Sangue di vampiro: La nobile casata dei Tannes

di Katrice Eymerich
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

Quando i suoi occhi trovarono la forza di aprirsi, quello che trovò davanti a sé lo confuse ma capì immediatamente dove si trovava. Il cielo era soffuso di un tremulo chiarore rosato che non aveva mai visto, nemmeno la più grossa delle lune piene che avevano rischiarato le sue notti era mai stata in grado di produrre una simile luce.
E' l'alba, si rese conto. Il panico lo morse alla bocca dello stomaco e provò ad alzarsi ma nessuno dei suoi arti rispose ai suoi comandi.
Nel frattempo un enorme palla di fuoco emerse al di là delle montagne rischiarando con i suoi raggi obliqui le valli che si stendevano attorno al castello e per la prima volta in seicento anni, le vide. Abbracciò con lo sguardo quanto riuscì e sebbene sapesse di essere a un passo dalla morte, lo spettacolo che gli si presentò riuscì lo stesso ad emozionarlo: lo scintillare delle cascate su cui il sole si rifletteva in mille riflessi d'oro e argento, lo smeraldo lucente della brughiera bagnata dalla rugiada e il viola intenso dei soffici cespugli d'erica. Il mondo al di fuori della notte era fatto di colori violenti, pensò.
Provò ancora una volta a muoversi ma le sue braccia e le sue gambe rimasero dov'erano, né la sua bocca fu in grado di emettere alcun suono.
Il primo raggio di sole lo raggiunse lentamente filtrando tra i merli in pietra della torre e pigre volute di fumo cominciarono ad innalzarsi dalle sue membra immobili.
Non aveva scampo. Guardò i suoi piedi e le sue gambe tramutarsi in polvere bianca e capì che tutto quello che sarebbe rimasto di lui in questo mondo sarebbe stata una fragile statua seduta finché il vento e il tempo non l'avessero dispersa.
Il sole continuò a correre sul suo corpo, implacabile e sempre più veloce. Ora tutte le sue gambe e parte del torso erano coperte di fumo e scintillavano come se fossero fatte di granelli di diamante.
Almeno il veleno che gli aveva dato per immobilizzarlo gli impediva di provare dolore e ringraziò il suo carnefice per quell'ultima gentilezza. Si stupì del fatto di non provare rancore ma forse quando si era così vicini all'oblio, meditò, niente aveva più importanza.
I pallidi occhi viola accarezzarono ancora una volta le valli in cui era nato, cresciuto e infine sarebbe morto, “addio” disse loro mentalmente prima che il sole lo colpisse in pieno viso accecandolo con un'ultima, bianca esplosione.
Così moriva il principe Alcor Tannes ultimo del suo nome.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Kitty si stiracchiò pigramente e poi appoggiò esausta la testa sulle braccia incrociate. Era inutile, non riusciva a concentrarsi sulla lezione, riusciva a pensare solo che aveva sonno, sonno e ancora sonno.
Il professor Jennings continuò imperterrito la sua lezione di letteratura inglese, che era uno dei corsi più importanti, ma Kitty proprio non riuscì a interessarsi e in un paio di occasioni si era addirittura ritrovata a sonnecchiare con la testa ciondolante.
Frequentare l'università di giorno e fare la guardarobiera di sera la stava uccidendo. Anche la scorsa notte aveva fatto le due, ed era solo martedì. Avrebbe dovuto parlarne con Eric, il suo capo, ma sapeva di non potersi lamentare più di tanto, le mance erano ottime. In più il Bar 66 era a pochi isolati da casa e dall'università, una fortuna più unica che rara per essere in una città grande come New York.
Anche Cassie, la sua coinquilina, non faceva che ripeterglielo. Certo per lei era facile parlare così, non aveva mai lavorato in vita sua e l'appartamento nel West Village che condividevano glielo avevano regalato i suoi. Regalato. Un appartamento in piena Manhattan!
L'unica “fatica” che le toccava ogni mese era intascarsi gli affitti delle stanze che lei e Georgie, così si chiamava l'altra ragazza che viveva con loro, le versavano ogni mese.
Dopo un'ora interminabile la lezione finì, Kitty scarabocchiò velocemente qualche appunto sul suo quaderno e scappò via. Aveva appuntamento con Rick, il suo ragazzo, per pranzo. Era da pochi mesi che erano insieme e si sarebbe aspettata più entusiasmo, a volte le sembrava che la routine li avesse già trasformati in una coppia più navigata. Scacciò quei pensieri pensando che in fondo si vedevano poco ed erano entrambi molto impegnati con l'università.
Lo individuò facilmente in mezzo alla folla: Richard sovrastava tutti di almeno una spanna e aveva le spalle molto larghe. Parlava con una biondina, una certa Heather o come diavolo si chiamava, una di quelle che prendevano appunti su un laptop rosa coperto di stickers glitterati e avevano la voce squillante come un cartone animato. Arrivò alle loro spalle cingendo la vita di Rick di sorpresa, “se questa tizietta ha qualche mira” pensò “farà meglio a togliersela alla svelta”.
- Ciao!
Salutò allegramente piantando i grandi occhi azzurri sulla faccia di Heathercomecavolosichiama. La bionda la salutò di rimando con quella sua vocina acuta e rimase a fissarla scioccamente, come se arrivando Kitty avesse interrotto un discorso privato tra loro. Non le piaceva proprio questa tizia, erano settimane che dopo ogni lezione la vedeva ronzare attorno a Rick.
Non aveva mai accennato alla cosa per non passare da insicura, e tutti sanno quanto sia poco sexy fare scenate di gelosia quando sono solo quattro mesi che stai con una persona, ma stava cominciando a indispettirsi.
Rick ricambiò il suo abbraccio e la salutò baciandola velocemente sulle labbra poi, rivolto a Heather, disse che le avrebbe passato i suoi appunti tramite Facebook.
Mentre si allontanavano ancora abbracciati, Kitty non poté fare a meno di sottolineare:
- Facebook?
- Uhm? Ho l'amicizia con tutti i miei compagni di corso.
Kitty immaginò che razza di foto avesse sul suo profilo una del genere, cioè una che in novembre indossava una gonna corta e tacco 12 per andare a lezione. Minimo era il tipo da farsi tonnellate di album con indosso quasi nulla.
- Tra gli amici io non ho i miei compagni di corso, al massimo ne avrò due o tre e non gli scrivo mai.
- Ma tu non sei socievole, io sì.
- Prego? Pardonnez moi? Io sono socievolissima! Solo che non sto lì a postare ogni cinque minuti foto di quello che faccio... ho una tra i contatti che l'altra sera prima ha messo una foto di quello che avrebbe indossato, poi una foto di lei vestita, poi una della macchina del suo ragazzo che passava a prenderla, serie di foto di loro due in macchina che fanno gli spiritosoni, poi il sushi bar dove avrebbero mangiato, ovviamente foto del menù, poi di tutte le portate e infine di loro che facevano espressioni tipo “mmm che buono”! E tutti lì a commentare: “uuh che invidia” “come vorrei essere lì” e una sequela di mi piace assolutamente random... è questo essere socievoli secondo te?
- Dai, non tutti fanno così. Però è anche bello condividere quello che fai, no? E' divertente tra amici.
- Appunto con gli amici, non con gente con cui avrai scambiato al massimo tre parole in vita tua. Cosa importa quanti onigiri hai mangiato a 950 “amici” di Facebook?
- A volte sei proprio un po' snob, Miss Harrington – Martino.
Kitty abbozzò un sorriso, Rick le diceva sempre che il suo doppio cognome lo faceva pensare a un'ereditiera riccona.
- Lavori stasera?
- No, oggi ho il giorno libero però...
- Che c'è?
- Mi toccano venerdì e sabato...
Sentì Rick irrigidirsi sotto il suo braccio.
- Non siamo stati insieme neanche lo scorso weekend! Questa settimana Steve dà quella festa enorme, te l'avevo detto.
- Lo so, ma le mance del venerdì e sabato sono più alte, mi ci posso pagare un sacco di cose.
Rick grugnì qualcosa in risposta fissando i suoi piedi. Kitty si fermò e prese il viso del suo ragazzo tra le mani costringendolo a guardarla negli occhi, anche se aveva più di vent'anni quando era arrabbiato sembrava imbronciato proprio come un bambino.
La settimana prossima mi farò dare il sabato libero e staremo talmente tanto insieme che non mi sopporterai più! Lui fece una smorfia e si chinò su di lei per baciarla.

Quel sabato sera sembrava che dentro il Bar 66 ci si fosse riversato tutto il West Village. Una quantità impressionante di persone erano sciamate dentro riversandosi nel locale come una marea, occupando ogni tavolo, sedia, sgabello e parete che fosse possibile occupare. Sul palco si stava esibendo uno dei migliori chitarristi blues che Kitty avesse mai sentito. A dire il vero non è che lei fosse una grande esperta di blues, ma quando c'era Stu il locale traboccava per cui bravo doveva esserlo per forza.
Eric era al bancone a servire i clienti in maniche di camicia e con la faccia paonazza, diventava sempre di quel colore raggiunto un certo orario.
Sbucando tra la fitta foresta di clienti, Penelope le si parò davanti all'improvviso. Poiché erano dieci anni che faceva la cameriera in quel posto era convinta di poterla trattare come fosse una sua dipendente e tiranneggiarla quando aveva voglia. Sembrava quasi che invidiasse la sua postazione di guardarobiera. E dire che lei, al contrario di Kitty, oltre le mance prendeva anche uno stipendio.
- Mi devi sostituire fino alla fine del turno.
- Cosa? - esclamò Kitty spalancando gli occhi – E chi sta qui a prendere le giacche?
- Puoi fare benissimo avanti e indietro, Allison ti darà una mano. Non è così difficile gettare un occhio qui di tanto in tanto, no? Io devo scappare da mio figlio, ciao.
- Ciao.
Bofonchiò guardando quella scopa secca che si allontanava di corsa. Facendosi largo tra la folla arrivò al bancone e scoccò un'occhiataccia a Eric ma quello era talmente occupato a servire che non la vide neppure arrivare. Agguantò il primo taccuino a portata di mano e si gettò nella mischia dirigendosi verso i clienti che avevano lo sguardo più ansioso. Mentre prendeva l'ordinazione di una coppia di anziani in vacanza si rese conto che a uno dei tavoli d'angolo era seduto Milord.
Circondato dal suo solito drappello di stupide di bell'aspetto, Milord se ne stava stravaccato con quella sua finta aria annoiata da “io sono troppo fico per stare qui” ravviandosi di tanto in tanto con un gesto calcolato un lungo ciuffo di capelli neri che gli ricadeva sugli occhi.
Tra quelli abituali era il cliente peggiore. Non che non fosse generoso, anzi, le sue mance potevano definirsi estremamente laute, ma il modo in cui le elargiva avrebbe fatto sentire chiunque come un mendicante. Non lasciava i soldi sul piattino come tutti gli altri, no. Lui aspettava che la cameriera si avvicinasse, apriva il suo costoso portafoglio (ne aveva sempre uno diverso) e con studiata lentezza tirava fuori una banconota per volta finché dopo un tempo interminabile finiva e fissava con quei penetranti occhi verdi mettendo a disagio e condendo il tutto con prese in giro del tipo: “ecco i tuoi preziosi soldi, tanti vero?” oppure “ora sì che sei ricca e potrai comprarti tante cosine”. Naturalmente il suo entourage di modelle anoressiche e cocainomani lo trovava così esilarante che non poteva fare a meno di compiacerlo con stridule risatine da iene.
“Che se ne occupi Allison” pensò Kitty “oggi non sono decisamente dell'umore”. Rick aveva tirato di nuovo fuori la storia della festa di Steve rinfacciandole che per lui era importante, che voleva andarci, che con lei il massimo che facevano era vedere un film e che con la sua ragazza avrebbe voluto anche divertirsi, al che lei aveva reagito male e avevano litigato. Insomma, lei non stava certo divertendosi a passare il sabato sera a portare cocktail e restituire cappotti e trovava assurdo che questo Rick non lo capisse e non la sostenesse. Non era libera come tutti gli altri di andare a ubriacarsi nelle confraternite e fare altre cretinate, lei era lì con una borsa di studio risicata e quel poco di aiuto che le davano i suoi serviva a malapena a coprire l'affitto. “Una festa, ma sai cosa me ne frega di guardare quei gorilla ubriachi dei tuoi amici!” sbatté una pinta di birra con tanta forza che traboccò.
- Mi scusi!
Esclamò mortificata, ma il tizio era così preso dal concerto che non badò neppure a lei che si affannava a ripulire con uno straccio il tavolo.
Stava tornando al bancone quando una voce la raggiunse attraverso il frastuono, chiara e forte come se si trovassero in una stanza vuota.
- Signorina? E' possibile avere qualcosa da bere? Le mie amiche cominciano a spazientirsi.
Gli occhi color giada pallido di Milord sembrarono lampeggiare attraverso la sala. Per un attimo Kitty si chiese se avrebbe potuto far finta di niente ma poi si avvicinò controvoglia al suo tavolo.
La prima volta che lo aveva visto lo aveva trovato estremamente attraente. Era una fredda sera di febbraio ed era entrato nel locale da solo, senza il solito codazzo di oche starnazzanti, indossando un morbido cappotto nero di cachemire che seguiva perfettamente la linea delle spalle larghe. Si era avvicinato al guardaroba con calma sfilandosi con lentezza guanti di pelle bianca e lanciandole sguardi fugaci, aveva occhi di un incredibile verde pallido incorniciati da ciglia folte così nere da farli sembrare truccati. Il viso dai tratti spigolosi e armonici era di un incarnato sorprendentemente chiaro e luminoso (roba che per ottenere lo stesso risultato a lei ci sarebbero voluti almeno dieci peeling chimici) ma ciò che aveva attirato l'attenzione di Kitty più del dovuto era la sua bocca: colorita, piena e su cui aleggiava sempre un vago sorriso.
Quando si era appoggiato con nonchalance al bancone, Milord aveva sfoderato il più ammaliante dei sorrisi scoprendo denti perfettamente bianchi, poi purtroppo aveva parlato.
Da allora non c'era stata una volta che non fosse stato sgradevole e sarcastico e Kitty aveva avuto più volte la tentazione di tirargli su quella bella faccia le sue spocchiose banconote.
In piedi di fronte a lui e le sue amiche, la ragazza adottò il tono più professionale e distaccato che le riuscì:
- Desiderate ordinare?
- Kitty! Non prendi cappotti questa sera? Ti hanno per caso promossa?
Lei lo guardò abbozzando un sorriso forzato, poi ritentò:
- Allora che prendete?
Le ragazze sedute al tavolo con lui confabularono per qualche istante, poi una che sembrava uscita dal catalogo di Victoria's Secret prese la parola:
- Avete il Cristal in questo posto?
Kitty la fissò per un istante chiedendosi se la stesse prendendo in giro. Le sembrava posto per bere champagne da 200 dollari? Non che il Bar 66 fosse una bettola, ma i loro drink arrivavano al massimo ai 20 dollari, era un locale degli anni venti per una clientela amante del jazz non lo Chateau Marmont.
- No, mi dispiace ma abbiamo un'ottima lista dei vini.
- Io non bevo mai... vino.
Milord pronunciò quella battuta con un tono esageratamente serio e tenebroso e le tre ragazze esplosero in una cacofonia di risate stridule. Kitty pensò che a volte gli stereotipi sulle modelle erano fin troppo lusinghieri e cercò di ricordare dove avesse già sentito quella frase.
Dopo che ebbero deciso cosa ordinare la ragazza radunò i menù e una delle tre modelle, con i capelli lisci e perfetti come se fosse appena uscita dal parrucchiere, le sorrise dicendo:
- Grazie, Hello Kitty!
Ecco, se c'era una cosa che detestava sopra ogni altra era quando la chiamavano Hello Kitty. Kitty detestava quella maledetta gattina e trovava insopportabile che chiunque da quando frequentava l'asilo trovasse simpatico apostrofarla così. Soprattutto trovava ancor meno piacevole quando le persone credevano di farle cosa gradita regalandole gadget di quella mascotte malefica. Oltre a quaderni, diari, matite, gomme, borsette, portamonete, possedeva persino la borsa dell'acqua calda con sopra Hello Kitty. Teneva il tutto inscatolato e sigillato nella cantina dei suoi, buttare dei regali sarebbe stato da maleducati ma tenerli sotto gli occhi le provocava l'orticaria.
Ignorò la modella mordendosi la lingua per non risponderle, portò gli ordini ad Eric e si precipitò al guardaroba dove due donne impazienti attendevano di recuperare i propri cappotti.

