Di Vite Nominali

di Bethesda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sherlock Holmes ***
Capitolo 2: *** John Watson ***



Capitolo 1
*** Sherlock Holmes ***


Scesi le scale con passo leggero, mettendo piede in salotto alle quattro del mattino, assetato e con la mente annebbiata dal sonno. Allungai una mano verso la caraffa sul tavolo, versandomi un bicchiere d’acqua.
Rabbrividii: il fuoco era ormai spento e il freddo invernale si percepiva facilmente all’interno della stanza.
Sarei tornato subito al mio caldo giaciglio se un suono basso e ritmato proveniente dal divano non mi avesse attirato a sé. Sporsi la testa oltre lo schienale, notando con stupore Holmes addormentato, un libro aperto a coprire il volto e alcuni fogli sparsi per terra.
Era in maniche di camicia, il colletto e i polsini sbottonati. Sembrava sprofondato finalmente in quel sonno che avevo per giorni sperato lo prendesse, distogliendolo, anche solo per poche ore, dal lavoro frenetico che stava portando avanti.
Mi tolsi la vestaglia e gliela misi addosso, ricevendo un flebile grugnito in risposta.
Constatato infine che Morfeo avesse avuto la meglio, ritornai al piano di sopra.
 
 
 
«Ho trovato la soluzione», esclamò Holmes, irrompendo nella mia camera.
Sobbalzai per la sorpresa, fallendo nel mio tentativo di rendermi presentabile al tavolo della colazione.
«Per l’amor del Cielo, Holmes», sbottai spazientito. Lui non sembrò far caso al mio stato d’animo.
«Non c’è tempo per queste inezie, Watson! Sistemati il colletto e prepara la valigia. Ti concedo cinque minuti, colazione inclusa».
E, detto ciò, uscì dalla mia stanza come era entrato.
Mi sporsi dalla porta appena in tempo per vederlo rientrare in salotto.
«Si può sapere dove siamo diretti», urlai.
La sua testa riapparve per pochi istanti oltre lo stipite.
«Southampton, amico mio! Dobbiamo impedire che un orrido crimine venga perpetrato! The game is afoot
 
 
E
rrare non era nell’animo del mio amico.
Holmes aborriva gli sbagli, quei pochi che commetteva: si incolpava di ogni minimo fallimento, spingendosi sempre più verso il limite della sopportazione, senza mangiare, senza dormire, tutto per cercare di rimediare ad errori di calcolo, causati il più delle volte da chi gli taceva informazioni essenziali.
Cercava di nascondere la delusione con un sorriso, una battuta sarcastica, ma anni al suo fianco mi insegnarono a capire il suo stato d’animo di fronte al fallimento.
«Holmes», dissi, «non potevi sapere che Sir Torvald si sarebbe suicidato. Se la moglie avesse--»
«Avrei dovuto indagare più approfonditamente. Invece, pago di ciò che avevo scoperto poco prima, ho spinto quell’uomo ad una fine facilmente prevenibile».
Allungai una mano verso la sua spalla, il suo nome già sulle labbra.
Morì lì quando alzò gli occhi verso di me.
«Ti prego di lasciarmi solo, Watson».
Poco dopo, dall’alto della mia stanza, sentii note strazianti del suo violino invadere la casa.
 
 
«Respira, Watson. Con calma».
Aprii gli occhi, il fiato corto, la fronte imperlata di sudore. Sentivo il cuore battere all’impazzata, le membra tremare in modo febbricitante. Sentii una mano posarmisi su di una guancia: era fresca, lieve e sicura.
Mi resi conto che Holmes era seduto accanto a me, sul bordo del letto, e mi fissava preoccupato.
«Un incubo, amico mio. È stato un incubo. Non hai nulla da temere».
Mi resi conto di ciò che era accaduto: una bomba, cadaveri, la mia ferita pulsava, urla ovunque, sangue; e in mezzo a tutto ciò, Holmes morto, lo sguardo vuoto puntato al cielo.
Provai un’immensa vergogna e distolsi lo sguardo dal mio amico, cercando di mettermi a sedere.
Per l’amor del Cielo, ancora tremavo.
«Non è nulla, te lo assicuro. Ho solo--»
Abbandonò la sua posizione, lasciando che il materasso di sollevasse, libero dal suo peso. Fece il giro del letto, si tolse la vestaglia, rimanendo in camicia da notte, e si insinuò sotto le coperte.
Mi resi conto di non essere capace di articolare alcunché di sensato.
«Dormi, Watson. Se avrai altri incubi ti sveglierò».
E detto ciò affondò la testa nel cuscino e chiuse gli occhi.
Dubitai che sarei riuscito ad addormentarmi nuovamente.
 
