi lasci passare, ho una cena da preparare.
- Mi raccomando l’arrosto! – ridacchiò lui – Non ci metta le patate, l’analogia potrebbe traviare il povero lui!
Azzurra se ne andò con il suo carrellino cigolante, nascondendo sotto i baffi un sorriso divertito.
 
Dopo circa cinque minuti di quiete assoluta, si ritrovarono per l’ennesima volta, in questo caso ciascuno ad un’estremità della corsia dei detersivi per lavatrice. Pensavano di limitarsi ad un cenno con il capo in segno di saluto, entrambi avevano ripetuto fino alla nausea che l’ora di pausa stava tragicamente volgendo al termine ed erano già in ritardo sulla tabella di marcia.
Azzurra si guardava intorno interessata, quel reparto era il suo preferito. Nella sua piccola lavanderia di casa, c’erano un’infinità di flaconi colorati che non avrebbe mai usato, ma che non aveva potuto esimersi dal comprare, perché erano perfetti per l’arredamento della stanza.
Il riccio invece camminava più spedito, aveva già adocchiato ciò che gli serviva e non aveva bisogno di fare altre scelte di vitale importanza, come quella affrontata per la passata di pomodoro.
Man mano che si avvicinavano, però, cominciarono a scrutarsi attentamente. Sembravano due pistoleri di un vecchio film western americano; avanzavano lentamente verso il centro, studiandosi a vicenda con diffidenza, mentre lanicci di polvere rotolavano indisturbati sul pavimento.
Azzurra lasciò incustodito il proprio carrellino, pur di colmare il lieve svantaggio che aveva nei confronti di lui; sembravano diretti tutti e due verso lo stesso scaffale.
- Non avrà intenzione di comprare proprio quel flacone di detersivo? – Gli chiese con una punta di minaccia nella voce, ponendosi di fronte alla mensola.
- Il Fluffy, dice? Profuma di brezza marina, è il mio preferito.
Dannazione, anche la pazza lo voleva. Peccato che ne fosse rimasto solo uno.
- Lascia nell’armadio una deliziosa fragranza fresca, vero? – Doveva tirar fuori un po’ di charme, irretirlo con la parlantina per evitare che le scippasse l’ultima confezione – Adoro usarlo d’estate, quando…
- Beh, però è ottobre.
Ecco, aveva dimenticato che il ricciolone tontolone non era amante della poesia; era più spiccio. Bene, lo sarebbe diventata anche lei.
- Quindi?
- No, nulla, è solo che non è più estate, perciò potrebbe lasciarlo a me. Ma, la prego, – si scusò il ragazzo – sono un maleducato, è giusto che lo prenda lei.
- Non ha tutti i torti, siamo in autunno, potrei pure fare a meno della brezza marina nell’armadio. Sa che faccio? Glielo lascio.
La strategia di gioco era la finta cortesia: illudersi di averla spunta e poi, zan!, colpirlo a morte.
- Davvero? È gentile, ma insisto perché lo abbia lei, mi ha anche aiutato con la passata – esclamò lui.
- Ma lei mi ha dato una mano con la lonza, siamo pari.
- Di nuovo, insisto.
- Insisto io.
- Io insisto di più.
- Sono davvero molto brava ad insistere, mi creda.
- Se le cose stanno così… grazie.
- Bene. – Maledetto, l’aveva fregata! Ma se si aspettava che lei lo lasciasse andare via così, si sbagliava di grosso. – Certo che la brezza marina nel mio armadio ci sta proprio bene.
- Non lo dica a me, quando lo apro il profumo invade la stanza.
D’accordo, aveva provato con la gentilezza, anche se finta, e non aveva funzionato, ora sarebbe passata alle maniere forti.
- Già, già. Però sa una cosa? In realtà l’ho aiutata veramente tanto con la storia del sugo.
- Io c’ho perso cinque minuti dietro alla sua lonza. – Nemmeno il riccio dava segni di cedimento, però. Voleva quel Fluffy e l’avrebbe ottenuto, con le buone o con le cattive.
- Le ho persino insegnato la tecnica dello sguizzo… – ritentò Azzurra.
- Lei ha usufruito delle mie conoscenze anatomiche del maiale. – obiettò l’altro.
- … senza contare il danno subito dalla mia persona a causa sua, con le due pesche noci e l’albicocca crudelmente strappate alle loro simili per colpa della sua negligenza.
- Senta, non può ritrattare: ha detto che potevo prendere il flacone di Fluffy, ora me lo tengo.
- Ma ne stavamo discutendo! Lei insisteva, io insistevo, lei insisteva, io insistevo e ad un tratto lei ha smesso d’insistere! Poteva almeno avvisarmi, avrei smesso prima io!
- È stata una decisione improvvisa! – si giustificò lui, alzando il tono della voce, tanto che una commessa li guardò stupita – Ascolti, facciamo che lo prende lei e io ripasso domani, d’accordo?
Basta, la pazza aveva vinto, la situazione si era evoluta da una semplice discussione tra due adulti, a un battibecco tra cinquenni. Per giunta per del detersivo!
La tipa era matta, la cavalleria latente, ma non del tutto morta: gliel’avrebbe lasciato, almeno avrebbe fatto una bella figura agli occhi della cassiera guardona.
- No – rispose però Azzurra.
- Come no? – Nella sua voce c’era un’evidente nota di frustrazione.
- Non accetto la sua carità.
- Non è carità, – per la miseria! Avrebbe mai fatto la cosa giusta con quella maledetta ragazza? – è solo un modo per risolvere le cose e permettermi di tornare in banca dalla mia severissima capo.
- Ah, così lavora in banca… non l’avrei mai detto.
- Perché?
- Non ha la faccia da bancario, con tutti quei ricci ribelli. Non disturbano la clientela?
- Nessuno ha mai fatto un esposto a riguardo.
In effetti non aveva mai verificato. Però di sicuro la Leone, il suo capo, non avrebbe mancato di dirgli una cosa del genere. Lo rimproverava quando per caso starnutiva in primavera per via dell’allergia, figurarsi se si sarebbe lasciata scappare un’occasione del genere. Ma… davvero si stava chiedendo se gli utenti della banca si fossero lamentati dei suoi ricci? La pazzia era contagiosa, evidentemente.
- Va beh… ma si fida?
- Chi? La mia capo?
- Che c’entra il suo capo? Parlavo di lavatrici. Bianchi e colorati insieme?
Quella donna aveva la capacità di portare avanti dieci discorsi diversi, senza nemmeno rendere partecipi i propri interlocutori.
- Bianchi da una parte e roba colorata dall’altra: rossa, gialla, blu, verde, azzurra
La ragazza nel frattempo si era distratta, in quel tripudio di forme, colori e profumi che era il reparto dei detersivi. Per un architetto come lei, tutto ciò che avesse a che fare con quelle tre caratteristiche, era una sorta di specchietto per le allodole.
- Sì? – rispose, sentendosi chiamare, ma lui fraintese l’intero discorso.
- Sì, sì, tutta insieme.
- Io? – Azzurra si controllò braccia e gambe: le risultava di essere ancora tutta intera, nonostante il piccolo incidente delle due pesche noci e dell’albicocca.
- Lei?
- Sì, io.
- Cosa?
Il riccio si era definitivamente perso nella conversazione; non sapeva più nemmeno quale fosse l’argomento!
- Tutta insieme. – ribadì la ragazza – Almeno finché lei non mi investe col carrello.
- La lavatrice la investe con il carrello?
Che c’entrava ora la lavatrice?
- No, lei lei – precisò Azzurra.
- Io?
- Che aveva da dirmi?
- Sul Fluffy intende?
- Mi dica lei… mi ha chiamato per parlare del Fluffy? – Forse era il caso di mostrarsi accondiscendente, il riccio era già abbastanza confuso e aggredirlo non sarebbe stato fruttuoso.
- Io non l’ho chiamata! – si difese ostinatamente.
- Ho sentito nettamente il mio nome – replicò lei testarda.
- Nemmeno lo conosco il suo nome!
Erano almeno quindici minuti che si punzecchiavano e ancora non si erano presentati? Lei sentì il bisogno di colmare subito quella grave mancanza.
- Azzurra Trentini – disse, allungando la mano verso di lui.
- Achille Quaresmini – il riccio fece altrettanto e gliela strinse.
- Achille come il Felide?
Se l’aspettava, una domanda del genere; era una delle mille declinazioni a cui l’avevano abituato ventotto anni in quel corpo.
- Pelide – la corresse prontamente lui.
- No, parlavo del gatto del vicino.
- Mi prende in giro?
- Non mi permetterei mai, Achille. – Era divertente ripeterlo, con quelle due l finali che facevano indugiare la lingua sul palato. Un nome spassoso. – Certo che è strano.
- In famiglia abbiamo tutti nomi greci. – spiegò lui.
Non gli dispiaceva chiamarsi in quel modo, perlomeno non era il solito Marco o Pietro; però talvolta era davvero noioso dover dare spiegazioni sul perché portasse il nome di un eroe greco e non quello di un esploratore veneziano o di un vescovo di Roma.  
- Buffa scelta, ma in fondo poteva andarle peggio: Telemaco, Aiace, Agamennone, Priamo, Tindaro, Polluce, Egisto, Neottolemo… è una tradizione che intende mantenere? Perché se io e lei dovessimo sposarci non gradirei chiamare mio figlio Menelao. Al massimo il canarino.
Per quale assurdissimo motivo stavano parlando di nozze? Tra loro due, poi! Si conoscevano da un quarto d’ora e lui era piuttosto certo che quella fosse anche l’ultima volta che si sarebbero visti.
- Perché io e lei dovremmo sposarci? – chiese esterrefatto.
- Destino, suppongo. – scrollò le spalle lei – Mio padre ha conosciuto mia madre ad un matrimonio.
- È una dinamica molto comune.
- Era il matrimonio di lei. Sono scappati dal retro del ristorante.
Adesso gli sembrava tutto molto più chiaro, ma meglio non approfondire i trascorsi in casa Trentini.
- Possiamo tornare al detersivo? – propose.
- Credo che entrambi dovremmo lasciarlo qui. – concluse Azzurra – Se ci pensa, non è un comportamento corretto nei confronti del prossimo cliente che arriverà, vorrà comprare del Fluffy e non lo troverà.
- D’accordo, ha ragione. – A questo punto era meglio assecondarla, pensò Achille, almeno sarebbe finalmente riuscito a sbolognarla entro qualche secondo. Ora vai alla cassa e te ne vai, subito. – Non lo acquista nessuno dei due. Bene, è stato un piacere conoscerla, Azzurra. Buona giornata.
- Arrivederci, Pelide.
Arrivederci un cazzo. Io cambio supermercato e in questo non ci torno più, manco morto.
Stava per dirigersi diretto come un missile verso la cassa, quando notò che anche lei sembrava intenzionata a fare la stessa cosa. Ce n’era solo una aperta, il che significava fare la coda dietro a lei. Con lei. Si girò d’istinto verso la piccola parete che univa le due corsie e la guardò interessato. Merda, era quella dei cosmetici e degli smalti. Va beh, meglio perdere un po’ di mascolinità che altri dieci minuti – che, oltretutto, neanche aveva – a discorrere con quella.
- Provi quello lilla, è bellissimo! – gli urlò a distanza la pazza.
La cassiera alzò un sopracciglio, in un’espressione condita da stupore e un briciolo di disgusto, non si sforzò neanche di fingere di essere concentrata a fare il conto di Azzurra. Tentò, però, di aiutarla ad imbustare gli acquisti, ma all’ennesima volta che la ragazza le intimava di creare una solida base trapezoidale coi surgelati, rinunciò ad ogni carineria.
Achille trattenne il respiro finché le porte scorrevoli non si chiusero dietro la figura minuta di lei con un rumore secco, il più dolce che avesse mai sentito. Se n’era andata. Quasi quasi si commuoveva. Gli rimanevano quattro minuti e mezzo per pagare, caricare in macchina, mollare la spesa a casa e tornare in ufficio: nemmeno Superman ce l’avrebbe fatta, tanto valeva prepararsi alla ramanzina del capo e alle occhiatacce furiose del collega, nascosto da una fila chilometrica di clienti allo sportello. Ma almeno ora le orecchie si stavano riposando, senza quell’odioso – anche se doveva ammettere divertente, a sprazzi – cicaleccio femminile in sottofondo.
Passò davanti alla corsia dei detersivi, prima di rivirare verso la cassa, e lo vide di nuovo: il mitico Fluffy dall’obnubilante fragranza di brezza marina. Come il canto delle sirene per Ulisse – una sorta di amico greco –, il flacone lo reclamava a gran voce. Dopotutto, che gli importava? Azzurra era andata via, non avrebbe mai saputo che aveva infranto l’accordo di non belligeranza sul prodotto. Lo afferrò veloce e si precipitò alla cassa; avrebbe voluto sghignazzare maleficamente alla faccia della guru delle relazioni, ma s’impose di non farlo finché non fosse stato al sicuro nella sua automobile.
La commessa passò tutta la spesa davanti al lettore magnetico e lui si affrettò a infilare tutto nella grande busta di tela cerata del supermercato. Aveva ormai rinunciato a quelle sporte talmente biodegradabili da biodegradarsi prima di arrivare alla macchina.
Purtroppo il Fluffy non ci stava, così Achille se lo strinse con una mano al petto come un trofeo.
Pagò il conto, lasciò il carrello all’interno del supermercato e uscì all’aria aperta con un sorriso a trentadue denti e il flacone celeste da esporre neanche fosse una medaglia olimpica.
Ce l’aveva fatta. C’era voluta un po’ di astuzia, ma l’importante era aver vinto.
Aprì la macchina con il telecomando e spinse il pulsante per aprire il baule, depositandovi all’interno la borsa.
- Allora alla prossima!
Il motore acceso di una macchina alle sue spalle lo fece voltare di scatto. Era una Ypsilon color amaranto col finestrino sinistro abbassato. E un’Azzurra sorridente all’interno. Sorridente almeno fino al momento in cui non aveva visto l’agognato Fluffy a cui aveva dovuto rinunciare, saldamente circondato dalle braccia di quel riccio traditore di Achille. A quel punto aveva sgranato gli occhi, stretto le labbra in una smorfia di rabbia e scosso la testa ripetutamente, travolta dalla più nera ira e dalla cocente delusione.
- Le posso spiegare! – le urlò il ragazzo, ma lei non voleva starlo a sentire.
Nel tentativo di fare una drammatica uscita di scena – una sgommata e partire indignata –, mollò troppo presto la frizione, con il risultato che la macchina procedette a scatti per qualche metro e, infine, si spense.
Ad Achille veniva da ridere, Azzurra era troppo incasinata per essere reale. Per la salvaguardia del suo corpo, dal momento che la reazione della ragazza non era prevedibile – e lui desiderava avere figli in futuro – si trattenne a stento in un sorriso tirato.
- Faccia conto che non sia già più qui! – gli urlò lei, riavviando il motore e partendo, stavolta con un gran fragore.
 
- Tre minuti, Quaresmini, tre minuti di ritardo. Ringrazi il cielo che per ora ci siano solo quattro gatti in coda, altrimenti lo sentiva lei Brambilla borbottare come una caffettiera perché il suo collega se l’è presa comoda, come di consueto direi.
- Scusi dottoressa Leone, ho avuto un imprevisto.
- Si risparmi le solite scuse e si metta al lavoro.
Saranno pure state le solite scuse, ma erano vere, al contrario dei due wurstel che l’acidona aveva al posto delle labbra. Pagati da papà ovviamente, che guarda caso era pure l’amministratore delegato della banca in cui entrambi lavoravano. Achille non era nemmeno certo che la stronza ce l’avesse una laurea, eppure le era bastato il cognome per diventare la direttrice della filiale: ventisei anni, due in meno di lui, praticamente zero esperienza e la gerarchia gli ricordava che lei era un gradino più su. Lui era vicedirettore da un anno, era abituato a fare lavoro d’ufficio, ma da quando Iolanda era andata in maternità, la Leone aveva ben pensato di piazzare lui allo sportello, un modo assai poco sottile per ricordare a tutti che il suo futuro era nelle sue mani curate.
Si sedette alla scrivania, pronto a rendere operativo anche il secondo sportello della filiale, ma il computer pareva morto. Non si accendeva proprio. Controllò le prese, tentò d’invertirne alcune, ma lo schermo rimase completamente nero. La giornata sembrava procedere di male in peggio; afferrò la cornetta e provò a contattare l’assistenza, ma nessuno fu in grado di aiutarlo concretamente.
- Quaresmini, lasci perdere il terminale, verrà tra qualche ora il tecnico informatico a sistemare i suoi casini. Guardi che c’è la signora Geschwätz e valletti che la cercano; vada pure nel suo ufficio e li liquidi alla svelta, ha delle pratiche da sbrigare.
I suoi casini? Fino a prova contraria, quel computer era stato usato da Brambilla nella mattinata e l’aria colpevole del soggetto in questione sembrava confermare l’ipotesi che fosse lui il responsabile del malfunzionamento.
Achille si lasciò sfuggire un’imprecazione mentale contro quella grandissima zoccola della Leone, in parte gioendo di poter stare alla scrivania da solo, senza l’arpia a controllare ogni singola mossa. Era un ritorno al vecchio lavoro, quello di vicedirettore vero; non che le relazioni col pubblico non gli piacessero, – Ingrid, Ciofanni e il chihuahua, ad esempio, erano uno spasso – ma talvolta la clientela sapeva essere molto esigente, con richieste assurde, moduli incompleti, e dialetti africani e asiatici da interpretare.
Meglio la quiete del suo stanzino cinque per quattro metri, il rumore rilassante della macchina del caffè, il quadro con un paesaggio montano sulla parete, un pc funzionante…
Si accomodò sulla poltroncina girevole imbottita, ma qualcosa nella tasca dei pantaloni gli premette contro l’osso del bacino. Si raddrizzò senza alzarsi completamente e infilò la mano nei calzoni, traendone una piccola carta magnetica: era la tessera punti del supermercato.
Il pensiero andò direttamente a un soggetto: Fluffy, meglio conosciuto come il detersivo della discordia. Quando Azzurra se n’era andata via – la seconda volta, non quando aveva fatto cilecca –, si era sentito un po’ stronzo. Un po’ tanto stronzo. In fondo lei non era così male, neanche fisicamente: non troppo alta, occhi e capelli scuri, davanzale discreto, bel fondoschiena… si difendeva, nell’insieme. Magari il cerchietto con il fiocco poteva lasciarlo a sua nipote, la figlia di Elettra, per andare all’asilo, però nel complesso era carina. Se taceva.
Ingrid, Ciofanni e Arnold sfilarono di fronte ad un’inorridita direttrice, che mai si sarebbe abituata agli abiti vistosi e fuori luogo della signorotta teutonica.
Per la prima volta li vedeva senza la fredda barriera del vetro a dividerli. Lei corse ad abbracciarlo, mentre il compagno si accontentava di stringere il chihuahua color biscotto. Achille cercò di ricambiare, ma, nonostante la conoscesse da anni, non si sentiva proprio a suo agio, shackerato come un frullato in mezzo a quel seno prosperoso.
- Sighnor Qvaresmini, okki plu! Crande, crandissimo proplema!    
- Accomodatevi pure. – I tre si lasciarono cadere sulle due sedie identiche di fronte alla scrivania. – Ditemi, qual è il problema?
- Pankomat rotto. Kome quanto Arnolt non riesce ti antare in pagno: plokkato!
Ah, gli era mancata Ingrid e i suoi assurdi e imbarazzanti paragoni canini!
- Me lo dia pure, probabilmente è smagnetizzato. Glielo sostituisco subito.
- Oh, sempre prafo sighnor Qvaresmini. Qvanto tefe pacare?
- Niente signora Ingrid, è un servizio gratuito.
- Sentito, Ciofanni? Okki plu sempre prafo, onesto, non kiede soldi, lui non frekerebbe mai tonna come me.
Già, Achille Quaresmini è bravo, onesto, non fregherebbe mai una donna, non la ingannerebbe per accaparrarsi uno stupido flacone di detersivo alla fragranza di brezza marina…
Finì di preparare il nuovo bancomat per la signora Geschwätz e li congedò rapidamente, sempre più pensieroso. Sistemò alcune carte per circa un’oretta, ma non riusciva a concentrarsi su quei documenti, disturbato dagli eventi dell’ora di pranzo. Ventotto anni e si era ridotto ad ingannare una tizia per comprare una confezione di Fluffy. Aveva forse lasciato i gioielli di famiglia a casa, quella mattina? Gran bella prova di galanteria.
Lo disturbava. Sì, lo disturbava l’idea che la pazza potesse avere un’idea distorta di lui: non era il tipo da rubare a giovani donne indifese delle stupidissime confezioni di detersivo per lavatrice!
Chiuse la schermata del computer su cui stava lavorando e ne aprì un’altra, esitando a poggiare le mani sulla tastiera, prima di compiere una gigantesca infrazione alla riservatezza delle informazioni sui clienti. Controllò che Brambilla e la Leone fossero impegnati e lontani dalla sua postazione, quindi digitò nome e cognome nel motore di ricerca interno.
Azzurra Trentini.
Nessun risultato.  
Sarebbe stato troppo semplice se lei fosse stata cliente della sua banca. Provò direttamente su Google e trovò Trentini arch. Azzurra, ma il solo riferimento era lo StudioLab di  De Carlis ing. Sergio e soci, via Marconi 20/b. Gli orari di apertura coincidevano più o meno con gli orari della filiale, quindi, a meno di non riuscire a prendere ferie – il che probabilmente poteva avvenire verso il periodo di Natale. Del 2024 –, non sarebbe mai riuscito a trovarla sul posto di lavoro.
Ruppe ogni indugio chiamando Fabrizio, suo migliore amico, nonché ex compagno di università, che ora lavorava in una delle banche più importanti a livello nazionale.
- Posso parlare con il dottor Grella? Sono suo fratello. – Sperava ardentemente di trovarlo subito e concludere il losco affare nel minor tempo possibile.
- Stamattina quando sono uscito di casa avevo una sorella, Gaia. Che è successo nel frattempo?
- Sono diventato Gaio, Fabri. Ti ricordi che mi devi un favore?  
Se l’era inventato di sana pianta, ma era certo di riuscire ad inventare qualche balla plausibile su due piedi.
- No.
- In quinta elementare ti ho lasciato campo libero con Elisa. – esclamò sicuro di sé. Gli sembrava di avere una ragazza carina in classe con loro, l’unica di cui ricordasse il nome, e a lui piaceva, doveva sperare che anche l’amico le facesse il filo.
- Elena – lo corresse.
- Allora vedi che te ricordi?
- Mi ricordo che mi hai dato un pugno per lei. Che vuoi? – tagliò corto l’altro.
Era quello il bello di Fabri: non portava rancore, dopo vent’anni aveva dimenticato tutto. Più o meno.
- Voglio che tu metta da parte per due minuti la tua etica d’integerrimo operatore bancario e aiuti il tuo migliore amico preferito.
 
Azzurra aveva assistito inerme al lento declino della cena da lei organizzata.
Fino agli aperitivi era andato tutto pressoché bene: sembravano una piccola e imbarazzata famiglia qualunque. Sergio era ormai sulla sessantina e Dalila non gli era anagraficamente molto distante, nonostante fosse ancora una bella donna, con una fulgida chioma ramata e un fisico slanciato. Se ne stavano tutti e tre con lo sguardo basso a mangiare tartine e bruschette nel silenzio più totale. Azzurra aveva tentato in ogni modo possibile di avviare una conversazione; parlava di gossip con lei o di lavoro con lui, ma non riusciva a coinvolgere entrambi in un discorso che esulasse dal commentare il tempo incerto di quell’ottobre soleggiato.
Forse sul serio quei due avevano esaurito le cose da dirsi e quel procrastinare di continuo il momento d’intraprendere sentieri diversi – dovuto soprattutto alla cocciutaggine di Azzurra e ai suoi disperati tentativi di farli vivere per sempre felici e contenti – stava finendo col renderli l’esatto opposto.
- Dalila, vuoi ancora dei crostini?
Le offriva del pane, ma in realtà è come se le stesse chiedendo se voleva stare ancora con Sergio.
- Ti ringrazio, cara, sono a posto così.
Perché non voleva quei dannati crostini? Erano già vecchi, chi pensava li avrebbe presi il giorno, il mese, l’anno dopo? Ormai si era impegnata a venire a cena, il minimo che potesse fare era mangiarseli, e che cavolo!
Le crespelle erano venute troppo dolci, Azzurra non escludeva l’ipotesi di aver confuso il sale con lo zucchero nella preparazione. Era troppo agitata all’idea di doverle lanciare in aria a mo’ di frittata per curarsi di sottigliezze simili. Al massimo ne aveva fatte alcune di scorta e nell’armadietto c’era un barattolo di nutella; le avrebbe spacciate per crêpes e problema risolto.
- Sergio, ne gradisci un’altra?
- Lo sai che sono a dieta, tesoro.
I bottoni della camicia all’altezza della pancia sul punto di esplodere sembravano suggerire che fosse all’ingrasso come un maialino d’allevamento, ma la padrona di casa apprezzò lo sforzo creativo della risposta.
Purtroppo non c’era stata occasione di provare l’efficacia della lonza al latte. Dalila, che lavorava all’ospedale principale della città, era stata chiamata d’urgenza per l’assenza di un collega, vanificando di fatto il piano di Azzurra di stimolare il suo istinto materno. Certo ormai ci si metteva pure l’orologio biologico a remare contro il geniale progetto di fare un bambino, ma a quel punto pure un porcellino d’India, una cavia peruviana, ma anche un cagnolino del canile comunale sarebbero andati bene.
- Sono terribilmente dispiaciuta di dover andare via così presto, ma purtroppo il lavoro mi chiama. Grazie della cena, era tutto buonissimo. Ci sentiamo!
Dalila aveva radunato giacca e borsa e se n’era andata in modo talmente celere che gli altri due erano rimasti spiazzati. Qualcuno avrebbe potuto benissimo dire che stesse scappando.
- Azzurra? – Sergio la invitò ad alzare lo sguardo mortificato dal piatto – Dobbiamo parlare.
- Sì, ho quasi terminato la prima bozza per la ristrutturazione della villa del 1700…
De Carlis le sorrise bonario: quella ragazza era una testa dura e proprio la sua testardaggine era uno dei motivi principali per cui l’aveva assunta. E per cui desiderava licenziarla quasi ogni giorno.
- Non intendevo discutere di lavoro e tu lo sai. Stai evitando questo discorso da settimane, se non mesi, perciò ora te lo dirò e tu dovrai accettare la cosa nello stesso modo in cui lo abbiamo fatto io e Daly: ci stiamo separando.
- Forse è solo la crisi del settimo anno.
- Abbiamo già chiesto una consulenza legale. – Gli dispiaceva smontare le teorie astruse della collega, ma la conosceva da quando a vent’anni aveva cominciato un tirocinio nel suo studio e sapeva che avrebbe cercato di dare un nome improbabile anche al problema sorto tra lui e la moglie: carestia affettiva, siccità emozionale o qualcosa di simile.
- Guardare The Good Wife non è chiedere una consulenza legale, Sergio.
Julianna Margulies a volte aveva il potere di confonderlo.
- Un avvocato vero… stavolta.
Azzurra sospirò, colma di malinconia: perché, tra i milioni di coppie al mondo, proprio loro dovevano lasciarsi? Perché non Brad e Angelina? Dalila era centomila volte più simpatica di lei e Sergio era più… più… più ingegnere di lui!
- Non voglio che vi lasciate. – mugolò afflitta.
- Lo so, – le rispose comprensivo – però devi sapere che non stiamo rinnegando quel che c’è stato tra noi, né stiamo incolpando te per averci fatto incontrare; anzi, ti siamo grati per quello. Solo non ce la sentiamo più di vivere insieme e siamo abbastanza maturi da ammetterlo.
- Stai insinuando che io non sia matura?
Non ci pensò neanche un secondo.
- Sì, decisamente.
- Mi offendi! – come se fosse stata la prima volta che qualcuno le dava dell’acerba.
- Sei tu che offendi la tua intelligenza, continuando ad incolparti per qualcosa che non dipende da te. I matrimoni finiscono, Azzurra! È la vita.
Il grissino che aveva in mano la ragazza venne ridotto in migliaia di briciole nervose.
- Ma io voglio che voi stiate insieme. – s’impuntò, confermando le tesi del capo – Siete i miei Lancillotto e Ginevra… senza la parte in cui lei viene condannata a morte, tu ammazzi metà Tavola Rotonda e finisci solo e sfigato come un eremita. Oddio, potresti diventare così!
Ed ecco la vena melodrammatica impossessarsi di lei e fare spalancare gli occhi a lui, intendo a pronunciare scongiuri.
- Grazie.
Azzurra tentò un ultimo, disperato attacco: magari sarebbe riuscito a convincerlo con la forza della disperazione.
- Torna con lei.
- Si può sapere che diavolo di ansia da separazione di affligge? – s’alterò lui, pur sapendo che alzare la voce con lei non avrebbe cambiato le carte in tavola. Era troppo ostinata. – Non cambia nulla nel rapporto con te, ci saremo entrambi ogni volta che vorrai. Saremo sempre il tuo abbozzo d’ingegneria sentimentale, come dici tu.
- Era capolavoro! – lo corresse lei, ma il sorriso di Sergio fu eloquente.
- Beh, è palese che tu debba perfezionare le tue tecniche. Però sei sulla buona strada. – poi, decise a sua volta di congedarsi. – Sono stanco, vado a casa, grazie della cena.
 
