Inerzia

di Mirokia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassettesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitreesimo ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattresimo ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinquesimo ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventiseiesimo ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisettesimo [FINALE] ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Inerzia


 

Cap. 1



Vivere per inerzia può essere una scocciatura quanto una benedizione.
Chi vive per inerzia non causa alcun tipo di problema, disturbo o contrattempo a coloro con cui entra in contatto. E’ come se, invece di inciampare su un difetto dell’asfalto e rovinare su un passante, inciampi e cadi giusto accanto a lui: non gli causi alcun tipo di danno, ma intanto sei caduto e, anche se ti sei fatto male, quasi non lo senti, perché sei abituato a vivere per inerzia. E allora ti alzi, ti spolveri, e vai avanti, ed è come se non fosse successo nulla.
Poi arriva il momento in cui semplicemente non puoi più far finta di nulla. Proprio non ci riesci. E il tuo mondo costruito per inerzia sembra crollare come un castello di carte.

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Il mio castello di carte iniziò a crollare un pomeriggio particolarmente uggioso di fine settembre. L’estate non era finita da molto, ma già s’era portata via il bel tempo, e con lui il mio matrimonio. Avrei considerato quella come l’estate peggiore della mia vita, se non avessi saputo sin dal principio che io e April ci saremmo lasciati. Almeno poteva avere il buon gusto di farla finita in aprile, così mi sarei anche fatto una bella risata. Pensai che prenderla in quel modo non mi aiutava a spazzare via i pensieri negativi dalla testa, e ritenni che la cosa migliore da fare fosse usare al meglio la mia memoria selettiva ed iniziare ad eliminare i ricordi superflui. Così va meglio, mi dissi, senza nemmeno sentire l’eco della mia voce.
Sospirai. In effetti era stato un bene quel nostro litigio definitivo: sua madre m’aveva preso ormai in antipatia, i suoi irritanti parenti –non se ne salvava uno- mi mettevano in soggezione, e le amiche con cui talvolta usciva sapevano solo darmi sui nervi.
“Bene, almeno adesso non sarò costretto a dividere il conto in banca con nessuno”, continuavo a ripetermi, tanto per alleviare la solitudine che già si faceva sentire. Ero tornato in città dalla mia ultima vacanza al mare dalla famiglia di lei, «Torna a vivere da solo. Io resterò qui ancora per un po’,» mi aveva detto appena prima che partissimo. Io avevo alzato le mani come in segno di resa, abbassato gli occhi al pavimento e messo su un mezzo sorriso. «Aspettavo solo che me lo dicessi,» avevo replicato facendo un passo indietro, perché chi vive per inerzia non ha la possibilità di avanzare proposte di spontanea volontà.
«Tornerà strisciando da me,» mi ero detto mentre guidavo in autostrada con le movenze di un robot, gli occhi fissi come quelli d’una bambola. Ma non lo fece. Non tornò da me, e iniziai a credere di essere stato io l’incapace per tutto quel tempo. Non sapevo neanche tenermi una donna e prevalere su di lei. A trentacinque anni suonati.
Scossi la testa mentre percorrevo la strada verso il mio condominio con una busta di pane appena comprato appesa al braccio e una sigaretta ancora spenta in mano. Avevo ormai smesso di fumare, o almeno credevo di averlo fatto, ma mi concedevo uno strappo alla regola quando mi sentivo particolarmente frustrato, anche perché, in teoria, chi vive per inerzia non ha regole, vive come gli viene, e quindi non avevo costrizioni morali di alcun tipo, e una sigaretta me la concedevo più volte senza sensi di colpa.
Mi fermai davanti ai binari del tram perché vidi che stava per ripartire e che il semaforo era rosso. La signora grassa accanto a me mi fissava e non sapevo darmi un perché, ma non ci feci caso più di tanto.
Ne approfittai per accendermi la sigaretta, col pensiero che, magari, una brusca svolta nella mia vita non mi avrebbe fatto poi così male. Giusto per frenare o accelerare, e quindi piantarla di andare sempre alla stessa andatura.
Dopo aver sbuffato scontento una nuvola di fumo, mi sentii spingere brutalmente di lato e intercettai un’ombra passare come un fulmine nello spazio che s’era creato tra me e la signora grassa. Quando riallacciai lo sguardo alla figura, la vidi correre sui binari e oltrepassarli di tutta fretta: era una ragazzina con un cappellino da baseball da cui fuoriuscivano lunghi capelli neri. Di tanto in tanto si guardava indietro, gli occhi lucidi e le guance bagnate. Dava la sensazione di essere inseguita da qualcuno. Per assicurarmene, voltai il capo alle mie spalle e in effetti vidi qualcun altro correre e spintonare e urlare come un ossesso.
«Laura! Laura, fermati, per favore!» sbraitava. Ma non si vergognava, con tutta quella gente intorno? In ogni caso, la sua corsa sarebbe terminata lì, visto che il tram era già partito e stava prendendo velocità.
«Ma cosa…?» mi chiesi ad alta voce dopo aver notato che il pazzo non aveva intenzione di fermarsi, anzi, teneva gli occhi incollati alla figura che si allontanava dall’altra parte dei binari. Era forse fuori di testa? Voleva morire? Il tram gli era quasi addosso, ormai. Se quel tipo fosse passato in quel momento, l’avrebbe preso in pieno. Doveva frenare o accelerare, tutto tranne che procedere alla stessa andatura.
Lasciai che la sigaretta rotolasse a terra quando mi allungai e afferrai saldamente il ragazzo dal gomito per poi tirarlo violentemente verso di me, evitandogli una morte certa. A causa dell’inerzia e dello sforzo appena compiuto, barcollai e mi sbilanciai cadendo all’indietro, col ragazzino che mi seguì a ruota finendomi pesantemente in grembo. Un suono soffocato m’abbandonò la gola e le sopracciglia iniziarono ad aggrottarsi, segno che ero lì per incazzarmi.
Gridolini concitati e preoccupati si propagarono nell’aria e la gente lì intorno accorse a chiedere al malcapitato numero due se si fosse fatto male. Nessuno faceva caso a me, il malcapitato numero uno. Mi scostai a fatica dal corpo di quel ragazzo, che ancora non aveva mosso un muscolo, quasi fosse sotto shock.
«Sei idiota o cosa? Che ti salta in mente?» chiesi con un diavolo per capello, riferendomi al suicidio che stava per compiere, pur inconsciamente. Ma quello sembrava non ascoltarmi. Continuava a tastarsi la canottiera bianca e la faccia, partendo dalle orecchie e finendo sul naso.
«Sono…vivo?» mormorò a se stesso, incredulo.
«Per poco, ragazzo, per poco! E tutto grazie a questo signore coraggioso,» disse la vecchia grassa di prima che si stagliava in piedi accanto a me. Cos’è, non esistevano più le vecchiette che utilizzavano il termine “giovanotto”? Mi sentivo più vecchio di quanto già non fossi. Il ragazzo –che, notai, aveva i capelli chiari e pettinati all’insù-, ancora a terra, spostò lo sguardo accanto a me e, seguendolo, m’accorsi della mia busta del pane, ormai rovesciato a terra. Una pagnotta era anche rotolata per strada.
«Anche quella era del signore,» disse la vecchia riferendosi alla busta. Ma non riusciva a farsi gli affaracci suoi? Il biondo, o castano, o quello che era, svettò in piedi quasi dimentico della caduta, e mi stupì che la testa non gli girasse come una trottola.
«Lei…Lei mi ha salvato da morte certa,» disse commosso dopo che anche io fui in piedi. Mi prese le mani con un gesto fulmineo e le portò all’altezza del petto, gli occhi stranamente brillanti. Io lo guardai come si guarda uno poco sano di mente e ritirai le mani all’istante, ma quello, caparbio, me le riprese fra le sue.
«Se non ci fosse stato lei, io adesso sarei…» continuò, quasi con l’affanno, e lo sguardo gli cadde sulla mia povera pagnotta maciullata dalle ruote di un furgone. «…come posso sdebitarmi?»
La frase fatta che m’ha tormentato arrivando a provocarmi istinti omicidi e suicidi. Tentai di rimanere calmo, nonostante sentissi un sopracciglio pulsare dal nervoso.
«Non devi,» risposi ritirando nuovamente le mani.
«Invece sì! Lei mi ha salvato la vita!» gli luccicavano seriamente gli occhi. Sembrava essersi pure dimenticato della tizia che stava inseguendo con tanta foga. Ero tentato di ricordarglielo.
«No, guarda, io adesso andrò a comprarmi dell’altro pane e tu farai finta che  non sia successo niente, ok?» cercai di tranquillizzarlo, ché mi sembrava troppo entusiasta.
«Ci sono! Inizierò con comprarle del pane. Andiamo,» asserì, completamente ripreso dallo shock quasi-morte e prese a trascinarmi da un braccio, quasi fossi il suo cane.
«Ma che stai dicendo? Non scherziamo. Tu ora vai a casa dalla mamma e io me ne andrò per conto mio, chiaro?» feci nervoso e già pentito di averlo tirato via da quei binari.
«Ehi, quanti anni pensa che abbia?» mi chiese lui di rimando. In effetti avevo dato per scontato che fosse un ragazzino, ma non avevo un’idea precisa della sua età. Gli guardai per qualche istante il viso ovale, i capelli chiari scompigliati e gli occhi anch’essi chiari, di un azzurro accecante, e grandi. Intercettai il nasino da signorina, la bocca screpolata e le guance che al sole sembravano lucide. Non era un gigante, mi arrivava sì e no alle spalle. Inoltre, con quell’espressione imbronciata e le braccia incrociate sembrava proprio un bambino.
«Non saprei… quindici, sedici?» optai, ma ricevetti un’occhiata di disappunto da parte sua.
«Ne ho venti!» esclamò. Lo fissai ancora per qualche secondo, poi la mia sentenza.
«Poco importa. Sei sempre un ragazzino,» e ripresi a camminare verso la panetteria.
«Ehi, mi aspetti! Le ho detto che comprerò quel pane ed è quello che farò.» insistette quello tornandomi velocemente alle calcagna.
«Sei cocciuto,» constatai sbuffando. Lui annuì più volte, quasi soddisfatto della sua cocciutaggine, poi mi guardò di sottecchi in silenzio, i suoi passi che s’udivano più dei miei.
«Lei… come si chiama?» chiese dopo un po’.
«Andrea,» risposi piatto. «E tu, moccioso?» aggiunsi marcando l’ultima parola.
«Valerio. E non sono un moccioso».
Lo guardai sorridendo beffardo.
«Già il fatto che lo puntualizzi indica il contrario».
Con questa frase lo zittii per un po’, e provai l’infantile sensazione d’orgoglio che si fa spazio in me ogni qualvolta riesco in qualche modo a spiazzare i miei interlocutori.
Finalmente arrivammo in panetteria, e quel Valerio mi ordinò di aspettare fuori mentre apriva la porta e la faceva tintinnare. Così pensai di accendermi un’altra sigaretta sperando che non andasse nuovamente sprecata. Pensai velocemente a cos’altro avrei dovuto fare una volta tornato a casa, ma non mi venne in mente nulla, e mi dissi che andare sempre alla stessa andatura poteva essere tanto rilassante quanto angosciante. Mi misi due dita sulla radice del naso quasi per evitare che mi si aggrottassero ulteriormente le sopracciglia e mi costrinsi a mettere il cervello un po’ in standby.
Dopo cinque minuti, il biondo ricomparve con la busta piena di pane appena sfornato.
«Ecco qui,» fece sorridendo e porgendomi la busta. Curioso, diedi un’occhiata al suo interno e feci una faccia contrariata.
«Baguette? Ciabatte? Io mangio solo rosette,» puntualizzai, e il tizio abbassò la fronte per la vergogna. Ovviamente non era vero, qualsiasi tipo di pane per me andava bene, ma mi divertiva prenderlo in giro. Aveva una faccia che ti faceva voglia di dirgliene di tutti i colori.
«M-mi dispiace, però…non ho più soldi per…»
«Ah, incapace. Non sei nemmeno in grado di restituire un favore,» dissi interrompendolo bruscamente, poi girai i tacchi e mi allontanai, sicuro che non mi avrebbe seguito. Ma mi sbagliavo. Quel tipo era più insistente di quanto pensassi.
«Aspetti! Non vuole che faccia qualcos’altro?» chiese mentre mi raggiungeva a grandi falcate.
«E che cosa? Sei un buono a nulla».
Quello, alla mia frase, rimise il broncio.
«Non le permetto di trattarmi in questo modo. Chi si crede di essere?» fece, adesso quasi nervoso.
«Un uomo di quindici anni più grande di te,» gli risposi, poi imboccai la via di casa mia.
«Pensa che l’età c’entri qualcosa? Prenda Lesbia e Catullo, per esempio. Lei aveva dieci anni in più di lui, eppure si rispettavano».
A quel commento, scoppiai a ridere di cuore, quasi mi tenevo la pancia. Ma che passava per la mente ai giovani d’oggi? Ero convinto fossero interessati alle moto, alle pasticche e al sesso, non alla letteratura latina.
«A parte che Lesbia era definita “Amica omnium”, l’amica di tutti, quindi dubito avesse molto rispetto per il povero Catullo, ma poi…com’è che te ne esci con questi commenti?» chiesi, ora un po’ curioso, visto che, dopotutto, si stava trattando del tema della mia vita.
«Sono appassionato di letteratura. E a ottobre inizierò con l’università,» rispose, e le sue parole mi stupirono: non aveva proprio la faccia di un letterato. Ma poi, a me cosa interessava se prendeva facoltà di lettere o di ingegneria o di veterinaria? Senza replicare, continuai per la mia strada, fino ad arrivare al cancelletto del condominio in cui abito. D’istinto, allungai il dito sul citofono, lì dov’era recata la scritta “Martins – Ruggeri”, poi scossi velocemente la testa e mi diedi uno schiaffo in fronte. Ormai vivevo solo, e avevo ancora l’abitudine di suonare al citofono, quasi aspettandomi che qualcuno mi facesse la cortesia di aprirmi e magari di salutarmi con un bacio e magari di chiedermi della giornata e magari di farmi sedere a tavola e mangiare e magari di mettermi su una coperta nel caso mi fossi addormentato sul divano. Giustamente.
Frugai scocciato nella tasca della giacca scialba che indossavo sempre più spesso e aprii il cancello con le chiavi per poi entrare nell’androne lucido.
«Bene, mi ha fatto piacere conoscerti, arrivederci,» salutai, nel modo più cordiale possibile. Ma quello tenne caparbiamente aperto il cancello nero con il piede.
«Sicuro che non vuole che le faccia qualche altro favore?»
«Sicurissimo. Ora torna a casa, per favore,» risposi quasi implorante, i nervi già a mille.
«Ma davvero? Lei mi ha salvato la vita, e…»
Il mio sguardo assassino lo fulminò.
«Sì, ripensandoci puoi farmelo, un favore: levati dai piedi e lasciami in pace,» dissi ormai quasi urlando, e ritenni di essere piuttosto spaventoso. Con un movimento brusco, riuscii a chiudere quel dannato cancello, poi voltai le spalle a quel tipo che adesso s’era appeso alle sbarre, e feci girare le chiavi anche nel portone interno, per poi salire le scale quasi di fretta e chiudermi in casa. Notai che le orecchie mi fischiavano mentre mi lasciavo andare su uno dei due divani in pelle blu. Detestavo le seccature, le detestavo con tutta l’anima, e quel giorno me n’era capitata una bella grossa. Ma adesso potevo dire di essere in grado di tranquillizzarmi: bastava un bicchiere di tè verde, una sigaretta e magari un bel film. No, la sigaretta no, avevo smesso di fumare. O almeno, così credevo.
«Pessima giornata,» mi dissi sospirando, come ormai facevo ogni volta che tornavo a casa, che fosse mattina, pomeriggio o notte inoltrata.