 
Lestrade ringhiò. Non credevo che l’essere umano fosse capace di emettere tali versi, ed ebbi la netta impressione di trovarmi di fronte a due mastini in procinto di attaccare.
«Non avevi alcuna autorità su quel caso, Gregson. Non so chi ti abbia concesso di ficcare il naso nel mio lavoro, ma non la passerai liscia questa volta».
«Illustrami pure cosa vorresti farmi, Lestrade. Anzi, perché non lo fai direttamente difronte all’Ispettore Capo, essendo stato lui ad affiancarmi ai tuoi uomini».
«Affiancarmi», sbottò con irritazione l’uomo minuto. «Tutto ciò che hai fatto è stato infangare la scena del crimine e distruggere prove essenziali!»
Con la coda dell’occhio vidi Holmes alzare un sopracciglio con aria divertita: le accuse che spesso lui rivolgeva a Scotland Yard, pronunciate da un membro stesso della polizia, dovevano risultargli assurdamente divertenti.
«Ritengo sia opportuno tornare quando le acque si saranno calmate, amico mio», sussurrò, indicandomi con un cenno l’uscita. Ci allontanammo rapidamente, prima che la disputa coinvolgesse anche noi.
 
 
«Oltretutto non vedo come tu possa definirle orribili creatu— AH!»
Holmes fece uno scatto all’indietro, togliendo il proprio volto dall’attenzione delle mie mani e storcendo il naso il dolore.
«Buon Dio, hai sopportato bastonate, pugni, coltelli e anche proiettili, eppure non riesci a resistere ad un po’ di brandy su di una puntura».
«Tu e il tuo brandy», borbottò il mio amico, stringendo gli occhi e tornando a farsi disinfettare. «E ci tengo a precisare che si tratta di quattro punture».
Premetti più forte con il panno che stavo utilizzando, lo ammetto, con un poco di cattiveria.
«Se tu non fossi stato tanto sciocco da andare a lavorare con quelle dannate api senza la veletta--»
«Non so dove sia finita».
«Se con la vecchiaia ti fosse venuto un po’ di rispetto per l’ordine non saresti qui a sottoporti alle mie amorevoli cure».
Sbuffò.
«Non vi è nulla di amorevole in ciò che stai facendo».
Ruotai gli occhi e, una volta finito di disinfettare, posai un bacio leggero sulle quattro diverse punture, strappando un ghigno al mio amico.
«Tutto qui, Dottore?»
«Abbi perlomeno la decenza di tacere», pronunciai cercando di nascondere un sorriso.
 
 
Come bacio fu inaspettato. E inizialmente fu come posare le labbra su di una lastra di metallo.
Ammetto che fu l’esasperazione a spingermi ad appropriarmi di quella bocca sottile, ancora aperta nel tentativo di terminare la sua pesante sentenza sul mio atteggiamento nei confronti della vittima del nostro ultimo caso.
Potreste dire che mi sia imposto con forza per tacitarlo. Effettivamente non avrei potuto trovare miglior espediente neanche se lo avessi tramortito, dacché non uscii più alcun suono dalle sue labbra, se non un mugolio soddisfatto quando riprese il controllo delle proprie facoltà.
 
 
Khartoum era una città giovane, eppure già piegata dalle violenze. Gli Inglesi non erano ben visti sin dalla terribile battaglia del 1884, in cui le forze mahdiste presero possesso della città. Il Nilo aveva visto il sangue degli uomini di Charles Gordon e del comandante stesso, il massacro del quale causò sgomento in tutto l’Impero.
Eppure Holmes, quando mi narrò del tempo speso in quella cittadina, si soffermò  su suq, gli odori delle spezie, le particolarità degli arabi. Snocciolò qualche parola, mi parlò dei due casi che lo avevano coinvolto e di come riuscì a sfuggire all’arresto quando uno dei notabili della zona si rese conto che quell’inglese ficcanaso avrebbe potuto mettergli i bastoni fra le ruote.
Seguii il suo racconto come un bambino, tenendo il fiato sospeso quando il protagonista era in pericolo – e Holmes, per quanto cercasse di negarlo, aveva un animo da artista tale che gli permetteva di far pendere dalle proprie labbra chiunque.
Quando pronunciò l’ultima frase, concludendo la narrazione, sospirai, lieto di averlo nuovamente al mio fianco, né nelle gorgoglianti cascate in cui pensavo di averlo perso, né dietro le sbarre di quella città lontana, o in qualunque altro luogo che non fosse Baker Street.
 
