Writing Against The Music

di Aeternum
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ci han concesso solo una vita ***
Capitolo 2: *** Don't you remember? ***
Capitolo 3: *** What is Love? ***
Capitolo 4: *** Breakin' The Chains ***



Capitolo 1
*** Ci han concesso solo una vita ***


Considerato che è il mio primo lavoro... per cortesia, non siate troppo cattivi..
ps: il ragazzo del testo è un diciassettenne, non io .-.




Le orecchie bruciano. Bruciano per il troppo rumore. In silenzio resto, mentre la musica mi fa da sfondo rompendo ogni mio schema mentale, lasciando il vuoto dietro sé. Nella mia mente ritrovo solo parole, parole vuote e prive di senso, parole che si mischiano ai testi di questa musica che non ha niente a che vedere con quello che invece sento dentro.
È tutto così strano, così assurdo, così… non lo so. Forse dovrei alzarmi dal letto e spegnere lo stereo, ma non ne ho voglia. Ho il cranio talmente vuoto che se mi alzo ho paura di mettermi a galleggiare per la stanza come un palloncino ad elio.
Fermo, immobile nel letto, mi chiedo come sia possibile che il mondo a diciassette anni sembri così dannatamente vasto che pare che tutte le emozioni possano scivolare via, perdersi in questo immenso niente che racchiude la vita. Eppure se ci penso ho l’impressione di aver sbagliato tutto finora, come se avessi lasciato che la mia vita scorresse lenta, senza che io la vivessi appieno; come se avessi desiderato dire una cosa e invece ne avessi detta un’altra. Ma non importa perché la canzone cambia, e adesso ci sono parole nuove di una vecchia canzone a riempire di note la mia camera. L’ascolto in silenzio, socchiudendo piano gli occhi, immergendomi nelle sue parole sussurrate quasi controvoglia.

“Ci han concesso solo una vita,
soddisfatti o no, qua non rimborsano mai”


e mi viene da pensare che questo tizio abbia ragione, e che forse, anche se sono solo un diciassettenne, io e quest’uomo abbiamo qualcosa in comune.
Penso che vorrei cambiare ogni cosa della mia vita, raderla a zero e cominciare tutto, ma proprio tutto daccapo. Sarebbe bello uscire appena adesso dal pancione di mia madre e fare capolino nel mondo con un vagito, il mio primo segno di vita, il mio primo richiamo all’attenzione del mondo. Quanti sguardi felici che attirerei su di me... La mamma che tende le sue braccia desiderosa di avermi accanto a sé, papà che si commuove e che non vede l’ora di scattarmi la sua prima foto.

“Strade troppo strette e diritte
per chi vuol cambiar rotta oppure sdraiarsi un po’,
che andare va bene però a volte serve un motivo, un motivo…”


Già, ma qual è il motivo per mandare avanti la mia vita? Innamorarmi della bellezza e del candore di una dolce ragazza? No, sul serio, quello l’ho già fatto, e dall’esito che ne ho riscontrato posso dire con somma certezza che no, non è un valido motivo per andare avanti.
Rosa, con la sua bellezza in quegli occhi di fata turchina, la sua schiettezza nel dire sempre le cose, la sua pelle vellutata che pareva sempre dire “sfiorami!”, adesso non ha più alcun valore per me.
Fino ad una settimana fa pensavo che lei fosse il centro della mia vita, il sorriso perfetto sulle mie labbra, il sogno che non ricordi al mattino, il raggio di luce che ti ferisce la vista in un tramonto estivo… insomma, il mio tutto. Il mio piccolo universo privato.
Quante cose cambiano in una settimana…
Eppure trovo ancora il coraggio di immaginarla qui, accanto a me, a baciarci e scambiarci dolci effusioni come facevamo poco tempo fa. Ma ecco che il coraggio si tramuta in paura. Paura di cadere in una parvenza di ridicolezza, o peggio di spezzare quella nuvoletta di sogno su cui sto galleggiando. Ma appunto è solo un sogno, e deve essere infranto. Perché lei non ritornerà.
Perché le cose non sono quasi mai semplici e facili? Perché la vita deve sempre rovinare tutto? Perché i sentimenti devono sempre cambiare rotta? E perché la gente trova sempre il modo di rimpiazzarti? Possibile che siamo così inutili nella vita dell’altro, che basta la presenza di un’altra persona per colmare la nostra assenza?
Rosa ti odio. Ti odio con tutto me stesso. E non sto piangendo per colpa tua. No. Sto piangendo perché mi sento uno stupido. Un emerito coglione che è caduto nel tranello della vita, sì, quel fottutissimo tranello che la gente si ostina a chiamare “amore”, quella trappola per topi a cui tutti anelano, come se fosse la felicità.
Non è possibile… La vita non può farmi questo.
Vi prego, fermate tutto. Voglio scendere da questa giostra infernale.