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La scrissi su un quaderno, questa storia, e solo adesso mi sono decisa a copiarla sul computer. Però se voglio continuare a copiare, ho bisogno che qualcuno mi dica se è accettabile o se fa schifo ai cani XD Grazie, se lo farete :)

 

 

 

Mirokia

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Cap 2

La stessa sera di un’altra pessima giornata, una mia ex compagna del liceo, Sara, si fece sentire attraverso un sms e mi invitò a bere qualcosa a casa sua. Proprio quando stavo per rispondere che avevo un altro impegno in realtà inesistente, il telefono era squillato facendomi saltare dallo spavento.
«Ci saranno anche Valentina, Guido e Francesco,» mi aveva detto con la sua vocina squillante e ovviamente fastidiosa. Sembrava non esistere qualcosa che non mi desse fastidio. Pensai che alla fin fine mi andava di bere qualcosa con gli amici dopo tutta l’estate che non ci vedevamo. Le dissi che sì, andava benissimo, per le otto e mezza sarei stato da lei, e certo che avevo già mangiato, non c’era bisogno che mettesse su dei toast, e poi a me i suoi toast avevano sempre fatto schifo. Chiusi la chiamata, lanciai il cellulare sul divano e andai a mettermi su qualcosa di decente, ma appena prima che riuscissi a infilarmi le scarpe, trillò il campanello. Quel suono tintinnante che m’infastidiva. Convinto che fosse la vicina che voleva in prestito dell’altro prezzemolo, andai ad aprire scocciato. Ma quando spalancai la porta, sulla soglia non c’era alcuna vicina. Al suo posto però, lì sul tappeto, troneggiava un inquietante scatolone. Allargai la visuale e in effetti la mia vicina c’era, lì in piedi davanti alla sua porta.
«E’ suo?» chiesi indicando la scatola.
«No, dev’essere suo. L’ha lasciato uno strano ragazzo poco fa,» rispose lei mentre si mangiucchiava l’unghia del pollice. Un ragazzo? Ebbi un terribile presentimento. Mi decisi ad aprire la scatola lì sul posto e, quando diedi una sbirciatina all’interno, aggrottai le sopracciglia in maniera spaventosa: decine e decine di rosette riempivano ogni spazio libero.
«Del pane? Quel bel ragazzo le ha regalato… del pane?» fece la signora ridacchiando tra sé.
«Com’era fatto?» chiesi senza perdere tempo, e forse ansimando leggermente.
«Il ragazzo? Mmh… quando si è girato ho visto che aveva i capelli all’insù».
«Sì, ma il colore dei capelli?» feci ancora, e il mio affanno non prometteva nulla di buono.
«Erano chiari, se non sbaglio. Ma non molto. Poi era piuttosto basso, più di lei, ma meno di me,» prese a stropicciarsi il grembiule. «Molto, molto bello,» aggiunse. Le sue fantasiose descrizioni mi stavano solo confondendo le idee, dannazione. Ma tanto avevo già capito, potevo anche evitare di portarla per le lunghe.
«Ah,» mugugnai senza aggiungere altro, poi tornai dentro per finire di mettermi le scarpe. Avrei portato il pane in cucina più tardi.
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Cercando di ignorare l’episodio del pane, quella sera mi presentai a casa di Sara con un sorriso sulle labbra, dovuto più al nervoso che ad altro. Al ritrovo, oltre a quelli elencati poco prima dalla padrona di casa, era presente anche Gaia, e fui tanto sorpreso di vederla quanto disperato. Ah, pessima giornata.
Il nostro ultimo incontro risaliva al matrimonio con April, quindi due anni prima. Da quel momento, s’era volatilizzata. E adesso se ne stava seduta lì sul divano color panna con le gambe accavallate, come niente fosse, come se il tempo non fosse passato affatto. Eppure la trovai cambiata parecchio, ma forse erano solo i suoi capelli biondi ad essere particolarmente diversi: in testa erano ricci come al solito, ma sulle spalle le scendevano due grossi boccoli decorati da nastri rosa, come le acconciature di una volta. Terribili, orribili.
Parlando del più e del meno più avanti, venni a sapere che faceva la parrucchiera adesso.
«Ah, ecco perché i capelli…» commentai accennando ai boccoli con un dito.
«Esatto. Ti piacciono così?» chiese lei accarezzandoseli.
“Certo che no, sono ridicoli,” naturalmente non dissi così, ma mi limitai ad annuire sorridente. Dopo aver finito di bere il suo caffè, Gaia mi scrutò coi suoi occhietti verdi poco casti. Esattamente come li ricordavo. Quelli no, non erano cambiati affatto.
«E così…hai divorziato da tua moglie?»
Io la guardai male.
«Cosa te lo fa pensare?»
Ma fu Francesco a rispondere alla mia domanda.
«In primo luogo, non hai la fede, ma il segno dell’abbronzatura sul tuo dito indica che te la sei tolta da poco, ovvero alla fine dell’estate. E poi…» lanciò un’occhiata a Sara, che non faceva nulla per fargli tenere la bocca chiusa. «Sara e April si conoscono e le notizie corrono in fretta,» concluse con un sorriso soddisfatto, e Sara rotolò gli occhi all’indietro mentre prendeva un sorso dalla sua tazza. A causa dell’imbarazzo per essere stato messo nuovamente in soggezione –è qualcosa che non riesco a digerire-, affogai la faccia nel limoncello.
«Tu e le tue manie da investigatore. Un giorno ti ucciderò e ti farò investigare sulla tua stessa morte,» replicai scocciato.
«L’importante è che tu ti sia lasciato,» riprese Gaia, ora più silenziosa, e si permise di posare una mano sulla mia gamba. No, eh. No. Non è che aveva intenzione di riprendere a tampinarmi come due anni prima? Certo, ci mancava solo questa.
“Fammi riprendere, almeno,” stavo per dirle, ma Guido mi salvò dalla situazione con un’altra delle sue battute superficiali.
«Ehi, Andrè! Hai messo su qualche chiletto quest’estate?» fece gonfiando la faccia rubiconda.
«Eh sì, mi hai beccato,» ammisi con una mano dietro la nuca. Si misero a ridere, tutti a parte Gaia che continuava a fissarmi tra le ciglia piene di mascara. Ti prego, no.
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Per quella sera evitai qualsiasi altro contatto con Gaia, ed ero straconvinto di aver fatto più che bene. “Non la voglio un’altra storia. Non ancora. Non con lei!” continuavo a ripetermi, la sigaretta che mi pendeva dal labbro mentre pensavo al fatto che avevo smesso di fumare. O almeno, credevo di averlo fatto. Tanto alla fine, se vivi per inerzia, non hai mai certezze, ti piace stare nel forse. Spensi la sigaretta appena accesa strofinandola piano sul portacenere pulito, poi feci un suono con le labbra chiuse, indugiai con gli occhi sulla televisione sintonizzata su un canale di televendite, poi presi nuovamente l’accendino e mi riaccesi il mozzicone, tirando un po’, fanculizzando un po’ tutto, il mondo in generale. E volli davvero dormire sul divano col sedere che per poco non scivolava giù e il collo abbandonato sulla testiera, ma pensai che mi si sarebbe solo deformata la schiena in maniera orribile. Spensi la sigaretta che era a metà e poi la televisione, e mi trascinai in camera da letto. Mi chiesi cosa avrebbero pensato i miei studenti se avessero mai assistito alla mia routine.
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La mattina seguente mi alzai all’ora di pranzo e piagnucolai quando, appena prima di poter aprire del tutto gli occhi, suonò il campanello. Andai ad aprire ciabattando e con i capelli che andavano per conto loro, e ciò che trovai sulla soglia mi destò all’istante, quasi avessi preso la scossa: un altro pacco di rosette.
«Ma chi è quello lì, che mi moltiplica i pani? Gesù Cristo?» dissi ad alta voce, sconsolato. “I giovani d’oggi. Sono strambi e insopportabili,” pensai addentando rabbiosamente una pagnotta. “Quindi stamane pane e marmellata,” mi dissi accigliato.
Ma non bastò quella mattina, no. Il pomeriggio del giorno dopo trovai un altro sacchetto con delle altre rosette fresche di forno.
«No, mi sono stufato. Adesso esco e lo cerco per tutto il quartiere finché non lo trovo. Poi gliene dirò quattro,» decisi a quel punto, arrabbiato e stufo di quei regali indesiderati. Lasciai perdere quello che stavo facendo –lavare il bagno- e uscii senza davvero sapere da che parte dirigermi. Una volta fuori, pensai che probabilmente il panificio poteva essere il punto di partenza. Dio, detestavo profondamente le seccature. E quella era una seccatura bella e buona. Cosa ci fa uno che vive per inerzia con le seccature?
Entrai nel negozio con un cipiglio nervoso, poi alzai lo sguardo e intercettai quello del simpatico panettiere con due grossi baffi biondi. Misi le mani in tasca e gli chiesi informazioni.
«Per caso si è accorto di un certo idiota che ultimamente compra grosse quantità di pane? In particolare rosette,» feci, sicuro di far centro. Infatti, l’uomo annuì convinto e si grattò il mento coperto da una corta barba.
«Eccome se me ne sono accorto! Pensavo facesse opere di carità,» rispose ridendo. Scossi la testa sospirando.
«Purtroppo no. Quello è un degenerato. Anche oggi è venuto, vero?» aspettai che il panettiere mi desse un cenno di assenso. «Sai mica dove abita, o da che parte se n’è andato?»
«Mi sembra che abbia detto di dover prendere il pullman qui fuori. Ma ne sono passati già due, quindi suo figlio dev’essersene andato, ormai».
Benissimo, adesso venivo anche scambiato per il padre di un ventenne. Ma sembravo davvero di età così avanzata? Probabilmente era la mia espressione costantemente accigliata a tradirmi. Dalla costatazione dell’uomo, comunque, conclusi che la mia ricerca fosse già finita. Ringraziai e poi uscii per andare a controllare dov’è che conduceva la linea 72: vidi che il capolinea era addirittura fuori città. Quel moccioso poteva essere andato a vagabondare da qualunque parte. Sbuffando rumorosamente, girai i tacchi, e stavo facendo volentieri marcia indietro quando individuai dei movimenti dietro al cancello di un condominio. Inizialmente pensai ad una coppietta intenta a baciarsi ma, con un’analisi più attenta, mi accorsi che uno dei due alzava i grossi pugni in aria, a mo di minaccia. Ah, odiavo le zuffe. Come tante altre cose. Con le mani in tasca, spostai velocemente lo sguardo a destra e a sinistra e intercettai un vecchio che si accingeva a sedersi alla fermata del pullman. Mi feci vicino e gli presi delicatamente un gomito; a quel gesto, il vecchio si voltò con gli occhi ridotti a fessure e il bastone già alzato per darmelo in testa. Sorrisi: era una persona sveglia.