 
 
«Holmes».
Silenzio.
«Holmes, smettila di ignorarmi».
Cominciò con il violino una lenta nenia, stridente quanto l’umore del mio amico quel giorno.
«Holmes», sbottai, strappandogli via l’archetto di mano.
Ricevetti un’occhiata gelida, tanto che mi pentii del mio gesto. Tuttavia presi coraggio e continuai.
«Holmes, per quanto ancora hai intenzione di non ascoltarmi?»
La sua mano, affusolata, nivea ma macchiata dagli acidi, si protese verso di me, più loquace del proprietario stesso. Gli restituii l’archetto e una nota acuta e fastidiosa, come di unghie su una lavagna, mi trapassò il cranio, sostituita poco dopo da una voce stentorea e gelida.
«Dovresti tornare da tua moglie, Watson».
Lo guardai implorante.
«Holmes, te ne prego, non--»
Si alzò in piedi, lo Stradivari in una mano, nell’altra l’oggetto che gli avevo restituito. Me lo puntò minacciosamente contro lo sterno.
«Non credo che dal nostro ultimo incontro il tuo udito sia peggiorato, men che meno il tuo intelletto, dunque non capisco cosa tu non riesca ad intendere della mia esplicita richiesta di vederti uscire fuori da questa casa. Adesso».
 «Sherlock, io--».
La smorfia che fece nell’udire il suo nome uscire dalle mie labbra, come tante volte era accaduto in passato, mi strinse il petto in una morsa.
«Vattene, Watson. Te ne prego».
 
 
Oltre ad essere parecchio abile per quanto riguardava il violino, la chimica e il crimine, il mio amico si rivelò anche un eccellente boxeur. Come lo scoprii, tuttavia, non fu estremamente piacevole. Credo che chiunque si renda conto di quanto uno scontro con quattro uomini armati possa rivelarsi alquanto pericoloso, specialmente se tale avvenisse in un vicolo di Whitechapel, in piena notte e in svantaggio numerico, con solo due bastoni da passeggio come arma.
Ero pronto a mostrare il mio passato da militare a discapito delle ferite.
Inaspettatamente, quando il primo ci attaccò, fiondandosi subito su Holmes, all’apparenza gracile, costui si ritrovò contro un muro, il naso sanguinante e le costole doloranti.
Riporterò solo che l’unico sangue che venne versato quel giorno fu quello degli aggressori, e che si trovò principalmente sulle nocche del mio amico e sul mio bastone da passeggio.
 
 
«La situazione sta diventando insostenibile!»
Sospirai e alzai gli occhi sulla nostra governante che, impettita ed irritata, mi fissava come se fossi l’origine dei suoi problemi.
«Mrs. Hudson, cosa dovrei fare? Sa quanto me che non ho modo di fermarlo».
«Lei è l’unica persona a cui presta orecchio. E questa settimana abbiamo rischiato il soffocamento ben due volte a causa del comportamento di Mr. Holmes».
Guardai sconsolato il piatto della colazione, trovandolo più povero del solito. Dovevo forse considerarlo un ricatto?
«Ho tentato, posso assicurarglielo. La sua risposta è uno sguardo irritato e l’affermazione che le sue ricerche non possono fermarsi a causa di un vicinato insofferente».
«Ritenti. Con più convinzione questa volta».
Non feci in tempo a controbattere che la porta si aprii ed Holmes, imbracciando un sacco di carta, invase l’angolo del tavolo della colazione ancora libero con la sua peculiare spesa.
«Cosa sarebbero quelli», domandai allungando il collo, senza osare incontrare lo sguardo della padrona di casa.
Il mio amico usò le lunghe dita per enumerare ciò che aveva comprato.
«Fosforo, solfato di rame, idrossido di sodio, glicerina…Mrs. Hudson, non credo che il Dottore abbia terminato di fare colazione».
La donna scomparve giù per i diciassette gradini, la mia parca colazione ancora intonsa fra le mani, e in testa il proposito di farmi digiunare finché non l’avessi accontentata.
 