La serata era finalmente agli sgoccioli, la sala era semivuota e i pochi clienti rimasti avevano cominciato ad accomiatarsi. Tutti tranne quattro.
Kitty si passò nervosamente la mano tra i capelli e iniziò ad arrotolare una ciocca castana con l'indice. Fissava gli occupanti del tavolo continuando a sperare di vederli alzare: “Avanti dannazione! Non avete un qualche loft a Soho dove andare? Nessun party da una stilista alle quattro di mattina?”. Milord si girò verso di lei come se l'avesse udita e Kitty distolse in fretta lo sguardo.
- Scusami?
Chiamò, sollevando appena il braccio che teneva intorno alle spalle della tipa di Victoria's Secret.
- Puoi portarci il conto?
Kitty si diresse verso il bancone e forse camminando un po' troppo in fretta, posò il piattino di ceramica nera col conto sul massiccio tavolo di noce scuro.
- Hai un appuntamento?
Sogghignò Milord e tirò fuori una manciata di contanti senza nemmeno guardare l'ammontare sullo scontrino.
Kitty fece subito il conto a mente.
- Sono troppi.
- C'è anche la tua mancia, Hello Kitty.
Le tre sciocche ridacchiarono e Kitty sentì le guance avvampare.
- E' ridicolo... la mancia è più del conto.
Ribatté lei infastidita.
- E allora?- Lui la fissò divertito con quei freddi occhi verdi – Non posso lasciare quanto voglio alla mia cameriera/guardarobiera preferita? Approfittane Hello Kitty.
Ignorò l'enfasi con cui aveva sottolineato le ultime due parole, prese in mano le banconote sotto lo sguardo attento dei quattro, calcolò il quindici percento esatto del totale e lasciò cadere il resto sul piattino come fosse spazzatura.
- Che cretina!
Sentì esclamare sottovoce a una delle modelle. Lei le scoccò un'occhiata in tralice e si allontanò dal tavolo di quegli idioti.
Poi si ricordò dei cappotti. Neanche il tempo di entrare nel guardaroba che Milord era già lì in attesa, con le tre modelle piene di alcol alle sue spalle che blateravano confusamente.
- Credo che i nostri siano gli unici cappotti rimasti.
Disse tenendo tra le dita lunghe e affusolate il gettone numerato del guardaroba. Mentre recuperava i loro indumenti sentiva i suoi occhi addosso e la cosa la fece muovere goffamente. Quando si voltò lui era ancora lì a fissarla con un sorrisetto fastidioso dipinto sulla faccia mentre si protendeva leggermente sul bancone.
- Perché non ti sei presa tutta la mancia?
Le bisbigliò così vicino all'orecchio da farle rizzare i peli sulla nuca. Si scostò da lui e lo guardò dritto in faccia.
- Un conto è prendere una mancia, un conto è farsi umiliare.
Rispose lei seccamente.
- Hai un bel caratterino Hello Kitty, te lo hanno mai detto?
Lei non rispose, aspettava solo che finissero di infilarsi i loro costosi cappotti e se ne andassero.
- Detesti che ti chiamino Hello Kitty, vero? Ti viene un faccino così imbronciato ogni volta.
- Io non ho nessun faccino imbronciato!
Ribatté e si pentì subito d'averlo fatto. Le labbra carnose di Milord si incurvarono in un sorriso.
- Sai il jazz mi fa schifo, è solo per il servizio che vengo qui.
Lei alzò gli occhi al cielo senza rispondere. Dopodiché lui e le modelle si avviarono all'uscita tenendosi sottobraccio, le tre ragazze avevano decisamente bisogno di essere sostenute.
Kitty le sentì berciare “Addio Hello Kitty!” a lungo prima che le loro voci starnazzanti si perdessero nella notte.

Quando uscì dal bar aveva cominciato a nevicare. Si strinse la sciarpa nera attorno al collo e si incamminò per i pochi isolati che la dividevano dal suo appartamento. Cercò il cellulare nella tasca del piumino che indossava e provò a chiamare Rick, lo faceva sempre quando staccava dal lavoro. In genere lui passava a prenderla, perché anche se era un quartiere piuttosto tranquillo e pieno di gente che entrava e usciva dai club e dai ristoranti, lei era pur sempre una ragazza sola e quella era pur sempre New York. Dopo una decina di squilli a vuoto si rese conto che Rick non le avrebbe risposto. Si domandò cosa stesse facendo, se fosse ancora arrabbiato con lei o se invece fosse troppo ubriaco per rispondere.
Si ripromise di passare a trovarlo il mattino seguente come prima cosa da fare, voleva assolutamente fare pace. Non era sicura di esserne innamorata, era certa di volergli molto bene e trovarlo attraente ma onestamente non sapeva dire se ci fossero sentimenti più profondi ad animare il loro rapporto. A volte aveva la sensazione che lui fosse più preso, che la cercasse e desiderasse di più di quanto non facesse lei e forse era stato proprio questo a farlo arrabbiare, il sentirsi trascurato.
Sorrise tra sé e sé immaginando quanto sarebbe stato bello fare pace con lui e sentirsi avvolgere da quelle forti braccia. Non c'era niente di meglio di avere un ragazzo alto un metro e novanta da cui farsi coccolare.
Immersa ancora in questi pensieri svoltò in Perry Street e all'improvviso ebbe la strana sensazione di essere seguita. Non aveva udito passi alle sue spalle o un qualsiasi altro rumore. Anzi, il mondo sembrava essere precipitato in quella strana quiete bianca che solo la neve era capace di creare. Persino a New York di sabato sera in quel momento c'era silenzio.
Istintivamente scrutò alle proprie spalle ma non vide nulla. “Sono una scema” pensò scuotendo la testa, però si affrettò lo stesso. La neve fresca sotto i suoi stivali era ancora soffice e attutiva il rumore dei passi, le piaceva la neve. Le ricordava con nostalgia le grida di gioia dei suoi fratelli minori ogni volta che qualche fiocco cominciava a cadere.
Chissà il mattino seguente come sarebbero stati felici di vedere tutto imbiancato: Grace sarebbe corsa a infilarsi gli stivaletti di gomma rosa e Anthony si sarebbe precipitato in garage per tirare fuori lo slittino mentre Daisy gli saltellava intorno scodinzolando, sarebbero usciti come furie di casa senza nemmeno fare colazione con la mamma che gli gridava inutilmente dietro per farli rientrare.
Un fruscio alle sue spalle. Sobbalzò voltandosi completamente ma a parte le auto parcheggiate, i lampioni e i palazzi che si perdevano nel buio, non vide nulla. Le era sembrato che qualcuno camminasse rapido dietro di lei spostando l'aria ghiacciata.
Fissò ancora la strada deserta socchiudendo gli occhi azzurri, poi quando fu certa che nessuno la stesse seguendo riprese la strada di casa.
“Pochi passi e sono arrivata” cercò di incoraggiarsi mentre affrettava il passo senza cedere alla tentazione di mettersi a correre per l'ultimo isolato.
Giunta con sollievo sui gradini del palazzo cominciò a rovistare nervosamente nella borsa per trovare le chiavi del portone gettando però sguardi preoccupati alle spalle, come se ci fosse qualcuno pronto a piombarle addosso dal buio.
“E' ridicolo” pensò “non c'è proprio nessuno, ti stai comportando da cretina” ma intanto quella spiacevole sensazione di essere osservata persisteva e la sua mano cercava senza successo le chiavi nascoste in una borsa che pareva senza fondo. Riuscì ad afferrarle, strinse con gioia il vecchio portachiavi che Anthony le aveva fatto all'asilo e con un movimento rapido infilò la chiave nella serratura.
Quando finalmente il portone fu alle sue spalle sospirò sentendosi una sciocca. Si voltò un'ultima volta, senza motivo, poi posò lo sguardo distratto a terra sul marciapiede appena imbiancato e sgranò gli occhi.
Dietro le tracce dei suoi stivali c'era una scia di grosse impronte pesanti che la neve stava già ricoprendo. Seguivano il percorso che aveva fatto lei e si fermavano davanti alla corta scalinata di granito del palazzo dove abitava con le sue coinquiline, come se chi le aveva impresse avesse sostato per un istante, poi proseguivano oltre per Perry Street fin dove lo sguardo atterrito di Kitty riusciva ad arrivare.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Era stata dura addormentarsi. Per tutta la notte aveva continuato a pensare a quelle orme nella neve e si era chiesta di chi potessero essere. Era sicura di non aver visto anima viva, eppure qualcuno c'era. Qualcuno che l'aveva seguita e che l'aveva spiata e quel pensiero le faceva accapponare la pelle. Ogni volta che stava per chiudere gli occhi vinta dalla stanchezza, si svegliava di soprassalto col cuore in gola convinta che qualcosa fosse nell'ombra in attesa che si addormentasse.
Alla fine era riuscita a dormire per qualche ora solo quando era ormai l'alba. Un gran rumore di padelle e pentole la svegliò, allungò pigramente la mano verso il cellulare e constatò che erano solamente le dieci. Si alzò con una voglia irrefrenabile di strangolare Cassie.
Quando Kitty si trascinò in cucina, la sua coinquilina era lì in culotte e caniottera rosa fluo striminzite che cercava di cuocere dei pancake troppo liquidi.
- Buongiorno!
Cinguettò allegra come se fosse socialmente accettabile svegliare la gente alle dieci di domenica mattina.
- Ciao... Si sforzò di dire Kitty, gli occhi le bruciavano orribilmente e riusciva a malapena ad aprirli, ciononostante notò che Cassie era truccata perfettamente.
- Stai uscendo?
- No, no...
Quando la vide sollevare un'ennesima mestolata di impasto bianchiccio la fermò.
- Ma quanto latte hai messo? Aggiungi della farina... no guarda lascia fare a me.
Cassie si lasciò spodestare dai fornelli e andò a sedersi su uno degli sgabelli sotto la finestra guardandola con gli occhietti scuri carichi di mascara.
- Quanto ci vorrà?
- Pochissimo, ora... hai molta fame?
- Non io...
Kitty si voltò a guardarla scioccata.
- Perché chi c'è?
Cassie fissava le sue enormi ciabatte zebrate disegnate da Snooki con aria colpevole.
- Un ragazzo...
- Un ragazzo!
Ripeté Kitty esterrefatta. Cassie era stata mollata da un certo Mike tre giorni prima, cosa che purtroppo le accadeva spesso, anche questa volta aveva spergiurato tra le lacrime che aveva chiuso con gli uomini e che non voleva saperne più e anche questa volta aveva incontrato un nuovo ragazzo dopo soli tre giorni dalla perdita del suo grande amore.
La cosa che seccava però Kitty era che questa nuova conquista se l'era portata a casa senza presentarla a lei e Georgie, un'assurda regola di convivenza che lei stessa aveva insistito che adottassero, pena la cacciata immediata dall'appartamento. Forse non era poi così assurda visto che una volta, prima che loro due andassero a vivere con lei, Cassandra aveva rimorchiato un tipo che mentre dormiva le aveva svaligiato casa.
- Ma non ce l'hai presentato!
- Ti prego non dirlo a Georgie!
Si era gettata in terra aggrappandosi disperatamente alla sua gamba.
- Lasciami!
Kitty non riuscì a trattenersi dal ridere. In fondo l'appartamento era suo, non è che l'avrebbero potuta cacciare ma certo preferiva evitare scenate e litigi tra le sue coinquiline se poteva.
- Mi devi un favore.
- Tutto quello che vuoi!
Cassie abbracciò le gambe di Kitty e poi balzò in piedi con un grande sorriso dipinto sul viso paffuto.
- Fallo uscire prima che Georgie si svegli.
- Gli porto i pancake e poi via, lo caccio!
- E' così carino da fargli i pancake?
- Mmm, è perfetto!
Il che voleva dire che era un bestione tatuato di due metri per due con catenazza dorata al collo. Dopodiché afferrò il piatto di pancake, la bottiglietta di sciroppo e ciabattò saltellando verso la sua stanza.