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Capitolo 2
*** Don't you remember? ***


Sono passati otto giorni. Otto giorni di silenzio. Il mio cellulare è rimasto fisso, immobile, nella tasca dei miei jeans. Nessuno che mi abbia mandato messaggi a metà mattinata per dirmi “raggiungimi alle macchinette. Voglio vederti” oppure un semplicissimo “ciao, come va?”. Per non parlare degli amici poi, che sapendo come me la passo da quando Rosa mi ha lasciato, si sono come dileguati, spariti dalla circolazione. Neanche potessi scagliare su di loro la mia rabbia e frustrazione…
Che poi si nascondono dietro quella scusa falsa come il mondo, il classico “mi spiace, ma non ho soldi” quando poi sai benissimo che hanno attivate quelle promozioni che ti fanno spendere zero euro per mandare cento sms al giorno.
Guardo Stè, il mio migliore amico, seduto a qualche banco di distanza. Sta platealmente mandando un messaggio, il cellulare nascosto dietro l’astuccio per non farsi beccare dalla prof di mate. E mi viene naturale non farmi i cazzi miei, anzi, lo imito, ma il mio messaggio è rivolto proprio a lui, a Stefano. Gli scrivo “e menomale che non avevi soldi nel cell, se ce li avevi che facevi? Mi tempestavi di sms?”. Lo so, a volte dovrei tenere certe cattiverie per me, ma in questo momento non resisto, tant’è che dopo aver letto il messaggio si volge verso di me con una faccia dispiaciuta. Ma in fondo è il mio migliore amico, non posso non perdonarlo…
A ricreazione infatti ci spieghiamo meglio, e mi dice che anche lui non sta affrontando un bel periodo, ma non indago, ci diamo vicendevolmente un pugno sulla spalla e un brevissimo abbraccio. Ed ecco che pace è fatta. Siamo fatti così noi due, possiamo stare lontani per giorni e giorni, incazzati neri, col muso più lungo di sta terra eppure basta che uno dei due si avvicini all’altro che tutto torna come prima.
Ho sempre creduto che quello che mi unisca a Stè sia qualcosa di speciale, di diverso dalle solite amicizie, qualcosa di più profondo ecco. È come se fossimo due gemelli separati alla nascita. Non so se mi spiego, ma pare che quello che ci leghi sia una sottospecie di legame di sangue, no anzi, è molto più forte. Un legame del genere, anche se avessi un fratello, non sarei in grado di crearlo. È qualcosa di speciale, ecco tutto.
Perso nei miei pensieri, con una domanda mi riporta alla realtà. Stè vuole sapere se stasera esco con lui e gli altri della comitiva. E perché no in fondo? Ho bisogno di uscire. Ho bisogno di riprendermi un po’. Ho bisogno di aria. Ho bisogno di vita…
Alla fine però finiamo al solito bar, tutti con una birra in mano e un sorriso stampato in faccia, ma questo non è il solito sabato sera, non è la classica serata alcolica da passare in libertà. Stasera non si decolla né con la testa né con la fantasia. Resto coi piedi inchiodati al cemento, neanche avessi delle scarpe di piombo che m’impediscano di volare. E forse è un po’ così, anche se io, senza Rosa, mi sento più come un gabbiano senz’ali.
Non c’è proprio storia che tenga stasera. Non riesco a togliermela dalla testa. Ripenso a lei, a noi, a questo bar, ai suoi divanetti neri che ne hanno viste proprio di tutti i colori.
[Oh, ragà! Mi sa che vado…] e mi alzo. Non ce la faccio a stare lì. Quel posto sa troppo di noi.
I miei amici mormorano qualcosa per simulare il loro dissenso, ma me ne fotto, anzi, mi allontano. Stè mi viene subito incontro, mi mette una mano sulla spalla domandandomi se me ne vado perché sto pensando ancora a lei. Che cazzo vuoi che ti risponda? Sì, sì e sì. Sì, penso ancora a lei!
Invece me la sbrigo con una piccola risatina, aggiungendovi anche [Lei chi?] come se non capissi di chi stesse parlando. Ovviamente non ci casca, ma mi lascia andare via. Via da questo posto, da questi divanetti infernali, da quei cessi che puzzano di piscio, da Ema, quel barista tutto matto.
Mi viene a prendere mio padre. Mi chiede come mai la mia serata sia già terminata, ma gli rifilo la classica stronzata [Serata moscia, non c’era il ritmo giusto], e il discorso finisce lì, con un suo lento annuire col capo.
Apro il finestrino perdendomi in questo tremendo blu notte sopra di noi, l’aria fredda che mi ghiaccia il viso. Non si vede niente se non fosse per i fari accesi. Se mio padre avesse bevuto potremmo finire schiacciati contro il guardrail senza nemmeno accorgercene. Sai quanti ci sono passati, quanti di loro che sono morti così…
Ma chissenefotte di morire. Scegliere la morte è troppo facile quando hai perso tutto. Anzi, è l’ennesima prova che sei un perdente, perché dimostra che ti sei piegato alla vita, che hai preferito dirle addio invece di alzare la testa e combatterla. E io devo combatterla questa vita, devo vivermela fino in fondo. Eppure… non adesso. Adesso voglio solo tornare a casa e stendermi nel mio letto. Ma a quanto pare neanche infoderato sotto le coperte riesco a rilassarmi, a concedermi un attimo di pace. La mente continua a vagare, e inesorabilmente si posa su quei bei dolci ricordi. Ricordi di un passato che non tornerà più. Immagini che potranno vivere e colorarsi solo nella mia mente, perché in quella di Rosa sono già diventati cenere, un ammasso di polvere grigia da buttare nella spazzatura.
Che strana cosa la vita, eh?
E dire che una volta avevo urlato al mondo, al cielo azzurrissimo sopra la mia testa, un “Ti amo!” a squarciagola. Un grido che aveva squarciato il cielo e fatto tremare la terra.