 
M
ossi rapidamente le dita, liberando il mio amico della camicia, mentre lui arretrava verso la camera da letto, gli occhi pieni di aspettativa. Non lo vedevo da due settimane: troppo perché potessi resistere senza desiderare il suo corpo candido, solido, flessuoso ed energico. Gettai a terra l’indumento, aggredendogli la gola, il pomo d’Adamo, la mascella decisa ed affilata. Gli misi una mano dietro la nuca, impossessandomi di quelle labbra inclinate in un sorriso divertito.
Sembrava intenzionato a lasciare tutto nelle mie frenetiche mani quella sera, e non feci nulla che potesse contraddire la sua idea.
Dio, mi era mancato.
 
 
Entrai nella vasca e mi scontrai subito con le gambe di Holmes, rilassato contro la ceramica, i capelli neri resi ancora più lucidi dall’acqua nella quale li aveva immersi. Questa trasbordò, riversandosi sul pavimento lucido. Il vapore riempiva la piccola stanza, ovattando il tutto come se ci trovassimo in mezzo alle strade di Londra in una giornata nebbiosa. Il calore mi prese le membra, il volto, la mente. Portai la testa all’indietro, chiudendo gli occhi e abbandonando ogni problema.
Avvertii un movimento, Holmes che si spostava, l’acqua che si riversava ancora di più sul pavimento. Aprii gli occhi e trovai il mio amico proteso verso di me, lo sguardo languido a pochi centimetri dal mio. Gli sorrisi, allungando il collo per strappargli un bacio asciutto, tornando ad appoggiarmi al bordo, allargando le gambe per lasciare che Holmes si accoccolasse su di me, il mento sul mio petto e la bocca a baciare con leggerezza il mio collo. Mi addormentai presto sotto le sue cure.
 
 
Se dovessi paragonare Holmes ad un animale debbo ammettere che la scelta sarebbe ardua, ma alla fine propenderei per un gatto.
Cos’altro potrebbe avere il suo sguardo, attento e freddo? La sua flessuosità, le sue movenze feline ed eleganti? Se attaccato tira fuori le unghie e i denti, non lascia scampo a chi vuole atterrare. Conosce la notte, ci si muove senza difficoltà. Se annoiato giace inerme, ignorando qualunque attrazione. Ma se la sua attenzione viene risvegliata è scattante, rapido e pronto.
Inoltre posso confermare che Holmes, nell’intimità del letto, soddisfatto e finalmente docile, si comporta come un felino con chi lo sfama, strusciandosi e cercando il calore del mio corpo, fino a crollare addormentato sul sottoscritto, cullato dal movimento lento delle mie mani sulla sua cute.
Non mi stupirei se, nel languore del letto e dei miei baci, iniziasse a fare le fusa.
 
 


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Capitolo 2
*** John Watson ***


 
J
eremy Runner giunse ad Oxford l’anno successivo al mio, deciso a frequentare legge, come da volere del padre. Inizialmente non suscitò il benché minimo interesse: aveva un portamento austero, tanto simile a quello di molti altri miei compagni di studi, caratterizzato da un timore ben celato agli occhi di chiunque. Tranne che del sottoscritto. Cominciai ad osservarlo, a studiare i suoi movimenti da lontano, come un cacciatore analizza i movimenti della propria preda.
 Tuttavia fu lui ad avvicinarmi, incuriosito dalle voci che correvano sul mio conto.
Non sono uomo da sminuire o nascondere le proprie doti, né lo ero in gioventù, così, quando mi si presentò, non delusi le sue aspettative.
«Non pensavo che uno studente della sua risma potesse essere tanto attratto dalle meraviglie dell’arte, ma quel polsino consunto per ben due dita non può suggerire null’altro».
Bastarono queste poche parole per dare una svolta più che piacevole al resto dell’anno scolastico.
 