«Non intendo derubarla, deve aiutarmi. Stia al gioco e dia delle risposte intelligenti e convincenti,» gli bisbigliai, e indicai velocemente con lo sguardo le due figure in ombra dietro il cancello. «Ehi, Gianni. Come mai c’è un’auto della polizia?» chiesi a voce alta, col mio scarso talento in fatto di recitazione.
«Quale auto…?» fece il vecchio un attimo spaesato.
«Stia al gioco, ho detto,» gli ripetei a denti stretti. Lui finalmente capì e mi rispose sapientemente:
«Beh, sembra che stiano cercando un ladruncolo di appartamenti».
«Ah, ecco il perché di tutte le pattuglie che ho visto in zona!» esclamai dando il colpo di grazia. Vidi il tizio che aveva i pugni in aria fermarsi ad ascoltarci, guardarsi intorno, dare un’ultima spintonata alla sua vittima e poi uscire furtivamente di scena.
«Complimenti, lei sì che sa improvvisare,» mi congratulai col vecchio, che si sollevò leggermente il cappello per ringraziare, poi andai a vedere come stava lo sfortunato o sfortunata che il mostro tutto muscoli stava importunando.
«Tutto bene?» chiesi e, quando quello alzò la testa guardandomi mortificato, lo puntai con un dito. «Aha! Ti ho trovato, biondino da strapazzo!»
Sì, era quel Valerio il ragazzino che ora mi fissava con tanti di occhi. Sotto shock per la seconda volta?
«Adesso io e te dobbiamo fare un bel discorso, perché…» iniziai, ma quello mi interruppe afferrandomi velocemente le mani.
«Mi ha salvato di nuovo!» esclamò e, davvero, mi venne voglia di sparire dalla faccia della Terra. O di seppellirmi vivo. O di strozzarmi con una rosetta.
«No, non è così. Avessi saputo che eri tu, non l’avrei mai fatto,» dovevo essere il più duro possibile se volevo scollarmelo di dosso. Strattonai via le mani e me le misi in tasca in modo che non le potesse più prendere.
«Beh, resta il fatto che mi ha salvato. Le sarò debitore per sempre!» e, con uno slancio di non so che cosa, si buttò su di me e mi abbracciò.
«Ma…sei fuori di testa?!» urlai divincolandomi. Quello sogghignò e mi lasciò andare, permettendomi di sistemare le pieghe sulla camicia.
«Questa volta mi avrebbe ucciso davvero, me lo sento,» disse poi, con tono abbattuto.
«Questa volta? Perché, ce ne sono state altre?» chiesi, e quello annuì mesto. Stette un po’ zitto e si guardò intorno come se temesse di vedersi arrivare un pugno in faccia da un momento all’altro. «Perché ce l’ha con te, quel bestione?» mi venne spontaneo chiedere. E com’è che adesso mi interessavo dei problemi dei ragazzini rompiscatole? «Non che mi importi,» aggiunsi infatti.
«Se a te sembra un bestione, pensa a me!» esclamò lui, poi s’accorse di aver detto qualcosa che non andava e si coprì la bocca con entrambe le mani. Io capii subito, allargai le labbra in un sorriso sghembo e gli feci un cenno per indurlo a seguirmi. Non avevo voglia di stare fermo lì tutto il giorno.
«Va bene se mi dai del tu. Magari riesci a farmi ringiovanire di qualche anno,» dissi, e il biondo sembrò essere felice del permesso appena ricevuto. Mentre mi camminava accanto, si mise a raccontare qualcosa.
«Quel tipaccio che hai visto si chiama Damiano,» fece una pausa per schiarire la voce, il che mi diede il tempo di intervenire.
«Questo chiarisce l’intera faccenda,» feci ironico.
«Eh, se non mi lasci continuare…!» cercava di controllarsi, ma era già nervoso, e quasi mi sembrava di vedere il me stesso di qualche anno prima.
«Come se ti stessi ascoltando. Va beh, vai avanti,» dissi con un gesto della mano. Lui mi guardò male, per poi proseguire con cautela.
«Hai presente quella ragazza che stavo inseguendo la settimana scorsa?»
«Ah, sì. La pazza». Ricordai i capelli neri e lisci come spaghetti che spuntavano dal cappellino con la visiera, la giacca di jeans sbiadita e i suoi occhi lucidi.
«Non puoi biasimarla. E’ cieca».
Ah.
A quelle parole, mi sentii un attimo in colpa e feci una smorfia dispiaciuta con la bocca.
«Mi spiace…»
«E’ così dalla nascita,» mi informò lui.
«E perché correva così?»
E io perché facevo l’impiccione con tutte quelle domande? Non avrei voluto diventare io stesso una seccatura!
«E’ questo il punto. Devi sapere che io e lei siamo grandi amici, sin dalle elementari. Ma, giusto l’altro giorno, mi ha confessato qualcosa che io non sono ancora capace di gestire, non con lei».
Lo interruppi per provare a indovinare. Era talmente banale da poter essere benissimo presunto anche da un bambino.
«Ha confessato di amarti».
Lui mi guardò stupito.
«Sì. Come lo sai?»
Io alzai le spalle senza rispondere, e quello sembrò rivolgermi uno sguardo quasi ammirato.
«E immagini anche perché piangeva?» chiese poi, e mi mise un attimo in difficoltà.
«Er…»
«L’ho rifiutata. Perché non l’ho mai vista come più di un’amica. Tipico, no?» spiegò. Decisi di fargli tagliar corto, perché già mi stava sembrando una storia troppo da film.
«E cosa c’entra il ciccione?» chiesi, e lo feci ridacchiare di gusto.
«Beh, il ciccione è il fratello maggiore di Laura, la ragazza cieca in questione. Ogni volta che ferisco sua sorella, anche involontariamente o indirettamente, quello mi viene a cercare e mi minaccia. E oggi mi stava per picchiare per aver rifiutato Laura,» concluse con un respiro profondo.
Camminando camminando, eravamo arrivati quasi a casa mia senza neanche accorgercene e stava scendendo la sera. L’arancione e il viola del cielo si mischiavano in un colore indistinguibile.
«Hai già chiesto scusa a questa tua amica?» domandai alla fine.
«Lo farei se lei non fuggisse e se non ci fosse sempre Damiano nei paraggi…» abbassò la testa per la vergogna.
«Siamo un tantino vigliacchi, eh?» lo schernii un po’, e lui mi lanciò uno sguardo arrabbiato per l’ennesima volta. «Beh, sono quasi a casa. Bella storia, comunque. Ti saluto,» mi congedai poi, brusco, e mi diressi verso il cancello nero.
«Ehi, un attimo! Devo ancora sdebitarmi per tutte le volte che mi hai salvato la pelle!»
«Tutte le volte? Due non è “tutte le volte”!» Poi, finalmente, mi ricordai del vero motivo per il quale ero uscito di casa. «Ah, e a proposito, visto che hai toccato l’argomento: niente. più. rosette. E soprattutto,» gli picchiettai la fronte con l’indice, «niente più favori. Ho evitato che finissi in situazioni spiacevoli perché sono un buon samaritano, tutto qui,» conclusi. Valerio mi guardò tra il sorpreso e l’interrogativo.
«Quindi…questo significa che adesso prediligi le ciabatte?»
Mi misi una mano sugli occhi. E io che pensavo avesse capito. Stavo per rispondergli in malo modo, quando un paio di mani sconosciute si posarono sulle palpebre di Valerio. Il biondo sorrise tra sé.
«Fabio, ma non ti stanchi mai di fare sempre gli stessi giochetti?»
A quel punto, lo sconosciuto che adesso sapevo si chiamasse Fabio, abbracciò Valerio da dietro.
«E dai, Vale, è divertente!»
Il nuovo arrivato aveva i capelli scuri che ricadevano spettinati sulla fronte, gli occhi sottili, la stessa statura di Valerio e un’espressione fin troppo allegra dipinta sul volto mentre cercava di baciare l’amico sulle guance lucide.
«Dormi da me anche stanotte?» chiese quel Fabio con la faccia da oca giuliva.
«Ovviamente. Stavo per venire, visto che ormai è quasi buio,» gli rispose l’altro.
«Infatti ero preoccupato e sono venuto a cercarti. Andiamo via in moto, ok?» ancora altri bacetti. Bene, io a questo punto me ne andrei e toglierei il disturbo. Tanto che ci sto a fare qui, il palo? pensai, per poi voltarmi e proseguire verso casa.
«Aspetta, dove vai?» m richiamò il moccioso biondo.
«A casa?» risposi con una domanda per fargli capire che io, davanti a quella scenetta romantica, non volevo starci un minuto di più. L’amico mi rivolse la sua attenzione, come se solo in quel momento si fosse accorto della mia presenza. Ottimo, va sempre meglio, adesso sono anche invisibile. La sua espressione da ebete mutò diventando quasi irata, e i suoi occhi mi puntarono riducendosi a fessure. Ci mancava poco che gli spuntassero i canini da vampiro, le unghie da licantropo e gli si accendessero le pupille di rosso.
«Chi è quello?» chiese allora, rivolto a Valerio.
«Potrei farti la stessa domanda,» intervenni, visto che non mi faceva così piacere se, per riferirsi a me, utilizzavano i pronomi dimostrativi “questo” o “quello”. “Avrei anche una ventina di anni in più di te,” stavo per aggiungere.
«Ah, lui è Andrea, il mio salvatore,» disse Valerio un po’ in imbarazzo. Lo sguardo di Fabio si fece letteralmente di fuoco, poi si rivolse ancora all’amico brillando e sorridendo.
«Eh? Si chiama Andrea o Salvatore?»
Il biondo scoppiò a ridere, ma io non lo trovavo divertente.
«Bene, ora che abbiamo fatto le presentazioni, io me ne andrei». Girai finalmente i tacchi senza più intenzione di fermarmi.
«Aspetta, ma…»
«E niente più rosette!» con questo, zittii chiunque dei due mi avesse richiamato e quasi fuggii nella mia dolce, noiosa, solitaria, umile, spoglia casa. «E io che volevo un cane. Col cazzo, sto molto meglio da solo,» mi dissi, una volta lanciate le scarpe in un angolo dell’ingresso ed essermi gettato a volo d’angelo sul divano più grande. «Pessima giornata, pessima,» mormorai tra me e me prima di stiracchiarmi e concedermi dieci minuti di riposo.

