Di semidei e tinte pastello di HappyCloud (/viewuser.php?uid=114634)
Disclaimer: Questo testo proprietā del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dā diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mortofrutta ***
Capitolo 2: *** Ronzii - Parte I ***
Capitolo 3: *** Ronzii - Parte II ***
Capitolo 4: *** Donne ***
Capitolo 1 *** Mortofrutta ***
Di
semidei e
tinte pastello.
Mortofrutta.
Pessima
idea. Davvero una pessima,
pessima idea.
Come
le era saltato in mente di invitare
a cena il capo e la moglie? Lei e il suo stupido istinto da
crocerossina. Il
loro matrimonio era destinato a finire, lo si sapeva da tempo ed
entrambi
parevano averlo accettato. Loro sì, ma Azzurra proprio no.
Non poteva
rassegnarsi, né tantomeno voleva farlo. Il signor De Carlis
e consorte erano il
suo modello, la sua favola, la sua piccola creatura; li aveva fatti
incontrare,
frequentare, convivere, sposare… e ad un tratto volevano
farle credere che
tutto fosse finito. Puff, svanito.
Niente più amore, comunione dei beni, progetti insieme; ora
c’era spazio solo
per risentimento, spartizione del patrimonio, strade separate.
E
lei non aveva idea di come ciò potesse
essere accaduto e soprattutto quando.
Aveva consegnato nelle loro mani i loro destini con tanto di chiave per
la
felicità eterna, aveva provato a farli camminare da soli con
le proprie gambe,
ma l’intera situazione era andata a scatafascio.
Evidentemente avevano bisogno
di gattonare ancora per un po’. Madornale errore di
valutazione, il suo, aveva
sbagliato e ne era consapevole. Di certo ne erano consci anche i
diretti
interessati, magari addirittura la odiavano e la utilizzavano come
pretesto per
litigare; l’idea la terrorizzava: stava logorando il suo
piccolo capolavoro
d’ingegneria sentimentale.
La
sua cucina, poi, non avrebbe aiutato.
Non bastava aver guardato Julie&Julia
una dozzina di volte e avere la televisione sempre
sintonizzata su Gambero Rosso per
imparare a spadellare.
Quella cena sarebbe stata un fiasco, lo sentiva, e le sue spicce
nozioni di
psicologia non avrebbero salvato il matrimonio del capo. Il colpo di
grazia,
insomma. Lei aveva creato, lei avrebbe distrutto.
Doveva,
comunque, affrontare una cosa
per volta: innanzitutto, la spesa. Aveva fatto una lista sommaria di
ciò che le
serviva per preparare antipasti vari, crespelle ai funghi, arrosto e
tiramisù.
La
giornata non prometteva bene, nemmeno
meteorologicamente parlando: pioveva a dirotto e il cielo era
un’incombente gregge
grigio che sovrastava minaccioso l’intera città.
Azzurra
scese dalla macchina già
trafelata e corse ad accaparrarsi un carrello. Frugò nel
portafoglio, nella
borsa, nelle tasche del trench e dei jeans, ma naturalmente non aveva
con sé
neanche una moneta da infilare nel meccanismo per poter sganciare un
carrello,
perciò decise che si sarebbe accontentata di uno dei cestini
con le ruote che
stavano all’interno del supermercato. Vi entrò
fradicia, con i capelli che già
si stavano increspando grazie all’acqua e
all’umidità, ma per fortuna era l’ora
della pausa pranzo e i clienti erano pochissimi.
Come
al solito, constatò di aver
lasciato la lista della spesa in macchina; a volte si domandava
perché perdere
tempo a scriverla, quando era matematico che la scordasse in ufficio, a
casa,
in un altro paio di pantaloni, in auto. Si rispondeva sempre allo
stesso modo:
scrivere l’aiutava a ricordare… in teoria. In
pratica, era bravissima a
dimenticare.
Sarebbe
andata a braccio, a cominciare
dall’ortofrutta. Pomodorini, le servivano i pomodorini per le
bruschette. E un
po’ d’insalata di contorno, almeno ci sarebbe stato
qualcosa di mangiabile
sulla tavola. Prese anche un po’ di frutta mista, dopo averla
attentamente
analizzata, e s’impegnò affinché tutto
fosse perfettamente ordinato nel suo
carrellino. Da brava architetto, ogni minima cosa doveva essere
organizzata e
pianificata. Beh, tutto tranne la propria vita.
Stava
procedendo verso le conserve,
tranquilla e rilassata in quello spazio gigante al momento solo suo,
quando un turbine
con due piedi e quattro ruote quasi travolse lei e il povero cestino,
che non
si rovesciò per miracolo, riportando soltanto una lieve
botta sul lato sinistro.
-
Ma che cavolo…? – Azzurra guardò
allibita la ferita di guerra che aveva riportato il suo mezzo
– Mi ha fatto la
fiancata al carrello!
-
Scusi, vado di fretta! – Si giustificò
una voce maschile, ma lei non gli stava prestando attenzione, intenta
com’era a
fare la conta dei danni.
-
Mi ha ammaccato due pesche noci e
un’albicocca, si rende conto? – Stavolta si decise
a guardarlo dritto n faccia.
Era un uomo sui trenta, alto, riccio, con gli occhi chiari e un
soprabito
scuro. E la guardava stralunato –
Dieci
minuti per sceglierle con cura e con il guanto in plastica, eh, mica
come
alcuni furbetti, e ora sono irrimediabilmente rovinate
perché lei va di fretta!
Si
curò bene di scimmiottare il suo
tono, mentre l’occhio le cadeva sul carrello del disgraziato.
Dio mio, mai
visto un tale caos: succhi di frutta sparsi, biscotti schiacciati sotto
alcune
bottiglie di vino, yogurt incastrati tra il pane e delle lattine di
cibo per
gatti. In ultimo, a mo’ di stendardo della
virilità perduta, una confezione da
dodici di carta igienica che svettava sopra a tutto. Il che non era
necessariamente un male, pensò Azzurra: almeno significava
che il selvaggio non
usava le foglie dell’albero del vicino per pulirsi.
-
M-mi dispiace… – bofonchiò lo
Schumacher dei poveri, stupito dalla reazione della ragazza –
Non avevo
intenzione di provocare dei feriti.
Commise
l’errore di ridacchiare della
propria battuta, sperando di contagiare anche lei, ma il piano non
funzionò: se
possibile, causò ancora più danni
dell’incidente di qualche minuto prima.
-
Mi auguro che lei non guidi l’auto
come conduce il suo carrello, altrimenti temo che abbiamo un problema.
-
Senta, – tentò lui per mediare, visto
che la tizia non dava cenno di scherzare – sono desolato per
la perdita delle
sue albicocche e della pesca…
-
Sono due pesche e un’albicocca – lo
corresse prontamente lei.
-
Sì, – sospirò lui impercettibilmente
–
per le due pesche e l’albicocca. C’è
qualcosa che posso fare per rimediare?
Gliele pago, d’accordo? E lei può sceglierne altre.
A
quel punto, lo sguardo di Azzurra si
fece più triste che insofferente. La perdita della frutta le
stava provocando
dell’autentico dolore.
-
Ma io volevo quelle… – brontolò,
corrucciando le labbra in una buffa smorfia.
Il
mondo le stava dicendo qualcosa, era
più che evidente. Tutto ciò che sceglieva lei era
destinato a fare una brutta
fine: la begonia pendula rinsecchita, la coppia di criceti Roborowskij
scannatisi a vicenda, la nuova e tecnologica tenda da sole incendiata
dalla
cenere della sigaretta del vicino al piano di sopra, il
non-così-felice
matrimonio di Sergio e Dalila De Carlis e ora della frutta innocente
agonizzante.
-
Ho davvero
molta fretta, signorina – la implorò,
cercando di sfruttare il momento di
debolezza della donna. Si sentì un po’ idiota e
pure un briciolo meschino, ma
aveva ancora ventun minuti prima della fine della pausa pranzo e non
aveva
tempo di preparare una commemorazione tra cavolfiori e mele verdi.
Azzurra,
però, tornò a guardarlo in
cagnesco.
-
Anche io, sa? A quest’ora contavo di
aver già finito il giro e pagato e invece sono ancora
all’ortofrutta,
depauperata di due pesche noci e di un’albicocca.
In
realtà sarebbe stata ancora impegnata
a scegliere il pezzo di maiale più adatto per celebrare
degnamente la fine
dell’amore della sua vita. Cioè della vita del
capo e della moglie. Che
comunque ormai era diventata anche la sua vita. In fondo, loro tre
erano
davvero una splendida coppia.
-
Non c’è nulla da fare. La situazione è
irreparabile –
dichiarò il ragazzo, che
si era accucciato per accertarsi delle ormai disperate condizioni della
frutta
nel carrellino.
Irreparabile?
Anche
il riccio non dava ai De Carlis una seconda chance. Tutti quei segnali
divini
cominciavano a darle i brividi. Lei era la solitaria albicocca che
aveva
aiutato le due altrettanto solitarie pesche noci ad unirsi in
matrimonio e
proprio mentre le aveva lasciate andar via verso le conserve
– una chiara
metafora del futuro – un imprevisto le aveva fatte deragliare
tutte e tre.
Rimaneva solo da capire chi rappresentasse il riccio: il destino, forse?
-
Irreparabile un corno! Tutto si può
aggiustare! – replicò con forza lei, stupendo il
ragazzo. – Solo perché lei non
è in grado, non significa che io non possa!
Lui
stava per perdere definitivamente la
pazienza, ma si promise di sforzarsi comunque di non risponderle in
maniera
sgarbata.
-
E allora mi faccia vedere come ci
riesce lei.
Aveva
promesso di sforzarsi, non di
riuscirci.
Azzurra
prese il sacchetto con le
vittime, rivoltandoselo tra le mani per trovare un modo per farle
tornare
all’originale splendore. Dopo due minuti di tentativi, le
parve chiaro che sarebbe
stato impossibile far sparire quei bozzi profondi da quelle belle bucce.
-
D’accordo, forse non tutto – si arrese
con riluttanza.
-
Grazie!
-
Beh, ma cosa vuol fare? – domandò
indignata.
-
Io nulla, lascio decidere lei – Azzurra
si prese un attimo di riflessione, vagliò diverse opzioni,
si ricordò di dover
modificare il balcone dei Falconi e di ricalcolare i millesimi della
proprietà
dei Gambardella… –
Allora?
Ah,
sì, il riccio doveva espiare.
-
Si scusi pubblicamente. – esclamò,
dopo il parto mentale.
-
Come? – Lui sperò di aver capito male,
ma la faccia determinata di lei non gli dava molte speranze.
-
Si scusi pubblicamente. – ripeté,
infatti.
Fallo,
sarà un po’ umiliante e un tantino stupido, ma se
servirà a togliertela di
torno, fallo e basta,
fu la decisione finale del ragazzo.
-
D’accordo. Le chiedo perdono,
signorina.
Stava
già per ritornare al carrello e
spingerlo il più possibile lontano da lei, quando la sua
voce lo bloccò.
-
Ma non a me, a loro!
No,
non voleva girarsi, non voleva
nemmeno lontanamente prendere in considerazione l’ipotesi che
lei stesse
indicando la frutta nel carrello.
Una
coppia di anziani gli passò accanto stupita
e lui aspettò con pazienza che lo superassero, prima di
girarsi e dimostrare
che la tizia urlante con la testa nel cestino stesse parlando proprio
con lui.
Sorrise ai due, tornò a grandi falcate vicino ad Azzurra e
parlò sottovoce.
-
Dovrei chiedere scusa a due pesche e
ad un’albicocca? – chiese incredulo, ma la ragazza
pareva irremovibile. La
nanetta era fuori di melone, giusto per rimanere in reparto.
Però decise di
farlo, qualunque cosa per piantarla in asso e procedere con la spesa.
– Okay. Scusate…
ragazze.
-
Bene, – gioì Azzurra, battendo le mani
– giustizia è fatta. Buona giornata.
Non
solo si era appena umiliato,
implorando perdono a della frutta, ma, alla fine, era stato lui quello
a
rimanere da solo nell’ortofrutta.
Si
sentiva leggera, aveva risolto
l’inconveniente col riccio nel migliore dei modi ed ora
doveva solo affrontare
il problema di quanta panna da cucina comprare. Stava per imboccare la
corsia
apposita, quando, dando una rapida occhiata al carrello si rese conto
di un
buco che non avrebbe dovuto esserci nella programmazione dello spazio;
ergo,
aveva dimenticato qualcosa. A giudicare dalle dimensioni, poteva
trattarsi di
due pacchi di pasta da 500 grammi o di due confezioni di biscotti.
Savoiardi,
ecco che cosa mancava.
Fece
una rapida retromarcia – per quanto
le rotelline ossidate le consentissero – verso le corse
inziali e lo rivide. Il
riccio non era andato lontano, stazionava con aria confusa davanti agli
scaffali delle conserve di pomodoro, probabilmente aspettando delle
rispose
dall’alto per comprare la migliore. Guardava le etichette dei
prezzi,
confrontava il peso netto dei prodotti, le offerte in corso. Azzurra
non aveva
mai visto tanta superficialità nell’affrontare una
scelta di quella portata. E,
sebbene una parte di lei auspicava che il tizio toppasse clamorosamente
la
sfida che aveva dinnanzi, il suo istinto da massaia chioccia non poteva
lasciare che l’inesperienza fuorviasse il pulcino di
un’altra gallina in quel
modo.
Si
avvicinò di soppiatto, ancora incerta
sul da farsi: non voleva dimenticare l’incidente di poco
prima.
Taci,
Azzurra, sono affari suoi.
D’altra
parte, però, la tentazione di
fare la maestrina e cercare di indirizzarlo nella giusta direzione con
la salsa
di pomodoro era molto forte. Anche perché, ad essere proprio
onesti, lui ne
aveva disperatamente bisogno, vista la poca professionalità
con cui aveva
sistemato gli acquisti nel carrello.
-
S-senta… – per
poco lui non lasciò cadere la bottiglia di
sugo per terra. Che le aveva fatto, ora? Calpestato il piede del suo
amico
immaginario? Invaso il suo spazio vitale? Respirato il suo ossigeno?
-
Scusi – disse d’istinto, tanto sapeva
che ad un certo punto di quella seconda conversazione avrebbe dovuto
dirlo.
-
Mi permetta di darle una mano. – Senza
attendere risposta, lei gli strappò dalle mani la confezione
di vetro e la
ripose sullo scaffale – Lei deve analizzare la situazione con
maggiore
oculatezza. Ha nozioni di chimica?
Il
ragazzo rimase con la mano vuota a
mezzaria e la bocca aperta. La pazzoide ora parlava di chimica con aria
di chi
la sapeva lunga a riguardo.
L’unica
risposta che gli veniva da
fornire era in realtà un’altra domanda: perché?
Perché diamine avrebbe dovuto saperne di chimica per
comprare del sugo? Perché
diavolo stava parlando ancora con lei? Perché cavolo
l’aveva sfiorata con il
carrello mentre correva verso il reparto macelleria? E soprattutto,
perché
cazzo era entrato in quel supermercato? Sarebbe potuto rimanere in
ufficio,
alla banca, a mangiare la sua insalata preconfezionata, sperando di
ritrovare
nel pomeriggio Ingrid Geschwätz , una delle clienti fisse
dello sportello, una
valchiria tedesca con le spalle larghe il doppio delle sue –
accompagnata dal
fidanzato di un metro e cinquanta e dal chihuahua Arnold –,
che gli rivolgeva
sempre le solite parole.
-
Puonciorno, sighnor Qvaresmini. Mein
Gott, in qvesta banka ci è troppo kaldo! Ich krede kolpa
è di zuoi pelli okki plu.
Blaue Augen, rechts Ciofanni?
Seguiva
un’abituale pacca sulla spalla
del povero Ciofanni, che forse
nemmeno capiva quel che lei diceva, ma non smetteva di guardare il suo
bel
donnone germanico con uno sguardo d’ammirazione e colmo
d’amore. Oppure le
guardava le tette, ancora non s’era capito.
Fatto
sta che ormai lui si era
affezionato a quell’improbabile trio; si preoccupava se non
li vedeva almeno
tre giorni a settimana, a ritirare cento euro alla volta. Erano cinque
anni che
lavorava lì e non avevano mai mancato
l’appuntamento, né nel frattempo
l’accento e l’italiano di Ingrid avevano dato segni
di miglioramento. Si era
abituato ad essere il signor Qvaresmini,
solo per loro; una piccola concessione per l’unica famiglia
che vedeva più
della sua, fatta eccezione per quella rompipalle di sua sorella
Elettra. E a
proposito di rompipalle…
-
Chimica? –
rispose con cautela. La ragazza che gli
stava accanto sembrava calma al momento, ma non voleva rischiare di
svegliare
il gigante dormiente.
Azzurra
lo guardò con aria scocciata.
Ecco, era successo: si era pentita di aver offerto il proprio aiuto
allo
sconosciuto, che palesemente non capiva un corno di chimica. Che ci era
andato
a fare in un supermercato, se non ne sapeva una mazza in materia?
-
Capisce cosa intendo quando parlo di
stati di aggregazione? – Sì, okay, ora stava
facendo un po’ la pretenziosa,
giusto per dimostrare al pirata della corsia che non era una svitata.
Obiettivo
che non le stava riuscendo molto bene, a giudicare dagli occhi
strabuzzati di
lui – Stati della materia? No, niente?
A
quel punto il riccio parve scorgere la
luce in fondo al tunnel. Il liceo era lontano quasi dieci anni, ma
talvolta
qualche reminiscenza gli ricordava di quella vita passata tra i banchi,
sui
libri, in mezzo al sapere e alle gambe di Arianna.
-
Intende lo stato gassoso, liquido e solido?
Azzurra
sorrise forzatamente. Forse
c’era ancora speranza per il tontolone.
-
Esatto. Vedo che comincia a capire. –
Qualcosa, in effetti, il ragazzo cominciava a capire: la pasta,
d’ora in poi,
solo in bianco. Purtroppo all’orizzonte non c’era
nemmeno l’ombra di un altro
cliente a cui scaricare la pazza. C’era solo una ragazzina,
ma sarebbe stato
troppo codardo appiopparla a lei; roba da rovinarle
l’adolescenza. Doveva solo
comportarsi da uomo e sopportarla, magari prima di arrivare al
parcheggio, o,
meglio ancora, alla cassa – Mi dica, come sceglie di solito
la salsa di
pomodoro?
Alt.
E che fine
avevano fatto gli stati di aggregazione della materia? Tanto clamore
per
recuperarli in un angolo recondito della memoria e ora si passava ad
altro?
-
Non so… guardo le offerte, direi. –
fece spallucce – Oppure la prima che mi capita tra le mani.
-
Ah-a! – il ragazzo indietreggiò
lievemente, tutt’ad un tratto non si sentiva così
sicuro vicino a lei – Lei è
il classico pollo, senza offesa eh, facile da raggirare. Lei
è vittima dei
messaggi subliminali della pubblicità. Lo sa che si dice che
la disposizione
dei prodotti negli scaffali influenzi l’acquisto degli
stessi? Pare che gli
utenti ignari siano portati a comprare ciò che sta nel
centro e nella parete
destra della corsia. O era la sinistra, ora non ricordo benissimo.
Lui
colse al volo l’attimo d’indecisione
e provò a limitare la fiumana di parole che uscivano da
quella bocca maledetta.
-
Tutto ciò è molto interessante, le
assicuro. Però, devo andare a lav…
-
Mi perdoni, – lo interruppe lei,
alzando il palmo della mano verso di lui – stavamo parlando
della sua passata
di pomodoro. Voglio aiutarla a sceglierla.
-
La ringrazio, – davvero
la voleva ringraziare? E di cosa, di grazia?
Di avergli fatto sprecare dieci minuti in un supermercato, in una serie
di
conversazioni totalmente inutili? – ma non è
necessario. Prenderò questa.
Ne
prese una a caso, proprio non gli
importava che fosse biologica, d’importazione, di
contrabbando o quant’altro.
Gli importava soltanto di liberarsi di quella zavorra umana.
-
Sguizza? – chiese lei all’improvviso.
-
S-sguizza? – Doveva essere un modo per
chiedergli se scherzava. – N-non so se sguizzo.
Azzurra
lo guardò sconcertata: no, non
c’era proprio speranza, quello non capiva nemmeno
l’italiano.
-
Ma non lei, per Diana! La salsa… dico,
sguizza?
Non
aveva idea di che cosa intendesse
con quel verbo. Non che non l’avesse mai sentito, ma gli
sfuggiva cosa
c’entrasse nel contesto. Decise, quindi, di rimanere neutrale.
-
Non saprei.
Scandalizzata.
Lei era
scandalizzata: trent’anni e non aveva le minime regole di
base per fare la
spesa. Ringraziasse il cielo di averla incontrata!
-
Non ha controllato, prima di decidere
di acquistare quella?
-
Temo di aver perso le fila del
discorso.
-
Le chiedevo il grado di sguizzo che ha
il barattolo di salsa che ha in mano: grande sguizzo, medio sguizzo o
piccolo
sguizzo?
-
I-io…
Il
tizio era veramente tardo, non
c’erano altre spiegazioni.
-
Sua madre non gliel’ha insegnato?
-
No, purtroppo mia madre non c’è.
Ecco,
che gaffe. Certo avrebbe potuto
avvisarla prima che era orfano di un genitore, senza costringerla a
fare una
terribile figura, riesumando vecchi dolori, ferite profonde, Natali,
Pasque,
compleanni a fissare un posto vuoto a tavola, dopo
quell’incidente in macchina,
quella malattia, quello scontro in motoscafo, quel morso di vipera
Russel,
quell’attacco di squalo bianco o qualsiasi altra causa di
morte.
-
Oh, mi dispiace.
-
No, – il riccio capì l’equivoco e lo chiarì
subito – non è morta, è solo che
abita a centoventi chilometri da qua, non abbiamo occasione di fare le
spese
insieme e non mi ha introdotto alla tecnica…
dello… ehm, sguizzo. – si sentiva
un idiota già solo a dirla, quella parola.
-
Ah, – Azzurra tornò subito alla realtà,
con un briciolo di delusione – allora non mi dispiace.
Cioè, mi dispiace che
lei non abbia ricevuto un’educazione adeguata,
perciò, in nome della
connessione che si è creata tra me e lei nel momento del
perimento delle due
pesche noci e dell’albicocca, da lei causato ricordiamoci, mi
offro
d’indottrinarla a riguardo. – Indicò una
prima confezione di tetrapak,
completamente colorata – Cosa mi dice di questa?
-
Beh, non vedo nulla.
-
Esatto, – urlò lei, in piena estasi da
salsa di pomodoro – come può giudicare lo sguizzo
se non vede il prodotto?
Scartato. – Dunque, questo sguizzo era qualcosa di visibile,
era già un
indizio. – Passiamo al prossimo: bottiglia trasparente, marca
PappaPronta. Qui, finalmente,
possiamo
introdurre la tecnica vera e propria. Ecco, la prenda lei.
Lui
l’afferrò con la stessa apprensione
con cui aveva preso in braccio la prima volta la sua nipotina in fasce:
come se
potesse romperla stringendola un po’ di più.
-
E ora?
-
Faccia oscillare il sugo all’interno. –
lui, appurato che la bottiglia sembrava abbastanza solida, prese a
scuoterla
con violenza – Non le ho detto di agitarlo come una batida!
Immagini di
decantare un vino pregiato su una spiaggia dorata, con le palme che si
muovono
nel vento e le onde del mare che s’infrangono sulla
battigia…
Il
riccio cominciò a battere il piede
sul pavimento, spazientito. Non sapeva più in che lingua
dirle che non aveva
tempo da perdere, figuriamoci poi per scegliere se doveva starsene ad
ascoltare
tecniche di rilassamento da maestro di yoga.
-
È necessaria la cornice caraibica per
decifrare lo sguizzo?
Azzurra
interruppe la descrizione con un
grugnito contrariato.
-
Per una mente limitata come lei, ovvio
che no. Quindi, la sua conclusione? – lo esortò.
Il
ragazzo seguì le istruzioni.
-
Sembra un po’ liquida. Un po’ troppo.
Il
sorriso sornione che si dipinse sulla
faccia di Azzurra denotava una certo orgoglio da insegnante di fronte
ad un alunno
che ha appreso bene la lezione.
-
Bravo
l’élève. Questa passata
scivola sulla mezza penna rigata e non me l’avvolge
con il calore necessario; se mi permette un’espressione
colorita, è buona per
lubrificare, non per fare l’amore con la suddetta mezza
penna. Grande sguizzo,
grande delusione. Proviamo con la Pommipiù.
La
lasciò cadere nella mano di lui, che
evitò per un pelo di farla rovinare a terra, mentre lei
già valutava quale
sarebbe stata la prossima salsa da fargli valutare; ormai le conosceva
a
memoria, perciò sapeva bene cosa sottoporre al suo allievo.
-
Questa neanche si muove. Sembra
cementata.
-
Piccolo sguizzo, la categoria
peggiore. – decretò lei – Ingloba il
maccherone e non lo molla più. È la
fidanzata, quella gelosa e morbosa che non accetta di essere piantata,
la
stalker dei sughi insomma. – Si abbassò
all’altezza dell’ultimo scaffale e
prese un’altra bottiglia – Che mi dice della Salsy?
-
Sembra un giusto compromesso, non le
pare? Densa, ma non in modo esagerato, dà l’idea
di saper coccolare il fusillo
con quel misto di decisione e morbidezza che richiede una passata. Non
ci veda
doppi sensi in quest’ultima frase.
Tralasciando
le sue battute, che
comunque erano piuttosto carucce doveva ammetterlo, il riccio aveva una
qualche
sorta di talento per riconoscere gli sguizzi. Poteva ritenersi
soddisfatta del
lavoro svolto, perché era più che certa che il
merito fosse suo. D’altronde,
era sempre stata una magnifica insegnante.
-
È l’amore della vita: ama il fusillo e
vuole aiutarlo ad esprimersi al meglio, non lo lascerà mai.
– sospirò e lasciò
che i pensieri parlassero per lei – Loro sono i Sergio e i
Dalila De Carlis.
I
chi?
-
Come prego?
Azzurra
venne colta da una strana
sensazione d’ansia e di inquietudine. Doveva pensare alla
cena, punto e basta,
senza perder tempo dietro a un bell’imbusto, che comunque non
era neppure
granché, togliendo gli occhi blu e quel ciuffo ricciolo che
pareva la banana di
Elvis Presley.
-
Devo andare, de-devo finire il giro e
sono in ritardo. Buona giornata. – si affrettò a
dire.
Lo
prese in contropiede e fu talmente
rapida nel trascinare il carrellino e rifugiarsi nella corsia
successiva che le
parole di lui si dispersero nell’aria, senza che lei potesse
udirle.
-
Ma…? Aspetti. Aspetti! Volevo solo
dirle… grazie.
Uno
strano soggetto, senza dubbio.
Quella nanetta con la lingua biforcuta e amante dei diritti dei
vegetali non
era di certo un tipetto convenzionale. Almeno gli aveva insegnato
l’universale tecnica dello sguizzo;
il tempo perso
dietro le sue assurde teorie alla fine si era rivelato moderatamente
utile.
-
Signor macellaio? Ehilà, c’è nessuno?
Mi dispiace per l’incidente con la mannaia
dell’ultima volta. Volevo solo farle
uno scherzo! L’importante è che abbia ancora tutte
le dita, no? Signor
macellaio?
Ed
ecco riemergere dal fondo del
supermercato la sua voce acuta alla ricerca di Giancarlo, capo della
macelleria. Uomo simpatico e meritevole di solidarietà, se
aveva avuto a che
fare con lei e un coltello in mano.
Si
rese di compassione e decise di dare
lui una mano alla ragazza, per ricambiare il favore di qualche minuto
prima. Si
mosse con attenzione, onde evitare di investire nuovamente lei, o pane
in
cassetta, o pesci volanti. La trovò quasi arrampicata sul
banco frigo per
sbirciare all’interno della macelleria.
Forse
era ancora in tempo per scappare.
-
Credo sia in pausa. – disse, invece.
Azzurra
si voltò e mise fine con un
salto alla scalata che aveva intrapreso. Si sistemò il
cerchietto sulla testa e
si lisciò il trench spiegazzato.
-
E io come faccio?
-
Io non gliele presto le mie dita per
giocare con la mannaia.
Meglio
mettere le mani avanti con lei.
Pessimo modo di dire, però, in questo caso.
-
Cosa? No, mi serviva un pezzo di
carne.
-
La mia?
L’aveva
presa in simpatia? Perché
sembrava molto meno impostato dello stronzo ricciolone incapace di
guidare un
carrello dell’ortofrutta.
-
Le detrarrò una libbra di carne per
ogni brutta battuta che fa – lo avvertì.
-
D’accordo. Posso darle una mano? Così,
giusto per rimediare al danno di poco fa e ringraziarla
dell’aiuto con la
passata.
Lei
lo guardò sospettosa.
-
Non andava di fretta?
-
Sì, ma lei ha fatto leva sul mio senso
di colpa per il triplice ferimento, perciò posso utilizzare due minuti – e
rimarcò bene la quantità
di tempo che aveva intenzione di destinarle – ad aiutarla.
Okay,
magari poteva dargli credito, non
che poi avesse molte alternative: la sua conoscenza dei maiali si
limitava a Babe, maialino coraggioso;
carino sì,
utile no.
-
Ne sa di suini?
-
Come se fossi uno di loro. – Era una
brutta similitudine per dirle che era un donnaiolo? Il ragazzo parve
accorgersi
dell’ambiguità dell’espressione e si
spiegò meglio. – Come uno nato e cresciuto
in cascina.
-
E di lombi?
-
Parliamo sempre di suini, vero?
Dalla
simpatia si era approdati alla
malizia, ma Azzurra era troppo concentrata sulla carne per poterla
assecondare.
-
Siamo già a quota tre libbre,
l’avverto. – Lo minacciò, invece.
-
Stemperavo solo la situazione, suvvia.
Innanzitutto, qui c’è il vitello. Il maiale
è là, sulla destra. – Le fece cenno
di seguirlo verso la fine dell’enorme banco frigo –
Eccoci.
Lei
diede una rapida occhiata a tutti i
pezzi confezionati disponibili: costine, guanciale, coscia,
filetto…
-
Qui non c’è nessun lombo! – Sapeva di
doversi rivolgere ad un professionista, invece che al Lupo
ammazzafrutta. – Signor macellaio?
-
Si rilassi.– Prese una vaschetta e
gliela mostrò – Eccolo, lonza
di suino.
Allora
davvero non capiva l’italiano.
-
Ma a me serve il lombo!
Il
riccio s’impose di restare calmo e di
non urlarle di smettere di starnazzare: se solo fosse riuscita a tenere
la
bocca chiusa per più di tre nanosecondi, lui avrebbe avuto
l’immenso piacere di
illustrarle una spiegazione più che esaustiva.
-
Si tratta sempre della stessa parte di
carne, che assume denominazioni diverse in base al taglio e alla
regione. Se
alla carne viene lasciato l’osso, allora si parla di
carré; la parte finale del
carré contiene, sotto le coste, il filetto. Se tale pezzo
viene affettato, si
otterrà il nodino; se invece la carne viene disossata,
avremo la lonza.
-
Amen. Ne è sicuro?
Le
aveva appena fatto un’esposizione
dettagliata e precisa dell’intero problema e ora lei metteva
in dubbio tutto
quanto.
-
Sicurissimo. – biascicò, coi denti
serrati dal nervosismo.
-
Guardi che io mi fido, eh. Se poi l’arrosto
viene una ciofeca, do la colpa a lei. – disse Azzurra
serissima, strappandogli
un sorriso.
Non
riusciva. Non ce la faceva a
rimanere arrabbiato con lei: era buffa – un modo carino per
dire pazza –, con una
parlantina esasperante
e modi di fare ancor più irritanti, ma l’insieme
era imprevedibilmente
gradevole.
-
Mi prendo tutte le responsabilità del
caso. – la rassicurò. Forse troppo,
perché lei lo prese in parola.
-
Quindi lei mi sta dicendo che se non
riesco a salvare il matrimonio dei De Carlis, posso sempre dire che
è a causa
sua…
-
Matrimonio? Non stavamo parlando di
arrosto?
-
No, – lo contraddisse – lei ha detto:
“Mi prendo tutte le
responsabilità del
caso”. Il caso
è quello dei De
Carlis.
-
E l’arrosto? – Decise di stare al
gioco.
-
Lonza al latte per risvegliare gli istinti
materni di Dalila. Se non glieli risveglia, mando i coniugi da lei.
-
Da me?
Non
aveva granché esperienza con le
coppie, se non con Ingrid e compagnia bella. E in quel caso era un
trio. E non
era certo che Ciofanni sapesse
parlare. Contava lo stesso?
-
È lei che mi ha consigliato il pezzo
di carne o no? Non cerchi di arrampicarsi sugli specchi, per cortesia.
-
Posso almeno sapere il resto del menu?
-
Crespelle ai funghi.
-
… funghi per far capire a lui che
Dalila è il terreno di cui si nutre? –
domandò, immaginando un identico
percorso cosparso di significati nascosti per il marito.
-
Funghi perché è un po’ che li ho nel
congelatore e volevo smaltirli. – Azzurra divenne rossa dalla
vergogna e si
affrettò a completare la risposta. – Ma ovviamente
anche perché sono il
terriccio di cui si nutre.
-
Terreno.
-
Quello che è.
Il
riccio si appoggiò con gli avambracci
sul proprio carrello; la conversazione, incredibile a dirlo, lo stava
incuriosendo da morire.
-
Dunque, per lui nessun messaggio
culinario subliminale? – chiese interessato.
-
Ecco…
Le
guance di Azzurra si colorarono di un
scarlatto ancora più intenso, divertendo il ragazzo.