Kitty prese in mano il cellulare per l'ennesima volta poi lo posò di nuovo accanto a sé sul divanetto a righe del soggiorno continuando a sbuffare.
- Ti scongiuro mettiti a fare qualcosa, non posso vederti così!
Georgie sollevò la testa dal libretto di Noam Chomsky su Occupy e la fissò con espressione severa.
- Non puoi angosciarti per una stupidaggine e poi hai ragione tu, è lui che è egoista!
Kitty annuì automaticamente ma dentro di sé non faceva che pensare che aveva sbagliato tutto, che lui non l'avrebbe mai richiamata e che rischiava di mandare all'aria tutto solo uno sciocco litigio. Avrebbero dovuto parlarne con calma e avrebbero risolto facilmente, in fondo era una scaramuccia non c'era bisogno di mostrarsi troppo orgogliose.
Si alzò in piedi di scatto.
- Io vado!
- Oh no! Non puoi, deve essere lui a cercarti!
- Senti non riesco a stare con le mani in mano, preferisco risolvere subito!
Detto questo fuggì allo sguardo contrariato di Georgie e si infilò nella sua stanza per vestirsi. La neve era caduta fitta tutta la notte e si coprì bene, indossando calze di lana e un cardigan pesante che arrivava fin sotto il sedere. Non era un abbigliamento molto sexy ma sicuramente la teneva al caldo. Si avvolse più volte nella lunga sciarpa di lana nera e mentre stava ancora infilando una delle maniche del piumino grigio aveva già un piede oltre la soglia di casa.
- Fammi sapere come va, ok?
- Certo!
In quell'istante Cassie si affacciò dalla sua stanza, come se si fosse appena svegliata.
- Alla buon'ora, sono quasi le due!
Le fece notare Georgie sorridendo, Cassie lanciò uno sguardo furtivo a Kitty e sbadigliò esageratamente sgranchendosi la schiena.
- Ero molto stanca...
Kitty le fece un rapido occhiolino e chiuse la porta di casa dietro di sé.

Arrivata davanti al residence studentesco su Broome Street, Kitty non si sentiva più tanto sicura della sua decisione ma ormai era lì e tanto valeva andare fino in fondo. Poco prima della porta dell'appartamento che Rick divideva con altri tre ragazzi si fermò per ripassare a bassa voce il discorso che si era preparata.
- Ok, abbiamo litigato. Tu hai ragione di sentirti trascurato ma io non sto bene senza di te e vorrei che capissi che faccio tanti turni al locale perché ne ho bisogno non perché non mi importa niente di te. Di te mi importa tanto, tantissimo e...
Sobbalzò colta di sorpresa, due porte più indietro un ragazzo era uscito per buttare un sacco nello scarico dei rifiuti. Dal sorrisetto che aveva sul viso capì che doveva averla sentita. Tossì impacciata e si diresse alla porta di Rick.
Bussò e dopo un'attesa che le sembrò lunghissima Rick apparve sulla soglia, sembrava ancora mezzo addormentato. La guardò distrattamente una volta poi sembrò focalizzare ed esclamò sorpreso:
- Kitty! Che ci fai qui?
- Ok, abbiamo litigato. Tu hai ragione di sentir...
- Non fa niente, davvero!
- Cosa?
Lei lo guardò perplessa, e il suo discorso? Improvvisamente lui la abbracciò stretta, facendole quasi mancare il fiato. Lei ricambiò l'abbraccio sentendo un senso di calore diffondersi nel petto.
- Rick – bisbigliò – mi dispiace io...
- Anche a me, sono stato un idiota. Un idiota completo.
Inspirò a fondo il suo odore, le piaceva. Si staccarono e lei lo guardò con gli occhi lucidi.
- Ti va se entro?
Rick si passò la mano tra i capelli biondi e spettinati.
- Certo... certo! Però perché non facciamo così? Passo io da te tra una mezz'ora, il tempo di farmi una doccia. Puzzo veramente troppo e la mia stanza è uno schifo... Peter ha dormito da me! E beh...
- Oddio, non ancora!
- Esatto!
Kitty scoppiò a ridere, non c'era bisogno di altre spiegazioni. Peter era il migliore amico di Rick e l'alcol aveva su di lui un effetto estremamente diuretico. Soprattutto quando dormiva. L'ultima volta Rick aveva dovuto buttare le lenzuola sconsolato e c'era mancato poco che non desse fuoco al materasso.
- Ci vediamo dopo.
La ragazza lo salutò con un lungo bacio e si diresse col cuore leggero verso l'ascensore. Una volta fuori dall'edificio notò che il piccolo il forno dove compravano spesso i bagel era aperto, ne riempì un sacchetto e prese della crema di formaggio.
“Niente di meglio per un doposbornia” pensò sorridendo tra sé e sé.
Aveva percorso pochi passi del lungo corridoio sul piano in cui si trovava l'appartamento di Rick quando si fermò di colpo. Il suo ragazzo, quello che aveva appena salutato con un bacio, che le aveva appena detto che sarebbe passato a trovarla, stava stringendo un'altra. Stava baciando e abbracciando una ragazza che non era lei. Ed era bionda.
Ripresasi dallo choc iniziale Kitty riconobbe la ragazza: l'odiosa gattamorta Heather. Non c'era mai stato Peter, era lei che dormiva nel letto di Rick e sentì lo stomaco attorcigliarsi per la vergogna e l'umiliazione mentre ripensava a come aveva provato il suo discorso, a come era andata lì per fare pace e poi aveva comprato quegli stupidissimi bagel.
Nello stesso istante anche loro sembrarono finalmente accorgersi di lei e Rick prese a boccheggiare ottuso come un pesce preso all'amo.
- Kitty! Io... non è... non è...
- Non è cosa? Ma non dire stronzate!
Esplose lei, avvicinandosi a grandi passi furenti verso di lui. Heather ebbe la decenza di farsi da parte guardando a terra imbarazzata.
- Era qui vero? Tutto il tempo mentre parlavamo! E io come una cretina a comprarti... questi!
Kitty guardò la propria mano come se vedesse i bagel per la prima volta in vita sua e li scagliò con forza verso Rick che continuava a gesticolare alla rinfusa.
Il sacchetto gli rimbalzò sullo stomaco e la crema di formaggio esplose sul pavimento andando a insozzare le pareti e le scarpe di Heather.
- Ehi...- Protestò debolmente ma Kitty la fulminò con lo sguardo, un'altra parola e sarebbe stata capace di strapparle tutti quei capelli stopposi dal cranio.
- Non farti sentire mai più!
Si voltò e corse verso l'ascensore, tremando per la rabbia. Rick si lanciò dietro di lei cercando di afferrarla per un braccio ma lei si divincolò.
- Lasciami stare!
- Ti prego, lei non significa niente per me, sei tu la mia ragazza!
Alle loro spalle Heather esclamò indignata:
- Come non significo niente! Stanotte hai detto che ero la ragazza più sexy che avessi mai avuto!
Rick si bloccò imbarazzato tra due fuochi, non sapeva come comportarsi.
Kitty ne approfittò per infilarsi nell'ascensore, premette il tasto con violenza sperando con tutta sé stessa che le porte si chiudessero alla svelta. Quando l'ascensore la portò via da quella scena squallida gli occhi le si riempirono di lacrime bollenti e si strinse tra le braccia singhiozzando e incolpandosi per essere stata così stupida.

Le sue coinquiline avevano cercato di dissuaderla in ogni modo ma non c'era stato verso. Rimanere in casa a mangiare schifezze e guardare film horror per tirarsi su il morale la faceva sentire solo più abbattuta, non capiva come abbrutirsi avrebbe potuto farla sentire meglio. Per cui aveva chiamato Eric ed era andata a lavorare anche se era il suo giorno di riposo.
L'aria gelida spazzò via un po' del torpore che l'aveva avvolta da quando era uscita dall'appartamento di Rick. Si chiese se la tristezza che provava fosse più una questione di orgoglio ferito che il dolore per una reale perdita. Teneva davvero così tanto a lui? A pensarci bene no. In fondo non si era mai immaginata con Rick per la vita, quindi perché si sentiva così sconfitta? Non avevano nemmeno avuto il tempo di arrivare a essere qualcosa di più.
Entrò al Bar 66 sentendo ancora un peso sullo stomaco vuoto, si era innervosita talmente tanto che aveva rifiutato di mangiare per tutto il giorno. Trovò Eric che giocava a Castleville nel suo piccolo ufficio sul retro pigiando violentemente i tasti di un povero portatile, Penelope sedeva sulla sedia di fronte alla scrivania con la solita aria accigliata e perennemente insoddisfatta, la squadrò per un istante e poi ghignando con la bocca troppo truccata le disse:
- Mamma mia che faccia, ti è morto il gatto?
Kitty inspirò a fondo, penso di ribattere, poi sentì gli occhi pizzicare pericolosamente. “No, non davanti a lei” si ordinò ma una lacrima le sfuggì lo stesso tra le lunghe ciglia scure. Tirò su con il naso e si voltò dando loro le spalle. Eric alzò la grossa faccia quadrata dallo schermo del pc e le guardò con l'occhio buono, l'altro era semichiuso per via di un tumore al cervello che gli era stato asportato anni prima. Era stata un'operazione disperata ed Eric si vantava sempre di essere un sopravvissuto per miracolo e che nemmeno i dottori sapevano come avesse fatto a uscirne quasi illeso. Poi aggiungeva fiero che così la sua faccia si intonava meglio ai tatuaggi che aveva sulle braccia e gli dava un'aria più piratesca.
- Che succede?
- Mah, l'avrà piantata il ragazzetto... quante storie...
Penelope le lanciò un'occhiata schifata mentre si passava le mani smaltate di un rosso acceso tra i capelli ricci e ancor più rossi.
Kitty tirò su col naso e scosse la testa, come per dire che non c'era niente che non andasse e provò ad abbozzare un sorriso.
- Ti ha mollato per un'altra? Mica ne devi fare una tragedia!
Sembrava volerla consolare, invece Kitty sapeva benissimo che Penelope ci godeva a vederla ferita e mettere il dito nella piaga.
- E' così vero? Magari lo hai pure colto in flagrante quel bastardo. Dai raccontami tutto!
Kitty sospirò a disagio e si costrinse a risponderle:
- Sì, io e Rick ci siamo lasciati.
- Lo sapevo! Ne troverai altri vedrai, certo non come lui. Era proprio carino... forse pure troppo...
- Penelope!
Eric la interruppe allibito, si alzò in piedi e posò le grosse mani callose sulle spalle di Kitty.
- Sei sicura che non vuoi andare a casa? Tanto è domenica, ce la caviamo.
- Sì sono sicura, almeno mi distraggo.
- Allora vai a cambiarti dai, che tra poco apriamo.
La voltò gentilmente verso la porta dell'ufficio e Kitty sentì di essergli proprio affezionata.