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Ringrazio chi ha messo la storia nei seguiti e la persona tanto gentile che ha lasciato un commento *_* Grazie!
Stavo pensando che Andrea è proprio insopportabile… Ho creato un personaggio impossibile da apprezzare XD Ma non so chi sia peggio tra lui e Fabio. Pure quello, boh, non so da dove mi sia saltato fuori ^^’
Beh, alla prossima :)




 

 


Mirokia

 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Cap. 3





 



Fortunatamente, in quegli ultimi giorni che mi separavano dalle prime lezioni universitarie, il pane smise di comparirmi magicamente sulla soglia della porta. Il che mi sollevò a tal punto da quasi migliorarmi l’umore. Se prendevo il caffè, per esempio, non davo di matto e riuscivo a godermelo senza effetti collaterali; se la vicina veniva a chiedermi del prezzemolo –non capivo che diavolo ci facesse con tutto quel prezzemolo- non la squadravo dall’alto in basso quasi mi avesse ucciso il gatto; e, soprattutto, non toccavo sigaretta, anzi, ero convinto di avere il pacchetto vuoto e quindi neanche ci pensavo. Decisi di approfittarne un po’, ché non capitava tutti i giorni che mi sentissi tranquillo e pacato, e giusto la serata che precedeva la mia prima lezione dell’anno, presi la mia bella macchina e me ne andai a fare un giro in centro città.
Avevo saputo che una mia ex compagna del liceo, giusto un paio di mesi prima, aveva aperto un locale tutto suo, e quella mi sembrò la serata adatta a bere e ricordare i vecchi tempi con un’amica. Così l’avevo chiamata, al che era rimasta stupita, diceva di non ricordarsela così bassa, la mia voce. Avevo riso goffamente e le avevo detto che probabilmente era tutto dovuto alla mia calma, ché quando mi salivano i cinque minuti sapevo incrinare la voce a dovere. Poi le avevo chiesto se potevo fare un salto a trovarla, se, insomma, le avrebbe fatto piacere. Quella mi aveva risposto che certo, mi avrebbe accolto a braccia aperte, macché, spalancate, e subito mi aveva dato l’indirizzo del locale.
In una mezz’oretta scarsa avevo già parcheggiato nella piazza giusto lì accanto e avevo raggiunto il bar a piedi.
Perderlo di vista era praticamente impossibile, ciononostante camminavo talmente svelto da averlo sorpassato. Poi guardai i numeri affissi al muro e mi grattai la testa sentendomi in imbarazzo, ché un gruppetto di tizi poco raccomandabili, ognuno con una birra in mano, seguiva i miei movimenti con un sorrisetto di scherno. Solo quando mi posizionai di fronte al locale della mia amica, si misero tutti a ridere, per poi fingere di star parlando di un argomento divertente. Alzai le spalle piuttosto incurante e con esse il capo: sopra ad una grande porta con due battenti rivestiti con vetro opaco di un color verde bottiglia, troneggiava un neon non molto luminoso, di un tenue verde scuro, che diceva: “Olsen: The Land of Happiness”, e l’ultima parola si illuminava a intermittenza, non so se fosse fatto apposta o se fosse rotta. Entrai cauto e subito mi accorsi della luce verdognola e soffusa che mi impediva di distinguere i dettagli all’interno. Intercettai delle ombre di persone e poltrone, e in fondo quella del bancone. Riuscii a evitare un tavolino nel centro della sala grazie a un neon verde a forma di cicogna che puntava fortunatamente nella mia direzione.
«Beh, non è male…» mi dissi, sempre ben attento a non urtare o calpestare nulla mentre mi avvicinavo al bancone nero e lucido. Due ragazzi mi urtarono per passare e subito alzarono una mano in segno di scusa. Dissi loro di non preoccuparsi e poggiai sospirando le mani sul bancone.
«Andrea! Che piacere!»
Dall’alone verde e bianco spuntò una nuvola altrettanto fitta di capelli ricci, in cui riuscii a riconoscere i lineamenti della mia amica.
«Ehilà, Giusy. Come stai?» chiesi, e mi allungai per darle due baci sulle guance.
«Benone, come vedi! Sono contenta che tu sia venuto a trovarmi,» mi sorrise e io feci lo stesso. Mi piaceva chiacchierare con Giusy, era una delle poche persone con cui mi sentivo a mio agio e di cui gradivo la compagnia.
«Proprio bello, il tuo locale!» esclamai quindi guardandomi intorno. Due donne avevano appena preso posto nel tavolino a pochi metri da me, quello su cui per poco non rovinavo, giusto qualche minuto prima.
«Davvero? Agli altri non ha fatto una bella impressione…» ammise lei mentre prendeva un bicchiere da asciugare.
«Ma va. E’ carino. Ha anche un bel nome. “La Terra della Felicità”, eh? Credi che uno come me riuscirebbe a trovare un po’ di felicità, qui dentro?» chiesi ridendo, e mi accorsi di aver riportato a galla quella mia mancanza di serenità con cui mi vedevo costretto a convivere.
«Beh, se hai certe tendenze, sono sicura di sì,» rispose lei tutta felice. Tendenze?
«Cosa? In che senso?» domandai, con due punti interrogativi al posto degli occhi. Quella sospirò e strofinò lo straccio sulla base del bicchiere.
«Dai, non dirmi che non te ne sei ancora accorto,» disse, col tono di chi si è scocciato di ripetere sempre le stesse cose. Poi indicò il tavolo accanto a me e, quando mi voltai in quella direzione, vidi le due donne che s’erano sistemate lì poco prima tenersi le mani e baciarsi tranquillamente. Sobbalzai, e non feci in tempo a ricostruirmi l’immagine che avevo appena visto in testa, che notai due ragazzi alla mia destra che si sorridevano e ammiccavano. Mi girava la testa, adesso.
«Ma…non mi avevi detto che si trattava di un locale gay!» esclamai, sentendomi fuori posto.
«E perché avrei dovuto dirtelo?» ribattè lei, poi sbuffò tirando indietro qualche riccio che gli cadeva prepotente sulla fronte.
«Ma tu sei…
«No, non lo sono. E’ stato un mio amico gay a farmi venire l’idea,» disse, e si spostò per chiedere ai due alla mia destra se volessero qualcosa da bere. Loro dissero che sì, magari due Margaritas, così, per ravvivare la serata. Qualcosa di leggero.
Mi grattai nervosamente il labbro inferiore, e aspettai molto impazientemente che Giusy finisse di ridacchiare con quei tizi, ma dato che sembrava volermi ignorare, mi alzai dallo sgabello, deciso ad andarmene. Ma quella mi vide e mi fermò.
«Aspetta, Andrè, non andare via così,» poi fece il giro del bancone e mi venne incontro. «Siediti, dai. Ti offro qualcosa da bere e poi chiacchieriamo un po’, ti va? Tanto ci sono Martina e Ascanio al bar,» fece dopo avermi accompagnato e fatto accomodare ad un tavolo. Ammetto che, mentre aspettavo che Giusy finisse di servire gli ultimi clienti, puntavo occhiate guardinghe ovunque, quasi avessi timore di vedermi comparire davanti  un omone di colore alto tre metri e spesso due, che mi ordinava di andare a letto con lui, altrimenti mi avrebbe spappolato il cervello. Mi venne la risatina isterica al pensiero. E’ vero che una persona si piazzò nel mio stesso tavolo, ma non era né alta, né di colore e non aveva intenzione di spappolarmi il cervello. Mi notò solo dopo un paio di minuti.
«Scusa, era occupato?» chiese, la voce particolarmente ferma e controllata. Cercai di scrutarlo con l’aiuto della poca luce e riuscii a capirci qualcosa: era un tipo giovane, avrà avuto tra i venticinque e i trent’anni. Teneva i capelli neri corti dietro e lunghi sul ciuffo, che ricadeva sugli occhiali da vista dal bordo nero.
«No no, fai pure,» risposi con la voce leggermente incrinata e lo sguardo che fuggiva.
«Grazie,» ringraziò, e prese a fissarmi senza pudore, mentre io picchiettavo nervosamente le dita sul tavolo. «Sei etero?» chiese dopo neanche tanto tempo. Lo guardai con una faccia da “Ma come…?”, e lui sorrise bonario. «Per il semplice fatto che eviti il mio sguardo,» rispose alla domanda che gli avevo fatto mentalmente. Assunsi un’espressione imbarazzata, e quello agitò la mano davanti a sé. «Non ci proverò con te, tranquillo».
A quelle parole, rilassai i muscoli e smisi di picchiettare le dita.
«Mi dispiace,» mormorai, e mi accorsi che era la cosa più stupida che potessi dire. Mi dispiacevo per che cosa, esattamente? Ero idiota?
«Ma figurati, anche se è un peccato. Comunque, io sono Giulio, piacere».
«Andrea,» e ci demmo la mano. Pensai con una punta di cinismo a che cosa aveva potuto fare con quella mano, anche poco prima.
«Non preoccuparti, è persino più pulita della tua,» asserì con un altro sorriso. Che aveva sempre da sorridere? E perché sembrava sapermi leggere nel pensiero? Diamine, i tipi strani tutti io li incontravo. «Come sei capitato qui? Sei amico di Giusy?»
«Esatto,» mi affrettai a rispondere. Lui mi guardò di sottecchi, gli occhiali che scivolavano piano sul naso.