Viale della Quercia, 27.
Achille controllò un’ultima volta l’appunto che aveva preso mentre Fabrizio gli dettava sottovoce al telefono e il navigatore sul cellulare. Pareva proprio che fosse arrivato a destinazione. Un condominio carino, appena fuori dal centro, pitturato di un eccentrico arancione acceso e circondato da un piccolo giardino curato. Il cancellino era aperto, per fortuna, dava l’impressione di non venire mai chiuso.
Cacciò cellulare e foglietto in tasca, prese il pacchetto regalo che aveva confezionato alla bell’e meglio – dopotutto lavorava in banca, la creatività non era di certo il suo punto forte – e si avviò verso il breve vialetto piastrellato che conduceva nell’atrio del palazzo.
Due fidanzatini stavano amabilmente mangiandosi la faccia a vicenda in un bacio dall’alto tasso di coinvolgimento emotivo, proprio sulla porta.
- Ehm, scusate?
Lo ignorarono completamente. Achille cercò di aggirare l’ostacolo, ma le mani del ragazzo, salde come artigli sul fondoschiena di lei, gli ostruivano il passaggio da entrambe le parti. Provò ad appiattirsi contro il cardine, cercando di passare di profilo con le braccia che reggevano il pacchetto sopra la testa: tentativo vano. Alla fine li abbracciò entrambi, li spostò in blocco verso il muro laterale e i due non diedero cenno di accorgersene, continuando ad ispezionare l’uno la bocca dell’altro.
- Ecco qua. Proseguite pure con… il soffocamento reciproco.
Con la via d’accesso alle scale finalmente libera, l’unico problema da risolvere per trovare Azzurra era scoprire il suo interno. I piani erano solo cinque, perciò, al di là un po’ di sano esercizio fisico, lo sforzo non doveva essere troppo impegnativo.
Ogni pianerottolo aveva due appartamenti, separati da un paio di gradini. Achille non trovò il cognome Trentini sul campanello fino all’ultima rampa in cima al condominio, dove c’era una sola porta cromata di rosso, la mansarda presumibilmente. L’occhio gli cadde sullo zerbino; era un semicerchio marroncino con la scritta tutt’altro che simpatica: You again? Era di sicuro la casa giusta.
Tentennò qualche istante prima di suonare, chissà cos’avrebbe pensato lei trovandoselo davanti al suo appartamento, di sera, quando era in pratica uno sconosciuto. Pazienza, ormai aveva attraversato la città per cercarla e, conoscendo il soggetto, era in grado di saltargli al collo o per ammazzarlo o per la contentezza di vederlo.
Azzurra, all’interno dell’appartamento, si alzò meccanicamente dal divano, singhiozzando come una bambina. Che fosse Sergio a suonare il campanello per dirle che stava scherzando prima? Il lumicino della speranza si spense non appena aprì la porta e si trovò davanti il riccio ladro del supermercato.
- Che ci fa lei qui? – lo aggredì subito – È-è uno stalker? Guardi che sono armata, stia indietro! – Nel frattempo aveva tastato con la mano destra il mobiletto dell’ingresso, alla ricerca di qualcosa di appuntito o almeno di pesante da usare come arma di difesa contro l’intruso. L’unica cosa che era riuscita a racimolare, però, era un blocchetto di post-it a forma di mela. – Le… incollo gli occhi insieme, se non si allontana!
- Cosa? Si calmi, Azzurra, – replicò lui, appoggiando il pacco regalo per terra e facendole cenno con le mani di rilassarsi – non sono uno stalker, sono Achille, del supermercato… ricorda?
La ragazza lo fissò incredula.
- Mi ha preso per rimbambita? So chi è lei. Ma cos’è venuto a fare a casa mia? E chi le ha dato l’indirizzo? – Stava per dire qualcos’altro, poi parve ripensarci. Si avvicinò a lui e gli domandò sottovoce:  – Non sono stata io, vero?
- No, è una lunga storia. – Veramente era corta, ma raccontare di aver chiamato un suo amico in un’altra banca, pregato perché infrangesse una ventina di norme sulla privacy cercando il suo nome tra i clienti e implorato che gli comunicasse la via della sua abitazione… beh, lo avrebbe etichettato senza dubbio come maniaco – Si sente bene?
- Perché non dovrei? – Stava riprendendo a frignare e due grosse lacrime le stavamo scendendo sulle guance arrossate.
Achille la osservò meglio: era un disastro piagnucolante e nemmeno il vestito floreale sopra il ginocchio che le lasciava intravedere la forma del seno migliorava di molto la situazione.
- H-ha il mascara tutto colato, i capelli arruffati, gli occhi gonfi… – S’irrigidì subito dopo averlo detto, poteva aver azzardato troppo; la sua ex gli aveva mollato dei ceffoni anche per molto meno.
- Sta cercando di dirmi che sono un cesso? – Lei stava urlando, ma almeno la faccia era salva.
Anche se poteva sembrare il contrario, in realtà la trovava… carina, tenera quantomeno, così fragile da desiderare di abbracciarla come un peluche gigante, di quelli belli ciccioni, o come un cucciolo bavoso.
- Assolutamente! La trovo molto… – come trovare la giusta parola per non mortificarla? – emotiva.
- Ritenti.
- Umana?
- Può fare di meglio.
- Graziosa.
Finalmente Azzurra sorrise soddisfatta.
- Adoro la sua spontaneità. – Achille si unì a lei in un’espressione gaudente. Forse era riuscito nell’intento di farla calmare e dimenticare il suo rocambolesco arrivo. – Mi dice che c’è venuto a fare qua?
O forse no.
- Volevo scusarmi per oggi, mi sono comportato come un ragazzino e ho infranto il patto che avevo siglato con lei.
Lei lo guardò un po’ scettica, ma le si leggeva in faccia che non avrebbe retto il broncio a lungo. Certo il Pelide aveva osato – e parecchio! –, però in fondo era stato un gesto cortese, carino, dolce, sensibile… potenzialmente maniacale e omicida, ma suvvia, nessuno è perfetto.
- Il ratto del Fluffy, eh?
- Sono desolato.
Lei ci pensò un attimo, poi decise di fargli una domanda che avrebbe potuto migliorare la situazione disastrosa di lui ai suoi occhi.
- È arrivato tardi a lavoro?
- Tre minuti e tredici secondi.
Ancora una domanda e si sarebbe sentita meglio. Nel caso di risposta affermativa, naturalmente.
- L’hanno sgridata?
- Strigliato come un bimbo dell’asilo. – Azzurra si concesse una breve Macarena mentale per celebrare la piccola rivincita, ma ad Achille non sfuggì il sorrisino malefico sulle sue labbra. – Sta festeggiando internamente?
- Può essere… – rispose lei vaga, conscia di essere stata beccata in flagrante.
- Ha finito?
- Ancora un attimo, devo terminare di agitare il sedere. Ecco, ci siamo. – Tamburellò nervosamente le dita sul battente della porta; la proposta che aveva in mente andava contro tutti i principi del suo senso. Non di certo quelli che le aveva insegnato sua madre: una tizia scappata al proprio matrimonio con un lontano parente del marito, aveva perso ogni diritto di fare la morale alla figlia in fatto di relazioni – Bene, se mi promette che non mi ucciderà, la invito ad accomodarsi.
Ecco, l’aveva detto: o aveva appena firmato la propria condanna a morte o poteva essersi invischiata in qualcosa di più pericolosamente piacevole.
- Cercherò di fare del mio meglio.
Azzurra si scostò dalla porta, spalancandola e lasciandogli lo spazio necessario per entrare. Achille si abbassò a recuperare il pacco che aveva appoggiato sullo zerbino e fece ingresso nell’appartamento. Si prese del tempo per osservarne le caratteristiche: il colore dominante sulle pareti era il tortora, i mobili erano tutti sulla tonalità del bianco, i quadri raffiguravano le più grandi città del mondo. Sopra il caminetto, una piccola libreria conteneva grossi volumi di storia dell’architettura e dei dvd meticolosamente sistemati in ordine cromatico.
- Se ha finito la radiografia, posso chiederle cosa c’è nel pacchetto?
Il ragazzo si accomodò sul divano e le porse il regalo.
- Non sono solito presentarmi a casa di sconosciute incontrate una volta al supermercato a mani vuote. Lo apra, coraggio.
Lei lo afferrò tra le proprie mani, timorosa, sedendosi accanto a lui. La carta che avvolgeva il dono era da pacchi e l’orrendo fiocchetto striminzito era di rafia bluette. Non capì se il colore fosse un omaggio a lei o una semplice coincidenza, ma gli concesse qualche punto extra; se non per merito, erano un bonus per il fattore c.
Tolse il l’involucro e scrutò attentamente il contenuto.
- Fluffy! – Un nuovo flacone di detersivo arancione era sistemato in una scatola rettangolare – Non è brezza marina, però.
- È pesca e albicocca, per onorare la memoria delle cadute nella giornata di oggi. Come si dice in questi casi, il loro sacrificio non è stato vano.
Azzurra si portò teatralmente la mano destra sul cuore.
- Lei tocca le corde più profonde del mio essere. – Doveva riconoscere che Achille aveva trovato un modo gentile per ricordare le defunte. Che lui aveva ucciso.
- Dalila e consorte se ne sono andati prima? – Cambiò argomento lui d’improvviso.
- L’hanno chiamata per sostituire un collega malato in ospedale e Sergio è rimasto solo per confermarmi che sono già andati dall’avvocato e che stanno procedendo con le pratiche per la separazione. Sono scoppiata in lacrime, lui ha detto che il loro affetto per me rimarrà immutato, che non mi costringeranno a scegliere uno o l’altro; mentre usciva ha addirittura promesso che proverà ad assumere l’architetto gnocco di cui ero innamorata lunedì scorso. Un chiaro tentativo di comprare il mio affetto.
- Allora si aspetti la contromossa di Dalila.
- Al massimo mi darà un buono per una visita ginecologica.
Il ragazzo si pietrificò; da degno esemplare della fauna maschile, i discorsi su organi genitali femminili, mestruazioni, assorbenti e affini erano un campo minato. Tuttavia, le tette lo interessavano. Comunque, meglio limitarsi ad annuire e cambiare la rotta della conversazione. Per sua fortuna, Azzurra parve capire il suo imbarazzo e si alzò, raggiunse la cucina a vista, trafficando negli armadietti per cercare due bicchieri e la bottiglia di moscato dei De Carlis che non avevano avuto occasione di bere.
- Almeno le tornerà utile. – la voce di lui le giunse dall’altra parte della sala. – Quindi l’arrosto non ha funzionato.
Appoggiò i calici sul tavolino davanti al divano e si diresse verso il frigorifero.
- Ha scelto una lonza guasta, evidentemente. Gradisce del tiramisù?
- È un tentativo di sedurmi? – Si erano entrambi rilassati e si stavano ora godendo il divertimento del botta e risposta tra loro. – Non la facevo così sfacciata.
- Disse quello che si era presentato sulla porta di una sconosciuta alle dieci di sera. – Non aspettò risposta e posò tiramisù, piattini e posate accanto a bicchieri e vino. Achille aprì il moscato e ne versò un po’ per entrambi, mentre Azzurra si assentava un attimo per andare in bagno. – Si serva pure, io vedo di sistemare questo pasticcio che mi rende… com’era? Ah, sì, emotiva, umana e graziosa.
Lui immaginò di vederla sorridere, mentre era intenta a lavare via dal viso lacrime e trucco colato. Nel frattempo, prese un cucchiaio e la teglia del tiramisù, mangiando direttamente da quella. Adorava i dolci, erano l’unica vera tentazione a cui non riuscisse mai a dire di no e doveva ammettere che quello di Azzurra era molto buono. Di pasticceria, non aveva dubbi.
Lei ritornò nel salone giusto in tempo per ammirarlo divorare la terza fila di savoiardi. Senza piattino, senza aver prima frazionato il dessert in quadrati di quattro centimetri per quattro e di certo senza alcuna dignità! Sembrava un sopravvissuto ad una carestia secolare, si ficcava in bocca un boccone dietro l’altro, procedendo ora dritto, ora in diagonale nella pirofila.
- Vedo che ci tiene alla linea.
Non a quella geometrica, però, pensò criticamente con deformazione professionale.
- Fcufi,– farfugliò lui, mandando giù l’ultima cucchiaiata – perdo la mia grazia quando ho davanti un dolce.
- La stessa grazia con cui mi ha investito con il carrello e ha rubato il Fluffy?
Achille roteò gli occhi con finto fare annoiato, poi prese in mano la teglia col tiramisù e la mostrò meglio ad Azzurra.
- Si sforza così tanto di ricordare, e di ricordarmi, le mie presunte malefatte che non apprezza nemmeno i gesti carini che faccio per lei, architetto. – Lo sguardo della ragazza si soffermò sul dolce: il tiramisù rimanente aveva la forma approssimativa di una piccola casetta con il comignolo sul tetto. – Fosse arrivata qualche secondo prima, avrebbe trovato anche una bella nuvoletta di fumo.
Azzurra prese un cucchiaino, lo capovolse e tracciò con esso una riga per ridurre le dimensioni della costruzione stentata di Achille, allontanando l’eccesso.
- Non mi sarei mai potuta permettere un’altra casa così grande – spiegò. Poi prese i due bicchieri di moscato e ne porse uno a lui.
- Io le avrei fatto un mutuo senza problemi. – Le sorrise, poi bevve un lungo sorso di vino – Bastava solo che venisse da me.
Nel tentativo di metterla a proprio agio, senza più dubbi su di lui, stava correndo il rischio di agitare le acque ancora di più, trascinandola con sé a danzare sulla sottile lama del flirt. Lei non era così sprovveduta da non conoscere il pericolo a cui andava incontro, ma quel giorno si sentiva abbastanza intrepida da sfidare la sorte e le intenzioni di Achille.
- E darle l’occasione di fare l’eroe? – fece una smorfia che indicava che non era propensa a fare una tale concessione.
- Sono un uomo, è il mio sogno diventare l’eroe di una donzella in difficoltà.
- Scommetto che la calzamaglia le sta un amore – lo canzonò.
Il ragazzo si fece serio e gonfiò il petto come un tacchino ripieno.
- Diciamo solo che qualcuna mi ha paragonato a Roberto Bolle. – esagerò – Dopotutto, non dimentichiamoci che sono un semidio.
Azzurra raccolse in parte quell’ardito pavoneggiarsi del suo inaspettato ospite.
- E io una tinta pastello. Ciò dovrebbe farla riflettere: il nome spesso non rispecchia il carattere.
Achille riempì un altro cucchiaio di tiramisù e lo sbafò senza ritegno, sotto lo sguardo allibito della ragazza, che non si capacitava di come fosse riuscito a spazzolare praticamente metà teglia di dolce e ancora avesse la forza d’ingurgitarne dell’altro.
- Sta forse insinuando che io non avrei le sembianze o la forza del mio omonimo?
- Per verificare dovrei farle togliere una scarpa e colpirla al tallone, ma non sono certa di essere pronta ad affrontare un tale stato d’intimità da vederle i piedi nudi.
- Fredda e algida come un polaretto: – commentò – il suo nome le calza a pennello.
Lei sfoggiò un'altra di quelle espressioni da maestrina che lui aveva conosciuto al supermercato, quando si era tanto applicata per istruirlo tra gli scaffali stracolmi e i pochi clienti dell’ora di pranzo.
- In realtà, il significato è che ha il colore del cielo sereno – gli spiegò. Era una di quelle cose che sua madre amava ripeterle da bambina, ogni singola volta che lei le chiedeva per quale motivo l’avessero chiamata come un colore. Perfino Giampaolo, il gatto persiano di suo padre, aveva un nome più normale del suo. E c’era da domandarsi se ci fosse qualche collegamento tra la razza del gatto e l’origine altrettanto persiana di Azvard, da cui Azzurra.
- Se controlla bene ci troverà anche la specificazione d’inverno, in Siberia, a -50°C. – la prese in giro, notando quanto le risultasse facile irrigidirsi in sua presenza – Temo che la casa di tiramisù non contribuirà a sciogliere il suo cuore gelido.
- Nemmeno la rata del mutuo che mi vuole fare accendere.
- Sono un eroe, non un messia: – sospirò – faccio mutui, non miracoli.
- E allora ho paura che il suo aiuto mi sarà del tutto inutile.
- Come vuole, però mi sembra giusto dirle che nessuna si è mai lamentata.
- Nessuna? – ripeté lei – Significa che è stato l’eroe di parecchie donzelle in difficoltà.
- È gelosa?
Il sorriso malizioso di Achille la fece vacillare, ma non voleva in alcun modo concedergli il vantaggio di capire come non le fosse indifferente.
- Pensavo solo che gli eroi fossero personali, – esclamò quasi delusa – non credevo di doverne prendere uno riciclato.
- Ehi, – la bloccò lui – piano con le parole! Con le altre ho fatto soltanto pratica, per migliorare.
Azzurra si alzò, si versò dell’altro vino e tornò accanto a lui sul divano, portandosi entrambi i piedi scalzi sotto il sedere.
- Sono curiosa di sapere se queste tecniche di seduzione funzionano.
Pareva divertirsi un mondo a propinarle battutine sciocche su relazioni con altre donne, presunte e reali.
- Qualche volta, ma non creda che siamo solo noi uomini a tentare l’abbordaggio. Oggi, ad esempio, una tizia ha tentato di rimorchiarmi spudoratamente al supermercato con la scusa d’insegnarmi a scegliere il sugo.
- Non era affatto una scusa! – appoggiò il bicchiere sul tavolo, difendendosi dalla folle accusa che lui le stava molto poco velatamente muovendo.
- Vero, mi perdoni, – si scusò lui – era una tecnica. Dello sguizzo, ad essere precisi, o almeno è quello che mi ha detto lei. Non aveva un aspetto raccomandabile.
- Troppo emotiva, umana e graziosa per sembrare rispettabile?
Achille ignorò deliberatamente la frecciatina e continuò con la sua dettagliata descrizione dell’incontro al supermercato. Dal suo punto di vista, ovvio.
- Si è inventata di tutto pur di non smettere di parlare con me, avrebbe dovuto vederla.
- Sbaglio o è stato lei ad avvicinarsi per aiutarmi con la lonza?
- Sono un gentiluomo, mi ha circuito e si è approfittata di me.
- Infatti la vedo davvero provato – scherzò lei.
Lui si mise entrambe le mani sul petto e da perfetto attore consumato, recitò la sua battuta colma di dolore.
- Solo perché non riesce a vedere le ferite interne.
Azzurra si trovò su un piatto d’argento la ghiottissima occasione di terminare il gioco verbale tra i due e farlo volgere in qualcosa di più interessante. Achille, comunque, auspicava che si rimanesse in ambito linguistico.
- Questa ragazza l’ha proprio segnata, nonostante la conosca da meno di ventiquattr’ore…
Lui mangiò la foglia, il ramo e pure la pianta.
- E pensi che abbiamo già litigato un paio di volte, fatto pace, fatto la spesa insieme, mangiato sul divano, io l’ho già rincorsa fino a casa e fatto il cretino per farla ridere.
Azzurra, per un riflesso condizionato, gli sorrise complice. Sì, era proprio un cretino, ma lei lo era ancora di più a barcollare emotivamente per le idiozie che lui le stava rifilando.
Perfetto, il tontolone la stava intontendo.
Lei lo guardava con occhi indecisi, lui non la sapeva decifrare. Non solo il suo sguardo, non sapeva decifrare lei tutta. Il silenzio che regnava in quel momento, ad esempio, che significava? Un tacito assenso a realizzare quello che lui aveva in mente o semplice imbarazzo e ritrosia a dirgli di andarsene per mera educazione?
O forse era questione di palle.
Dai, cazzo, ti chiami Achille!
Sull’onda emotiva provocata dal ricordo di antichi eroi omerici, il riccio si spostò di qualche centimetro sul divano, sporgendosi verso di lei. Azzurra non si mosse, lasciò che lui si avvicinasse al suo viso e strofinasse la punta del naso prima contro la sua guancia, poi contro il suo, di naso. Non riuscì ad impedire a se stessa di respirare rumorosamente, chiuse solo gli occhi, mentre lui cominciava a baciarle leggero la fronte, le palpebre, per poi scendere sulle gote accaldate e infine sulla bocca. Achille socchiuse appena le labbra per sfiorare le sue, con lentezza, non voleva affrettare le cose e rischiare di spaventarla, anche se una parte di lui premeva perché accelerasse. E avrebbe premuto parecchio entro poco, sulla zip dei pantaloni in particolare.
Decise di osare di più, lei sembrava abbastanza rilassata da permettergli di approfondire il contatto. Le mise una mano sul fianco ed una sulla schiena per spingerla più vicino a sé e… se fosse scappata qualche strusciatina di certo non si sarebbe lamentato.
Ma Azzurra scattò in piedi con la velocità di una saetta e l’espressione indignata.
- Sta cercando di approfittarsi di me? – lo accusò ad alta voce.
Il ragazzo la fissò incredulo, la sua bi-tri-tetrapolarità cominciava davvero ad alterarlo. Prima si era goduta le moine, poi ora se ne stava con l’indice puntato verso di lui ad attribuirgli false imputazioni.
- No, i-io credevo che…
Fabrizio avrebbe potuto tranquillamente potuto definirla una figura di merda. E non solo Fabrizio. Non ricordava di essere mai stato respinto in quel modo da una donna. Gli sembrava un po’ di capire ora come si era sentito il buon vecchio Pelide originale quando lo avevano colpito al tallone destro, il famoso tallone di Achille. Solo che, a giudicare da quanto gli bruciava la ferita nell’orgoglio, gli pareva di essere stato colpito in un’altra parte anatomica.
- Lei credeva che cosa? – continuò Azzurra – Che bastassero due battutine del cavolo per farmi cadere ai suoi piedi? Pensava di riuscire a portarmi a letto?
- No, certo che no.
D’accordo che era un uomo e che aveva i suoi bisogni fisiologici, ma non era pervertito al punto da voler concludere la prima sera. Almeno, non era così ottimista.
- Ne è sicuro? Perché a me è parso proprio il contrario – continuò imperterrita lei.
- Stavamo solo parlando! – si difese – Le assicuro che non l’avrei mai spinta a fare nulla che non avesse voluto.
- Oh, bene. Devo anche ringraziarla per questo?
Achille stava per gettare la spugna: cercare di avere una normale conversazione con Azzurra era come cercare di ottenere un alano dall’accoppiamento di due babbuini.
- Lei fraintende sempre quello che dico.
- Ah, io fraintendo? Quindi è colpa mia.
- Santo cielo! – gridò lui esasperato – Senta, faccia finta che non sia mai venuto qua. D’accordo? Ora io me ne vado, lei si rimette sul divano a mangiare il suo tiramisù, poi si fa una bella dormita e si dimentica di questa giornata assurda.
Mentre parlava, si era alzato per recuperare la giacca sullo schienale del divano e se l’era infilata convulsamente; d’improvviso non vedeva l’ora di levare le tende, ne aveva abbastanza di tentare di essere carino e gentile con una pazza furiosa che travisava ogni singola parola o gesto.
- Ora vuole pure dirmi cosa devo fare? – Gracchiò Azzurra, frugando nella propria borsa, alla ricerca di chissà che cosa: spray al peperoncino, la Sacra Bibbia, il cadavere di un cervo mummificato, davvero non gli interessava.
Prese la direzione dell’ingresso, per uscire da quella porta e tornare nella civiltà, in mezzo a gente normale, con personalità normali e non da manicomio.
- Addio, Azzurra. Buona vita – le augurò, senza cercare di stringerle la mano, perché la possibilità che lei lo accusasse di molestie sessuali non sembrava totalmente remota.
Lei però gli sorrise amabile, gl’infilò nel taschino della giacca un foglietto rettangolare e si piazzò davanti a lui. Si guardarono per una decina di secondi, Achille sempre più confuso, Azzurra con le idee sempre più chiare.   
Gli sorrise, gli mise una mano dietro la nuca e lo attirò a sé, baciandogli le labbra. Lui rimase pietrificato e disorientato, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era trovarsi da un momento all’altro la bocca di lei sulla sua. Non mosse nemmeno un muscolo, lei avrebbe potuto saltargli addosso e strappargli i vestiti di dosso o tirargli un pugno nello stomaco e piegarlo in due dal dolore.
Invece, Azzurra si limitò a staccarsi da lui e a guardarlo con aria critica.
- Mh. Piuttosto scarso come semidio. – Poi aggiunse sottovoce: – Buona notte, Achille. Chiamami domani.
Gli sbatté letteralmente la porta in faccia. Una faccia piuttosto sorpresa, a dire la verità. Cos’era appena successo?
Il ragazzo trasse dal taschino il piccolo cartoncino che lei gli aveva dato un attimo prima di decidere di baciarlo; era il suo biglietto da visita, con il numero dell’ufficio e il cellulare sul retro. Dunque lei voleva che lui le telefonasse…
L’aveva fregato alla grande, la sua era solo una commedia. Prima l’aveva assecondato, poi respinto, poi rimproverato, poi quasi cacciato di casa, poi baciato… e cacciato definitivamente di casa.
E lui si era esaltato, depresso, arrabbiato, infuriato e… incuriosito. Quell’andamento incostante lo irritava e attraeva allo stesso tempo. Ma non poteva lasciare ad Azzurra tutto quell’ascendente. In più, da buon cavernicolo – o eroe greco, il concetto era lo stesso – non voleva che fosse lei a condurre i giochi.
Senza pensarci due volte, prese a battere le nocche furiosamente sulla porta rossa.
- Azzurra, mi spiace rovinare il tuo momento di gloria, purtroppo ho dimenticato le chiavi!
Un attimo di esitazione, poi gli rispose.
- Dove sono? – gli urlò dall’interno.
- Ehm… incastrate nel divano, per terra, non lo so! – mentì – Apri, per favore.
Si sentirono dei passi veloci raggiungere l’uscio. La ragazza venne ad aprire annoiata, ispezionando il pavimento per individuare il fantomatico mazzo di chiavi perduto. Era visibilmente scocciata, non per la supposta sbadataggine di lui, ma piuttosto perché in quella giornata le sue amate uscite di scena ad effetto non parevano fungere come da copione: la macchina che si spegneva, il Pelide che bussava per rientrare…  Achille bloccò il flusso dei suoi pensieri quando la prese per il busto, la spinse contro la porta e la baciò. Stavolta niente buffetti o carezze, lasciò che la frustrazione di poco prima e la soddisfazione di zittirla agisse per lui. Le socchiuse facilmente le labbra, mordicchiandole piano con i denti e stuzzicandole con la lingua, che poco dopo le invase la bocca. La torturò per mezzo minuto, il tempo di annebbiarle i sensi e sentire i muscoli di lei rilassarsi sotto le sue mani. Quindi l’allontanò.
- Che il disgelo abbia inizio. – disse, ancora con il fiatone – ‘Notte Azzurra, ti chiamo domani.
Uscì sorridente dall’appartamento di via della Quercia con rinnovato spirito: la virilità e la nomea erano di nuovo al sicuro.
Azzurra, invece, rimase a fissare la porta, con lo stomaco sottosopra. Aveva pensato che la sceneggiata di poco prima bastasse a confonderlo al punto da non farlo reagire almeno fino al giorno seguente.  Al contrario, lui non aveva impiegato che una manciata di secondi ad elaborare una strategia per riequilibrare una situazione sfavorevole.
Forse Achille Quaresmini non era semidio per discendenza, ma c’era qualcosa al di là dell’umano nella sua tenacia.
A lei toccava la prossima mossa: avrebbe scoperto e trovato il suo punto debole, il celeberrimo tallone. Perché, a ripensarci meglio, non trovava più così sconveniente vederlo a piedi nudi… sperando che togliergli le scarpe fosse solo l’inizio.
 