***


Non ce la faccio. Non ce la faccio proprio. Dinanzi alle pupille ho la sua immagine stampata che mi costringe a notti di buio e insonnia.
Vedo i suoi capelli lunghi, neri, lucenti. Capelli che le sfiorano la schiena nella più delicata delle carezze. Capelli che non avrei mai smesso di toccare, perché intrecciare le mie dita in quella chioma liscissima, era puro piacere. Amavo vedere quel contrasto netto tra capelli neri e pelle candida, nivea, la pelle più morbida che io conosca. Quante carezze hanno sfiorato quelle guance leggermente rosate, quanti baci. Te lo ricordi Rosa? O hai dimenticato anche questo?
E i suoi occhi… com’erano belli. Riesco ancora ad immaginarmeli. Quelle due pozze turchese in cui m’è sempre piaciuto affogare, perché ero convinto che potevo guardarle dentro, guardarle l’anima, ed ero sicuro che tutto quello che riuscivo a leggere fosse il suo amore per me.
La credevo sincera quando mi diceva quei “ti amo” sussurrati a mezza voce, con quegli occhioni suoi tremendamente lucidi che pareva un’eresia pensare che stessero mentendo.
Per non parlare della sua bocca. Molto fine, delicata, il labbro superiore quasi nascosto. Pronunciava le parole più belle del mondo, o almeno a me pareva così, perché tutto ciò che ne usciva sembrava semplice melodia. Qualcosa di talmente armonioso con tutto ciò che ci circondava, che avrei potuto starla ad ascoltare per ore intere, così, senza fiatare, senza mai dir nulla. Le parole a volte si rincorrevano veloci, ma questo solo quand’era nervosa, perché se c’era qualcosa che la preoccupava allora restava in silenzio, il capo chino, molto probabilmente a rimuginare sui suoi dilemmi. E io allora m’immaginavo sempre tutti quei possibili discorsoni che lei si faceva in testa, e tutte le possibili conversazioni che avrebbe invece potuto avere con me qualora mi avesse svelato i suoi dubbi, le sue paure, le sue angosce. Ma alla fine c’era ben poco da dire. Lei si stendeva lentamente sul mio letto, leggermente rannicchiata su se stessa come una bambina che cerca il conforto delle braccia di un adulto. Ed io l’abbracciavo, la tenevo stretta a me, le baciavo i capelli, le sussurravo il mio amore infinito e incondizionato.
Come hai potuto cancellare tutto questo, Rosa?
Non riesco a non pensarci. Chiuso nel buio claustrofobico di questa stanza e queste lenzuola, mi ritrovo ancora una volta a ricordare. E ricordare fa male, brucia l’anima, condanna l’esistenza, ma non riesco a farne a meno. È più forte di me…
Era metà Ottobre, e Rosa ed io avevamo deciso di uscire finalmente insieme. A pensarci bene, quella era la nostra prima vera uscita. Già, perché di solito c’incontravamo sempre a scuola. Durante le ricreazioni parlavamo molto, ci baciavamo, ridevamo… ma poi ognuno per la sua strada. In fondo abitiamo anche in due città diverse. Lei è di Gorizia, io di Monfalcone. Vederci risultava un po’ impossibile.
Quel pomeriggio lei era stata da sua zia, che abita praticamente a qualche isolato di distanza da casa mia. A scuola c’eravamo messi d’accordo: appena esci fammi uno squillo che passo a prenderti. Voglio mostrarti una cosa spettacolare.
Mi prese in parola, così andai a prenderla col mio motorino e ci dirigemmo a quella spiaggetta che per quanto ne sapevo, doveva essere più che solitaria.