«Ehi, non essere così nervoso. Davvero, hai addosso un’inquietudine che mi mette paura,» disse con la faccia preoccupata, e cercò di farmi sentire a suo agio con una pacca sulla spalla.
«Inquietudine? Quale inquietudine?» Ci capivo sempre meno.
«Lo intuisco dal tuo modo di fare».
Lo guardai un attimo infastidito, e a quel punto mi venne spontaneo fargli una domanda, seppur senza alcun tipo di cattiveria.
«Ma sei uno…psicologo, o qualcosa del genere?»
Lui sorrise soddisfatto e annuì poggiando il mento sulle mani intrecciate.
«Amo il mio lavoro». Anche io feci di sì con la testa.
«Dev’essere interessante». Giulio fece una faccia sognante.
«Non sai quanto,» disse, e provai un pizzico d’invidia per quel ragazzo che sembrava provare un amore viscerale per il suo lavoro. Probabilmente, tornava a casa col sorriso sulle labbra, o magari non vedeva l’ora di alzarsi la mattina per andare al lavoro. L’invidia quasi mi sotterrò. «Decodificare i pensieri, le emozioni e i sentimenti è qualcosa di affascinante. Sai cosa mi dicono i miei colleghi? Che sono particolarmente in gamba per quanto riguarda i sentimenti amorosi,» continuò quel Giulio, e io feci una faccia da “Ah, sì?”, curioso di cosa avrebbe detto dopo. «Insomma, sono in grado di individuare il momento esatto in cui nel cuore di una persona scatta l’amore,» mentre finiva la frase, Giusy mi portò un bicchiere lungo pieno di un liquido azzurro fosforescente, salutò Giulio e disse che ci avrebbe raggiunto in un batter d’occhio.
«E come ci riesci?» mi azzardai, tentando di portare avanti quel discorso. Non sapevo neanche io cos’era, ma iniziava a interessarmi.
«Risulta molto più semplice se hai la possibilità di posare una mano sul petto della persona in questione e ne puoi ascoltare il respiro e il battito cardiaco. Accade qualcosa di curioso, perché il petto s’alza e s’abbassa più velocemente del normale, ma il respiro è mozzato, quasi assente. E’ un controsenso, se ci pensi. Il cuore, invece, fa un balzo non indifferente e facilmente percepibile». Giulio si interruppe un attimo per rispondere al telefono. Stette giusto qualche secondo, disse un paio di parole, borbottò un saluto e poi chiuse la comunicazione. «Che dicevo? …Ah, sì. Se, invece, non hai la possibilità di percepire il battito e il respiro, occorre un’analisi più vaga delle zone erogene o, in generale, le zone più ricche di terminazioni nervose, e quindi più delicate».
Eh?
Probabilmente gli rivolsi uno sguardo da pesce lesso, perché rise con una mano davanti alla bocca. Poi riprese, più lentamente e con termini decisamente più semplici.
«I dettagli più frequenti sono la lucidità degli occhi, perché le palpebre sbattono più velocemente, i palmi delle mani sudano leggermente e le punte delle dita diventano gelide. Le labbra tremano quasi impercettibilmente e, per i più sensibili, vi è il tipico rossore delle guance. E tutto questo si svolge in pochi istanti, ci credi?» concluse con un sorriso gigantesco, e con quella domanda che rimase sospesa tra noi. Stetti un attimo in silenzio, perché impegnato ad annotarmi tutto ciò che Giulio mi aveva appena comunicato. Magari mi sarebbe potuto servire, un giorno. E, dirò, non avevo tutti i torti.
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Dopo una vivace conversazione con Giusy e Giulio, dissi loro cortesemente che avevo da andarmene, davvero spiacente. Arrivai a casa che era l’una e mezza di notte e, una volta mollata giacca e sfilata la camicia, misi su il nuovo cd di Jason Mraz, come se non fosse abbastanza tardi. Me l’ascoltai tutto, senza saltare neanche una traccia, e intanto navigavo distrattamente su internet col computer portatile sulle gambe. La decisione di restare sveglio un’altra mezz’ora abbondante non fu delle migliori, perché la mattina dopo mi alzai più stordito del solito. Sì, era stata una pessima idea fare notte fonda proprio la sera prima del mio ritorno in aula. Di malavoglia, mi trascinai in cucina col giornale del giorno prima sotto l’ascella, accesi la macchinetta del caffè e ci misi su una capsula aromatizzata. Poi premetti un pulsante e lasciai scendere il caffè. Il tutto ad occhi rigorosamente chiusi.
Senza neanche degnarmi di aprire il giornale –d’altra parte, avevo gli occhi chiusi- bevvi il caffè e andai a vestirmi: giacca e cravatta, scarpe lucide e dello stesso colore della cintura, occhiali da vista sul naso. Li indossavo solo durante le ore di lezione, ma metterli in anticipo mi impediva di dimenticarli sul comodino. Diedi un’occhiata al mio riflesso sullo specchio in camera da letto e storsi il naso: mai una volta che avessi i capelli più o meno a posto. E poi avevano come delle striature più chiare, segno del passaggio del sole. Non andava per niente bene, sembravo ancora più vecchio così. E quelle rughe sulla fronte? Lo dicevo che dovevo piantarla di starmene sempre lì accigliato, quasi tutto il mondo m’avesse fatto un torto. E quel paio di borse scure sotto gli occhi?
Mi passai una mano sul volto tentando di distogliere l’attenzione dal mio pessimo aspetto fisico; e allora la rivolsi al pacchetto di sigarette abbandonato sul comò, ma scossi la testa e decisi di resistere alla tentazione lasciandole lì dov’erano: più che altro non avevo voglia di parlare a un docente e puzzare di fumo.
Presi la mia cartella blu scuro, le chiavi della macchina, e uscii di casa con l’umore a zero, come al solito. Quel temporaneo buonumore del giorno prima mi sembrava già fin troppo lontano. E, sempre come al solito, arrivai in aula puntuale come un orologio svizzero. Puntuale, noioso, monotono, con la vita che va avanti per inerzia. Vidi l’aula brulicare di alunni che si stavano sistemando ordinatamente sulle sedie disposte ad arco. Quando il suono di passi si placò, mi permisi di percorrere con lo sguardo ogni viso di ogni allievo, come per avere un quadro più chiaro della situazione. Non l’avessi mai fatto. Lì nella seconda fila partendo dall’alto individuai un viso conosciuto. No, due visi conosciuti: erano quel Valerio e il suo amico strambo. A pensarci, il primo mi aveva detto che avrebbe preso letteratura all’università, solo che io non avevo dato affatto peso alle sue parole. E adesso me lo ritrovavo come studente. Ma poteva essere possibile anche solo pensare a una tale rottura? E lui aveva una faccia se possibile ancora più sorpresa della mia, mentre se ne stava lì con la bocca spalancata.
Cercando con tutte le mie forze di ignorare la sensazione di essere puntato da due occhi particolarmente insistenti, mi voltai e scrissi il mio nome alla lavagna.
«Buongiorno a tutti. Mi chiamo Andrea Ruggeri e sarò il vostro insegnante di letteratura latina e italiana,» dissi dandomi un tono. Qualcuno fece cenno di aver ricevuto il messaggio, altri quasi mi ignoravano, un gruppo di ragazzine mi guardavano ridacchiando. Scossi la testa e diedi un’occhiata all’elenco dei ragazzi iscritti al mio corso: c’erano solo un Valerio e un Fabio: il primo faceva di cognome “Castelli”, l’altro “Martone”. Quando alzai nuovamente gli occhi sulla classe, Castelli agitava la mano in segno di saluto, mentre Martone se ne stava con la guancia appoggiata alla mano e lo sguardo scocciato rivolto alla finestra. Ed è solo il primo giorno, pensai esasperato. Ignorai quel saluto rivolto con tanto entusiasmo e proseguii con la mia prima lezione dopo l’estate, che sembrava essersene andata del tutto, dato che era iniziata a cadere una pesante pioggia.
“Splendido, splendido!” mi dissi ironico, le rughe sulla fronte sempre più profonde, lo sguardo talmente truce che le ragazze che prima mi guardavano ridendo adesso erano quasi intimorite dal mio aspetto.
Fortunatamente, la lezione finì più in fretta di quanto avessi calcolato e uscii insieme ai ragazzi, pronto a farmi una corsetta sotto la pioggia per raggiungere la macchina. Utilizzai a malincuore la mia adorata cartella per ripararmi alla bell’e meglio, e il fatto che stessi sprofondando già in alcune pozzanghere mi diede sui nervi. Possibile che avesse già piovuto tanto? Forse è perché chi vive per inerzia non s’accorge del tempo che scorre o di ciò che gli succede intorno? Ma dovetti rispondermi di no quando m’accorsi di una ragazza che pure faceva di tutto per coprirsi con la giacca, senza successo. Dai capelli ricci e rossi la riconobbi come una mia studentessa del terzo anno.