 

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Capitolo 2
*** Ronzii - Parte I ***


Di semidei e tinte pastello.

Ronzii – Parte I.

 
Jean-Paul Marat l’aveva avvisata.
E con ben duecentoventi anni di anticipo, perciò Azzurra non poteva proprio dire di non saperlo: mai fidarsi di una donna francese. Nemmeno – e soprattutto! – se ha un nome che sembra quello di una crema per dolci. Chantal. Chantilly. Forse era questo il motivo per cui Achille era entrato in confusione. Pensava di avere a che fare con della soffice panna montata aromatizzata alla vaniglia e si era ritrovato tra le mani un secco fuscello transalpino impregnato di J’adore. Maledetto lui e la sua zuccheropatia.
Chantal era un nome carino per indicare un metro e sessantacinque di snobismo napoleonico, tutto sommato sopportabile, se non fosse stato per il fastidioso prefissuccio – che, tra l’altro, il soggetto in questione tendeva a dimenticare – che precedeva la normalissima connotazione di ragazza: ex.
Azzurra e Achille non erano usciti che quattro o cinque volte, prima che l’indesiderata intrusione della dernière femme de France si compisse. Avevano preso le cose con calma, credendo di avere tutto il tempo, profezie Maya permettendo. In realtà, Achille si era mostrato pronto e disponibile in qualsiasi occasione, ma ciò che rimaneva nelle macerie della sua galanteria e una certa ritrosia – piuttosto latente – di Azzurra avevano prevalso sulla razionale logica dei suoi ormoni. Ma l’arrapato bancario avrebbe potuto smettere di trattenere il fiato e di immaginare la decrepita professoressa Savarese in lingerie per calmare i bollenti spiriti entro un paio di giorni. Quattro, per essere precisi… ma chi li contava? In previsione della presunta fine del mondo, infatti, Azzurra aveva intenzione di organizzare una cena a sorpresa la sera del 20 dicembre, a casa sua, dove per la prima volta avrebbe aperto la porta della camera da letto ad Achille. Avrebbero così finito quanto iniziato settimane prima sul divano del suo appartamento, il giorno in cui si erano conosciuti al supermercato; e che diamine, d’accordo fare la ragazza perbene, ma i capelli ricci e ribelli di lui sarebbero stati così bene tra le sue cosc… ehm cuscini, i suoi cuscini. Stavano entrambi impazzendo e Azzurra aveva cominciato a intravedere – e persino intrasentire – doppi sensi del tutto inappropriati in ogni singola frase pronunciata dall’altro.
- So che lo vuoi… prendilo! Piace più a te che a me il torrone.
- Lecca-lecca? Mia nipote deve avermelo infilato nella tasca del cappotto.
- Poco alla volta, altrimenti ti fa male. Piano con quella granita!
Entrambi erano sul punto di voler evitare contatti troppo ravvicinati – perché Achille aveva visto un qualcosa di estremamente sexy nel modo in cui Azzurra aveva maneggiato il torrone, scartato e mangiato il chupa-chups della piccola Diana o come le goccioline di ghiaccio sciolto della granita le fossero accidentalmente scivolati dalla bocca alla gola e poi giù, fino all’incavo tra i seni – e le uscite in pubblico in compagnia erano parse la soluzione migliore. Ormai era deciso: avrebbero mantenuto la loro verginità contestuale fino all’arrivo dei Maya e non erano ammesse proroghe o deroghe. Per questo motivo, un giro dei mercatini di Natale in compagnia della coppia di neo ex sposi, nonché neo amici, composta da Sergio e Dalila De Carlis era il pretesto perfetto per continuare a torturarsi a distanza, cercare di distrarsi dalle manie ninfomani e ultimare l’acquisto dei regali per le feste.
Naturalmente, se avesse saputo dell’improvvisa perturbazione di gelo ammazzalibido proveniente dal sud della Francia, l’architetto Trentini avrebbe molto più che volentieri rinunciato ai suoi buoni propositi di una pseudo purezza e si sarebbe rotolata voracemente tra le lenzuola di Achille. O le sue. Ma pure senza lenzuola! Direttamente sul corpo di lui. 
Si erano fermati tutti e quattro a prendere un krapfen ripieno ciascuno e inutile dire che il riccio aveva insistito per prenderne tre per se stesso, perché ormai, alle due e trenta di pomeriggio, era ‘tempo di fare merenda’.
Un tiepido sole illuminava la città, nonostante da settimane le previsioni del tempo indicassero piogge e neve imminenti. Purtroppo, il colonnello dell’aeronautica della tv non aveva previsto nauseabonde ondate di costosa colonia francese.
- Achille?
Lui aveva ancora della crema pasticcera sul mento – krapfen numero due –, quando si era voltato d’istinto nella direzione in cui si era sentito chiamare. Azzurra era troppo concentrata a contrattare insieme a Dalila il prezzo dell’ennesima boule à neige da aggiungere alla sua pacchianissima collezione, per accorgersi che il sorriso del suo accompagnatore era passato dallo smagliante all’apprensivo in pochi secondi.
- Chantal? – Si girò a controllare che Azzurra fosse ancora impegnata a chiacchierare con l’ambulante, poi si rivolse di nuovo alla ragazza dal lieve accento francese. – Ch-che ci fai qui?
Si sforzò di essere educato e sperò che lei non avesse notato il leggero tremolio nella sua voce. Era uno shock trovarsela davanti agli occhi, in carne ed ossa, dopo anni di silenzio. Poteva pure essere morta, per quanto ne sapeva lui. Beh, con tutte le maledizioni e le bambole voodoo decapitate da Elettra, sua sorella, nel nome della ex fidanzata, era quasi sorprendente che non lo fosse davvero. Elettra aveva preparato anche l’elogio funebre, ma parlare di elogio era un po’ fuorviante; più che un discorso accorato, sembrava una dichiarazione di Al Qaeda.
Chantal si avvicinò ad Achille, togliendogli con un dito la crema dal mento. Il riccio rimase immobile, mentre lei si portava disinvolta l’indice alla bocca, leccandolo con aria soddisfatta.
- Buona!  – ammiccò. – Sono qua per qualche giorno, a cercare opere di artisti di strada. Sto preparando una mostra a Nîmes.
- Fantastico, complimenti.
Non gliene fregava nulla, ma un’ondata di ricordi lo investì in pieno e lui non riuscì ad evitarla: Chantal e la sua ossessione per la carriera. Chantal e il suo amore per il cinema muto. Chantal e la sua risata cristallina. Chantal e i suoi tre nei vicino all’ombelico. Chantal e la sua terribile codardia. Chantal e il suo cuore spezzato. Di lui, però.
 
- Dov’è Achille?
Sergio distolse lo sguardo dalla scena a cui aveva appena assistito tra Achille e la sua amica e lo posò per una frazione di secondo sulla bancarelle delle palle di plastica con la neve finta per cui Azzurra andava matta. Mah, tutti quegli addobbi natalizi gli stavano facendo venire voglia di cambiare religione. E, in ogni caso, lui preferiva continuare a guardare la ragazza carina con cui Achille si stava intrattenendo. Non molto alta, magrissima, con un cappello nero sulle ventitré da cui fuoriuscivano degli ordinati capelli neri, aveva l’aria scanzonata e un ampio sorriso e…
Azzurra gli passò la mano davanti alla faccia, facendogli intuire che doveva essersi imbambolato a fissare un punto indefinito.
- Che c’è? – chiese, riscuotendosi.
- Achille? – gli ripeté scocciata.
Erano arrivati da poco in piazza e già Azzurra era provata dal lungo negoziato con Hermann, l’ambulante altoatesino della bancarella più kitsch dell’intero mercatino. Però si sentiva soddisfatta e felice: la tradizione della boule à neige nuova ad ogni Natale era rispettata. E con uno sconto di venticinque centesimi sul prezzo pieno! Un vero e proprio affare.
- Sta parlando con quella fanciulla… – le rispose Sergio.
Lei si alzò sulle punte dei piedi e cominciò a guardarsi intorno per individuarlo; in mezzo a tutta quella folla a passeggio non riuscì a capire dove fosse.
- Oh, dev’essere Elettra, sua sorella, – congetturò, molto ottimisticamente, senza perdere il sorriso. – La stava aspettando per cercare un regalo alla loro madre.
- Certo, sarà lei. – le rispose l’amico, seriamente interessato a quella moretta col naso all’insù. Il gene dei Quaresmini non era niente male. – Ho visto solo che erano in confidenza, lei è stata così gentile da ripulirlo dalla crema.
Azzurra scosse la testa e ridacchiò.
- Gli avevo appena dato un fazzoletto apposta!
- Pazienza… non credo le sia dispiaciuto, almeno ha avuto anche lei l’occasione di assaggiare il ripieno del krapfen. – Sergio ghignò, ma Azzurra e Dalila smisero di sorridere, guardandosi con gli occhi spalancati. – Che c’è?
- Lei gli ha tolto la crema dal mento e l’ha assaggiata? – appurò Dalila.
- Sì, con le dita. Che mi sono perso?
Ecco uno dei motivi per cui detestava uscire con quelle due, o con le donne in generale; tutte pappa e ciccia e lui solo come un povero vecchio rincretinito a cercare di capire l’incomprensibile linguaggio femminile.
- Azzurra, calma, – disse la sua ex moglie, – non traiamo subito delle conclusioni affrettate.
Sergio guardò una e l’altra ripetutamente, nell’attesa che si lasciassero scappare qualche altro dettaglio, oltre a quelle occhiate furtive e complici.
- È stata carina, no? – provò, arrendendosi all’evidenza di essere stato tagliato fuori per l’ennesima volta.  – Devono avere un rapporto molto stretto, quei due. Lo si capisce da come si parlavano fitto fitto. Ah, come mi sarebbe piaciuto avere una sorella! Devono essere andati a cercare il regalo, perché non li vedo più…
Tagliato fuori e anche completamente ignorato.
- Tesoro, respira. – Dalila strinse gli avambracci dell’amica. – Inspira ed espira, su, inspira ed espira.
Azzurra tentò di seguire il consiglio, con grande scarsezza di risultati.
- Ora come ora, tornerebbe utile il corso preparto che mi hai regalato qualche anno fa.
- …una complicità non comune, a dire il vero. Sembravano davvero affiatati…
Sergio continuava a sproloquiare in solitudine sul presunto amore fraterno, ignorando gli sguardi di fuoco di Dalila, la quale stava sviluppando una sorta di strabismo fisico ed emotivo, con un occhio iniettato di sangue rivolto all’ex marito e l’altro pieno di comprensione femminile verso l’amica.
 
 Dall’altra parte della via, Elettra si stava facendo strada tra famigliole felici e urla in qualsiasi lingua mediorientale degli ambulanti, trascinando per mano la piccola Diana che dava l’idea di non divertirsi troppo.
La testa riccia della sorella di Achille si bloccò d’un colpo, tanto che la figlia finì con il viso direttamente nel suo fondoschiena, prima di cadere sulla strada col sedere. Lei l’aiutò a rimettersi in piedi, senza schiodare lo sguardo dalla terrificante visione che aveva davanti.
- Diana, tappati le orecchie. – le ordinò e la bimba obbedì subito, abituata a quel tipo di richieste materne. – Mamma deve dire una cosuccia ad alta voce: che ci fa quella stronza qui?
 
Una volta individuati il presunto fedifrago e la lapalissiana sgualdrina, Dalila provò a spronare Azzurra a farsi avanti, adducendo scuse come la preservazione del territorio, l’amore per la propria dignità e, se avesse saputo delle origini della suddetta giovincella, avrebbe aggiunto anche il rispetto per il lavoro svolto da Giulio Cesare alla conquista della Gallia. Ma di fronte alla titubanza dell’amica, un bello spintone le parve la scelta più saggia.
La ragazza urtò una signora, causando una reazione a catena che terminò sulla nobile schiena dell’amica di Achille, che si voltò infastidita, le narici aperte come un drago all’attacco.
Azzurra e il riccio si scambiarono un’occhiata imbarazzata; lui abbozzò un sorriso e sperò di porre rimedio a quel disagio generale facendo le presentazioni ufficiali.      
- Oh, Azzurra, sei qui. Lei è Chantal.
Chantal? Dunque era francese, l’intrusa. Bene, sembrava il nome di un formaggio, di quelli vecchi e ammuffiti. 
Azzurra si limitò ad un sorriso forzato, mentre le porgeva la mano, gelida quanto le occhiate che le stava lanciando. Si ritirò immediatamente dietro al ragazzo, nell’attesa che liquidasse la tizia a breve.
- È un piacere conoscerti, – rispose la francese, dimenticandosi di lei nel momento stesso in cui scorse la solita espressione di sfida sulla faccia della sorella di Achille, che stava arrivando a grandi falcate. – Bonjour Elettra, ti trovo bene. Beh, Achi, – Achi? – se ti va di fare due chiacchiere senza tutto questo reggimento, chiamami. So che hai ancora il mio numero. Buona giornata.
So che hai ancora il mio numero.
Azzurra pensò a quanti metodi di tortura cinese sarebbe incorso il caro Achi, se solo avesse osato chiamare la nipote di Sarkozy. D’accordo, lui non era il suo fidanzato, né poteva dire con assoluta certezza che le cose fossero serie tra loro, ma non avevano più vent’anni, erano persone mature… e lui non poteva tornare con quella, dai! Lei era molto meglio!
Elettra sembrò leggerle nel pensiero ed espresse ad alta voce ciò che lei aveva osato dire solo a se stessa. Sorrise falsamente a Chantal, che stava agitando la mano a mo’ di saluto, prima di dileguarsi tra la folla.
- Passerai sul mio cadavere mummificato, prima di telefonare a quella baguette rinsecchita. – minacciò subito il fratello. – Che sfacciata! Dopo tutto questo tempo, torna e finge che non sia successo nulla!
Achille cercò di contenere la furia omicida della sorella, fisica nei confronti di Chantal e a parole nei confronti di se stesso e degli astanti, perché Elettra sapeva bene come esasperare cose e persone con la sua parlantina.
- Ele, per favore, – provò a placarla, invano.
- …no, dico, l’hai vista? Fa la gattamorta, di nuovo alla carica. Ti ha lasciato due anni fa come uno straccio, non ti ho mai visto in quello stato, stavi per mollare armi e bagagli per rincorrerla in Francia o chissà dove. E Dio solo sa se ti sei mai ripreso! Non dirmi che sei ancora innamorato di lei o giuro che ti ammazzo con le mie mani! Diana, mamma sta scherzando, eh…
- Elettra! – l’urlo di Achille zittì tre coppie di passaggio, ma non colei per cui era stato pronunciato.
- …che c’è? – gridò, infatti, lei in risposta. – Diciamo le cose come stanno, nulla di nuovo!
Santa Elettra Quaresmini, protettrice della verità.
- Nulla di nuovo per te, forse, – le fece notare il fratello, indicando con gli occhi la figura alle sue spalle di Azzurra, visibilmente confusa. Se ne stava mesta, racchiusa nell’immaginario abbraccio di Dalila e Sergio, che li avevano raggiunti giusto in tempo per godersi l’one woman show. Achille si pentì subito di essersi girato verso di lei: si sentiva nudo come un verme, spogliato dalla propria sorella – e già la cosa gli faceva un certo ribrezzo – davanti alla sua pseudo ragazza e ai suoi amici, riguardo il suo assai poco virile e lusinghiero passato di ameba piangente post rottura di una relazione. Chantal lo aveva davvero ridotto in pezzi, gli aveva fatto toccare con mano e sedere e schiena il fondo, aveva rappresentato il periodo più bello e poi più buio della sua vita sentimentale, dopo il pugno rifilato a Fabrizio per… Elena? Elisa? Quella là, insomma.
- Oh. Oh! – Elettra riordinò i pezzi e comprese la propria leggerezza: aveva lasciato la piastra accesa a casa. E Achille la stava guardando in cagnesco: lo sapeva pure lui? – Che c’è?
- Niente, – rispose scocciato.
- Perché fai quella faccia, allora? – Achille scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte con vigore. – Per quella? Ti dà fastidio che tua sorella ti metta di fronte alla realtà? È colpa mia se la guardi famelico come se fosse una ciambella superglassata, affogata in una gigantesca cioccolata calda con panna, ricoperta da gelato? Non so se mi sono spiegata bene…
- C-cosa? – tentò di difendersi. D’accordo, Chantal era una bella ragazza, ma lui non la vedeva assolutamente come una ciambella! Le ciambelle erano morbide e soffici e lei era rigida e spigolosa, fisicamente quanto nell’animo. Così in forma da farlo sentire in colpa se non frequentava la palestra almeno tre volte a settimana, così stronza da abbandonarlo con un bigliettino e la scatola piena delle sue cose già sul pianerottolo, dopo mesi a discutere di convivenza e matrimonio. Azzurra, piuttosto, lei sì che era morbida. Avrebbe voluto poter dire che lo erano i suoi fianchi e magari anche più giù, in prossimità del monte di Venere, ma la realtà era che al momento poteva dirlo solo del suo seno e solo perché ci era inciampato casualmente un paio di volte. La prima con il braccio, credendo di darle una gomitata leggera nelle costole dopo una battuta terribile; in base al rimbalzo che il suo braccio aveva ricevuto, era in grado di stimare una terza coppa b molto piacevole al tatto. La seconda era avvenuta con la mano, mentre l’aiutava a rimettersi il cappotto e… d’accordo, poteva non essere stata del tutto casuale. Azzurra aveva sorriso, lui si era scusato, lei era uscita dal suo appartamento, lui avrebbe voluto verificare di non aver creato danni con il gomito la volta precedente. Ma, a giudicare da come Elettra aveva ingarbugliato la situazione, probabilmente il dubbio gli sarebbe rimasto per sempre.
- Una ciambella, Achille. Una ciambella, – ripeté la sorella.
La piccola Diana distrasse la madre per qualche istante, indicandole una bancarella piena di bambole e giocattoli. Le due si spostarono di un paio di metri, lasciando il gruppo in un silenzio innaturale. Dalila si schiarì la gola e quel suono basso fu l’unica cosa che il gruppo pronunciò in due minuti. In sottofondo, una trita e ritrita Jingle Bells accompagnava la strana quiete, attorniata da famiglie e coppiette felici in umore festivo. Achille era mortificato, Azzurra avrebbe solo voluto pestare i piedi e frignare – confermando di essere una quasi trentenne del tutto maturata – e gli ex coniugi De Carlis si domandavano perché non se ne fossero rimasti nelle loro rispettive case, a decorare l’albero o mangiare pan di zenzero davanti al fuoco scoppiettante.
- Fa freddissimo, ho i piedi congelati. – Dalila ruppe quell’inusuale momento di stasi tra di loro. – Sergio, torniamo a casa?
Lui arricciò il naso, sorpreso: aveva accettato quella passeggiata in centro, sfidando freddo e marmocchi urlanti, per cercare un vecchio libro nelle bancarelle dell’usato e ora se ne volevano andare a metà giro?
- Ma non ho ancora visto la bancar… – il tacco dello stivale della consorte d’un tempo si abbatté contro la sua caviglia e distrusse anche il più remoto e timido accenno di protesta, – ahia! Andiamo.
- Tesoro, ti diamo un passaggio noi, – aggiunse la donna, prendendo sottobraccio Azzurra, – così Achille e sua sorella hanno il tempo di comprare il regalo.
Il riccio respirò a fondo e finalmente si voltò di nuovo verso di loro; non voleva che se ne andassero, non voleva che se ne andasse lei, soprattutto senza aver almeno provare a mettere una pezza alle parole di Elettra.
- No, aspettate. – li bloccò. – Mia sorella se la può cavare benissimo anche da sola. Sappiamo entrambi che comunque lo avrebbe scelto lei, il regalo. La accompagno io, se non vi dispiace.
Azzurra si sganciò dal braccio di Dalila e annuì con il capo; non sapeva esattamente come si sentiva – era un misto di rabbia, umiliazione, tristezza, sdegno e istinti omicidi –, ma non voleva rischiare di allontanare ulteriormente Achille. Voleva fare la persona adulta. Sarebbe tornata a casa con lui. Magari dopo averlo pugnalato con la punta dell’albero da Natale.
- Perfetto, – li salutarono i De Carlis. – Ciao ragazzi!
Il riccio si rivolse di nuovo ad Azzurra, indicandole col capo la bambina che era con Elettra. 
- Saluto mia nipote un attimo e arrivo.
- Ciao zio Achi! – Achille la prese in braccio e la riempì di baci sulle guance. Diana rise, finse di non gradire tante attenzioni e poi si rivolse alla strana signorina che accompagnava lo zio. – Ciao.
- Ciao, – la ragazza le sorrise in risposta.
- Ficcanaso, questa è Azzurra. Azzurra, lei è Liana.
Achille sembrava divertirsi parecchio a stuzzicarla e prenderla in giro e sbagliare di proposito il suo nome non fece altro che aumentare lo stato di cucciolosità della situazione agli occhi di Azzurra.
- Mi chiamo Diana! – protestò la nipotina.
- Oh, scusa, sai che mi sbaglio sempre. – La bimba mise il broncio e gli morse la punta del naso. – Ahia, ma una volta non davi solo pizzicotti?
- È nella fase dei morsi, – spiegò Elettra, avvicinandosi con una borsa di plastica in mano. – Immagino che averle preso un cane che non fa che distruggermi tende e ciabatte abbia avuto una certa influenza. – Sbuffò e s’interessò alla graziosa giovincella che sembrava nascondersi dietro le spalle larghe di suo fratello. Oh, tesoro, penserai mica di sfuggirmi? – Ciao, io sono Elettra, sua sorella. Tu sei…?
- Azzurra.
Si tesero la mano e la più vecchia dei fratelli Quaresmini prolungò la stretta, nell’eventualità assai poco probabile che ciò le potesse servire a captare qualche informazione in più.
- Quella Azzurra?
Achille era di nuovo teso come una corda di violino: non era normale che la sola presenza di sua sorella lo inquietasse tanto!
- Beh, immagino non ce ne siano molte altre in giro, – rispose lui per Azzurra.
- È un piacere conoscerti. Sei appena arrivata?
Magari.
- No, purtroppo c’era anche prima, – continuò il riccio.
- Prima quando?
- Prima, – disse laconico.
- Oh. Prima. – Elettra per poco non fece cadere un piccolo presepe ecuadoregno con il braccio. Ops, forse il moto di assoluta verità che l’aveva colpita in presenza di Chantal era stato udito da terzi... – Perdonami, mi lascio sempre prendere un po’ la mano.
- Ce ne siamo accorti. Beh, per evitare che tu mi complichi ulteriormente l’esistenza, noi ce ne andiamo. – Prese il portafoglio e ne trasse due banconote. – Eccoti trenta euro, nel caso non bastassero a coprire la mia quota, fammelo sapere. Ciao Liana.
La bimba gli fece la linguaccia e una pernacchia, al quale lui rispose con un occhiolino. Era adorabile, ma se avesse permesso ad Azzurra di parlare con Elettra, invece che farlo al posto suo…
 