La serata era tranquilla come Eric aveva preannunciato. I pochi clienti se ne stavano placidamente ai loro tavoli parlottando sopra la musica bassa degli altoparlanti, quella sera non era previsto alcun concerto.
C'era anche quell'idiota di Milord, stranamente sottotono: era in compagnia di una sola modella e aveva un'aria incredibilmente annoiata, al momento di darle i loro cappotti si erano scambiati solo qualche occhiata neutra e non le aveva detto nemmeno niente di sarcastico.
Oltretutto dei tavoli se ne occupava Penelope, che tra le cameriere era l'unica a trovarlo divertente e a ridere delle sue stupide battute, per cui quella sera se ne sarebbe stata più che in pace.
Era seduta sullo sgabello nel guardaroba da un po', con i grandi occhi azzurri persi nel vuoto quando Eric la chiamò dal bar, e le mise davanti un vassoio con sopra un cocktail variopinto e un basso bicchiere di scotch.
- Portali al tavolo all'angolo per cortesia.
- Ma... e Penelope?
Si guardò attorno accigliata, Eric si strinse nelle spalle.
- Credo sia andata al telefono, sai il bambino...
Il “bambino” aveva quasi quattordici anni ormai e Kitty avrebbe voluto farlo presente al suo datore di lavoro ma sapeva che comunque lui non avrebbe preso dei provvedimenti nei confronti di Penelope. Dietro quel faccione ispido e i tatuaggi da marinaio aveva il cuore tenero e per lui Penelope rimaneva sempre la ragazza madre che si era presentata da lui dieci anni prima bisognosa di lavorare.
Agguantò il vassoio e si diresse verso il tavolo dove Milord e la sua modella sembravano immersi in una accesa discussione.
- Sono stufa!
Esclamò la ragazza, Kitty la riconobbe. Era quella che sembrava uscita dal catalogo di Victoria's Secret: gambe chilometriche, pelle ambrata e occhi verdi. Una che era capace di far sprofondare l'autostima di chiunque in un baratro. Si interruppe quando la vide ma continuò a fulminare Milord con lo sguardo.
- Silvia, parliamone più tardi, va bene?
Si rivolse a Kitty ma il suo sorriso era privo di allegria.
- Che faccino da funerale Hello Kitty!
Lei non rispose e lui continuò, meno convinto.
- Se ti conci così non troverai mai marito, non ti sei nemmeno pettinata oggi?
Kitty fissò per un istante Milord, aveva gli occhi ancora rossi per le lacrime e scrollò solamente le spalle.
- Scusami, non volevo disturbarti.
Il suo tono di voce era diverso, gentile, una cosa così inusuale che Kitty rimase quasi scioccata. Li lasciò alla loro discussione e tornò al guardaroba, appollaiandosi sullo sgabello come un passero in una di quelle mattine di novembre.
Il display del suo cellulare lampeggiò, quando lo prese in mano vide che era Rick che la stava chiamando.
“Che faccia tosta!” era talmente sorpresa e arrabbiata che dovette frenarsi dallo scagliare il cellulare lontano da sé. Rifiutò la chiamata e scrisse un messaggio il più velocemente che poteva: “Non osare cercarmi più, è finita. Lasciami stare.” lo rilesse ancora una volta e poi premette decisa “invia”. Non aveva alcuna voglia di parlargli né di vederlo, non c'era niente che potessero riparare o risolvere. Se dopo soli quattro mesi era incapace di esserle fedele, figurarsi quanto avrebbe potuto essere affidabile in futuro e quanto le era legato adesso.
- Non ti importa niente di nessuno... sei un mostro!
Silvia era sbottata improvvisamente a voce alta alzandosi in piedi, nella sala si creò un silenzio innaturale.
- Silvia siediti, per favore.
Milord glielo chiese a denti stretti, infastidito. Lei sembrò sul punto di obbedirgli poi si allontanò di un passo dal tavolo.
- Sapevi chi ero e cosa cercavo...
- Sei solo un pervertito schifoso!
Silvia lo zittì con voce tremante, poi si voltò e si diresse come una furia verso Kitty che si sbrigò a tirar fuori il cappotto firmato della ragazza. La modella glielo strappò dalle mani e uscì dal locale sbattendo la porta.
Milord rimase seduto rigidamente al tavolo, sembrava sentire gli occhi di tutti su di lui mentre fissava immobile il cocktail abbandonato davanti a sé. Kitty sentì una certa empatia nei suoi confronti; non sapeva se Silvia fosse la sua fidanzata effettiva dato che lo aveva visto con decine, se non centinaia, di ragazze diverse durante quei mesi però ora le sembrava fragile esattamente come si sentiva lei per la fine di una storia.
Il resto degli avventori ricominciò a chiacchierare e presto si dimenticarono di lui e della scenata di Silvia, Kitty si avvicinò per portare via il cocktail della ragazza e lo approcciò con un sorriso timido:
- Tutto bene?
- Fatti gli affari tuoi.
Ribattè seccamente lui e con un sorso buttò giù quello che restava dello scotch che aveva tra le mani.

Alla fine della serata Eric insistette perché andasse via prima, non c'era bisogno che lo aiutasse a riordinare e i pochi clienti rimasti si stavano già affrettando al guardaroba per tornarsene a casa.
Kitty consegnò i soprabiti sforzandosi di sorridere alla clientela ma con l'ultimo della fila non riuscì a fingere.
- Ecco qua.
Gli disse brusca strappandogli il gettone di mano.
- Non sono di buon'umore.
- Nemmeno io.
Rispose lei sbrigativa, se c'era una cosa che la irritava erano le persone maleducate e lui lo era stato. Invece di soprannominarlo “Milord” lei e le altre cameriere avrebbero potuto benissimo chiamarlo “Lo stronzo”.
- Allora siamo compagni di sventura, eh?
Lo disse con un sorriso così amabile che Kitty non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
- Eh già.
- Scusami ancora, davvero. Se vuoi possiamo fare un tratto di strada insieme.
Era la seconda volta che la stupiva comportandosi in maniera quasi decente quella sera. Forse non era del tutto imbecille.
- D'accordo.
Si avviarono per gli scalini cosparsi di sale che portavano al livello della strada. Lui le tenne perfino aperta la porta del bar, dire che era incredula era poco.
I marciapiedi erano sgombri e la neve ormai ghiacciata era accumulata ai bordi della strada, il freddo pungente della notte la fece rabbrividire e si avvolse un altro giro di sciarpa attorno al collo. Milord invece non sembrava provare alcun freddo, non portava la sciarpa e le sue guance pallide non erano minimamente arrossate.
Parcheggiata dal lato opposto della strada rispetto al Bar 66 Kitty notò un'enorme auto lussuosa color argento, pensò appartenesse a lui ma invece Milord non la degnò di uno sguardo.
- Dove abiti?
- In Perry Street, è a pochi isolati da qui.
- Sì la conosco, è una bella zona.
Non fecero tre passi che una voce femminile alle loro spalle chiamò:
- Caspar!
Milord si girò di scatto, allora era così che si chiamava pensò Kitty, Caspar.
Dal sedile posteriore dell'auto grigia era scesa una ragazza, indossava uno splendido cappotto color perla trapuntato di strass e altre pietre minuscole che lo facevano brillare come un gioiello; ma fu soprattutto il suo aspetto a colpire Kitty: aveva un viso perfettamente ovale che sembrava fatto di finissima porcellana e tra i tratti delicati e minuti del volto spiccavano due enormi occhi chiari e una bocca morbida e rosea. I suoi capelli erano di un biondo così chiaro e lucido da avere riflessi argentei, “Sembra un angelo” si ritrovò a pensare Kitty impressionata.
Accanto a lei, Caspar era così sorpreso che non aveva mosso un muscolo e fissava la ragazza angelica scesa dall'auto come se fosse un fantasma.
- Alcor...
Disse lei con voce rotta e gli occhi le traboccarono di lacrime.
- Cosa è successo?
Il suo tono era inespressivo, Kitty non sapeva dire se fosse preoccupato o indifferente.
- Non qui.
Replicò la ragazza e posò i grandi occhi su Kitty che non riuscì a reggere a lungo lo sguardo. Aveva la strana sensazione, quasi fisica, che quegli occhi la stessero perforando.
Caspar si allontanò da Kitty senza dire una parola, dimenticandosi completamente di lei; salì sull'auto insieme a quella strana ragazza e li vide sparire in pochi istanti, come se avessero una gran fretta di partire.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Hanna guardò sua figlia con orgoglio: Kitty era una ragazza brillante, intelligente e ora le avevano anche offerto di partecipare a un corso intensivo di scrittura a Parigi! Immaginava già la sua bellissima figlia, in maglia a righe e ballerine, china su un portatile in un fumoso caffè a Montmartre intenta a scrivere il grande romanzo americano.
Se non le avessero dato la borsa di studio avrebbe lavorato anche ventiquattro ore al giorno pur di permetterle di partecipare, lei doveva avere tutto quello che desiderava.
La osservò con affetto mentre continuava a mescolare la salsa di mirtilli sul fuoco, i capelli color caramello legati in una coda morbida, le guance rosee colorite dal calore dei fornelli. Kitty alzò lo sguardò e sorrise, i grandi occhi azzurri identici a quelli di suo padre illuminarono la stanza.
- Che c'è mamma?
- Niente tesoro, sono contenta di avere tutta la famiglia riunita.
Grace tirò Hanna per un braccio.
- Così va bene?
Il visetto tondeggiante e allegro della bambina era ricoperto di zuccherini colorati, forse ce n'erano di più che sui cupcake che le aveva permesso di decorare.
- Benissimo! Kitty guarda com'è brava tua sorella!
- Oooh, Grace diventerai sicuramente una pasticcera!
Quel mese Grace aveva deciso che non voleva più fare la principessa ma la pasticcera, e voleva vivere in una casetta come quella della strega di Hansel e Gretel che aveva visto su un libro illustrato. Kitty le aveva promesso che sarebbe andata a trovarla tutte le settimane e avrebbero preso insieme il “tè delle amiche” che era ovviamente precluso a tutti i maschi e in particolare a loro fratello Anthony.
La mamma scoccò un baciò sulla testolina bruna della bambina che tutta orgogliosa continuava a impiastricciare i cupcake al burro con codette, confetti e perline allo zucchero colorati mentre Daisy, la loro golden retriever, cercava di impietosirla per ottenere qualche prelibatezza fissandola con i languidi occhioni color cioccolato.
- Buona Daisy!
Intimò Grace alla cagnolina che tuttavia non si sarebbe mai azzardata a muoversi e che in risposta le scondizolò timidamente.
Kitty tornò a girare la salsa che diventava sempre più densa e appiccicosa, sarebbe bastato un nonnulla per farla attaccare alla pentola, quando fu finalmente pronta la travasò in una ciotola e la lasciò sul ripiano a raffreddare.
- E' quasi tutto pronto, finalmente!
Esclamò entusiasta Hanna, sedendosi al tavolo della cucina con in mano una grossa tazza di tè fumante. Il giorno dopo per il pranzo del Ringraziamento la loro casa sarebbe stata invasa da un'orda di parenti, soprattutto da parte di suo marito, e avevano dovuto sfacchinare un bel po' tra pulizie e cucina. Non che i parenti di Jimmy non contribuissero, anzi, con gli avanzi di tutto quello che avrebbero portato sarebbero andati avanti per settimane!
Mentre Grace continuava a versare scatole intere di zuccherini sulla glassa dei dolcetti chiacchierando a ruota libera con Daisy, Kitty sembrava assente: sedeva al tavolo in silenzio, fissando la tazza da tè che aveva tra le mani.
Hanna si chiese se non fosse per via di quel ragazzo con cui aveva rotto un paio di settimane prima, quando Kitty le aveva raccontato la faccenda per telefono era rimasta esterrefatta. Come si era permesso un carciofo come quello di tradire la sua meravigliosa figlia? E comunque non le era mai piaciuto, tutto muscoli e niente cervello.
- Stanca?
Aveva detto allungando una mano su quella della figlia. La ragazza sollevò gli occhi e annuì leggermente.
- Abbastanza, credo che andrò a letto tra poco.
In realtà Hanna non poteva sapere che Kitty in quel momento non stava minimamente pensando a Rick ma che, contro la sua stessa volontà, si era ritrovata a pensare agli occhi verde chiaro di quell'essere insopportabile di Caspar.