-
Nel dolce, forse? Cosa prepara come
dessert? – La incoraggiò, conscio di peggiorare la
questione imbarazzo.
-
Ehm… tiramisù – sussurrò.
-
Oh, giusto – lui trattenne una risata
di puro gusto, solo per non farle desiderare una volta per tutte di
sprofondare
nel pavimento –
Certo, la poesia si
perde un po’ per strada, ma anche
l’intimità è importante. E se non
migliorasse
la situazione là sotto per il povero lui, temo dovremmo
spartirci la colpa.
-
Chi? Lei e Dalila?
-
No, io e lei.
Azzurra
ripristinò un colorito normale e
si preparò a snocciolare uno dei suoi discorsi seri da
psicologa con attestato
online.
-
Se si lasceranno sarà evidentemente
perché non ritengono di poter continuare a vivere insieme,
nonostante
l’opinione contraria dell’esperta.
-
Vedono una terapeuta?
-
L’esperta sono io – affermò, come se
fosse la cosa più ovvia del mondo.
-
È una terapeuta?
-
No, un architetto. Quindi so come
progettare al meglio una relazione, dalle fondamenta ben solide, ai
muri
portanti, dai dettagli che rendono unico ogni progetto, ai balconi che
ti
permettono di godere della tua libertà, ma in modo
controllato.
-
La guru delle storie d’amore, in
pratica – scherzò lui, ma lei lo prese sul serio.
-
Dice bene. – Il riccio cominciava a
piacerle, tutto sommato. La sua nuova denominazione le garbava
alquanto.
Purtroppo non poteva trattenersi, la cucina l’attendeva
– Ora, bando alle
ciance e mi lasci passare, ho una cena da preparare.
-
Mi raccomando l’arrosto! – ridacchiò
lui – Non ci metta le patate, l’analogia potrebbe
traviare il povero lui!
Azzurra
se ne andò con il suo carrellino
cigolante, nascondendo sotto i baffi un sorriso divertito.
Dopo
circa cinque minuti di quiete
assoluta, si ritrovarono per l’ennesima volta, in questo caso
ciascuno ad
un’estremità della corsia dei detersivi per
lavatrice. Pensavano di limitarsi
ad un cenno con il capo in segno di saluto, entrambi avevano ripetuto
fino alla
nausea che l’ora di pausa stava tragicamente volgendo al
termine ed erano già
in ritardo sulla tabella di marcia.
Azzurra
si guardava intorno interessata,
quel reparto era il suo preferito. Nella sua piccola lavanderia di
casa,
c’erano un’infinità di flaconi colorati
che non avrebbe mai usato, ma che non
aveva potuto esimersi dal comprare, perché erano perfetti
per l’arredamento
della stanza.
Il
riccio invece camminava più spedito,
aveva già adocchiato ciò che gli serviva e non
aveva bisogno di fare altre
scelte di vitale importanza, come quella affrontata per la passata di
pomodoro.
Man
mano che si avvicinavano, però,
cominciarono a scrutarsi attentamente. Sembravano due pistoleri di un
vecchio
film western americano; avanzavano lentamente verso il centro,
studiandosi a
vicenda con diffidenza, mentre lanicci di polvere rotolavano
indisturbati sul
pavimento.
Azzurra
lasciò incustodito il proprio
carrellino, pur di colmare il lieve svantaggio che aveva nei confronti
di lui;
sembravano diretti tutti e due verso lo stesso scaffale.
-
Non avrà intenzione di comprare proprio
quel flacone di detersivo? – Gli chiese con una punta di
minaccia nella voce, ponendosi
di fronte alla mensola.
-
Il Fluffy,
dice? Profuma di brezza marina, è il mio preferito.
Dannazione,
anche la pazza lo voleva.
Peccato che ne fosse rimasto solo uno.
-
Lascia nell’armadio una deliziosa fragranza
fresca, vero? – Doveva tirar fuori un po’ di
charme, irretirlo con la
parlantina per evitare che le scippasse l’ultima confezione
– Adoro usarlo
d’estate, quando…
-
Beh, però è ottobre.
Ecco,
aveva dimenticato che il
ricciolone tontolone non era amante della poesia; era più
spiccio. Bene, lo
sarebbe diventata anche lei.
-
Quindi?
-
No, nulla, è solo che non è più
estate, perciò potrebbe lasciarlo a me. Ma, la prego,
– si scusò il ragazzo – sono
un maleducato, è giusto che lo prenda lei.
-
Non ha tutti i torti, siamo in
autunno, potrei pure fare a meno della brezza marina
nell’armadio. Sa che
faccio? Glielo lascio.
La
strategia di gioco era la finta
cortesia: illudersi di averla spunta e poi, zan!,
colpirlo a morte.
-
Davvero? È gentile, ma insisto perché
lo abbia lei, mi ha anche aiutato con la passata –
esclamò lui.
-
Ma lei mi ha dato una mano con la
lonza, siamo pari.
-
Di nuovo, insisto.
-
Insisto io.
-
Io insisto di più.
-
Sono davvero molto brava ad insistere,
mi creda.
-
Se le cose stanno così… grazie.
-
Bene. – Maledetto, l’aveva fregata! Ma
se si aspettava che lei lo lasciasse andare via così, si
sbagliava di grosso. –
Certo che la brezza marina nel mio armadio ci sta proprio bene.
-
Non lo dica a me, quando lo apro il
profumo invade la stanza.
D’accordo,
aveva provato con la
gentilezza, anche se finta, e non aveva funzionato, ora sarebbe passata
alle
maniere forti.
-
Già, già. Però sa una cosa? In
realtà
l’ho aiutata veramente tanto con la storia del sugo.
-
Io c’ho perso cinque minuti dietro
alla sua lonza. – Nemmeno il riccio dava segni di cedimento,
però. Voleva quel Fluffy
e l’avrebbe ottenuto, con le
buone o con le cattive.
-
Le ho persino insegnato la tecnica
dello sguizzo… – ritentò Azzurra.
-
Lei ha usufruito delle mie conoscenze
anatomiche del maiale. – obiettò l’altro.
-
… senza contare il danno subito dalla
mia persona a causa sua, con le due pesche noci e l’albicocca
crudelmente
strappate alle loro simili per colpa della sua negligenza.
-
Senta, non può ritrattare: ha detto
che potevo prendere il flacone di Fluffy,
ora me lo tengo.
-
Ma ne stavamo discutendo! Lei
insisteva, io insistevo, lei insisteva, io insistevo e ad un tratto lei
ha
smesso d’insistere! Poteva almeno avvisarmi, avrei smesso
prima io!
-
È stata una decisione improvvisa! – si
giustificò lui, alzando il tono della voce, tanto che una
commessa li guardò
stupita – Ascolti, facciamo che lo prende lei e io ripasso
domani, d’accordo?
Basta,
la pazza aveva vinto, la
situazione si era evoluta da una semplice discussione tra due adulti, a
un
battibecco tra cinquenni. Per giunta per del detersivo!
La
tipa era matta, la cavalleria
latente, ma non del tutto morta: gliel’avrebbe lasciato,
almeno avrebbe fatto
una bella figura agli occhi della cassiera guardona.
-
No – rispose però Azzurra.
-
Come no? – Nella sua voce c’era
un’evidente nota di frustrazione.
-
Non accetto la sua carità.
-
Non è carità, – per la miseria!
Avrebbe mai fatto la cosa giusta con quella maledetta ragazza?
– è solo un modo
per risolvere le cose e permettermi di tornare in banca dalla mia
severissima
capo.
-
Ah, così lavora in banca… non l’avrei
mai detto.
-
Perché?
-
Non ha la faccia da bancario, con
tutti quei ricci ribelli. Non disturbano la clientela?
-
Nessuno ha mai fatto un esposto a
riguardo.
In
effetti non aveva mai verificato. Però
di sicuro la Leone, il suo capo, non avrebbe mancato di dirgli una cosa
del
genere. Lo rimproverava quando per caso starnutiva in primavera per via
dell’allergia, figurarsi se si sarebbe lasciata scappare
un’occasione del
genere. Ma… davvero si stava chiedendo se gli utenti della
banca si fossero
lamentati dei suoi ricci? La pazzia era contagiosa, evidentemente.
-
Va beh… ma si fida?
-
Chi? La mia capo?
-
Che c’entra il suo capo? Parlavo di
lavatrici. Bianchi e colorati insieme?
Quella
donna aveva la capacità di
portare avanti dieci discorsi diversi, senza nemmeno rendere partecipi
i propri
interlocutori.
-
Bianchi da una parte e roba colorata
dall’altra: rossa, gialla, blu, verde, azzurra…
La
ragazza nel frattempo si era
distratta, in quel tripudio di forme, colori e profumi che era il
reparto dei
detersivi. Per un architetto come lei, tutto ciò che avesse
a che fare con
quelle tre caratteristiche, era una sorta di specchietto per le
allodole.
-
Sì? – rispose, sentendosi chiamare, ma
lui fraintese l’intero discorso.
-
Sì, sì, tutta insieme.
-
Io? – Azzurra si controllò braccia e
gambe: le risultava di essere ancora tutta intera, nonostante il
piccolo
incidente delle due pesche noci e dell’albicocca.
-
Lei?
-
Sì, io.
-
Cosa?
Il
riccio si era definitivamente perso
nella conversazione; non sapeva più nemmeno quale fosse
l’argomento!
-
Tutta insieme. – ribadì la ragazza –
Almeno finché lei non mi investe col carrello.
-
La lavatrice la investe con il carrello?
Che
c’entrava ora la lavatrice?
-
No, lei lei –
precisò Azzurra.
-
Io?
-
Che aveva da dirmi?
-
Sul Fluffy intende?
-
Mi dica lei… mi ha chiamato per
parlare del Fluffy? –
Forse era il
caso di mostrarsi accondiscendente, il riccio era già
abbastanza confuso e
aggredirlo non sarebbe stato fruttuoso.
-
Io non l’ho chiamata! – si difese
ostinatamente.
-
Ho sentito nettamente il mio nome –
replicò lei testarda.
-
Nemmeno lo conosco il suo nome!
Erano
almeno quindici minuti che si
punzecchiavano e ancora non si erano presentati? Lei sentì
il bisogno di
colmare subito quella grave mancanza.
-
Azzurra Trentini – disse, allungando
la mano verso di lui.
-
Achille Quaresmini – il riccio fece
altrettanto e gliela strinse.
-
Achille come il Felide?
Se
l’aspettava, una domanda del genere;
era una delle mille declinazioni a cui l’avevano abituato
ventotto anni in quel
corpo.
-
Pelide – la corresse prontamente lui.
-
No, parlavo del gatto del vicino.
-
Mi prende in giro?
-
Non mi permetterei mai, Achille.
– Era divertente ripeterlo, con
quelle due l finali che facevano
indugiare la lingua sul palato. Un nome spassoso. – Certo che
è strano.
-
In famiglia abbiamo tutti nomi greci.
– spiegò lui.
Non
gli dispiaceva chiamarsi in quel
modo, perlomeno non era il solito Marco o Pietro; però
talvolta era davvero
noioso dover dare spiegazioni sul perché portasse il nome di
un eroe greco e
non quello di un esploratore veneziano o di un vescovo di Roma.
-
Buffa scelta, ma in fondo poteva
andarle peggio: Telemaco, Aiace, Agamennone, Priamo, Tindaro, Polluce,
Egisto,
Neottolemo… è una tradizione che intende
mantenere? Perché se io e lei
dovessimo sposarci non gradirei chiamare mio figlio Menelao. Al massimo
il
canarino.
Per
quale assurdissimo motivo stavano
parlando di nozze? Tra loro due, poi! Si conoscevano da un quarto
d’ora e lui
era piuttosto certo che quella fosse anche l’ultima volta che
si sarebbero
visti.
-
Perché io e lei dovremmo sposarci? –
chiese esterrefatto.
-
Destino, suppongo. – scrollò le spalle
lei – Mio padre ha conosciuto mia madre ad un matrimonio.
-
È una dinamica molto comune.
-
Era il matrimonio di lei. Sono
scappati dal retro del ristorante.
Adesso
gli sembrava tutto molto più
chiaro, ma meglio non approfondire i trascorsi in casa Trentini.
-
Possiamo tornare al detersivo? –
propose.
-
Credo che entrambi dovremmo lasciarlo
qui. – concluse Azzurra – Se ci pensa, non
è un comportamento corretto nei
confronti del prossimo cliente che arriverà,
vorrà comprare del Fluffy
e non lo troverà.
-
D’accordo, ha ragione. – A questo
punto era meglio assecondarla, pensò Achille, almeno sarebbe
finalmente
riuscito a sbolognarla entro qualche secondo. Ora
vai alla cassa e te ne vai, subito. – Non lo
acquista nessuno
dei due. Bene, è stato un piacere conoscerla, Azzurra. Buona
giornata.
-
Arrivederci, Pelide.
Arrivederci
un cazzo. Io cambio supermercato e in questo non ci torno
più, manco morto.
Stava
per dirigersi diretto come un
missile verso la cassa, quando notò che anche lei sembrava
intenzionata a fare
la stessa cosa. Ce n’era solo una aperta, il che significava
fare la coda
dietro a lei. Con lei. Si
girò
d’istinto verso la piccola parete che univa le due corsie e
la guardò interessato.
Merda, era quella dei cosmetici e degli smalti. Va beh, meglio perdere
un po’
di mascolinità che altri dieci minuti – che,
oltretutto, neanche aveva – a
discorrere con quella.
-
Provi quello lilla, è bellissimo! –
gli urlò a distanza la pazza.
La
cassiera alzò un sopracciglio, in
un’espressione condita da stupore e un briciolo di disgusto,
non si sforzò
neanche di fingere di essere concentrata a fare il conto di Azzurra.
Tentò, però,
di aiutarla ad imbustare gli acquisti, ma all’ennesima volta
che la ragazza le
intimava di creare una solida base trapezoidale coi surgelati,
rinunciò ad ogni
carineria.
Achille
trattenne il respiro finché le
porte scorrevoli non si chiusero dietro la figura minuta di lei con un
rumore
secco, il più dolce che avesse mai sentito. Se
n’era andata. Quasi quasi si
commuoveva. Gli rimanevano quattro minuti e mezzo per pagare, caricare
in
macchina, mollare la spesa a casa e tornare in ufficio: nemmeno
Superman ce
l’avrebbe fatta, tanto valeva prepararsi alla ramanzina del
capo e alle
occhiatacce furiose del collega, nascosto da una fila chilometrica di
clienti
allo sportello. Ma almeno ora le orecchie si stavano riposando, senza
quell’odioso – anche se doveva ammettere
divertente, a sprazzi – cicaleccio
femminile in sottofondo.
Passò
davanti alla corsia dei detersivi,
prima di rivirare verso la cassa, e lo vide di nuovo: il mitico Fluffy dall’obnubilante
fragranza di brezza
marina. Come il canto delle sirene per Ulisse – una sorta di
amico greco –, il
flacone lo reclamava a gran voce. Dopotutto, che gli importava? Azzurra
era
andata via, non avrebbe mai saputo che aveva infranto
l’accordo di non
belligeranza sul prodotto. Lo afferrò veloce e si
precipitò alla cassa; avrebbe
voluto sghignazzare maleficamente alla faccia della guru
delle relazioni, ma s’impose di non farlo
finché non fosse stato
al sicuro nella sua automobile.
La
commessa passò tutta la spesa davanti
al lettore magnetico e lui si affrettò a infilare tutto
nella grande busta di
tela cerata del supermercato. Aveva ormai rinunciato a quelle sporte
talmente
biodegradabili da biodegradarsi prima di arrivare alla macchina.
Purtroppo
il Fluffy non ci stava,
così Achille se lo strinse con una mano al
petto come un trofeo.
Pagò
il conto, lasciò il carrello
all’interno del supermercato e uscì
all’aria aperta con un sorriso a trentadue
denti e il flacone celeste da esporre neanche fosse una medaglia
olimpica.
Ce
l’aveva fatta. C’era voluta un po’ di
astuzia, ma l’importante era aver vinto.
Aprì
la macchina con il telecomando e
spinse il pulsante per aprire il baule, depositandovi
all’interno la borsa.
-
Allora alla prossima!
Il
motore acceso di una macchina alle
sue spalle lo fece voltare di scatto. Era una Ypsilon
color amaranto col finestrino sinistro abbassato. E
un’Azzurra sorridente all’interno. Sorridente
almeno fino al momento in cui non
aveva visto l’agognato Fluffy
a cui
aveva dovuto rinunciare, saldamente circondato dalle braccia di quel
riccio
traditore di Achille. A quel punto aveva sgranato gli occhi, stretto le
labbra
in una smorfia di rabbia e scosso la testa ripetutamente, travolta
dalla più
nera ira e dalla cocente delusione.
-
Le posso spiegare! – le urlò il
ragazzo, ma lei non voleva starlo a sentire.
Nel
tentativo di fare una drammatica
uscita di scena – una sgommata e partire indignata
–, mollò troppo presto la
frizione, con il risultato che la macchina procedette a scatti per
qualche
metro e, infine, si spense.
Ad
Achille veniva da ridere, Azzurra era
troppo incasinata per essere reale. Per la salvaguardia del suo corpo,
dal
momento che la reazione della ragazza non era prevedibile – e
lui desiderava
avere figli in futuro – si trattenne a stento in un sorriso
tirato.
-
Faccia conto che non sia già più qui!
– gli urlò lei, riavviando il motore e partendo,
stavolta con un gran fragore.
-
Tre minuti, Quaresmini, tre minuti di
ritardo. Ringrazi il cielo che per ora ci siano solo quattro gatti in
coda,
altrimenti lo sentiva lei Brambilla borbottare come una caffettiera
perché il
suo collega se l’è presa comoda, come di consueto
direi.
-
Scusi dottoressa Leone, ho avuto un
imprevisto.
-
Si risparmi le solite scuse e si metta
al lavoro.
Saranno
pure state le solite scuse, ma
erano vere, al
contrario dei due wurstel che l’acidona aveva al posto delle
labbra. Pagati da
papà ovviamente, che guarda caso era pure
l’amministratore delegato della banca
in cui entrambi lavoravano. Achille non era nemmeno certo che la
stronza ce l’avesse
una laurea, eppure le era bastato il cognome per diventare la
direttrice della
filiale: ventisei anni, due in meno di lui, praticamente zero
esperienza e la
gerarchia gli ricordava che lei era un gradino più su. Lui
era vicedirettore da
un anno, era abituato a fare lavoro d’ufficio, ma da quando
Iolanda era andata
in maternità, la Leone aveva ben pensato di piazzare lui
allo sportello, un
modo assai poco sottile per ricordare a tutti che il suo futuro era
nelle sue
mani curate.
Si
sedette alla scrivania, pronto a
rendere operativo anche il secondo sportello della filiale, ma il
computer
pareva morto. Non si accendeva proprio. Controllò le prese,
tentò d’invertirne
alcune, ma lo schermo rimase completamente nero. La giornata sembrava
procedere
di male in peggio; afferrò la cornetta e provò a
contattare l’assistenza, ma
nessuno fu in grado di aiutarlo concretamente.
-
Quaresmini, lasci perdere il
terminale, verrà tra qualche ora il tecnico informatico a
sistemare i suoi casini. Guardi
che c’è la signora
Geschwätz e valletti che la cercano; vada pure nel suo ufficio
e li liquidi
alla svelta, ha delle pratiche da sbrigare.
I
suoi
casini? Fino a prova contraria, quel computer era stato usato da
Brambilla
nella mattinata e l’aria colpevole del soggetto in questione
sembrava
confermare l’ipotesi che fosse lui il responsabile del
malfunzionamento.
Achille
si lasciò sfuggire
un’imprecazione mentale contro quella grandissima zoccola
della Leone, in parte
gioendo di poter stare alla scrivania da solo, senza l’arpia
a controllare ogni
singola mossa. Era un ritorno al vecchio lavoro, quello di
vicedirettore vero; non che le
relazioni col pubblico
non gli piacessero, – Ingrid, Ciofanni
e il chihuahua, ad esempio, erano uno spasso – ma talvolta la
clientela sapeva
essere molto esigente, con richieste assurde, moduli incompleti, e
dialetti
africani e asiatici da interpretare.
Meglio
la quiete del suo stanzino cinque
per quattro metri, il rumore rilassante della macchina del
caffè, il quadro con
un paesaggio montano sulla parete, un pc funzionante…
Si
accomodò sulla poltroncina girevole
imbottita, ma qualcosa nella tasca dei pantaloni gli premette contro
l’osso del
bacino. Si raddrizzò senza alzarsi completamente e
infilò la mano nei calzoni,
traendone una piccola carta magnetica: era la tessera punti del
supermercato.
Il
pensiero andò direttamente a un
soggetto: Fluffy, meglio conosciuto
come il detersivo della discordia.
Quando
Azzurra se n’era andata via – la seconda volta, non
quando aveva fatto cilecca
–, si era sentito un po’ stronzo. Un po’ tanto
stronzo. In fondo lei non era così male, neanche
fisicamente: non troppo
alta, occhi e capelli scuri, davanzale discreto, bel
fondoschiena… si
difendeva, nell’insieme. Magari il cerchietto con il fiocco
poteva lasciarlo a
sua nipote, la figlia di Elettra, per andare all’asilo,
però nel complesso era
carina. Se taceva.
Ingrid,
Ciofanni e Arnold sfilarono di
fronte ad un’inorridita direttrice,
che mai si sarebbe abituata agli abiti vistosi e fuori luogo della
signorotta
teutonica.
Per
la prima volta li vedeva senza la
fredda barriera del vetro a dividerli. Lei corse ad abbracciarlo,
mentre il
compagno si accontentava di stringere il chihuahua color biscotto.
Achille
cercò di ricambiare, ma, nonostante la conoscesse da anni,
non si sentiva
proprio a suo agio, shackerato come un frullato in mezzo a quel seno
prosperoso.
-
Sighnor Qvaresmini, okki plu! Crande,
crandissimo proplema!
-
Accomodatevi pure. – I tre si
lasciarono cadere sulle due sedie identiche di fronte alla scrivania.
– Ditemi,
qual è il problema?
-
Pankomat rotto. Kome quanto Arnolt non
riesce ti antare in pagno: plokkato!
Ah,
gli era mancata Ingrid e i suoi
assurdi e imbarazzanti paragoni canini!
-
Me lo dia pure, probabilmente è
smagnetizzato. Glielo sostituisco subito.
-
Oh, sempre prafo sighnor Qvaresmini.
Qvanto tefe pacare?
-
Niente signora Ingrid, è un servizio gratuito.
-
Sentito, Ciofanni? Okki plu sempre
prafo, onesto, non kiede soldi, lui non
frekerebbe mai tonna come me.
Già,
Achille Quaresmini è bravo, onesto,
non fregherebbe mai una donna, non la ingannerebbe per accaparrarsi uno
stupido
flacone di detersivo alla fragranza di brezza marina…
Finì
di preparare il nuovo bancomat per
la signora Geschwätz e li congedò rapidamente,
sempre più pensieroso. Sistemò
alcune carte per circa un’oretta, ma non riusciva a
concentrarsi su quei
documenti, disturbato dagli eventi dell’ora di pranzo.
Ventotto anni e si era
ridotto ad ingannare una tizia per comprare una confezione di Fluffy. Aveva forse lasciato i gioielli
di famiglia a casa, quella mattina? Gran bella prova di galanteria.
Lo
disturbava. Sì, lo disturbava l’idea
che la pazza potesse avere un’idea distorta di lui: non era
il tipo da rubare a
giovani donne indifese delle stupidissime confezioni di detersivo per
lavatrice!
Chiuse
la schermata del computer su cui
stava lavorando e ne aprì un’altra, esitando a
poggiare le mani sulla tastiera,
prima di compiere una gigantesca infrazione alla riservatezza delle
informazioni sui clienti. Controllò che Brambilla e la Leone
fossero impegnati
e lontani dalla sua postazione, quindi digitò nome e cognome
nel motore di
ricerca interno.
Azzurra
Trentini.
Nessun
risultato.
Sarebbe
stato troppo semplice se lei
fosse stata cliente della sua banca. Provò direttamente su Google e trovò Trentini
arch.
Azzurra, ma il solo riferimento era lo StudioLab
di De Carlis ing.
Sergio e soci, via
Marconi 20/b. Gli orari di apertura coincidevano
più o meno con gli orari
della filiale, quindi, a meno di non riuscire a prendere ferie
– il che
probabilmente poteva avvenire verso il periodo di Natale. Del 2024
–, non
sarebbe mai riuscito a trovarla sul posto di lavoro.
Ruppe
ogni indugio chiamando Fabrizio,
suo migliore amico, nonché ex compagno di
università, che ora lavorava in una
delle banche più importanti a livello nazionale.
-
Posso parlare con il dottor Grella?
Sono suo fratello. – Sperava ardentemente di trovarlo subito
e concludere il
losco affare nel minor tempo possibile.
-
Stamattina quando sono uscito di casa
avevo una sorella, Gaia. Che è successo nel frattempo?
-
Sono diventato Gaio, Fabri. Ti ricordi
che mi devi un favore?
Se
l’era inventato di sana pianta, ma
era certo di riuscire ad inventare qualche balla plausibile su due
piedi.
-
No.
-
In quinta elementare ti ho lasciato
campo libero con Elisa. – esclamò sicuro di
sé. Gli sembrava di avere una
ragazza carina in classe con loro, l’unica di cui ricordasse
il nome, e a lui
piaceva, doveva sperare che anche l’amico le facesse il filo.
-
Elena – lo corresse.
-
Allora vedi che te ricordi?
-
Mi ricordo che mi hai dato un pugno
per lei. Che vuoi? – tagliò corto
l’altro.
Era
quello il bello di Fabri: non
portava rancore, dopo vent’anni aveva dimenticato tutto.
Più o meno.
-
Voglio che tu metta da parte per due
minuti la tua etica d’integerrimo operatore bancario e aiuti
il tuo migliore
amico preferito.
Azzurra
aveva assistito inerme al lento
declino della cena da lei organizzata.
Fino
agli aperitivi era andato tutto
pressoché bene: sembravano una piccola e imbarazzata
famiglia qualunque. Sergio
era ormai sulla sessantina e Dalila non gli era anagraficamente molto
distante,
nonostante fosse ancora una bella donna, con una fulgida chioma ramata
e un
fisico slanciato. Se ne stavano tutti e tre con lo sguardo basso a
mangiare
tartine e bruschette nel silenzio più totale. Azzurra aveva
tentato in ogni
modo possibile di avviare una conversazione; parlava di gossip con lei
o di
lavoro con lui, ma non riusciva a coinvolgere entrambi in un discorso
che
esulasse dal commentare il tempo incerto di quell’ottobre
soleggiato.
Forse
sul serio quei due avevano
esaurito le cose da dirsi e quel procrastinare di continuo il momento
d’intraprendere sentieri diversi – dovuto
soprattutto alla cocciutaggine di
Azzurra e ai suoi disperati tentativi di farli vivere per sempre felici
e
contenti – stava finendo col renderli l’esatto
opposto.
-
Dalila, vuoi ancora dei crostini?
Le
offriva del pane, ma in realtà è come
se le stesse chiedendo se voleva stare ancora con Sergio.
-
Ti ringrazio, cara, sono a posto così.
Perché
non voleva quei dannati crostini?
Erano già vecchi, chi pensava li avrebbe presi il giorno, il
mese, l’anno dopo?
Ormai si era impegnata a venire a cena, il minimo che potesse fare era
mangiarseli, e che cavolo!
Le
crespelle erano venute troppo dolci,
Azzurra non escludeva l’ipotesi di aver confuso il sale con
lo zucchero nella
preparazione. Era troppo agitata all’idea di doverle lanciare
in aria a mo’ di
frittata per curarsi di sottigliezze simili. Al massimo ne aveva fatte
alcune
di scorta e nell’armadietto c’era un barattolo di
nutella; le avrebbe spacciate
per crêpes e problema risolto.
-
Sergio, ne gradisci un’altra?
-
Lo sai che sono a dieta, tesoro.
I
bottoni della camicia all’altezza
della pancia sul punto di esplodere sembravano suggerire che fosse
all’ingrasso
come un maialino d’allevamento, ma la padrona di casa
apprezzò lo sforzo
creativo della risposta.
Purtroppo
non c’era stata occasione di
provare l’efficacia della lonza al latte. Dalila, che
lavorava all’ospedale
principale della città, era stata chiamata
d’urgenza per l’assenza di un
collega, vanificando di fatto il piano di Azzurra di stimolare il suo
istinto
materno. Certo ormai ci si metteva pure l’orologio biologico
a remare contro il
geniale progetto di fare un bambino, ma a quel punto pure un porcellino
d’India, una cavia peruviana, ma anche un cagnolino del
canile comunale sarebbero
andati bene.
-
Sono terribilmente dispiaciuta di
dover andare via così presto, ma purtroppo il lavoro mi
chiama. Grazie della
cena, era tutto buonissimo. Ci sentiamo!
Dalila
aveva radunato giacca e borsa e
se n’era andata in modo talmente celere che gli altri due
erano rimasti
spiazzati. Qualcuno avrebbe potuto benissimo dire che stesse scappando.
-
Azzurra? – Sergio la invitò ad alzare
lo sguardo mortificato dal piatto – Dobbiamo parlare.
-
Sì, ho quasi terminato la prima bozza
per la ristrutturazione della villa del 1700…
De
Carlis le sorrise bonario: quella
ragazza era una testa dura e proprio la sua testardaggine era uno dei
motivi
principali per cui l’aveva assunta. E per cui desiderava
licenziarla quasi ogni
giorno.
-
Non intendevo discutere di lavoro e tu
lo sai. Stai evitando questo discorso da settimane, se non mesi,
perciò ora te
lo dirò e tu dovrai accettare la cosa nello stesso modo in
cui lo abbiamo fatto
io e Daly: ci stiamo separando.
-
Forse è solo la crisi del settimo
anno.
-
Abbiamo già chiesto una consulenza
legale. – Gli dispiaceva smontare le teorie astruse della
collega, ma la
conosceva da quando a vent’anni aveva cominciato un tirocinio
nel suo studio e
sapeva che avrebbe cercato di dare un nome improbabile anche al
problema sorto
tra lui e la moglie: carestia affettiva, siccità emozionale
o qualcosa di
simile.
-
Guardare The Good Wife non
è chiedere una consulenza legale, Sergio.
Julianna
Margulies a volte aveva il
potere di confonderlo.
-
Un avvocato vero… stavolta.
Azzurra
sospirò, colma di malinconia:
perché, tra i milioni di coppie al mondo, proprio loro
dovevano lasciarsi?
Perché non Brad e Angelina? Dalila era centomila volte
più simpatica di lei e
Sergio era più… più…
più ingegnere di
lui!
-
Non voglio che vi lasciate. – mugolò
afflitta.
-
Lo so, – le rispose comprensivo – però
devi sapere che non stiamo rinnegando quel che c’è
stato tra noi, né stiamo
incolpando te per averci fatto incontrare; anzi, ti siamo grati per
quello. Solo
non ce la sentiamo più di vivere insieme e siamo abbastanza
maturi da
ammetterlo.
-
Stai insinuando che io non sia matura?
Non
ci pensò neanche un secondo.
-
Sì, decisamente.
-
Mi offendi! – come se fosse stata la
prima volta che qualcuno le dava dell’acerba.
-
Sei tu che offendi la tua
intelligenza, continuando ad incolparti per qualcosa che non dipende da
te. I
matrimoni finiscono, Azzurra! È la vita.
Il
grissino che aveva in mano la ragazza
venne ridotto in migliaia di briciole nervose.
-
Ma io voglio che voi stiate insieme. –
s’impuntò, confermando le tesi del capo
– Siete i miei Lancillotto e Ginevra…
senza la parte in cui lei viene condannata a morte, tu ammazzi
metà Tavola
Rotonda e finisci solo e sfigato come un eremita. Oddio, potresti
diventare
così!
Ed
ecco la vena melodrammatica
impossessarsi di lei e fare spalancare gli occhi a lui, intendo a
pronunciare
scongiuri.
-
Grazie.
Azzurra
tentò un ultimo, disperato
attacco: magari sarebbe riuscito a convincerlo con la forza della
disperazione.
-
Torna con lei.
-
Si può sapere che diavolo di ansia da
separazione di affligge? – s’alterò lui,
pur sapendo che alzare la voce con lei
non avrebbe cambiato le carte in tavola. Era troppo ostinata.
– Non cambia
nulla nel rapporto con te, ci saremo entrambi ogni volta che vorrai.
Saremo
sempre il tuo abbozzo d’ingegneria sentimentale, come dici
tu.
-
Era capolavoro! – lo
corresse lei, ma il sorriso di Sergio fu
eloquente.
-
Beh, è palese che tu debba
perfezionare le tue tecniche. Però sei sulla buona strada.
– poi, decise a sua
volta di congedarsi. – Sono stanco, vado a casa, grazie della
cena.
Viale
della Quercia, 27.
Achille
controllò un’ultima volta
l’appunto che aveva preso mentre Fabrizio gli dettava
sottovoce al telefono e
il navigatore sul cellulare. Pareva proprio che fosse arrivato a
destinazione.
Un condominio carino, appena fuori dal centro, pitturato di un
eccentrico
arancione acceso e circondato da un piccolo giardino curato. Il
cancellino era
aperto, per fortuna, dava l’impressione di non venire mai
chiuso.
Cacciò
cellulare e foglietto in tasca,
prese il pacchetto regalo che aveva confezionato alla bell’e
meglio – dopotutto
lavorava in banca, la creatività non era di certo il suo
punto forte – e si
avviò verso il breve vialetto piastrellato che conduceva
nell’atrio del
palazzo.
Due
fidanzatini stavano amabilmente
mangiandosi la faccia a vicenda in un bacio dall’alto tasso
di coinvolgimento
emotivo, proprio sulla porta.