«Giannizzi, hai scordato l’ombrello?» mi permisi di chiederle tentando di sovrastare il chiasso che facevano i piedi nelle pozzanghere. Una domanda piuttosto stupida, Ruggeri, complimenti.
«Sì, professore,» disse lei quando mi riconobbe attraverso la pioggia fitta. «Non è che può darmi uno strappo anche questa volta?»
«Ma certo, Giannizzi, altrimenti tornerai a casa zuppa. Vieni». Lei fece come le era stato detto, uscì dal cancello principale subito dopo di me e si accartocciò la giacca ormai impregnata sotto il braccio nel momento in cui si dovette piegare per entrare in macchina.
«Mi dispiace, le bagnerò tutto il sedile…» mi disse la ragazza, di cui non ricordavo neanche il nome. I capelli gocciolanti avevano preso un colore decisamente più scuro e gli occhi erano di un grigio tetro incastonati in un viso dalla pelle bianca come latte, con una spruzzatina di lentiggini sul naso.
«Non preoccuparti, cosa vuoi che sia un po’ d’acqua,» replicai stranamente cortese, e misi in moto. Dopo aver fatto dieci metri con la pioggia impossibile che batteva forte sul parabrezza, m’accorsi di due ragazzi che si accingevano ad andare via in moto. Avrei capito se avessero avuto entrambi il casco, ma uno di loro sembrava esserne sprovvisto, e chissà che febbrone da cavallo si sarebbe preso in moto con quella tempesta. E non era neanche un ragazzo qualunque, per dire. Mi accostai appena dietro la moto e abbassai leggermente il finestrino ignorando momentaneamente la pioggia che mi investiva in pieno.
«Castelli, non ti conviene andare in moto con questo tempaccio. Sali in macchina, che ti porto io a casa,» dissi, come automaticamente, nonostante dovessi ben sapere che fare il buon samaritano non ripagava mai. Anzi. Ti ripagava, sì, ma con una seccatura dietro l’altra.
«Ma io devo andare da lui,» mi urlò quello di rimando, e indicò il compagno sulla moto che, anche senza fare due più due, immaginai fosse Martone.
«Allora ti accompagno a casa sua. Muoviti, ché non posso stare fermo per molto,» ribattei, e tirai subito su il finestrino, qualunque sarebbe stata la sua risposta. Vidi il ragazzo annuire e andare a dire due parole al ragazzo che, visibilmente infastidito, s’allacciò il casco, allontanò il piede dal marciapiede e partì senza degnarsi di rispondere. Che diavolo hanno in testa i giovani d’oggi?
«Scusa per il disturbo,» fece Castelli quando entrò in macchina, e mi stupii del “tu” che continuava ostinatamente ad usare.
«Niente,» mugugnai scostante, poi misi la prima e ripartii. In tutto quel trambusto, Giannizzi si era limitata a tracciare segni incomprensibili sul finestrino appannato. Non mi arrabbiai, sapevo che era un suo vizio, che non lo faceva mica apposta. Mi innervosiva non ricordarmi il suo nome, così aguzzai la vista sull’etichetta che pendeva dalla cartella che teneva poggiata sulle gambe e mi schiarii la gola.
«Martina, tu abiti in Via…Chiesa, vero?»
Lei annuì e mi disse che le dispiaceva da morire farmi arrivare fin lì, anche se era decisamente esagerata, visto che non era così lontano da casa mia. Guardai nello specchietto retrovisore il moccioso là dietro che se ne stava troppo zitto, e vidi che adesso guardava il sedile in cui era seduta la mia allieva di traverso, e lo fece per tutta la durata del viaggio. Fortunatamente, la ragazza sembrò non accorgersi dello sguardo truce di quello, e se ne stette a guardare con occhi preoccupati la pioggia che non voleva saperne di diminuire.
«Non preoccuparti, è una scaricata passeggera,» dissi accennando un sorriso. Lei sembrò rilassarsi alle mie parole, e si appoggiò meglio allo schienale, gli occhi socchiusi.
«Grazie, professore. Anche questa volta mi ha salvata,» ringraziò la ragazza quando mi fermai davanti al suo grande portone marrone scuro. Le rivolsi un sorriso rassicurante e la salutai con la mano appena prima che scappasse sotto la pioggia con lo zaino sulla testa.
«Dove abita il tuo amico?» chiesi poi rivolto all’altro mio ospite.
«Vado a casa mia». Mi diede una risposta non pertinente che mi costrinse a guardarlo dallo specchietto retrovisore: teneva le braccia incrociate al petto e gli occhi trasparenti incollati al finestrino reso opaco dal vapore acqueo. Non capivo che ci fosse da guardare, lì fuori. E in ogni caso, non avrebbe visto nulla col vetro appannato.
«Bene. Allora dov’è che abiti, Castelli?» chiesi quindi sbuffando piano. A quella domanda, lui reagì slegando le braccia e infilando di scatto la testa in mezzo ai due sedili. Che diavolo, i movimenti fulminei di quel tizio rischiavano di farmi venire un infarto, dato che io, prima di fare qualcosa, ci pensavo almeno dieci volte. O semplicemente ero troppo pigro per farlo in fretta.
«Perché non chiami anche me per nome? D’altra parte mi conosci già…»
Le sue parole mi fecero aggrottare le sopracciglia dallo stupore e mi costrinsero ad appoggiare la fronte sulla mano aperta. Ma che passa per la testa ai giovani d’oggi?
«Perché dovrei farlo? Io sono il tuo insegnante, tu un mio studente e ti tratto come tale,» risposi sperando di sembrare paziente. Anche se la vibrazione nella mia voce non prometteva nulla di buono.
«Ma con quella ragazza…» tentò di dire, ma lo fermai sul tempo.
«Ti prego di non paragonarti agli altri,» e il mio tono sembrò tanto duro da convincerlo a stare zitto. Avrà pensato che non sopportassi la sua vista, che non potessi soffrire il suo atteggiamento, che odiavo la sua voce e avrei voluto togliermelo in fretta dai piedi e magari non vederlo mai più. E forse poteva anche esserci un fondo di verità, ma io, i problemi, ce li avevo con me stesso. Il ragazzo non c’entrava niente, e io mi stavo comportando come un cafone senza che nemmeno lo conoscessi. Un atteggiamento infantile, senza dubbio.
“Quando hai intenzione di crescere per davvero?!” la voce della mia ex moglie mi riecheggiava nelle orecchie come un lontanissimo ricordo, e risaliva solo all’estate prima. Mi chiesi se fossi stato io a sbagliare tutto nella vita. Forse già solo l’idea di vivere come viene non era delle migliori, figuriamoci metterla in pratica. E mi dissi che, in realtà, non ricordavo di aver mai messo davvero in pratica qualcosa. Sospirai pesantemente e mi passai il palmo della mano sulla fronte umida, poi guardai nuovamente nello specchietto.
«Puoi dirmi dove abiti?»
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Castelli non parlò più dal momento in cui m’aveva comunicato la via e il numero in cui abitava. Si limitò ad indicarmi il cancello verde bottiglia quando ci passammo accanto, e io mi accostai il più possibile per non fargli prendere troppa pioggia. Ma fortunatamente, quando il ragazzo uscì dalla vettura, qualcuno si affrettò a coprirlo con un enorme ombrello blu scuro.
«Oh, grazie al cielo sei tornato,» mi sembrò di sentire sotto il frastuono della pioggia. Poi lo vidi abbassarsi sul mio finestrino, il ragazzo accanto a lui che si divincolava dalla sua stretta. Rassicurato dall’ombrello che avrebbe coperto anche il mio volto, abbassai il finestrino, e l’uomo –che, notai, era calvo e aveva incastonati nel viso due occhi tondi e azzurri, quasi inquietanti-, allungò la mano che prima era serrata attorno al braccio di Castelli.
«Buongiorno, sono Andrea Ruggeri, l’insegnante di Valerio,» mi presentai allungando la mano a mia volta. Lui fece un mezzo inchino rispettoso, e gli occhi lucidi sembravano parlare da sé.
«La ringrazio infinitamente di essersi disturbato così tanto. Grazie per aver riaccompagnato mio figlio». Per come mi lodava e riveriva, sembrava non vedesse il figlio da settimane. Scossi la testa e aguzzai la vista su Castelli, che sembrava ancora scuro in volto, le mani in tasca e lo sguardo rivolto altrove.
«Ma si figuri, non è stato un problema. Abito a pochi isolati da qui,» dissi per tagliare corto. Come al solito, mi sentivo tremendamente a disagio quando venivo messo in soggezione.
«Papà, ti avverto che non resterò molto,» disse il figlio, seppur a bassa voce. L’altro lo ignorò deliberatamente e si alzò leggermente con la schiena per salutarmi.
«La lascio andare, professore. Buona giornata, e grazie ancora!»
Gli feci un cenno di saluto, chiusi il finestrino e ripartii scivolando un poco sull’acqua, gli occhi offesi di Castelli che sembravano ancora puntarmi. E certo che avevo dei problemi, sicuramente ero io quello che non andava. Semplicemente, sembrava che per quanto prendessi bene la mira e tenessi fermo l’arco, non riuscissi a fare in modo che la freccia centrasse il bersaglio, o che almeno ci si avvicinasse, al bersaglio. Tanto per dirla con una metafora.