Prima ancora di discutere della ciambella francese – in realtà, prima ancora di raggiugere la macchina parcheggiata –, Azzurra era furiosa. Achille Quaresmini era un bastardo; giocarsi la carta della nipotina piccola e paffuta e mostrare il suo lato più tenero e maledettamente efficace con i bambini non avrebbe funzionato. E con in testa quei ricci, poi! Pensava forse di raggirarla con tutta quella dolcezza? Nossignore, si sbagliava di grosso.
- Mia sorella parla troppo, – si scusò con un sorriso, chiudendo lo sportello dell’auto. – Avrei voluto raccontartelo io, con calma.
Con calma? Cioè una volta sposata, felice e cornuta?
- Già, – gli rispose atona.
- Sei arrabbiata?
Azzurra si conficcò i denti nella lingua. Quella era in assoluto la domanda che più detestava le fosse fatta da parte del proprio partner. Era del parere che se qualcuno sentiva la necessità di porla, evidentemente era perché sapeva di aver fatto qualcosa di sbagliato.
- No.
- Mi odi?
Achille stava seguendo il perfetto schema dell’uomo colpevole con rimorso: tastare il terreno, cercare di capire il tasso di scontrosità e di rabbia della partner – ricordandosi di tradurli nelle percentuali femminili, sempre molto più alte e meno ragionevoli di quelle maschili –, infine provare ad abbassare tale tasso con la faccia da cucciolo denutrito, bastonato e abbandonato sul ciglio dell’autostrada nel giorno più torrido dell’anno.
Peccato che Azzurra non lo stesse guardando. Fissava dritta davanti a sé, la borsa sulle ginocchia e le gambe unite. Il riccio le diede una rapida occhiata rassegnata: era ufficiale, dopo la piazzata di sua sorella, non c’era possibilità di vederle aperte. Non per lui, quantomeno.
- No, – disse secca.
Santo cielo, basta con quei monosillabi! Achille li temeva come una minaccia nucleare, perché sapeva che erano il preludio di una imminente Terza Guerra Mondiale, in cui lui avrebbe combattuto solo, contro il battaglione armato di Azzurra e di tutto il gentil sesso. Esclusa Chantal, forse.
- Sei gelosa?
Lei finalmente si girò verso di lui, soltanto per regalargli un’occhiata indignata.
- Ovvio che no, – le venne quasi da ridere al pensiero che lui avesse anche solo potuto concepire un’idea tanto assurda.
- Perché non ne avresti motivo. Chantal è acqua passata.
Azzurra si morse un labbro dal nervoso. Ora il signorino si concedeva pure la libertà di chiamare quell’essere per nome. E lo aveva pure sbagliato, perché Chantal si scriveva: C h a c q u e t t a.
- Okay.
- È tutto a posto, quindi?
Nei tuoi sogni, idiota.
- Certo, – gli sorrise per una frazione di secondo, controllando la strada. Mancava poco più di un chilometro per giungere al suo condominio in viale della Quercia 27: bastava solo che al semaforo svoltasse a sinistra e poi c’erano due curve a gomito, dopo le quali cominciava la zona residenziale. Dai, premi quell’acceleratore! Mai tragitto le era sembrato tanto lungo.
Ma Achille girò a destra, lasciandola di stucco.
- Andiamo da me? – le propose, mentre ingranava la terza.
Oh, questa domanda proprio non se l’aspettava.
- Preferisco tornare a casa.
- Pensavo avremmo trascorso la serata insieme… – le disse lui, di nuovo con quel faccino da molosso dimenticato all’autogrill.
- Sono stanca, – vacillò lei, subito – Ma tu, se vuoi, esci pure.
Ed eccola, la trappola: dargli la possibilità di essere libero, o almeno l’illusione di essa. La parte pregnante di quel ‘se vuoi’ era quella nascosta, sottintesa. Come dire che sì, poteva, magari anche voleva, ma la verità è che non doveva.
- Farò qualche chiamata, qualcosa troverò.
Arrivarono ad una rotonda, alla quale Achille fece retro-front, diretto finalmente verso casa di lei. Azzurra dovette fare appello a tutto il self-control possibile per non sbranarlo a morsi, sulle orme tracciate dalla nipotina. Non capiva se lui la stesse deliberatamente provocando – e in ogni caso, non le pareva nella posizione di farlo –, o se fosse davvero così… uomo da non comprendere che l’unica cosa che lei – e dunque la legge – gli consentiva di fare era andare a casa, in castigo in un angolo, possibilmente munito di cilicio, a rimuginare sul proprio comportamento e implorare tutti i Santi al gran completo perché lei lo perdonasse. Gli avrebbe permesso anche di stracciarsi le vesti.
- Ne sono sicura, – grugnì a denti stretti.
Stava per esplodere, era stata fin troppo cortese e ora la sua pressione interna stava vertiginosamente aumentando.
- Buonanotte, allora. Mi dai un bacio?
Lei sgranò gli occhi: non poteva credere che lui glielo avesse appena chiesto. Che faccia tosta!
- Ho il raffreddore, – disse lapidaria.
- E da quando?
- Da quando mi hai fatto aspettare fuori al freddo per parlare con la tua amica.
Si diede un pizzicotto sulla gamba per essersi lasciata sfuggire quel tono acido e sarcastico: stava andando così bene!
Achille sorrise debolmente, sbirciando come le unghie della ragazza fossero ormai ficcate a nel povero sedile del lato passeggero. Ora lo sapeva con certezza: quella non era Azzurra, ma Gialla. Come la gelosia.
- Non è una mia amica.
- Come vuoi.
All’ennesimo sbuffo di lei, il riccio si arrese; fino a quel momento ammetteva di essersi divertito a vederle dipinto negli occhi l’intera gamma dei colori dell’arcobaleno, corrispondenti ad altrettanti stati d’animo, ma non voleva correre il rischio che un banale incidente di percorso pregiudicasse qualsiasi cosa stesse nascendo tra di loro.
- Trent, se hai qualche problema a riguardo, discutiamone.
- Problema? Ti sembra che io abbia qualche problema?
Oddio, queste domande a bruciapelo. Achille esitò: se avesse detto di sì, come era evidente che fosse, lei sarebbe andata su tutte le furie. Se avesse detto di no, lei avrebbe comunque trovato il modo di farlo risultare colpevole.
- Mi sembra solo che questa situazione non ti lasci del tutto indifferente.
Azzurra lo guardò sorniona: questa gliel’aveva proprio servita su un piatto d’argento.
- Neanche a te.
Lui accusò il colpo e  abbandonò la diplomazia, in favore di un sano confronto tra persone civili e ragionevoli.
- Dimmelo, se sei arrabbiata. Anche se, francamente, non ne capisco la ragione.
Stupidi, ingenui uomini. Povero, lui non ne capiva la ragione. Lei aveva fatto la figura della stupida davanti a ex, famigliari ed amici, ma se lui non ne capiva la ragione…
- Secondo te sono arrabbiata? Somiglio ad una che è arrabbiata? Eh? No, dimmi!
- Azzurra, calmati. Sinceramente sì.
Azzurra, stai tranquilla. Respira. Ti manca pochissimo perché lui se ne vada e tu possa prendertela col cassonetto, il lampione o con il primo malcapitato.
- Tu non hai la minima idea di come sia una donna arrabbiata! Ed io non sono una cazzo di donna arrabbiata, hai capito? Buonanotte Achille, goditi la tua libera uscita!
Scese dall’auto, non prima di essersi impigliata nella cintura di sicurezza e aver sbattuto la portiera così forte da far tremare l’intera macchina, imprecando. Achille impiegò qualche secondo, prima di comprendere ciò che era appena successo; la situazione era passata dall’essere un piccolo battibecco quasi simpatico ad uno litigio epico in meno di trenta secondi.
Era quasi certo di aver sentito ‘Camembert di merda!’ – e l’idea che l’uragano d’ira chiamato Azzurra lo avesse effettivamente pronunciato non era così remota –, ma decise di lasciar perdere, darle tempo per sbollire il nervosismo e soprattutto consolarsi di quella futile litigata, divorando l’ultimo krapfen avanzato.
Lo zucchero era senza dubbio la più potente delle droghe; e se a ciò si aggiungeva dell’olio di frittura e un’abbondante dose di ripieno alla marmellata di lamponi, beh… poteva anche morire in tutta tranquillità di overdose glicemica. Resistette fino a casa, ma, non appena appoggiato il sedere sul divano, con una mano agguantò il telecomando e con l’altro il sacchetto della pasticceria ambulante. Il secondo tempo della replica di una partita di serie A e il krapfen furono in grado di risollevargli l’umore, dopo un pomeriggio a dir poco disastroso, tra incontri indesiderati con ex, sorelle con logorrea e quasi fidanzate mortalmente gelose e assolutamente indisposte ad ammetterlo. I dolci e la Juve dovevano essere state create proprio per questi momenti.
 
Il bidet. Tutto ciò a cui riusciva a pensare Azzurra era che si stava facendo battere da una che non aveva neanche il bidet. Fino a quel momento, l’arrivo inaspettato della Chacquetta le aveva portato solo disavventure: un pomeriggio di shopping natalizio con barboso sottofondo musicale rovinato, trecento metri di percorso extra a piedi con le scarpe nuove – purtroppo non si era accertata di essere già giunti sotto casa sua, prima d’inscenare la drammatica discesa dall’auto di Achille al semaforo – e una barretta di autentico Toblerone svizzero per lenire il dolore di piedi ed emotivo. In tutto questo, poi, ciò che davvero la infastidiva maggiormente era la consapevolezza di aver dato all’odiosa francesina un vantaggio non indifferente: Achille – anzi, Achi – era libero per tutta la serata, ‘senza tutto quel reggimento’, potenzialmente con il suo numero ancora salvato in rubrica. No, non poteva permetterle di riprendersi la testa ricciuta di Achille. A costo di tirarglielo addosso, quel dannato bidet.
Doveva solo escogitare qualcosa per attirarlo. L’opzione dolci venne scartata quasi subito, nella testa di Azzurra rimbombavano ancora le parole di Elettra circa ciambelle, gelati e creme; di banche non sapeva nulla e tantomeno di economia, perciò eliminò la possibilità di stupirlo con conoscenze e discussioni sulla crisi o in generale su tutto ciò che aveva a che fare con il suo lavoro. Dopo ore di ragionamenti, non vide altra soluzione che accalappiare il Pelide con l’unica chance rimasta da giocare: il sesso. Ma non poteva essere del banale sesso – aveva sentito da qualche parte che le francesi sapevano essere delle zozzone a letto e non credeva che ciò dipendesse solo dalla carenza di igiene intima, causata dalla mancanza di bidet –, perciò, almeno per una sera, si sarebbe trasformata in Dita Von Teese e lo avrebbe sedotto. Se davvero lui era rimasto a bocca aperta davanti a Chantal, lei lo avrebbe fatto sbavare come un cucciolo di San Bernardo.
Rimaneva soltanto da stabilire come riuscire a fare tutto ciò. Lettura del Kamasutra, spettacoli di burlesque su Youtube, era disposta perfino a guardare quei video vietati ai minori che circolano su internet. Chantal Bonaparte, o qualunque fosse il suo cognome, sarebbe finita in esilio come il suo trisavolo.
 
21.45. Fabrizio sarebbe arrivato in meno di mezzora; era il caso di alzarsi dal divano, farsi una doccia e prepararsi. Il punto era che Achille era maledettamente comodo lì, stravaccato sul sofà, una gamba distesa e una poggiata sul tavolino da caffè, insieme alla carcassa di una confezione di biscotti alle mele e una bottiglia di birra ancora mezza piena. Aveva scoperto che la combinazione biscotti e birra non era così fenomenale come si era presentata nella sua testa. Anzi, faceva piuttosto pena. Come lui dopo sei ore filate di televisione del resto. Raccolse sufficienti energie per alzare il fondoschiena e dirigersi in bagno, dove lo specchio non fu per nulla clemente, restituendogli un’immagine costituita da occhi rossi e stanchi, capelli indomabili e dotati di vita propria, vestiti stropicciati e occhiaie profonde.
Signore e signori, ecco a voi Achille Quaresmini in versione senzatetto.
Si lavò i denti per togliere quella sgradevole sensazione di bocca impastata e si fece una doccia bollente, che non sortì altro effetto che intontirlo ulteriormente. Avrebbe dovuto accorciarsi la barba, ma non ne aveva voglia, perciò tornò subito in camera da letto per cercare qualcosa da mettersi. La sua camicia a quadretti, ecco cos’avrebbe messo. La Leone, il suo capo, aveva espresso in tutte le smorfie possibili il suo disgusto per lo stile campagnolo chic, ma a lui piaceva… e vaffanculo alla Leone, era comunque domenica.
Nel momento in cui Fabri suonò il citofono, Achille stava già indossando il cappotto. Si mise la sciarpa, controllò di aver preso portafoglio e chiavi e, per ultimo, afferrò il cellulare. Lo infilò nella tasca e uscì sulla tromba delle scale, ma dopo poco cambiò idea e ritirò fuori il telefono; voleva scrivere qualcosa ad Azzurra. Sapeva che ce l’aveva con lui e che probabilmente non aveva intenzione di parlargli, però ciò non toglieva che lui avesse voglia di sentirla. Un sms non l’avrebbe uccisa, suvvia.
- Non sono sicuro di sapere come siano tutte le donne quando sono arrabbiate, ma so quando lo sei tu…
Mise via il cellulare, prese un respiro profondo e scese velocemente le scale.
Quando Fabrizio gli domandò in che locale intendevano fermarsi per bere qualcosa, Achille era assorto nei suoi pensieri e gli venne  spontaneo rispondere il Tre di cuori. Si trattava di un bar vicino al residence in cui Chantal aveva vissuto per tutto il periodo durante il quale era stata in Italia. Conosceva bene quel posto, con lei si era seduto al bancone grigio metallizzato centinaia di volte, ordinando sempre la stessa cosa, stabilendo una routine che si era illuso sarebbe durata per decenni. Dopo la loro rottura non ci aveva messo piede per un anno, perché tutto gli ricordava lei e, ad essere del tutto sinceri, i cocktail erano annacquati e il cibo non un granché. Finché c’era stata lei, però, non gliene era importato molto; gli piaceva sedersi sugli sgabelli, sgranocchiare patatine e salatini, mentre Chantal gli raccontava la sua giornata, imprecando in francese contro i galleristi che la consideravano una ragazzina ricca e viziata. Lui la guardava infuriarsi per quella che sapeva essere la pura verità: i signori Delacourt – che aveva incontrato solo in rare occasioni – erano due collezionisti d’arte provenienti entrambi da famiglie facoltose, nella vita non avevano fatto altro che prestare opere di loro proprietà a grandi mostre internazionali, o vendere qualche quadro in cambio di altri. Il patrimonio dei loro avi era sufficiente a mantenere almeno quattro o cinque generazioni future. Grazie a Dio, Chantal non era così; aveva studiato storia dell’arte all’università e poi si era trasferita in Italia, per vedere e toccare con mano quello che i manuali di pittura, di scultura e architettura le avevano solo mostrato per immagini e parole. Aveva sempre cercato di fare trovarsi qualche lavoretto, i soldi erano dei suoi genitori, non i suoi. Achille amava quel suo spirito d’indipendenza, quella voglia di farcela con le proprie forze, a dispetto della facilità con cui il suo cognome avrebbe potuto aprirle porte e portoni. Purtroppo, quello stesso spirito d’indipendenza ero lo stesso che le aveva permesso di alzarsi un giorno e decidere che no, la prospettiva di un matrimonio e una famiglia non faceva per lei, così come l’Italia o tantomeno Achille. Era tornata in Francia, dai suoi, dal lavoro che le avevano offerto per convincerla a lasciare un bancario senza troppe prospettive di guadagno e un Paese straniero. L’avevano comprata e, soprattutto, lei si era lasciata comprare. 
Quando Achille era rientrato al Tre di cuori, ormai erano cambiate molte cose; il barman, innanzitutto. E il colore delle pareti. E il fatto che fosse con un uomo, invece che con una donna, ma non perché avesse cambiato orientamento sessuale. Ci tornava una volta ogni tanto, sempre e soltanto con amici; non ci aveva mai portato una ragazza, non dopo Chantal. Scegliendo quel locale proprio quella sera, Achille era cosciente che una parte di sé temeva di rincontrarla lì. O sperava.
- Birra? – gli chiese Fabrizio.
Non c’erano biscotti al bar, perciò la birra poteva andare. Mentre lui si sedeva ad un tavolino, l’amico si allontanò per raggiungere il bancone ed ordinare per entrambi e pagare il primo giro. Prevedeva che ce ne sarebbero stati molti altri: le donne della sua vita erano un casino totale; Chantal era tornata, Elettra non era in grado di farsi i cazzi suoi, Azzurra non voleva parlargli. L’unica che si salvava era Diana, ma le conversazioni con lei si limitavano ai rapporti ambigui tra Ken, Barbie e Skipper e alla complicata doppia vita di Hannah Montana.
Il cellulare suonò dall’interno della tasca: una nuvoletta sullo schermo gli annunciava che Azzurra aveva finalmente risposto al messaggio.
- Ho un po’ esagerato, mi spiace. Diciamo che ero alterata, ma certamente non per quella! È solo che faceva freddo, i neuroni si erano congelati…
Achille si stupì di una tale disponibilità al dialogo; alzò un sopracciglio dallo stupore, rileggendo per la quinta volta l’ammissione di essere stata in errore. Azzurra Trentini, donna, aveva appena detto di aver sbagliato. C’erano persino delle scuse, sottese. Dove stava la fregatura? Decise di mangiare la foglia, cercando di volgere la situazione a suo favore. 
- Spero non gli ormoni, però.
Non appena posò il cellulare, una bottiglia di birra gli scivolò nella mano. Non era della marca che lui e Fabri erano soliti bere. Si soffermò un attimo in più a fissare il vetro freddo tra le sue dita.
- Rimpiango i giorni in cui bastava dire ‘il solito’ e Pippo ci portava una Corona per me e una Heineken ghiacciata per te.
Chantal gli si sedette accanto, poggiando gli avambracci sul tavolino. Achille lanciò un’occhiata al bancone, dove Fabri si stava intrattenendo con una bionda formosa e sconosciuta. Mollò la presa sulla birra e si sfregò le mani sulle cosce.
- Sono passati anni, è cambiata anche la gestione.
- È un peccato.
Achille si strinse nella spalle.
- È la vita.
Chantal mise le sue mani su quelle di lui. Il cellulare suonò nuovamente sul tavolo e  Achille ringraziò colui o colei che stava cercando di contattarlo, togliendolo da un bell’impiccio. Chantal lesse il mittente del messaggio senza pensare minimamente che non fossero affari suoi. Il riccio lo lesse veloce e lo mise in tasca.
- …quelli stanno benissimo. Che ne dici di controllare domani sera a casa mia? Diciamo per le 9…
- Azzurra è la tua fidanzata?
Achille soppesò attentamente le parole; capiva che il destino di quella conversazione dipendeva da quella risposta. Non voleva mentirle, ma non voleva neppure che lei se ne andasse; dopotutto e nonostante tutto, lei era Chantal e andando indietro nel tempo di qualche anno, lui avrebbe pagato oro pur di avere l’occasione di starsene seduti a parlare ancora una volta al Tre di cuori come se niente fosse accaduto.
- No, – disse semplicemente, sperando di non aver appena fatto un torto ad Azzurra.
Chantal afferrò la birra e ne bevve un sorso.
- Non posso dire di esserne dispiaciuta.
Catturò tra l’indice uno dei ricci del ragazzo. Lui rimase per un attimo a corto di parole, incerto su cosa dire; era così inopportuna, così fuori luogo… non poteva davvero credere di tornare dopo anni e pretendere di riprendere da dove avevano interrotto. Da dove aveva interrotto. E se aveva intenzione di giocare ancora, come in fondo, con il senno di poi, Achille aveva realizzato che lei aveva sempre fatto, allora era persino più crudele e meschina di quanto ricordasse.
Chantal notò la sua distrazione e provò ad aiutarlo nell’unico modo in cui era capace di risolvere i problemi: gli impedì di pensare nell’istante stesso in cui lo baciò.
 

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Capitolo 3
*** Ronzii - Parte II ***


Ronzii – Parte II.
 
Aveva sottovalutato la storia del burlesque. Prima di tutto, aveva speso oltre cento euro di biancheria intima; secondo, aveva decisamente sopravvalutato le sue capacità atletiche. Perché le ballerine del Moulin Rouge erano in grado di alzare la gamba fino alla testa, ma lei, Azzurra, rischiava uno stiramento o addirittura uno strappo muscolare. A questo poi, si aggiungeva il fatto che, nonostante fossero le due del pomeriggio di lunedì 17 Dicembre, Achille non aveva ancora risposto al messaggio della sera precedente. Lei aveva saltato il pranzo per andare al centro commerciale, rimandato gli impegni di lavoro con la scusa di dover apportare delle modifiche ad un progetto in realtà già concluso e lui non riusciva a trovare trenta secondi per rispondere ad un sms. Doveva cercare una posizione del Kamasutra abbastanza dolorosa da farlo pentire dei suoi peccati.
 
Dall’altra parte della città, in un bar del centro poco distante dalla filiale della banca, Achille era seduto davanti ad un’insalata triste e quasi intatta. La serata precedente era stata più movimentata e frenetica del previsto. Trascorrerla con Chantal lo aveva lasciato stordito e non gli andava di ascoltare le chiacchiere di Brambilla, soprattutto non durante la pausa.
Ricordava di non aver ancora dato una risposta ad Azzurra, ma con tutto quello che era successo il giorno prima, non sapeva onestamente cosa dirle. Digitò veloce un messaggio, prima di abbandonare il pranzo e  tornare a lavoro.
- Ci sarò.
 
I semafori sembravano essersi messi tutti d’accordo: l’avevano costretto a fermarsi a quelle che, nello stato d’agitazione in cui si trovava, parevano un miliardo di volte. Achille guardò il mazzo di ranuncoli bianchi che aveva appoggiato sul sedile accanto al suo. I fiori erano un gesto sincero, forse patetico, forse dovuto dal senso di colpa. Pensò all’opportunità di ritornarsene a casa, ma non poteva fare questo ad Azzurra. Non lo meritava.
Parcheggiò la macchina sotto il suo condominio e prese le scale. Arrivò di slancio davanti alla porta rossa della mansarda e bussò immediatamente. Doveva dirglielo subito.
Azzurra gli aprì e la bocca di Achille si sigillò.
Era in vestaglia, i capelli che solitamente portava liscissimi erano un po’ arricciati, aveva un trucco pesante sugli occhi e degli inspiegabili sandali neri dal tacco vertiginoso. Non capì se la testa di lei appoggiata sulla porta fosse un modo per sedurlo, per mostrargli gli imponenti orecchini luccicanti o soltanto per tenersi in piedi su quei trampoli.
- Finalmente! – sussurrò lei.
Lo prese per il colletto della camicia e lo trascinò con sé all’interno della casa, chiudendo la porta con il tacco della scarpa – per quello non era stata necessaria Dita, era bastato guardare una puntata de I menu di Benedetta e sostituire il forno con la porta.
- Azzurra, dovremmo parlare… – provò Achille, ma lei lo zittì.
- Parlare? Non era esattamente quello che avevo in mente…
Spalancò la vestaglia nera in pura seta e gli mostrò ciò che indossava. Il mazzo di ranuncoli precipitò sul parquet, alla vista di un babydoll viola scuro dalla profonda scollatura stretta e verticale, tagliato sotto il seno da una cintura di corallini, con una balza in fondo e degli strass sugli spallini. Il look era completato da un brasiliano dello stesso colore e dallo smalto nero sulle unghie.
- Oh, okay, beh… accidenti… i-io no-non me l’aspettavo. – Lui arrossì, colpito da un’improvvisa crisi di balbuzie.
- Ti dispiace?
Azzurra, con un movimento secco del capo, cercò di scansarsi i capelli dietro la spalla, tentando di riprodurre il fare da panterona consumata che aveva provato davanti allo specchio. Il risultato fu un suono gutturale che fece aggrottare la fronte di Achille, il quale la guardava tra il famelico per il vestiario succinto e il sorpreso per quell’inedito comportamento da femme fatale.
- Ce-certo che no.
Non sapeva bene perché, ma cominciava ad avere paura. Azzurra lo prese per mano e lo condusse fino al divano. Lo spinse affinché lui si sedesse con un tonfo sul cuscino. Lasciò che la vestaglia le scivolasse sulle spalle e le braccia, prima di cadere sul tappeto. Gli si mise a cavalcioni, cercando di baciarlo sul collo. Achille alzò di scatto la testa, che cozzò con il mento della ragazza.
 
- Ahia, cavolo! Mi sono morsa la lingua! – piagnucolò. – Scusa, Trent, scusa!
 Non farti distrarre, Azzurra. Puoi farcela anche con la lingua dolorante.
- Non importa, piccolo. – Gli disse seducente.
Piccolo? Che cavolo le era preso? Si stava palesemente facendo prendere troppo la mano. Per riconcentrarsi, Azzurra gli tolse, non senza una certa difficoltà, il maglione; la maglietta gli rimase incastrata in quei dannati riccioli e lei dovette dare uno strattone per liberarlo. Quasi cadde all’indietro e solo i riflessi pronti di lui le impedirono di rovinare sul pavimento a gambe all’aria.
Si ritrovarono improvvisamente vicini, sul bordo del divano, lui a torso nudo, lei con quel babydoll striminzito. Gli puntò un indice tra i pettorali e lo fece indietreggiare, di modo che la sua schiena aderisse alla seduta del sofà. Si chinò a baciarlo sulle labbra, gli spalancò le braccia perpendicolarmente al corpo e cominciò a tracciargli una scia con la lingua sulla pelle, dalla gola fino a… più in giù, insomma. Abbassò le mani fino ad afferrare la cintura dei suoi pantaloni. Si alzò in piedi e poi s’inginocchiò davanti a lui.
 
- Abiti ancora in via Matteotti?
- Già.
- Ti ricordi quella panetteria sotto casa tua dove compravamo i maritozzi? Li mangiavamo sempre dopo aver fatto l’amore.
- Secoli fa.
- Mi manchi, Achille.
 
Achille guardò per qualche secondo il soffitto, respirando rumorosamente. Non aveva idea di cosa lei avesse in mente. O meglio, lo sapeva fin troppo bene, così come sapeva bene che non voleva che la prima volta con Azzurra fosse… così. Soprattutto non dopo quello che era successo la sera precedente con Chantal. Afferrò con le mani il bordo superiore dello schienale del divano e lo strinse forte.
 
- È tardi, ormai.
- È solo mezzanotte e un quarto…
- Intendo dire che è tardi per noi.
- Dimmi che non mi vuoi.
 
Più o meno inavvertitamente, iniziò a pensare alla professoressa Savarese, all’abbigliamento di Ingrid, il donnone tedesco della banca, persino al chihuahua di quest’ultima… avrebbe pensato a qualsiasi cosa, perché era più facile cercare di domare un’imminentissima erezione, piuttosto che chiedere esplicitamente ad Azzurra di non fare quello che lei si era così magnanimamente offerta di fare. E che cazzo, è contro natura chiedere ad una donna di non farti un pompino!
Achille, non puoi.
 
- Non sei sposato, non sei nemmeno fidanzato… non hai alcun obbligo nei suoi confronti. Nessun legame è per sempre.
- Questo me l’ha insegnato tu.
- Solo stanotte. Resta con me.
 
La mano di lei era già ben oltre il limite del punto di non ritorno, quando lui finalmente si decise a fermarla.
- Aspetta, Azzurra, aspetta.
 
La prese per le braccia, la fece alzare, ma lei non aveva intenzione di mollare. Non aveva passato dieci ore al computer per documentarsi su come sedurre un uomo per farsi rifiutare al primo tentativo. Diamine, poteva non avere il fisico di Bar Rafaeli o il sex appeal di Charlize Theron e, d’accordo, non aveva neppure il bicchiere da champagne gigante di Dita Von Teese, ma di certo non era la figlia di Fantozzi! Perciò, che Achille non facesse troppe rimostranze, perché quella sera aveva intenzione di stenderlo.
Lo fece alzare a sua volta, lo abbracciò e lo baciò, un secondo prima di cadere a peso morto sul divano, trascinandoselo addosso.
 
Savarese, chihuahua, Ingrid, Moira Orfei, spiaggia di vecchie nudiste, Savarese, chihuahua, clown, i clown! Quelli funzionavano sempre!
Achille continuava a ripeterlo all’infinito, nonostante fosse nell’unico posto in cui da settimane sperava di trovarsi. La desiderava e lei era calda e morbida sotto di lui. Era come l’aveva sempre creduta. Ma non poteva, non in quel modo, non era giusto per lei, né per lui.
Era incredibilmente difficile pensare a pagliacci e ad anziani svestiti, guardando Azzurra strusciarsi contro di lui. Senza preavviso, gli infilò una mano nei boxer.
 Sussultarono entrambi, per ragioni diverse.
 
- Vuoi dirmi che non sarei dovuta tornare da te?
- No. Sono contento tu sia qua... 
 
Achille stava per cedere, quella tortura stava mettendo a dura prova i suoi nervi e non riusciva proprio a ragionare, con le mani di lei nei pantaloni: il sangue stava affluendo dal cervello verso altri lidi.
 
Azzurra ritrasse subito le dita, il secondo in cui realizzò la calma piatta – ma proprio piatta – che regnava nel bassoventre del riccio. Non si aspettava certo che l’albero maestro fosse già bello e pronto per navigare nei suoi mari, ma insomma, era mezza nuda, lo aveva toccato, palpato, strizzato, baciato, leccato… si era persino inginocchiata davanti a lui e non di sicuro per pregare insieme! E, in tutto questo, lui l’aveva scoraggiata, dissuasa e le risposte che le aveva dato lasciavano molto a desiderare… era evidente: Achille non la voleva da quel punto di vista, o magari addirittura da ogni punto di vista. Lui voleva la fottuta ciambella francese.
Se lo scansò di dosso, raccolse la vestaglia da terra e la rinfilò.
- Credo dovresti andare, ora, – gli disse sconsolata.
Lui la guardò senza capire.
- Cosa? Perché?
Il sangue doveva essersi fermato dalle parti dello stomaco, a metà strada tra la testa e l’inguine, perché le funzioni cerebrali e quelle genitali erano in grossa difficoltà, ma, in compenso, ad Achille era venuta una certa fame. Però Azzurra non stava scherzando.
Non glielo aveva nemmeno detto e lei già lo stava mandando via? Oddio, mica sapeva leggere nel pensiero, vero?
- Buon Natale, Achille. – Lei strinse forte la cintura sulla vita. Lui tentò di protestare, quantomeno di avere delle spiegazioni, ma lei tagliò corto. – Stammi bene.
Gli aprì la porta ed abbassò lo sguardo, in attesa che lui raccogliesse le sue cose e uscisse da quella casa. 
 