-
Ehm, scusate?
Lo
ignorarono completamente. Achille
cercò di aggirare l’ostacolo, ma le mani del
ragazzo, salde come artigli sul
fondoschiena di lei, gli ostruivano il passaggio da entrambe le parti.
Provò ad
appiattirsi contro il cardine, cercando di passare di profilo con le
braccia
che reggevano il pacchetto sopra la testa: tentativo vano. Alla fine li
abbracciò entrambi, li spostò in blocco verso il
muro laterale e i due non
diedero cenno di accorgersene, continuando ad ispezionare
l’uno la bocca
dell’altro.
-
Ecco qua. Proseguite pure con… il
soffocamento reciproco.
Con
la via d’accesso alle scale
finalmente libera, l’unico problema da risolvere per trovare
Azzurra era
scoprire il suo interno. I piani erano solo cinque, perciò,
al di là un po’ di
sano esercizio fisico, lo sforzo non doveva essere troppo impegnativo.
Ogni
pianerottolo aveva due
appartamenti, separati da un paio di gradini. Achille non
trovò il cognome Trentini
sul campanello fino all’ultima
rampa in cima al condominio, dove c’era una sola porta
cromata di rosso, la
mansarda presumibilmente. L’occhio gli cadde sullo zerbino;
era un semicerchio
marroncino con la scritta tutt’altro che simpatica: You again? Era di sicuro la casa giusta.
Tentennò
qualche istante prima di
suonare, chissà cos’avrebbe pensato lei
trovandoselo davanti al suo
appartamento, di sera, quando era in pratica uno sconosciuto. Pazienza,
ormai
aveva attraversato la città per cercarla e, conoscendo il
soggetto, era in
grado di saltargli al collo o per ammazzarlo o per la contentezza di
vederlo.
Azzurra,
all’interno dell’appartamento,
si alzò meccanicamente dal divano, singhiozzando come una
bambina. Che fosse
Sergio a suonare il campanello per dirle che stava scherzando prima? Il
lumicino della speranza si spense non appena aprì la porta e
si trovò davanti
il riccio ladro del supermercato.
-
Che ci fa lei qui? – lo aggredì subito
– È-è uno stalker? Guardi che sono
armata, stia indietro! – Nel frattempo aveva
tastato con la mano destra il mobiletto dell’ingresso, alla
ricerca di qualcosa
di appuntito o almeno di pesante da usare come arma di difesa contro
l’intruso.
L’unica cosa che era riuscita a racimolare, però,
era un blocchetto di post-it
a forma di mela. – Le… incollo gli occhi insieme,
se non si allontana!
-
Cosa? Si calmi, Azzurra, – replicò
lui, appoggiando il pacco regalo per terra e facendole cenno con le
mani di
rilassarsi – non sono uno stalker, sono Achille, del
supermercato… ricorda?
La
ragazza lo fissò incredula.
-
Mi ha preso per rimbambita? So chi è
lei. Ma cos’è venuto a fare a casa mia? E chi le
ha dato l’indirizzo? – Stava
per dire qualcos’altro, poi parve ripensarci. Si
avvicinò a lui e gli domandò
sottovoce: –
Non sono stata io, vero?
-
No, è una lunga storia. – Veramente
era corta, ma raccontare di aver chiamato un suo amico in
un’altra banca,
pregato perché infrangesse una ventina di norme sulla
privacy cercando il suo
nome tra i clienti e implorato che gli comunicasse la via della sua
abitazione…
beh, lo avrebbe etichettato senza dubbio come maniaco – Si
sente bene?
-
Perché non dovrei? – Stava riprendendo
a frignare e due grosse lacrime le stavamo scendendo sulle guance
arrossate.
Achille
la osservò meglio: era un
disastro piagnucolante e nemmeno il vestito floreale sopra il ginocchio
che le
lasciava intravedere la forma del seno migliorava di molto la
situazione.
-
H-ha il mascara tutto colato, i
capelli arruffati, gli occhi gonfi… –
S’irrigidì subito dopo averlo detto, poteva
aver azzardato troppo; la sua ex gli aveva mollato dei ceffoni anche
per molto
meno.
-
Sta cercando di dirmi che sono un
cesso? – Lei stava urlando, ma almeno la faccia era salva.
Anche
se poteva sembrare il contrario,
in realtà la trovava… carina, tenera quantomeno,
così fragile da desiderare di
abbracciarla come un peluche gigante, di quelli belli ciccioni, o come
un
cucciolo bavoso.
-
Assolutamente! La trovo molto… – come
trovare la giusta parola per non mortificarla? – emotiva.
-
Ritenti.
-
Umana?
-
Può fare di meglio.
-
Graziosa.
Finalmente
Azzurra sorrise soddisfatta.
-
Adoro la sua spontaneità. – Achille si
unì a lei in un’espressione gaudente. Forse era
riuscito nell’intento di farla
calmare e dimenticare il suo rocambolesco arrivo. – Mi dice
che c’è venuto a
fare qua?
O
forse no.
-
Volevo scusarmi per oggi, mi sono
comportato come un ragazzino e ho infranto il patto che avevo siglato
con lei.
Lei
lo guardò un po’ scettica, ma le si
leggeva in faccia che non avrebbe retto il broncio a lungo. Certo il
Pelide
aveva osato – e parecchio! –, però in
fondo era stato un gesto cortese, carino,
dolce, sensibile… potenzialmente maniacale e omicida, ma
suvvia, nessuno è
perfetto.
-
Il ratto del Fluffy, eh?
-
Sono desolato.
Lei
ci pensò un attimo, poi decise di
fargli una domanda che avrebbe potuto migliorare la situazione
disastrosa di
lui ai suoi occhi.
-
È arrivato tardi a lavoro?
-
Tre minuti e tredici secondi.
Ancora
una domanda e si sarebbe sentita
meglio. Nel caso di risposta affermativa, naturalmente.
-
L’hanno sgridata?
-
Strigliato come un bimbo dell’asilo. –
Azzurra si concesse una breve Macarena
mentale per celebrare la piccola rivincita, ma ad Achille non
sfuggì il
sorrisino malefico sulle sue labbra. – Sta festeggiando
internamente?
-
Può essere… – rispose lei vaga,
conscia di essere stata beccata in flagrante.
-
Ha finito?
-
Ancora un attimo, devo terminare di
agitare il sedere. Ecco, ci siamo. – Tamburellò
nervosamente le dita sul
battente della porta; la proposta che aveva in mente andava contro
tutti i
principi del suo senso. Non di certo quelli che le aveva insegnato sua
madre:
una tizia scappata al proprio matrimonio con un lontano parente del
marito, aveva
perso ogni diritto di fare la morale alla figlia in fatto di relazioni
– Bene,
se mi promette che non mi ucciderà, la invito ad accomodarsi.
Ecco,
l’aveva detto: o aveva appena
firmato la propria condanna a morte o poteva essersi invischiata in
qualcosa di
più pericolosamente piacevole.
-
Cercherò di fare del mio meglio.
Azzurra
si scostò dalla porta,
spalancandola e lasciandogli lo spazio necessario per entrare. Achille
si
abbassò a recuperare il pacco che aveva appoggiato sullo
zerbino e fece
ingresso nell’appartamento. Si prese del tempo per osservarne
le
caratteristiche: il colore dominante sulle pareti era il tortora, i
mobili
erano tutti sulla tonalità del bianco, i quadri
raffiguravano le più grandi città
del mondo. Sopra il caminetto, una piccola libreria conteneva grossi
volumi di
storia dell’architettura e dei dvd meticolosamente sistemati
in ordine cromatico.
-
Se ha finito la radiografia, posso
chiederle cosa c’è nel pacchetto?
Il
ragazzo si accomodò sul divano e le
porse il regalo.
-
Non sono solito presentarmi a casa di
sconosciute incontrate una volta al supermercato a mani vuote. Lo apra,
coraggio.
Lei
lo afferrò tra le proprie mani,
timorosa, sedendosi accanto a lui. La carta che avvolgeva il dono era
da pacchi
e l’orrendo fiocchetto striminzito era di rafia bluette. Non
capì se il colore fosse
un omaggio a lei o una semplice coincidenza, ma gli concesse qualche
punto
extra; se non per merito, erano un bonus per il fattore c.
Tolse
il l’involucro e scrutò attentamente
il contenuto.
-
Fluffy!
– Un nuovo flacone di detersivo arancione era sistemato in
una scatola
rettangolare – Non è brezza marina,
però.
-
È pesca e albicocca, per onorare la
memoria delle cadute nella giornata di oggi. Come si dice in questi
casi, il
loro sacrificio non è stato vano.
Azzurra
si portò teatralmente la mano
destra sul cuore.
-
Lei tocca le corde più profonde del
mio essere. – Doveva riconoscere che Achille aveva trovato un
modo gentile per
ricordare le defunte. Che lui aveva ucciso.
-
Dalila e consorte se ne sono andati
prima? – Cambiò argomento lui
d’improvviso.
-
L’hanno chiamata per sostituire un
collega malato in ospedale e Sergio è rimasto solo per
confermarmi che sono già
andati dall’avvocato e che stanno procedendo con le pratiche
per la
separazione. Sono scoppiata in lacrime, lui ha detto che il loro
affetto per me
rimarrà immutato, che non mi costringeranno a scegliere uno
o l’altro; mentre
usciva ha addirittura promesso che proverà ad assumere
l’architetto gnocco di
cui ero innamorata lunedì scorso. Un chiaro tentativo di
comprare il mio
affetto.
-
Allora si aspetti la contromossa di
Dalila.
-
Al massimo mi darà un buono per una
visita ginecologica.
Il
ragazzo si pietrificò; da degno
esemplare della fauna maschile, i discorsi su organi genitali
femminili,
mestruazioni, assorbenti e affini erano un campo minato. Tuttavia, le
tette lo
interessavano. Comunque, meglio limitarsi ad annuire e cambiare la
rotta della
conversazione. Per sua fortuna, Azzurra parve capire il suo imbarazzo e
si
alzò, raggiunse la cucina a vista, trafficando negli
armadietti per cercare due
bicchieri e la bottiglia di moscato dei De Carlis che non avevano avuto
occasione di bere.
-
Almeno le tornerà utile. – la voce di
lui le giunse dall’altra parte della sala. – Quindi
l’arrosto non ha
funzionato.
Appoggiò
i calici sul tavolino davanti
al divano e si diresse verso il frigorifero.
-
Ha scelto una lonza guasta,
evidentemente. Gradisce del tiramisù?
-
È un tentativo di sedurmi? – Si erano
entrambi rilassati e si stavano ora godendo il divertimento del botta e
risposta tra loro. – Non la facevo così sfacciata.
-
Disse quello che si era presentato
sulla porta di una sconosciuta alle dieci di sera. – Non
aspettò risposta e
posò tiramisù, piattini e posate accanto a
bicchieri e vino. Achille aprì il
moscato e ne versò un po’ per entrambi, mentre
Azzurra si assentava un attimo
per andare in bagno. – Si serva pure, io vedo di sistemare
questo pasticcio che
mi rende… com’era? Ah, sì, emotiva, umana
e graziosa.
Lui
immaginò di vederla sorridere,
mentre era intenta a lavare via dal viso lacrime e trucco colato. Nel
frattempo, prese un cucchiaio e la teglia del tiramisù,
mangiando direttamente
da quella. Adorava i dolci, erano l’unica vera tentazione a
cui non riuscisse
mai a dire di no e doveva ammettere che quello di Azzurra era molto
buono. Di
pasticceria, non aveva dubbi.
Lei
ritornò nel salone giusto in tempo
per ammirarlo divorare la terza fila di savoiardi. Senza piattino,
senza aver prima
frazionato il dessert in quadrati di quattro centimetri per quattro e
di certo
senza alcuna dignità! Sembrava un sopravvissuto ad una
carestia secolare, si
ficcava in bocca un boccone dietro l’altro, procedendo ora
dritto, ora in
diagonale nella pirofila.
-
Vedo che ci tiene alla linea.
Non
a quella geometrica, però,
pensò criticamente con deformazione professionale.
-
Fcufi,–
farfugliò lui, mandando giù l’ultima
cucchiaiata – perdo la mia grazia quando
ho davanti un dolce.
-
La stessa grazia con cui mi ha
investito con il carrello e ha rubato il
Fluffy?
Achille
roteò gli occhi con finto fare
annoiato, poi prese in mano la teglia col tiramisù e la
mostrò meglio ad
Azzurra.
-
Si sforza così tanto di ricordare, e
di ricordarmi, le mie presunte malefatte che non apprezza nemmeno i
gesti
carini che faccio per lei, architetto.
– Lo sguardo della ragazza si soffermò sul dolce:
il tiramisù rimanente aveva
la forma approssimativa di una piccola casetta con il comignolo sul
tetto. –
Fosse arrivata qualche secondo prima, avrebbe trovato anche una bella
nuvoletta
di fumo.
Azzurra
prese un cucchiaino, lo
capovolse e tracciò con esso una riga per ridurre le
dimensioni della
costruzione stentata di Achille, allontanando l’eccesso.
-
Non mi sarei mai potuta permettere
un’altra casa così grande –
spiegò. Poi prese i due bicchieri di moscato e ne
porse uno a lui.
-
Io le avrei fatto un mutuo senza
problemi. – Le sorrise, poi bevve un lungo sorso di vino
– Bastava solo che
venisse da me.
Nel
tentativo di metterla a proprio
agio, senza più dubbi su di lui, stava correndo il rischio
di agitare le acque ancora
di più, trascinandola con sé a danzare sulla
sottile lama del flirt. Lei non
era così sprovveduta da non conoscere il pericolo a cui
andava incontro, ma
quel giorno si sentiva abbastanza intrepida da sfidare la sorte e le
intenzioni
di Achille.
-
E darle l’occasione di fare l’eroe? –
fece una smorfia che indicava che non era propensa a fare una tale
concessione.
-
Sono un uomo, è il mio sogno diventare
l’eroe di una donzella in difficoltà.
-
Scommetto che la calzamaglia le sta un
amore – lo canzonò.
Il
ragazzo si fece serio e gonfiò il
petto come un tacchino ripieno.
-
Diciamo solo che qualcuna mi ha
paragonato a Roberto Bolle. – esagerò –
Dopotutto, non dimentichiamoci che sono
un semidio.
Azzurra
raccolse in parte quell’ardito
pavoneggiarsi del suo inaspettato ospite.
-
E io una tinta pastello. Ciò dovrebbe
farla riflettere: il nome spesso non rispecchia il carattere.
Achille
riempì un altro cucchiaio di
tiramisù e lo sbafò senza ritegno, sotto lo
sguardo allibito della ragazza, che
non si capacitava di come fosse riuscito a spazzolare praticamente
metà teglia
di dolce e ancora avesse la forza d’ingurgitarne
dell’altro.
-
Sta forse insinuando che io non avrei
le sembianze o la forza del mio omonimo?
-
Per verificare dovrei farle togliere
una scarpa e colpirla al tallone, ma non sono certa di essere pronta ad
affrontare un tale stato d’intimità da vederle i
piedi nudi.
-
Fredda e algida come un polaretto: –
commentò – il suo nome le calza a pennello.
Lei
sfoggiò un'altra di quelle
espressioni da maestrina che lui aveva conosciuto al supermercato,
quando si
era tanto applicata per istruirlo tra gli scaffali stracolmi e i pochi
clienti
dell’ora di pranzo.
-
In realtà, il significato è che
ha il colore del cielo sereno – gli
spiegò. Era una di quelle cose che sua madre amava ripeterle
da bambina, ogni
singola volta che lei le chiedeva per quale motivo l’avessero
chiamata come un
colore. Perfino Giampaolo, il gatto persiano di suo padre, aveva un
nome più
normale del suo. E c’era da domandarsi se ci fosse qualche
collegamento tra la
razza del gatto e l’origine altrettanto persiana di Azvard, da cui Azzurra.
-
Se controlla bene ci troverà anche la
specificazione d’inverno, in
Siberia, a
-50°C. – la prese in giro, notando quanto
le risultasse facile irrigidirsi
in sua presenza – Temo che la casa di tiramisù non
contribuirà a sciogliere il
suo cuore gelido.
-
Nemmeno la rata del mutuo che mi vuole
fare accendere.
-
Sono un eroe, non un messia: – sospirò
– faccio mutui, non miracoli.
-
E allora ho paura che il suo aiuto mi
sarà del tutto inutile.
-
Come vuole, però mi sembra giusto
dirle che nessuna si è mai lamentata.
-
Nessuna?
– ripeté lei – Significa che
è stato l’eroe di parecchie donzelle in
difficoltà.
-
È gelosa?
Il
sorriso malizioso di Achille la fece
vacillare, ma non voleva in alcun modo concedergli il vantaggio di
capire come non
le fosse indifferente.
-
Pensavo solo che gli eroi fossero personali,
– esclamò quasi delusa – non credevo di
doverne prendere uno riciclato.
-
Ehi, – la bloccò lui – piano con le
parole! Con le altre ho fatto soltanto pratica, per migliorare.
Azzurra
si alzò, si versò dell’altro
vino e tornò accanto a lui sul divano, portandosi entrambi i
piedi scalzi sotto
il sedere.
-
Sono curiosa di sapere se queste
tecniche di seduzione funzionano.
Pareva
divertirsi un mondo a propinarle
battutine sciocche su relazioni con altre donne, presunte e reali.
-
Qualche volta, ma non creda che siamo
solo noi uomini a tentare l’abbordaggio. Oggi, ad esempio,
una tizia ha tentato
di rimorchiarmi spudoratamente al supermercato con la scusa
d’insegnarmi a
scegliere il sugo.
-
Non era affatto una scusa! – appoggiò
il bicchiere sul tavolo, difendendosi dalla folle accusa che lui le
stava molto
poco velatamente muovendo.
-
Vero, mi perdoni, – si scusò lui – era
una tecnica. Dello sguizzo, ad essere precisi, o almeno è
quello che mi ha
detto lei. Non aveva un aspetto raccomandabile.
-
Troppo emotiva, umana e graziosa
per sembrare rispettabile?
Achille
ignorò deliberatamente la
frecciatina e continuò con la sua dettagliata descrizione
dell’incontro al
supermercato. Dal suo punto di vista, ovvio.
-
Si è inventata di tutto pur di non
smettere di parlare con me, avrebbe dovuto vederla.
-
Sbaglio o è stato lei ad avvicinarsi
per aiutarmi con la lonza?
-
Sono un gentiluomo, mi ha circuito e
si è approfittata di me.
-
Infatti la vedo davvero provato –
scherzò lei.
Lui
si mise entrambe le mani sul petto e
da perfetto attore consumato, recitò la sua battuta colma di
dolore.
-
Solo perché non riesce a vedere le
ferite interne.
Azzurra
si trovò su un piatto d’argento
la ghiottissima occasione di terminare il gioco verbale tra i due e
farlo
volgere in qualcosa di più interessante. Achille, comunque,
auspicava che si
rimanesse in ambito linguistico.
-
Questa ragazza l’ha proprio segnata,
nonostante la conosca da meno di ventiquattr’ore…
Lui
mangiò la foglia, il ramo e pure la
pianta.
-
E pensi che abbiamo già litigato un
paio di volte, fatto pace, fatto la spesa insieme, mangiato sul divano,
io l’ho
già rincorsa fino a casa e fatto il cretino per farla ridere.
Azzurra,
per un riflesso condizionato,
gli sorrise complice. Sì, era proprio un cretino, ma lei lo
era ancora di più a
barcollare emotivamente per le idiozie che lui le stava rifilando.
Perfetto,
il tontolone la stava
intontendo.
Lei
lo guardava con occhi indecisi, lui
non la sapeva decifrare. Non solo il suo sguardo, non sapeva decifrare
lei tutta. Il silenzio che regnava
in quel
momento, ad esempio, che significava? Un tacito assenso a realizzare
quello che
lui aveva in mente o semplice imbarazzo e ritrosia a dirgli di
andarsene per
mera educazione?
O
forse era questione di palle.
Dai,
cazzo, ti chiami Achille!
Sull’onda
emotiva provocata dal ricordo
di antichi eroi omerici, il riccio si spostò di qualche
centimetro sul divano,
sporgendosi verso di lei. Azzurra non si mosse, lasciò che
lui si avvicinasse
al suo viso e strofinasse la punta del naso prima contro la sua
guancia, poi
contro il suo, di naso. Non riuscì ad impedire a se stessa
di respirare
rumorosamente, chiuse solo gli occhi, mentre lui cominciava a baciarle
leggero
la fronte, le palpebre, per poi scendere sulle gote accaldate e infine
sulla
bocca. Achille socchiuse appena le labbra per sfiorare le sue, con
lentezza,
non voleva affrettare le cose e rischiare di spaventarla, anche se una
parte di
lui premeva perché accelerasse. E avrebbe premuto parecchio
entro poco, sulla
zip dei pantaloni in particolare.
Decise
di osare di più, lei sembrava abbastanza
rilassata da permettergli di approfondire il contatto. Le mise una mano
sul
fianco ed una sulla schiena per spingerla più vicino a
sé e… se fosse scappata
qualche strusciatina di certo non si sarebbe lamentato.
Ma
Azzurra scattò in piedi con la velocità
di una saetta e l’espressione indignata.
-
Sta cercando di approfittarsi di me? –
lo accusò ad alta voce.
Il
ragazzo la fissò incredulo, la sua
bi-tri-tetrapolarità cominciava davvero ad alterarlo. Prima
si era goduta le
moine, poi ora se ne stava con l’indice puntato verso di lui
ad attribuirgli
false imputazioni.
-
No, i-io credevo che…
Fabrizio
avrebbe potuto tranquillamente
potuto definirla una figura di merda. E non solo Fabrizio. Non
ricordava di
essere mai stato respinto in quel modo da una donna. Gli sembrava un
po’ di
capire ora come si era sentito il buon vecchio Pelide originale quando
lo
avevano colpito al tallone destro, il famoso tallone
di Achille. Solo che, a giudicare da quanto gli bruciava la
ferita nell’orgoglio, gli pareva di essere stato colpito in
un’altra parte
anatomica.
-
Lei credeva che cosa? – continuò
Azzurra – Che bastassero due battutine del cavolo per farmi
cadere ai suoi
piedi? Pensava di riuscire a portarmi a letto?
-
No, certo che no.
D’accordo
che era un uomo e che aveva i
suoi bisogni fisiologici, ma non era pervertito al punto da voler
concludere la
prima sera. Almeno, non era così ottimista.
-
Ne è sicuro? Perché a me è parso
proprio il contrario – continuò imperterrita lei.
-
Stavamo solo parlando! – si difese –
Le assicuro che non l’avrei mai spinta a fare nulla che non
avesse voluto.
-
Oh, bene. Devo anche ringraziarla per
questo?
Achille
stava per gettare la spugna:
cercare di avere una normale conversazione con Azzurra era come cercare
di
ottenere un alano dall’accoppiamento di due babbuini.
-
Lei fraintende sempre quello che dico.
-
Ah, io fraintendo? Quindi
è colpa mia.
-
Santo cielo! – gridò lui esasperato –
Senta, faccia finta che non sia mai venuto qua. D’accordo?
Ora io me ne vado,
lei si rimette sul divano a mangiare il suo tiramisù, poi si
fa una bella
dormita e si dimentica di questa giornata assurda.
Mentre
parlava, si era alzato per
recuperare la giacca sullo schienale del divano e se l’era
infilata convulsamente;
d’improvviso non vedeva l’ora di levare le tende,
ne aveva abbastanza di
tentare di essere carino e gentile con una pazza furiosa che travisava
ogni
singola parola o gesto.
-
Ora vuole pure dirmi cosa devo fare? –
Gracchiò Azzurra, frugando nella propria borsa, alla ricerca
di chissà che
cosa: spray al peperoncino, la Sacra Bibbia, il cadavere di un cervo
mummificato, davvero non gli interessava.
Prese
la direzione dell’ingresso, per
uscire da quella porta e tornare nella civiltà, in mezzo a
gente normale, con
personalità normali e non da manicomio.
-
Addio, Azzurra. Buona vita – le augurò,
senza cercare di stringerle la mano, perché la
possibilità che lei lo accusasse
di molestie sessuali non sembrava totalmente remota.
Lei
però gli sorrise amabile, gl’infilò
nel taschino della giacca un foglietto rettangolare e si
piazzò davanti a lui.
Si guardarono per una decina di secondi, Achille sempre più
confuso, Azzurra
con le idee sempre più chiare.
Gli
sorrise, gli mise una mano dietro la
nuca e lo attirò a sé, baciandogli le labbra. Lui
rimase pietrificato e disorientato,
l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era trovarsi da un
momento all’altro la
bocca di lei sulla sua. Non mosse nemmeno un muscolo, lei avrebbe
potuto
saltargli addosso e strappargli i vestiti di dosso o tirargli un pugno
nello
stomaco e piegarlo in due dal dolore.
Invece,
Azzurra si limitò a staccarsi da
lui e a guardarlo con aria critica.
-
Mh. Piuttosto scarso come semidio. – Poi
aggiunse sottovoce: – Buona notte, Achille. Chiamami domani.
Gli
sbatté letteralmente la porta in
faccia. Una faccia piuttosto sorpresa, a dire la verità.
Cos’era appena
successo?
Il
ragazzo trasse dal taschino il
piccolo cartoncino che lei gli aveva dato un attimo prima di decidere
di
baciarlo; era il suo biglietto da visita, con il numero
dell’ufficio e il
cellulare sul retro. Dunque lei voleva che lui le
telefonasse…
L’aveva
fregato alla grande, la sua era
solo una commedia. Prima l’aveva assecondato, poi respinto,
poi rimproverato,
poi quasi cacciato di casa, poi baciato… e cacciato
definitivamente di casa.
E
lui si era esaltato, depresso,
arrabbiato, infuriato e… incuriosito.
Quell’andamento incostante lo irritava e
attraeva allo stesso tempo. Ma non poteva lasciare ad Azzurra tutto
quell’ascendente. In più, da buon cavernicolo
– o eroe greco, il concetto era lo
stesso – non voleva che fosse lei a condurre i giochi.
Senza
pensarci due volte, prese a
battere le nocche furiosamente sulla porta rossa.
-
Azzurra, mi spiace rovinare il tuo
momento di gloria, purtroppo ho dimenticato le chiavi!
Un
attimo di esitazione, poi gli
rispose.
-
Dove sono? – gli urlò dall’interno.
-
Ehm… incastrate nel divano, per terra,
non lo so! – mentì – Apri, per favore.
Si
sentirono dei passi veloci
raggiungere l’uscio. La ragazza venne ad aprire annoiata,
ispezionando il pavimento
per individuare il fantomatico mazzo di chiavi perduto. Era
visibilmente
scocciata, non per la supposta sbadataggine di lui, ma piuttosto
perché in
quella giornata le sue amate uscite di scena ad effetto non parevano
fungere
come da copione: la macchina che si spegneva, il Pelide che bussava per
rientrare… Achille
bloccò il flusso dei
suoi pensieri quando la prese per il busto, la spinse contro la porta e
la
baciò. Stavolta niente buffetti o carezze, lasciò
che la frustrazione di poco
prima e la soddisfazione di zittirla agisse per lui. Le socchiuse
facilmente le
labbra, mordicchiandole piano con i denti e stuzzicandole con la
lingua, che poco
dopo le invase la bocca. La torturò per mezzo minuto, il
tempo di annebbiarle i
sensi e sentire i muscoli di lei rilassarsi sotto le sue mani. Quindi
l’allontanò.
-
Che il disgelo abbia inizio. – disse,
ancora con il fiatone – ‘Notte Azzurra, ti chiamo
domani.
Uscì
sorridente dall’appartamento di via
della Quercia con rinnovato spirito: la virilità e la nomea
erano di nuovo al
sicuro.
Azzurra,
invece, rimase a fissare la
porta, con lo stomaco sottosopra. Aveva pensato che la sceneggiata di
poco
prima bastasse a confonderlo al punto da non farlo reagire almeno fino
al
giorno seguente. Al
contrario, lui non aveva
impiegato che una manciata di secondi ad elaborare una strategia per
riequilibrare una situazione sfavorevole.
Forse
Achille Quaresmini non era semidio
per discendenza, ma c’era qualcosa al di là
dell’umano nella sua tenacia.
A
lei toccava la prossima mossa: avrebbe
scoperto e trovato il suo punto debole, il celeberrimo tallone.
Perché, a
ripensarci meglio, non trovava più così
sconveniente vederlo a piedi nudi… sperando
che togliergli le scarpe fosse solo l’inizio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Ronzii - Parte I ***
Di
semidei e tinte pastello.
Ronzii – Parte I.
Jean-Paul
Marat l’aveva avvisata.
E
con ben duecentoventi anni di anticipo, perciò Azzurra non
poteva proprio dire
di non saperlo: mai fidarsi di una donna francese. Nemmeno –
e soprattutto! –
se ha un nome che sembra quello di una crema per dolci. Chantal.
Chantilly. Forse era questo il motivo per cui Achille era
entrato in confusione. Pensava di avere a che fare con della soffice
panna
montata aromatizzata alla vaniglia e si era ritrovato tra le mani un
secco
fuscello transalpino impregnato di J’adore.
Maledetto lui e la sua zuccheropatia.
Chantal
era un nome carino per indicare un metro e sessantacinque di snobismo
napoleonico, tutto sommato sopportabile, se non fosse stato per il
fastidioso
prefissuccio – che, tra l’altro, il soggetto in
questione tendeva a dimenticare
– che precedeva la normalissima connotazione di ragazza: ex.
Azzurra
e Achille non erano usciti che quattro o cinque volte, prima che
l’indesiderata
intrusione della dernière femme de
France
si compisse. Avevano preso le cose con calma, credendo di avere tutto
il tempo,
profezie Maya permettendo. In realtà, Achille si era
mostrato pronto e
disponibile in qualsiasi occasione, ma ciò che rimaneva
nelle macerie della sua
galanteria e una certa ritrosia – piuttosto latente
– di Azzurra avevano
prevalso sulla razionale logica dei suoi ormoni. Ma
l’arrapato bancario avrebbe
potuto smettere di trattenere il fiato e di immaginare la decrepita
professoressa Savarese in lingerie per calmare i bollenti spiriti entro
un paio
di giorni. Quattro, per essere precisi… ma chi li contava?
In previsione della
presunta fine del mondo, infatti, Azzurra aveva intenzione di
organizzare una
cena a sorpresa la sera del 20 dicembre, a casa sua, dove per la prima
volta
avrebbe aperto la porta della camera da letto ad Achille. Avrebbero
così finito
quanto iniziato settimane prima sul divano del suo appartamento, il
giorno in
cui si erano conosciuti al supermercato; e che diamine,
d’accordo fare la
ragazza perbene, ma i capelli ricci e ribelli di lui sarebbero stati
così bene
tra le sue cosc… ehm cuscini,
i suoi
cuscini. Stavano entrambi impazzendo e Azzurra aveva cominciato a
intravedere –
e persino intrasentire – doppi sensi del tutto inappropriati
in ogni singola
frase pronunciata dall’altro.
-
So che lo vuoi… prendilo! Piace più a te che a me
il torrone.
-
Lecca-lecca? Mia nipote deve avermelo infilato nella tasca del cappotto.
-
Poco alla volta, altrimenti ti fa male. Piano con quella granita!
Entrambi
erano sul punto di voler evitare contatti troppo ravvicinati
– perché Achille
aveva visto un qualcosa di estremamente sexy nel modo in cui Azzurra
aveva
maneggiato il torrone, scartato e mangiato il chupa-chups della piccola
Diana o
come le goccioline di ghiaccio sciolto della granita le fossero
accidentalmente
scivolati dalla bocca alla gola e poi giù, fino
all’incavo tra i seni – e le
uscite in pubblico in compagnia erano parse la soluzione migliore.
Ormai era
deciso: avrebbero mantenuto la loro verginità contestuale
fino all’arrivo dei
Maya e non erano ammesse proroghe o deroghe. Per questo motivo, un giro
dei
mercatini di Natale in compagnia della coppia di neo ex sposi,
nonché neo
amici, composta da Sergio e Dalila De Carlis era il pretesto perfetto
per
continuare a torturarsi a distanza, cercare di distrarsi dalle manie
ninfomani
e ultimare l’acquisto dei regali per le feste.
Naturalmente,
se avesse saputo dell’improvvisa perturbazione di gelo ammazzalibido proveniente dal sud della
Francia, l’architetto
Trentini avrebbe molto più che volentieri rinunciato ai suoi
buoni propositi di
una pseudo purezza e si sarebbe rotolata voracemente tra le lenzuola di
Achille. O le sue. Ma pure senza lenzuola! Direttamente sul corpo di
lui.
Si
erano fermati tutti e quattro a prendere un krapfen ripieno ciascuno e
inutile
dire che il riccio aveva insistito per prenderne tre per se stesso,
perché
ormai, alle due e trenta di pomeriggio, era ‘tempo
di fare merenda’.
Un
tiepido sole illuminava la città, nonostante da settimane le
previsioni del
tempo indicassero piogge e neve imminenti. Purtroppo, il colonnello
dell’aeronautica
della tv non aveva previsto nauseabonde ondate di costosa colonia
francese.
-
Achille?
Lui
aveva ancora della crema pasticcera sul mento – krapfen
numero due –, quando si
era voltato d’istinto nella direzione in cui si era sentito
chiamare. Azzurra
era troppo concentrata a contrattare insieme a Dalila il prezzo
dell’ennesima
boule à neige da aggiungere alla sua pacchianissima
collezione, per accorgersi
che il sorriso del suo accompagnatore era passato dallo smagliante
all’apprensivo in pochi secondi.
-
Chantal? – Si girò a controllare che Azzurra fosse
ancora impegnata a
chiacchierare con l’ambulante, poi si rivolse di nuovo alla
ragazza dal lieve
accento francese. – Ch-che ci fai qui?