Ricordo ancora la sua paura una volta salita in sella, il suo stringermi a sé con forza, il suo urlare “vai piano!” nel vento che ci sfrecciava accanto, i caschi che appiattivano i nostri capelli fino ad incollarceli al viso.
Non ci mettemmo molto, ma quando scese iniziò a ripetermi una serie di frasi sconclusionate, ma il succo era “Tu sei un pazzo! Dovresti guidare più piano! Non voglio morire giovane!”, che dette da lei però, sembravano solo le parole di una canzone ancora da inventare.
Ridendo per quelle sciocchezze, posammo i caschi accanto al motorino, io che le dicevo di stare zitta e intanto la prendevo per mano.
Avevo parcheggiato sotto agli alberi, quindi la spiaggia era ancora un po’ lontana e totalmente invisibile alla vista, tuttavia conoscevo un metodo infallibile per farla rimanere di stucco per la sorpresa. Le lasciai andare semplicemente la mano, quindi le diedi una leggerissima spintarella sulla spalla borbottando un [Adesso ce l’hai tu!] pur di farmi rincorrere. Lo so, era alquanto infantile dover ricorrere a quel gioco da bambini, ma era l’unico modo che conoscevo per farla avvicinare a quella spiaggia facendola restare di sasso alla vista di quel tramonto mozzafiato.
Salii quei piccoli gradini di corsa, e poi giù verso la breve discesa diretto alla sabbia vera e propria, a quel mare mai profondo più di due dita.
Come previsto mi corse dietro, ma rallentò l’incedere nel vedermi adesso fermo a fissare l’orizzonte dinanzi a me. Mi voltai quindi verso di lei, un enorme sorriso a dipingermi le labbra, lei che era totalmente rapita da quell’immensa bellezza che si stagliava all’orizzonte.
La vidi deglutire per poi muovere ancora qualche passo verso quel pallone immensamente arancione, il cielo dipinto di tante varietà di rosa, lilla, violetto, azzurro… Era bellissimo. Il tramonto più spettacolare che io avessi mai visto. Era stupendo… ma solo perché c’era lei lì con me.
Sono stato su quella spiaggetta tantissime volte, così tante da aver perso il conto, però… quell’emozione così forte, quel nodo allo stomaco dolorosissimo e al contempo piacevole, non l’avevo mai provato prima d’allora.
[È bellissimo…] mormorò a mezza voce con enfasi, e non riuscii a far altro che dire [Già…] ma in realtà stavo guardando lei. Il mio “bellissimo” era rivolto a lei, non certo a quel sole che tutti i giorni mi vedo piantato sulla testa.
Il cuore mi batteva forte in petto, la salivazione era praticamente a zero. Non avevo mai visto uno spettacolo più bello di quello che avevo dinanzi agli occhi.
I suoi capelli parevano esser diventati d’oro, la pelle che luccicava di una luce particolare. Tutto in lei pareva dire, urlare a gran voce “sfiorami!”. E io mica potevo fare il sordo proprio in quel momento?! Così ricordo che mi sono avvicinato, e col dorso della mano le ho toccato la guancia in una delle carezze più soffici di tutta la storia dell’umanità.
A quel tocco si volse, mi sorrise, e poco dopo le nostre labbra erano premute le une contro le altre. Mi disse che quello era il più bel regalo che una persona le avesse mai fatto…
E forse aveva ragione la mia splendida Rosa straniera, perché quel giorno non le ho donato solo il più bello dei tramonti, ma le ho regalato il mio cuore…