Odore di formaldeide, muffa, necrosi, il tutto impastato da un lezzo dolciastro e nauseabondo, al quale, a forza di frequentare gli ospedali, ci si abitua.
D’altro canto, spesso i risultati dei miei esperimenti chimici, soprattutto quelli terminati in malo modo, provocavano un puzzo tale da coprire facilmente qualunque altra sostanza. Non vi facevo più caso al Saint Barth, avvezzo ormai a tali percezioni olfattive che probabilmente mi avevano impregnato pelle e vestiti.
Quando Stamford accompagnò il suo vecchio compagno di studi all’interno del laboratorio avvertii un cambiamento: miscela di tabacco forte ma di basso prezzo, tipica dei militari, e un dopobarba quasi impercettibile. Mi giunse alle narici anche, successivamente, un gradevole aroma di tè: dolce e caldo, un qualcosa che in seguito avrei sempre associato a colui che divenne il mio coinquilino ed amico.
 
Ho la peculiarità di saper nascondere emozioni e sentimenti, elementi aggiuntivi che non aiutano al mio lavoro. Con l’esperienza vi ho fatto l’abitudine: celo sotto strati di logica ciò che potrebbe sviarmi. Ma la presenza di John Watson sotto il mio stesso tetto, al mio fianco, durante i primi due anni di convivenza, mi portò verso la follia. In occasioni passate mi era già capitato di provare simili sensazioni – sebbene non così violente -, ma in gioventù, quando non si ha il totale controllo di sé e della propria mente. Come potevo io, in quanto adulto, ammattire al solo pensiero di passare con lui notti di veglia per catturare pericolosi criminali? Come potevo resistere di fronte a quegli occhi così dannatamente sinceri, l’opposto di ciò con cui avevo a che fare nel mio mestiere? Non potevo mostrare quanto mi dannassi a saperlo in pericolo, o fra le braccia di una qualche occasionale donna. Potevo solo stupirlo, farlo meravigliare con l’unica cosa che avevo da offrire: la mia intelligenza.
 
 
«Non posso sopportare oltre, Holmes!»
Watson accusava spesso il sottoscritto di eccedere in teatralità: probabilmente non si rendeva conto di quanto queste sue uscite sarebbero state degne per un colpo di scena al Globe.
«Posso sapere cosa ti turba, vecchio mio», domandai placidamente, bloccando ogni mio movimento.
«Non lo sospetti?»
«No, Watson, non lo sospetto: lo deduco».
 Il suo sguardo si fece deliziosamente truce.
«Dunque», riprese con finta dolcezza, «non ti dispiacerà riporre il violino questa sera».
Alzai l’archetto verso di lui.
«Non apprezzi forse Mendelssohn?»
«Non alle due di notte, no».
Mi alzai dalla poltrona, abbandonando lo strumento su di un cuscino ed avvicinandomi a Dottore.
«Suggerisci un intrattenimento migliore?»
Mi prese per i fianchi.
«Invero, Holmes, ne avrei uno».
Ghignai soddisfatto, avvicinandomi per impossessarmi delle sue labbra, quando si ritirò repentinamente, portando le mani al mio petto e spingendomi verso la porta della mia camera.
«Dormire, Holmes. Buonanotte».
Afferrò al volo lo Stradivari e imboccò la porta, risalendo con passo lento le scale.
 


 
«Watson, gradirei che non mi chiamassi con il mio nome Cristiano».
Il buon Dottore interruppe ciò che stava facendo, scostando le labbra dal mio addome e sollevando lo sguardo verso il mio volto: forse – ammisi – avevo scelto il momento meno adatto per parlare.
«Perché mai, di grazia?»
«Suona osceno e distrugge tutto ciò che si può creare in un momento intimo come quello che stiamo vivendo. Quindi, se volessi riprendere da dove ti sei interrotto--»
«Sherlock».
Lo fulminai con lo sguardo.
«Watson».
«Sherlock».
«Ti pregherei di piantarla».
Si sollevò sulle braccia, sovrastandomi con il proprio corpo e avvicinando la bocca al mio orecchio, liberando un sussurro roco.
«Sarebbero preghiere a vuoto, mio caroSherlock».
Debbo ammettere che un brivido di aspettativa mi percorse la schiena e mi spinse a cercare le labbra del mio uomo. Possibile che anche il mio nome uscisse tanto dolce da quella bocca così insensatamente sensuale?
  