La soffusa luce rosa della lampadina notturna di Grace illuminava appena la stanza creando ombre bizzarre sul soffitto. Nel letto accanto la bambina dormiva profondamente e Kitty si mise ad osservarla, anche se non avevano lo stesso padre era impressionante quanto si somigliassero; non fosse stato per i colori diversi, Grace aveva gli occhi e i capelli castano scuro, sarebbero state del tutto identiche. Sotto il suo letto Daisy ronfava placida e cicciotta su una vecchia trapunta, Kitty pensò con tenerezza che cominciava a invecchiare e allungò delicatamente una mano per carezzarle la pancia lanosa stando attenta a non svegliarla.
Si stese sulla schiena e fissò il soffitto di quella che era stata la sua stanza fin da quando era nata, sulle pareti c'erano ancora le stelline e i pianeti fosforescenti che Kitty ricordava di aver attaccato insieme a suo padre. Portava con sé una sua foto da quando era morto undici anni prima in un incidente in fabbrica: era un un uomo alto con gli occhi azzurri e quello che Kitty ricordava più di lui erano le mani ruvide quando le accarezzava una guancia di ritorno dal lavoro. Quello e i piccoli regali che le portava spesso e che ora lei custodiva come reliquie in uno scrigno di plastica rosa sotto il letto.
Ricordava vividamente il giorno in cui sua madre era andata a prenderla prima dell'orario di uscita a scuola, aveva gli occhi rossi e il viso stravolto. Una volta a casa la mamma l'aveva abbracciata stretta dicendole che papà non sarebbe tornato, che era andato in un posto più bello.
- E' morto?
Aveva chiesto semplicemente Kitty. Anche se aveva solamente nove anni sapeva cos'era la morte ma non pensava sarebbe mai accaduta a uno dei suoi genitori. Avevano pianto abbracciate a lungo e si erano addormentate in quella posizione.
Poi i ricordi sfumavano confusi fino al giorno del funerale, il cimitero di St. Mary affollato di colleghi e amici in lutto, i fiori sulla bara. Ancora adesso, Kitty ricordava come le era sembrato assurdo che suo padre fosse là dentro, come tutto ciò fosse grottesco. Erano passati molti giorni e mesi tutti uguali nella loro tristezza, finché sua madre non aveva portato a casa il suo fidanzato: Jimmy Martino.
Era stato orribile, non poteva credere che sua madre avesse un nuovo fidanzato, come si permetteva? Non avrebbe saputo dire chi a quel tempo odiava di più ma di sicuro riusciva benissimo a dimostrare il suo disprezzo a entrambi: era diventata una bambina disobbediente, capricciosa e maleducata nonostante i due fossero più che amorevoli nei suoi confronti.
Mentre con i ricordi tornava alla sua infanzia e agli sforzi di Jimmy per conquistarla e dimostrarle il suo affetto, Kitty cedette al sonno e sentì le palpebre chiudersi pesantemente. Mentre era in quello stato di torpore, all'improvviso un ringhiare basso e minaccioso la svegliò di soprassalto.
- Cosa c'è?
Girò confusa lo sguardo per la stanza e le sembrò di scorgere qualcosa alla finestra, un'ombra che si dileguava rapidamente. Si tirò a sedere sul letto completamente sveglia e si avvicinò alla finestra, al suo fianco Daisy continuava a ringhiare. Nel buio del cortile cercò di scorgere un qualche movimento rivelatore ma tutto sembrava essere immerso nella quiete sonnacchiosa della sera, calmò Daisy carezzandole la testa finché non vide il pelo biondo drizzato sulla schiena abbassarsi.
Si rintanò sotto le coperte continuando a fissare la finestra, provava la stessa sensazione sgradevole di quella notte in cui tornando a casa aveva visto delle strane orme sulla scia dei suoi passi. Dopo la rottura con Rick quell'episodio le era completamente passato di mente ma ora lo stesso gelo alla bocca dello stomaco era tornato ad inquietarla, come se il suo istinto cercasse di avvisarla di un pericolo che non poteva vedere.
Si rigirò a disagio sentendosi colpevolmente sciocca, probabilmente queste sue paure erano il frutto dello stress o del sonno appena accennato. Non c'era niente lì fuori e niente l'aveva seguita quella sera.
Ma se non c'era nulla di cui preoccuparsi, perché allora Daisy continuava a fissare la finestra?

I parenti del suo patrigno sembravano aumentare di anno in anno. Per primi erano arrivati i genitori di Jimmy, che avevano l'abitudine di presentarsi il mattino presto per contribuire ai preparativi ma che come ogni anno venivano gentilmente invitati a sedersi in salone.
- Bellissima!
L'aveva salutata soffocandola in un abbraccio la madre di Jimmy, Tina. I due anziani le avevano chiesto dell'università, di New York e se c'era qualche ragazzo speciale, poi l'avevano travolta con mille altre domande a cui Kitty aveva fatto fatica a star dietro.
Fortunatamente poi si erano concentrati sui loro nipotini: i due bambini erano così espansivi e chiacchieroni che sapevano bene come attirare l'attenzione dei nonni cosicché Kitty si era potuta dileguare in cucina per sottrarsi al fuoco incrociato degli interrogatori.
- Qui va tutto bene, forse riesco a non far seccare il tacchino quest'anno, tu vai di là e non ti preoccupare.
Tuttavia Kitty non si mosse dalla cucina, era sinceramente affezionata ai genitori di Jimmy ma a volte la loro premura sfiorava l'invadenza.
- Ti hanno già rimbambito di domande?
- Eh? Oh sì. Tommaso ha anche insistito per regalarmi 50 dollari.
- Lo sai come sono, sei una nipote a tutti gli effetti per loro.
Lo sapeva e gliene era grata ma nonostante la confidenza certe dimostrazioni d'affetto continuavano a imbarazzarla.
In quell'istante Jimmy entrò in cucina, non era un uomo particolarmente alto, e con gli anni si era leggermente appesantito, cosa che però rendeva il suo viso pieno ancora più bonario. La barba scura ora aveva cominciato a punteggiarsi qua e là dei primi fili grigi.
- Serve una mano ragazze?
- Affatto, vai pure dai tuoi.
Gli rispose la moglie, Jimmy invece si accostò al forno chinandosi per studiare l'enorme tacchino che arrostiva placidamente.
- Mmm, non vedo l'ora! Sembra proprio buono.
Il campanello suonò e dagli schiamazzi che arrivarono dall'ingresso Kitty capì che le tre sorelle maggiori di Jimmy erano arrivate. Erano tre donne imponenti, non tanto per la stazza quanto per il modo che avevano di porsi e parlare, delle vere matrone che mandavano avanti casa e famiglia quasi militarmente. Andò in corridoio a salutarle e perse il conto dei baci che diede e ricevette, tra sorelle, nipoti e mariti era quasi ubriaca.
Infine notò che dietro il folto gruppo delle sorelle e rispettive famiglie c'erano Carmine e una ragazza sconosciuta.
Si fermò sorpresa, Carmine aveva finalmente trovato una fidanzata? Era così felice per lui che avrebbe voluto abbracciare e ringraziare quella ragazza. Da anni, ad ogni festività, Carmine le si avvicinava speranzoso chiedendole un appuntamento e ogni volta Kitty si ritrovava nella scomoda situazione di doverlo rifiutare senza offenderlo dato che era un cugino di Jimmy. Non che fosse un ragazzo antipatico ma non era decisamente il suo tipo: i suoi unici interessi erano i motori, i tatuaggi e il gel per capelli, per cui non avevano mai avuto grandi argomenti di cui parlare. Si avvicinò per salutarli ma l'occhiataccia ostile che le scoccò la ragazza accanto a lui la gelò.
- Vanessa, lei è Kitty.
Intervenne Carmine, Vanessa aveva una faccia stizzita che sembrava dire: “ so benissimo chi è questa qua!”. Kitty si domandò cosa mai le avesse raccontato Carmine perché quella ragazza l'accogliesse con tanta freddezza ma mentre si allontanava dopo averli salutati velocemente, la sentì dire:
- Non avevi detto che era brutta?
“Farò meglio a sedermi vicino ai bambini” pensò Kitty accaparrandosi un posto al tavolino tondo dove avrebbero sistemato i sei nipoti.
Sedette vicino a Grace per tutto il lunghissimo pranzo ma nonostante questa precauzione ogni volta che si voltava dalla parte di Carmine il suo sguardo veniva intercettato da quello ostile di Vanessa. Se distoglieva lo sguardo in fretta aveva l'impressione di darle ragione, come a dire “ops, mi hai beccata mentre guardavo il tuo ragazzo” ma se sosteneva il suo sguardo con nonchalance quella sembrava prenderla come una sfida e aggrottava ancora di più le sopracciglia tatuate. Desiderò che quel pranzo finisse presto.
- Tesoro, ho dimenticato la torta di zucca per i bambini, vai a prenderla?
Le chiese sua madre dall'altra parte della stanza seduta ad un capo del lungo tavolo ovale degli adulti, Kitty si alzò volentieri districandosi a fatica tra tutti i commensali.
Arrivata in cucina gettò qualche bocconcino di arrosto nella ciotola di Daisy che ci si buttò riconoscente. La torta di zucca era ancora calda e ne inspirò il profumo di vaniglia e cannella a pieni polmoni, era piena da scoppiare ma una fetta di quella delizia non gliel'avrebbe tolta nessuno. Si voltò per prendere la panna dal frigo ma col piatto urtò qualcuno che era alle sue spalle. Vanessa.
- Oh, scusami!
Le disse sorpresa. Vanessa la scrutò con gli occhi appesantiti da troppo ombretto ridotti a due fessure.
- Pensi di poter fare l'innocentina?
- Cosa?
- Ti ho visto sai, come lo guardi!
- Ma chi? Carmine?
Kitty era sbalordita, non lo aveva mai guardato nel senso che intendeva quella tizia in dieci anni che lo conosceva, figuriamoci se avrebbe iniziato adesso.
- Sì, lui!
Si fece avanti minacciosa, Kitty fu contenta che la torta di zucca si frapponesse tra loro.
- Guarda che ti sbagli, a me lui non piace affatto.
- Ah sì? E perché? Non è abbastanza per "Miss Vado all'Università a Manhattan"?
“Cosa?” pensò allibita, aveva come il sentore che qualsiasi risposta avrebbe dato non sarebbe stata quella giusta.
- No, non volevo dire quello... è carino ma non...
- Lo vedi, lo vedi! Lo ammetti!
- Ma cosa dovrei dire che è un cesso per convincerti che non mi interessa?
- Sta lontana da lui!
Vanessa aveva alzato l'indice con fare accusatorio, aveva le unghie viola con i brillantini limate a punta.
- Come quelle di Lady Gaga... carine...
Aveva detto Kitty cercando di allentare la tensione ma l'altra ragazza la fissava con due occhi da pazza che la inquietavano.
- Le conosco sai, quelle come te! Tu pensi che stiano tutti ai tuoi piedi perché hai questa faccetta da telefilm, vero? Beh Carmine non ti pensa più e tu lo devi accettare, hai perso il giocattolo cara mia!
Vanessa cominciò a sbraitare a voce alta, il grosso petto che le si alzava e abbassava furiosamente. Kitty temette per la sua incolumità fisica.
- Ma tienilo!
- Cosa succede qui?
Carmine era entrato in cucina, la bocca ottusamente spalancata. Kitty notò che al collo portava una catenina d'oro con appesi due ciondoli a forma di V e C.
- Niente, Vanessa dà i numeri!
Sbottò non riuscendo a trattenersi.
- Che maledetta... vuoi fare la vittima, eh?
In quell'istante Vanessa allungò fulmineamente un braccio cercando di afferrarle una ciocca di capelli, Kitty schivò appena in tempo le unghie affilate come rasoi ma nel muoversi la urtò col proprio corpo. La ragazza prese quell'urto involontario per un colpo intenzionale e le sferrò una manata furibonda allla spalla facendola sussultare per il dolore.
- Oh mio dio tu sei pazza!
Disse cercando rifugio dietro Carmine, Daisy impazzita cominciò ad abbaiare alle due.
- Su non accapigliatevi per me!
Kitty notò un certo compiacimento nel ragazzo e l'avrebbe preso volentieri a calci una volta sfuggita a quella pazza della sua fidanzata.
- Io non mi accapiglio per te!
Urlò indignata mentre Vanessa si rifaceva avanti cercando di colpirla, i tre si ritrovarono aggrovigliati in una lotta goffa, all'ennesimo schiaffo evitato però la torta di zucca sfuggì dalle mani di Kitty e andò a spappolarsi sul pavimento per la gioia di Daisy.
I tre si fermarono come storditi a fissare il disastro a terra.
- Ma che diavolo...!
Jimmy esclamò alle loro spalle con parecchi occhi impiccioni che scrutavano l'interno della cucina dietro di lui.
- Oh che imbarazzo!
Esclamò Vanessa correndo fuori dalla porta che dava sul cortile come un'attrice da soap opera.
- Aspetta amore!
Carmine la inseguì lasciando Kitty e il resto della famiglia a fissarsi gli uni con gli altri inebetiti.
- Sono una bella coppia affiatata, no?
Disse alla fine nonna Tina imbarazzata quanto gli altri ma decisa a trovare qualcosa di carino da dire.