Si
sforzò di essere educato e sperò che lei non
avesse notato il leggero tremolio
nella sua voce. Era uno shock trovarsela davanti agli occhi, in carne
ed ossa,
dopo anni di silenzio. Poteva pure essere morta, per quanto ne sapeva
lui. Beh,
con tutte le maledizioni e le bambole voodoo decapitate da Elettra, sua
sorella, nel nome della ex fidanzata, era quasi sorprendente che non lo
fosse
davvero. Elettra aveva preparato anche l’elogio funebre, ma
parlare di elogio era un
po’ fuorviante; più che un
discorso accorato, sembrava una dichiarazione di Al Qaeda.
Chantal
si avvicinò ad Achille, togliendogli con un dito la crema
dal mento. Il riccio
rimase immobile, mentre lei si portava disinvolta l’indice
alla bocca,
leccandolo con aria soddisfatta.
-
Buona! –
ammiccò. – Sono qua per qualche
giorno, a cercare opere di artisti di strada. Sto preparando una mostra
a
Nîmes.
-
Fantastico, complimenti.
Non
gliene fregava nulla, ma un’ondata di ricordi lo
investì in pieno e lui non
riuscì ad evitarla: Chantal e la sua ossessione per la
carriera. Chantal e il
suo amore per il cinema muto. Chantal e la sua risata cristallina.
Chantal e i
suoi tre nei vicino all’ombelico. Chantal e la sua terribile
codardia. Chantal
e il suo cuore spezzato. Di lui, però.
-
Dov’è Achille?
Sergio
distolse lo sguardo dalla scena a cui aveva appena assistito tra
Achille e la
sua amica e lo posò per una frazione di secondo sulla
bancarelle delle palle di
plastica con la neve finta per cui Azzurra andava matta. Mah, tutti
quegli
addobbi natalizi gli stavano facendo venire voglia di cambiare
religione. E, in
ogni caso, lui preferiva continuare a guardare la ragazza carina con
cui
Achille si stava intrattenendo. Non molto alta, magrissima, con un
cappello
nero sulle ventitré da cui fuoriuscivano degli ordinati
capelli neri, aveva
l’aria scanzonata e un ampio sorriso e…
Azzurra
gli passò la mano davanti alla faccia, facendogli intuire
che doveva essersi
imbambolato a fissare un punto indefinito.
-
Che c’è? – chiese, riscuotendosi.
-
Achille? – gli ripeté scocciata.
Erano
arrivati da poco in piazza e già Azzurra era provata dal
lungo negoziato con Hermann,
l’ambulante altoatesino della bancarella più
kitsch dell’intero mercatino. Però
si sentiva soddisfatta e felice: la tradizione della boule à
neige nuova ad
ogni Natale era rispettata. E con uno sconto di venticinque centesimi
sul
prezzo pieno! Un vero e proprio affare.
-
Sta parlando con quella fanciulla… – le rispose
Sergio.
Lei
si alzò sulle punte dei piedi e cominciò a
guardarsi intorno per individuarlo;
in mezzo a tutta quella folla a passeggio non riuscì a
capire dove fosse.
-
Oh, dev’essere Elettra, sua sorella, –
congetturò, molto ottimisticamente,
senza perdere il sorriso. – La stava aspettando per cercare
un regalo alla loro
madre.
-
Certo, sarà lei. – le rispose l’amico,
seriamente interessato a quella moretta
col naso all’insù. Il gene dei Quaresmini non era
niente male. – Ho visto solo
che erano in confidenza, lei è stata così gentile
da ripulirlo dalla crema.
Azzurra
scosse la testa e ridacchiò.
-
Gli avevo appena dato un fazzoletto apposta!
-
Pazienza… non credo le sia dispiaciuto, almeno ha avuto
anche lei l’occasione
di assaggiare il ripieno del krapfen. – Sergio
ghignò, ma Azzurra e Dalila
smisero di sorridere, guardandosi con gli occhi spalancati. –
Che c’è?
-
Lei gli ha tolto la crema dal mento e l’ha assaggiata?
– appurò Dalila.
-
Sì, con le dita. Che mi sono perso?
Ecco
uno dei motivi per cui detestava uscire con quelle due, o con le donne
in
generale; tutte pappa e ciccia e lui solo come un povero vecchio
rincretinito a
cercare di capire l’incomprensibile linguaggio femminile.
-
Azzurra, calma, – disse la sua ex moglie, – non
traiamo subito delle
conclusioni affrettate.
Sergio
guardò una e l’altra ripetutamente,
nell’attesa che si lasciassero scappare
qualche altro dettaglio, oltre a quelle occhiate furtive e complici.
-
È stata carina, no? – provò,
arrendendosi all’evidenza di essere stato tagliato
fuori per l’ennesima volta.
– Devono
avere un rapporto molto stretto, quei due. Lo si capisce da come si
parlavano
fitto fitto. Ah, come mi sarebbe piaciuto avere una sorella! Devono
essere
andati a cercare il regalo, perché non li vedo
più…
Tagliato
fuori e anche completamente ignorato.
-
Tesoro, respira. – Dalila strinse gli avambracci
dell’amica. – Inspira ed
espira, su, inspira ed espira.
Azzurra
tentò di seguire il consiglio, con grande scarsezza di
risultati.
-
Ora come ora, tornerebbe utile il corso preparto che mi hai regalato
qualche
anno fa.
-
…una complicità non comune, a dire il vero.
Sembravano davvero affiatati…
Sergio
continuava a sproloquiare in solitudine sul presunto amore fraterno,
ignorando
gli sguardi di fuoco di Dalila, la quale stava sviluppando una sorta di
strabismo fisico ed emotivo, con un occhio iniettato di sangue rivolto
all’ex
marito e l’altro pieno di comprensione femminile verso
l’amica.
Dall’altra parte
della via, Elettra si stava
facendo strada tra famigliole felici e urla in qualsiasi lingua
mediorientale
degli ambulanti, trascinando per mano la piccola Diana che dava
l’idea di non
divertirsi troppo.
La
testa riccia della sorella di Achille si bloccò
d’un colpo, tanto che la figlia
finì con il viso direttamente nel suo fondoschiena, prima di
cadere sulla
strada col sedere. Lei l’aiutò a rimettersi in
piedi, senza schiodare lo
sguardo dalla terrificante visione che aveva davanti.
-
Diana, tappati le orecchie. – le ordinò e la bimba
obbedì subito, abituata a
quel tipo di richieste materne. – Mamma deve dire una
cosuccia ad alta voce:
che ci fa quella stronza qui?
Una
volta individuati il presunto fedifrago e la lapalissiana sgualdrina,
Dalila
provò a spronare Azzurra a farsi avanti, adducendo scuse
come la preservazione
del territorio, l’amore per la propria dignità e,
se avesse saputo delle
origini della suddetta giovincella, avrebbe aggiunto anche il rispetto
per il
lavoro svolto da Giulio Cesare alla conquista della Gallia. Ma di
fronte alla
titubanza dell’amica, un bello spintone le parve la scelta
più saggia.
La
ragazza urtò una signora, causando una reazione a catena che
terminò sulla
nobile schiena dell’amica di
Achille,
che si voltò infastidita, le narici aperte come un drago
all’attacco.
Azzurra
e il riccio si scambiarono un’occhiata imbarazzata; lui
abbozzò un sorriso e
sperò di porre rimedio a quel disagio generale facendo le
presentazioni
ufficiali.
-
Oh, Azzurra, sei qui. Lei è Chantal.
Chantal?
Dunque era francese, l’intrusa. Bene, sembrava il nome di un
formaggio, di
quelli vecchi e ammuffiti.
Azzurra
si limitò ad un sorriso forzato, mentre le porgeva la mano,
gelida quanto le
occhiate che le stava lanciando. Si ritirò immediatamente
dietro al ragazzo,
nell’attesa che liquidasse la tizia a breve.
-
È un piacere conoscerti, – rispose la francese,
dimenticandosi di lei nel
momento stesso in cui scorse la solita espressione di sfida sulla
faccia della
sorella di Achille, che stava arrivando a grandi falcate. –
Bonjour Elettra, ti
trovo bene. Beh, Achi, – Achi?
– se
ti va di fare due chiacchiere senza tutto questo reggimento, chiamami.
So che
hai ancora il mio numero. Buona giornata.
So
che hai ancora il
mio numero.
Azzurra
pensò a quanti metodi di tortura cinese sarebbe incorso il
caro Achi, se solo avesse osato
chiamare la
nipote di Sarkozy. D’accordo, lui non era il suo fidanzato,
né poteva dire con
assoluta certezza che le cose fossero serie tra loro, ma non avevano
più
vent’anni, erano persone mature… e lui non poteva
tornare con quella, dai! Lei
era molto meglio!
Elettra
sembrò leggerle nel pensiero ed espresse ad alta voce
ciò che lei aveva osato
dire solo a se stessa. Sorrise falsamente a Chantal, che stava agitando
la mano
a mo’ di saluto, prima di dileguarsi tra la folla.
-
Passerai sul mio cadavere mummificato, prima di telefonare a quella
baguette
rinsecchita. – minacciò subito il fratello.
– Che sfacciata! Dopo tutto questo
tempo, torna e finge che non sia successo nulla!
Achille
cercò di contenere la furia omicida della sorella, fisica
nei confronti di
Chantal e a parole nei confronti di se stesso e degli astanti,
perché Elettra
sapeva bene come esasperare cose e persone con la sua parlantina.
-
Ele, per favore, – provò a placarla, invano.
-
…no, dico, l’hai vista? Fa la gattamorta, di nuovo
alla carica. Ti ha lasciato
due anni fa come uno straccio, non ti ho mai visto in quello stato,
stavi per
mollare armi e bagagli per rincorrerla in Francia o chissà
dove. E Dio solo sa
se ti sei mai ripreso! Non dirmi che sei ancora innamorato di lei o
giuro che
ti ammazzo con le mie mani! Diana, mamma sta scherzando, eh…
-
Elettra! – l’urlo di Achille zittì tre
coppie di passaggio, ma non colei per
cui era stato pronunciato.
-
…che c’è? – gridò,
infatti, lei in risposta. – Diciamo le cose come stanno,
nulla di nuovo!
Santa
Elettra
Quaresmini, protettrice della verità.
-
Nulla di nuovo per te, forse,
– le
fece notare il fratello, indicando con gli occhi la figura alle sue
spalle di
Azzurra, visibilmente confusa. Se ne stava mesta, racchiusa
nell’immaginario
abbraccio di Dalila e Sergio, che li avevano raggiunti giusto in tempo
per
godersi l’one woman show.
Achille si
pentì subito di essersi girato verso di lei: si sentiva nudo
come un verme,
spogliato dalla propria sorella – e già la cosa
gli faceva un certo ribrezzo –
davanti alla sua pseudo ragazza e ai suoi amici, riguardo il suo assai
poco
virile e lusinghiero passato di ameba piangente post rottura di una
relazione.
Chantal lo aveva davvero ridotto in pezzi, gli aveva fatto toccare con
mano e
sedere e schiena il fondo, aveva rappresentato il periodo
più bello e poi più
buio della sua vita sentimentale, dopo il pugno rifilato a Fabrizio
per… Elena?
Elisa? Quella là, insomma.
-
Oh. Oh! – Elettra riordinò i pezzi e comprese la
propria leggerezza: aveva
lasciato la piastra accesa a casa. E Achille la stava guardando in
cagnesco: lo
sapeva pure lui? – Che c’è?
-
Niente, – rispose scocciato.
-
Perché fai quella faccia, allora? – Achille scosse
la testa, passandosi una
mano sulla fronte con vigore. – Per quella? Ti dà
fastidio che tua sorella ti
metta di fronte alla realtà? È colpa mia se la
guardi famelico come se fosse
una ciambella superglassata, affogata in una gigantesca cioccolata
calda con
panna, ricoperta da gelato? Non so se mi sono spiegata bene…
-
C-cosa? – tentò di difendersi.
D’accordo, Chantal era una bella ragazza, ma lui
non la vedeva assolutamente come una ciambella! Le ciambelle erano
morbide e
soffici e lei era rigida e spigolosa, fisicamente quanto
nell’animo. Così in
forma da farlo sentire in colpa se non frequentava la palestra almeno
tre volte
a settimana, così stronza da abbandonarlo con un bigliettino
e la scatola piena
delle sue cose già sul pianerottolo, dopo mesi a discutere
di convivenza e
matrimonio. Azzurra, piuttosto, lei sì che era morbida.
Avrebbe voluto poter
dire che lo erano i suoi fianchi e magari anche più
giù, in prossimità del
monte di Venere, ma la realtà era che al momento poteva
dirlo solo del suo seno
e solo perché ci era inciampato casualmente
un paio di volte. La prima con il braccio, credendo di darle una
gomitata
leggera nelle costole dopo una battuta terribile; in base al rimbalzo
che il
suo braccio aveva ricevuto, era in grado di stimare una terza coppa b
molto
piacevole al tatto. La seconda era avvenuta con la mano, mentre
l’aiutava a
rimettersi il cappotto e… d’accordo, poteva non
essere stata del tutto casuale.
Azzurra aveva sorriso, lui si era scusato, lei era uscita dal suo
appartamento,
lui avrebbe voluto verificare di non aver creato danni con il gomito la
volta
precedente. Ma, a giudicare da come Elettra aveva ingarbugliato la
situazione,
probabilmente il dubbio gli sarebbe rimasto per sempre.
-
Una ciambella, Achille. Una ciambella, – ripeté la
sorella.
La
piccola Diana distrasse la madre per qualche istante, indicandole una
bancarella piena di bambole e giocattoli. Le due si spostarono di un
paio di
metri, lasciando il gruppo in un silenzio innaturale. Dalila si
schiarì la gola
e quel suono basso fu l’unica cosa che il gruppo
pronunciò in due minuti. In
sottofondo, una trita e ritrita Jingle
Bells accompagnava la strana quiete, attorniata da famiglie e
coppiette
felici in umore festivo. Achille era mortificato, Azzurra avrebbe solo
voluto
pestare i piedi e frignare – confermando di essere una quasi
trentenne del
tutto maturata – e gli ex coniugi De Carlis si domandavano
perché non se ne
fossero rimasti nelle loro rispettive case, a decorare
l’albero o mangiare pan
di zenzero davanti al fuoco scoppiettante.
-
Fa freddissimo, ho i piedi congelati. – Dalila ruppe
quell’inusuale momento di
stasi tra di loro. – Sergio, torniamo a casa?
Lui
arricciò il naso, sorpreso: aveva accettato quella
passeggiata in centro,
sfidando freddo e marmocchi urlanti, per cercare un vecchio libro nelle
bancarelle dell’usato e ora se ne volevano andare a
metà giro?
-
Ma non ho ancora visto la bancar… – il tacco dello
stivale della consorte d’un
tempo si abbatté contro la sua caviglia e distrusse anche il
più remoto e
timido accenno di protesta, – ahia! Andiamo.
-
Tesoro, ti diamo un passaggio noi, – aggiunse la donna,
prendendo sottobraccio
Azzurra, – così Achille e sua sorella hanno il
tempo di comprare il regalo.
Il
riccio respirò a fondo e finalmente si voltò di
nuovo verso di loro; non voleva
che se ne andassero, non voleva che se ne andasse lei,
soprattutto senza aver almeno provare a mettere una pezza alle
parole di Elettra.
-
No, aspettate. – li bloccò. – Mia
sorella se la può cavare benissimo anche da
sola. Sappiamo entrambi che comunque lo avrebbe scelto lei, il regalo.
La
accompagno io, se non vi dispiace.
Azzurra
si sganciò dal braccio di Dalila e annuì con il
capo; non sapeva esattamente
come si sentiva – era un misto di rabbia, umiliazione,
tristezza, sdegno e
istinti omicidi –, ma non voleva rischiare di allontanare
ulteriormente
Achille. Voleva fare la persona adulta. Sarebbe tornata a casa con lui.
Magari
dopo averlo pugnalato con la punta dell’albero da Natale.
-
Perfetto, – li salutarono i De Carlis. – Ciao
ragazzi!
Il
riccio si rivolse di nuovo ad Azzurra, indicandole col capo la bambina
che era
con Elettra.
-
Saluto mia nipote un attimo e arrivo.
-
Ciao zio Achi! – Achille la prese in braccio e la
riempì di baci sulle guance.
Diana rise, finse di non gradire tante attenzioni e poi si rivolse alla
strana
signorina che accompagnava lo zio. – Ciao.
-
Ciao, – la ragazza le sorrise in risposta.
-
Ficcanaso, questa è Azzurra. Azzurra, lei è Liana.
Achille
sembrava divertirsi parecchio a stuzzicarla e prenderla in giro e
sbagliare di
proposito il suo nome non fece altro che aumentare lo stato di cucciolosità della situazione
agli occhi
di Azzurra.
-
Mi chiamo Diana! – protestò la nipotina.
-
Oh, scusa, sai che mi sbaglio sempre. – La bimba mise il
broncio e gli morse la
punta del naso. – Ahia, ma una volta non davi solo pizzicotti?
-
È nella fase dei morsi, – spiegò
Elettra, avvicinandosi con una borsa di
plastica in mano. – Immagino che averle preso un cane che non
fa che
distruggermi tende e ciabatte abbia avuto una certa influenza.
– Sbuffò e
s’interessò alla graziosa giovincella che sembrava
nascondersi dietro le spalle
larghe di suo fratello. Oh, tesoro,
penserai mica di sfuggirmi? – Ciao, io sono
Elettra, sua sorella. Tu sei…?
-
Azzurra.
Si
tesero la mano e la più vecchia dei fratelli Quaresmini
prolungò la stretta,
nell’eventualità assai poco probabile che
ciò le potesse servire a captare
qualche informazione in più.
-
Quella Azzurra?
Achille
era di nuovo teso come una corda di violino: non era normale che la
sola
presenza di sua sorella lo inquietasse tanto!
-
Beh, immagino non ce ne siano molte altre in giro, – rispose
lui per Azzurra.
-
È un piacere conoscerti. Sei appena arrivata?
Magari.
-
No, purtroppo c’era anche prima, –
continuò il riccio.
-
Prima quando?
-
Prima, – disse laconico.
-
Oh. Prima. – Elettra per
poco non
fece cadere un piccolo presepe ecuadoregno con il braccio. Ops, forse
il moto
di assoluta verità che l’aveva colpita in presenza
di Chantal era stato udito
da terzi... – Perdonami, mi lascio sempre prendere un
po’ la mano.
-
Ce ne siamo accorti. Beh, per evitare che tu mi complichi ulteriormente
l’esistenza, noi ce ne andiamo. – Prese il
portafoglio e ne trasse due
banconote. – Eccoti trenta euro, nel caso non bastassero a
coprire la mia
quota, fammelo sapere. Ciao Liana.
La
bimba gli fece la linguaccia e una pernacchia, al quale lui rispose con
un occhiolino.
Era adorabile, ma se avesse permesso ad Azzurra di parlare con Elettra,
invece
che farlo al posto suo…
Prima
ancora di discutere della ciambella francese – in
realtà, prima ancora di
raggiugere la macchina parcheggiata –, Azzurra era furiosa.
Achille Quaresmini
era un bastardo; giocarsi la carta della nipotina piccola e paffuta e
mostrare
il suo lato più tenero e maledettamente efficace con i
bambini non avrebbe
funzionato. E con in testa quei ricci, poi! Pensava forse di raggirarla
con
tutta quella dolcezza? Nossignore, si sbagliava di grosso.
-
Mia sorella parla troppo, – si scusò con un
sorriso, chiudendo lo sportello
dell’auto. – Avrei voluto raccontartelo io, con
calma.
Con
calma? Cioè una
volta sposata, felice e cornuta?
-
Già, – gli rispose atona.
-
Sei arrabbiata?
Azzurra
si conficcò i denti nella lingua. Quella era in assoluto la
domanda che più
detestava le fosse fatta da parte del proprio partner. Era del parere
che se
qualcuno sentiva la necessità di porla, evidentemente era
perché sapeva di aver
fatto qualcosa di sbagliato.
-
No.
-
Mi odi?
Achille
stava seguendo il perfetto schema dell’uomo colpevole con
rimorso: tastare il
terreno, cercare di capire il tasso di scontrosità e di
rabbia della partner –
ricordandosi di tradurli nelle percentuali femminili, sempre molto
più alte e
meno ragionevoli di quelle maschili –, infine provare ad
abbassare tale tasso
con la faccia da cucciolo denutrito, bastonato e abbandonato sul ciglio
dell’autostrada nel giorno più torrido
dell’anno.
Peccato
che Azzurra non lo stesse guardando. Fissava dritta davanti a
sé, la borsa
sulle ginocchia e le gambe unite. Il riccio le diede una rapida
occhiata
rassegnata: era ufficiale, dopo la piazzata di sua sorella, non
c’era
possibilità di vederle aperte. Non per lui, quantomeno.
-
No, – disse secca.
Santo
cielo, basta con
quei monosillabi!
Achille li temeva come una minaccia
nucleare, perché sapeva che erano il preludio di una
imminente Terza Guerra
Mondiale, in cui lui avrebbe combattuto solo, contro il battaglione
armato di
Azzurra e di tutto il gentil sesso. Esclusa Chantal, forse.
-
Sei gelosa?
Lei
finalmente si girò verso di lui, soltanto per regalargli
un’occhiata indignata.
-
Ovvio che no, – le venne quasi da ridere al pensiero che lui
avesse anche solo
potuto concepire un’idea tanto assurda.
-
Perché non ne avresti motivo. Chantal è acqua
passata.
Azzurra
si morse un labbro dal nervoso. Ora il signorino si concedeva pure la
libertà
di chiamare quell’essere per nome. E lo aveva pure sbagliato,
perché Chantal si
scriveva: C h a c q u e t t a.
-
Okay.
-
È tutto a posto, quindi?
Nei
tuoi sogni, idiota.
-
Certo, – gli sorrise per una frazione di secondo,
controllando la strada.
Mancava poco più di un chilometro per giungere al suo
condominio in viale della
Quercia 27: bastava solo che al semaforo svoltasse a sinistra e poi
c’erano due
curve a gomito, dopo le quali cominciava la zona residenziale. Dai, premi quell’acceleratore! Mai
tragitto le era sembrato tanto lungo.
Ma
Achille girò a destra, lasciandola di stucco.
-
Andiamo da me? – le propose, mentre ingranava la terza.
Oh,
questa domanda proprio non se l’aspettava.
-
Preferisco tornare a casa.
-
Pensavo avremmo trascorso la serata insieme… – le
disse lui, di nuovo con quel
faccino da molosso dimenticato all’autogrill.
-
Sono stanca, – vacillò lei, subito – Ma
tu, se vuoi, esci pure.
Ed
eccola, la trappola: dargli la possibilità di essere libero,
o almeno
l’illusione di essa. La parte pregnante di quel ‘se vuoi’ era quella nascosta,
sottintesa. Come dire che sì, poteva,
magari anche voleva, ma la verità è che non
doveva.
-
Farò qualche chiamata, qualcosa troverò.
Arrivarono
ad una rotonda, alla quale Achille fece retro-front, diretto finalmente
verso
casa di lei. Azzurra dovette fare appello a tutto il self-control
possibile per
non sbranarlo a morsi, sulle orme tracciate dalla nipotina. Non capiva
se lui
la stesse deliberatamente provocando – e in ogni caso, non le
pareva nella
posizione di farlo –, o se fosse davvero
così… uomo da
non comprendere che l’unica cosa che lei – e dunque
la
legge – gli consentiva di fare era andare a casa, in castigo
in un angolo,
possibilmente munito di cilicio, a rimuginare sul proprio comportamento
e
implorare tutti i Santi al gran completo perché lei lo
perdonasse. Gli avrebbe
permesso anche di stracciarsi le vesti.
-
Ne sono sicura, – grugnì a denti stretti.
Stava
per esplodere, era stata fin troppo cortese e ora la sua pressione
interna
stava vertiginosamente aumentando.
-
Buonanotte, allora. Mi dai un bacio?
Lei
sgranò gli occhi: non poteva credere che lui glielo avesse
appena chiesto. Che
faccia tosta!
-
Ho il raffreddore, – disse lapidaria.
-
E da quando?
-
Da quando mi hai fatto aspettare fuori al freddo per parlare con la tua
amica.
Si
diede un pizzicotto sulla gamba per essersi lasciata sfuggire quel tono
acido e
sarcastico: stava andando così bene!
Achille
sorrise debolmente, sbirciando come le unghie della ragazza fossero
ormai
ficcate a nel povero sedile del lato passeggero. Ora lo sapeva con
certezza:
quella non era Azzurra, ma Gialla. Come la gelosia.
-
Non è una mia amica.
-
Come vuoi.
All’ennesimo
sbuffo di lei, il riccio si arrese; fino a quel momento ammetteva di
essersi
divertito a vederle dipinto negli occhi l’intera gamma dei
colori
dell’arcobaleno, corrispondenti ad altrettanti stati
d’animo, ma non voleva
correre il rischio che un banale incidente di percorso pregiudicasse
qualsiasi
cosa stesse nascendo tra di loro.
-
Trent, se hai qualche problema a riguardo, discutiamone.
-
Problema? Ti sembra che io abbia qualche problema?
Oddio,
queste domande a bruciapelo. Achille esitò: se avesse detto
di sì, come era
evidente che fosse, lei sarebbe andata su tutte le furie. Se avesse
detto di
no, lei avrebbe comunque trovato il modo di farlo risultare colpevole.
-
Mi sembra solo che questa situazione non ti lasci del tutto
indifferente.
Azzurra
lo guardò sorniona: questa gliel’aveva proprio
servita su un piatto d’argento.
-
Neanche a te.
Lui
accusò il colpo e abbandonò
la
diplomazia, in favore di un sano confronto tra persone civili e
ragionevoli.
-
Dimmelo, se sei arrabbiata. Anche se, francamente, non ne capisco la
ragione.
Stupidi,
ingenui uomini. Povero, lui non ne capiva la ragione. Lei aveva fatto
la figura
della stupida davanti a ex, famigliari ed amici, ma se lui non ne
capiva la
ragione…
-
Secondo te sono arrabbiata? Somiglio ad una che è
arrabbiata? Eh? No, dimmi!
-
Azzurra, calmati. Sinceramente sì.
Azzurra,
stai
tranquilla. Respira. Ti manca pochissimo perché lui se ne
vada e tu possa
prendertela col cassonetto, il lampione o con il primo malcapitato.
-
Tu non hai la minima idea di come sia una donna arrabbiata! Ed io non
sono una
cazzo di donna arrabbiata, hai capito? Buonanotte Achille, goditi la
tua libera
uscita!
Scese
dall’auto, non prima di essersi impigliata nella cintura di
sicurezza e aver
sbattuto la portiera così forte da far tremare
l’intera macchina, imprecando.
Achille impiegò qualche secondo, prima di comprendere
ciò che era appena
successo; la situazione era passata dall’essere un piccolo
battibecco quasi simpatico
ad uno litigio epico in meno di trenta secondi.
Era
quasi certo di aver sentito ‘Camembert
di
merda!’ – e l’idea che
l’uragano d’ira chiamato Azzurra lo avesse
effettivamente pronunciato non era così remota –,
ma decise di lasciar perdere,
darle tempo per sbollire il nervosismo e soprattutto consolarsi di
quella
futile litigata, divorando l’ultimo krapfen avanzato.
Lo
zucchero era senza dubbio la più potente delle droghe; e se
a ciò si aggiungeva
dell’olio di frittura e un’abbondante dose di
ripieno alla marmellata di
lamponi, beh… poteva anche morire in tutta
tranquillità di overdose glicemica.
Resistette fino a casa, ma, non appena appoggiato il sedere sul divano,
con una
mano agguantò il telecomando e con l’altro il
sacchetto della pasticceria ambulante.
Il secondo tempo della replica di una partita di serie A e il krapfen
furono in
grado di risollevargli l’umore, dopo un pomeriggio a dir poco
disastroso, tra
incontri indesiderati con ex, sorelle con logorrea e quasi fidanzate
mortalmente gelose e assolutamente indisposte ad ammetterlo. I dolci e
la Juve
dovevano essere state create proprio per questi momenti.
Il
bidet. Tutto ciò a cui riusciva a pensare Azzurra era che si
stava facendo
battere da una che non aveva neanche il bidet. Fino a quel momento,
l’arrivo
inaspettato della Chacquetta le
aveva
portato solo disavventure: un pomeriggio di shopping natalizio con
barboso
sottofondo musicale rovinato, trecento metri di percorso extra a piedi
con le
scarpe nuove – purtroppo non si era accertata di essere
già giunti sotto casa
sua, prima d’inscenare la drammatica discesa
dall’auto di Achille al semaforo –
e una barretta di autentico Toblerone
svizzero per lenire il dolore di piedi ed emotivo. In tutto questo,
poi, ciò
che davvero la infastidiva maggiormente era la consapevolezza di aver
dato
all’odiosa francesina un vantaggio non indifferente: Achille
– anzi, Achi –
era libero per tutta la serata, ‘senza
tutto quel reggimento’,
potenzialmente con il suo numero ancora salvato in
rubrica. No, non poteva permetterle di riprendersi la testa ricciuta di
Achille. A costo di tirarglielo addosso, quel dannato bidet.
Doveva
solo escogitare qualcosa per attirarlo. L’opzione dolci venne
scartata quasi
subito, nella testa di Azzurra rimbombavano ancora le parole di Elettra
circa
ciambelle, gelati e creme; di banche non sapeva nulla e tantomeno di
economia,
perciò eliminò la possibilità di
stupirlo con conoscenze e discussioni sulla
crisi o in generale su tutto ciò che aveva a che fare con il
suo lavoro. Dopo
ore di ragionamenti, non vide altra soluzione che accalappiare il
Pelide con
l’unica chance rimasta da giocare: il sesso. Ma non poteva
essere del banale
sesso – aveva sentito da qualche parte che le francesi
sapevano essere delle
zozzone a letto e non credeva che ciò dipendesse solo dalla
carenza di igiene
intima, causata dalla mancanza di bidet –, perciò,
almeno per una sera, si
sarebbe trasformata in Dita Von Teese e lo avrebbe sedotto. Se davvero
lui era
rimasto a bocca aperta davanti a Chantal, lei lo avrebbe fatto sbavare
come un
cucciolo di San Bernardo.
Rimaneva
soltanto da stabilire come riuscire
a
fare tutto ciò. Lettura del Kamasutra,
spettacoli di burlesque su Youtube,
era disposta perfino a guardare quei video vietati ai minori che
circolano su
internet. Chantal Bonaparte, o qualunque fosse il suo cognome, sarebbe
finita
in esilio come il suo trisavolo.
21.45.
Fabrizio sarebbe arrivato in meno di mezzora; era il caso di alzarsi
dal
divano, farsi una doccia e prepararsi. Il punto era che Achille era
maledettamente comodo lì, stravaccato sul sofà,
una gamba distesa e una
poggiata sul tavolino da caffè, insieme alla carcassa di una
confezione di
biscotti alle mele e una bottiglia di birra ancora mezza piena. Aveva
scoperto
che la combinazione biscotti e birra non era così fenomenale
come si era
presentata nella sua testa. Anzi, faceva piuttosto pena. Come lui dopo
sei ore
filate di televisione del resto. Raccolse sufficienti energie per
alzare il
fondoschiena e dirigersi in bagno, dove lo specchio non fu per nulla
clemente,
restituendogli un’immagine costituita da occhi rossi e
stanchi, capelli
indomabili e dotati di vita propria, vestiti stropicciati e occhiaie
profonde.
Signore
e signori, ecco
a voi Achille Quaresmini in versione senzatetto.
Si
lavò i denti per togliere quella sgradevole sensazione di
bocca impastata e si
fece una doccia bollente, che non sortì altro effetto che
intontirlo
ulteriormente. Avrebbe dovuto accorciarsi la barba, ma non ne aveva
voglia,
perciò tornò subito in camera da letto per
cercare qualcosa da mettersi. La sua
camicia a quadretti, ecco cos’avrebbe messo. La Leone, il suo
capo, aveva espresso
in tutte le smorfie possibili il suo disgusto per lo stile campagnolo
chic, ma
a lui piaceva… e vaffanculo alla Leone, era comunque
domenica.
Nel
momento in cui Fabri suonò il citofono, Achille stava
già indossando il
cappotto. Si mise la sciarpa, controllò di aver preso
portafoglio e chiavi e,
per ultimo, afferrò il cellulare. Lo infilò nella
tasca e uscì sulla tromba
delle scale, ma dopo poco cambiò idea e ritirò
fuori il telefono; voleva
scrivere qualcosa ad Azzurra. Sapeva che ce l’aveva con lui e
che probabilmente
non aveva intenzione di parlargli, però ciò non
toglieva che lui avesse voglia
di sentirla. Un sms non l’avrebbe uccisa, suvvia.
-
Non sono sicuro di sapere come siano
tutte le donne quando sono arrabbiate, ma so quando lo sei
tu…
Mise
via il cellulare, prese un respiro profondo e scese velocemente le
scale.
Quando
Fabrizio gli domandò in che
locale intendevano fermarsi per bere qualcosa, Achille era assorto nei
suoi
pensieri e gli venne spontaneo
rispondere il Tre di cuori. Si
trattava di un bar vicino al residence in cui Chantal aveva vissuto per
tutto
il periodo durante il quale era stata in Italia. Conosceva bene quel
posto, con
lei si era seduto al bancone grigio metallizzato centinaia di volte,
ordinando
sempre la stessa cosa, stabilendo una routine che si era illuso sarebbe
durata
per decenni. Dopo la loro rottura non ci aveva messo piede per un anno,
perché
tutto gli ricordava lei e, ad essere del tutto sinceri, i cocktail
erano
annacquati e il cibo non un granché. Finché
c’era stata lei, però, non gliene
era importato molto; gli piaceva sedersi sugli sgabelli, sgranocchiare
patatine
e salatini, mentre Chantal gli raccontava la sua giornata, imprecando
in
francese contro i galleristi che la consideravano una ragazzina ricca e
viziata.