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Capitolo 3
*** What is Love? ***


Domenica. Devo studiare. Ma no cazzo, non c’ho proprio voglia, eppure devo, perché sennò domani quella di storia mi mette due e non è proprio il caso, la mia media fa già schifo di suo.
Sdraiato sul letto di camera mia, volto pagina. Ma che c’era scritto su quella precedente? Boh. Mica me lo ricordo… Se la stessa memoria che ho per il tempo trascorso con Rosa l’avessi anche per la scuola, scommetto che farei felici mamma e papà. Ma alla fine questo libro non mi attira proprio. Ci sono solo cartine geografiche che mostrano i vari spostamenti dei confini con colori diversi. Mi dici che me ne fotte a me dei confini spostati? Che poi si mettono anche a fare giri di parole sti idioti che hanno scritto il libro. Non dico di essere scemo, ma la vita è già complicata di suo, perché queste persone che scrivono i testi scolastici ce la devono rendere ancora più difficile?
La storia non mi è mai piaciuta. Troppe date. Troppi luoghi diversi. Troppi spargimenti di sangue inutili. Io se dovessi fare una guerra, so cosa farei. Prima di tutto riunirei le persone più qualificate, quelle che se ne intendono veramente, quelle che sanno cosa vuol dire conquistare una città. Poi metterei su un bell’esercito, ma non quelle quattro galline spennacchiate e prive di buonsenso di cui ci parla tanto la storia, no, ne farei uno bello forte, potente, resistente a tutto. Una sottospecie di cavalli dopati ma senza doping. Brutali. Forti. Senza pietà per il nemico, escluso i civili. Intelligentissimi. Che sanno mantenere bene le armi e sanno come usarle.
Certo, ai giorni d’oggi tutto questo sarebbe veramente inutile. Oggigiorno c’è la battaglia chimica, microbiologica, quelle cose strane che per un piccolo batterio muore un’intera popolazione. Ecco, se io fossi uno che deve conquistare il mondo penso che metterei in giro i più potenti batteri. Che ne so, il vaiolo, la peste bubbonica, e… boh, non me ne vengono altri. Non è che sono molto informato, e sinceramente m’interessa anche poco diventare il capo del mondo. Vedi il nostro presidente del Consiglio, lui fa tanto il figo ma poi alla fine c’ha tanta di quella gente contro che farebbe meglio solo a sotterrarsi vivo. No, per carità non lo giudico, a me non interessa manco la politica. Sono cose di cui faccio volentieri a meno, anche perché vivo meglio e molto più spensierato, dal momento che non penso a come certa gente che ci governa sta bruciando il mio futuro.
Ma tornando alla storia, mi rendo conto che ho letto –per modo di dire- circa cinque pagine, ma che alla fine non mi ricordo manco mezza parola. Ho un piccolo presentimento per domani. Forse la prof mi metterà veramente due…

***

Due come previsto. Ma in più c’è anche un’enorme sgridata. La prof vuole vedere i miei genitori. Vuole capire perché non mi metto più a studiare.
E adesso come glielo dico ai miei?
Sono nella merda. Merda fino al collo. Sto affogando.
Ho bisogno di risalire in superficie. Ma chi si prodigherà a lanciarmi un salvagente..?
Nessuno…