- Ah beh, almeno è stato un Ringraziamento diverso.
- Oh sì!
Sua madre e Jimmy non facevano che riderne da giorni chiedendole ogni volta nuovi particolari sulla zuffa, all'inizio Kitty ne era infastidita ma alla fine aveva cominciato a riderne anche lei rendendosi conto dell'assurdità dell'accaduto.
- Con quelle unghie avevo paura che mi cavasse un occhio!
- Proprio una tipa del Jersey, yo!
Disse Jimmy imitando il modo di muoversi di quei tipi di Jersey Shore.
- Povero Carmine. Pensate che ragazza si ritrova... dite che lo picchierà?
Chiese sua madre e Kitty dovette convenire che un po' temeva per la sua incolumità, Jimmy si alzò sbadigliando:
- A questo punto credo che me ne andrò a letto, tu che fai vieni?
Hanna scosse il capo e rispose:
- Rimango un po' qui con la mia ragazza a chiacchierare, domani va già via!
- Eh già, allora domani ti sveglio alle sei, ok?
- Grazie Jimmy.
L'indomani il suo patrigno l'avrebbe accompagnata fino a Manhattan prima di andare al lavoro, era sempre così gentile che Kitty si sentiva in colpa per tutti i grattacapi che continuava a dargli.
Avrebbe voluto avere una macchina del tempo per poter tornare indietro e dire alla bambina ostile che era stata di trattare bene quell'uomo, perché un giorno l'avrebbe mantenuta e le avrebbe pagato il college senza mai lamentarsi. Jimmy diceva sempre che era onorato che lei avesse accettato di essere adottata da lui ma in realtà era lei ad esserlo. Ora che era adulta si rendeva conto quanto lei e sua madre fossero state fortunate a incontrarlo.
- Ho fame...
Un assonnato Anthony sbucò dalla sua stanza stropicciandosi gli occhi.
- Ma sei hai mangiato come un bue! Non riesco neanche più a sollevarti!
Jimmy aveva caricato il bambino sulle proprie spalle come se fosse un sacco di patate fingendo di barcollare.
- Aiuto, aiuto, cado!
- Dai papà!
Anthony protestava scalciando e ridendo mentre i due si dirigevano in cucina.
- Non dargli più di un bicchiere di latte!
Urlò loro dietro Hanna tornando ad accoccolarsi vicino alla figlia sul divano.
- Non posso credere che siano già finite le vacanze, uff!
Kitty sorrise, stringendo la mano di sua madre. Anche a lei dispiaceva tornarsene a Manhattan a dire il vero, ma almeno mancavano solo poche settimane a quando sarebbe tornata per le vacanze di Natale.
Parlarono un po' di Parigi, delle sue coinquiline sempre più fuori di testa, dei professori e del lavoro. Tralasciò però di raccontargli di Milord, anzi Caspar. In genere raccontava sempre a sua madre dei clienti, soprattutto se c'era qualcuno che l'aveva colpita, ma non voleva dare a Milord un'importanza tale da meritarsi addirittura di essere inserito in una loro conversazione.
Tacquero per un istante e dalla televisione, che aveva fatto da sottofondo alle loro chiacchiere allegre, provenì qualcosa che colpì l'attenzione di Kitty.
- ...Silvia Braga, nota negli ultimi tempi per aver sfilato per una famosa casa di lingerie...
- Io la conosco!
Affermò sorpresa mentre le immagini di Silvia, la modella che aveva visto in compagnia di Caspar, si susseguivano sullo schermo.
- ...la modella, di ventiquattro anni, risulta scomparsa da almeno una settimana. I suoi parenti in Brasile si dichiarano preoccupati...
Kitty fissò la bellissima ragazza che le ammiccava dal televisore in biancheria intima e enormi ali colorate sulle spalle, e si domandò incuriosita che fine avesse fatto.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Prima di risalire sul suo vecchio pickup Jimmy si era voltato, visibilmente impacciato, con una banconota da cinquanta dollari in mano.
- Lo so è poco...
Aveva detto quasi giustificandosi, Kitty aveva scosso la testa.
- Non sono pochi per niente!
Lo aveva abbracciato e gli aveva raccomandato di salutare la mamma e i suoi fratelli, lui invece le aveva fatto promettere di telefonare più spesso e di non stancarsi troppo. Lo guardò con affetto allontanarsi nel traffico a bordo del suo camioncino sgangherato.
Non aveva neppure finito di salutarlo che aveva già l'ansia: dal sedici dicembre sarebbe iniziato il periodo ferale degli esami finali e doveva dare il massimo o la sua borsa di studio avrebbe fatto una brutta fine. E allora altro che viaggi studio a Parigi.
Passò i giorni seguenti vivendo a un ritmo serrato che prevedeva lezioni la mattina, studio il pomeriggio e lavoro al locale la sera. Nei pochi momenti di ozio trovava appena il tempo per respirare e rendersi conto di essere ancora viva.
Posò sotto il bancone del guardaroba gli appunti di filosofia, la testa le pulsava per la stanchezza. Scrutò attentamente ogni tavolo del locale ma si rese conto ben presto che Caspar non c'era. “E anche se ci fosse?” pensò stringendosi nelle spalle “cosa me ne importa?”.
Erano giorni che non si faceva vivo, il che non era strano perché passavano spesso settimane senza che si facesse vedere, solo che adesso lei desiderava rivederlo, soprattutto per fugare i dubbi che lui le aveva instillato con le sue ultime inspiegabili gentilezze. E' che non riusciva a detestarlo come un tempo e quell'incertezza la destabilizzava; non doveva neanche dimenticarsi però che era stato sì gentile ma quella sera era corso dietro a quella bionda slavata senza nemmeno salutarla.
- Ma che hai?
Penelope le abbaiò col solito tatto.
- Niente sono stanca, ho studiato tutto il giorno.
- Capirai che fatica, vorrei averle io certe preoccupazioni... vedrai quando avrai un figlio. Altro che “studiare”.
Quando Penelope giocava la carta della ragazza madre diventava davvero insostenibile, per cui Kitty la assecondò controvoglia annuendo senza replicare. Notò con una certa soddisfazione di averla indispettita, probabilmente aveva in serbo un articolato e lunghissimo discorso sui sacrifici che comporta essere madre e averglielo stroncato sul nascere le aveva guastato il divertimento.
- Mpf. E comunque la tua postazione fa schifo. Devi portarti proprio tutti quei libri dietro? Mica è una biblioteca questa.
- Se Eric non dice nulla io mi porto quanti libri mi pare e poi sono dietro il bancone, non sopra.
- In effetti io non li vedo.
Caspar si era inserito nella conversazione dal nulla. Come aveva fatto a non vederlo entrare?
- C... ciao!
Caspar le porse il soprabito nero e prese il gettone del guardaroba dalle sue mani senza mostrare un particolare interesse; Penelope, tutta sorrisetti falsi, già si prostrava in una serie di salamelecchi fastidiosi:
- Vuole il tavolo d'angolo? E' quello migliore per i clienti migliori.
Si allontanarono tra la folla numerosa degli avventori del venerdì sera: Caspar indossava un completo nero che faceva risaltare il pallore della sua carnagione; aveva un passo fiero e camminava a testa alta, altro motivo per cui lei e le altre cameriere lo avevano soprannominato Milord. Al suo passaggio alcune ragazze gli lanciarono sguardi ammiccanti ma lui sembrò non prestare loro alcuna attenzione.
“Un uomo bello che sa di esserlo, cosa può esserci di peggio?” pensò Kitty mentre lo guardava accomodarsi sul divanetto rosso scuro del tavolo d'angolo.