Azzurra era delusa. Se ne stava sul letto, a gambe e braccia incrociate, a fissare lo schermo spento della tv almeno da mezzora. Il cellulare era in modalità silenzioso da due sere prima, perché non ne poteva più di sentire il trillo di un sms in arrivo o la voce di Sting che la informava che c’era un Message in a bottle. Lo aveva capito già alle prime cinque chiamate di Achille. Non era stata una grande idea quella di personalizzare la suoneria… cominciava a detestare quella canzone. Più di quanto già non detestasse Achille. Ah, ma chi ci pensava a quello? Se lui non si era eccitato con la performance di lunedì erano chiaramente – ed unicamente – problemi suoi. Qualunque uomo avrebbe fatto la fila per una come lei.
Sei una bomba sexy, chiaro, Azzurra? Certo, potevi fare qualche prova in più davanti allo specchio e fare un movimento più sinuoso con il collo per spostare i capelli, ma… no. Sei una bomba sexy, punto e basta.
Magari Achille era gay. Anzi, lo era di sicuro, perché chi diamine oggigiorno rifiuta una donna mezza nuda che ti si offre come il gorgonzola sulla polenta? Un cretino, ecco chi. Perché lei era come Beyoncé, un po’ più bianca e con meno sedere, come Shakira, ma senza quella mobilità nel bacino… era come Shakira incinta. Sempre bella comunque, no?
Non poteva permettere che quel cretino gay di Achille Quaresmini mettesse in crisi la sua indiscutibile femminilità e avvenenza. Non appena si fosse fatta una doccia e tolta il camicione da novizia in convento gliele avrebbe cantate. Salì in piedi sul letto e si mise a cantare e ballare Single ladies. No, doveva lavorarci ancora un pochino.
 
Non poteva essere lei. Più Achille guardava la ragazza in fila allo sportello della filiale, più si convinceva che non potesse essere proprio Azzurra. Sarebbe stato sperare troppo. Dopo giorni e giorni di chiamate rifiutate, ignorate, soliloqui limitati dai bip della sua segreteria telefonica ed sms a cui non aveva mai ricevuto risposta, non c’era possibilità che lei fosse in carne ed ossa a qualche persona di distanza.
Achille cercò di assecondare le richieste dei clienti che precedevano la presunta Azzurra velocemente, nonostante una signora anziana mezza sorda, un cinese che non conosceva una parola d’italiano, il computer impallato… Era una strana sensazione, quella che provava. Lei gli mancava. Azzurra sapeva essere saccente, dispettosa, irritante, infantile, una vera spina nel fianco per dirla in breve; ma era anche una presenza costante, rassicurante. Gli venne da sorridere, pensando ad una puntata de La vita secondo Jim, nel quale il protagonista si lamenta delle chiacchiere ininterrotte e superflue della moglie Cheryl, ma nell’istante stesso in cui lei comincia uno sciopero del silenzio, lui si rende conto che quei blateramenti che tanto lo indispongono in realtà coprono un sacco di piccoli altri rumori che lui odia. Ecco, a lui mancava il chiacchiericcio di Azzurra in sottofondo, quei fiumi di parole spesso indirizzate a se stessa, perché lei riusciva a coprire gli altri piccoli rumori indesiderati di tutti i giorni. Lei, non Chantal.  
Congedò rapidamente la coppia che la precedevano con la scusa del computer bloccato e la vide.
- Ciao, – le sorrise.
- Signora, – disse lei rivolta alla donna dietro di lei, con un inedito piglio determinato. – Le consiglio di cambiare fila. Sarà una cosa molto lunga. Bene, buongiorno Achille. Sono venuta a discutere della tua débâcle.
L’intera fila di clienti dello sportello di Brambilla si voltò verso di lei, improvvisamente interessata.
- Débâcle? Quando? – Domandò confuso. Provò a rimettere insieme i pezzi dell’ultima volta in cui si erano visti. Dunque: casa sua, divano, babydoll – e chi se lo scordava? –, lei inginocchiata davanti a lui – questo non l’avrebbe mai scordato –, la sua mano nei pantaloni, la Savarese, i clown… oh cielo, no! No! NO! Azzurra pensava che lui non si fosse eccitato! Effettivamente questo aveva molto più senso delle teorie per cui lei fosse in grado di leggere nel pensiero o che l’avesse cacciato di casa perché spaventata dalle enormi dimensioni del suo armamentario.
- Quando? Forse mi confondi con Chantal.
Lo dicevo che sapeva leggere nel pensiero!
- No, Azzurra, lasciami spiegare.
- Spiega, coniglio! – Urlò, attirando l’attenzione anche dell’unico essere umano nella banca che si era fatto delle remore ad ascoltare così platealmente: Brambilla.
Achille si guardò intorno, si chiese quanto fosse appropriato discutere della propria vita sessuale in mezzo a clienti che vedeva più o meno ogni giorno e optò per una soluzione alternativa.
- Ne parliamo stasera? Cena, da me.
- Lo vede come fa, signora? – Azzurra tornò a rivolgersi alla donna alle sue spalle. – Fa l’ambiguo. Eppure le ho provate tutte con lui! Avrebbe dovuto vedere il babydoll che ho comprato per lui: seta e corallini. Che diavolo dovevo fare? Mi sono persino offerta di fargli…
- Azzurra! – La bloccò, prima che scendesse in dettagli che lo avrebbero condotto dritto dritto al licenziamento. Doveva provare con la gentilezza. – Tesoro, ti prego, ti chiamo più tardi. Ora devo lavorare.
Lei gli diede un’occhiata gelida.
- Tesoro? Tesoro ci chiami Chantal. – Si girò per l’ennesima volta dalla signora. – È la sua ex francese.
La Leone arrivò dagli uffici sul retro ticchettando con le scarpe costose sul pavimento lucido della filiale, attirata dal trambusto agli sportelli. C’era troppo casino perché fosse una rapina e troppo poco trambusto perché fosse di nuovo quella vecchia mezza sorda che urlava come un’oca starnazzante.
- Ehm… Quaresmini, che succede? – Achille deglutì, pronto ad un’ennesima ramanzina. Il fido Brambilla si premurò di farle un accurato resoconto, fortunatamente dimenticando la questione della débâcle. – È una banca, per Giove, non Uomini e donne. Fai venire la tua amica in ufficio, prima che gli altri clienti si mettano a fare gli opinionisti.
Il riccio fece segno ad Azzurra di passare attraverso la piccola porta che conduceva sul retro. Lei fece un po’ la preziosa, s’intrattenne a parlare con l’ormai amica signora Fappani che la consigliò di risolvere, soprattutto perché doveva andare a fare la spesa ed andava di fretta. Il marito non stava bene e… purtroppo la fine della storia non l’avrebbe mai saputa, visto che Achille praticamente la trascinò negli uffici.
- Uffa, che modi…  – Si lamentò lei. – Quello cos’è?
Il ragazzo diede un’occhiata rapida a ciò che lei stava indicando e le rispose.
- È un apparecchio che conta i soldi.
- Posso andare allo sportello a toccarlo?
Eccolo tornato, il ronzio di sottofondo.
- Ovviamente no.
- Posso prendere l’acqua dal dispenser?
- È solo per gli impiegati, – le spiegò.
- Ho fatto davvero così pena?
Achille tacque un istante. Impiegò qualche secondo a capire con esattezza ciò che lei intendeva, ma non gli servì altro tempo per realizzare che era lei a non aver capito.
- No, – si affrettò a dire. – No. È successo a causa mia.
- Eppure mi ero esercitata tutto il giorno! Ho guardato i film, letto le istruzioni, ho persino chiamato il collega di Dalila in ginecologia per delle delucidazioni tecniche… non so cosa sia potuto andare storto… o dritto, in questo caso.
C’era qualcosa di estremamente gratificante nel fatto che lei si fosse data tanto da fare per risultare più bella, più seducente, per piacergli, quando in effetti a lui bastava pensare a lei in pigiama e spettinata per sentirsi già su di giri. Ma, di nuovo, non voleva dirglielo così, in banca, con i clienti che se avessero potuto avrebbero appoggiato dei bicchieri contro il vetro per ascoltarli e che in effetti erano appoggiati al vetro a cercare di leggere il loro labiale.
- Azzurra, mi sento davvero a disagio a parlarne qui. Possiamo sentirci dopo?
 
Lei si arrese. Annuì abbattuta; ci aveva provato, in ogni modo immaginabile, però se lui non le voleva tenderle una mano, aiutarla, insegnarle come poter stare insieme, allora non valeva nemmeno la pena continuare a puntare i piedi, insistere, ritentare, se il risultato era quello.
- Ti lascio lavorare.
 
Achille la osservò riattraversare la porticina, ritornare nella stanzona dove tutti i clienti la stavano guardando, neanche fosse una sfilata, ed entrare nella bussola.
Che giornata di merda.
Aveva voglia di urlare, di prendere a testate quel pirla di Brambilla già solo per la tua esistenza, sputare in un occhio alla Leone che, neanche a farlo apposta, lo stava fissando, scuotendo il capo.
Cazziatone in tre, due, uno…
- Quaresmini, potevi baciarla, santo cielo! – Il riccio rimase sconvolto: che la regina delle acide avesse un… cuore? – Così i nostri clienti si sarebbero dimenticati dell’abbassamento del tasso d’interesse sui conti!
No. Quella aveva un caveau, invece del cuore.
Afferrò il cellulare, cercò freneticamente un numero di telefono e avviò la chiamata.
- Sergio? Ho bisogno di un favore.
 
 Non era mai stato allo StudioLab. Era una costruzione moderna, su più livelli, dipinta di un bianco pulito ed elegante. Sulla facciata c’erano una miriade di finestre e, dietro una di quelle, c’era l’ufficio di Azzurra. Non aveva idea di quale fosse, ma gli sarebbe piaciuto vederla all’opera.
Achille consultò l’orologio: le 17.30. Se Sergio era riuscito a trattenerla mezzora in più del consueto, allora il piano era perfetto e lei sarebbe uscita entro pochi minuti. Cominciò a passeggiare nervosamente sul marciapiede antistante l’edificio; non si sentiva così dall’ultimo colloquio di lavoro che aveva fatto. Dio, quell’attesa era peggiore dell’agonia durante la finale degli europei di calcio… perlomeno fino a quando l’Italia non aveva cominciato a prendere goal.
Iniziò a contare i mattoni a vista sulla facciata dello studio, i cartelli stradali della via, il numero di passanti in sessanta secondi; la matematica aveva il potere di calmarlo, renderlo lucido, aiutarlo a ragionare. Ma chi cazzo se ne fregava dei trentaquattro mattoni, otto lampioni e cinque passanti?
- Che ci fai qui? – Oh, il ronzio familiare! Azzurra era piena di borse, borsette e borsine e rotoli di carta, di progetti e di stizza. – Hai sbagliato strada?
Procedette a fatica, in mezzo all’asfalto del vialetto e all’erba del giardino intorno allo StudioLab.
- Ti ho promesso una cena da me, stasera, – rispose calmo.
- Non posso, – lo liquidò lei. – Devo lavorare.
- Ti aiuto, – si offrì, pur sapendo che al massimo poteva fare la punta alle matite, se gli architetti ancora le usavano. Azzurra aprì con il telecomando la propria auto e rovesciò tutto ciò che aveva tra le mani e le braccia nel portabagagli. – Non accetto un no come risposta.
- E a che ora sarebbe?
 
Glielo aveva chiesto così, non aveva intenzione di presentarsi a casa sua; voleva solo illuderlo che ci stava seriamente pensando. Era prontissima a dargli buca all’ultimo.
- Ora. – Beh, questo complicava un po’ le cose… – Chiudi la macchina e vieni con me.
No, Azzurra, no. Se proprio ci vuoi andare, vacci con la tua auto. Perché a) sta pensando che ti porterà a letto e dormirai da lui; b) sta pensando che ti porterà a letto e poi dovrai prenderti un taxi; c) sta pensando di portarti a letto e ti abbandonerà per strada.
- No, prendo la mia.
Poteva sempre cambiare strada, perdersi accidentalmente, dimenticare l’indirizzo di casa Quaresmini per un Oblivion autoinflitto. Cose che capitano.
- D’accordo, ti seguo.
Ah, bastardo! Non è che sapeva leggere nel pensiero? Pazienza, sarebbe andata da lui e gli avrebbe fatto passare una serata noiosissima a base di gossip, televisione spazzatura, film sdolcinati, roba da femmine.
 
- Ripetimi ancora perché stiamo facendo uno schizzo dell’albero di Natale, invece che farlo fisicamente…
Disegnare un abete, palle e addobbi natalizi per due ore e trentasette minuti non era precisamente ciò che aveva in mente di fare con Azzurra. Ma, da cavalier servente, si era offerto di aiutarla e non osava proporre attività alternative.
- Te l’ho detto: faccio l’albero il 5 di Gennaio, – gli rispose, colorando gli aghi dell’albero. Uno ad uno.
- E il senso di questa cosa? – Cercava di essere delicato, però di fronte ad una tale insensatezza, le buone maniere venivano un po’ meno.
- Perché così il 6, quando lo dovrò disfare, non avrò avuto tempo per affezionarmici, – gli spiegò per la terza volta, sempre più saccente.
- Giusto. – Achille disegnò l’ennesima stellina sull’ennesima stupidissima palla e decise che poteva bastare: era ora di fare l’uomo, magari meglio di come l’aveva fatto a casa di lei. – Ehm, dovremmo parlare, Trent. Se lunedì non è… andata come speravamo, non è stato…
- Una ciambella, – lo fermò lei, sbattendo la matita colorata sul tavolo.
- Cosa?
- È perché non sono una ciambella grondante crema pasticcera, gelato e panna montata, lo so. Io sono un Oro Saiwa.
A lui piacevano gli Oro Saiwa. Erano un’ottima base per il cheesecake e lui avrebbe venduto l’anima per mangiarne una fetta in quel momento. Magari sul corpo di lei, perché era tornato quel tono da maestrina così fastidioso e sgarbato. La cosa lo elettrizzava.
- Non sei un biscotto secco, Azzurra, – la calmò. – Sei bella, dico davvero. E mi piaci, tanto. Non voglio che pensi neanche per un istante che non ti trovi sexy o che non vorrei fare l’amore con te. È solo che mi hai colto di sorpresa, non me l’aspettavo, forse non ero nemmeno pronto.
- Beh, quello l’avevo capito, – mugugnò imbronciata.
Achille ignorò il colpo basso e proseguì con il discorso in sua difesa.
- La verità è che quella domenica mi hai piantato in macchina, furiosa per via di Chantal e il giorno dopo mi sei saltata addosso non appena varcata la porta di casa tua, con indosso un babydoll e poco altro. Magari in una situazione normale non ci avrei pensato due volte e l’avremmo fatto subito, sul divano; ma so che stavi aspettando il 20 Dicembre… Non voglio che tu venga a letto con me soltanto perché ti senti minacciata da lei.
Azzurra si voltò oltraggiata verso di lui, balzando in piedi.
- Io? Minacciata da quella? – Achille la guardò severo e lei si sentì sovraesposta. – D’accordo, forse ho forzato un po’ la mano. È che mi sentivo in svantaggio.
- Perché sono stato con lei e non con te? E volevi pareggiare i conti? – Qualche giorno prima sembrava un’idea intelligente… – Per quanto questo un po’ mi lusinghi, non è una competizione. Non sceglierò tra te e lei in base a quanto ci sapete fare tra le lenzuola. Non sceglierò e basta. Se insistete, però… ricordo bene quanto tu sia brava ad insistere.
Si alzò anche lui, raggiungendola vicino al divano. Ricordarle uno dei loro piccoli bisticci al supermercato la stava facendo sorridere.
- Ti ho mai parlato della mia grande abilità nell’evirazione? – replicò piccata.
Le mise le mani sui fianchi e la girò verso di sé. Lei si lasciò manovrare come una bambola.
- Trent, hai ragione quando dici che conosco lei più di quanto conosca te. Ma la conosco abbastanza da sapere che non mi piace, non m’interessa.
- E io?
Ronzio.
La ragazza spavalda e arrogante aveva lasciato il posto ad una indifesa ed insicura.
- Prima devo portarti a letto, sai com’è… – sdrammatizzò, prima di tornare serio. – Azzurra, abbiamo il potenziale per essere felici per sempre, quanto per ferirci a vicenda e odiarci fino alla morte. Non so come andrà tra di noi. Tempo al tempo.
Lei gli girò il polso per guardare l’orologio. Forse l’aveva preso un po’ troppo alla lettera.
- Vuoi andartene di già? – chiese, timoroso della risposta.
- No, stavo guardando che giorno è.
Era il 19 Dicembre, Achille lo sapeva bene, stava praticamente facendo il conto alla rovescia fino al 20, e non di certo perché temesse che qualche sciocca profezia Maya si avverasse, ma perché Azzurra aveva scelto quella data ed era così testarda che non l’avrebbe cambiata. Il che significava che lui aveva ancora un giorno per dirle tutta la verità, prima di corrompersi al punto che lei non lo avrebbe voluto rivedere mai più.
- Azzurra…
Lui prese coraggio, ma lei prese l’iniziativa. Lo guardò negli occhi, afferrò i due lembi della giacca del completo che lui indossava e gliela sfilò. Fece scivolare la propria mano sulla cravatta e lo tirò per avvicinarlo a sé. Erano giorni che non si baciavano, non si toccavano
ed entrambi sapevano quanto importante ciò fosse all’inizio di una relazione, quando non ci si conosce, ma si vuole imparare a farlo. E lei aveva deciso che non gli importava di date, fine del mondo, stronze d’Oltralpe, sorelle ficcanaso. C’erano lei ed Achille, punto.
Lo baciò senza delicatezza, con una foga che cozzava con i movimenti delicati delle dita attorno al suo collo, sul petto, pronte a svestirlo con una lentezza disarmante ed esasperante. Gli allentò il nodo della cravatta affinché potesse sfilarla dalla testa, dandogli una pausa da quel bacio che li stava lasciando a corto di fiato.
Azzurra cominciò a sbottonare piano la camicia di Achille. Dal canto suo, lui non osava toccarla; non voleva spogliarla, l’avrebbe reso vulnerabile e poco lucido, rischiava di non avere il coraggio necessario per parlare.
- Azzurra…  – sussurrò, mentre lei ancora continuava a slacciargli la camicia.
- M-hm? – gli rispose distrattamente, lo sguardo fisso sul corpo nudo di lui che stava scoprendo sotto il tessuto.
Achille deglutì a vuoto un paio di volte, poi le prese le dita piccole e sottili tra le sue mani grandi e le immobilizzò contro il proprio sterno.
 
Azzurra avrebbe voluto dire qualcosa di assolutamente seducente e altrettanto imbarazzante imparato su qualche numero di Cosmopolitan, ma il viso turbato di lui la fece desistere; aveva imparato che lui era un maschio strano e non reagiva come gli altri a certe provocazioni. Si doveva scongiurare il rischio cilecca.
- Devo dirti una cosa… – Oh mio Dio, era davvero gay. O sposato. Cielo, un gay sposato? Un prete. Un frate. Un ricercato. Un terrorista. Un terrorista gay sposato in seminario. – Domenica sera, dopo che te ne sei andata, sono uscito con Fabrizio… e l’ho vista.
Dopo la prima parte della frase, aveva creduto davvero che lui stesse per fare coming out, ma quella a alla fine dell’ultima parola aveva messo in crisi l’intera teoria. Vista. Escludendo l’ipotesi che lui si premurasse tanto di comunicarle il fortuito incontro con sua sorella, sua nipote o una qualsiasi amica, l’unica opzione rimasta era la crêpe avariata appena giunta in città. 
- Chantal? – Il tono interrogativo tradiva in realtà la matematica certezza di aver indovinato.
Achille infatti annuì, abbassando lo sguardo.
- Si è seduta al nostro tavolo, ci siamo messi a parlare…
Chissenefrega! Azzurra decise che la descrizione della serata fosse necessaria e giunse al dunque.
- Ci sei andato a letto?
- No. – rispose subito.
Azzurra tolse le mani da quelle di lui e fece un passo indietro.
- Avresti voluto? – Lui, ormai con le dita libere che non sapeva dove appoggiare, finì per passarsele fra i ricci disordinati. – È una domanda facile, Achille.
 
Purtroppo stavolta il ronzio non era positivo. Ne era conscio, non sempre gli sarebbe piaciuto ciò che lei aveva da dire. Certe volte l’avrebbe ignorata o finto di non ascoltarla, ma voleva quel dannato ronzio ed era arrivato il momento di prenderselo.
- Con lei sono ancora il ragazzino di ventitré anni inesperto che non sa cosa vuole dalla vita e che ha bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi per non cadere. Ho la presunzione di credere di essere cresciuto, o comunque di star ancora crescendo e ora so cosa voglio: non voglio più sentirmi in quel modo. Non ho bisogno di qualcuno che mi faccia sentire in quel modo. Sì, una parte di me potrebbe aver desiderato fare sesso con lei, per quello che è stata, per cosa ha rappresentato. – Prese fiato e seguì con gli occhi Azzurra che si stava spostando fino a guardare fuori dalla finestra. – Non posso estirpare il ragazzino ventitreenne da me, vorrei, ma non posso. Ci sto lavorando.
Azzurra guardò attraverso le tende leggere ed i doppi vetri: fuori c’era buio. Le sporadiche macchine che passavano nella stradina dietro l’abitazione di Achille scorrevano accanto ai vialetti dei vicini, decorati ed illuminati da fili di luci colorate.
- Non è successo niente? Avete solo… parlato?
Il riccio guardò la schiena della ragazza ormai lontana da lui e decise che tanto valeva farsi avanti vuotare il sacco.
- Mi ha baciato, – confessò.
Gli occhi di Azzurra schizzarono fuori dalle orbite e in un attimo si girò verso di lui.
- Quella z… zavorra! – si corresse all’ultimo. – E tu sei stato lì, a farti sbaciucchiare come un mammalucco?
- No, mi sono tirato indietro. Te lo giuro, Azzurra.
Voleva tranquillizzarla, rassicurarla, ma era come se avesse acceso la miccia di una bomba piena di domande e ora fosse costretto a subirle tutte.
- Perché non ci sei andato a letto?
Se l’era chiesto anche lui, a bordo dell’auto di Fabrizio, mentre tornava a casa, poi nel letto in casa sua, e ancora in ufficio. La verità era che più ci pensava, più gli venivano in mente ragioni per cui aveva fatto bene ad andarsene. Ma bastava ricordare il passato – come si sentiva con Chantal –, bastava riflettere sul futuro – come si sarebbe sentito con Azzurra pochi giorni –, bastava vivere il presente – come si sentiva senza una e senza l’altra – e tutto sembrava essere come avrebbe dovuto.  
- Perché non era giusto, – rispose semplicemente.
- Per chi?
Achille scrollò le spalle.
- Per te, per me, per lei. Ci tengo a te, anche se al momento ti è difficile crederlo.
- Okay. – Il riccio fece una smorfia imperscrutabile che spinse Azzurra a spiegarsi meglio. – Ti credo.
Lei gli credeva. Così, senza il bisogno di chiedere delucidazioni o di approfondire l’argomento. Si fidava, insomma. Bene. Era una bella cosa, giusto? Achille ci pensò un attimo e non capì. Azzurra era una donna, e in quanto tale, dietro ogni sua parola apparentemente innocua per l’intero universo maschile celava un immenso mondo di trappole e significati oscuri. Per quanto tutto ciò potesse sembrare paradossale, era lui a non fidarsi del fatto che lei si fidasse.
- Sul serio? – osò domandare. – Non per tirarmi la zappa sui piedi, ma mi aspettavo che dessi fuori di matto e bruciassi la bandiera francese o mi rasassi i capelli a zero.
Lei lo guardò sorpresa e infastidita.
- Sono una signora, Achille. Le tue insinuazioni mi offendono.
Ogni uomo dotato di una buona dose di raziocinio a quel punto avrebbe taciuto, si sarebbe dato un cinque da solo e avrebbe ringraziato tutti gli dei protettori della casa e del focolare di aver superato indenne una tale prova. Ma ad Achille Quaresmini le cose facili non erano mai piaciute.
- Hai montato un caso internazionale per due pesche e un’albicocca, sono solo stupito che tu ti stia rivelando così comprensiva…
Azzurra gli lanciò un’occhiata scocciata e cominciò a tamburellare sul pavimento con il piede, indecisa se dargliela vinta o continuare con quella mezza farsa.
- Lo sapevo, okay? – sbottò all’improvviso. – Sapevo del vostro incontro.
- Come?
La domanda del riccio si collocava a metà tra un “In che modo potevi saperlo?” e un “Scusa, puoi ripetere? Devo aver capito male”. Purtroppo per Azzurra, lui aveva capito bene e lei stava per fornirgli la risposta al primo quesito.
- Potrei aver chiamato Fabrizio e lui potrebbe avermi scambiato per tua sorella, – disse vaga.
- Potrebbe?
- Deve avere mal interpretato le mie parole, – spiegò.
- Quali?
- Tipo “Ciao Fabrizio, sono Elettra”…
Achille le sorrise divertito. Adesso gli era chiaro perché lei diceva di fidarsi di lui; con le dovute precauzioni e indagini preliminari, pure l’apostolo Tommaso si sarebbe ricreduto.
- Beh, ora capisco come possa essersi confuso…
- Avevamo litigato, non rispondevi al cellulare, Chacquetta era tornata in città, stavo solo cercando di preservarti dal fare un errore gigantesco.
Oh, certo, si era spacciata per sua sorella per evitare che lui finisse in una situazione compromettente con la sua rediviva e recidiva ex.
- Quindi non è perché non ti fidavi…  – suppose.
- Era più una cosa patriottica,  – lo informò lei, persuasa dalle sue stesse parole, – non mi piacciono i francesi. Ci hanno rubato la Gioconda!
- Non credo sia stata Chantal a commettere il furto.
- Che fai, ora? La difendi? E prova a nominarla un’altra volta e vedi cosa succede ai tuoi amati ricci.
- Hai ragione, Chantal. Oh, scusa, intendevo dire Azzurra!
Lei lo gelò all’istante con due occhi arrabbiati e Achille comprese che lo scherzo era finito.
- Non sapevo del bacio, solo dell’incontro, – continuò lei. – E la cosa mi ha fatto diventare parecchio territoriale ed è per questo che ho tentato, molto bene aggiungerei, di sedurti con il babydoll e il resto. Ma sai, poi ci sono stati quei problemi tecnici…
- Non c’è alcun problema tecnico! C’ero solo io disperato e eccitato come un criceto che cercavo di rispettarti. Non volevo farlo con te prima di averti parlato di questa storia.
Lei bofonchiò uno ‘speriamo’ contro il vetro appannato, che lui non si lasciò sfuggire. La raggiunse accanto alla finestra, però si limitò a starle dietro, a debita distanza. Era il suo modo di dirle che era una sua decisione scegliere se averlo vicino o meno, ma, in ogni caso, lui ci sarebbe stato. Nessuna pressione.
- Hai fame? – cambiò argomento, dirigendosi verso la cucina. Aveva notato come le sue spalle si fossero irrigidite, l’imbarazzo era palpabile. – Sono le otto passate e ti avevo promesso una cena, perciò…
- A dire il vero, no. Posso usare solo un secondo il bagno? – gli chiese lei, la confusione che lui avrebbe potuto tranquillamente sul suo viso, se non si fosse rifugiato con la testa nel frigorifero, in teoria a cercare qualcosa da mangiare, in pratica per sfuggirle.
- Certo, figurati. Ricordi dov’è, no?
Avvertì il rumore della porta in fondo al corridoio e comprese che sì, a quanto pareva lo ricordava. Ritirò la testa dal frigorifero e lo chiuse, domandandosi per quale oscuro motivo le cose dovessero essere così maledettamente complicate. Si era tolto un peso, raccontandole di Chantal, ma a che prezzo? Una serata di disagio totale, lui barricato in cucina, lei nel bagno. Aveva bisogno di zuccheri. Aprì la biscottiera e vi rinvenne tre Gocciole: se le sarebbe fatte bastare. Una sbirciata sulla superficie riflettente del forno gli rimembrò la camicia sbottonata che, se nella condizione di prima poteva conferirgli un non so che di sexy, ora lo faceva sembrare un tronista tamarro in vacanza in Costa Smeralda. Si avviò verso la propria camera da letto; sentiva il bisogno di cambiarsi, indossare qualcosa di più comodo del completo da bancario serio e topo di biblioteca.
Doveva ammettere che il confronto era piuttosto impietoso: Azzurra era molto più brava a sbottonargli la camicia… potendo scegliere, lo avrebbe fatto fare sempre a lei. Si tolse  pantaloni e calze e li buttò sulla poltrona nell’angolo. Aprì l’armadio e cominciò a cercare un paio di jeans e un maglione, ma una mano gelata poggiata sulla schiena lo fece saltare dalla sorpresa e dal freddo. Per poco non picchiò il naso contro lo scaffale in alto delle magliette.
Azzurra rise a crepapelle e quel suono fece comprendere al riccio che forse c’era ancora speranza che la serata non si concludesse con una stretta di mano e false promesse di rivedersi.
- Vedo che mi hai già tolto il piacere di spogliarti… – ammiccò lei.
Ehm… cosa era successo nel bagno? Droga? Magia? Achille non sprecò nemmeno un momento a domandarsi il motivo di tanta fortuna.
- Veramente mi stavo cambiando, ma vedo che la tua mente pervertita ha subito pensato che mi stessi offrendo. – Azzurra lo guardò stupita. – E non fare quella faccia, sei tu quella ad essere entrata di soppiatto in camera mia.
- Hai lasciato aperta la porta, – gli fece notare. – Era un chiaro invito ad entrare. Ma se così non è…
Gli diede ad intendere che se lui non gradiva la sua presenza, lei non si sarebbe fatta problemi ad andarsene. Lui l’afferrò per un braccio, un attimo prima che lei si girasse per uscire. L’avvolse in un abbraccio e lei si lasciò coccolare, mentre il suo cuore cominciava a battere più forte. La stringeva così forte che ad Azzurra venne voglia di non andarsene più, né quella sera, né mai.
Achille era caldo, nonostante non indossasse che un paio di boxer e fosse scalzo sul pavimento freddo. Si godettero quel momento di calma, dopo giorni di tempesta ed incomprensioni. Lui le scostò i capelli dalle spalle e parve ricordare solo in quel momento che lei era ancora vestita. Purtroppo. Doveva rimediare. Le bloccò la nuca con una mano e la bacio sulla bocca: ora che ce l’aveva tra le braccia, non l’avrebbe fatta scappare, né in bagno, né altrove. Si spostò sulle guance, sulla fronte, perché Azzurra era bollente e lui aveva un disperato bisogno di calore… la vide tenere gli occhi bassi e poi chiuderli, le labbra semiaperte e la testa leggermente reclinata indietro. A ben pensarci, si stava scaldando da solo.
 