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Ringrazio in particolare El, che si è interessata alla storia <3 E chi commenta e mette nelle seguite, ovviamente.
Ho introdotto quattro nuovi personaggi, due dei quali –Giusy e Giulio- compariranno ancora per tutto il resto della storia. Giusy è un personaggio allegro, l’ho fatta così perché mi piacerebbe essere come lei, sempre vogliosa di fare e sorridente e amichevole e servizievole. Ma probabilmente sono affezionata di più a Giulio; lo immagino come un esserino piuttosto basso e magro ma con le spalle larghe, i capelli nerissimi che quasi gli coprono gli occhi e gli occhiali neri alla moda. E lo vedo molto affabile, ma con la voglia di divertirsi –e lo fa, quando trova l’occasione lol-. Il padre di Castelli –ha anche un nome, verrà svelato nel prossimo capitolo- è un tizio un po’ patetico, che fa le cose e poi subito se ne pente e vorrebbe tornare indietro nel tempo. Tipico di molta gente, insomma. Giannizzi è una tipa un po’ svampita (già il fatto che scrive cose sui finestrini delle macchine altrui senza accorgersene è preoccupante) e per il suo aspetto mi sono ispirata a una ragazza che conosco, dai luuunghi capelli ricci e rosso fuoco, qualcosa di spettacolare (tipo The Brave XD Andate a guardarlo, a proposito XD).
E niente, spero che Andrea non rompa troppo le balle, riconosco che non sia molto simpatico come personaggio, ma credo che in seguito migliorerà XD Su Valerio non dico nulla perché mi piace, e la vorrei conoscere per davvero, una persona come lui. Penso non mi annoierebbe mai, o comunque farebbe molta fatica :)
Okay, la smetto, mi sto dilungando. Un abbraccio!