Il concerto era stato interrotto; Stu aveva così tanto mal di schiena che ad un certo punto si era alzato con l'espressione sofferente di chi avesse ricevuto una coltellata in un rene.
Cominciava ad essere troppo anziano per tutti quei concerti; il Bar 66 non era l'unico locale dove si esibiva, infatti si poteva incontrarlo in almeno altri quattro jazz club durante la settimana. I suoi fan continuarono ad applaudirlo per tutto il tragitto dal palco all'uscita mentre suo nipote lo aiutava a camminare, a Kitty si strinse il cuore per la tenerezza vedendo quel vecchietto minuscolo e contorto sorridere nonostante il dolore. Ammirava chi come Stu dedicava tutta la sua vita all'arte.
Girò lo sguardo in direzione di Caspar ma lo fece in maniera che sembrasse del tutto casuale, “non sto guardando certo te, guardo solo la sala e...!” si rese conto che lui l'aveva guardata a sua volta e arrossì violentemente per la vergogna. Alzò gli occhi timidamente e lui le fece cenno di avvicinarsi.
Quando arrivò al suo tavolo la bocca carnosa di lui era incurvata in un sorriso semplicemente perfetto.
- Come va? - esordì lei con un tono affettato da cameriera navigata – Tutto bene?
- Ti va di farmi compagnia?
- Eh... sto lavorando adesso... non credo...
- Non ci farà caso nessuno, guarda.
Kitty si voltò, effettivamente i clienti erano già concentrati sul complesso che faceva da spalla a Stu, non se la cavavano affatto male da soli. Nessuno sembrava volersene andare per cui non ci sarebbe stato bisogno della guardarobiera per un po', accettò volentieri l'invito di Caspar e sedette al tavolo con lui. “Solo cinque minuti”si ripromise.
Immediatamente si rese conto di avere i capelli legati in una coda sciatta e che non indossava nemmeno il lucidalabbra. “Accidenti, ha ragione Cassie che si porta sempre in borsa spazzola e trucchi” pensò a disagio e con un gesto goffo sciolse i lunghi capelli castani lasciandoli ricadere sulle spalle. “Dì qualcosa, qualsiasi cosa!” pensò affannata.
- Ho saputo di Silvia...
Esordì per rompere il ghiaccio ed immediatamente se ne pentì, come le era venuto in mente di chiedergli della sua ex appena scomparsa?
- Hai saputo cosa?
Chiese lui inespressivo.
- Ho visto il telegiornale, che è...
- Scomparsa? Non credo, è tipico di lei.
Caspar replicò con noncuranza e Kitty si chiese come facesse a non essere preoccupato nemmeno un po'. Il suo viso liscio non recava i segni di alcuna angoscia, come se quelle sopracciglia arcuate e nere non avessero mai avuto motivo di corrugarsi.
- Ma... e i suoi parenti? Non pensi le sia capitato qualcosa?
- Assolutamente. Senti questa: circa un anno fa Silvia scomparve per giorni, il suo cellulare squillava a vuoto e nessuno la vedeva dall'ultimo party della Fashion Week. I suoi genitori erano disperati e persino le sue amiche modelle facevano finta di preoccuparsi... tre settimane dopo eccola di nuovo a Manhattan. Aveva passato un mese in giro per l'Oceano Indiano sullo yacht di un principe arabo.
- Davvero?
Kitty lo guardò spalancando gli occhi, quella gente faceva una vita davvero assurda.
- E tu non ti eri ingelosito nemmeno un po'?
- Perché avrei dovuto?
- Non stavate insieme tu e Silvia?
Caspar rise facendola sentire una sciocca, mandò giù un sorso di scotch e continuò a sorridere scuotendo la testa.
- No, no. Per carità. Ci frequentavamo solamente.
“Ovvio, lo avrai visto con almeno un centinaio di sventole” pensò vergognandosi “non è tipo da fidanzarsi, anche se...”.
- Quindi adesso sei con la ragazza bionda?
Kitty si morse le labbra, dannata la sua curiosità. Però che c'era di male a chiedere? In fondo si chiacchierava solamente. Non che lei morisse dalla voglia di sapere se era libero. Affatto.
- Quale ragazza bionda?
Disse con un tono che sembrava sottindere “quale delle tante”.
- Non so se ricordi... una sera ti eri offerto di accompagnarmi a casa e... niente, ad un certo punto è arrivata quella ragazza con i capelli biondissimi, sembrava vi conosceste bene...
Un'ombra passò sul viso sereno di Caspar dissolvendo il suo sorriso.
- Stai parlando di Albida – replicò serio – è mia cugina.
- Non andate d'accordo?
- Non molto.
Su di loro scese un silenzio greve, doveva aver toccato un tasto dolente. Gli sorrise ma lui sembrava essersi incupito, imbarazzata guardò le foto appese sul muro di pietra alle spalle di Caspar. Tutti quei musicisti jazz e blues sembravano compatirla dalle loro cornici di legno scuro.
- Sei di New York?
Le chiese facendole capire implicitamente che preferiva chiudere il capitolo parenti cambiando discorso, annotò mentalmente di non nominare mai più questa Albida.
- Oh no, sono di Lodi. New Jersey.
Si aspettò una battuta. Tutti facevano battute sul New Jersey, anche lei.
- Una ragazza del Jersey, chissà perché tutti ne parlano male.
- Non sei di New York quindi.
- Perché?
Chiese lui incuriosito.
- Un vero newyorchese avrebbe storto subito la bocca a sentire “New Jersey”.
- Mi hai beccato. Non sono nato qui ma ho sentito dire che se vivi per almeno dieci anni a New York puoi considerarti a pieno titolo newyorchese. - si interruppe per portare alle labbra il bicchiere pieno di liquido ambrato, poi riprese.
- Cosa studi?
- Seguo i corsi di letteratura e scrittura creativa alla NYU, vorrei diventare insegnante di letteratura inglese un giorno.
- Davvero?
Caspar aveva un'espressione così incredula da farle pensare che la stesse prendendo in giro.
- Certo, davvero. Sono un'appassionata di letteratura inglese.
- Fammi indovinare... Jane Austen?
- Sì... come?
- A tutte le ragazze piace Jane Austen, la ritieni anche tu una precorritrice del femminismo?
- Beh, sì! Ha raccontato perfettamente la condizione femminile della sua epoca, ed era una donna intelligente, sveglia, con un grande senso dell'umorismo. Ha dimostrato che non eravamo solo belle statuine in attesa di un marito ma avevamo anche spirito critico, è così che la penso.
Pensò di essersi lanciata in una difesa fin troppo accalorata della sua beniamina ma nutriva per lei un affetto sincero, come se si trattasse davvero di una sua amica e mentore. Aveva letto Orgoglio e Pregiudizio per la prima volta a sedici anni e da allora lo rileggeva con piacere almeno una volta l'anno, adorava le peripezie delle sorelle Bennet e l'amore rispettoso tra il signor Darcy ed Elizabeth.
- Sai che non si è mai sposata? Te lo dico io chi era Jane Austen: una zitellaccia inacidita che alle feste faceva tappezzeria solo per poter sparlare degli amici nei suoi romanzi.
Kitty boccheggiò per l'indignazione.
- Ora solo perché una donna non si sposa non vuol dire che sia una zitella! E'... è... libera! Non serve per forza un uomo per sentirsi complete e appagate nella vita.
Caspar scoppiò in una risata sonora talmente genuina da essere contagiosa, prima di rendersene conto stava ridendo con lui.
- Kitty... Kitty non era il nome della sorella Bennet scema?
- No! Quella che fugge con Wickham è Lydia. Kitty è l'altra sorella, quella che le sta sempre attaccata ed è troppo scialba per trovare un corteggiatore.
- Tua madre ti ha chiamato così in onore suo?
Non la infastidiva che la punzecchiasse a quel modo, era come se tra di loro stesse nascendo una sorta di complicità.
- Ovviamente no. Semplicemente le piaceva Katherine come nome.
- Anche perché tu non sei affatto scialba.
Si fissarono in silenzio per un lungo istante. Le pagliuzze dorate negli occhi verdi di lui sembravano risplendere nella luce soffusa del locale. Le loro mani erano entrambe poggiate sul tavolo, a poca distanza l'una dall'altra, un minimo sforzo e si sarebbero sfiorate. Kitty desiderò in quell'istante che lui allungasse l'indice e le accarezzasse il dorso della mano, le sarebbe piaciuto scoprire che effetto le avrebbe fatto.
- Oddio ti ho trovata!
- Cassie? Che è successo?
La sua amica era piombata brutalmente nella sua fantasticheria facendola sobbalzare. Il viso paffuto era rigato di rivoli di lacrime scure, era così sconvolta che dalla sua bocca continuavano ad uscire solamente singhiozzi spezzati.
- Calmati!
Kitty si alzò in piedi per consolarla, Caspar rimase seduto ad osservare le due non osando intromettersi.
- Sono tutti uguali! Tutti porci... aveva già la ragazza! E io come una scema!
Cassie si gettò su Kitty stritolandola, aveva un bisogno disperato di essere consolata.
- Ora mi racconti tutto, d'accordo?
Kitty la guidò gentilmente verso il guardaroba, si voltò dispiaciuta verso Caspar scusandosi con lo sguardo per quell'interruzione brusca. Lui scosse la testa sorridendo appena, come a dire che non c'era alcun problema.
Aveva sentito della tensione tra loro, c'era stato un attimo in cui... “Chissà” si disse “chissà se ci sarà occasione di parlare ancora”.
- Chi è quel figo?
Le chiese la vocetta acuta di Cassie mentre si allontanavano da Caspar.

Per ore Cassie non aveva fatto che ripetere le stesse parole: “porco”, “aveva già una ragazza” e “sono stupida”; Kitty aveva continuato a ribatterle che non doveva dire così, che capitava a tutte di beccarsi una fregatura nella vita e che lei era una ragazza fiduciosa e non stupida.
All'ennesimo cliente che si era avvicinato al guardaroba con la faccia perplessa però era sbottata: Kitty sembrava una pazzoide che parlava da sola perché Cassie aveva insistito per sedersi a terra solo per non farsi vedere col trucco sbavato.
- Vuoi venire fuori di lì? Ormai non c'è quasi più nessuno!
- No! Quando chiuderete uscirò. Oh mi è colato tutto il mascara, è tutta colpa di quel porco!
Sperò che non ricominciasse l'ennesima geremiade sul “porco”. Girò gli occhi al cielo esausta, aveva quasi esaurito la pazienza.
In lontananza Caspar stava finendo col calma il suo drink e la ragazza pensò che sarebbe stato bello continuare a parlare con lui, non le aveva nemmeno detto dov'era nato. Lo guardò mentre chiamava Allison con un cenno elegante della mano e le lasciava la mancia senza stupide battute, Kitty notò l'espressione sollevata di Allison e sorrise. Forse si era davvero sbagliata su di lui.
“Il signor Darcy!” esclamò una voce nella sua testa “la prima impressione è stata pessima e invece lui è una persona meravigliosa proprio come nel libro” scacciò quel pensiero fin troppo entusiasta e potenzialmente pericoloso. Poteva flirtare con lui in maniera innocente ma niente di più; in fondo era appena uscita da una relazione perché il suo ragazzo la tradiva, era proprio il caso di andare a infilarsi in una storia con un tizio che aveva il vizio di uscire con due o tre modelle per volta?
Decisamente no.
- Come si chiama quel tipo?
Cassie interruppe il flusso dei suoi pensieri, sembrava essersi sufficientemente ripresa dal suo trauma sentimentale.
- E' solo un cliente fisso.
- Gli piaci.
Affermò sicura la ragazza, le gambe grassocce allungate sotto lo sgabello di Kitty.
- Ti guardava in un certo modo... quanti anni ha? Trenta?
- Non saprei, credo di sì, meno forse... ma non mi guardava in nessuno modo, che dici! Chiacchieravamo solo... e poi a lui piacciono le top model.
- Tu sembri una top model!
Kitty scosse la testa scettica.
- Ma non prendermi in giro.
- Stai scherzando? Sembri uscita da una pubblicità di profumi! Pensa che non ti volevo affittare nemmeno la stanza perché eri troppo carina e mi stavi antipatica.
Le due scoppiarono a ridere insieme.
- Grazie. Quel deficiente fidanzato non ti meritava affatto.
Cassie si strinse nelle spalle, gli occhi ormai asciutti, e annuì.
- Fa sempre male però.
- Arrivate a casa ci guardiamo “Friends” e ti faccio i waffles?
- Sì!
Friends funzionava sempre alla meraviglia come antidepressivo con Cassie.
Mentre si occupava di un gruppetto di clienti alticci, si accorse degli occhi di Caspar su di sé e trasalì, c'era qualcosa nella potenza felina del suo sguardo che le fece venire la pelle d'oca.
Era come se si trovasse lì di fronte a lei invece che a metri di distanza con persone, tavoli e sedie tra di loro. “Ti stai cacciando nei guai” si disse seria “guai grossi” e per quella sera decise che non avrebbe arrischiato altre confidenze.
Quando poco dopo si presentò al guardaroba fu felice di avere Cassie come scudo.
- Io vado.
Disse lui e la sua voce sembrava più profonda del solito. Kitty si voltò impacciata verso i cappotti rischiando di inciampare sulle gambe di Cassie, da sotto il bancone la sua coinquilina la guardò con gli occhi supplichevoli fuori dalle orbite continuando a chiederle scusa sottovoce.
- Ecco il tuo cappotto...
Sul palmo bianco e delicato il gettone lucido del guardaroba era invitante come una pietra preziosa. Kitty lo raccolse sfiorandolo appena con le dita lunghe e di nuovo gli occhi rapaci di Caspar si fissarono nei suoi, sopraffacendola. Ritirò la mano intimidita.
- Ciao...
Gli sussurrò muovendo appena le labbra.
- A presto.
Rispose lui e la lasciò lì come una sciocca con la bocca inaridita e lo stomaco attorcigliato dall'emozione.