Alzai lo sguardo dalla mia enciclopedia, ormai certo di chi fosse il nostro uomo. Non avrei avuto alcuna difficoltà a rintracciarlo. Ora dovevo solo avvisare il mio Boswell.
Ma persino il sottoscritto, di fronte ad un Watson placidamente addormentato, rallentò i propri pensieri.
Il mio collega mi era rimasto accanto durante la ricerca, seduto sul pavimento, la schiena contro la poltrona. La testa era inclinata da un lato, le labbra leggermente dischiuse. Avrei dovuto lasciarlo dormire. Tuttavia la sua reazione nello scoprirsi lasciato nelle retrovie proprio nel bel mezzo dell’indagine lo avrebbe portato a lamentarsi per le settimane a venire, e la sua compagnia era inestimabile.
Mi alzai in piedi e mi diressi verso camera mia per recuperare il cappotto, non senza scrollare per una spalla il buon Dottore, che si svegliò di soprassalto.
«Andiamo, Watson! Lo abbiamo in pugno».
 
«Trovo che tu abbia dei capelli estremamente belli».
Analizziamo la situazione, signori miei: come può un uomo concentrarsi sui suoi esperimenti mentre l’amico, compagno o amato, che dir si voglia, lo distrae con uscite di tale sorta?
«A che proposito debbo tale commento», domandai, lanciando un’occhiata vaga al divano sul quale Watson giaceva inerme da circa due ore.
«Dopo tutti questi anni, amico mio, penso di poter affermare di aver imparato ad osservare».
Mi lasciai sfuggire uno sbuffo divertito e scettico.
«E cosa avresti dunque osservato?»
«Che le tue ciocche sembrano penne di un corvo: lucide, composte. Belle».
«Debbo considerare un complimento l’essere paragonato ad un uccello necrofago?»
«Mi son forse espresso in modo da farlo sembrare un’offesa?»
«Sei tu lo scrittore fra i due», dissi voltandomi, nascondendo un sorriso: ogni tanto era piacevole stuzzicarlo senza ragione alcuna.
 
Sembrava una Domenica mattina eccezionalmente soleggiata, nonostante il brutto tempo avesse vessato per giorni la campagna inglese. Quando dunque vidi con un occhio il sole far capolino da oltre le tende ritenni che avrei potuto lavorare alle nuove arnie per buona parte della giornata, concludendo il tutto con una passeggiata lungo la scogliera. Avrei dovuto abbandonare la spessa coltre di coperte che dall’inizio dell’autunno allontanava l’aria fredda del Sussex. Non che mi mancasse la buona volontà di abbandonare il giaciglio, ma quando sentii il braccio del mio Watson cingermi il fianco e stringermi a sé, quasi come se potessi difenderlo dal freddo, decisi che spendere la mattinata sotto le lenzuola non mi avrebbe portato alcun danno.
 
Osservai il 221B e ciò che rimaneva dei mobili, dei libri e dei documenti. Avevo rischiato di terminare la mia carriera nell’incendio del mio stesso appartamento: sarebbe stata una fine ignominiosa. Come avrei potuto lasciare che le canaglie che lo avevano scatenato scorrazzassero per Londra mentre io, ormai carbonizzato, osservavo – ignoro se dall’alto o dal basso, e non mi pronuncio per non peccare di superbia - il loro sordido lavoro? Il divano era bruciato, similmente alle due poltrone. Anche il tappeto era ormai incenerito. Sospirai: sapevo che prima o poi avrei dovuto mettere fine a questa storia, e non potevo rischiare che qualcuno subisse le conseguenze del mio operato. Sarei partito il giorno seguente per il Continente.
 
Non devo avere una buona stella per quanto riguarda i cani. Se all’università avevo conosciuto il mio amico Victor Trevor grazie al morso del suo Bull Terrier, posso dire che l’essere che Watson portò in casa nostra non aiutò i nostri rapporti, anzi. Una notte, rientrato tardi per una questione lavorativa, venni letteralmente aggredito dalla belva: ignoro se accadde perché mi scambiò per un ladro o per semplice antipatia personale.
Fatto sta che mi ritrovai in un angolo del salotto, il bastone in mano e quel mastino mancato a pochi passi da me, ringhiante ed estremamente tenace.
È con immenso imbarazzo che ammetto che fu Watson a placare la bestia: il sottoscritto riuscì solo a rimetterci il bastone da passeggio. Dopo quell’accadimento vi furono giorni di trattative che misero a dura prova la diplomazia di entrambi, ma è noto che il sottoscritto abbia una certa abilità nel plagiare la volontà altrui. Posso concludere affermando che il ringhioso Mustang trovò un’amorevole dimora presso un macellaio del centro di Londra, lontano da Baker street e dagli stinchi del sottoscritto.
 

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