***

Contro ogni possibile previsione invece, a salvarmi dal mio inferno privato, arriva l’sms di Stè. “T’hanno messo già in punizione?”, chissà che c’ha in mente. Sorrido, scrivendogli un semplicissimo “No, macchè, non gl’ho detto ancora niente!”, e così m’invita ad andare a casa sua, che deve parlarmi di una cosa importante.
Non ci capisco molto anche perché fa il misterioso, però mi vesto ed esco, mamma che come al solito mi guarda male e mi urla dietro che devo studiare,e non andare in giro a divertirmi, e solo io so quanto abbia ragione in questo momento.
Inforco al volo il mio motorino, e in una decina di minuti eccomi a Staranzano, parcheggiato davanti a quella gelateria che fa i gelati più buoni del mondo. Vedo Stè venirmi incontro, ma l’espressione non pare felice. Che è successo stavolta? Provo a chiederglielo, ma lui preferisce parlarne davanti ad un buon gelato, seduti sulla panchina in plastica bianca fuori la gelateria.
[Allora?] domando, infilzando la mia pallina alla nutella col cucchiaino.
[Eh… c’hai presente quella della terza B? Quella biondina strafiga che anche in pieno inverno mette sempre gonne striminzite?] oddio, non dirmi che s’è preso una scuffia per lei! I miei occhi parlano chiaro, ma lui sorride e fa cenno di no col capo [Aspè! C’hai presente che ha un’amica? Capelli castani… mossi… bella da paura! Dai cazzo! Stanno sempre insieme!] la mia faccia da pesce lesso la dice lunga. Di quella classe conosco solo la biondona, ma non è che mi interessi molto, per cui…
[Eddai, fai uno sforzo! Si chiama Elettra!] e a quel nome mi fermo di botto. Il cucchiaino conficcato in bocca.
Elettra la conosco. Come ho fatto a non pensarci prima? Abita nel mio stesso palazzo, solo al primo piano. Non ci becchiamo quasi mai, salvo rari casi eccezionali, ma non le ho mai detto più di uno “ciao” striminzitissimo.
[Sì ok, ho capito chi è, abitiamo nello stesso palazzo… ma perché?] faccio finta di cadere dalle nuvole, come se non avessi già compreso che gli piace da morire.
[Ah sì? Beh insomma, domani usciamo insieme…] me lo dice così, sparaflashato a centottanta all’ora, e non so che dirgli. Non so nemmeno da quant’è che lui le muore dietro. Forse dovevo avere veramente dei prosciuttoni sugli occhi per non accorgermi di niente. Ma non gli dico nulla, anzi, lo lascio parlare. Mi fa una sintesi strettissima di come ha conosciuto Elettra che neanche Giuseppe Ungaretti sarebbe stato capace di fare, quindi mi chiede dei consigli sul da farsi.
Lo conosco, per come è fatto si giocherebbe tutto pur di baciarla al primo incontro, ma non credo che ad Elettra possa andare bene. Di solito alle ragazze non va mai bene niente, o si è troppo mosci o si corre troppo. Forse Stè con lei dovrebbe andarci coi piedi di piombo, farsi zero illusioni, partire con l’idea che anche se non ne nasce niente non deve buttarsi giù. Il punto è che noi giovani abbiamo sempre delle aspettative molto alte, ed essendo abituati a vincere vogliamo sempre essere i numeri uno. Peccato che la vita non te le dà mai tutte vinte. E ad essere un po’ sinceri, quasi sono curioso di come andrà a finire questa possibile storia. Non so, ma m’incuriosisce.
Nella mente ho l’immagine di Stè, ragazzo palestrato almeno quanto me, che tenta di affiancarsi a quella di Elettra, la ragazzina che va a nuoto, che suona il piano, che ha una vita molto intensa. Sembrano due pezzi di foto strappate. Non mi sembra che combacino molto, ma non lo dico a Stefano, non voglio farlo già partire male, con la sconfitta nel cuore. Magari alla fine sono solo io che ho visto male, e quei due potrebbero stare benissimo insieme.
In questo momento non so più niente. Continuo a mangiare il mio gelato, Stè che cambia discorso raccontandomi di un nuovo gioco per computer, qualcosa di veramente galattico. Dobbiamo provarlo subito! E infatti appena finito di mangiare il gelato corriamo subito a casa sua per questa sfida intergalattica all’ultimo sangue contro qualche giocatore online coreano, giapponese, americano o chissà che. Ma tanto a noi che ce ne frega! Noi vogliamo solo vincere. E vinceremo!





ps: Non è finita! :P

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Capitolo 4
*** Breakin' The Chains ***