Il test era andato bene, se lo sentiva. Doveva esserlo andato per forza perché aveva letto “La storia di A: l'alfabetizzazione d'America dal New England Primer a La lettera scarlatta” così tante volte che solo a vedere la copertina aveva la nausea. Ora mancava solo l'esame di filosofia e poi le vacanze di Natale le avrebbero dato un po' di respiro: pensare ai disgustosi intrugli di cioccolata calda e marshmallow che avrebbe fatto con i suoi fratelli le dava il buonumore necessario ad andare avanti.
In salone Georgie e la sua migliore amica, Eden, si stavano preparando per un esame di economia, o almeno così avrebbero dovuto fare.
- Allora non ti va di andare al Trash stasera?
- No. Bah, mi devono venire le mie cose.
Georgie se ne stava sdraiata sul pavimento, completamente spompata.
- Ma non ti devono venire tra una settimana?
- Che fai controlli? Io ho la sindrome premestruale. E' un disturbo sai?
- Sei solo pigra.
Eden la pungolò con un piede, indossava dei calzini carini con le zucche di Halloween sopra. Peccato essere in dicembre.
- Ciao ragazze.
Le due ricambiarono il saluto di Kitty, Eden alitò sui suoi spessi occhiali vintage nell'inutile tentativo di pulirli, le lenti erano graffiate da entrambi i lati, poi si illuminò.
- Ho saputo che hai uno spasimante nuovo!
- Non ti si può raccontare niente... scusa Kitty!
Aveva ribattuto Georgie lanciando un'occhiataccia all'amica, i capelli ricci e biondi le incorniciavano il viso come un'aureola. Indossava un lungo maglione grigio di lana spessa sul quale aveva applicato una spilla di stoffa a forma di rosa e dei logori jeans aderenti sulle gambe magrissime. Forse non era bella per quelli che erano i canoni classici, eppure Kitty la trovava estremamente interessante e carina, molto più di tante oche che si vedevano in giro convinte di essere chissà che.
- Figurati. Non è uno spasimante, non ci sono neanche mai uscita a dire il vero...
- Cassie mi ha raccontato che ti ha detto “a presto” come se ti volesse togliere le mutande.
- Cosa?! - esclamò Kitty avvampando per l'imbarazzo - Ma se non lo ha neanche visto che era nascosta sotto il bancone. Lei e le sue fantasie depravate!
- Sarà... ma in questi casi ci prende sempre.
Ribatté Georgie seduta a terra con le gambe incrociate e le braccia conserte come un guru indiano.
- Quanti anni ha? E' ricco?
- Non saprei, forse 28 o 29. Sembra uno coi soldi, l'ho visto spesso insieme a delle modelle... anche quella scomparsa usciva con lui.
A quell'affermazione le ragazze si guardarono l'una con l'altra mugugnando di disapprovazione. Kitty si chiese se nel suo tono di voce si sentisse l'invidia. Doveva essere realistica: come poteva un uomo che usciva con una bellona come Silvia Braga passare a una studentessa insignificante come lei? Probabilmente l'aveva corteggiata solo per noia visto che quella sera era solo e lei ci aveva ricamato sopra un po' troppo, proprio come era successo al secondo anno di liceo.
Lui si chiamava Dale Bowen, era più avanti di un anno nonché quarterback della loro squadra e come se non fosse abbastanza somigliare a Ryan Reynolds era anche molto simpatico e socievole. Con grande sorpresa sua e della sua migliore amica di allora, Audrey, in un luminoso giorno di marzo l'aveva salutata chiamandola per nome all'uscita di scuola. Quell'incredibile evento aveva dato il via a una serie di congetture sempre più fantasiose finché non si era ripetuto più volte, confermando la più sensata delle loro tesi: Dale voleva chiederle un appuntamento. Kitty aveva aspettato speranzosa per giorni e settimane e ogni volta che lo incrociava nei corridoi, sempre meno casualmente, non poteva fare a meno di fissarlo speranzosa che quella proposta sarebbe arrivata.
Alla fine l'attesa aveva così snervato entrambe, Audrey era quasi più isterica di lei, che Kitty aveva deciso di scambiare con lui qualcosa di più di un semplice “ciao”. Una fortunata coincidenza aveva voluto che Dale si trovasse seduto da solo sul muretto basso di fronte al campo di football e Kitty ne aveva approfittato coraggiosamente. Ricordava ancora come i raggi del sole si infrangevano in mille riflessi dorati sui suoi capelli castani incantando il suo sguardo di quindicenne innamorata.
- Ciao!
Aveva detto piombandogli di fronte totalmente sicura di sé.
- Ciao...
Era stato il saluto distratto che le aveva rivolto prima di tornare a occuparsi dei suoi scarpini. Leggermente confusa era rimasta imbambolata qualche secondo prima di riprendere coraggio e farsi di nuovo avanti, “sarà anche un quarterback ma è un timidone” aveva pensato convinta.
- Come stai?
- Bene.
Stavolta non aveva nemmeno alzato lo sguardo dalle scarpe.
- Ti va di parlare?
- Uhm... veramente sto aspettando i miei compagni, saranno qui a minuti. Comunque grazie.
“Cosa diavolo hanno quelle scarpe di così interessante?” si era chiesta sempre più seccata. Ostinata gli si era seduta accanto e lui l'aveva guardata ma non nel modo in cui lei si era aspettata, anzi, sembrava pure un po' infastidito.
- Allora...
Il silenzio su di loro aveva un che di mortificante. Dale non sembrava minimamente intenzionato a parlarle e anzi fissava il campo di football a disagio, ma allora che senso aveva che avesse iniziato a sorriderle e salutarla quando in due interi anni non l'aveva mai nemmeno guardata?
Qualcosa in lei, forse l'idiozia, la spinse a parlare ancora.
- Ti piace andare al cinema? Ti va di andarci con me?
Lui l'aveva guardata con un misto di compassione e imbarazzo.
- No grazie, ho anche già la ragazza.
Un'ondata di calore l'aveva investita da capo a piedi; il primo impulso, quello di sotterrarsi in quel punto preciso del campetto, lasciò però il posto a una cocente indignazione. Non si salutavano le altre se si era fidanzati con una cheerleader e soprattutto né lei né Audrey erano delle pazze visionarie perché le sue avances c'erano state eccome.
- Tu volevi uscire con me!
Aveva esclamato all'improvviso puntandogli addirittura il dito contro. Ripensandoci ora, a distanza di anni e addirittura in un'altra città, aveva ancora voglia di andarsi a nascondere sotto la coperta per la vergogna.
- Io? Ma... ma... non ho mai detto nulla di simile!
L'aveva guardata come se lei fosse Glenn Close in Attrazione Fatale, sbalordito e spaventato.
- Cioè non l'hai detto, però tutti quei “ciaoo”, eh? Eh?
Già sentendosi parlare aveva capito di aver detto un'assurdità ma ormai era così lanciata che non riusciva a trattenersi.
- Tu non sei la figlia di Martino? Il signore che ha l'impresa edilizia?
- Sì...
Si era chiesta cosa c'entrasse il suo patrigno all'improvviso, probabilmente era un subdolo tentativo di cambiare discorso.
- Ha fatto i lavori a casa nostra qualche settimana fa e quando ha saputo che andavamo a scuola nello stesso liceo mi ha chiesto se ti conoscevo, così quando ho capito chi eri ti ho salutato per cortesia. Non te lo aveva detto?
- No...
Una catastrofe, una nave aliena, un tornado. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene se avesse avuto il potere di farla scomparire all'istante da quel dannato muretto. Alla fine si era allontanata in silenzio, le spalle incurvate e non si erano salutati, né era più capitato che succedesse per il resto del liceo.
Adesso Eden e Georgie stavano parlando con orgoglio di una loro amica accampata da qualche giorno davanti alla sede della Borsa e stavano decidendo se unirsi a lei prima o dopo gli esami. Kitty si accoccolò pensierosa sul bracciolo di una poltrona non prestando ascolto alle due.
Con Caspar sarebbe finita come con Dale: tante congetture, fantasie e sospiri e poi sarebbe rimasta con un pugno di mosche.
Quasi desiderò che quel week end saltasse la sua consueta visita al Bar 66.

Invece non l'aveva saltata. Puntuale come ogni venerdì si era presentato verso mezzanotte accompagnato da due grissini tutti occhi e bocca. Si guardavano intorno stolidamente, bisbigliando e ridacchiando come due ragazzine. Quando si erano presentati al guardaroba Kitty non aveva battuto ciglio.
- Questo è il vostro gettone, non perdetelo.
- Se no che fai, ci sequestri i cappotti?
Aveva detto quella delle due che sembrava orientale, con i capelli di una impossibile tonalità di giallo, l'altra era scoppiata a ridere in maniera grottesca risucchiando l'aria. Kitty aveva girato gli occhi al cielo evitando per quanto le era possibile di guardare Caspar in viso.
Se possibile quella sera era ancora più affascinante, indossava una camicia rosso scuro che doveva costare uno sproposito e il verde degli occhi risaltava come mai prima d'ora.
“Che scema” pensò voltando le spalle alla sala gremita “mi sono anche arricciata i capelli con il ferro” e prese tra le dita uno spesso boccolo color caramello lisciandolo nervosamente. La maledizione di Dale colpiva ancora.
In fondo era meglio così, era già troppo interessata a lui e lei non era tipo da vivere avventure con leggerezza. Purtroppo Kitty apparteneva alla tragica categoria delle romantiche per cui dare un bacio alla francese significava già essere legate ad un uomo. Lui no, sicuramente no.
Mentre lo guardava parlare seduto tra quelle due bambole viventi, Kitty si chiese cosa mai potesse trovarci in tipe del genere; non partecipavano nemmeno alla conversazione e si limitavano a guardarlo con espressioni beote ridendo, nel caso di quella più alta ragliando, solo per compiacerlo. D'accordo, erano senza dubbio belle ma non le trovava terribilmente noiose? Quando aveva parlato con lui quella sera l'aveva visto ridere di cuore e questa cosa non era mai accaduta in compagnia di quelle oche che si portava dietro, ne era sicura.
Meglio così, si ripeté per la decima volta da quando lo aveva visto scendere le scale d'ingresso, meglio così.
Allison si avvicinò alla sua postazione in cerca di chiacchiere, le efelidi le coprivano tutto il viso e ogni volta che la vedeva parevano aumentare.
- Eric non ci paga abbastanza per sopportare questi stronzi... guardali, tutti modaioli che pensano di essere alternativi perché vanno a sentire il blues nel Greenwich Village... che odio.
- Qualcosa non va?
La ragazza si appoggiò al bancone tesa, Kitty poteva vedere solo la sua nuca coperta di ispidi capelli color carota.
- No, niente. E' il Natale che si avvicina.
- Tua madre ancora non ti parla?
- No.
Allison espirò rumorosamente, erano entrate piuttosto in confidenza da quando qualche mese prima Kitty l'aveva sorpresa a piangere nello spogliatoio. Da due anni aveva confessato ai suoi genitori di essere lesbica e loro appartenevano a una chiesa molto rigida per cui dapprima avevano cercato di convincerla a “convertirsi” ma quando la ragazza si era opposta l'avevano completamente esclusa dalla loro vita. Se si presentava alla loro porta gliela chiudevano in faccia, non le rispondevano al telefono e persino i suoi altri parenti la evitavano con imbarazzo. Era diventata una paria.
Kitty si era chiesta come fosse possibile voltare le spalle a una figlia in un modo tanto crudele, come potevano definirsi genitori persone simili? Per fortuna Karen, la sua ragazza e futura sposa, le era sempre vicina e anche i suoi genitori l'avevano accolta con calore.
- Passerà presto dai... e poi con Karen non andate a Parigi a gennaio?
- Sì- esclamò improvvisamente rallegrata - ti farò da apripista, sto solo una settimana ma posso prendere informazioni per te, se vuoi.
- Non c'è ancora niente di sicuro, non so neanche se ho passato questi esami!
- Certo che li hai passati, da che ti conosco sei sempre andata benissimo. Ti ci vedo proprio a Parigi, assomigli pure a Sophie Marceau! Oddio guarda quelle, sono un insulto alle donne...
Ovviamente Allison si riferiva alle amiche di Caspar, si erano alzate in piedi e fingevano di posare per un fotografo. Di Playboy a giudicare dalle posizioni volgari in cui si mettevano.
- E dire che ultimamente Milord sembrava meno stronzo.
Continuò la ragazza guardando schifata le due modelle.
- Dici?
Kitty fissò torva le due ragazze per qualche istante, poi si accorse di essere osservata a sua volta. Gli occhi verdi di Caspar erano posati su di lei, il viso scolpito aveva un'espressione quasi feroce, predatoria, come quello di un leone acquattato tra l'erba alta di una savana. Kitty sostenne lo sguardo e poi scosse la testa, un sorrisetto derisorio le incurvava le labbra color fragola, Caspar raccolse il suo sorriso rilanciandolo.
Con un gesto chiamò le due che erano avvinghiate l'una all'altra per attirare la sua attenzione ma che avevano avuto successo solo con i ragazzi del tavolo accanto. Si sedettero accanto a lui speranzose poi Kitty vide i ghigni scomparire dalle loro facce visibilmente deluse, nel frattempo lui continuava a fissarla.
Si erano alzate seccate, le facce scure promettevano tempesta, arrivate al guardaroba trovarono già i loro cappotti sul bancone. Allison le guardò allontanarsi stupita e ancora più stupita vide Caspar avvicinarsi e fare questa domanda a Kitty:
- Esci con me?
- Non sono il tuo tipo.
Ribatté la ragazza seria.
- Fai la difficile Hello Kitty?
Lei lo fulminò con lo sguardo ma non poté fare a meno di sorridere.
- D'accordo ma niente idiozie.
- Che vuoi dire?
- A me non interessano le limousine, i gioielli, i party e tutte le altre stronzate... voglio solo conoscerti.
- Anch'io.
E mentre lo aveva detto era suonato terribilmente sincero. Allison continuava a guardarli sbalordita, la bocca semiaperta.
- Domani sera sei libera?
- Lo è!
Aveva ribattuto la cameriera prima di poterselo impedire.
- Scusate non volevo intromettermi...
Così dicendo si era allontanata per tornare ai tavoli.
- Sono libera.
Gli aveva lasciato il suo indirizzo, lui sarebbe passato a prenderla alle otto.
Quella notte Kitty non fece altro che rigirarsi nel letto ripensando a quegli intensi occhi verdi e a quei capelli nerissimi. “Al diavolo Dale Bowen” fu l'ultima cosa che pensò prima di addormentarsi.

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