Azzurra rimase così per qualche secondo, in attesa un morso, analogo a quello che Diana aveva rifilato ad Achille, perciò aspettò che arrivasse il dolore, ma lui si limitò a posarle un bacio leggero sulla punta del naso. Si sorrisero a vicenda e lui fece per toglierle il cardigan, ma lei lo bloccò. Il riccio la fissò disorientato – se aveva cambiato idea a quel punto era disposto anche ad implorarla –, ma Azzurra lo fissò negli occhi con tutto il candore di cui era capace e se lo sfilò da sola. Aprì la zip a lato dell’abito verde scuro che indossava, scostò le spalline e lo fece scendere lungo le gambe, insieme ai leggins.
Era il suo modo di fargliela pagare: lui l’aveva privata del piacere di svestirlo poco alla volta e ora avrebbe scontato la pena, guardando lei fare altrettanto.
Forse non si rendeva conto di quanto la cosa potesse essere ugualmente eccitante agli occhi di Achille. Una donna che si levava gli abiti per lui era comunque un bel successo.
- Beh, non è il babydoll dell’altra sera… – alzò le spalle e finse di essere deluso dal semplice e discreto intimo nero che Azzurra indossava.
- Beh, l’altra sera non ha funzionato. E non parlo solo del babydoll, – gli rispose a tono.
Lui si avvicinò di nuovo, punto nell’orgoglio da quel continuo alludere ad una sua – e l’avrebbe ribadito fino alla morte – presunta morte del cigno. Cercò la bocca della ragazza e giocò con la sua lingua, stringendola a sé, ora che entrambi erano mezzi nudi e accaldati. La fece indietreggiare fino a farla sedere sul letto e continuò a baciarla mentre lei si stendeva sotto di lui. Percorse con una mano e con le labbra una linea immaginaria dalla gola al bordo degli slip di Azzurra, attraverso l’incavo dei seni e l’ombelico. Le divaricò appena le gambe, abbastanza perché la ragazza andasse in iperventilazione all’idea di vedere – finalmente! – quei benedetti ricci in mezzo alle cosce. Trattenne il fiato nell’istante in cui Achille le leccò e mordicchiò delicatamente l’interno coscia, non le sembrava di aver mai atteso qualcosa con tanta impazienza. E quando il suo tocco sparì, così, all’improvviso, proprio nel momento in cui lei credeva di liquefarsi sulla trapunta a righe, sentì il proprio piede muoversi. Si sollevò quel poco per puntellarsi sui gomiti e capire dove fosse finito Achille; lo trovò intento a disfare il piccolo fiocco che lei aveva fatto alle stringhe delle francesine che portava.
Francesine? Le avrebbe buttate.
Lui ripeté l’operazione anche con l’altra scarpa, mentre Azzurra lo fissava sbigottita, le guance in fiamme e nulla da dire, perché qualsiasi cosa le sembrava troppo stupida, troppo volgare, troppo imbarazzante. Achille la osservò di sottecchi e poi scoppiò a ridere.
- Che ti aspettavi, signorina? – La prese in giro.
Azzurra diventò rossa di vergogna, ma non si perse d’animo: si mise a sedere, si sganciò il reggiseno e lo fece cadere sul letto. Achille rimase di stucco; si sforzava di sostenere la sua espressione di sfida, ma lo sguardo continuava imperterrito a cadergli sul seno scoperto della ragazza.
- Che aspetti, Achille? – lo canzonò. – Oh, finalmente c’è un po’ di vita in quei boxer! Cominciavo a perdere le speranze…
Il riccio non ebbe bisogno di controllare che ciò che Azzurra aveva appena detto corrispondesse alla realtà. La sgradevole sensazione di essere alle strette non era dovuta solo al fatto che il comando della situazione fosse tutto nelle mani di lei, ma era anche fisica. E riguardava l’unico indumento che ancora aveva addosso. Si abbassò le mutande con nonchalance ed emulò il gesto di poco prima di Azzurra, gettandole a terra. Ma lei era molto più brava nel gioco di non distogliere gli occhi dal suo viso. Scivolò sul bordo del letto e si alzò in piedi, decisa a levarsi a sua volta gli slip.
Achille, però, la fermò. Poteva dargliela vinta su tante cose, ma non su quello. Sostituì le dita di lei con le sue e accompagnò l’ultimo indumento rimasto a separarli fino al parquet. Lei si adagiò sul letto e lui la coprì con il proprio corpo. Ripresero a baciarsi e toccarsi con frenesia, rotolandosi sulla trapunta, ingarbugliandosi nel lenzuolo e tra le gambe dell’altro.
- Un’ultima cosa, – esclamò lei, interrompendo una lunga sequenza di carezze più o meno lecite. – Non credo di poter reggere altri preliminari. Due mesi sono sufficienti.
Il riccio le sorrise. Okay, sapeva leggere nel pensiero.
- Grazie a Dio.
Allungò il braccio fino al comodino e ne trasse una scatola di preservativi. Ne estrasse uno e ne strappò con i denti la carta argentata. Per non lasciare silenzi imbarazzanti durante tutte quelle operazioni, non perse occasione per fare il cretino.
- Se fossi un tipo vanitoso, ti farei notare come tutto funzioni perfettamente in me… – scherzò, ma non troppo.
Azzurra roteò gli occhi e se lo trascinò addosso, aiutandolo a sistemarsi tra le sue gambe. Achille entrò in lei con delicatezza, dandole il tempo di abituarsi a quell’intrusione, ma non fu altrettanto clemente con le spinte successive, quando sentì la necessità di farle capire quanto lei fosse desiderabile anche senza babydoll e ninnoli vari e soprattutto di dimostrarle che la sua virilità non aveva nulla che non andava.
 
Lei lo lasciò fare, fino a quel momento aveva giocato con lui, ma sapeva che voleva essere lui a condurre i giochi e lei aveva tutte le intenzioni di permetterglielo. Lo assecondò nei movimenti e nei gemiti, negli affondi e nei sorrisi di complicità appena accennati, a fior di labbra.
 
Azzurra aveva i piedi gelati e naturalmente li aveva infilati entrambi tra le sue gambe, facendogli venire la pelle d’oca. A dirla tutta, aveva anche il respiro pesante. E pesante era un eufemismo: sembrava di avere accanto un rinoceronte.
Ronzii.
Si erano appisolati poco dopo aver fatto l’amore, sopraffatti dalla stanchezza, dallo stato di assoluto relax e tepore, sotto le coperte invernali. Secondo la sveglia sul comodino, dovevano aver sonnecchiato per un’oretta, ma adesso, con quei ghiaccioli conficcati nelle cosce, il corpo di Azzurra spiaccicato lungo il fianco e la sua mano spalmata in faccia, dormire appariva impraticabile.
Le passò le dita tra i capelli, accarezzandoli delicatamente. Cercava di essere tenero e se nel frattempo lei avesse smesso, per pura fortuna, di russare come un ferrotranviere siberiano, tutto di guadagnato. Azzurra emise un suono che gli parve un miagolio, poi si stirò e sbadigliò, avvinghiandosi a lui come un babbuino. Oh, che sensazione celestiale: si era coricato con una donna, si ritrovava con un incrocio tra una scimmia e un gatto.   
- Ehi, Pisolo. – le sussurrò.
Lei impiegò qualche istante a fare mente locale: era nuda, in un letto altrui e sentiva l’impellente bisogno di andare in bagno e sistemare l’impiastro là sotto.
- Che ore sono? – bofonchiò.
- Tardi per andare a casa. Resti qui con me, – le rispose Achille. In realtà non erano che le 21.30, ma lei mica lo sapeva.
- Mi stai sequestrando? – domandò sospettosa, puntellandosi con un gomito sul cuscino per guardarlo dritto in faccia. Il riccio la imitò e si trovarono così faccia a faccia.
- Sì, – rispose sorridente.
Lo sguardo di Achille scivolò nel punto in cui il lenzuolo e la trapunta rimanevano tesi, incapaci di nascondere il petto di Azzurra; si congratulò per il proprio occhio clinico:  terza coppa b confermata. O forse ci voleva un ulteriore controllo…
Le destinatarie di tante attenzioni vennero prontamente coperte sotto il piumone dalla loro proprietaria. Achille sorrise, consapevole di essere stato beccato in flagrante, ma per un paio di tette, questo e altro. 
- Ho già individuato una mezza via di fuga in bagno, – lo informò Azzurra.
- Quindi è questo che è successo prima!
Droga e magia, però, sarebbero stati più divertenti.
- Ho provato a scappare dalla finestra, ma era troppo piccola, perciò ho pensato che l’unico modo di fuggire fosse fare sesso con te.
Achille tornò a sdraiarsi e si finse addolorato da una tale esternazione.
- Quanto romanticismo, Trent!
La ragazza fece spallucce.
- Uno dei due dovrà pure dimostrarne un po’…
Lui la trascinò addosso a sé, le stampò un sonoro bacio sulla tempia e le morse un orecchio.
- Mi sei mancata in questi giorni.
Lei cercò di divincolarsi e roteò gli occhi.
- Non fare lo sdolcinato, ora! – lo rimbrottò.
- Sdolcinato? Azzurra, il mio cuore si è fermato nel momento stesso in cui sei corsa via da me, oh mio raggio di sole. I tuoi occhi sono gemme preziose, i tuoi seni due tondi perfetti, la tua pelle è di seta. Stellina mia, staremo insieme per sempre, perché la mia vita senza te non vale nulla. Faremo l’amore in tutti i luoghi e in tutti i laghi, in tutto il mondo e l’universo…
Azzurra si tappò le orecchie per non ascoltare quello strazio smielato con cui Achille la stava prendendo in giro.
- Basta! – gridò, ma lui non si scoraggiò e proseguì la sua altisonante dichiarazione degna di un Harmony. 
- Sei il mio apostrofo rosa, il mio amor ch’a nullo amato amar perdona, l'Amore che è tutto e che è tutto ciò che sappiamo dell'Amore, perché sei il mio essere speciale ed io avrò cura di te!
Azzurra stava ridendo senza contegno, mentre lui le urlava nell’orecchio e le faceva il solletico per convincerla a starlo a sentire.
- Ma di che diavolo stai parlando? – ridacchiò.
Achille le bloccò le braccia e gambe con le sue e le disse, fintamente serio.
- L'amore è non sapere di cosa si sta parlando, – recitò lui.
La ragazza alzò un sopracciglio e provò ad indovinare l’autore della citazione.
- Nicholas Sparks? Winston Churchill? Socrate?
- Lucy Van Pelt.
I Peanuts. Lui aveva appena citato i Peanuts, con lo stesso pathos con lui l’avrebbe fatto con un grande poeta romantico. Azzurra gli diede un pizzicotto sul braccio a cui lui reagì con un esagerato urlo di dolore e di lamentele. Achille fece per brontolare, ma lei lo baciò, prima che lui potesse arrivare anche solo ad aprire bocca.
- Zitto e coccolami, scemo.
 
- Vuoi dirmi che non sarei dovuta tornare?
- No. Sono contento tu sia qua. Se non l’avessi fatto, probabilmente mi sarei chiesto per sempre se stavo vivendo ancora nel tuo ricordo, aspettando un tuo ritorno. E la risposta è no.
- Non è la risposta che mi aspettavo.
- È l’unica che avrai, Chantal.
 
Nascosto sotto il piumone fin sopra alla testa, Achille Quaresmini aveva sonno. Tanto sonno. Azzurra gli aveva riservato una sinfonia di Natale a colpi di ronf-ronf e colate di bava sul cuscino per tutta la notte. E ora, alle 6.45 della mattina, era sotto la doccia a cantare a squarciagola Con te partirò. Achille si domandava come i vetri di casa sua potessero essere ancora integri con quegli strilli.
Era bello avere Azzurra per casa, vederla gironzolare con il suo maglione o addirittura senza nulla addosso. Era carino sentirla borbottare tra sé o commentare ogni singola cosa. Era discretamente piacevole dormire con lei, anche se poi lo relegava in un angolino e lei si prendeva il resto del letto. Era abbastanza terribile svegliarsi con la sua interpretazione di classici della musica italiana: piuttosto forte e stridulo per essere un ronzio.
Achille si alzò dal letto, attento a non fare rumore, poi si avvicinò alla porta del bagno e premette la maniglia. Azzurra era il suo ronzio e aveva intenzione di averla intorno per molto tempo. Ma nulla vietava di trovare un senso alternativo alle sue urla mattutine.
 
 
Rieccomi! Bando alle ciance, vi dico solo che le citazioni fatte da Achille sono di Dante Alighieri, Emily Dickinson, Edmond Rostand, Franco Battiato e (mi vergogno a scriverlo accostato ai nomi appena citati) Valerio Scanu.
Ringrazio Triggy, Neppie e Rosie perché sono tre emerite rompipalle e Nep anche perché ha betato.
Spero di tornare presto!
S.
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Donne ***


Di semidei e tinte pastello.

Donne.

Achille aveva sganciato la bomba mentre erano nel letto di casa sua.
No, non il genere di bomba che ti fa alzare di corsa ad aprire le finestre per arieggiare… molto peggio. A conti fatti era meglio una puzzetta – quella almeno se ne sarebbe andata con il vento –, al contrario di quelle terribili cinque parole che erano rimaste ad aleggiare nel cervello di Azzurra per i trenta minuti successivi, quando lui si era già addormentato, un braccio ciondoloni sul suo corpo. E lì, circondata da quegli arti che ormai le parevano più artigli, si era sentita improvvisamente inquieta.
Non erano solo cinque parole. Erano le cinque parole.
- Credo dovresti conoscere i miei.
Oh, Vergine Madre delle Ande! I suoi genitori? Gesù, che aveva fatto di male? Era perché aveva russato troppo forte la notte prima? Perché gli aveva finito i biscotti con la scusa palesemente falsa della sindrome premestruale? Perché continuava a propinargli le stagioni di Downton Abbey? Andiamo, ormai si era appassionato anche lui, anche se non l’avrebbe mai ammesso. E se era di nuovo per quello spoiler che le era scappato sulla morte di Lady Sybil, si era già scusata venti volte e aveva già pure espiato, sopportando una settimana di broncio.
Mah. Più ci pensava, più non capiva cosa mai avesse combinato per meritare di essere spedita nelle fauci di mamma Quaresmini. Non l’aveva mai incontrata dal vivo, ma a giudicare dal tono acuto da ultrasuono canino che proveniva sempre dal cellulare di Achille, le faceva paura. Le sembrava di ricordare che si chiamasse Dorotea o Dora, qualcosa del genere. Però era certa che, in qualità di fidanzata del suo unico figlio maschio, la sua reazione alla presentazione sarebbe stata inequivocabile: odio profondo. O peggio, odio profondo malcelato dietro una fredda cortesia. Si doveva aspettare sputi nel caffè, forchette leccate dal cane e chissà quale altra schifezza. Magari c’era speranza di piacere al padre, Ettore, del quale non sapeva pressoché nulla, se non che era tifoso sfegatato della Juventus, come il figlio del resto, e che quando potevano si trovavano a guardare le partite insieme. Poteva rinfrescare le sue nozioni calcistiche e provare ad impressionarlo con qualche statistica scaricata da internet… visti i precedenti con le ricerche sulla rete per far colpo su uno dei Quaresmini, perché non tentare con un altro membro della famiglia?
Achille aveva biascicato qualcosa nel sonno, distogliendola dai suoi pensieri. Grazie a Dio da un paio di mesi si era iscritto in piscina con Fabrizio e ci andava due volte a settimana, ogni lunedì e giovedì; quando tornava era così stanco che si lanciava verso il tavolo, mangiava come se non ci fosse un domani e poi andava a dormire, trascinandosi come un orso obeso e incinto verso il letto. Menomale era giovedì. Ed era Aprile, e la sua simpatica allergia alle graminacee ed affini aveva contribuito a metterlo ko: praticamente si era addormentato ancor prima che lei avesse l’occasione di dire qualsiasi cosa.
Chissà… magari se ne sarebbe dimenticato.
 
- Allora, Trent? A quando la cena dai miei?
Maledetto. Azzurra si stava insaponando sotto la doccia, ma non appena udì quella frase si bloccò. Rimase nuda e infreddolita sotto il getto d’acqua tiepido, ad un tratto le quattro pareti del box doccia sembravano una gabbia. Non sarebbe più uscita da quel bagno, se ciò avesse comportato dover dare una risposta ad Achille. Quella era pur sempre casa di lui, ci dovevano essere delle scorte di cibo nel mobiletto sotto il lavello o dietro il termo-arredo.
 
Lui era impegnato a farsi il nodo alla cravatta davanti allo specchio della sua camera e non poté godersi l’espressione di puro panico che si era dipinta sulla faccia di lei. Attese almeno trenta secondi una risposta che non arrivò, poi smise di aspettarla. Sorrise soddisfatto: che tenera, Azzurra doveva essere emozionata per la proposta. Insomma, presentarla ai suoi genitori era un passo importante, significava che aveva davvero intenzioni serie con lei, come se non gliel’avesse già dimostrato, poi. Probabilmente stava saltellando dalla gioia in bagno e non trovava le parole per esprimere la sua contentezza. Adorabile.
- Azzurra? – riprovò.
 
Nella doccia, la ragazza si guardò intorno freneticamente per cercare una via di fuga. Constatò che ogni volta che voleva o doveva scappare da Achille, si ritrovava nel suo bagno. Forse era perché era un ambiente così accogliente, così confortevole, così… non aveva il tempo di cercare altri aggettivi.
Merda, merda, merda.
Avrebbe finto di non aver sentito, ecco. Peccato che la voce del riccio si stesse facendo sempre più vicina. Qualche secondo più tardi, infatti, stava bussando alla porta.
- Ehi?
Lei capì che avrebbe dovuto improvvisare qualcosa, e in fretta. Si congratulò con sé stessa per avere chiuso a chiave la porta – e perciò avrebbe ringraziato sia la sua regolarità intestinale, sia le sue paranoie sul non farsi beccare sulla tazza del water dal suo ragazzo – e accese la radio nella doccia. Si sciacquò alla velocità della luce, cominciando a canticchiare a voce alta, affinché Achille capisse che non era morta lì dentro. Passò veloce un asciugamano sui capelli fradici e si avvolse nell’accappatoio che aveva lasciato sull’attaccapanni per quando si fermava a dormire da lui.
Achille bussò più forte.
- Trent?
Mentre si infilava reggiseno e mutande e le punte dei capelli le sgocciolavano sulla schiena ancora umida, Azzurra fece una smorfia di dolore. Perché lui voleva rovinare tutto? Non stavano bene insieme? C’era bisogno di coinvolgere sua madre?
- Non ti sento! – gli urlò, sperando di zittirlo.
Indossò un vestito giallo e tralasciò le calze, le avrebbe indossate a casa sua o in macchina. Prese un respiro profondo, prima di aprire la porta e schizzare fuori dalla stanza e nella camera da letto.
- Eccoti, finalmente! – le disse Achille. – Stavo dicendo…
Lei lo zittì con un bacio che lo colse impreparato, ma non meno propenso a riceverlo.
- Devo scappare, – si affrettò ad aggiungere.
Il ragazzo le fissò la capigliatura madida e sconvolta, chiaramente non pettinata. Magari questo dettaglio non lo avrebbe fatto presente.
- Hai tutti i capelli bagnati, ti ammalerai…
Azzurra recuperò borsa e cartelletta dei lavori e afferrò veloce il soprabito. Le chiavi della macchina erano disperse in qualche tasca, ma non aveva tempo di cercarle. Per questo esisteva il tragitto fino al parcheggio.
- Passo da casa, mi cambio, vado a lavoro, poi pausa pranzo, poi di nuovo lavoro… ci sentiamo, eh? Ciao!
 
Non gli restò che fissarla sorpreso uscire di casa sua come una furia. Scalza. Ecco infatti il campanello suonare all’impazzata. Achille roteò gli occhi e sorrise, afferrando le scarpe, prima di andare ad aprire la porta.
- Merda, cazzo… scusa. Ho dimenticato le scarpe! – Azzurra lo sorpassò, carica ancora di tutte le sue cose e iniziò a cercare il paio di ballerine che aveva indossato la sera precedente. Controllò sotto il letto e il comodino, persino tra le coperte, mentre imprecava sul ritardo e su un tale Lloyd Wright che Achille non sapeva chi fosse.
- Architetto? – la chiamò cantilenando.
- Eh? Che c’è? – lei allargò il raggio della sua ricerca fino al bagno.
- Ce le ho io, le tue scarpe.
La ragazza corse di nuovo alla porta, gli diede di nuovo un bacio e afferrò il prezioso tesoro. Avanzò saltellando con un piede e poi con l’altro per infilarle e si congedò con un ciao frettoloso dai tre gradini dell’entrata.
Oh, sì. Quella sbadataggine era un chiaro sintomo di profonda commozione.
 
Per fortuna, Dalila non si era fatta pregare troppo. Non ne aveva avuto il tempo. Aveva fatto il turno di notte in ospedale ed aveva progettato di dormire per buona parte della mattinata, magari godendosi un brunch ipercalorico a base di gelato direttamente tra le coperte, ma la chiamata di Azzurra alle 8.27 l’aveva svegliata inesorabile. Era stata aggredita dalla parlantina dell’amica, che l’aveva confusa a tal punto da non rendersi neppure conto di aver accettato di pranzare con lei in città all'una in punto. Inutile dire che non aveva potuto disdire; la voce di Azzurra era così disperata che temeva le fosse successo qualcosa di grave. Naturalmente un grave nella scala Trentini, cioè nulla di preoccupante.
Rimase sotto il piumone finché poté, poi si vestì con il primo abito che trovò e indossò degli strategici occhiali da sole per coprire le occhiaie sopravvissute all’attacco del correttore.
Lasciò l’auto proprio vicino al bar, punto d’incontro, in uno spazio dedicato al carico e scarico: non aveva intenzione di pagare per il parcheggio più in là o tantomeno lanciarsi in una ricerca per un posto libero gratis. Constatò che c’era crisi, i negozi erano vuoti, non c’era necessità di caricare e scaricare la merce mentre lei pranzava. Potevano farlo in un altro momento.
 
Azzurra la stava già aspettando, seduta ad un tavolo. Si stava guardando intorno come un segugio, neanche stesse facendo da palo durante una rapina. Parve calmarsi, non appena scorse l’amica arrivare con passo rilassato – un po’ troppo per i suoi gusti. Ma non aveva sentito lo stato di agitazione nella sua voce al telefono? – e le fece cenno di muoversi più celermente.
- Non ho capito un corno di quello che mi hai detto al telefono, stamattina. – esordì l’altra, accomodandosi proprio di fronte a lei.
- Solo tre parole: conoscere i suoi. – Dalila alzò le sopracciglia. – Genitori.
- Sono quattro.
Azzurra arricciò il naso dal disappunto.
- No, erano tre; ho dovuto aggiungere la quarta dopo.
- E allora perché non l’hai detta subito? – sbuffò l’altra, brandendo la lista di piatti del giorno.
- Perché pensavo avresti capito.
- Pensi che non abbia capito? – ribatté con noncuranza.
- Non lo so… Hai capito?
Dalila digrignò i denti e abbassò il menu, fissando Azzurra da sopra gli occhiali da sole.
- Sono stanca, tesoro, non scema. Da uno a dieci, quanto sei impazzita quando te l’ha detto?
Beh, era difficile fare una stima così, su due piedi. Era un’adulta ed era perfettamente in grado di gestire la situazione, non è che sarebbe corsa da sua madre in lacrime per la paura d’incontrare i signori Quaresmini… un bagno sembrava più appropriato. O anche un pannolino.
- Mmm… cinque? – scrollò le spalle.
- …cento?
Un cameriere interruppe quello strazio di conversazione con un sorriso che apparve ad entrambe fuori luogo. Per fortuna le notevoli dimensioni del bicipite si rivelarono avere degli effetti curativi; quasi quasi Dalila non era più dispiaciuta di essere stata catapultata fuori dal letto.
- Buongiorno. Siamo pronti? – domandò con gentilezza.
Azzurra lo guardò come se avesse appena visto E.T. in sella ad una mountain-bike.
- Grazie, grazie di averlo chiesto! – sbottò, sorprendendo gli altri due. – È esattamente quello che mi sono chiesta anch’io. Siamo pronti? Voglio dire, è un passo importante, non è una decisione da prendere sottogamba!
Dalila e il cameriere si scambiarono un’occhiata confusa. Lui finse di dover sistemare qualcosa sul suo taccuino elettronico, mentre lei si limitava a fissare basita l’amica.
- Tesoro, temo si riferisse al pranzo.
- Dali, sarà una cena, credo.
- Oh Gesù, aiutami! Il pranzo di oggi: vuole le nostre ordinazioni.
Ah. Beh, francamente Azzurra era un po’ delusa. Ma d’altronde se lo doveva aspettare; in qualità di uomo, la sua profondità d’animo era pari a quella di un bicchiere di acqua. Vuoto.
- Okay, prenderò un’insalata di pollo.