Lui la guardava infuriarsi per quella che sapeva essere la pura
verità: i
signori Delacourt – che aveva incontrato solo in rare
occasioni – erano due
collezionisti d’arte provenienti entrambi da famiglie
facoltose, nella vita non
avevano fatto altro che prestare opere di loro proprietà a
grandi mostre
internazionali, o vendere qualche quadro in cambio di altri. Il
patrimonio dei
loro avi era sufficiente a mantenere almeno quattro o cinque
generazioni
future. Grazie a Dio, Chantal non era così; aveva studiato
storia dell’arte
all’università e poi si era trasferita in Italia,
per vedere e toccare con mano
quello che i manuali di pittura, di scultura e architettura le avevano
solo
mostrato per immagini e parole. Aveva sempre cercato di fare trovarsi
qualche
lavoretto, i soldi erano dei suoi genitori, non i suoi. Achille amava
quel suo
spirito d’indipendenza, quella voglia di farcela con le
proprie forze, a
dispetto della facilità con cui il suo cognome avrebbe
potuto aprirle porte e
portoni. Purtroppo, quello stesso spirito d’indipendenza ero
lo stesso che le
aveva permesso di alzarsi un giorno e decidere che no, la prospettiva
di un
matrimonio e una famiglia non faceva per lei, così come
l’Italia o tantomeno
Achille. Era tornata in Francia, dai suoi, dal lavoro che le avevano
offerto
per convincerla a lasciare un bancario senza troppe prospettive di
guadagno e
un Paese straniero. L’avevano comprata e, soprattutto, lei si
era lasciata
comprare.
Quando
Achille era rientrato al Tre di cuori,
ormai erano cambiate molte cose; il barman, innanzitutto. E il colore
delle
pareti. E il fatto che fosse con un uomo, invece che con una donna, ma
non
perché avesse cambiato orientamento sessuale. Ci tornava una
volta ogni tanto,
sempre e soltanto con amici; non ci aveva mai portato una ragazza, non
dopo
Chantal. Scegliendo quel locale proprio quella sera, Achille era
cosciente che
una parte di sé temeva di rincontrarla lì. O
sperava.
-
Birra? – gli chiese Fabrizio.
Non
c’erano biscotti al bar, perciò la birra poteva
andare. Mentre lui si sedeva ad
un tavolino, l’amico si allontanò per raggiungere
il bancone ed ordinare per
entrambi e pagare il primo giro. Prevedeva che ce ne sarebbero stati
molti
altri: le donne della sua vita erano un casino totale; Chantal era
tornata, Elettra
non era in grado di farsi i cazzi suoi, Azzurra non voleva parlargli.
L’unica
che si salvava era Diana, ma le conversazioni con lei si limitavano ai
rapporti
ambigui tra Ken, Barbie e Skipper e alla complicata doppia vita di Hannah Montana.
Il
cellulare suonò dall’interno della tasca: una
nuvoletta sullo schermo gli
annunciava che Azzurra aveva finalmente risposto al messaggio.
-
Ho un po’ esagerato,
mi spiace. Diciamo che ero alterata, ma certamente non per quella!
È solo che
faceva freddo, i neuroni si erano congelati…
Achille
si stupì di una tale disponibilità al dialogo;
alzò un sopracciglio dallo
stupore, rileggendo per la quinta volta l’ammissione di
essere stata in errore.
Azzurra Trentini, donna, aveva appena detto di aver sbagliato.
C’erano persino
delle scuse, sottese. Dove stava la fregatura? Decise di mangiare la
foglia,
cercando di volgere la situazione a suo favore.
-
Spero non gli ormoni,
però.
Non
appena posò il cellulare, una bottiglia di birra gli
scivolò nella mano. Non
era della marca che lui e Fabri erano soliti bere. Si
soffermò un attimo in più
a fissare il vetro freddo tra le sue dita.
-
Rimpiango i giorni in cui bastava dire ‘il
solito’ e Pippo ci portava una Corona
per me e una Heineken ghiacciata
per
te.
Chantal
gli si sedette accanto, poggiando gli avambracci sul tavolino. Achille
lanciò
un’occhiata al bancone, dove Fabri si stava intrattenendo con
una bionda
formosa e sconosciuta. Mollò la presa sulla birra e si
sfregò le mani sulle
cosce.
-
Sono passati anni, è cambiata anche la gestione.
-
È un peccato.
Achille
si strinse nella spalle.
-
È la vita.
Chantal
mise le sue mani su quelle di lui. Il cellulare suonò
nuovamente sul tavolo
e Achille
ringraziò colui o colei che
stava cercando di contattarlo, togliendolo da un
bell’impiccio. Chantal lesse
il mittente del messaggio senza pensare minimamente che non fossero
affari
suoi. Il riccio lo lesse veloce e lo mise in tasca.
-
…quelli stanno benissimo. Che ne
dici di
controllare domani sera a casa mia? Diciamo per le 9…
-
Azzurra è la tua fidanzata?
Achille
soppesò attentamente le parole; capiva che il destino di
quella conversazione
dipendeva da quella risposta. Non voleva mentirle, ma non voleva
neppure che
lei se ne andasse; dopotutto e nonostante tutto, lei era Chantal e
andando
indietro nel tempo di qualche anno, lui avrebbe pagato oro pur di avere
l’occasione di starsene seduti a parlare ancora una volta al Tre di cuori come se niente fosse
accaduto.
-
No, – disse semplicemente, sperando di non aver appena fatto
un torto ad
Azzurra.
Chantal
afferrò la birra e ne bevve un sorso.
-
Non posso dire di esserne dispiaciuta.
Catturò
tra l’indice uno dei ricci del ragazzo. Lui rimase per un
attimo a corto di
parole, incerto su cosa dire; era così inopportuna,
così fuori luogo… non
poteva davvero credere di tornare dopo anni e pretendere di riprendere
da dove
avevano interrotto. Da dove aveva interrotto.
E se aveva intenzione di giocare ancora, come in fondo, con il senno di
poi,
Achille aveva realizzato che lei aveva sempre fatto, allora era persino
più
crudele e meschina di quanto ricordasse.
Chantal
notò la sua distrazione e provò ad aiutarlo
nell’unico modo in cui era capace
di risolvere i problemi: gli impedì di pensare
nell’istante stesso in cui lo
baciò.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Ronzii - Parte II ***
Ronzii
– Parte II.
Aveva
sottovalutato la storia del
burlesque. Prima di tutto, aveva speso oltre cento euro di biancheria
intima;
secondo, aveva decisamente sopravvalutato le sue capacità
atletiche. Perché le
ballerine del Moulin Rouge erano in
grado di alzare la gamba fino alla testa, ma lei, Azzurra, rischiava
uno
stiramento o addirittura uno strappo muscolare. A questo poi, si
aggiungeva il
fatto che, nonostante fossero le due del pomeriggio di
lunedì 17 Dicembre,
Achille non aveva ancora risposto al messaggio della sera precedente.
Lei aveva
saltato il pranzo per andare al centro commerciale, rimandato gli
impegni di
lavoro con la scusa di dover apportare delle modifiche ad un progetto
in realtà
già concluso e lui non riusciva a trovare trenta secondi per
rispondere ad un
sms. Doveva cercare una posizione del Kamasutra
abbastanza dolorosa da farlo pentire dei suoi peccati.
Dall’altra
parte della città, in un
bar del centro poco distante dalla filiale della banca, Achille era
seduto davanti
ad un’insalata triste e quasi intatta. La serata precedente
era stata più
movimentata e frenetica del previsto. Trascorrerla con Chantal lo aveva
lasciato stordito e non gli andava di ascoltare le chiacchiere di
Brambilla,
soprattutto non durante la pausa.
Ricordava
di non aver ancora dato
una risposta ad Azzurra, ma con tutto quello che era successo il giorno
prima,
non sapeva onestamente cosa dirle. Digitò veloce un
messaggio, prima di
abbandonare il pranzo e tornare
a
lavoro.
-
Ci sarò.
I
semafori sembravano essersi messi
tutti d’accordo: l’avevano costretto a fermarsi a
quelle che, nello stato
d’agitazione in cui si trovava, parevano un miliardo di
volte. Achille guardò
il mazzo di ranuncoli bianchi che aveva appoggiato sul sedile accanto
al suo. I
fiori erano un gesto sincero, forse patetico, forse dovuto dal senso di
colpa.
Pensò all’opportunità di ritornarsene a
casa, ma non poteva fare questo ad
Azzurra. Non lo meritava.
Parcheggiò
la macchina sotto il suo
condominio e prese le scale. Arrivò di slancio davanti alla
porta rossa della
mansarda e bussò immediatamente. Doveva dirglielo subito.
Azzurra
gli aprì e la bocca di
Achille si sigillò.
Era
in vestaglia, i capelli che
solitamente portava liscissimi erano un po’ arricciati, aveva
un trucco pesante
sugli occhi e degli inspiegabili sandali neri dal tacco vertiginoso.
Non capì
se la testa di lei appoggiata sulla porta fosse un modo per sedurlo,
per
mostrargli gli imponenti orecchini luccicanti o soltanto per tenersi in
piedi
su quei trampoli.
-
Finalmente! – sussurrò lei.
Lo
prese per il colletto della
camicia e lo trascinò con sé
all’interno della casa, chiudendo la porta con il
tacco della scarpa – per quello non era stata necessaria
Dita, era bastato
guardare una puntata de I menu di Benedetta
e sostituire il forno con la porta.
-
Azzurra, dovremmo parlare… –
provò Achille, ma lei lo zittì.
-
Parlare? Non era esattamente
quello che avevo in mente…
Spalancò
la vestaglia nera in pura
seta e gli mostrò ciò che indossava. Il mazzo di
ranuncoli precipitò sul
parquet, alla vista di un babydoll viola scuro dalla profonda
scollatura
stretta e verticale, tagliato sotto il seno da una cintura di
corallini, con
una balza in fondo e degli strass sugli spallini. Il look era
completato da un
brasiliano dello stesso colore e dallo smalto nero sulle unghie.
-
Oh, okay, beh… accidenti… i-io
no-non me l’aspettavo. – Lui arrossì,
colpito da un’improvvisa crisi di
balbuzie.
-
Ti dispiace?
Azzurra,
con un movimento secco del
capo, cercò di scansarsi i capelli dietro la spalla,
tentando di riprodurre il
fare da panterona consumata che aveva provato davanti allo specchio. Il
risultato fu un suono gutturale che fece aggrottare la fronte di
Achille, il
quale la guardava tra il famelico per il vestiario succinto e il
sorpreso per
quell’inedito comportamento da femme fatale.
-
Ce-certo che no.
Non
sapeva bene perché, ma
cominciava ad avere paura. Azzurra lo prese per mano e lo condusse fino
al
divano. Lo spinse affinché lui si sedesse con un tonfo sul
cuscino. Lasciò che
la vestaglia le scivolasse sulle spalle e le braccia, prima di cadere
sul
tappeto. Gli si mise a cavalcioni, cercando di baciarlo sul collo.
Achille alzò
di scatto la testa, che cozzò con il mento della ragazza.
-
Ahia, cavolo! Mi sono morsa la
lingua! – piagnucolò. – Scusa, Trent,
scusa!
Non
farti distrarre, Azzurra. Puoi farcela anche con la lingua dolorante.
-
Non importa, piccolo. – Gli disse
seducente.
Piccolo?
Che cavolo le era preso? Si stava palesemente facendo prendere troppo
la mano.
Per riconcentrarsi, Azzurra gli tolse, non senza una certa
difficoltà, il
maglione; la maglietta gli rimase incastrata in quei dannati riccioli e
lei
dovette dare uno strattone per liberarlo. Quasi cadde
all’indietro e solo i
riflessi pronti di lui le impedirono di rovinare sul pavimento a gambe
all’aria.
Si
ritrovarono improvvisamente
vicini, sul bordo del divano, lui a torso nudo, lei con quel babydoll
striminzito. Gli puntò un indice tra i pettorali e lo fece
indietreggiare, di
modo che la sua schiena aderisse alla seduta del sofà. Si
chinò a baciarlo
sulle labbra, gli spalancò le braccia perpendicolarmente al
corpo e cominciò a
tracciargli una scia con la lingua sulla pelle, dalla gola fino
a… più in giù,
insomma. Abbassò le mani fino ad afferrare la cintura dei
suoi pantaloni. Si
alzò in piedi e poi s’inginocchiò
davanti a lui.
-
Abiti ancora in via Matteotti?
-
Già.
-
Ti ricordi quella panetteria sotto casa tua dove compravamo i
maritozzi? Li
mangiavamo sempre dopo aver fatto l’amore.
-
Secoli fa.
-
Mi manchi, Achille.
Achille
guardò per qualche secondo
il soffitto, respirando rumorosamente. Non aveva idea di cosa lei
avesse in
mente. O meglio, lo sapeva fin troppo bene, così come sapeva
bene che non
voleva che la prima volta con Azzurra fosse… così.
Soprattutto non dopo quello che era successo la sera
precedente con Chantal. Afferrò con le mani il bordo
superiore dello schienale
del divano e lo strinse forte.
-
È tardi, ormai.
-
È solo mezzanotte e un quarto…
-
Intendo dire che è tardi per noi.
-
Dimmi che non mi vuoi.
Più
o meno inavvertitamente, iniziò
a pensare alla professoressa Savarese, all’abbigliamento di
Ingrid, il donnone
tedesco della banca, persino al chihuahua di
quest’ultima… avrebbe pensato a
qualsiasi cosa, perché era più facile cercare di
domare un’imminentissima
erezione, piuttosto che chiedere esplicitamente
ad Azzurra di non fare quello che lei si era così
magnanimamente offerta di
fare. E che cazzo, è contro natura chiedere ad una donna di
non farti un
pompino!
Achille, non
puoi.
-
Non sei sposato, non sei nemmeno fidanzato… non hai alcun
obbligo nei suoi
confronti. Nessun legame è per sempre.
-
Questo me l’ha insegnato tu.
-
Solo stanotte. Resta con me.
La
mano di lei era già ben oltre il
limite del punto di non ritorno, quando lui finalmente si decise a
fermarla.
-
Aspetta, Azzurra, aspetta.
La
prese per le braccia, la fece
alzare, ma lei non aveva intenzione di mollare. Non aveva passato dieci
ore al
computer per documentarsi su come sedurre un uomo per farsi rifiutare
al primo
tentativo. Diamine, poteva non avere il fisico di Bar Rafaeli o il sex
appeal
di Charlize Theron e, d’accordo, non aveva neppure il
bicchiere da champagne
gigante di Dita Von Teese, ma di certo non era la figlia di Fantozzi!
Perciò,
che Achille non facesse troppe rimostranze, perché quella
sera aveva intenzione
di stenderlo.
Lo
fece alzare a sua volta, lo
abbracciò e lo baciò, un secondo prima di cadere
a peso morto sul divano,
trascinandoselo addosso.
Savarese,
chihuahua, Ingrid, Moira Orfei, spiaggia di vecchie nudiste, Savarese,
chihuahua, clown, i clown! Quelli funzionavano sempre!
Achille
continuava a ripeterlo
all’infinito, nonostante fosse nell’unico posto in
cui da settimane sperava di
trovarsi. La desiderava e lei era calda e morbida sotto di lui. Era
come
l’aveva sempre creduta. Ma non poteva, non in quel modo, non
era giusto per
lei, né per lui.
Era
incredibilmente difficile
pensare a pagliacci e ad anziani svestiti, guardando Azzurra
strusciarsi contro
di lui. Senza preavviso, gli infilò una mano nei boxer.
Sussultarono entrambi, per
ragioni diverse.
-
Vuoi dirmi che non sarei dovuta tornare da te?
-
No. Sono contento tu sia qua...
Achille
stava per cedere, quella
tortura stava mettendo a dura prova i suoi nervi e non riusciva proprio
a
ragionare, con le mani di lei nei pantaloni: il sangue stava affluendo
dal
cervello verso altri lidi.
Azzurra
ritrasse subito le dita, il
secondo in cui realizzò la calma piatta – ma
proprio piatta – che regnava nel
bassoventre del riccio. Non si aspettava certo che l’albero
maestro fosse già
bello e pronto per navigare nei suoi mari, ma insomma, era mezza nuda,
lo aveva
toccato, palpato, strizzato, baciato, leccato… si era
persino inginocchiata
davanti a lui e non di sicuro per pregare insieme! E, in tutto questo,
lui
l’aveva scoraggiata, dissuasa e le risposte che le aveva dato
lasciavano molto
a desiderare… era evidente: Achille non la voleva da quel
punto di vista, o
magari addirittura da ogni punto
di
vista. Lui voleva la fottuta ciambella francese.
Se
lo scansò di dosso, raccolse la
vestaglia da terra e la rinfilò.
-
Credo dovresti andare, ora, – gli
disse sconsolata.
Lui
la guardò senza capire.
-
Cosa? Perché?
Il
sangue doveva essersi fermato
dalle parti dello stomaco, a metà strada tra la testa e
l’inguine, perché le
funzioni cerebrali e quelle genitali erano in grossa
difficoltà, ma, in
compenso, ad Achille era venuta una certa fame. Però Azzurra
non stava
scherzando.
Non
glielo aveva nemmeno detto e
lei già lo stava mandando via? Oddio, mica sapeva leggere
nel pensiero, vero?
-
Buon Natale, Achille. – Lei
strinse forte la cintura sulla vita. Lui tentò di
protestare, quantomeno di
avere delle spiegazioni, ma lei tagliò corto. –
Stammi bene.
Gli
aprì la porta ed abbassò lo
sguardo, in attesa che lui raccogliesse le sue cose e uscisse da quella
casa.
Azzurra
era delusa. Se ne stava sul
letto, a gambe e braccia incrociate, a fissare lo schermo spento della
tv
almeno da mezzora. Il cellulare era in modalità silenzioso
da due sere prima,
perché non ne poteva più di sentire il trillo di
un sms in arrivo o la voce di
Sting che la informava che c’era un Message
in a bottle. Lo aveva capito già alle prime cinque
chiamate di Achille. Non
era stata una grande idea quella di personalizzare la
suoneria… cominciava a
detestare quella canzone. Più di quanto già non
detestasse Achille. Ah, ma chi
ci pensava a quello? Se lui non si era eccitato con la performance di
lunedì
erano chiaramente – ed unicamente – problemi suoi.
Qualunque uomo avrebbe fatto
la fila per una come lei.
Sei
una bomba sexy, chiaro, Azzurra? Certo, potevi fare qualche prova in
più
davanti allo specchio e fare un movimento più sinuoso con il
collo per spostare
i capelli, ma… no. Sei una bomba sexy, punto e basta.
Magari
Achille era gay. Anzi, lo
era di sicuro, perché chi diamine oggigiorno rifiuta una
donna mezza nuda che
ti si offre come il gorgonzola sulla polenta? Un cretino, ecco chi.
Perché lei
era come Beyoncé, un po’ più bianca e
con meno sedere, come Shakira, ma senza
quella mobilità nel bacino… era come Shakira
incinta. Sempre bella comunque,
no?
Non
poteva permettere che quel
cretino gay di Achille Quaresmini mettesse in crisi la sua
indiscutibile
femminilità e avvenenza. Non appena si fosse fatta una
doccia e tolta il
camicione da novizia in convento gliele avrebbe cantate.
Salì in piedi sul
letto e si mise a cantare e ballare Single
ladies. No, doveva lavorarci ancora un pochino.
Non
poteva essere lei. Più Achille
guardava la ragazza in fila allo sportello della filiale,
più si convinceva che
non potesse essere proprio Azzurra. Sarebbe stato sperare troppo. Dopo
giorni e
giorni di chiamate rifiutate, ignorate, soliloqui limitati dai bip della sua segreteria telefonica ed
sms a cui non aveva mai ricevuto risposta, non c’era
possibilità che lei fosse
in carne ed ossa a qualche persona di distanza.
Achille
cercò di assecondare le
richieste dei clienti che precedevano la presunta Azzurra velocemente,
nonostante una signora anziana mezza sorda, un cinese che non conosceva
una
parola d’italiano, il computer impallato… Era una
strana sensazione, quella che
provava. Lei gli mancava. Azzurra sapeva essere saccente, dispettosa,
irritante, infantile, una vera spina nel fianco per dirla in breve; ma
era
anche una presenza costante, rassicurante. Gli venne da sorridere,
pensando ad
una puntata de La vita secondo Jim,
nel quale il protagonista si lamenta delle chiacchiere ininterrotte e
superflue
della moglie Cheryl, ma nell’istante stesso in cui lei
comincia uno sciopero
del silenzio, lui si rende conto che quei blateramenti che tanto lo
indispongono in realtà coprono un sacco di piccoli altri
rumori che lui odia.
Ecco, a lui mancava il chiacchiericcio di Azzurra in sottofondo, quei
fiumi di
parole spesso indirizzate a se stessa, perché lei riusciva a
coprire gli altri
piccoli rumori indesiderati di tutti i giorni. Lei,
non Chantal.
Congedò
rapidamente la coppia che
la precedevano con la scusa del computer bloccato e la vide.
-
Ciao, – le sorrise.
-
Signora, – disse lei rivolta alla
donna dietro di lei, con un inedito piglio determinato. – Le
consiglio di
cambiare fila. Sarà una cosa molto
lunga. Bene, buongiorno Achille. Sono venuta a discutere della tua
débâcle.
L’intera
fila di clienti dello
sportello di Brambilla si voltò verso di lei,
improvvisamente interessata.
-
Débâcle? Quando? – Domandò
confuso. Provò a rimettere insieme i pezzi
dell’ultima volta in cui si erano
visti. Dunque: casa sua, divano, babydoll – e chi se lo
scordava? –, lei
inginocchiata davanti a lui – questo non l’avrebbe mai scordato –, la sua mano
nei pantaloni, la Savarese, i clown… oh
cielo, no! No! NO! Azzurra pensava che lui non si fosse eccitato!
Effettivamente questo aveva molto più senso delle teorie per
cui lei fosse in
grado di leggere nel pensiero o che l’avesse cacciato di casa
perché spaventata
dalle enormi dimensioni del suo
armamentario.
-
Quando? Forse mi confondi con
Chantal.
Lo
dicevo che sapeva leggere nel pensiero!
-
No, Azzurra, lasciami spiegare.
-
Spiega, coniglio! – Urlò,
attirando l’attenzione anche dell’unico essere
umano nella banca che si era
fatto delle remore ad ascoltare così platealmente: Brambilla.
Achille
si guardò intorno, si
chiese quanto fosse appropriato discutere della propria vita sessuale
in mezzo
a clienti che vedeva più o meno ogni giorno e
optò per una soluzione
alternativa.
-
Ne parliamo stasera? Cena, da me.
-
Lo vede come fa, signora? –
Azzurra tornò a rivolgersi alla donna alle sue spalle.
– Fa l’ambiguo. Eppure
le ho provate tutte con lui! Avrebbe dovuto vedere il babydoll che ho
comprato
per lui: seta e corallini. Che diavolo dovevo fare? Mi sono persino
offerta di
fargli…
-
Azzurra! – La bloccò, prima che
scendesse in dettagli che lo avrebbero condotto dritto dritto al
licenziamento.
Doveva provare con la gentilezza. – Tesoro, ti prego, ti
chiamo più tardi. Ora
devo lavorare.
Lei
gli diede un’occhiata gelida.
-
Tesoro? Tesoro ci chiami Chantal.
– Si girò per l’ennesima volta
dalla signora. – È la sua ex francese.
La
Leone arrivò dagli uffici sul
retro ticchettando con le scarpe costose sul pavimento lucido della
filiale,
attirata dal trambusto agli sportelli. C’era troppo casino
perché fosse una
rapina e troppo poco trambusto perché fosse di nuovo quella
vecchia mezza sorda
che urlava come un’oca starnazzante.
-
Ehm… Quaresmini, che succede? –
Achille deglutì, pronto ad un’ennesima ramanzina.
Il fido Brambilla si premurò
di farle un accurato resoconto, fortunatamente dimenticando
la questione della débâcle. –
È una banca, per Giove,
non Uomini e donne. Fai venire la
tua
amica in ufficio, prima che gli altri clienti si mettano a fare gli
opinionisti.
Il
riccio fece segno ad Azzurra di
passare attraverso la piccola porta che conduceva sul retro. Lei fece
un po’ la
preziosa, s’intrattenne a parlare con l’ormai amica
signora Fappani che la
consigliò di risolvere, soprattutto perché doveva
andare a fare la spesa ed
andava di fretta. Il marito non stava bene e… purtroppo la
fine della storia
non l’avrebbe mai saputa, visto che Achille praticamente la
trascinò negli
uffici.
-
Uffa, che modi… –
Si lamentò lei. – Quello
cos’è?
Il
ragazzo diede un’occhiata rapida
a ciò che lei stava indicando e le rispose.
-
È un apparecchio che conta i
soldi.
-
Posso andare allo sportello a
toccarlo?
Eccolo
tornato, il ronzio di
sottofondo.
-
Ovviamente no.
-
Posso prendere l’acqua dal
dispenser?
-
È solo per gli impiegati, – le
spiegò.
-
Ho fatto davvero così pena?
Achille
tacque un istante. Impiegò
qualche secondo a capire con esattezza ciò che lei
intendeva, ma non gli servì
altro tempo per realizzare che era lei a non aver capito.
-
No, – si affrettò a dire. – No.
È
successo a causa mia.
-
Eppure mi ero esercitata tutto il
giorno! Ho guardato i film, letto le istruzioni, ho persino chiamato il
collega
di Dalila in ginecologia per delle delucidazioni tecniche…
non so cosa sia potuto
andare storto… o dritto, in questo caso.
C’era
qualcosa di estremamente
gratificante nel fatto che lei si fosse data tanto da fare per
risultare più
bella, più seducente, per piacergli, quando in effetti a lui
bastava pensare a
lei in pigiama e spettinata per sentirsi già su di giri. Ma,
di nuovo, non
voleva dirglielo così, in banca, con i clienti che se
avessero potuto avrebbero
appoggiato dei bicchieri contro il vetro per ascoltarli e che in
effetti erano
appoggiati al vetro a cercare di leggere il loro labiale.
-
Azzurra, mi sento davvero a
disagio a parlarne qui. Possiamo sentirci dopo?
Lei
si arrese. Annuì abbattuta; ci
aveva provato, in ogni modo immaginabile, però se lui non le
voleva tenderle
una mano, aiutarla, insegnarle come
poter stare insieme, allora non valeva nemmeno la pena continuare a
puntare i
piedi, insistere, ritentare, se il risultato era quello.
-
Ti lascio lavorare.
Achille
la osservò riattraversare
la porticina, ritornare nella stanzona dove tutti i clienti la stavano
guardando, neanche fosse una sfilata, ed entrare nella bussola.
Che
giornata di merda.
Aveva
voglia di urlare, di prendere
a testate quel pirla di Brambilla già solo per la tua
esistenza, sputare in un
occhio alla Leone che, neanche a farlo apposta, lo stava fissando,
scuotendo il
capo.
Cazziatone
in tre, due, uno…
-
Quaresmini, potevi baciarla,
santo cielo! – Il riccio rimase sconvolto: che la regina
delle acide avesse un…
cuore? – Così i nostri clienti si sarebbero
dimenticati dell’abbassamento del
tasso d’interesse sui conti!
No.
Quella aveva un caveau, invece
del cuore.
Afferrò
il cellulare, cercò
freneticamente un numero di telefono e avviò la chiamata.
-
Sergio? Ho bisogno di un favore.
Non era mai stato allo
StudioLab. Era una costruzione
moderna, su più livelli, dipinta di un bianco pulito ed
elegante. Sulla
facciata c’erano una miriade di finestre e, dietro una di
quelle, c’era
l’ufficio di Azzurra. Non aveva idea di quale fosse, ma gli
sarebbe piaciuto
vederla all’opera.
Achille
consultò l’orologio: le
17.30. Se Sergio era riuscito a trattenerla mezzora in più
del consueto, allora
il piano era perfetto e lei sarebbe uscita entro pochi minuti.
Cominciò a
passeggiare nervosamente sul marciapiede antistante
l’edificio; non si sentiva
così dall’ultimo colloquio di lavoro che aveva
fatto. Dio, quell’attesa era
peggiore dell’agonia durante la finale degli europei di
calcio… perlomeno fino
a quando l’Italia non aveva cominciato a prendere goal.
Iniziò
a contare i mattoni a vista
sulla facciata dello studio, i cartelli stradali della via, il numero
di
passanti in sessanta secondi; la matematica aveva il potere di
calmarlo,
renderlo lucido, aiutarlo a ragionare. Ma chi cazzo se ne fregava dei
trentaquattro mattoni, otto lampioni e cinque passanti?
-
Che ci fai qui? – Oh, il ronzio
familiare! Azzurra era piena di borse, borsette e borsine e rotoli di
carta, di
progetti e di stizza. – Hai sbagliato strada?
Procedette
a fatica, in mezzo
all’asfalto del vialetto e all’erba del giardino
intorno allo StudioLab.
-
Ti ho promesso una cena da me,
stasera, – rispose calmo.
-
Non posso, – lo liquidò lei. –
Devo lavorare.
-
Ti aiuto, – si offrì, pur sapendo
che al massimo poteva fare la punta alle matite, se gli architetti
ancora le
usavano. Azzurra aprì con il telecomando la propria auto e
rovesciò tutto ciò
che aveva tra le mani e le braccia nel portabagagli. – Non
accetto un no come
risposta.
-
E a che ora sarebbe?
Glielo
aveva chiesto così, non
aveva intenzione di presentarsi a casa sua; voleva solo illuderlo che
ci stava
seriamente pensando. Era prontissima a dargli buca all’ultimo.
-
Ora. – Beh, questo complicava un
po’ le cose… – Chiudi la macchina e
vieni con me.
No,
Azzurra, no. Se proprio ci vuoi andare, vacci con la tua auto.
Perché a) sta pensando
che ti porterà a letto e dormirai da lui; b) sta pensando
che ti porterà a
letto e poi dovrai prenderti un taxi; c) sta pensando di portarti a
letto e ti
abbandonerà per strada.
-
No, prendo la mia.
Poteva
sempre cambiare strada,
perdersi accidentalmente, dimenticare l’indirizzo di casa
Quaresmini per un Oblivion
autoinflitto. Cose che
capitano.
-
D’accordo, ti seguo.
Ah,
bastardo! Non è che sapeva
leggere nel pensiero? Pazienza, sarebbe andata da lui e gli avrebbe
fatto
passare una serata noiosissima a base di gossip, televisione
spazzatura, film
sdolcinati, roba da femmine.
-
Ripetimi ancora perché stiamo
facendo uno schizzo dell’albero di Natale, invece che farlo
fisicamente…
Disegnare
un abete, palle e addobbi
natalizi per due ore e trentasette minuti non era precisamente
ciò che aveva in
mente di fare con Azzurra. Ma, da cavalier servente, si era offerto di
aiutarla
e non osava proporre attività alternative.
-
Te l’ho detto: faccio l’albero il
5 di Gennaio, – gli rispose, colorando gli aghi
dell’albero. Uno ad uno.
-
E il senso di questa cosa? –
Cercava di essere delicato, però di fronte ad una tale
insensatezza, le buone
maniere venivano un po’ meno.
-
Perché così il 6, quando lo dovrò
disfare, non avrò avuto tempo per affezionarmici,
– gli spiegò per la terza
volta, sempre più saccente.
-
Giusto. – Achille disegnò
l’ennesima stellina sull’ennesima stupidissima
palla e decise che poteva
bastare: era ora di fare l’uomo, magari meglio di come
l’aveva fatto a casa di
lei. – Ehm, dovremmo parlare, Trent. Se lunedì non
è… andata come speravamo,
non è stato…
-
Una ciambella, – lo fermò lei,
sbattendo la matita colorata sul tavolo.
-
Cosa?
-
È perché non sono una ciambella
grondante crema pasticcera, gelato e panna montata, lo so. Io sono un
Oro
Saiwa.
A
lui piacevano gli Oro Saiwa.
Erano un’ottima base per il cheesecake e lui avrebbe venduto
l’anima per
mangiarne una fetta in quel momento. Magari sul corpo di lei,
perché era
tornato quel tono da maestrina così fastidioso e sgarbato.
La cosa lo elettrizzava.
-
Non sei un biscotto secco,
Azzurra, – la calmò. – Sei bella, dico
davvero. E mi piaci, tanto. Non voglio
che pensi neanche per un istante che non ti trovi sexy o che non vorrei
fare
l’amore con te. È solo che mi hai colto di
sorpresa, non me l’aspettavo, forse
non ero nemmeno pronto.
-
Beh, quello l’avevo capito, – mugugnò
imbronciata.
Achille
ignorò il colpo basso e proseguì con il discorso
in sua difesa.
-
La verità è che quella domenica
mi hai piantato in macchina, furiosa per via di Chantal e il giorno
dopo mi sei
saltata addosso non appena varcata la porta di casa tua, con indosso un
babydoll e poco altro. Magari in una situazione normale non ci avrei
pensato
due volte e l’avremmo fatto subito, sul divano; ma so che
stavi aspettando il 20
Dicembre… Non voglio che tu venga a letto con me soltanto
perché ti senti
minacciata da lei.
Azzurra
si voltò oltraggiata verso
di lui, balzando in piedi.
-
Io? Minacciata da quella? –
Achille la guardò severo e lei si sentì
sovraesposta. – D’accordo, forse ho
forzato un po’ la mano. È che mi sentivo in
svantaggio.
-
Perché sono stato con lei e non
con te? E volevi pareggiare i conti? – Qualche
giorno prima sembrava un’idea intelligente…
– Per quanto questo un po’ mi
lusinghi, non è una competizione. Non sceglierò
tra te e lei in base a quanto
ci sapete fare tra le lenzuola. Non sceglierò e basta. Se
insistete, però…
ricordo bene quanto tu sia brava ad insistere.