Devo ancora dire a mamma e papà che giovedì devono andare a scuola a parlare con la Nicoletti, la mia prof di storia. Stè mi ha suggerito di andarci piano, con calma, che se gli dico le cose in fretta poi mi prendo una di quelle punizioni extralarge che mi impedisce di uscire di casa per almeno un mese. E non è il caso, anche perché quel gioco online c’ha preso di brutto e voglio vedere come va a finire. Se tutto va bene domani vado da lui e continuiamo a giocare. Ma prima, beh prima devo dire ai miei dell’incontro con la Nicoletti.
Sono seduti sul divano, in soggiorno, che guardano un film comico, roba italiana che non farebbe ridere neanche la persona più solare di sto mondo. Mi metto su una sedia, leggermente lontano da loro qualora volessero prendermi a botte, o comunque abbastanza lontano da potermene fuggire in camera a tutta birra e chiudermici dentro a chiave.
Mamma mi guarda. Mi sorride. [Che c’è tesoro? Qualcosa non va?] che vuoi che ti risponda mamma? C’è una marea di cose che non va, ma non ti accorgi mai di niente, perché come tutte le madri hai ben altro per la testa, e ogni volta che mi vedi è solo per dirmi di cambiare atteggiamento. Se sono troppo felice pensi che qualcosa non va; se sono troppo silenzioso, idem; se ti guardo con due occhioni spalancati, col terrore in corpo della tua reazione, pensi sempre la stessa cosa… Possibile che debba sempre esserci qualcosa che per te non va, mamma?
Deglutisco, quindi calo lo sguardo, papà che abbassa il volume della tv e mi guarda anche lui.
[Giovedì la Nicoletti vuole vedervi…] mormoro con tono basso, timoroso della loro reazione. E infatti papà subito dice [Che hai combinato?] con tono rude, cattivo quasi. Non ho il coraggio di alzare gli occhi. Perdonami papà se non sono il figlio che vorresti. Perdonami se sono il solito ragazzo scapestrato che pensa solo a divertirsi. Perdonami se non sono uno studente modello. Perdonami se perdo la testo dietro a cose che tu reputi inutili… ma io la amo, e lei non va via dalla mia testa, capisci? È un pensiero fisso, immobile, statico, incastonato nelle pieghe del mio cervello. E non va via. Non esce fuori. Non ne vuol sapere della libertà…
[È la seconda volta in una settimana che mi becca impreparato…] mormoro quasi controvoglia, come se mi stessero strappando le parola di forza dalla gola.
Papà s’incazza. Alza subito la voce. Dice che sono un figlio degenerato e che non merito niente, poi domanda alla mamma dov’è che hanno sbagliato con me, qual è il loro sbaglio. Ma non sono loro ad essere in errore. È solo colpa mia. Mia, perché non so scacciare via Rosa dalla mia mente. È sempre lì, imperterrita, quel dannato pensiero che occupa tutte le ore scolastiche, quell’immagine frantumata che mi sovviene ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passo lontano da lei.
Vorrei dire ai miei genitori che è normale che io non riesca a studiare, ma sanno che la storia non mi è mai piaciuta e quindi non mi presterebbero affatto ascolto, anzi, prenderebbero le mie parole come l’ennesima presa per il culo.
Mi urlano contro, ma alla fine papà si ferma. È rosso in volto. Mi dice con tono arrabbiatissimo [Adesso basta Max! Mi hai proprio stufato tu e le tue tarantelle! Sei in punizione! E ci resterai finquando non recuperi tutto, ogni singola materia! Niente tv. Niente computer. Niente x-box. E scordati di prendermi per il culo con la storia che vai a studiare a casa di un amico! Ma per chi diavolo mi hai preso eh? C’ho forse scritto “giocondo” in fronte?] mi alzo in piedi, papà che continua ad urlare come un ossesso. Non ce la faccio a starlo a sentire ancora. Mi ha rotto pure lui con le sue stupide frasi del cazzo.
Vorrei dirgli tante cose, ma alla fine taccio e mi chiudo in camera. Almeno il cellulare me l’ha lasciato.
Mamma e papà continuano a gridare. Parlano di me, di come mi hanno educato, e non fanno altro che urlare che frequento persone sbagliate, che da quando sono alle superiori sono diventato incomprensibile, che mi comporto sempre in modo strano... Non li sopporto quando fanno così. I genitori dicono sempre che noi figli sbagliamo tutto, ma perché loro forse ci aiutano a non sbagliare? Ci danno forse una mano quando abbiamo bisogno di loro? No. Non ci sono mai. Troppo presi dal loro lavoro, dalle loro faccende, dai propri problemi… come pensano di poter essere un buon esempio per noi, se nella nostra vita non ci sono mai? Che poi è assurdo, credono che fare il genitore sia solo qualcosa di part-time, e che implichi il solo impartire punizioni o fare quelle due chiacchiere durante i pasti, come se poi si parlasse di qualcosa d’intelligente. Non sanno far altro che venire incazzati da lavoro, e non sapendo con chi prendersela scelgono sempre l’anello debole: i figli. Già. Mamma ha versato l’acqua? È colpa di Max che non era attento e non ha preso la bottiglia prima che cadesse. Mamma si taglia un dito affettando la cipolla? È colpa di Max che l’ha distratta con una delle sue solite cazzate. Papà inciampa nei suoi stessi piedi? È sempre colpa di Max, non c’è’ niente da fare! In questa cazzo di casa, chi si deve sempre addossare le colpe di tutti, sono sempre e solo io! Non è possibile!
Voglio scappare, ma il cellulare mi vibra nella tasca. È Stè. “Com’è andata? Gliel’hai detto?”.
Vorrei tirare il cellulare contro la parete, ma è l’unica cosa che mi resta per distrarmi e non posso distruggere anche questa. Trattengo la rabbia, e scrivo “Sì, e sono in punizione finquando non recupero TUTTO”. Non oso immaginare la faccia di Stè. Addio giochino online. Addio filmini porno. Addio tutto… Il display s’illumina di nuovo. Altro messaggio. “Allora sei totalmente spacciato! xD”. Mi viene da ridere, e non so come diavolo sia possibile dopo tutto quello che sto passando.