- Facciamo due, – propose Dalila. – E una bottiglia di vino rosso. Molto piena, mi raccomando.
 
Il ragazzo appuntò tutto e  optò per non interagire ulteriormente con quelle due stramboidi. Sussurrò un perfetto a se stesso quando già si era già allontanato dal loro tavolo. Purtroppo, però, la tregua non durò molto: non appena ritornò per lasciare il vino, una delle due, quella che in apparenza sembrava la più normale – la sua valutazione si basava sul solo fatto che lei avesse capito la questione ordinazioni – gli rivolse la parola.
- Ehi, puoi portaci anche il dolce, dopo l’insalata?
Oddio, si sarebbero trattenute ancora più tempo! Non gli rimaneva che sperare che intendesse un vero dessert e non lui, come purtroppo era già capitato con una sessantenne sgallettata e una turista tedesca con più denti che capelli.
- Certo. – si sforzò di sorridere.
- Due fette di torta della suocera, grazie.
Non riuscì a sospirare dal sollievo, perché quelle due cominciarono a ridere a crepapelle. Cercò di fingere che la cosa non lo turbasse, ma alla fine cedette: si voltò per assicurarsi che non si stessero prendendo gioco di lui. Ma ecco che, mentre quella più normale stava continuando a sghignazzare incontrollabile, l’altra, cellullare alla mano, sembrò sull’orlo di una crisi isterica.
Il ragazzo scosse la testa, tornò verso l’interno del bar e catalogò l’episodio con una sola parola: donne.
 
Era da almeno un’ora che le ripeteva che sarebbe andato tutto bene – senza che peraltro lei desse il minimo accenno di dubitarne –, ma ormai lui stava cominciando ad agitarsi. In realtà, era onestamente convinto che a suo padre sarebbe piaciuta, il problema vero era sua madre. Lei poteva essere… poco disponibile talvolta, per così dire, Achille ne era ben consapevole.
Dora Quaresmini era la classica mamma chioccia, di quelle che ti chiamano ogni giorno per chiederti se hai mangiato a sufficienza e che hanno la lieve tendenza a non vedere di buon occhio la fidanzata di turno del proprio pargoletto, perché è brutta, cattiva, antipatica o osa indossare abiti sopra al ginocchio, il che notoriamente nell’ambiente delle madri chiocce significa che è una poco di buono e che non sarà una buona madre con i suoi futuri ed eventuali bambini.
Ad Elettra era andata molto meglio: in qualità di figlia femmina, non aveva dovuto sottostare alla ferrea legislazione di Dora in fatto di fidanzati… non che si fosse sforzata più di tanto, in ogni caso; aveva sposato il primo che aveva portato a casa, Pier il ragionier, come lo chiamavano in famiglia. Stime di Achille attestavano la nascita della loro relazione ai tempi della formazione della Mezzaluna fertile, secolo più, secolo meno. Poi a venticinque anni si erano sposati e infine era nata Diana, la gioia della nonna, in grado di cancellare qualsiasi difetto del genero. Certo, lui non aveva un nome di origine greca – Dora aveva fatto controllare ad Ettore su internet: ebraico, era stato il verdetto – e ciò minava un po’ l’equilibrio della famiglia, ma tutto sommato era accettabile.
Il padre di Achille era molto più pacato e si limitava ad accertare un aspetto più pregnante: la felicità dei figli. Ormai la prima era maritata e aveva cominciato a mettere su famiglia, adesso restava il piccolo di casa e tutti sapevano bene che non sarebbe stato così semplice; Dora Quaresmini non avrebbe dato il suo benestare con troppa facilità. Nella sua testa, esisteva una e una sola donna adatta a stare con il suo bambolotto riccioluto tutta la vita: se stessa.
Achille rabbrividì al solo pensiero. Per quanto adorasse sua madre e i suoi dolci, non poteva proprio concepire l’idea di fare il Tanguy di turno e accamparsi nel salotto dei suoi per sempre.
- Trent, sei pronta? – le chiese, giusto per distrarsi dall’orrida immagine di lui e sua madre per il resto della loro vita insieme.
Erano nell’appartamento di Azzurra, un openspace in cui lei non aveva via di fuga. Spuntò fuori dal bagno con un mezzo sorriso, a mascherare l’apprensione in vista della serata. Indossava un vestitino chiaro a motivi geometrici e una giacca tipo motociclista rosa tenue. Niente tacchi, solo un paio di ballerine e shopper piuttosto ampia che recuperò dal divano. Sembrava nervosa, ma nemmeno troppo: forse il fatto di avere davanti un viaggio di un’ora e un quarto prima di arrivare a casa dei suoi faceva sì di tenerla tranquilla.
- Vado bene così? – gli domandò incerta, facendo una giravolta su se stessa.
Achille annuì, le andò incontro e le diede un sonoro bacio sulle labbra.
- Perfetta, – le sorrise. – E non sei neanche agitata! Fantastico!
Uscì dalla mansarda di via della Quercia 27 fiducioso: sarebbe stata una piacevolissima serata, avrebbero mangiato e bevuto e lei finalmente avrebbe conosciuto i suoi, sua madre l’avrebbe adorata e tutto sarebbe filato liscio. E lui avrebbe mangiato un sacco di dolci. Piacevolissima serata.
- Già… yuppie! – Azzurra smise l’aria gioviale e si appropinquò verso la porta.
 
Achille era un bravo ragazzo, dolce e anche bello; ma c’era qualcosa che proprio non era: intuitivo. Anche Achille il Felide, alias il gatto del vicino, si era reso conto che lei tutto era fuorché emozionata o tranquilla. Miagolò di compassione nella sua direzione, mentre lei ciondolava giù dalle scale con un’espressione di puro dolore in faccia.
Maledisse internamente Achille il Pelide e i tempi moderni: vent’anni prima, nessuno aveva un cellulare e a nessuno sarebbe venuto in mente di mandare un sms con scritto:
Mia madre ci ha invitato a cena domani sera. Le dico di sì?
Oh, stava per dimenticare: avrebbe maledetto anche Dalila e la risposta da lei digitata a tradimento, quando lei era in bagno a meditare sul da farsi.
Non vedo l’ora, Achi!
 
Sarebbe dovuta vivere nel nord Westfalia, in Germania, e viaggiare in una di quelle autostrade protagoniste di una serie tedesca che sua madre tanto amava, in cui ogni giorno macchine si spiaccicavano una sull’altra, formando rallentamenti, ingorghi, blocchi stradali. Magari anche senza spargimenti di sangue… un camion di traverso che impedisse loro di raggiungere la casa dei Quaresmini era più che sufficiente. E invece no. Abitava nel nord Italia e incredibilmente procedeva tutto tranquillo su quella cavolo di A4. Achille canticchiava sulla voce di Brian Johnson e ogni tanto le lanciava degli sguardi complici, che in verità non facevano che prolungare quell’ora di agonia che la separava dai suoceri. Non riusciva proprio a rilassarsi, tra gli AC/DC nelle casse dell’auto e il triste paesaggio industriale fuori dal finestrino. Guardava frenetica l’orologio ogni minuto, realizzando di essere sempre più vicini. Al casello di uscita, mentre Achille passava attraverso la sbarra e i due bip rauchi e prolungati del Telepass sparivano tra le note di Back in black, Azzurra si mise quasi a piangere. Pure il Telepass per evitare le code! Non gliene andava bene una.
Achille tamburellava gli indici sul volante come fossero le bacchette di una batterista, il che non faceva che contribuire ad innervosirla ulteriormente. Prese a chiudere l’occhio destro, che lui non poteva vedere, ogni volta che lui picchiettava il dito, quasi potesse ammortizzare quel rumore odioso; la smise quando le sovvenne l’immagine di John Cage di Ally McBeal, che si distingueva per il fischio del naso e la balbuzie, oltre che per il suo identificarsi idealmente di Barry White. Non poteva fare la fine di Biscottino… anche perché lei avrebbe scelto Grace Kelly.
- Dieci minuti e ci siamo. – le annunciò Achille.
Beh, comunque Grace Kelly era morta in un incidente automobilistico. Forse aveva ancora una chance.
Tutt’ad un tratto le venne in mente di aver lasciato nel frigorifero di casa la bottiglia di vino che aveva intenzione di portare come regalo. Che figura del cavolo! Invitata per la prima volta dai Quaresmini, arrivare con le mani vuote… dovevano tornare indietro!
- Achi, ho dimenticato il vino!
Forse ci aveva messo un po’ troppa enfasi nel constatare la mancanza; sembrava avesse annunciato l’arrivo del messia da un momento all’altro.
- Sta’ tranquilla. L’ho presa io, Trent, te l’ho messa nella borsa. – Ecco perché sembrava insolitamente pesante! – Conosco la mia polla.
Oh, ma che ragazzo solerte! Cominciava a detestarlo, lui e i suoi poveri stupidi ricci… no, non è vero, quelli rimanevano adorabili.
Azzurra lasciò che la musica colmasse quella apparente calma silenziosa e cercò di rassicurarsi: sarebbe andato tutto bene.
 
Niente andrà un cazzo bene! No! No! Andiamo via, dai!
Achille parcheggiò la sua auto sotto ad un albero, sebbene non ci fosse alcuna necessità di lasciare la macchina all’ombra; con tutta la pioggia che era scesa in quell’ultimo mese ci si poteva riempire nuovamente il lago di Garda.
Azzurra si stava mordicchiando le labbra, con l’aria nervosa di chi sta per sostenere l’orale della maturità. Cominciava a rimpiangere Chilmi – un nome, un programma –, il temibile prof di biologia che aveva reso il suo esame un inferno; Dora e Ettore Quaresmini erano due mostri, se lo sentiva. E poi lei era un disastro in queste cose! Nei suoi ventisette anni, si era trovata in questa dannata situazione altre due volte. La prima con Alberto, a diciotto anni; sua madre non la vedeva di buon occhio, ma tutto sommato Azzurra poteva capirla: il marito le aveva messo più corna di un alce alpino, perciò ogni essere di sesso femminile costituiva una minaccia. Lui, infatti, era viscido quanto un’anguilla cosparsa di Leocrema e non perdeva occasione per toccarla. La seconda volta era stata a ventiquattro anni, con i Gualla, i genitori di Diego. Erano due personcine fantastiche, la riempivano di attenzioni e coccole, torte e complimenti… peccato che in segreto stessero cercando di far tornare il figlio con la ex. Non c’era da stupirsi, perciò, se Azzurra era semplicemente terrorizzata all’idea di conoscere i Quaresmini. Per esperienza, nel momento in cui avvenivano le presentazioni ufficiali, il rapporto amoroso andava a rotoli; in sostanza, Achille stava ammazzando la loro relazione, seppur inconsapevolmente. Era suo espresso dovere opporsi.
- Ehm… Trent, scendiamo? – le chiese lui, in piedi fuori dalla macchina, ma con la testa nell’abitacolo
- No! – urlò di risposta, spaventando entrambi.
 
Achille la fissò frastornato: non poteva avere sbagliato i calcoli! Aveva scaricato la app apposita per controllare e non c’erano segni di triangolini rosa su quel cavolo di calendario. Azzurra non poteva essere in sindrome premestruale.
 
Lei si accorse di averlo confuso e tentò di rimediare.
- Cioè, volevo dire… tu sei già sceso. Tocca a me scendere. Ora scendo. – Di fatto non un singolo millimetro del suo corpo si mosse. – Adesso giuro che scendo.
- Trent, c’è qualche problema?
- No, no! – ridacchiò isterica.
 
Achille capì che era un po’ tesa. Le fece una faccia buffa e le offrì la sua mano. Azzurra la fissò per qualche istante, prima di decidersi ad afferrarla tra la sua e ad uscire definitivamente dall’abitacolo. Lui la condusse lungo il vialetto che portava alla bifamigliare in cui i suoi si erano trasferiti dalla campagna una decina di anni prima, proprio accanto agli zii. La ragazza camminava a piccoli passi, sembrava un brutto incrocio tra un robottino e una bambolina cinese. Praticamente la stava trascinando, più che ad una cena davano l’impressione di andare in gita in un mattatoio.
 
- Picci, sei sicura di star bene?
L’espressione d’insofferenza si acuì sul viso di Azzurra. Achille voleva giocare sporco: aveva tirato fuori il soprannome delle grandi occasioni, Picci. Nulla a che fare con piccola, piccina… no, lui aveva optato per un delizioso picciona, a causa della sua mania di sfamare ogni pennuto sulla sua strada. Lei aveva proposto un più romantico Cenerentola, ma lui aveva riso troppo forte anche solo per prendere in considerazione altre opzioni diverse dalla prima.
- A-ha, – deglutì.
- Sicura?
Azzurra si girò per vederlo in viso, poi scosse la testa. Era solo ad un paio di metri dalla cassetta della posta rossa fissata sul muretto di casa Quaresmini. Ci era così vicino da sapere che era di ghisa e che aveva dei graffi.
- No.
Il riccio rallentò, soltanto per infilare la mano tra le barre del cancellino ed aprirlo; come al solito, la chiave era infilata nella serratura interna.
- Ma posso sapere che ti prende? – La invitò a passare oltre la ringhiera di ferro, lungo il breve vialetto che li separavi dal portoncino verde dell’ingresso. – Eri entusiasta di conoscere i miei!
Azzurra, che fino a quel momento si era sforzata di risultare moderatamente tollerante all’idea di passare una serata dai genitori di lui, non riuscì a controllarsi.
- Entusiasta? Su quale pianeta?
Achille mollò la sua mano e le si parò davanti, sempre più sorpreso.
- C-cosa? Non vuoi incontrarli?
- No, sì… cioè, ho paura!
- Non sono mica Hannibal Lecter! – almeno non suo padre… – E, in ogni caso, avresti dovuto dirmelo prima. Siamo davanti a casa loro!
Le indicò la casa gialla alle loro spalle, come se lei non l’avesse già notata.
- Scappiamo! – propose lei, preda del panico più completo.
- Eh? Perché non vuoi entrare?
- Io… io… le cose stanno andando troppo velocemente, Achille…
Aveva palesemente detto la cosa sbagliata. O meglio, la cosa giusta, ma con le parole sbagliate. Lo capì subito, vedendo come gli occhi di lui si fossero ridotte a due fessure arrabbiate.
- Che cazzo vuol dire? – le disse infatti a denti stretti.
- No, aspetta, non era quello che intendevo. – cercò di farlo ragionare, ma Achille aveva appena cominciato e non aveva intenzione di fermarsi.
- Sto accelerando le cose perché voglio che i miei conoscano la mia fidanzata dopo mesi che usciamo insieme?
- No! – urlò, attirando l’attenzione di una vicina di casa che comparve da dietro un cespuglio. Aveva in mano un paio di cesoie, che continuava ad aprire e chiudere, sebbene stesse praticamente tagliando l’aria. Azzurra la fissò scocciata, ma lei neanche la vide: non era proprio la discussione ad attirarla, era più il sedere di Achille a incontrare il suo interesse. Le schioccò le dita finché quella non si decise ad alzare lo sguardo dal fondoschiena del riccio e a riabbassare la testa sull’arbusto.
- Mi ascolti? – urlò il ragazzo, stizzito dai problemi di concentrazione di Azzurra. – No cosa? Sto correndo anche sulla definizione di fidanzata?
Come poteva insinuare una cosa del genere? Non aveva forse visto come lei aveva appena difeso silenziosamente per giunta – e questo non era molto nel suo stile – le sue preziosissime natiche? Certo che era la sua fidanzata!
- Achi… – miagolò, ma fu ben presto interrotta da un rumore infernale. Nella fattispecie, il cigolio del portoncino che si apriva. Azzurra sperò soltanto che fosse il padre.
- Ragazzi! Mi sembrava di aver sentito le vostre voci!
Oh, era solo Elettra. Un attimo… Elettra? Che ci faceva lei lì?
- Ciao, – disse Azzurra imbarazzata.
Non sapeva se essere grata di avere un’altra faccia amica nella sera delle presentazioni al signor Quaresmini e a quel mostro a tre teste carnivoro meglio conosciuto come la sua consorte, oppure se mettersi a piangere all’idea di fare una figuraccia proprio davanti – anche – a lei in un momento così delicato.
- Su, su, entrate!
Achille non la degnò di uno sguardo ed entrò prima di lei. La sua graziosissima nipotina gli corse in braccio, reclamando attenzioni e caramelle. Azzurra realizzò che era stata una pessima trovata quella di litigare con lui proprio dieci secondi prima di entrare nella tana del nemico. Però prese un respiro profondo e cercò di rilassarsi: forse i suoi erano solo pregiudizi e la signora Dora si sarebbe rivelata una dolce donnina di mezza età, con l’hobby del découpage e un carattere così mite da provocare la carie. Prese dalla borsa la bottiglia di Millesimato che Sergio le aveva consigliato di portare con un nuovo spirito positivo: in più, avrebbe avuto le mani occupate.
Elettra la prese sottobraccio e le indicò dapprima la figlioletta, saldamente tra le braccia di Achille, poi un uomo dalla faccia simpatica, non troppo alto e pelato.
- Azzurra, ti ricordi di Diana, vero? Lui è mio marito Pier. – La ragazza strinse la mano all’uomo, che le sorrise. – Poi ci sono Monica ed Augusto, gli zii. – Zii? Era forse capitata nel mezzo di una riunione di famiglia? – La mamma era andata con la zia a fare la spesa e poi ha pensato di invitarli a restare per cena… non è fantastico?
Si sforzò di non mettersi ad urlare una serie chilometrica di perché? ed ignorò quell’invitante angolino della parete sgombro da quadri contro il quale avrebbe molto desiderato sbattere la testa, fino a perdere i sensi. Suvvia, nonostante l’alta affluenza alla cena dei Quaresmini, poteva ancora essere una serata gradevole.
Respira, su. Calma.
Gli zii erano una coppietta silenziosa e riservata, perfettamente utilizzabili come alternativa alla carta da parati. Le strinsero la mano cordiali, ma non aprirono bocca. Ad Azzurra venne il sospetto fossero sordomuti. Utili per evitare di fare conversazioni, imbarazzanti per i silenzi.
- Achi, perché non prendi la giacca della tua ragazza? – lo invitò Elettra.
Lui posò a terra una Diana divertita ma contrariata e obbedì. L’aiutò a sfilarsi la giacca, curandosi di non rivolgerle la parola. Lei lo seguì con lo sguardo finché le fu possibile, cioè finché un signore alto e con la faccia simpatica le ostruì la panoramica completa su Achille.
- Salve, – le strinse la mano. – Lei dev’essere Azzurra.
Non voleva sbilanciarsi troppo, ma l’uomo davanti a lei si era appena candidato ad essere un alleato.
- In carne e ossa, – rispose, consegnandogli la bottiglia. – La prego di darmi del tu.
- Grazie mille, non dovevi. Oh, finalmente ti conosciamo. Sono Ettore. Dora?
Si volse verso la stanza contigua, da cui proveniva uno sfrigolio di padelle e un gradevolissimo profumo di cibo.
- Che c’è? – disse una voce fuoricampo. – Sto controllando l’arrosto. Ti ho detto di chiamarmi solo quando arriva la bertuccia.
Bertuccia? Uh, delizioso. La sua sempre più improbabile futura suocera le aveva appena dato della scimmia. Quando si dice un inizio promettente…
- Tesoro, – Ettore le sorrise goffamente a mo’ di scuse. – È qui.
Una folta testa riccia rossa comparve da dietro il muro della cucina.
 
La signora Quaresmini indossava degli occhiali calati sul naso e un grembiule con la pettorina con dei limoni disegnati. Non fece nemmeno lo sforzo di sollevare gli angoli della bocca in un’espressione di gaudio nel vedere la giovane ragazza, un po’ scialbina a dire il vero, che era nella sua sala da pranzo, accanto alla tavola imbandita. Beh, se l’aspettava più… più… più.  A vederla così le sembrava un attimino troppo poco per il suo bambino. Achille era un bel giovanotto, bravo, buono, generoso, gentile, premuroso, attento, il sogno di ogni madre, mentre lei era… ordinaria. Sì, ne era convinta: dopo un’approfondita analisi del soggetto, poteva concludere che neppure questa tizia, così come Chantal, Laura e ogni altra donna con cui suo figlio avesse avuto o avrebbe avuto a che fare, era degna di lui. Doveva comunicarglielo subito, magari indorando la pillola con i bomboloni alla crema che gli aveva preparato nel pomeriggio.
Azzurra tentò di sorridere, imbarazzata da quell’esame a raggi X. Alzò una mano verso la sua direzione e la salutò. Dora Quaresmini sollevò un sopracciglio. No, quella ragazzina non le piaceva: il suo modo di agitare le dita era del tutto impacciato, non poteva stare accanto ad uno come Achille.
- Ciao, mamma, – le gridò proprio lui dal divano.
Il viso di Dora si illuminò di amore materno. Piantò il mestolo in mano ad Elettra, sfrecciò accanto ad Azzurra senza degnarla di uno sguardo e corse ad abbracciare il suo orsacchiotto.
- Tesoro! Ma sei dimagrito? Ti vedo sciupato. Non gli dai da mangiare?
Azzurra impiegò qualche istante a capire che ora la signora stava effettivamente interagendo per la prima volta con lei… accusandola di non nutrire il figlio. Cos’era, la sua babysitter? Esitò un attimo sulla risposta, mentre la donna la guardava con aria severa.
- I-io… – tentennò.
- Era una battuta, cara, – replicò sarcastica.
Cielo, la odiava già. Nel senso che Dora detestava Azzurra. E Azzurra era ben lieta di ricambiare.
Ettore irruppe nella conversazione, ufficializzando le presentazioni, durante le quali peraltro la signora si presentò come Dora Quaresmini. Azzurra cercò di non essere da meno e sfoggiò il suo cognome come se fosse una Windsor o una Tronchetti Provera. La mano della padrona di casa la strinse così forte che dovette trattenersi dal massaggiare la propria davanti agli occhi dei parenti.
- Ho fatto gli gnocchi di patate al pomodoro, – annunciò la padrona di casa. – Spero ti piacciano.
 