Si
alzò anche lui, raggiungendola
vicino al divano. Ricordarle uno dei loro piccoli bisticci al
supermercato la
stava facendo sorridere.
-
Ti ho mai parlato della mia
grande abilità nell’evirazione? –
replicò piccata.
Le
mise le mani sui fianchi e la
girò verso di sé. Lei si lasciò
manovrare come una bambola.
-
Trent, hai ragione quando dici
che conosco lei più di quanto conosca te. Ma la conosco
abbastanza da sapere
che non mi piace, non m’interessa.
-
E io?
Ronzio.
La
ragazza spavalda e arrogante
aveva lasciato il posto ad una indifesa ed insicura.
-
Prima devo portarti a letto, sai
com’è… –
sdrammatizzò, prima di tornare serio. – Azzurra,
abbiamo il potenziale
per essere felici per sempre, quanto per ferirci a vicenda e odiarci
fino alla
morte. Non so come andrà tra di noi. Tempo al tempo.
Lei
gli girò il polso per guardare
l’orologio. Forse l’aveva preso un po’
troppo alla lettera.
-
Vuoi andartene di già? – chiese,
timoroso della risposta.
-
No, stavo guardando che giorno è.
Era
il 19 Dicembre, Achille lo
sapeva bene, stava praticamente facendo il conto alla rovescia fino al
20, e
non di certo perché temesse che qualche sciocca profezia
Maya si avverasse, ma
perché Azzurra aveva scelto quella data ed era
così testarda che non l’avrebbe
cambiata. Il che significava che lui aveva ancora un giorno per dirle
tutta la
verità, prima di corrompersi al punto che lei non lo avrebbe
voluto rivedere
mai più.
-
Azzurra…
Lui
prese coraggio, ma lei prese
l’iniziativa. Lo guardò negli occhi,
afferrò i due lembi della giacca del
completo che lui indossava e gliela sfilò. Fece scivolare la
propria mano sulla
cravatta e lo tirò per avvicinarlo a sé. Erano
giorni che non si baciavano, non
si toccavano
ed
entrambi sapevano quanto
importante ciò fosse all’inizio di una relazione,
quando non ci si conosce, ma
si vuole imparare a farlo. E lei aveva deciso che non gli importava di
date,
fine del mondo, stronze d’Oltralpe, sorelle ficcanaso.
C’erano lei ed Achille,
punto.
Lo
baciò senza delicatezza, con una
foga che cozzava con i movimenti delicati delle dita attorno al suo
collo, sul
petto, pronte a svestirlo con una lentezza disarmante ed esasperante.
Gli
allentò il nodo della cravatta affinché potesse
sfilarla dalla testa, dandogli
una pausa da quel bacio che li stava lasciando a corto di fiato.
Azzurra
cominciò a sbottonare piano
la camicia di Achille. Dal canto suo, lui non osava toccarla; non
voleva
spogliarla, l’avrebbe reso vulnerabile e poco lucido,
rischiava di non avere il
coraggio necessario per parlare.
-
Azzurra… –
sussurrò, mentre lei ancora continuava a
slacciargli la camicia.
-
M-hm? – gli rispose distrattamente,
lo sguardo fisso sul corpo nudo di lui che stava scoprendo sotto il
tessuto.
Achille
deglutì a vuoto un paio di
volte, poi le prese le dita piccole e sottili tra le sue mani grandi e
le
immobilizzò contro il proprio sterno.
Azzurra
avrebbe voluto dire
qualcosa di assolutamente seducente e altrettanto imbarazzante imparato
su
qualche numero di Cosmopolitan, ma
il
viso turbato di lui la fece desistere; aveva imparato che lui era un maschio strano e non reagiva come gli
altri a certe provocazioni. Si doveva scongiurare il rischio cilecca.
-
Devo dirti una cosa… – Oh mio
Dio, era davvero gay. O sposato. Cielo, un gay sposato? Un prete. Un
frate. Un
ricercato. Un terrorista. Un terrorista gay sposato in seminario.
– Domenica
sera, dopo che te ne sei andata, sono uscito con Fabrizio… e
l’ho vista.
Dopo
la prima parte della frase,
aveva creduto davvero che lui stesse per fare coming out, ma quella a alla fine dell’ultima parola
aveva
messo in crisi l’intera teoria. Vista.
Escludendo l’ipotesi che lui si premurasse tanto di
comunicarle il fortuito
incontro con sua sorella, sua nipote o una qualsiasi amica,
l’unica opzione
rimasta era la crêpe avariata appena giunta in
città.
-
Chantal? – Il tono interrogativo
tradiva in realtà la matematica certezza di aver indovinato.
Achille
infatti annuì, abbassando
lo sguardo.
-
Si è seduta al nostro tavolo, ci
siamo messi a parlare…
Chissenefrega!
Azzurra decise che
la descrizione della serata fosse necessaria e giunse al dunque.
-
Ci sei andato a letto?
-
No. – rispose subito.
Azzurra
tolse le mani da quelle di
lui e fece un passo indietro.
-
Avresti voluto? – Lui, ormai con
le dita libere che non sapeva dove appoggiare, finì per
passarsele fra i ricci
disordinati. – È una domanda facile, Achille.
Purtroppo
stavolta il ronzio non
era positivo. Ne era conscio, non sempre gli sarebbe piaciuto
ciò che lei aveva
da dire. Certe volte l’avrebbe ignorata o finto di non
ascoltarla, ma voleva
quel dannato ronzio ed era arrivato il momento di prenderselo.
-
Con lei sono ancora il ragazzino
di ventitré anni inesperto che non sa cosa vuole dalla vita
e che ha bisogno di
qualcuno a cui appoggiarsi per non cadere. Ho la presunzione di credere
di
essere cresciuto, o comunque di star ancora crescendo e ora so cosa
voglio: non
voglio più sentirmi in quel modo. Non ho bisogno
di qualcuno che mi faccia sentire in quel modo. Sì, una
parte di me potrebbe
aver desiderato fare sesso con lei, per quello che è stata,
per cosa ha
rappresentato. – Prese fiato e seguì con gli occhi
Azzurra che si stava
spostando fino a guardare fuori dalla finestra. – Non posso
estirpare il
ragazzino ventitreenne da me, vorrei, ma non posso. Ci sto lavorando.
Azzurra
guardò attraverso le tende
leggere ed i doppi vetri: fuori c’era buio. Le sporadiche
macchine che
passavano nella stradina dietro l’abitazione di Achille
scorrevano accanto ai
vialetti dei vicini, decorati ed illuminati da fili di luci colorate.
-
Non è successo niente? Avete
solo… parlato?
Il
riccio guardò la schiena della
ragazza ormai lontana da lui e decise che tanto valeva farsi avanti
vuotare il
sacco.
-
Mi ha baciato, – confessò.
Gli
occhi di Azzurra schizzarono
fuori dalle orbite e in un attimo si girò verso di lui.
-
Quella z… zavorra!
– si corresse all’ultimo. – E tu sei
stato lì, a farti
sbaciucchiare come un mammalucco?
-
No, mi sono tirato indietro. Te
lo giuro, Azzurra.
Voleva
tranquillizzarla,
rassicurarla, ma era come se avesse acceso la miccia di una bomba piena
di
domande e ora fosse costretto a subirle tutte.
-
Perché non ci sei andato a letto?
Se
l’era chiesto anche lui, a bordo
dell’auto di Fabrizio, mentre tornava a casa, poi nel letto
in casa sua, e
ancora in ufficio. La verità era che più ci
pensava, più gli venivano in mente
ragioni per cui aveva fatto bene ad andarsene. Ma bastava ricordare il
passato
– come si sentiva con Chantal –, bastava riflettere
sul futuro – come si
sarebbe sentito con Azzurra pochi giorni –, bastava vivere il
presente – come
si sentiva senza una e senza l’altra – e tutto
sembrava essere come avrebbe
dovuto.
-
Perché non era giusto, – rispose
semplicemente.
-
Per chi?
Achille
scrollò le spalle.
-
Per te, per me, per lei. Ci tengo
a te, anche se al momento ti è difficile crederlo.
-
Okay. – Il riccio fece una
smorfia imperscrutabile che spinse Azzurra a spiegarsi meglio.
– Ti credo.
Lei
gli credeva. Così, senza il
bisogno di chiedere delucidazioni o di approfondire
l’argomento. Si fidava,
insomma. Bene. Era una bella cosa, giusto? Achille ci pensò
un attimo e non
capì. Azzurra era una donna, e in quanto tale, dietro ogni
sua parola
apparentemente innocua per l’intero universo maschile celava
un immenso mondo
di trappole e significati oscuri. Per quanto tutto ciò
potesse sembrare
paradossale, era lui a non fidarsi del fatto che lei si fidasse.
-
Sul serio? – osò domandare. – Non
per tirarmi la zappa sui piedi, ma mi aspettavo che dessi fuori di
matto e
bruciassi la bandiera francese o mi rasassi i capelli a zero.
Lei
lo guardò sorpresa e
infastidita.
-
Sono una signora, Achille. Le tue
insinuazioni mi offendono.
Ogni
uomo dotato di una buona dose
di raziocinio a quel punto avrebbe taciuto, si sarebbe dato un cinque
da solo e
avrebbe ringraziato tutti gli dei protettori della casa e del focolare
di aver
superato indenne una tale prova. Ma ad Achille Quaresmini le cose
facili non
erano mai piaciute.
-
Hai montato un caso
internazionale per due pesche e un’albicocca, sono solo
stupito che tu ti stia
rivelando così comprensiva…
Azzurra
gli lanciò un’occhiata
scocciata e cominciò a tamburellare sul pavimento con il
piede, indecisa se
dargliela vinta o continuare con quella mezza farsa.
-
Lo sapevo, okay? – sbottò
all’improvviso. – Sapevo del vostro incontro.
-
Come?
La
domanda del riccio si collocava
a metà tra un “In che
modo potevi
saperlo?” e un “Scusa,
puoi ripetere?
Devo aver capito male”. Purtroppo per Azzurra, lui
aveva capito bene e lei
stava per fornirgli la risposta al primo quesito.
-
Potrei aver chiamato Fabrizio e
lui potrebbe avermi scambiato per tua sorella, – disse vaga.
-
Potrebbe?
-
Deve avere mal interpretato le
mie parole, – spiegò.
-
Quali?
-
Tipo “Ciao Fabrizio, sono Elettra”…
Achille
le sorrise divertito.
Adesso gli era chiaro perché lei diceva di fidarsi di lui;
con le dovute
precauzioni e indagini preliminari, pure l’apostolo Tommaso
si sarebbe
ricreduto.
-
Beh, ora capisco come possa
essersi confuso…
-
Avevamo litigato, non rispondevi
al cellulare, Chacquetta era
tornata
in città, stavo solo cercando di preservarti dal fare un
errore gigantesco.
Oh,
certo, si era spacciata per sua
sorella per evitare che lui finisse in una situazione compromettente
con la sua
rediviva e recidiva ex.
-
Quindi non è perché non ti
fidavi… –
suppose.
-
Era più una cosa
patriottica, –
lo informò lei, persuasa
dalle sue stesse parole, – non mi piacciono i francesi. Ci
hanno rubato la
Gioconda!
-
Non credo sia stata Chantal a
commettere il furto.
-
Che fai, ora? La difendi? E prova
a nominarla un’altra volta e vedi cosa succede ai tuoi amati
ricci.
-
Hai ragione, Chantal. Oh, scusa,
intendevo dire Azzurra!
Lei
lo gelò all’istante con due
occhi arrabbiati e Achille comprese che lo scherzo era finito.
-
Non sapevo del bacio, solo
dell’incontro, – continuò lei.
– E la cosa mi ha fatto diventare parecchio
territoriale ed è per questo che ho tentato, molto bene
aggiungerei, di sedurti
con il babydoll e il resto. Ma sai, poi ci sono stati quei problemi
tecnici…
-
Non c’è alcun problema tecnico!
C’ero solo io disperato e eccitato come un criceto che
cercavo di rispettarti.
Non volevo farlo con te prima di averti parlato di questa storia.
Lei
bofonchiò uno ‘speriamo’
contro il vetro appannato,
che lui non si lasciò sfuggire. La raggiunse accanto alla
finestra, però si
limitò a starle dietro, a debita distanza. Era il suo modo
di dirle che era una
sua decisione scegliere se averlo vicino o meno, ma, in ogni caso, lui
ci
sarebbe stato. Nessuna pressione.
-
Hai fame? – cambiò argomento,
dirigendosi verso la cucina. Aveva notato come le sue spalle si fossero
irrigidite, l’imbarazzo era palpabile. – Sono le
otto passate e ti avevo
promesso una cena, perciò…
-
A dire il vero, no. Posso usare
solo un secondo il bagno? – gli chiese lei, la confusione che
lui avrebbe
potuto tranquillamente sul suo viso, se non si fosse rifugiato con la
testa nel
frigorifero, in teoria a cercare qualcosa da mangiare, in pratica per
sfuggirle.
-
Certo, figurati. Ricordi dov’è,
no?
Avvertì
il rumore della porta in
fondo al corridoio e comprese che sì, a quanto pareva lo
ricordava. Ritirò la
testa dal frigorifero e lo chiuse, domandandosi per quale oscuro motivo
le cose
dovessero essere così maledettamente complicate. Si era
tolto un peso, raccontandole
di Chantal, ma a che prezzo? Una serata di disagio totale, lui
barricato in
cucina, lei nel bagno. Aveva bisogno di zuccheri. Aprì la
biscottiera e vi
rinvenne tre Gocciole: se le
sarebbe
fatte bastare. Una sbirciata sulla superficie riflettente del forno gli
rimembrò la camicia sbottonata che, se nella condizione di
prima poteva
conferirgli un non so che di sexy, ora lo faceva sembrare un tronista
tamarro
in vacanza in Costa Smeralda. Si avviò verso la propria
camera da letto;
sentiva il bisogno di cambiarsi, indossare qualcosa di più
comodo del completo
da bancario serio e topo di biblioteca.
Doveva
ammettere che il confronto
era piuttosto impietoso: Azzurra era molto più brava a
sbottonargli la camicia…
potendo scegliere, lo avrebbe fatto fare sempre a lei. Si tolse pantaloni e calze e li
buttò sulla poltrona
nell’angolo. Aprì l’armadio e
cominciò a cercare un paio di jeans e un
maglione, ma una mano gelata poggiata sulla schiena lo fece saltare
dalla
sorpresa e dal freddo. Per poco non picchiò il naso contro
lo scaffale in alto
delle magliette.
Azzurra
rise a crepapelle e quel
suono fece comprendere al riccio che forse c’era ancora
speranza che la serata
non si concludesse con una stretta di mano e false promesse di
rivedersi.
-
Vedo che mi hai già tolto il
piacere di spogliarti… – ammiccò lei.
Ehm…
cosa era successo nel bagno?
Droga? Magia? Achille non sprecò nemmeno un momento a
domandarsi il motivo di
tanta fortuna.
-
Veramente mi stavo cambiando, ma
vedo che la tua mente pervertita ha subito pensato che mi stessi
offrendo. –
Azzurra lo guardò stupita. – E non fare quella
faccia, sei tu quella ad essere
entrata di soppiatto in camera mia.
-
Hai lasciato aperta la porta, –
gli fece notare. – Era un chiaro invito ad entrare. Ma se
così non è…
Gli
diede ad intendere che se lui
non gradiva la sua presenza, lei non si sarebbe fatta problemi ad
andarsene.
Lui l’afferrò per un braccio, un attimo prima che
lei si girasse per uscire.
L’avvolse in un abbraccio e lei si lasciò
coccolare, mentre il suo cuore
cominciava a battere più forte. La stringeva così
forte che ad Azzurra venne
voglia di non andarsene più, né quella sera,
né mai.
Achille
era caldo, nonostante non
indossasse che un paio di boxer e fosse scalzo sul pavimento freddo. Si
godettero quel momento di calma, dopo giorni di tempesta ed
incomprensioni. Lui
le scostò i capelli dalle spalle e parve ricordare solo in
quel momento che lei
era ancora vestita. Purtroppo. Doveva rimediare. Le bloccò
la nuca con una mano
e la bacio sulla bocca: ora che ce l’aveva tra le braccia,
non l’avrebbe fatta
scappare, né in bagno, né altrove. Si
spostò sulle guance, sulla fronte, perché
Azzurra era bollente e lui aveva un disperato bisogno di
calore… la vide tenere
gli occhi bassi e poi chiuderli, le labbra semiaperte e la testa
leggermente
reclinata indietro. A ben pensarci, si stava scaldando da solo.
Azzurra
rimase così per qualche
secondo, in attesa un morso, analogo a quello che Diana aveva rifilato
ad
Achille, perciò aspettò che arrivasse il dolore,
ma lui si limitò a posarle un
bacio leggero sulla punta del naso. Si sorrisero a vicenda e lui fece
per
toglierle il cardigan, ma lei lo bloccò. Il riccio la
fissò disorientato – se
aveva cambiato idea a quel punto era disposto anche ad implorarla
–, ma Azzurra
lo fissò negli occhi con tutto il candore di cui era capace
e se lo sfilò da
sola. Aprì la zip a lato dell’abito verde scuro
che indossava, scostò le
spalline e lo fece scendere lungo le gambe, insieme ai leggins.
Era
il suo modo di fargliela
pagare: lui l’aveva privata del piacere di svestirlo poco
alla volta e ora
avrebbe scontato la pena, guardando lei fare altrettanto.
Forse
non si rendeva conto di
quanto la cosa potesse essere ugualmente eccitante agli occhi di
Achille. Una
donna che si levava gli abiti per lui era comunque un bel successo.
-
Beh, non è il babydoll dell’altra
sera… – alzò le spalle e finse di
essere deluso dal semplice e discreto intimo
nero che Azzurra indossava.
-
Beh, l’altra sera non ha
funzionato. E non parlo solo del babydoll,
– gli rispose a tono.
Lui
si avvicinò di nuovo, punto
nell’orgoglio da quel continuo alludere ad una sua
– e l’avrebbe ribadito fino
alla morte – presunta
morte del
cigno. Cercò la bocca della ragazza e giocò con
la sua lingua, stringendola a
sé, ora che entrambi erano mezzi nudi e accaldati. La fece
indietreggiare fino
a farla sedere sul letto e continuò a baciarla mentre lei si
stendeva sotto di
lui. Percorse con una mano e con le labbra una linea immaginaria dalla
gola al
bordo degli slip di Azzurra, attraverso l’incavo dei seni e
l’ombelico. Le
divaricò appena le gambe, abbastanza perché la
ragazza andasse in
iperventilazione all’idea di vedere – finalmente!
– quei benedetti ricci
in mezzo alle cosce. Trattenne il fiato nell’istante in cui
Achille le leccò e
mordicchiò delicatamente l’interno coscia, non le
sembrava di aver mai atteso
qualcosa con tanta impazienza. E quando il suo tocco sparì,
così,
all’improvviso, proprio nel momento in cui lei credeva di
liquefarsi sulla
trapunta a righe, sentì il proprio piede muoversi. Si
sollevò quel poco per
puntellarsi sui gomiti e capire dove fosse finito Achille; lo
trovò intento a
disfare il piccolo fiocco che lei aveva fatto alle stringhe delle
francesine
che portava.
Francesine?
Le
avrebbe buttate.
Lui
ripeté l’operazione anche con
l’altra scarpa, mentre Azzurra lo fissava sbigottita, le
guance in fiamme e
nulla da dire, perché qualsiasi cosa le sembrava troppo
stupida, troppo
volgare, troppo imbarazzante. Achille la osservò di
sottecchi e poi scoppiò a
ridere.
-
Che ti aspettavi, signorina? – La
prese in giro.
Azzurra
diventò rossa di vergogna,
ma non si perse d’animo: si mise a sedere, si
sganciò il reggiseno e lo fece
cadere sul letto. Achille rimase di stucco; si sforzava di sostenere la
sua
espressione di sfida, ma lo sguardo continuava imperterrito a cadergli
sul seno
scoperto della ragazza.
-
Che aspetti, Achille? – lo
canzonò. – Oh, finalmente c’è
un po’ di vita in quei boxer! Cominciavo a
perdere le speranze…
Il
riccio non ebbe bisogno di
controllare che ciò che Azzurra aveva appena detto
corrispondesse alla realtà.
La sgradevole sensazione di essere alle strette non era dovuta solo al
fatto
che il comando della situazione fosse tutto nelle mani di lei, ma era
anche
fisica. E riguardava l’unico indumento che ancora aveva
addosso. Si abbassò le
mutande con nonchalance ed emulò il gesto di poco prima di
Azzurra, gettandole
a terra. Ma lei era molto più brava nel gioco di non
distogliere gli occhi dal
suo viso. Scivolò sul bordo del letto e si alzò
in piedi, decisa a levarsi a
sua volta gli slip.
Achille,
però, la fermò. Poteva
dargliela vinta su tante cose, ma non su quello. Sostituì le
dita di lei con le
sue e accompagnò l’ultimo indumento rimasto a
separarli fino al parquet. Lei si
adagiò sul letto e lui la coprì con il proprio
corpo. Ripresero a baciarsi e
toccarsi con frenesia, rotolandosi sulla trapunta, ingarbugliandosi nel
lenzuolo e tra le gambe dell’altro.
-
Un’ultima cosa, – esclamò lei,
interrompendo una lunga sequenza di carezze più o meno
lecite. – Non credo di
poter reggere altri preliminari. Due mesi sono sufficienti.
Il
riccio le sorrise. Okay, sapeva
leggere nel pensiero.
-
Grazie a Dio.
Allungò
il braccio fino al comodino
e ne trasse una scatola di preservativi. Ne estrasse uno e ne
strappò con i
denti la carta argentata. Per non lasciare silenzi imbarazzanti durante
tutte
quelle operazioni, non perse occasione per fare il cretino.
-
Se fossi un tipo vanitoso, ti
farei notare come tutto funzioni
perfettamente in me… – scherzò, ma non
troppo.
Azzurra
roteò gli occhi e se lo
trascinò addosso, aiutandolo a sistemarsi tra le sue gambe.
Achille entrò in
lei con delicatezza, dandole il tempo di abituarsi a
quell’intrusione, ma non
fu altrettanto clemente con le spinte successive, quando
sentì la necessità di
farle capire quanto lei fosse desiderabile anche senza babydoll e
ninnoli vari
e soprattutto di dimostrarle che la sua virilità non aveva
nulla che non
andava.
Lei
lo lasciò fare, fino a quel
momento aveva giocato con lui, ma sapeva che voleva essere lui a
condurre i
giochi e lei aveva tutte le intenzioni di permetterglielo. Lo
assecondò nei movimenti
e nei gemiti, negli affondi e nei sorrisi di complicità
appena accennati, a
fior di labbra.
Azzurra
aveva i piedi gelati e
naturalmente li aveva infilati entrambi tra le sue gambe, facendogli
venire la
pelle d’oca. A dirla tutta, aveva anche il respiro pesante. E
pesante era un
eufemismo: sembrava di avere accanto un rinoceronte.
Ronzii.
Si
erano appisolati poco dopo aver
fatto l’amore, sopraffatti dalla stanchezza, dallo stato di
assoluto relax e
tepore, sotto le coperte invernali. Secondo la sveglia sul comodino,
dovevano
aver sonnecchiato per un’oretta, ma adesso, con quei
ghiaccioli conficcati
nelle cosce, il corpo di Azzurra spiaccicato lungo il fianco e la sua
mano
spalmata in faccia, dormire appariva impraticabile.
Le
passò le dita tra i capelli,
accarezzandoli delicatamente. Cercava di essere tenero e se nel
frattempo lei
avesse smesso, per pura fortuna, di russare come un ferrotranviere
siberiano,
tutto di guadagnato. Azzurra emise un suono che gli parve un miagolio,
poi si
stirò e sbadigliò, avvinghiandosi a lui come un
babbuino. Oh, che sensazione
celestiale: si era coricato con una donna, si ritrovava con un incrocio
tra una
scimmia e un gatto.
-
Ehi, Pisolo. – le sussurrò.
Lei
impiegò qualche istante a fare
mente locale: era nuda, in un letto altrui e sentiva
l’impellente bisogno di
andare in bagno e sistemare l’impiastro là sotto.
-
Che ore sono? – bofonchiò.
-
Tardi per andare a casa. Resti
qui con me, – le rispose Achille. In realtà non
erano che le 21.30, ma lei mica
lo sapeva.
-
Mi stai sequestrando? – domandò
sospettosa, puntellandosi con un gomito sul cuscino per guardarlo
dritto in
faccia. Il riccio la imitò e si trovarono così
faccia a faccia.
-
Sì, – rispose sorridente.
Lo
sguardo di Achille scivolò nel
punto in cui il lenzuolo e la trapunta rimanevano tesi, incapaci di
nascondere
il petto di Azzurra; si congratulò per il proprio occhio
clinico: terza
coppa b confermata. O forse ci voleva
un ulteriore controllo…
Le
destinatarie di tante attenzioni
vennero prontamente coperte sotto il piumone dalla loro proprietaria.
Achille
sorrise, consapevole di essere stato beccato in flagrante, ma per un
paio di
tette, questo e altro.
-
Ho già individuato una mezza via
di fuga in bagno, – lo informò Azzurra.
-
Quindi è questo che è successo
prima!
Droga
e magia, però, sarebbero
stati più divertenti.
-
Ho provato a scappare dalla
finestra, ma era troppo piccola, perciò ho pensato che
l’unico modo di fuggire
fosse fare sesso con te.
Achille
tornò a sdraiarsi e si
finse addolorato da una tale esternazione.
-
Quanto romanticismo, Trent!
La
ragazza fece spallucce.
-
Uno dei due dovrà pure
dimostrarne un po’…
Lui
la trascinò addosso a sé, le
stampò un sonoro bacio sulla tempia e le morse un orecchio.
-
Mi sei mancata in questi giorni.
Lei
cercò di divincolarsi e roteò
gli occhi.
-
Non fare lo sdolcinato, ora! – lo
rimbrottò.
-
Sdolcinato? Azzurra, il mio cuore
si è fermato nel momento stesso in cui sei corsa via da me,
oh mio raggio di
sole. I tuoi occhi sono gemme preziose, i tuoi seni due tondi perfetti,
la tua
pelle è di seta. Stellina mia, staremo insieme per sempre,
perché la mia vita
senza te non vale nulla. Faremo l’amore in tutti i luoghi e
in tutti i laghi,
in tutto il mondo e l’universo…
Azzurra
si tappò le orecchie per
non ascoltare quello strazio smielato con cui Achille la stava
prendendo in
giro.
-
Basta! – gridò, ma lui non si
scoraggiò e proseguì la sua altisonante
dichiarazione degna di un Harmony.
-
Sei il mio apostrofo rosa, il mio
amor ch’a nullo amato amar perdona, l'Amore che è
tutto e che è tutto ciò che
sappiamo dell'Amore, perché sei il mio essere speciale ed io
avrò cura di te!
Azzurra
stava ridendo senza
contegno, mentre lui le urlava nell’orecchio e le faceva il
solletico per
convincerla a starlo a sentire.
-
Ma di che diavolo stai parlando?
– ridacchiò.
Achille
le bloccò le braccia e
gambe con le sue e le disse, fintamente serio.
-
L'amore è non sapere di cosa si
sta parlando, – recitò lui.
La
ragazza alzò un sopracciglio e
provò ad indovinare l’autore della citazione.
-
Nicholas Sparks? Winston Churchill? Socrate?
-
Lucy Van Pelt.
I
Peanuts. Lui aveva appena citato i Peanuts, con lo stesso pathos con lui
l’avrebbe fatto con un grande
poeta romantico. Azzurra gli diede un pizzicotto sul braccio a cui lui
reagì
con un esagerato urlo di dolore e di lamentele. Achille fece per
brontolare, ma
lei lo baciò, prima che lui potesse arrivare anche solo ad
aprire bocca.
-
Zitto e coccolami, scemo.
-
Vuoi dirmi che non sarei dovuta tornare?
-
No. Sono contento tu sia qua. Se non l’avessi fatto,
probabilmente mi sarei
chiesto per sempre se stavo vivendo ancora nel tuo ricordo, aspettando
un tuo
ritorno. E la risposta è no.
-
Non è la risposta che mi aspettavo.
-
È l’unica che avrai, Chantal.
Nascosto
sotto il piumone fin sopra
alla testa, Achille Quaresmini aveva sonno. Tanto sonno. Azzurra gli
aveva
riservato una sinfonia di Natale a colpi di ronf-ronf
e colate di bava sul cuscino per tutta la notte. E ora, alle 6.45 della
mattina, era sotto la doccia a cantare a squarciagola Con
te partirò. Achille si domandava come i vetri di
casa sua
potessero essere ancora integri con quegli strilli.
Era
bello avere Azzurra per casa,
vederla gironzolare con il suo maglione o addirittura senza nulla
addosso. Era
carino sentirla borbottare tra sé o commentare ogni singola
cosa. Era
discretamente piacevole dormire con lei, anche se poi lo relegava in un
angolino e lei si prendeva il resto del letto. Era abbastanza terribile
svegliarsi con la sua interpretazione di classici della musica
italiana:
piuttosto forte e stridulo per essere un ronzio.
Achille
si alzò dal letto, attento
a non fare rumore, poi si avvicinò alla porta del bagno e
premette la maniglia.
Azzurra era il suo ronzio e aveva intenzione di averla intorno per
molto tempo.
Ma nulla vietava di trovare un senso alternativo alle sue urla
mattutine.
Rieccomi!
Bando alle ciance,
vi dico solo che le citazioni fatte da Achille sono di Dante Alighieri,
Emily
Dickinson, Edmond Rostand, Franco Battiato e (mi vergogno a scriverlo
accostato
ai nomi appena citati) Valerio Scanu.
Ringrazio
Triggy, Neppie e
Rosie perché sono tre emerite rompipalle e Nep anche
perché ha betato.
Spero
di tornare presto!
S.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Donne ***
Di
semidei e tinte pastello.
Donne.
Achille
aveva sganciato la bomba
mentre erano nel letto di casa sua.
No,
non il genere di bomba che ti
fa alzare di corsa ad aprire le finestre per arieggiare…
molto peggio. A conti
fatti era meglio una puzzetta – quella almeno se ne sarebbe
andata con il vento
–, al contrario di quelle terribili cinque parole che erano
rimaste ad
aleggiare nel cervello di Azzurra per i trenta minuti successivi,
quando lui si
era già addormentato, un braccio ciondoloni sul suo corpo. E
lì, circondata da
quegli arti che ormai le parevano più artigli, si era
sentita improvvisamente
inquieta.
Non
erano solo cinque parole. Erano
le cinque parole.
-
Credo dovresti conoscere i miei.
Oh,
Vergine Madre delle Ande! I
suoi genitori? Gesù, che aveva fatto di male? Era
perché aveva russato troppo
forte la notte prima? Perché gli aveva finito i biscotti con
la scusa
palesemente falsa della sindrome premestruale? Perché
continuava a propinargli
le stagioni di Downton Abbey?
Andiamo, ormai si era appassionato anche lui, anche se non
l’avrebbe mai
ammesso. E se era di nuovo per quello spoiler che le era scappato sulla
morte
di Lady Sybil, si era già scusata venti volte e aveva
già pure espiato,
sopportando una settimana di broncio.
Mah.
Più ci pensava, più non capiva
cosa mai avesse combinato per meritare di essere spedita nelle fauci di
mamma
Quaresmini. Non l’aveva mai incontrata dal vivo, ma a
giudicare dal tono acuto
da ultrasuono canino che proveniva sempre dal cellulare di Achille, le
faceva paura.
Le sembrava di ricordare che si chiamasse Dorotea o Dora, qualcosa del
genere.
Però era certa che, in qualità di fidanzata del
suo unico figlio maschio, la
sua reazione alla presentazione sarebbe stata inequivocabile: odio
profondo. O
peggio, odio profondo malcelato dietro una fredda cortesia. Si doveva
aspettare
sputi nel caffè, forchette leccate dal cane e
chissà quale altra schifezza.
Magari c’era speranza di piacere al padre, Ettore, del quale
non sapeva
pressoché nulla, se non che era tifoso sfegatato della
Juventus, come il figlio
del resto, e che quando potevano si trovavano a guardare le partite
insieme.
Poteva rinfrescare le sue nozioni calcistiche e provare ad
impressionarlo con
qualche statistica scaricata da internet… visti i precedenti
con le ricerche
sulla rete per far colpo su uno dei Quaresmini, perché non
tentare con un altro
membro della famiglia?
Achille
aveva biascicato qualcosa
nel sonno, distogliendola dai suoi pensieri. Grazie a Dio da un paio di
mesi si
era iscritto in piscina con Fabrizio e ci andava due volte a settimana,
ogni
lunedì e giovedì; quando tornava era
così stanco che si lanciava verso il
tavolo, mangiava come se non ci fosse un domani e poi andava a dormire,
trascinandosi come un orso obeso e incinto verso il
letto. Menomale era
giovedì. Ed era Aprile, e la sua simpatica allergia alle
graminacee ed affini
aveva contribuito a metterlo ko: praticamente si era addormentato ancor
prima
che lei avesse l’occasione di dire qualsiasi cosa.
Chissà…
magari se ne sarebbe
dimenticato.
-
Allora, Trent? A quando la cena
dai miei?
Maledetto.
Azzurra si stava
insaponando sotto la doccia, ma non appena udì quella frase
si bloccò. Rimase
nuda e infreddolita sotto il getto d’acqua tiepido, ad un
tratto le quattro
pareti del box doccia sembravano una gabbia. Non sarebbe più
uscita da quel
bagno, se ciò avesse comportato dover dare una risposta ad
Achille. Quella era
pur sempre casa di lui, ci dovevano essere delle scorte di cibo nel
mobiletto
sotto il lavello o dietro il termo-arredo.