***

Stasera niente cena. Non ne ho voglia. Papà s’incazza ancora di più. Io gli dico che voglio studiare. Che cazzata… Non ci casca, e si sente preso ancora di più per il culo, ma io me ne fotto. Sto chiuso in camera mia e ho la mia musica che mi gira a palla nelle orecchie.

“I wanna heal, I wanna feel, what I thought was never real.
I wanna let go of the pain I've felt so long…
Erase all the pain til' it's gone.
I wanna heal, I wanna feel, like I'm close to something real.
I wanna find something I've wanted all along.
Somewhere I belong…”


Strano, eppure le canzoni hanno il potere di essere sempre in perfetta sintonia coi nostri sentimenti, neanche fossero legati da un sottilissimo filo di lenza.

***

Pensieri grigi come l’asfalto bagnato mi fan pensare che la vita ci vuole a tutti quanti belli, forti, indistruttibili, sempre presenti, ma poi se siamo noi a chiedere qualcosa alla vita questa ci volge le spalle. Proviamo a tirarci su di morale in tutte le maniere, ma quando gli amici ti dicono “Ehi, sorridi! La vita è bella!” non ti viene da credergli neanche un po’, e se prima stavi solo precipitando leggermente, adesso sei finito nel fosso per bene, e non c’è modo di uscirne se non con le proprie gambe. Già, perché la gente è difficile che allunghi un braccio e dica, “Sono qui. Sono qui per te”…
Ma no, non c’è nessuno pronto a prodigarsi in un’azione tanto pia, quindi devi risalire da solo in superficie. E finisce che ti attacchi ad ogni cosa, ad ogni nota stonata che parte dal cuore, ad ogni pizzicotto di verità che ti entra nel cervello, e che pare urlarti “La vita è questa. Alzati!”. Così lentamente risali in superficie, ti levi le cuffiette, ti guardi attorno, e pare che il mondo non sia mai esistito prima d’ora, che tutto sia qualcosa di nuovo e straordinario. Ti riscopri a guardare le cose in modo diverso, con occhi più spiritati, col sangue più caldo, talmente caldo nelle vene che pare le bruci per tutto quel ribollire. E quando apri bocca poi, e provi a rimestare le corde vocali per la riuscita di un suono decente che ti esca dalle labbra, alla fine odi solo un mormorio, parole confuse, una voce che pare non sia nemmeno la tua. E ti chiedi se questo poi sia veramente il tuo corpo, e ti alzi come un invasato dal letto piazzandoti davanti allo specchio, tastandoti il volto con le mani, gli occhi fissi in quelle pupille che sanno solo di specchio, di riflessione, e tante piccole speranze morte come sogni caduti in terra, simili a dei palloncini ormai sgonfi.
Dicono che la solitudine serva. Che sia utile per capire quanto in realtà tieni alla compagnia. In questo momento, gli occhi fissi nel riflesso dei miei stessi occhi, comprendo che è tutta una grandissima puttanata. La solitudine non serve a niente. Fa solo male e basta. Ti tiene costretto in un fosso dalle pareti scivolose, con una voce fuori campo che pare dirti “Prova a risalire se ci riesci!”. E in effetti risalire in superficie, tornare a sorridere come prima di cadere giù, è difficile. Non sempre ti riesce… Ma la musica serve a questo no? A farti compagnia. Ad aiutarti. A fare da scala per condurti fuori dal fosso. E io sono uscito. Un po’ leso, è vero, ma sono ancora vivo. Purtroppo per lei, purtroppo per Rosa.

“All is right 'cause we're
breakin' the chains, breakin' the chains!”




FINE

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