Achille scosse la testa: sua madre era tornata a fare i soliti vecchi trucchetti. Ricordava bene la conversazione al telefono del giorno prima proprio con lei.
- Amore, cosa vuoi che ti prepari?
- Quello che vuoi, mamma. L’importante è che tu non faccia gli gnocchi. Ad Azzurra non piacciono.
- Certo, amore.
Certo un corno. Non solo li aveva inseriti nel menu, ma si era anche premurata di farli in casa, con le patate. Credeva che l’abitudine di sfidare apertamente le novelle nuore fosse finita ancora prima di Chantal. In quel caso, infatti, si era comportata bene; era stato dopo, quando lei lo aveva lasciato, distrutto e quasi irriconoscibile, che Dora si era pentita amaramente di non averle cucinato ravioli con ripieno di salsiccia al profumo di arsenico e budino con dadolata di schiaffi in faccia. 
Achille si domandò se Azzurra avrebbe saltato il primo, scusandosi, o se avrebbe finto di apprezzarlo, boccone per boccone, fingendo di non volerli sputare tutti. Quello di cui era sicuro era che lei non avrebbe detto di amar…
- Li adoro! – cantilenò la ragazza con un sorriso smagliante.
Dora parve sorpresa da tutto quell’entusiasmo: o il suo bimbo l’aveva ingannata, o la ragazzina che aveva davanti stava facendo buon viso a cattivo gioco.
- Bene! Forza, tutti a tavola. – Azzurra attese che quasi tutti si sistemassero, soprattutto Achille, ben lontano da lei, e poi prese posto accanto ad Elettra. – No, aspetta, cara: la disposizione è uomo-donna-uomo-donna… non conosci le regole del galateo?
Quella sottile allusione alla carenza di buone maniere della propria ospite fece trasalire tutti, tranne la padrona di casa ovviamente. Azzurra non rispose alla provocazione; si alzò ed andò a sedersi tra Ettore, a capo tavola, ed Achille, il quale stava cominciando a rendersi conto di aver esagerato prima. Poteva essere arrabbiato con lei, ma doveva stare dalla sua parte: era la sua ragazza, era lì per lui, nonostante neanche lo desiderasse, a quanto pareva, perciò era suo dovere farla sentire a suo agio, nel limite del possibile.
Come se averle preparato uno dei cibi che più detestava non fosse stato sufficiente, la signora Quaresmini le colmò il piatto di gnocchi, sebbene Azzurra continuasse a ripeterle che la dose pantagruelica che già le aveva dato era più che sufficiente. Odiava quelle maledette palle di patate: le si attaccavano al palato come cozze ad uno scoglio e non se ne andavano più. Si costrinse a mangiarli tutti, intervallandoli a grosse sorsate di acqua, trattenne il respiro per sentire meno di quel sapore molliccio e vagamente viscido degli gnocchi, ma le sembrava che quei piccoli bocconi subdoli avessero deciso di non andare più in giù della sua trachea. Achille le sussurrò in un orecchio che non doveva per forza finirli e addirittura si offrì di mangiarli al posto suo, ma Azzurra lo ignorò; quel mostro di sua madre la stava sfidando e lei non sarebbe stata da meno.
- Allora, dicci: – la interpellò il signor Quaresmini. – Che fai nella vita?
- Sono un architetto. – Ettore fece uno sguardo compiaciuto e sinceramente interessato. Al contrario di Dora, che si lasciò andare ad uno sbuffo mal contenuto che non passò inosservato. – Lavoro per lo studio di un mio grande amico.
- E dimmi, – intervenne proprio lei. – Come hai intenzione di comportarti, quando e se avrete un bambino?
Ad Achille andò di traverso uno gnocco e gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite. Immaginava già la reazione della sua ragazza: sedie per aria, porte sbattute, gnocchi di patate in faccia a sua madre all’urlo di “Cosa vuoi da me, vecchia pazza?”.
- Mamma! – intervenne Elettra. – Non ti sembra di affrettare un po’ le cose? Cielo, non siamo neanche un po’ brilli per sganciare queste domandone!
- Non c’è problema, – intervenne Azzurra, molto più calma del solito. – Rispondo volentieri. Se dovessimo avere un bambino, starei a casa per tutto il tempo possibile e poi tornerei a lavorare.
- Tieni così tanto alla carriera da lasciare i tuoi figli al nido? – le chiese l’altra sprezzante.
- Amo il mio lavoro e non mi sentirei soddisfatta al 100% se lo abbandonassi per fare la casalinga. E poi mia cugina lavora al nido vicino a casa mia, so che ogni bambino sarebbe in ottime mani… meglio che con alcuni altri familiari.
Dora accusò il colpo e si alzò velocemente a raccogliere i piatti. Ettore rise sotto i baffi, mentre lei poteva sentire su di sé lo sguardo del figlio. Achille era senza parole. La fissava sbalordito ed… eccitato! Nessuno aveva mai parlato così a sua madre! Non vedeva l’ora di tornare a casa e spogliarsi. O meglio, farsi spogliare: con quella voce da maestrina voleva giocare all’impiegato sottomesso dalla perfida capa.
- Azzurra, mio cognato non ci ha mai raccontato di come vi siate conosciuti… – disse Pier.
- Al supermercato. Ha investito la frutta che avevo appena scelto e mi ha rubato l’ultimo flacone di detersivo per lavatrice.
Tutti i commensali, tranne Dora, in cucina a impiattare il secondo, risero della situazione, non capendo se stesse scherzando o dicesse sul serio.
- La tua parola contro la mia, – ridacchiò Achille, prontamente e nuovamente ignorato.
Sulla tavola calò un silenzio momentaneo, infranto dal ritorno della signora Quaresmini con arrosto e patate al forno. Diede ad Azzurra il pezzo più piccolo e secco, con le patate più bruciacchiate; persino a Diana andò meglio, con un razione di contorno quasi doppia e una fetta di carne grossa e cosparsa di intingolo. Elettra gliela taglio e la bimba cominciò a mangiarla con gusto. Anche gli zii parevano gradire, ma non si spinsero mai più in là di un mugugno di approvazione. Azzurra assecondò i dispetti e prese dell’arrosto una seconda volta, avendo cura di scegliere da sola il pezzo da mangiare. Trattenne persino l’impulso di infilare la forchetta nella mano della suocera e di questo si congratulò con se stessa.
- Allora, hai fratelli o sorelle? – domandò Ettore.
- No, purtroppo sono figlia unica.
- Purtroppo? Dovevi vedere Elettra e Achille da piccoli, litigavano come scimmie allo zoo. Una volta hanno cercato di seppellirsi a vicenda nel giardino, distruggendolo. Io e mia moglie abbiamo pensato di avere una talpa e le abbiamo dato la caccia per giorni!
Azzurra rise e si sporse verso di lui, poggiandogli la mano sulla coscia nello sbilanciarsi in avanti. Ettore le chiese qualcosa in più sul suo lavoro, sull’architettura classica, persino dei suoi genitori e fu sempre molto più che gentile. Dora si premurò sempre di schernirla con frecciatine e sbuffi, mentre Achille osservava le donne della sua vita comportarsi da… strane creature incomprensibili. Donne, appunto.
Arrivato il momento del dolce, si offrì di andare a prenderlo in cucina con Azzurra, l’unica scusa che gli venne in mente per poterle parlare un minuto in privato. Lei accettò soltanto perché aveva capito che non aveva modo di rifiutarsi. E anche perché non vedere Dora per un po’ era una manna dal cielo.
Le fece cenno di passargli davanti e le indicò la direzione da seguire per arrivare in cucina. Quando arrivarono davanti ai fornelli, Azzurra si voltò verso di lui per chiedergli che diavolo volesse. Sfortunatamente, lui l’anticipò.
- Che stai facendo?
Azzurra incrociò le braccia e alzò un sopracciglio.
- Oh, guarda: Bartolo ha riacquistato l’uso della parola.
- Chi? – ribatté lui confuso.
- Lascia stare, ignorante. L’aiutante di Zorro.
Achille fece un mezzo sorriso. Dio, quella donna era fuori di testa.
- Si chiamava Bernardo. – le fece notare.
Ah, cazzo, ecco perché non suonava molto bene. Meglio comunque continuare sulla propria linea e non ammettere mai di avere  torto.
- Nella versione originale era Bartolo. – inventò e Achille non si sforzò neppure di crederci.  – Che vuoi? Non vedi che sto amabilmente conversando con il parentado?
Il caro ricciolone non poteva certo lamentarsi di lei: ci stava provando a piacere a sua sorella, il cognato, la nipotina, gli zii, quella belva di sua madre e soprattutto con quel tesoro di Ettore. Ci stava provando davvero.
- Ci stavi provando con mio padre? – le chiese invece Achille.
- Cosa? – quel tonto doveva aver mal interpretato i suoi pensieri e soprattutto le sue azioni. – No! Stavo solo cercando di piacergli.
Stavolta fu Achille a guardarla scocciato.
- Gli stavi facendo delle moine così plateali che mia madre ora è confusa: non capisce se deve consegnare nelle mani di una sconosciuta suo figlio o suo marito.
In quella casa c’era un’aria strana, non c’erano altre spiegazioni. C’era chi diventava una stronza coi fiocchi, vedi Dora, e chi diventava scemo, vedi Achille.
- Ma che dici?
- Hai appoggiato una mano sulla coscia di mio papà!
Beh, se la metteva in questi termini, forse…
- Oh merda. Ci stavo provando con tuo padre. Ma d’altronde non è colpa mia se sono socialmente adorabile per gli uomini di ogni età. – Si fece avanti con un sorriso malizioso e gli picchiò l’indice sul naso.
Achille la bloccò, prima che potesse rifarlo, e la strinse a sé.
- Smettila di flirtare con mio padre, – le intimò, fingendo di morderle il naso.
- Allora, lo state fabbricando questo dolce?
Fecero un balzo entrambi, colti di sorpresa. Achille addentò la punta del naso di Azzurra, la quale si mise ad urlare, tentando d’indietreggiare con la testa. Accortosi del morso involontario, lui mollò la presa con tanta frenesia che lei finì col dare una testata alla colonna del forno alle sue spalle.
- Oh cazzo! – urlò Achille, mentre si avvicinava ad un’Azzurra, piuttosto frastornata, che si toccava il capo con entrambe le mani. Aveva voglia di dire talmente tante parolacce che nella concitazione del momento, non riusciva a sceglierne una, temendo di fare un torto alle altre.
- Il linguaggio, tesoro! – Dora redarguì il figlio, incurante della botta subita dalla ragazza.
Anzi, ben le stava! Prima si presentava al braccio di Achille, poi cercava di accattivarsi le simpatie di Ettore con tutti quei risolini da perfetta oca giuliva… ecco, perché non si prendeva Ettore? Era un brav’uomo, maturo, responsabile e cucinava discretamente, garantiva lei per lui. Con una parrucca in testa era uguale ad Achille.
- Trent, stai bene? – il riccio cercava di rimanere serio, ma il segno dei suoi denti rimasto impresso sul naso della fidanzata era troppo buffo per non farlo sogghignare.
No, emerito idiota! Mi hai fatto male!
- Tutto okay,  – disse lapidaria, massaggiandosi il punto d’impatto con il dannato forno.
- Scusa… – le prese il viso tra le mani e le diede un bacio delicato sulla fronte.
 
La signora Quaresmini osservò la scena con un briciolo di disgusto. Quella ragazzina sarà pure stata scialbina, ma era diabolica: proprio un bel teatrino quello che aveva imbastito, per farsi dare un bacino da Achille! Si schiarì la voce, affinché le mani di lui si allontanassero dalla vipera.
- Di là stanno aspettando il dolce. Forza, sveglia!
Allontanò malamente il figlio e Azzurra dalla sua cucina ed estrasse dal frigorifero la crostata di frutta che aveva fatto nel pomeriggio. Afferrò anche il vassoio coi bomboloni, ma questo significava dover lasciare la bottiglia di Buzzurra – l’aveva pensato sul momento e le piaceva… sì, l’avrebbe adottato! – lì dov’era stata fino a quel momento. Peccato. Beh, chissenefrega.
Quando ritornò nella sala da pranzo, tutti sembravano esilarati dal racconto del piccolo incidente di qualche minuto prima; Ettore stava ridendo con la sgradita ospite – e ti pareva! –, Elettra e Pier stavano pregandoli di replicare la scena, gli zii avevano bofonchiato qualcosa divertiti e Diana, la sua piccola dolce Diana, era appena scesa dalla sedia e… che stava facendo? Oh, per carità! Stava dando un bacio al naso di Azzurra per guarire una ferita palesemente immaginaria. Ma che diavolo prendeva alla sua famiglia? Non si rendevano conto di che razza di serpe fosse quella specie di architetto rubafigli?
- Cara, – disse a Buzzurra con finto fare materno. – Stai monopolizzando la situazione. Chi vuole la torta?
 
Azzurra non si sforzò neppure di sorridere, ormai il desiderio di rifilare alla suocera una testata analoga alla sua contro il forno era troppo forte per essere contenuta. Non le sarebbe dispiaciuto spiaccicare quella faccia da strega malefica nella sua stramaledetta crostata di frutta.
 
Dora cominciò a tagliare la torta con le due palette d’argento che trovò sulla tavola e che di certo non aveva preparato lei. Addirittura l’argento delle grandi occasioni? Per la ragazzina sarebbe stato sufficiente un coltello di plastica.
- Mamma… – intervenne Achille, ammonendola con lo sguardo.
- Che c’è, tesoro? – Il suo bimbo golosone! Scavalcò le teste di tutti con le palette sporche di impasto, crema pasticcera e frutta varia per raggiungerlo. Naturalmente si premurò di dare un colpo di polso più forte quando si trovò sulla testa di Azzurra, che si vide recapitare un mezzo cucchiaio di crema e un quarto di fragola direttamente sul vestito. – Lo so che il mio bambolotto vuole la fetta più grande!
Strapazzò le guance del figlio, mentre Ettore roteava gli occhi ed Elettra si alzava per aiutare la fidanzata del fratello a smacchiare l’abito. Capì che non sarebbe bastata una passata con lo tovagliolo per farlo tornare come prima e si offrì di accompagnarla in bagno.
 
Azzurra fu grata di potersi allontanare da Crudelia De Mon senza possibilmente rischiare una commozione cerebrale o di avere più macchie di quelle di un dalmata su di sé.
 
Mentre le due sparivano nel corridoio, Ettore si accorse della mancanza di qualcosa sulla tavola.
- Dora, dov’è il vino che ha portato Azzurra?
La padrona di casa scrollò le spalle e fece un’espressione tutt’altro che interessata all’argomento.
- Chi lo sa, forse in cantina.
- Oh, per l’amor del cielo, Dora! – la rimbrottò lui. – Ti stai rendendo ridicola!
La bocca della moglie si fece corrucciata.
- Hai sentito come mi parla tuo padre? – domandò lamentosa ad Achille, ma non trovò alcun appoggio.
- Mamma, stai mettendo in imbarazzo tutti. – Si guardò attorno per dimostrarle quanto appena detto, ma notò che Monica ed Augusto lo fissavano tranquilli e sorridenti. - Tranne… ehm… gli zii. Comunque, se non smetti di comportarti così male con Azzurra, temo ce ne andremo prima del dolce... prima di quella torta molto invitante e quei morbidissimi e ripienissimi bomboloni.
 
Gli costò molto dirlo; la sola idea di tornare a casa senza aver mangiato quel ben di Dio gli faceva venire un calo di zuccheri e un improvviso desiderio di piangere, ma tutto sparì nel momento esatto in cui sua madre gli passò il vassoio colmo di krapfen. Si dimenticò persino dell’eresia che aveva appena detto.
Ci pensò suo padre a riportarlo in carreggiata.
- Achille, concentrati, per cortesia.
Merda. Azzurra, non bomboloni alla crema. Azzurra, non bomboloni alla crema. Ma perché non poteva averli entrambi? E che cavolo. Si era fatto centoventi chilometri in macchina, li meritava!
La discussione terminò bruscamente, quando tornarono dal bagno Azzurra ed Elettra, se possibile con un danno ancora maggiore di quanto fatto da Dora con la complicità di fragole e crema pasticcera. Inutile dire che la padrona di casa ne fu compiaciuta, ma non disse nulla. S’impose di proseguire sulla linea del silenzio – la minaccia del figlio di non mangiare qualcosa da lei preparato era troppo per il suo povero cuore ed era meglio non rischiare –, ma d’altro canto non se la sentì neppure di dare una fetta di torta normale, senza alcuna menomazione,  ad Azzurra, perciò preferì lasciare l’onere di tagliare e distribuire la crostata ad Elettra. Dopo quella comunicazione tecnica, non pronunciò nemmeno mezza sillaba e fu sinceramente sorpresa che nessuno degli invitati le chiedesse il motivo. Erano tutti concentrati in una sorta di… conversazione con Buzzurra, tutti intenti a chiederle qualcosa in più di lei, tutti presi a comportarsi bene con lei… mah, famiglia indegna!
Achille recuperò la bottiglia di millesimato di Azzurra dal frigorifero e le uniche due che non assaggiarono il vino furono la nanerottola di casa per ovvie ragioni e Dora, per altrettante ovvie ragioni.
Ettore si incaricò di preparare il caffè per gli adulti e una tazza di latte con miele per Diana, ma quando ricomparve dalla cucina, la nipotina stava già dormendo con la bocca aperta sul divano.
Con il silenzio autoimposto di Dora, il resto della serata passò tranquillo. Ma se la bocca era sigillata, al contrario, gli altri sensi funzionavano a pieno regime: studiavano ogni piccolo movimento di Azzurra, da come goffamente tagliava la torta al modo sgraziato in cui gesticolava, all’odioso tono di voce alla nauseabonda eau de toilette che portava. No, non le piaceva nulla di quella ragazza; in passato c’erano state altre fidanzate di Achille, sempre inadeguate certo, ma mai quanto questa!
- Mamma? – Elettra interruppe le sue considerazioni. – Noi andiamo. Abbiamo un bel viaggetto da fare per tornare a casa e Diana è crollata. Ci sentiamo in settimana, okay?
Dora si alzò e aiutò la figlia a portare in macchina tutti i giochi della nipote, mentre Pier dava due baci sulle guance di Azzurra e si augurava di vederla presto. Elettra imitò il marito, sotto lo sguardo glaciale della madre, maledicendo di non poter vedere finire la serata: lei e Pier avevano scommesso venti euro con gli zii su una eventuale scazzottata tra sua mamma ed Azzurra. L’indomani avrebbe chiamato Achille, sicuro.
Proprio suo fratello decise che era arrivato il momento di far terminare quello strazio anche per la sua fidanzata.
- Andiamo anche noi?
 
Azzurra avrebbe urlato dalla felicità: d’altronde, erano solo tre ore e ventinove minuti che aspettava quella frase. Avrebbe tenuto in seria considerazione l’idea di ricordare quella data come giorno più importante della loro storia, piuttosto che quella del primo ‘ti amo’. Soprattutto perché quest’ultima non c’è ancora stata, pensò Azzurra con un briciolo di stizza.
- Possiamo aiutarvi a sistemare? – chiese cortesemente lei.
- Certo! – gracchiò Dora, tornando a parlare. Le avrebbe fatto pulire tutto da cima a fondo, dai piatti al pavimento, tanto ormai il suo bimbo aveva mangiato e bevuto tutto!
Ma Ettore rovinò il suo piano diabolico con le sue solite stupide idee sensate.
- Tesoro, devono ancora farsi tanti chilometri per tornare a casa… ti aiuto io.
- Tesoro, Lucilla mi aiuta sempre quando viene qui a cena! Conosci Lucilla, Buzz… Azzurra? – non aspettò la risposta e tirò dritto con la sviolinata alla ragazza. – È una donna adorabile, brava, gentile, sarebbe una mamma fantastica. – al contrario di te! – Spero che lei e Achille un giorno si sposino.
 
D’accordo, quello era decisamente troppo. Azzurra stava per prendere una delle due preziose palette d’argento da dolce e scagliargliela addosso – si ricordava bene che le streghe si ammazzavano con proiettili d’argento. Quelle erano palette, ma lanciate ad una certa velocità avrebbero fatto male ugualmente –, però Ettore interruppe la conversazione molto poco amichevole.
- Dora! Non annoiare Azzurra con le tue idee.
- Posso andare un attimo al bagno? – chiese la ragazza, conscia di aver bevuto due litri d’acqua solo per mandare giù quegli gnocchi terribili. Meglio fare pipì prima di partire.
- Ovviamente. Sai già dov’è.
Ettore lasciò la moglie a borbottare tra sé e con gli zii e raggiunse il figlio, intento a recuperare le giacche.
- Achi, – lo richiamò sottovoce con tono divertito. – Tua mamma la odia. Non l’ho mai vista così agguerrita.
- Già, me ne sono accorto…
La situazione era tragicomica; da un lato non c’era proprio nulla di spassoso nel fatto che la madre odiasse la fidanzata, dall’altro doveva ammettere che la cena era stata piuttosto ridicola sotto molti aspetti, meglio della volta in cui Diana aveva mangiato uno spaghetto e le era sceso dal naso.
- Lo so. In realtà... – In realtà era tutta la sera che ci pensava e forse era arrivato il momento di dirlo ad alta voce. – Potrebbe essere quella giusta.
Ettore fece un sorriso sorpreso e ridacchiò.
- Beh, stavo per dire che le cene d’ora in poi saranno più interessanti, ma se la tua conclusione è questa, sono felice per te. A me piace molto.
Achille guardò Azzurra arrivare dal corridoio e sorrise a sua volta.
- Anche a me.
 
Assistere al saluto tra Azzurra e Dora era stato una delle cose più imbarazzanti che gli fosse capitato di vedere nella vita. Ettore avrebbe voluto ridere della moglie per almeno venti minuti, ma sapeva che lei gliel’avrebbe fatta pagare cara e dal momento che i bomboloni le erano riusciti particolarmente buoni e soprattutto non erano ancora finiti, meglio farla arrabbiare un’altra volta.
Era chiaro a tutti, persino agli zii affetti da mutismo, che non ci sarebbero stati abbracci , ma nessuno si sarebbe aspettato una gelida stretta di mano in silenzio, talmente prolungata da far domandare agli astanti chi delle due avrebbe mollato la presa per prima. Per fortuna, Achille aveva messo fine a quella tacita lotta e aveva trascinato Azzurra sulla porta.
- Grazie mamma. Ciao papà, zii.
- Grazie, signora Dora, – aveva rimarcato Azzurra, come a farle intendere che non la temeva affatto. – Buonanotte.
- Sì, sì… ciao, – aveva risposto sgarbata la donna.
- Buon viaggio, ragazzi. Arrivederci, cara.
Azzurra fece per andare a salutare meglio quel delizioso suocero che era Ettore, ma Achille la bloccò, facendole intendere che aveva già manifestato fin troppo apertamente il gradimento per suo padre.
- Arrivederla! – civettò, prima che Achille la strattonasse fuori dalla porta.
 
Nel giardino dei Quaresmini, l’aria di metà aprile era fresca e profumata di fiori, ma in cielo due grosse nuvole facevano presagire una pioggia imminente. Perfetto: Achille adorava viaggiare in auto con le gocce che scivolano a diverse velocità sul parabrezza e il vetro del finestrino leggermente abbassato, per fare entrare nell’abitacolo l’odore acre dell’asfalto bagnato.
- Beh, non è andata male, – considerò.
Tentò di sorridere e di contagiare anche lei, ma Azzurra lo guardò come se le avesse proposto un menage à trois con Chantal: non penso proprio.
- Tua madre mi odia, – gli disse, mentre scendeva i gradini e passava appositamente in mezzo all’aiuola fiorita del giardino. Schiacciò violette e abbatté iris e primule. Achille la lasciò fare, osservandola dal vialetto con le mani in tasca; meglio lasciarla sfogare sui boccioli di sua madre, che più tardi sui propri.
- Il 95% delle suocere odia le fidanzate dei figli e viceversa.
Azzurra terminò la strage e si voltò verso di lui.
- Non stai negando…
Lui la raggiunse e le fece segno di uscire dal giardino. Le cinse un fianco con il braccio e la scortò fino alla macchina.
- Mia madre odia tutte le ragazze che mi girano attorno.
- Tutte?
A giudicare dal tono usato, Azzurra non voleva sapere se la signora Dora si opponesse a ogni essere di sesso femminile che avesse l’ardire di avvicinarsi al Pelide, ma piuttosto se il numero delle suddette fosse molto elevato.
- …che mi hanno girato attorno. Trent, non le è mai piaciuta nessuna.
- Tranne questa Lucilla, a quanto pare!
 
E lei che diavolo ne sapeva di Lucilla? Sua madre doveva aver tirato fuori l’argomento in un momento in cui lui era distratto dai bomboloni o stava pensando a come cavolo gli fosse venuto in mente di portare Azzurra dai suoi, ancor più visto che lei pareva piena di odio per sua madre e d’amore per suo padre.
- A me e Lucilla piacciono le stesse cose, – le spiegò con fare scientifico.
- I grattini dietro l’orecchio e fare pipì seduto? – gli chiese seria.
- No, saputella: – replicò, pizzicandole un fianco. – Le donne.
Azzurra arcuò le sopracciglia: questo era indubbiamente un punto a favore della tizia. E spiegava anche perché trovasse l’approvazione di Dora; probabilmente era più interessata a lei che a suo figlio.
Salirono in macchina e ripresero l’A4 in direzione Venezia. Azzurra gli promise che gli avrebbe tenuto compagnia per evitare che lui si appisolasse, ma, come previsto, si addormentò dopo venti chilometri e cominciò a russare.
 
Achille alzò il volume del radio e s’impedì di pensare ai litri di bava che il suo sedile – lo stesso che aveva lavato con tanta cura quel pomeriggio – stava per assorbire.
 
Azzurra riaprì gli occhi solo quando avvertì l’auto fermarsi: ci mise un minuto buono per capire che era già sotto casa sua. A quel punto, si voltò verso il suo fidanzato, che la stava guardando con un sorriso.
- Quanto tempo ho dormito? – gli chiese sbadigliando.
- Pochi minuti… – mentì lui.
Lei batté le mani per la propria – totalmente fasulla – resistenza al sonno.
- Te l’avevo detto, che ti avrei tenuto compagnia! – rinfacciò a quel miscredente che aveva dubitato di lei.
 
- Eh, che vuoi che ti dica? Avevi ragione, Picciona, – l’accontentò.
Sapeva di doverle almeno una piccola bugia quella sera, dopo l’inferno a cui sua madre l’aveva sottoposta. Ci rimetteva lui e il suo orgoglio, ma dopotutto scommettere su Azzurra che si addormentava durante il tragitto in macchina era come puntare un milione di euro sulla presenza del caldo in estate.
- Ti fermi a dormire? – le chiese lei, ma lui fu costretto a rifiutare.
- Torneo di calcetto domani mattina alle 7.30 con Fabrizio. – Si sganciò la cintura di sicurezza e si girò verso di lei. – Ehi, grazie di essere venuta stasera, anche se non ne avevi voglia. Mi dispiace per mia madre, non credevo sarebbe stata così scatenata con te.
- È gelosa del suo bambino, lo capisco, – ammise Azzurra.
- Ti detesta proprio…
- Addirittura?
La cosa, sebbene non di certo sorprendente, un po’ la ferì. Le dispiaceva non andarle a genio.
- No, dico, l’hai vista? Ti ha maltrattato in ogni modo, ti ha fatto gli gnocchi quando le avevo espressamente detto di non farli, ti ha dato i pezzi di carne peggiori, ti ha sporcato il vestito con il dolce ed è stata la causa scatenante del piccolo incidente in cucina! Trent, ti odia! – Un lungo suono acuto simile ad un insieme di i proveniente da Azzurra gli fece drizzare i peli delle braccia. Lei cominciò a singhiozzare, come aveva visto fare a Diana mille volte quando Elettra non voleva comprarle qualcosa. Cazzo, doveva comprarle qualcosa? – Azzurra, che succede?
Le tolse la cintura di sicurezza e guardò due grossi lacrimoni scenderle sulle guance. In quei casi Elettra dava a Diana una caramella, ma lui aveva solo gomme da masticare. Avrebbero funzionato ugualmente?
- Le-i mi o-di-a! – stava frignando.
- Picci, mia madre aborra tutte le donne della mia vita! – tentò di rassicurarla, fallendo miseramente.
- Al-lo-ra i-io so-no u-gu-a-le al-le al-tre?
Azzurra strillò ancora più forte, tanto che Achille si affrettò a tirare su il finestrino, prima che qualche passante nottambulo pensasse che lui la stesse picchiando o roba del genere.
- No! – le gridò di rimando. – Sai una cosa? Odia te più di chiunque altro.
La sua ragazza parve tranquillizzarsi un pochino.
- Sicuro?
- Mh-m.
- Non lo dici solo per farmi sentire meglio? – gli chiese con la faccia impiastricciata di rimmel colato.
- No, giuro, Picci.
E non stava neppure mentendo! Di norma, non avrebbe detto alla propria fidanzata che sua madre la vedeva come l’essere più immondo della Terra, ma su Azzurra sembrava che questa informazione avesse un potere calmante.
- Quanto? – gli domandò.
Doveva pensare a qualcosa o qualcuno di estremamente irritante e malvagio.
- Tanto quanto odia Adolf Hitler o il gatto che fa sempre pipì sul suo zerbino. Credimi, è molto odio.
Azzurra si asciugò le lacrime con un fazzoletto preso dal portaoggetti e fece una faccia stupita.
- È un sacco di odio…
Achille annuì con vigore e il suo piccolo cervello maschile gli suggerì di provare a volgere la situazione a proprio favore.
- E l’odio è proporzionale a quante volte ti vedrà. – le spiegò. – Più andremo a cena da lei, più ti odierà e tu sarai la persona che detesta al mondo!
Voleva bene a sua madre, ma non aveva davvero la necessità di vederla molto più spesso. Però, sentiva il bisogno fisico di mangiare i krapfen di mamma Dora anche più di frequente.
- Giusto! – incredibilmente Azzurra fu d’accordo.
Achille non credeva alle sue orecchie.
- Direi che dovremmo andare dai miei almeno una volta al mese! – azzardò.
- Ri-giusto! – gli sorrise la ragazza. – Ora ti lascio andare a dormire… notte, Piccione.
Gli mise le braccia al collo e lo bacio come se stesse partendo per andare al fronte. Achille era troppo felice per non ricambiare con un affetto tale da fargli sperare di rimanere e passare la notte con lei.
Azzurra scese dalla macchine nell’apice dei festeggiamenti interni del riccio. Oh mio Dio! Non ci credeva! Come aveva fatto a convincerla? Cielo, era un genio! L’aveva fregata! Un addomesticatore di donne. Controllò l’orologio e constatò che era tardi: cazzo, era mezzanotte passata, altrimenti avrebbe chiamato subito Fabrizio, Marco, Giovanni e, roviniamoci!, pure la Leone. Questo lo giustificava come minimo a ballare nudo per casa per cinque minuti senza sentirsi un idiota.
Aveva la ragazza perfetta – anche se un po’ troppo emotiva, umana e graziosa –, sua madre avrebbe smesso di dirgli che si faceva vedere troppo poco e avrebbe avuto loro: i bomboloni alla crema. Mancava solo lo scudetto della Juve e la sua vita sarebbe stata completa.
Un tocco ripetuto sul vetro interruppe il carnevale di Rio organizzato dalla sua mente. Era Azzurra. Girò la chiave nel quadro quel tanto che bastava per consentirgli di abbassare il finestrino.
- Dimenticato qualcosa? – le chiese.
- Direi che due cene all’anno dai tuoi sono più che sufficienti. – lo informò. – Buonanotte.
Gli morse la punta del naso e se ne ritornò felice verso l’ingresso del suo condominio.
Achille rimase dolorante e sconfitto all’interno della sua macchina.
Nonostante tutto, sorrise.
No, con le donne non avrebbe mai vinto. Soprattutto non con la sua.
 
 
 
 
Sì, a quanto pare sono ancora viva. Il problema è che sono un tantino leeenta!
Carrellata di note sulle citazioni del capitolo: su Facebook ho messo l’avviso di spoiler della terza stagione di Downton Abbey, spero l’abbiate letto tutti. Frank Lloyd Wright è un famoso architetto. Tanguy è il protagonista dell’omonimo film francese del 2001; è un adulto che vive ancora con i suoi genitori e non ha intenzione di andarsene. Il telefilm citato è Squadra Speciale Cobra 11. Brian Johnson è il cantante degli AC/DC e Back in black è una loro canzone.  Se non conoscete Ally McBeal, siete delle brutte persone; John Cage alias Biscottino è uno dei personaggi principali. Windsor è l’attuale Casa Reale della Gran Bretagna e territori ad essa legati. Marco Tronchetti Provera è un imprenditore milanese. Bernardo è il favoloso servo muto di Zorro. Crudelia De Mon è l’alter-ego di Nessie (che ha betato, impedendovi di scoprire neologismi ed espressioni di mia invenzione… shame on you!) e la madre di Rosie, altro soggetto ben poco raccomandabile. Emotiva, umana e graziosa è un riferimento alla prima os della raccolta, Mortofrutta.
Alla prossima,
S.
 

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