Lui
era impegnato a farsi il nodo
alla cravatta davanti allo specchio della sua camera e non
poté godersi
l’espressione di puro panico che si era dipinta sulla faccia
di lei. Attese
almeno trenta secondi una risposta che non arrivò, poi smise
di aspettarla. Sorrise
soddisfatto: che tenera, Azzurra doveva essere emozionata per la
proposta.
Insomma, presentarla ai suoi genitori era un passo importante,
significava che
aveva davvero intenzioni serie con lei, come se non
gliel’avesse già
dimostrato, poi. Probabilmente stava saltellando dalla gioia in bagno e
non
trovava le parole per esprimere la sua contentezza. Adorabile.
-
Azzurra? – riprovò.
Nella
doccia, la ragazza si guardò
intorno freneticamente per cercare una via di fuga. Constatò
che ogni volta che
voleva o doveva scappare da Achille, si ritrovava nel suo bagno. Forse
era
perché era un ambiente così accogliente,
così confortevole, così… non aveva il
tempo di cercare altri aggettivi.
Merda,
merda, merda.
Avrebbe
finto di non aver sentito,
ecco. Peccato che la voce del riccio si stesse facendo sempre
più vicina.
Qualche secondo più tardi, infatti, stava bussando alla
porta.
-
Ehi?
Lei
capì che avrebbe dovuto
improvvisare qualcosa, e in fretta. Si congratulò con
sé stessa per avere
chiuso a chiave la porta – e perciò avrebbe
ringraziato sia la sua regolarità
intestinale, sia le sue paranoie sul non farsi beccare sulla tazza del
water
dal suo ragazzo – e accese la radio nella doccia. Si
sciacquò alla velocità
della luce, cominciando a canticchiare a voce alta, affinché
Achille capisse
che non era morta lì dentro. Passò veloce un
asciugamano sui capelli fradici e
si avvolse nell’accappatoio che aveva lasciato
sull’attaccapanni per quando si
fermava a dormire da lui.
Achille
bussò più forte.
-
Trent?
Mentre
si infilava reggiseno e
mutande e le punte dei capelli le sgocciolavano sulla schiena ancora
umida,
Azzurra fece una smorfia di dolore. Perché lui voleva
rovinare tutto? Non
stavano bene insieme? C’era bisogno di coinvolgere sua madre?
-
Non ti sento! – gli urlò,
sperando di zittirlo.
Indossò
un vestito giallo e
tralasciò le calze, le avrebbe indossate a casa sua o in
macchina. Prese un
respiro profondo, prima di aprire la porta e schizzare fuori dalla
stanza e
nella camera da letto.
-
Eccoti, finalmente! – le disse
Achille. – Stavo dicendo…
Lei
lo zittì con un bacio che lo
colse impreparato, ma non meno propenso a riceverlo.
-
Devo scappare, – si affrettò ad
aggiungere.
Il
ragazzo le fissò la capigliatura
madida e sconvolta, chiaramente non pettinata. Magari questo dettaglio
non lo
avrebbe fatto presente.
-
Hai tutti i capelli bagnati, ti
ammalerai…
Azzurra
recuperò borsa e
cartelletta dei lavori e afferrò veloce il soprabito. Le
chiavi della macchina
erano disperse in qualche tasca, ma non aveva tempo di cercarle. Per
questo
esisteva il tragitto fino al parcheggio.
-
Passo da casa, mi cambio, vado a
lavoro, poi pausa pranzo, poi di nuovo lavoro… ci sentiamo,
eh? Ciao!
Non
gli restò che fissarla sorpreso
uscire di casa sua come una furia. Scalza. Ecco infatti il campanello
suonare
all’impazzata. Achille roteò gli occhi e sorrise,
afferrando le scarpe, prima
di andare ad aprire la porta.
-
Merda, cazzo… scusa. Ho
dimenticato le scarpe! – Azzurra lo sorpassò,
carica ancora di tutte le sue
cose e iniziò a cercare il paio di ballerine che aveva
indossato la sera
precedente. Controllò sotto il letto e il comodino, persino
tra le coperte,
mentre imprecava sul ritardo e su un tale Lloyd Wright che Achille non
sapeva
chi fosse.
-
Architetto? – la chiamò
cantilenando.
-
Eh? Che c’è? – lei allargò il
raggio della sua ricerca fino al bagno.
-
Ce le ho io, le tue scarpe.
La
ragazza corse di nuovo alla
porta, gli diede di nuovo un bacio e afferrò il prezioso
tesoro. Avanzò
saltellando con un piede e poi con l’altro per infilarle e si
congedò con un ciao
frettoloso dai tre gradini
dell’entrata.
Oh,
sì. Quella sbadataggine era un
chiaro sintomo di profonda commozione.
Per
fortuna, Dalila non si era
fatta pregare troppo. Non ne aveva avuto il tempo. Aveva fatto il turno
di
notte in ospedale ed aveva progettato di dormire per buona parte della
mattinata, magari godendosi un brunch ipercalorico a base di gelato
direttamente tra le coperte, ma la chiamata di Azzurra alle 8.27
l’aveva
svegliata inesorabile. Era stata aggredita dalla parlantina
dell’amica, che
l’aveva confusa a tal punto da non rendersi neppure conto di
aver accettato di
pranzare con lei in città all'una in punto. Inutile dire che
non aveva potuto
disdire; la voce di Azzurra era così disperata che temeva le
fosse successo
qualcosa di grave. Naturalmente un grave nella
scala Trentini, cioè nulla di preoccupante.
Rimase
sotto il piumone finché
poté, poi si vestì con il primo abito che
trovò e indossò degli strategici
occhiali da sole per coprire le occhiaie sopravvissute
all’attacco del
correttore.
Lasciò
l’auto proprio vicino al
bar, punto d’incontro, in uno spazio dedicato al carico e
scarico: non aveva
intenzione di pagare per il parcheggio più in là
o tantomeno lanciarsi in una
ricerca per un posto libero gratis. Constatò che
c’era crisi, i negozi erano
vuoti, non c’era necessità di caricare e scaricare
la merce mentre lei
pranzava. Potevano farlo in un altro momento.
Azzurra
la stava già aspettando,
seduta ad un tavolo. Si stava guardando intorno come un segugio,
neanche stesse
facendo da palo durante una rapina. Parve calmarsi, non appena scorse
l’amica
arrivare con passo rilassato – un po’ troppo per i
suoi gusti. Ma non aveva
sentito lo stato di agitazione nella sua voce al telefono? –
e le fece cenno di
muoversi più celermente.
-
Non ho capito un corno di quello
che mi hai detto al telefono, stamattina. – esordì
l’altra, accomodandosi
proprio di fronte a lei.
-
Solo tre parole: conoscere i
suoi. – Dalila alzò le sopracciglia. –
Genitori.
-
Sono quattro.
Azzurra
arricciò il naso dal
disappunto.
-
No, erano tre; ho dovuto
aggiungere la quarta dopo.
-
E allora perché non l’hai detta
subito? – sbuffò l’altra, brandendo la
lista di piatti del giorno.
-
Perché pensavo avresti capito.
-
Pensi che non abbia capito? –
ribatté con noncuranza.
-
Non lo so… Hai capito?
Dalila
digrignò i denti e abbassò
il menu, fissando Azzurra da sopra gli occhiali da sole.
-
Sono stanca, tesoro, non scema.
Da uno a dieci, quanto sei impazzita quando te l’ha detto?
Beh,
era difficile fare una stima
così, su due piedi. Era un’adulta ed era
perfettamente in grado di gestire la
situazione, non è che sarebbe corsa da sua madre in lacrime
per la paura
d’incontrare i signori Quaresmini… un bagno
sembrava più appropriato. O anche
un pannolino.
-
Mmm… cinque? – scrollò le spalle.
-
…cento?
Un
cameriere interruppe quello
strazio di conversazione con un sorriso che apparve ad entrambe fuori
luogo.
Per fortuna le notevoli dimensioni del bicipite si rivelarono avere
degli
effetti curativi; quasi quasi Dalila non era più dispiaciuta
di essere stata
catapultata fuori dal letto.
-
Buongiorno. Siamo pronti? –
domandò con gentilezza.
Azzurra
lo guardò come se avesse
appena visto E.T. in sella ad una mountain-bike.
-
Grazie, grazie di averlo chiesto!
– sbottò, sorprendendo gli altri due. –
È esattamente quello che mi sono
chiesta anch’io. Siamo pronti? Voglio dire, è un
passo importante, non è una
decisione da prendere sottogamba!
Dalila
e il cameriere si
scambiarono un’occhiata confusa. Lui finse di dover sistemare
qualcosa sul suo
taccuino elettronico, mentre lei si limitava a fissare basita
l’amica.
-
Tesoro, temo si riferisse al
pranzo.
-
Dali, sarà una cena, credo.
-
Oh Gesù, aiutami! Il pranzo di
oggi: vuole le nostre ordinazioni.
Ah.
Beh, francamente Azzurra era un
po’ delusa. Ma d’altronde se lo doveva aspettare;
in qualità di uomo, la sua
profondità d’animo era pari a quella di un
bicchiere di acqua. Vuoto.
- Okay, prenderò un’insalata di pollo.
-
Facciamo due, – propose Dalila. –
E una bottiglia di vino rosso. Molto piena, mi raccomando.
Il
ragazzo appuntò tutto e
optò per non interagire ulteriormente con
quelle due stramboidi. Sussurrò un perfetto
a se stesso quando già si era già allontanato dal
loro tavolo. Purtroppo, però,
la tregua non durò molto: non appena ritornò per
lasciare il vino, una delle
due, quella che in apparenza sembrava la più normale
– la sua valutazione si
basava sul solo fatto che lei avesse capito la questione ordinazioni
– gli
rivolse la parola.
-
Ehi, puoi portaci anche il dolce,
dopo l’insalata?
Oddio,
si sarebbero trattenute
ancora più tempo! Non gli rimaneva che sperare che
intendesse un vero dessert e
non lui, come purtroppo era già capitato con una sessantenne
sgallettata e una
turista tedesca con più denti che capelli.
-
Certo. – si sforzò di sorridere.
-
Due fette di torta della suocera,
grazie.
Non
riuscì a sospirare dal
sollievo, perché quelle due cominciarono a ridere a
crepapelle. Cercò di
fingere che la cosa non lo turbasse, ma alla fine cedette: si
voltò per
assicurarsi che non si stessero prendendo gioco di lui. Ma ecco che,
mentre
quella più normale stava continuando a sghignazzare
incontrollabile, l’altra,
cellullare alla mano, sembrò sull’orlo di una
crisi isterica.
Il
ragazzo scosse la testa, tornò
verso l’interno del bar e catalogò
l’episodio con una sola parola: donne.
Era
da almeno un’ora che le
ripeteva che sarebbe andato tutto bene – senza che peraltro
lei desse il minimo
accenno di dubitarne –, ma ormai lui stava cominciando ad
agitarsi. In realtà,
era onestamente convinto che a suo padre sarebbe piaciuta, il problema
vero era
sua madre. Lei poteva essere… poco disponibile talvolta, per
così dire, Achille
ne era ben consapevole.
Dora
Quaresmini era la classica
mamma chioccia, di quelle che ti chiamano ogni giorno per chiederti se
hai
mangiato a sufficienza e che hanno la lieve tendenza a non vedere di
buon
occhio la fidanzata di turno del proprio pargoletto, perché
è brutta, cattiva,
antipatica o osa indossare abiti sopra al ginocchio, il che
notoriamente
nell’ambiente delle madri chiocce significa che è
una poco di buono e che non
sarà una buona madre con i suoi futuri ed eventuali bambini.
Ad
Elettra era andata molto meglio:
in qualità di figlia femmina, non aveva dovuto sottostare
alla ferrea
legislazione di Dora in fatto di fidanzati… non che si fosse
sforzata più di
tanto, in ogni caso; aveva sposato il primo che aveva portato a casa,
Pier il
ragionier, come lo chiamavano in famiglia. Stime di Achille attestavano
la
nascita della loro relazione ai tempi della formazione della Mezzaluna
fertile,
secolo più, secolo meno. Poi a venticinque anni si erano
sposati e infine era
nata Diana, la gioia della nonna, in grado di cancellare qualsiasi
difetto del
genero. Certo, lui non aveva un nome di origine greca – Dora
aveva fatto
controllare ad Ettore su internet: ebraico, era stato il verdetto
– e ciò minava
un po’ l’equilibrio della famiglia, ma tutto
sommato era accettabile.
Il
padre di Achille era molto più
pacato e si limitava ad accertare un aspetto più pregnante:
la felicità dei
figli. Ormai la prima era maritata e aveva cominciato a mettere su
famiglia,
adesso restava il piccolo di casa e tutti sapevano bene che non sarebbe
stato
così semplice; Dora Quaresmini non avrebbe dato il suo
benestare con troppa
facilità. Nella sua testa, esisteva una e una sola donna
adatta a stare con il
suo bambolotto riccioluto tutta la vita: se stessa.
Achille
rabbrividì al solo
pensiero. Per quanto adorasse sua madre e i suoi dolci, non poteva
proprio
concepire l’idea di fare il Tanguy di turno e accamparsi nel
salotto dei suoi
per sempre.
-
Trent, sei pronta? – le chiese,
giusto per distrarsi dall’orrida immagine di lui e sua madre
per il resto della
loro vita insieme.
Erano
nell’appartamento di Azzurra,
un openspace in cui lei non aveva via di fuga. Spuntò fuori
dal bagno con un
mezzo sorriso, a mascherare l’apprensione in vista della
serata. Indossava un
vestitino chiaro a motivi geometrici e una giacca tipo motociclista
rosa tenue.
Niente tacchi, solo un paio di ballerine e shopper piuttosto ampia che
recuperò
dal divano. Sembrava nervosa, ma nemmeno troppo: forse il fatto di
avere
davanti un viaggio di un’ora e un quarto prima di arrivare a
casa dei suoi
faceva sì di tenerla tranquilla.
-
Vado bene così? – gli domandò
incerta, facendo una giravolta su se stessa.
Achille
annuì, le andò incontro e
le diede un sonoro bacio sulle labbra.
-
Perfetta, – le sorrise. – E non
sei neanche agitata! Fantastico!
Uscì
dalla mansarda di via della
Quercia 27 fiducioso: sarebbe stata una piacevolissima serata,
avrebbero
mangiato e bevuto e lei finalmente avrebbe conosciuto i suoi, sua madre
l’avrebbe adorata e tutto sarebbe filato liscio. E lui
avrebbe mangiato un
sacco di dolci. Piacevolissima serata.
-
Già… yuppie! – Azzurra smise
l’aria gioviale e si appropinquò verso la porta.
Achille
era un bravo ragazzo, dolce
e anche bello; ma c’era qualcosa che proprio non era:
intuitivo. Anche Achille
il Felide, alias il gatto del vicino, si era reso conto che lei tutto
era
fuorché emozionata o tranquilla. Miagolò di
compassione nella sua direzione,
mentre lei ciondolava giù dalle scale con
un’espressione di puro dolore in
faccia.
Maledisse
internamente Achille il
Pelide e i tempi moderni: vent’anni prima, nessuno aveva un
cellulare e a
nessuno sarebbe venuto in mente di mandare un sms con scritto:
Mia
madre ci ha invitato a cena domani sera. Le dico di sì?
Oh,
stava per dimenticare: avrebbe
maledetto anche Dalila e la risposta da lei digitata a tradimento,
quando lei
era in bagno a meditare sul da farsi.
Non
vedo l’ora, Achi!
Sarebbe
dovuta vivere nel nord
Westfalia, in Germania, e viaggiare in una di quelle autostrade
protagoniste di
una serie tedesca che sua madre tanto amava, in cui ogni giorno
macchine si
spiaccicavano una sull’altra, formando rallentamenti,
ingorghi, blocchi
stradali. Magari anche senza spargimenti di sangue… un
camion di traverso che
impedisse loro di raggiungere la casa dei Quaresmini era più
che sufficiente. E
invece no. Abitava nel nord Italia e incredibilmente procedeva tutto
tranquillo
su quella cavolo di A4. Achille canticchiava sulla voce di Brian
Johnson e ogni
tanto le lanciava degli sguardi complici, che in verità non
facevano che
prolungare quell’ora di agonia che la separava dai suoceri.
Non riusciva
proprio a rilassarsi, tra gli AC/DC nelle casse dell’auto e
il triste paesaggio
industriale fuori dal finestrino. Guardava frenetica
l’orologio ogni minuto,
realizzando di essere sempre più vicini. Al casello di
uscita, mentre Achille
passava attraverso la sbarra e i due bip
rauchi e prolungati del Telepass sparivano tra le note di Back in black, Azzurra si mise quasi a
piangere. Pure il Telepass
per evitare le code! Non gliene andava bene una.
Achille
tamburellava gli indici sul
volante come fossero le bacchette di una batterista, il che non faceva
che
contribuire ad innervosirla ulteriormente. Prese a chiudere
l’occhio destro,
che lui non poteva vedere, ogni volta che lui picchiettava il dito,
quasi
potesse ammortizzare quel rumore odioso; la smise quando le sovvenne
l’immagine
di John Cage di Ally McBeal, che si
distingueva per il fischio del naso e la balbuzie, oltre che per il suo
identificarsi idealmente di Barry White. Non poteva fare la fine di
Biscottino…
anche perché lei avrebbe scelto Grace Kelly.
-
Dieci minuti e ci siamo. – le
annunciò Achille.
Beh,
comunque Grace Kelly era morta
in un incidente automobilistico. Forse aveva ancora una chance.
Tutt’ad
un tratto le venne in mente
di aver lasciato nel frigorifero di casa la bottiglia di vino che aveva
intenzione di portare come regalo. Che figura del cavolo! Invitata per
la prima
volta dai Quaresmini, arrivare con le mani vuote… dovevano
tornare indietro!
-
Achi, ho dimenticato il vino!
Forse
ci aveva messo un po’ troppa
enfasi nel constatare la mancanza; sembrava avesse annunciato
l’arrivo del
messia da un momento all’altro.
-
Sta’ tranquilla. L’ho presa io,
Trent, te l’ho messa nella borsa. – Ecco
perché sembrava insolitamente pesante!
– Conosco la mia polla.
Oh,
ma che ragazzo solerte!
Cominciava a detestarlo, lui e i suoi poveri stupidi ricci…
no, non è vero,
quelli rimanevano adorabili.
Azzurra
lasciò che la musica
colmasse quella apparente calma silenziosa e cercò di
rassicurarsi: sarebbe
andato tutto bene.
Niente
andrà un cazzo bene! No! No! Andiamo via, dai!
Achille
parcheggiò la sua auto
sotto ad un albero, sebbene non ci fosse alcuna necessità di
lasciare la
macchina all’ombra; con tutta la pioggia che era scesa in
quell’ultimo mese ci
si poteva riempire nuovamente il lago di Garda.
Azzurra
si stava mordicchiando le
labbra, con l’aria nervosa di chi sta per sostenere
l’orale della maturità.
Cominciava a rimpiangere Chilmi – un nome, un programma
–, il temibile prof di
biologia che aveva reso il suo esame un inferno; Dora e Ettore
Quaresmini erano
due mostri, se lo sentiva. E poi lei era un disastro in queste cose!
Nei suoi
ventisette anni, si era trovata in questa dannata situazione altre due
volte.
La prima con Alberto, a diciotto anni; sua madre non la vedeva di buon
occhio,
ma tutto sommato Azzurra poteva capirla: il marito le aveva messo
più corna di
un alce alpino, perciò ogni essere di sesso femminile
costituiva una minaccia.
Lui, infatti, era viscido quanto un’anguilla cosparsa di
Leocrema e non perdeva
occasione per toccarla. La seconda volta era stata a ventiquattro anni,
con i
Gualla, i genitori di Diego. Erano due personcine fantastiche, la
riempivano di
attenzioni e coccole, torte e complimenti… peccato che in
segreto stessero
cercando di far tornare il figlio con la ex. Non c’era da
stupirsi, perciò, se
Azzurra era semplicemente terrorizzata all’idea di conoscere
i Quaresmini. Per
esperienza, nel momento in cui avvenivano le presentazioni ufficiali,
il
rapporto amoroso andava a rotoli; in sostanza, Achille stava ammazzando
la loro
relazione, seppur inconsapevolmente. Era suo espresso dovere opporsi.
-
Ehm… Trent, scendiamo? – le
chiese lui, in piedi fuori dalla macchina, ma con la testa
nell’abitacolo
-
No! – urlò di risposta,
spaventando entrambi.
Achille
la fissò frastornato: non
poteva avere sbagliato i calcoli! Aveva scaricato la app apposita per
controllare e non c’erano segni di triangolini rosa su quel
cavolo di
calendario. Azzurra non poteva essere in sindrome premestruale.
Lei
si accorse di averlo confuso e
tentò di rimediare.
-
Cioè, volevo dire… tu sei già
sceso. Tocca a me scendere. Ora scendo. – Di fatto non un
singolo millimetro
del suo corpo si mosse. – Adesso giuro che scendo.
-
Trent, c’è qualche problema?
-
No, no! – ridacchiò isterica.
Achille
capì che era un po’ tesa.
Le fece una faccia buffa e le offrì la sua mano. Azzurra la
fissò per qualche
istante, prima di decidersi ad afferrarla tra la sua e ad uscire
definitivamente dall’abitacolo. Lui la condusse lungo il
vialetto che portava
alla bifamigliare in cui i suoi si erano trasferiti dalla campagna una
decina
di anni prima, proprio accanto agli zii. La ragazza camminava a piccoli
passi,
sembrava un brutto incrocio tra un robottino e una bambolina cinese.
Praticamente la stava trascinando, più che ad una cena
davano l’impressione di
andare in gita in un mattatoio.
-
Picci, sei sicura di star bene?
L’espressione
d’insofferenza si
acuì sul viso di Azzurra. Achille voleva giocare sporco:
aveva tirato fuori il
soprannome delle grandi occasioni, Picci. Nulla a che fare con piccola,
piccina…
no, lui aveva optato per un delizioso picciona,
a causa della sua mania di sfamare ogni pennuto sulla sua
strada. Lei aveva
proposto un più romantico Cenerentola,
ma lui aveva riso troppo forte anche solo per prendere in
considerazione altre
opzioni diverse dalla prima.
-
A-ha, – deglutì.
-
Sicura?
Azzurra
si girò per vederlo in
viso, poi scosse la testa. Era solo ad un paio di metri dalla cassetta
della
posta rossa fissata sul muretto di casa Quaresmini. Ci era
così vicino da
sapere che era di ghisa e che aveva dei graffi.
-
No.
Il
riccio rallentò, soltanto per
infilare la mano tra le barre del cancellino ed aprirlo; come al
solito, la
chiave era infilata nella serratura interna.
-
Ma posso sapere che ti prende? –
La invitò a passare oltre la ringhiera di ferro, lungo il
breve vialetto che li
separavi dal portoncino verde dell’ingresso. – Eri
entusiasta di conoscere i
miei!
Azzurra,
che fino a quel momento si
era sforzata di risultare moderatamente tollerante all’idea
di passare una
serata dai genitori di lui, non riuscì a controllarsi.
-
Entusiasta? Su quale pianeta?
Achille
mollò la sua mano e le si
parò davanti, sempre più sorpreso.
-
C-cosa? Non vuoi incontrarli?
-
No, sì… cioè, ho paura!
-
Non sono mica Hannibal Lecter! – almeno
non suo padre… – E, in ogni caso,
avresti dovuto dirmelo prima. Siamo
davanti a casa loro!
Le
indicò la casa gialla alle loro
spalle, come se lei non l’avesse già notata.
-
Scappiamo! – propose lei, preda
del panico più completo.
-
Eh? Perché non vuoi entrare?
-
Io… io… le cose stanno andando
troppo velocemente, Achille…
Aveva
palesemente detto la cosa
sbagliata. O meglio, la cosa giusta, ma con le parole sbagliate. Lo
capì
subito, vedendo come gli occhi di lui si fossero ridotte a due fessure
arrabbiate.
-
Che cazzo vuol dire? – le disse
infatti a denti stretti.
-
No, aspetta, non era quello che
intendevo. – cercò di farlo ragionare, ma Achille
aveva appena cominciato e non
aveva intenzione di fermarsi.
-
Sto accelerando le cose perché
voglio che i miei conoscano la mia fidanzata dopo mesi che usciamo
insieme?
-
No! – urlò, attirando
l’attenzione di una vicina di casa che comparve da dietro un
cespuglio. Aveva
in mano un paio di cesoie, che continuava ad aprire e chiudere, sebbene
stesse
praticamente tagliando l’aria. Azzurra la fissò
scocciata, ma lei neanche la
vide: non era proprio la discussione ad attirarla, era più
il sedere di Achille
a incontrare il suo interesse. Le schioccò le dita
finché quella non si decise
ad alzare lo sguardo dal fondoschiena del riccio e a riabbassare la
testa
sull’arbusto.
-
Mi ascolti? – urlò il ragazzo,
stizzito dai problemi di concentrazione di Azzurra. – No cosa? Sto correndo anche sulla
definizione di fidanzata?
Come
poteva insinuare una cosa del
genere? Non aveva forse visto come lei aveva appena difeso
silenziosamente per
giunta – e questo non era molto nel suo stile – le
sue preziosissime natiche?
Certo che era la sua fidanzata!
-
Achi… – miagolò, ma fu ben presto
interrotta da un rumore infernale. Nella fattispecie, il cigolio del
portoncino
che si apriva. Azzurra sperò soltanto che fosse il padre.
-
Ragazzi! Mi sembrava di aver
sentito le vostre voci!
Oh,
era solo Elettra. Un attimo…
Elettra? Che ci faceva lei lì?
-
Ciao, – disse Azzurra
imbarazzata.
Non
sapeva se essere grata di avere
un’altra faccia amica nella sera delle presentazioni al
signor Quaresmini e a
quel mostro a tre teste carnivoro meglio conosciuto come la sua
consorte,
oppure se mettersi a piangere all’idea di fare una figuraccia
proprio davanti –
anche – a lei in un momento così delicato.
-
Su, su, entrate!
Achille
non la degnò di uno sguardo
ed entrò prima di lei. La sua graziosissima nipotina gli
corse in braccio,
reclamando attenzioni e caramelle. Azzurra realizzò che era
stata una pessima
trovata quella di litigare con lui proprio dieci secondi prima di
entrare nella
tana del nemico. Però prese un respiro profondo e
cercò di rilassarsi: forse i
suoi erano solo pregiudizi e la signora Dora si sarebbe rivelata una
dolce
donnina di mezza età, con l’hobby del
découpage e un carattere così mite da
provocare la carie. Prese dalla borsa la bottiglia di Millesimato che
Sergio le
aveva consigliato di portare con un nuovo spirito positivo: in
più, avrebbe
avuto le mani occupate.
Elettra
la prese sottobraccio e le
indicò dapprima la figlioletta, saldamente tra le braccia di
Achille, poi un
uomo dalla faccia simpatica, non troppo alto e pelato.
-
Azzurra, ti ricordi di Diana,
vero? Lui è mio marito Pier. – La ragazza strinse
la mano all’uomo, che le
sorrise. – Poi ci sono Monica ed Augusto, gli zii.
– Zii? Era forse
capitata nel mezzo di una riunione di famiglia? – La
mamma era andata con la zia a fare la spesa e poi ha pensato di
invitarli a
restare per cena… non è fantastico?
Si
sforzò di non mettersi ad urlare
una serie chilometrica di perché?
ed
ignorò quell’invitante angolino della parete
sgombro da quadri contro il quale
avrebbe molto desiderato sbattere la testa, fino a perdere i sensi.
Suvvia,
nonostante l’alta affluenza alla cena dei Quaresmini, poteva
ancora essere una
serata gradevole.
Respira,
su. Calma.
Gli
zii erano una coppietta
silenziosa e riservata, perfettamente utilizzabili come alternativa
alla carta
da parati. Le strinsero la mano cordiali, ma non aprirono bocca. Ad
Azzurra
venne il sospetto fossero sordomuti. Utili per evitare di fare
conversazioni,
imbarazzanti per i silenzi.
-
Achi, perché non prendi la giacca
della tua ragazza? – lo invitò Elettra.
Lui
posò a terra una Diana
divertita ma contrariata e obbedì.
L’aiutò a sfilarsi la giacca, curandosi di non
rivolgerle la parola. Lei lo seguì con lo sguardo
finché le fu possibile, cioè
finché un signore alto e con la faccia simpatica le
ostruì la panoramica
completa su Achille.
-
Salve, – le strinse la mano. –
Lei dev’essere Azzurra.
Non
voleva sbilanciarsi troppo, ma
l’uomo davanti a lei si era appena candidato ad essere un
alleato.
-
In carne e ossa, – rispose,
consegnandogli la bottiglia. – La prego di darmi del tu.
-
Grazie mille, non dovevi. Oh,
finalmente ti conosciamo. Sono Ettore. Dora?
Si
volse verso la stanza contigua,
da cui proveniva uno sfrigolio di padelle e un gradevolissimo profumo
di cibo.
-
Che c’è? – disse una voce
fuoricampo. – Sto controllando l’arrosto. Ti ho
detto di chiamarmi solo quando
arriva la bertuccia.
Bertuccia?
Uh,
delizioso. La sua sempre più improbabile futura suocera le
aveva appena dato
della scimmia. Quando si dice un inizio promettente…
-
Tesoro, – Ettore le sorrise
goffamente a mo’ di scuse. – È qui.
Una
folta testa riccia rossa
comparve da dietro il muro della cucina.
La
signora Quaresmini indossava
degli occhiali calati sul naso e un grembiule con la pettorina con dei
limoni
disegnati. Non fece nemmeno lo sforzo di sollevare gli angoli della
bocca in
un’espressione di gaudio nel vedere la giovane ragazza, un
po’ scialbina a dire
il vero, che era nella sua sala da pranzo, accanto alla tavola
imbandita. Beh,
se l’aspettava più…
più… più. A vederla così
le sembrava un attimino troppo
poco per il suo bambino. Achille era
un bel giovanotto, bravo, buono, generoso, gentile, premuroso, attento,
il
sogno di ogni madre, mentre lei era… ordinaria.
Sì, ne era convinta: dopo
un’approfondita analisi del soggetto, poteva concludere che
neppure questa
tizia, così come Chantal, Laura e ogni altra donna con cui
suo figlio avesse avuto
o avrebbe avuto a che fare, era degna di lui. Doveva comunicarglielo
subito,
magari indorando la pillola con i bomboloni alla crema che gli aveva
preparato
nel pomeriggio.
Azzurra
tentò di sorridere,
imbarazzata da quell’esame a raggi X. Alzò una
mano verso la sua direzione e la
salutò. Dora Quaresmini sollevò un sopracciglio.
No, quella ragazzina non le
piaceva: il suo modo di agitare le dita era del tutto impacciato, non
poteva
stare accanto ad uno come Achille.
-
Ciao, mamma, – le gridò proprio
lui dal divano.
Il
viso di Dora si illuminò di
amore materno. Piantò il mestolo in mano ad Elettra,
sfrecciò accanto ad
Azzurra senza degnarla di uno sguardo e corse ad abbracciare il suo
orsacchiotto.
-
Tesoro! Ma sei dimagrito? Ti vedo
sciupato. Non gli dai da mangiare?
Azzurra
impiegò qualche istante a
capire che ora la signora stava effettivamente interagendo per la prima
volta
con lei… accusandola di non nutrire il figlio.
Cos’era, la sua babysitter?
Esitò un attimo sulla risposta, mentre la donna la guardava
con aria severa.
-
I-io… – tentennò.
-
Era una battuta, cara, – replicò
sarcastica.
Cielo,
la odiava già. Nel senso che
Dora detestava Azzurra. E Azzurra era ben lieta di ricambiare.
Ettore
irruppe nella conversazione,
ufficializzando le presentazioni, durante le quali peraltro la signora
si
presentò come Dora Quaresmini. Azzurra cercò di
non essere da meno e sfoggiò il
suo cognome come se fosse una Windsor o una Tronchetti Provera. La mano
della
padrona di casa la strinse così forte che dovette
trattenersi dal massaggiare
la propria davanti agli occhi dei parenti.
-
Ho fatto gli gnocchi di patate al
pomodoro, – annunciò la padrona di casa.
– Spero ti piacciano.
Achille
scosse la testa: sua madre
era tornata a fare i soliti vecchi trucchetti. Ricordava bene la
conversazione
al telefono del giorno prima proprio con lei.
-
Amore, cosa vuoi che ti prepari?
-
Quello che vuoi, mamma. L’importante è che tu non
faccia gli gnocchi. Ad
Azzurra non piacciono.
-
Certo, amore.
Certo
un corno. Non solo li aveva
inseriti nel menu, ma si era anche premurata di farli in casa, con le
patate.
Credeva che l’abitudine di sfidare apertamente le novelle
nuore fosse finita
ancora prima di Chantal. In quel caso, infatti, si era comportata bene;
era
stato dopo, quando lei lo aveva lasciato, distrutto e quasi
irriconoscibile,
che Dora si era pentita amaramente di non averle cucinato ravioli con
ripieno
di salsiccia al profumo di arsenico e budino con dadolata di schiaffi
in
faccia.
Achille
si domandò se Azzurra
avrebbe saltato il primo, scusandosi, o se avrebbe finto di
apprezzarlo,
boccone per boccone, fingendo di non volerli sputare tutti. Quello di
cui era
sicuro era che lei non avrebbe detto di amar…
-
Li adoro! – cantilenò la ragazza
con un sorriso smagliante.
Dora
parve sorpresa da tutto
quell’entusiasmo: o il suo bimbo l’aveva ingannata,
o la ragazzina che aveva
davanti stava facendo buon viso a cattivo gioco.
-
Bene! Forza, tutti a tavola. –
Azzurra attese che quasi tutti si sistemassero, soprattutto Achille,
ben
lontano da lei, e poi prese posto accanto ad Elettra. – No,
aspetta, cara: la
disposizione è uomo-donna-uomo-donna… non conosci
le regole del galateo?
Quella
sottile allusione alla
carenza di buone maniere della propria ospite fece trasalire tutti,
tranne la
padrona di casa ovviamente. Azzurra non rispose alla provocazione; si
alzò ed
andò a sedersi tra Ettore, a capo tavola, ed Achille, il
quale stava
cominciando a rendersi conto di aver esagerato prima. Poteva essere
arrabbiato
con lei, ma doveva stare dalla sua parte: era la sua ragazza, era
lì per lui,
nonostante neanche lo desiderasse, a quanto pareva, perciò
era suo dovere farla
sentire a suo agio, nel limite del possibile.
Come
se averle preparato uno dei
cibi che più detestava non fosse stato sufficiente, la
signora Quaresmini le
colmò il piatto di gnocchi, sebbene Azzurra continuasse a
ripeterle che la dose
pantagruelica che già le aveva dato era più che
sufficiente. Odiava quelle
maledette palle di patate: le si attaccavano al palato come cozze ad
uno scoglio
e non se ne andavano più. Si costrinse a mangiarli tutti,
intervallandoli a
grosse sorsate di acqua, trattenne il respiro per sentire meno di quel
sapore
molliccio e vagamente viscido degli gnocchi, ma le sembrava che quei
piccoli
bocconi subdoli avessero deciso di non andare più in
giù della sua trachea.
Achille le sussurrò in un orecchio che non doveva per forza
finirli e
addirittura si offrì di mangiarli al posto suo, ma Azzurra
lo ignorò; quel
mostro di sua madre la stava sfidando e lei non sarebbe stata da meno.
-
Allora, dicci: – la interpellò il
signor Quaresmini. – Che fai nella vita?
-
Sono un architetto. – Ettore fece
uno sguardo compiaciuto e sinceramente interessato. Al contrario di
Dora, che
si lasciò andare ad uno sbuffo mal contenuto che non
passò inosservato. –
Lavoro per lo studio di un mio grande amico.
-
E dimmi, – intervenne proprio
lei. – Come hai intenzione di comportarti, quando e se avrete
un bambino?
Ad
Achille andò di traverso uno
gnocco e gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite. Immaginava
già la
reazione della sua ragazza: sedie per aria, porte sbattute, gnocchi di
patate
in faccia a sua madre all’urlo di “Cosa
vuoi da me, vecchia pazza?”.
-
Mamma! – intervenne Elettra. –
Non ti sembra di affrettare un po’ le cose? Cielo, non siamo
neanche un po’
brilli per sganciare queste domandone!
-
Non c’è problema, – intervenne
Azzurra, molto più calma del solito. – Rispondo
volentieri. Se dovessimo avere
un bambino, starei a casa per tutto il tempo possibile e poi tornerei a
lavorare.
-
Tieni così tanto alla carriera da
lasciare i tuoi figli al nido? – le chiese l’altra
sprezzante.
-
Amo il mio lavoro e non mi
sentirei soddisfatta al 100% se lo abbandonassi per fare la casalinga.
E poi
mia cugina lavora al nido vicino a casa mia, so che ogni bambino
sarebbe in
ottime mani… meglio che con alcuni altri
familiari.
Dora
accusò il colpo e si alzò
velocemente a raccogliere i piatti. Ettore rise sotto i baffi, mentre
lei
poteva sentire su di sé lo sguardo del figlio. Achille era
senza parole. La
fissava sbalordito ed… eccitato! Nessuno aveva mai parlato
così a sua madre!
Non vedeva l’ora di tornare a casa e spogliarsi. O meglio,
farsi spogliare: con
quella voce da maestrina voleva giocare all’impiegato
sottomesso dalla perfida
capa.
-
Azzurra, mio cognato non ci ha
mai raccontato di come vi siate conosciuti… –
disse Pier.
-
Al supermercato. Ha investito la
frutta che avevo appena scelto e mi ha rubato l’ultimo
flacone di detersivo per
lavatrice.
Tutti
i commensali, tranne Dora, in
cucina a impiattare il secondo, risero della situazione, non capendo se
stesse
scherzando o dicesse sul serio.
-
La tua parola contro la mia, –
ridacchiò Achille, prontamente e nuovamente ignorato.
Sulla
tavola calò un silenzio
momentaneo, infranto dal ritorno della signora Quaresmini con arrosto e
patate
al forno. Diede ad Azzurra il pezzo più piccolo e secco, con
le patate più
bruciacchiate; persino a Diana andò meglio, con un razione
di contorno quasi
doppia e una fetta di carne grossa e cosparsa di intingolo. Elettra
gliela
taglio e la bimba cominciò a mangiarla con gusto. Anche gli
zii parevano
gradire, ma non si spinsero mai più in là di un
mugugno di approvazione.
Azzurra assecondò i dispetti e prese dell’arrosto
una seconda volta, avendo
cura di scegliere da sola il pezzo da mangiare. Trattenne persino
l’impulso di
infilare la forchetta nella mano della suocera e di questo si
congratulò con se
stessa.
-
Allora, hai fratelli o sorelle? –
domandò Ettore.
-
No, purtroppo sono figlia unica.
-
Purtroppo? Dovevi vedere Elettra
e Achille da piccoli, litigavano come scimmie allo zoo. Una volta hanno
cercato
di seppellirsi a vicenda nel giardino, distruggendolo. Io e mia moglie
abbiamo
pensato di avere una talpa e le abbiamo dato la caccia per giorni!
Azzurra
rise e si sporse verso di
lui, poggiandogli la mano sulla coscia nello sbilanciarsi in avanti.
Ettore le
chiese qualcosa in più sul suo lavoro,
sull’architettura classica, persino dei
suoi genitori e fu sempre molto più che gentile. Dora si
premurò sempre di
schernirla con frecciatine e sbuffi, mentre Achille osservava le donne
della
sua vita comportarsi da… strane creature incomprensibili.
Donne, appunto.
Arrivato
il momento del dolce, si
offrì di andare a prenderlo in cucina con Azzurra,
l’unica scusa che gli venne
in mente per poterle parlare un minuto in privato. Lei
accettò soltanto perché
aveva capito che non aveva modo di rifiutarsi. E anche
perché non vedere Dora
per un po’ era una manna dal cielo.
Le
fece cenno di passargli davanti
e le indicò la direzione da seguire per arrivare in cucina.
Quando arrivarono
davanti ai fornelli, Azzurra si voltò verso di lui per
chiedergli che diavolo
volesse. Sfortunatamente, lui l’anticipò.
-
Che stai facendo?
Azzurra
incrociò le braccia e alzò
un sopracciglio.
-
Oh, guarda: Bartolo ha
riacquistato l’uso della parola.
-
Chi? – ribatté lui confuso.
-
Lascia stare, ignorante.
L’aiutante di Zorro.
Achille
fece un mezzo sorriso. Dio,
quella donna era fuori di testa.
-
Si chiamava Bernardo. – le fece
notare.
Ah,
cazzo, ecco perché non suonava
molto bene. Meglio comunque continuare sulla propria linea e non
ammettere mai
di avere torto.
-
Nella versione originale era
Bartolo. – inventò e Achille non si
sforzò neppure di crederci.
– Che vuoi? Non vedi che sto amabilmente
conversando con il parentado?
Il
caro ricciolone non poteva certo
lamentarsi di lei: ci stava provando a piacere a sua sorella, il
cognato, la
nipotina, gli zii, quella belva di sua madre e soprattutto con quel
tesoro di
Ettore. Ci stava provando davvero.
-
Ci stavi provando con mio padre?
– le chiese invece Achille.
-
Cosa? – quel tonto doveva aver
mal interpretato i suoi pensieri e soprattutto le sue azioni.
– No! Stavo solo
cercando di piacergli.
Stavolta
fu Achille a guardarla
scocciato.
-
Gli stavi facendo delle moine
così plateali che mia madre ora è confusa: non
capisce se deve consegnare nelle
mani di una sconosciuta suo figlio o suo marito.
In
quella casa c’era un’aria
strana, non c’erano altre spiegazioni. C’era chi
diventava una stronza coi
fiocchi, vedi Dora, e chi diventava scemo, vedi Achille.
-
Ma che dici?
-
Hai appoggiato una mano sulla
coscia di mio papà!
Beh,
se la metteva in questi
termini, forse…
-
Oh merda. Ci stavo provando con
tuo padre. Ma d’altronde non è colpa mia se sono
socialmente adorabile per gli
uomini di ogni età. – Si fece avanti con un
sorriso malizioso e gli picchiò
l’indice sul naso.
Achille
la bloccò, prima che
potesse rifarlo, e la strinse a sé.
-
Smettila di flirtare con mio
padre, – le intimò, fingendo di morderle il naso.
-
Allora, lo state fabbricando
questo dolce?
Fecero
un balzo entrambi, colti di
sorpresa. Achille addentò la punta del naso di Azzurra, la
quale si mise ad
urlare, tentando d’indietreggiare con la testa. Accortosi del
morso
involontario, lui mollò la presa con tanta frenesia che lei
finì col dare una
testata alla colonna del forno alle sue spalle.
-
Oh cazzo! – urlò Achille, mentre
si avvicinava ad un’Azzurra, piuttosto frastornata, che si
toccava il capo con
entrambe le mani. Aveva voglia di dire talmente tante parolacce che
nella
concitazione del momento, non riusciva a sceglierne una, temendo di
fare un
torto alle altre.
-
Il linguaggio, tesoro! – Dora
redarguì il figlio, incurante della botta subita dalla
ragazza.
Anzi,
ben le stava! Prima si
presentava al braccio di Achille, poi cercava di accattivarsi le
simpatie di
Ettore con tutti quei risolini da perfetta oca giuliva…
ecco, perché non si
prendeva Ettore? Era un brav’uomo, maturo, responsabile e
cucinava
discretamente, garantiva lei per lui. Con una parrucca in testa era
uguale ad
Achille.
-
Trent, stai bene? – il riccio
cercava di rimanere serio, ma il segno dei suoi denti rimasto impresso
sul naso
della fidanzata era troppo buffo per non farlo sogghignare.
No,
emerito idiota! Mi hai fatto male!
- Tutto okay,
– disse
lapidaria, massaggiandosi il punto d’impatto con il dannato
forno.
-
Scusa… – le prese il viso tra le
mani e le diede un bacio delicato sulla fronte.
La
signora Quaresmini osservò la
scena con un briciolo di disgusto. Quella ragazzina sarà
pure stata scialbina,
ma era diabolica: proprio un bel teatrino quello che aveva imbastito,
per farsi
dare un bacino da Achille! Si schiarì la voce,
affinché le mani di lui si
allontanassero dalla vipera.
-
Di là stanno aspettando il dolce.
Forza, sveglia!
Allontanò
malamente il figlio e
Azzurra dalla sua cucina ed estrasse dal frigorifero la crostata di
frutta che
aveva fatto nel pomeriggio. Afferrò anche il vassoio coi
bomboloni, ma questo
significava dover lasciare la bottiglia di Buzzurra
– l’aveva pensato sul momento e le
piaceva… sì, l’avrebbe adottato!
– lì
dov’era stata fino a quel momento. Peccato. Beh,
chissenefrega.
Quando
ritornò nella sala da
pranzo, tutti sembravano esilarati dal racconto del piccolo incidente
di
qualche minuto prima; Ettore stava ridendo con la sgradita ospite
– e ti
pareva! –, Elettra e Pier stavano pregandoli di replicare la
scena, gli zii
avevano bofonchiato qualcosa divertiti e Diana, la sua piccola dolce
Diana, era
appena scesa dalla sedia e… che stava facendo? Oh, per
carità! Stava dando un
bacio al naso di Azzurra per guarire una ferita palesemente
immaginaria. Ma che
diavolo prendeva alla sua famiglia? Non si rendevano conto di che razza
di
serpe fosse quella specie di architetto rubafigli?
-
Cara, – disse a Buzzurra con
finto fare materno. – Stai monopolizzando la situazione. Chi
vuole la torta?
Azzurra
non si sforzò neppure di
sorridere, ormai il desiderio di rifilare alla suocera una testata
analoga alla
sua contro il forno era troppo forte per essere contenuta. Non le
sarebbe
dispiaciuto spiaccicare quella faccia da strega malefica nella sua
stramaledetta crostata di frutta.
Dora
cominciò a tagliare la torta
con le due palette d’argento che trovò sulla
tavola e che di certo non aveva
preparato lei. Addirittura l’argento delle grandi occasioni?
Per la ragazzina
sarebbe stato sufficiente un coltello di plastica.
-
Mamma… – intervenne Achille,
ammonendola con lo sguardo.
-
Che c’è, tesoro? – Il suo bimbo
golosone! Scavalcò le teste di tutti con le palette sporche
di impasto, crema
pasticcera e frutta varia per raggiungerlo. Naturalmente si
premurò di dare un
colpo di polso più forte quando si trovò sulla
testa di Azzurra, che si vide
recapitare un mezzo cucchiaio di crema e un quarto di fragola
direttamente sul
vestito. – Lo so che il mio bambolotto vuole la fetta
più grande!
Strapazzò
le guance del figlio,
mentre Ettore roteava gli occhi ed Elettra si alzava per aiutare la
fidanzata
del fratello a smacchiare l’abito. Capì che non
sarebbe bastata una passata con
lo tovagliolo per farlo tornare come prima e si offrì di
accompagnarla in
bagno.
Azzurra
fu grata di potersi
allontanare da Crudelia De Mon senza possibilmente rischiare una
commozione
cerebrale o di avere più macchie di quelle di un dalmata su
di sé.
Mentre
le due sparivano nel
corridoio, Ettore si accorse della mancanza di qualcosa sulla tavola.
-
Dora, dov’è il vino che ha
portato Azzurra?
La
padrona di casa scrollò le
spalle e fece un’espressione tutt’altro che
interessata all’argomento.
-
Chi lo sa, forse in cantina.
-
Oh, per l’amor del cielo, Dora! –
la rimbrottò lui. – Ti stai rendendo ridicola!
La
bocca della moglie si fece
corrucciata.
-
Hai sentito come mi parla tuo
padre? – domandò lamentosa ad Achille, ma non
trovò alcun appoggio.
-
Mamma, stai mettendo in imbarazzo
tutti. – Si guardò attorno per dimostrarle quanto
appena detto, ma notò che
Monica ed Augusto lo fissavano tranquilli e sorridenti. -
Tranne… ehm… gli zii.
Comunque, se non smetti di comportarti così male con
Azzurra, temo ce ne
andremo prima del dolce... prima di quella torta molto invitante e quei
morbidissimi e ripienissimi bomboloni.
Gli
costò molto dirlo; la sola idea
di tornare a casa senza aver mangiato quel ben di Dio gli faceva venire
un calo
di zuccheri e un improvviso desiderio di piangere, ma tutto
sparì nel momento
esatto in cui sua madre gli passò il vassoio colmo di
krapfen. Si dimenticò
persino dell’eresia che aveva appena detto.
Ci
pensò suo padre a riportarlo in
carreggiata.
-
Achille, concentrati, per
cortesia.
Merda.
Azzurra, non bomboloni alla
crema. Azzurra, non bomboloni alla crema. Ma perché non
poteva averli entrambi?
E che cavolo. Si era fatto centoventi chilometri in macchina, li
meritava!
La
discussione terminò bruscamente,
quando tornarono dal bagno Azzurra ed Elettra, se possibile con un
danno ancora
maggiore di quanto fatto da Dora con la complicità di
fragole e crema
pasticcera. Inutile dire che la padrona di casa ne fu compiaciuta, ma
non disse
nulla. S’impose di proseguire sulla linea del silenzio
– la minaccia del figlio
di non mangiare qualcosa da lei preparato era troppo per il suo povero
cuore ed
era meglio non rischiare –, ma d’altro canto non se
la sentì neppure di dare
una fetta di torta normale, senza alcuna menomazione,
ad Azzurra, perciò preferì lasciare
l’onere
di tagliare e distribuire la crostata ad Elettra. Dopo quella
comunicazione
tecnica, non pronunciò nemmeno mezza sillaba e fu
sinceramente sorpresa che
nessuno degli invitati le chiedesse il motivo. Erano tutti concentrati
in una
sorta di… conversazione con Buzzurra, tutti intenti a
chiederle qualcosa in più
di lei, tutti presi a comportarsi bene con lei… mah,
famiglia indegna!
Achille
recuperò la bottiglia di
millesimato di Azzurra dal frigorifero e le uniche due che non
assaggiarono il
vino furono la nanerottola di casa per ovvie ragioni e Dora, per
altrettante
ovvie ragioni.
Ettore
si incaricò di preparare il
caffè per gli adulti e una tazza di latte con miele per
Diana, ma quando
ricomparve dalla cucina, la nipotina stava già dormendo con
la bocca aperta sul
divano.
Con
il silenzio autoimposto di
Dora, il resto della serata passò tranquillo. Ma se la bocca
era sigillata, al
contrario, gli altri sensi funzionavano a pieno regime: studiavano ogni
piccolo
movimento di Azzurra, da come goffamente tagliava la torta al modo
sgraziato in
cui gesticolava, all’odioso tono di voce alla nauseabonda eau
de toilette che
portava. No, non le piaceva nulla di quella ragazza; in passato
c’erano state
altre fidanzate di Achille, sempre inadeguate certo, ma mai quanto
questa!
-
Mamma? – Elettra interruppe le
sue considerazioni. – Noi andiamo. Abbiamo un bel viaggetto
da fare per tornare
a casa e Diana è crollata. Ci sentiamo in settimana, okay?
Dora
si alzò e aiutò la figlia a
portare in macchina tutti i giochi della nipote, mentre Pier dava due
baci
sulle guance di Azzurra e si augurava di vederla presto. Elettra
imitò il
marito, sotto lo sguardo glaciale della madre, maledicendo di non poter
vedere
finire la serata: lei e Pier avevano scommesso venti euro con gli zii
su una
eventuale scazzottata tra sua mamma ed Azzurra. L’indomani
avrebbe chiamato
Achille, sicuro.
Proprio
suo fratello decise che era
arrivato il momento di far terminare quello strazio anche per la sua
fidanzata.
-
Andiamo anche noi?
Azzurra
avrebbe urlato dalla
felicità: d’altronde, erano solo tre ore e
ventinove minuti che aspettava
quella frase. Avrebbe tenuto in seria considerazione l’idea
di ricordare quella
data come giorno più importante della loro storia, piuttosto
che quella del
primo ‘ti amo’. Soprattutto perché
quest’ultima non c’è ancora stata,
pensò Azzurra
con un briciolo di stizza.
-
Possiamo aiutarvi a sistemare? –
chiese cortesemente lei.
-
Certo! – gracchiò Dora, tornando
a parlare. Le avrebbe fatto pulire tutto da cima a fondo, dai piatti al
pavimento, tanto ormai il suo bimbo aveva mangiato e bevuto tutto!
Ma
Ettore rovinò il suo piano
diabolico con le sue solite stupide idee sensate.
-
Tesoro, devono ancora farsi tanti
chilometri per tornare a casa… ti aiuto io.
-
Tesoro, Lucilla mi aiuta sempre
quando viene qui a cena! Conosci
Lucilla, Buzz… Azzurra? – non aspettò
la risposta e tirò dritto con la
sviolinata alla ragazza. – È una donna adorabile,
brava, gentile, sarebbe una
mamma fantastica. – al contrario di
te!
– Spero che lei e Achille un giorno si sposino.
D’accordo,
quello era decisamente
troppo. Azzurra stava per prendere una delle due preziose palette
d’argento da
dolce e scagliargliela addosso – si ricordava bene che le
streghe si
ammazzavano con proiettili d’argento. Quelle erano palette,
ma lanciate ad una
certa velocità avrebbero fatto male ugualmente –,
però Ettore interruppe la
conversazione molto poco amichevole.
-
Dora! Non annoiare Azzurra con le
tue idee.
-
Posso andare un attimo al bagno?
– chiese la ragazza, conscia di aver bevuto due litri
d’acqua solo per mandare
giù quegli gnocchi terribili. Meglio fare pipì
prima di partire.
-
Ovviamente. Sai già dov’è.
Ettore
lasciò la moglie a
borbottare tra sé e con gli zii e raggiunse il figlio,
intento a recuperare le
giacche.
-
Achi, – lo richiamò sottovoce con
tono divertito. – Tua mamma la odia. Non l’ho mai
vista così agguerrita.
-
Già, me ne sono accorto…
La
situazione era tragicomica; da
un lato non c’era proprio nulla di spassoso nel fatto che la
madre odiasse la
fidanzata, dall’altro doveva ammettere che la cena era stata
piuttosto ridicola
sotto molti aspetti, meglio della volta in cui Diana aveva mangiato uno
spaghetto e le era sceso dal naso.
-
Lo so.
In realtà... – In realtà era
tutta la sera che ci pensava e forse era
arrivato il momento di dirlo ad alta voce. – Potrebbe essere
quella giusta.
Ettore
fece un sorriso sorpreso e
ridacchiò.
-
Beh, stavo per dire che le cene
d’ora in poi saranno più interessanti, ma se la
tua conclusione è questa, sono
felice per te. A me piace molto.
Achille
guardò Azzurra arrivare dal
corridoio e sorrise a sua volta.
-
Anche a me.
Assistere
al saluto tra Azzurra e
Dora era stato una delle cose più imbarazzanti che gli fosse
capitato di vedere
nella vita. Ettore avrebbe voluto ridere della moglie per almeno venti
minuti,
ma sapeva che lei gliel’avrebbe fatta pagare cara e dal
momento che i bomboloni
le erano riusciti particolarmente buoni e soprattutto non erano ancora
finiti,
meglio farla arrabbiare un’altra volta.
Era
chiaro a tutti, persino agli
zii affetti da mutismo, che non ci sarebbero stati abbracci , ma
nessuno si
sarebbe aspettato una gelida stretta di mano in silenzio, talmente
prolungata
da far domandare agli astanti chi delle due avrebbe mollato la presa
per prima.
Per fortuna, Achille aveva messo fine a quella tacita lotta e aveva
trascinato
Azzurra sulla porta.
-
Grazie mamma. Ciao papà, zii.
-
Grazie, signora Dora, – aveva
rimarcato Azzurra, come a farle intendere che non la temeva affatto.
–
Buonanotte.
-
Sì, sì… ciao, – aveva
risposto
sgarbata la donna.
-
Buon viaggio, ragazzi.
Arrivederci, cara.
Azzurra
fece per andare a salutare
meglio quel delizioso suocero che era Ettore, ma Achille la
bloccò, facendole
intendere che aveva già manifestato fin troppo apertamente
il gradimento per
suo padre.
-
Arrivederla! – civettò, prima che
Achille la strattonasse fuori dalla porta.
Nel
giardino dei Quaresmini, l’aria
di metà aprile era fresca e profumata di fiori, ma in cielo
due grosse nuvole
facevano presagire una pioggia imminente. Perfetto: Achille adorava
viaggiare
in auto con le gocce che scivolano a diverse velocità sul
parabrezza e il vetro
del finestrino leggermente abbassato, per fare entrare
nell’abitacolo l’odore
acre dell’asfalto bagnato.
-
Beh, non è andata male, –
considerò.
Tentò
di sorridere e di contagiare
anche lei, ma Azzurra lo guardò come se le avesse proposto
un menage à trois
con Chantal: non penso proprio.
-
Tua madre mi odia, – gli disse,
mentre scendeva i gradini e passava appositamente in mezzo
all’aiuola fiorita
del giardino. Schiacciò violette e abbatté iris e
primule. Achille la lasciò
fare, osservandola dal vialetto con le mani in tasca; meglio lasciarla
sfogare
sui boccioli di sua madre, che più tardi sui propri.
-
Il 95% delle suocere odia le
fidanzate dei figli e viceversa.
Azzurra
terminò la strage e si
voltò verso di lui.
-
Non stai negando…
Lui
la raggiunse e le fece segno di
uscire dal giardino. Le cinse un fianco con il braccio e la
scortò fino alla
macchina.
-
Mia madre odia tutte le ragazze
che mi girano attorno.
-
Tutte?
A
giudicare dal tono usato, Azzurra
non voleva sapere se la signora Dora si opponesse a ogni essere di
sesso
femminile che avesse l’ardire di avvicinarsi al Pelide, ma
piuttosto se il
numero delle suddette fosse molto elevato.
-
…che mi hanno girato
attorno. Trent, non le è mai piaciuta nessuna.
-
Tranne questa Lucilla, a quanto
pare!
E
lei che diavolo ne sapeva di
Lucilla? Sua madre doveva aver tirato fuori l’argomento in un
momento in cui
lui era distratto dai bomboloni o stava pensando a come cavolo gli
fosse venuto
in mente di portare Azzurra dai suoi, ancor più visto che
lei pareva piena di
odio per sua madre e d’amore per suo padre.
-
A me e Lucilla piacciono le
stesse cose, – le spiegò con fare scientifico.
-
I grattini dietro l’orecchio e
fare pipì seduto? – gli chiese seria.
-
No, saputella: – replicò,
pizzicandole un fianco. – Le donne.
Azzurra
arcuò le sopracciglia:
questo era indubbiamente un punto a favore della tizia. E spiegava
anche perché
trovasse l’approvazione di Dora; probabilmente era
più interessata a lei che a
suo figlio.
Salirono
in macchina e ripresero
l’A4 in direzione Venezia. Azzurra gli promise che gli
avrebbe tenuto compagnia
per evitare che lui si appisolasse, ma, come previsto, si
addormentò dopo venti
chilometri e cominciò a russare.
Achille
alzò il volume del radio e
s’impedì di pensare ai litri di bava che il suo
sedile – lo stesso che aveva
lavato con tanta cura quel pomeriggio – stava per assorbire.
Azzurra
riaprì gli occhi solo
quando avvertì l’auto fermarsi: ci mise un minuto
buono per capire che era già sotto
casa sua. A quel punto, si voltò verso il suo fidanzato, che
la stava guardando
con un sorriso.
-
Quanto tempo ho dormito? – gli
chiese sbadigliando.
-
Pochi minuti… – mentì lui.
Lei
batté le mani per la propria –
totalmente fasulla – resistenza al sonno.
-
Te l’avevo detto, che ti avrei
tenuto compagnia! – rinfacciò a quel miscredente
che aveva dubitato di lei.
-
Eh, che vuoi che ti dica? Avevi
ragione, Picciona, – l’accontentò.
Sapeva
di doverle almeno una
piccola bugia quella sera, dopo l’inferno a cui sua madre
l’aveva sottoposta.
Ci rimetteva lui e il suo orgoglio, ma dopotutto scommettere su Azzurra
che si
addormentava durante il tragitto in macchina era come puntare un
milione di
euro sulla presenza del caldo in estate.
-
Ti fermi a dormire? – le chiese
lei, ma lui fu costretto a rifiutare.
-
Torneo di calcetto domani mattina
alle 7.30 con Fabrizio. – Si sganciò la cintura di
sicurezza e si girò verso di
lei. – Ehi, grazie di essere venuta stasera, anche se non ne
avevi voglia. Mi
dispiace per mia madre, non credevo sarebbe stata così
scatenata con te.
-
È gelosa del suo bambino, lo
capisco, – ammise Azzurra.
-
Ti detesta proprio…
-
Addirittura?
La
cosa, sebbene non di certo
sorprendente, un po’ la ferì. Le dispiaceva non
andarle a genio.
-
No, dico, l’hai vista? Ti ha
maltrattato in ogni modo, ti ha fatto gli gnocchi quando le avevo
espressamente
detto di non farli, ti ha dato i pezzi di carne peggiori, ti ha
sporcato il
vestito con il dolce ed è stata la causa scatenante del
piccolo incidente in
cucina! Trent, ti odia! – Un lungo suono acuto simile ad un
insieme di i proveniente da Azzurra
gli fece
drizzare i peli delle braccia. Lei cominciò a singhiozzare,
come aveva visto
fare a Diana mille volte quando Elettra non voleva comprarle qualcosa.
Cazzo,
doveva comprarle qualcosa? – Azzurra, che succede?
Le
tolse la cintura di sicurezza e
guardò due grossi lacrimoni scenderle sulle guance. In quei
casi Elettra dava a
Diana una caramella, ma lui aveva solo gomme da masticare. Avrebbero
funzionato
ugualmente?
-
Le-i mi o-di-a! – stava
frignando.
-
Picci, mia madre aborra tutte le
donne della mia vita! – tentò di rassicurarla,
fallendo miseramente.
-
Al-lo-ra i-io so-no u-gu-a-le
al-le al-tre?
Azzurra
strillò ancora più forte,
tanto che Achille si affrettò a tirare su il finestrino,
prima che qualche
passante nottambulo pensasse che lui la stesse picchiando o roba del
genere.
-
No! – le gridò di rimando. – Sai
una cosa? Odia te più di chiunque altro.
La
sua ragazza parve
tranquillizzarsi un pochino.
-
Sicuro?
-
Mh-m.
-
Non lo dici solo per farmi
sentire meglio? – gli chiese con la faccia impiastricciata di
rimmel colato.
-
No, giuro, Picci.
E
non stava neppure mentendo! Di
norma, non avrebbe detto alla propria fidanzata che sua madre la vedeva
come
l’essere più immondo della Terra, ma su Azzurra
sembrava che questa
informazione avesse un potere calmante.
-
Quanto? – gli domandò.
Doveva
pensare a qualcosa o
qualcuno di estremamente irritante e malvagio.
-
Tanto quanto odia Adolf Hitler o
il gatto che fa sempre pipì sul suo zerbino. Credimi,
è molto odio.
Azzurra
si asciugò le lacrime con
un fazzoletto preso dal portaoggetti e fece una faccia stupita.
-
È un sacco di
odio…
Achille
annuì con vigore e il suo
piccolo cervello maschile gli suggerì di provare a volgere
la situazione a
proprio favore.
-
E l’odio è proporzionale a quante
volte ti vedrà. – le spiegò.
– Più andremo a cena da lei, più ti
odierà e tu
sarai la persona che detesta al mondo!
Voleva
bene a sua madre, ma non
aveva davvero la necessità di vederla molto più
spesso. Però, sentiva il
bisogno fisico di mangiare i krapfen di mamma Dora anche più
di frequente.
-
Giusto! – incredibilmente Azzurra
fu d’accordo.
Achille
non credeva alle sue
orecchie.
-
Direi che dovremmo andare dai
miei almeno una volta al mese! – azzardò.
-
Ri-giusto! – gli sorrise la
ragazza. – Ora ti lascio andare a dormire… notte,
Piccione.
Gli
mise le braccia al collo e lo
bacio come se stesse partendo per andare al fronte. Achille era troppo
felice
per non ricambiare con un affetto tale da fargli sperare di rimanere e
passare
la notte con lei.
Azzurra
scese dalla macchine
nell’apice dei festeggiamenti interni del riccio. Oh mio Dio!
Non ci credeva!
Come aveva fatto a convincerla? Cielo, era un genio! L’aveva
fregata! Un
addomesticatore di donne. Controllò l’orologio e
constatò che era tardi: cazzo,
era mezzanotte passata, altrimenti avrebbe chiamato subito Fabrizio,
Marco,
Giovanni e, roviniamoci!, pure la Leone. Questo lo giustificava come
minimo a
ballare nudo per casa per cinque minuti senza sentirsi un idiota.
Aveva
la ragazza perfetta – anche
se un po’ troppo emotiva, umana e graziosa –, sua
madre avrebbe smesso di
dirgli che si faceva vedere troppo poco e avrebbe avuto loro: i
bomboloni alla
crema. Mancava solo lo scudetto della Juve e la sua vita sarebbe stata
completa.
Un
tocco ripetuto sul vetro
interruppe il carnevale di Rio organizzato dalla sua mente. Era
Azzurra. Girò
la chiave nel quadro quel tanto che bastava per consentirgli di
abbassare il
finestrino.
-
Dimenticato qualcosa? – le
chiese.
-
Direi che due cene all’anno dai
tuoi sono più che sufficienti. – lo
informò. – Buonanotte.
Gli
morse la punta del naso e se ne
ritornò felice verso l’ingresso del suo condominio.
Achille
rimase dolorante e
sconfitto all’interno della sua macchina.
Nonostante
tutto, sorrise.
No,
con le donne non avrebbe mai
vinto. Soprattutto non con la sua.
Sì,
a quanto pare sono ancora viva. Il problema è
che sono un tantino leeenta!
Carrellata
di note sulle citazioni del capitolo: su
Facebook ho messo l’avviso di spoiler della terza stagione di
Downton
Abbey,
spero l’abbiate letto tutti. Frank Lloyd Wright è
un famoso architetto. Tanguy
è il protagonista dell’omonimo film
francese del 2001; è un adulto che vive ancora con i suoi
genitori e non ha
intenzione di andarsene. Il telefilm citato è Squadra
Speciale Cobra 11. Brian Johnson è
il cantante degli AC/DC e Back
in black è una loro canzone. Se non conoscete Ally
McBeal, siete delle brutte persone; John Cage
alias Biscottino è uno dei personaggi principali. Windsor
è l’attuale Casa Reale
della Gran Bretagna e territori ad essa legati. Marco Tronchetti
Provera è un
imprenditore milanese. Bernardo è il favoloso servo muto di
Zorro. Crudelia De
Mon è l’alter-ego di Nessie (che ha betato,
impedendovi di scoprire neologismi
ed espressioni di mia invenzione… shame on you!) e la madre
di Rosie, altro
soggetto ben poco raccomandabile. Emotiva, umana e graziosa è un riferimento alla prima os della
raccolta, Mortofrutta.
Alla
prossima,
S.
|
Ritorna all'indice
Questa storia č archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1263452
|