Mirokia

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Cap. 4

 

 





Quando quella sera suonò il campanello, ebbi quasi il timore di vedermi comparire dell’altro pane sulla soglia. Il fatto che il campanello mi suonasse solo quando la vicina voleva del prezzemolo e quando un degenerato scaricava razioni di pane sulla porta, mi faceva sentire alquanto sfigato. E solo, magari. Ma quando aprii, un dolce aroma si prese possesso delle mie narici, e sorrisi quando intercettai la figura della signora Rosaria. Era una donna bassa e magrolina che a fatica si teneva in piedi: era già da qualche anno che aveva contratto una malattia che presto l’avrebbe resa disabile, e andava sempre peggiorando, i capelli gli si imbianchivano sempre più velocemente, le gambe e le braccia sembravano muoversi al rallentatore, la mandibola a volte andava per conto suo, la lingua le si attaccava al palato mentre parlava, facendola incespicare nelle parole. Abitava al secondo piano, e di tanto in tanto veniva a portarmi qualcosa da mangiare, sostenendo che fossi sciupato, quando lei era almeno la metà di me.
Disse che aveva fatto un attimo fatica a scendere da me, e alla mia domanda “E non ha preso l’ascensore?” lei rispose che era roba da vecchi aspettare l’ascensore, perciò aveva fatto prima a scendere a piedi. Adesso mi porgeva una delle sue torte alla frutta dicendo che ci teneva tantissimo a farmela assaggiare.
La signora Rosaria mi riempiva sempre di complimenti ed era piacevole conversare con lei: nonostante non riuscisse quasi mai ad iniziare una frase senza balbettare o strabuzzare gli occhi, era particolarmente intelligente e arguta, e sapeva reggere qualunque tipo di discorso. Diceva sempre di volermi adottare, perché avrebbe sempre voluto un figlio maschio e, se mai l’avesse avuto, l’avrebbe desiderato identico a me. Mentre mi parlava, di tanto in tanto aggiungeva un “Come sei bello”, e mi dava pacche affettuose sulle spalle e buffetti sulla guancia, e io quasi tornavo bambino quando ero in sua compagnia. E anch’io, ormai, la consideravo al pari di una madre, sempre così premurosa e incoraggiante, solare e attiva, nonostante i suoi problemi.
Rosaria lasciò la torta e poi tornò a casa, ché aveva la domestica a casa e non si fidava a lasciarla da sola, mi confidò con un occhiolino. Chiesi se volesse che l’accompagnassi, ma quella disse che questa volta avrebbe  preso volentieri l’ascensore. Ringraziai ancora per la torta e tornai dentro, per poi mangiarmene due grosse fette e leccarmi golosamente i baffi. Dopodiché, mi misi a guardare senza troppa voglia un film su Mediaset Premium, ma l’abbiocco causato da quella splendida torta mi costrinse ad abbassare il volume al minimo e a prendere sonno lì sul divano, i capelli ancora non del tutto asciutti dalla doccia che avevo fatto qualche ora prima.
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Il giorno dopo mi svegliai tutto dolorante, con la schiena bloccata per metà, e pensai di darmi seriamente per malato già il secondo giorno. Ma i sensi di colpa me lo impedirono, dannazione. Sarebbe stato meglio non mettere proprio il naso fuori casa. Infatti, chi mi ritrovai all’uscita dall’università, in piedi accanto al cancello, un paio di vecchi occhiali da sole, una mano in tasca e l’espressione imbarazzata? No, non Castelli, bensì il padre. Vedevo grosse, enormi nuvole nere all’orizzonte. Implorai qualunque Dio che non fosse lì per me, ma in effetti, perché doveva essere lì per me? Non aveva motivo di cercarmi, e io mi stavo facendo seghe mentali per nulla. Non girava mica tutto intorno a me, santo cielo.
«Professor Ruggeri…
Mi congelai sul posto. L’avevo sorpassato tentando di ignorarlo e adesso mi stava chiamando. Probabilmente voleva solo essere salutato, dopotutto ci eravamo conosciuti il giorno prima e sarebbe stato maleducato da parte mia non accennare un saluto. Doveva essere quello, senz’altro.
«Si ricorda di me? Sono il signor Castelli, ci siamo conosciuti ieri,» mi disse, mentre io gli davo ancora le spalle, indeciso se ignorarlo per davvero o girarmi a dargli retta. E di certo non sono un maleducato, io. Mi voltai sorridendo imbarazzato e con una mano dietro la nuca, poi mi accorsi che dovevo sembrare particolarmente ridicolo, e feci un colpo di tosse per poi tornare serio e impeccabile –come se ne fossi davvero capace.
«Certo che mi ricordo, buongiorno. E’ venuto a prendere suo figlio?» chiesi speranzoso, anche se dovevo ammettere che non me ne importava nulla.
«No, non credo verrebbe con me,» rispose quello, tono e espressione malinconici. Fece una pausa, e a me venne da ridere per il nervoso, perché quel silenzio non prospettava nulla di buono. Io e i miei brutti presentimenti sempre fondati, dannazione.
«Senta, ha qualche minuto per me?» chiese quindi, e io lo guardai con una faccia da “Lo sapevo!”
«A-adesso?» feci guardando l’orologio da polso. Ovviamente non avevo nessun impegno, ma lo sguardo cadde lì automaticamente.
«Sì, ma se ha impegni, possiamo fissare un colloquio…» si affrettò a dire l’uomo, le mani sulla difensiva. No, Dio, odiavo i colloqui. Mi mettevano seriamente ansia, e non ne capivo ancora il motivo. E poi, le scocciature, è meglio togliersele di torno il più in fretta possibile, se non si vuole temerle nei giorni a venire.
«No, guardi, va bene adesso. Pranzerò più tardi, non ci sono problemi,» assentii, con lo stomaco che mi si era chiuso per davvero. «Di cosa deve parlarmi?» aggiunsi. Lui si fece più vicino, quasi mi volesse confidare un segreto e,
«Vorrei che andassimo a parlare da qualche altra parte,» disse, probabilmente infastidito dalla grande quantità di ragazzi che s’erano fermati sul cancello.
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Pochi minuti dopo eravamo in un bar lì di fronte a prendere un aperitivo, i miei occhi che tornavano più volte sui pasticcini strabordanti di crema in bella vista nelle teche di vetro.
Il padre di Castelli, che mi aveva detto di chiamarsi Bruno (ironico, vista la mancanza di capelli e la pelle chiarissima), sembrava turbato e incerto se quanto stava per dirmi fosse opportuno o meno. Io prendevo sorsi dal mio ginger col sopracciglio destro che pulsava e i pasticcini che mi chiamavano. Non bastava la torta alla frutta della signora Rosaria, no.
«E’ per caso successo qualcosa?» mi azzardai allora, visto che non si decideva a spiccicare parola.
«In effetti sì…e va avanti da due settimane…» riuscì finalmente a dire, le mani che si torcevano e lo sguardo che fuggiva.
«Me ne vuole parlare?» Ecco, l’atteggiamento da buon samaritano. Non mi smentivo mai. Mai. E poi, cos’era quel tono da colloquio di lavoro?
«Si tratta di mio figlio…»
“E ti pareva,” pensai all’istante, rendendomi conto che quel ragazzino era ormai ovunque: nel mio quartiere, sul posto di lavoro e anche nei discorsi. Scossi la testa e provai a prestare attenzione alle parole dell’uomo, piuttosto che ai pasticcini. «Vede…Mi vergogno un po’ a dirlo, ma io quest’estate mi sono risposato per la terza volta…»
“Complimenti, playboy,” avevo voglia di dirgli ironicamente, ma mi trattenni. Non avrei mai voluto sembrare maleducato o confidenziale.
«E per quanto mia moglie tenti di essere buona e gentile, non riesce a farsi accettare da mio figlio. E lo stesso è successo con la mia seconda moglie,» fece una pausa e ne approfittai per fargli capire che stavo seguendo il discorso con un cenno del capo. Adesso aveva abbassato la testa e strisciava nervosamente il pollice sul bicchiere di forma allungata. «Sa, con sua madre aveva un rapporto stupendo. Non faceva che renderla orgogliosa, che assecondarla, che portarla in giro, fuori al parco, a fare le passeggiate…»
«Portarla in giro?» iniziavo a vederci un attimo più chiaramente.
«Mia moglie era malata,» spiegò mentre si grattava la nuca con una mano, forse leggermente a disagio. «Stava sulla sedia a rotelle. Un anno dopo è morta,» lo disse normalmente, come se fosse una storia già raccontata fino allo sfinimento. Non mi azzardai a chiedere che razza di malattia avesse la sua prima moglie e mi limitai a dire che mi dispiaceva molto.
«Grazie, professore,» ringraziò con il capo inclinato verso il basso, la voce distorta da una nota d’emozione. «Mio figlio rimase molto colpito da questa morte e, quando conobbi Elena, mi giurò che, se l’avessi sposata, mi avrebbe detestato e, con me, anche lei. Tuttavia io presi sottogamba quella specie di minaccia e la sposai comunque. Valerio mantenne la sua promessa e, anche se in casa c’era, sembrava un fantasma ed evitava qualsiasi tipo di contatto con noi,» si fermò a bere e si assicurò che stessi ascoltando e seguendo il discorso. «In quel periodo, pensai ad una depressione adolescenziale temporanea. Sa, delle parole dette con leggerezza da ragazzini ancora ingenui. Però, quando divorziai da Elena e tentai di ricominciare con Monica, lui non ci vide più e dopo qualche settimana lasciò addirittura la casa,» concluse, con voce rotta, l’aperitivo che per poco non gli andava di traverso, per la velocità con cui sentì il bisogno di bagnarsi la gola subito dopo.
«E questo è successo due settimane fa?» chiesi per conferma dopo essermi assicurato che non si stesse affogando.
«Esatto».
“Allora perché diamine parli in passato remoto?” mi chiesi grattandomi il mento e chiudendo gli occhi per non lasciar trasparire il fastidio che mi formicolava all’altezza della nuca.
«E dove sta adesso?» chiesi allora, la mano che si spostava dal mio mento ruvido alla nuca. Mi rendo conto che potesse sembrare un gesto maleducato, quello di stare sempre a toccare la nuca, ma in quel momento non mi sembrò rilevante.
«Come?» fece quello sollevando il capo dalla propria bevanda.
«Suo figlio, intendo. Dove vive?»
«E’ proprio questo il problema. Si è rifugiato a casa di un amico di cattiva fama che non mi pare la compagnia più adatta,» rispose con faccia ricca di astio e pregiudizio, lo sguardo che fuggiva sulla vetrata accanto a noi. Facendo sapientemente il solito due più due, ne dedussi che quell’amico di cui parlava doveva trattarsi di Martone.
«Cattiva fama?» ripetei, anche se non ne ero più di tanto stupito. Quel tipo ce l’aveva proprio, la faccia di un poco di buono.
«Sì, non ne parlano molto bene… E’ uno poco raccomandabile, insomma. Si dice in giro che abbia i genitori truffatori, e io non voglio avere niente a che fare con quella gente, né desidero che mio figlio li frequenti,» disse con le mani intrecciate e il mento che poggiava su di esse, il tono duro e fermo. Sospirai, perché il mio cattivo presentimento stava lentamente uscendo allo scoperto, e tentai di anticiparlo, quasi per sfida personale. Per vedere se, insomma, ci avevo azzeccato.
«Quindi, in poche parole, sta cercando un posto migliore dove far dormire suo figlio?»
Bruno alzò gli occhi e mi guardò meravigliato, le pupille improvvisamente luccicanti e  la bocca che si piegava piano all’insù. Annuì piuttosto sorpreso della mia finta perspicacia, poi si fece nuovamente insicuro tutto d’un colpo, come all’inizio della nostra conversazione.
«Ora…non vorrei sembrarle inopportuno, ma…lei è sposato?» chiese a quel punto, e io socchiusi gli occhi, ben sicuro di dove volesse arrivare.
«No, sono single,» e gli evitai anche la storia del divorzio. Lui fece per continuare, ma lo precedetti alzando una mano in segno di scusa. Sperai non pensasse che avevo intenzione di zittirlo. «Ha intenzione di chiedermi se posso ospitarlo?»
«E’ incredibile, lei mi legge nel pensiero!» fece una faccia contenta e speranzosa al contempo, ma dovette rabbuiarsi quando s’accorse della mia espressione non così entusiasta.
«Mi spiace, non posso farlo. Siamo insegnante e studente, non possiamo…»
«Beh, perfetto, così sembrerà il suo tutore! Per favore, la pago!»
Ma stava parlando sul serio? Sembrava si stesse per mettere a piangere, e il tono di voce era disperato, e sono sicuro che se in quel momento gliel’avessi chiesto, si sarebbe persino inginocchiato davanti a me. Lo guardai costernato e confuso, la voce che mi usciva stridula dalla gola.
«Ma le pare questo il problema? E’ che…»
«La prego, professore. Non abbiamo parenti qui, sono tutti giù in Puglia… Mi faccia questo grande favore, le giuro che la pagherò settimanalmente. E poi sarà per poco! Sono sicuro che dopo un po’ mio figlio si convincerà a tornare a casa. Glielo garantisco,» concluse, le mani congiunte e l’espressione da agnello smarrito negli occhi trasparenti. Ammetto che il fatto dei parenti in Puglia mi aveva fatto un po’ pena, ma davvero, era qualcosa di impensabile. Eppure ci stavo già rimuginando su inconsapevolmente, lo sguardo incantato sul bicchiere vuoto davanti a me.
«Non lo so, signor Castelli, perché… come facciamo con i letti?» sparai la prima cosa che mi passò per la testa, e a lui sembrò anche una domanda legittima.
«Dormirà tranquillamente sul divano, l’ha fatto per molto tempo,» rispose l’altro prontamente, e non mi venne di chiedergli da quand’è che i figli si facevano dormire sul divano.
«E’ allergico a qualcosa, suo figlio?» adesso tiravo fuori le questioni più assurde. Se era allergico a qualcosa, erano problemi suoi. Si prendeva un antistaminico e tanti saluti.
«Solo al pelo di cane, leggermente, ma a nessun tipo di cibo».
Mi maledissi per non aver mai comprato un cane.
«Fa sport?» sembrava un esame medico, sul serio. Ma avevo quasi paura di far terminare quella conversazione. E allo stesso tempo, non vedevo l’ora di darci un taglio e fuggire da quel posto pieno di odori invitanti.
«Sì, ma non è niente di pericoloso, e la sede è vicino casa,» rispose quello velocemente, per niente spazientito da quelle domande. Pensai che probabilmente, suo figlio frequentasse la palestra o la piscina. In teoria c’erano senza dubbio altri argomenti da mettere in discussione, ma in quel momento non riuscii a trovare nient’altro, e appoggiai le labbra alle mani intrecciate. Poi alzai gli occhi su Bruno e scossi la testa.
«Non saprei…»
«Facciamo così: lo prende in prova per una settimana. Se le dà fastidio o non apprezza la sua presenza o altro, lo caccia via a calci e io non avrò alcun tipo di risentimento nei suoi confronti. Ci sta?» chiese infine, e mi allungò una mano aperta sul tavolo. Pensai che fosse decisamente impossibile liberarsi da una situazione del genere soddisfacendo i desideri di entrambi, e in quel momento il buon samaritano che era in me, quella stupida debolezza di cui dovevo imparare a liberarmi, protestava, pulsava in testa, diceva di lasciarmi andare, che tanto non c’era nulla di male. Mi ricordava che io ero solo, e mi sentivo più solo di quanto in realtà non fossi, e mi diceva che forse badare a qualcuno non mi avrebbe fatto male, mi avrebbe distratto un po’, e magari reso un attimo più umano. Mi diceva che la vita che conducevo, quella per inerzia, non gli stava più bene, e che desiderava che un alito di vento venisse a far crollare il mio castello di carte in bilico per miracolo. E mi diceva anche che quella era l’occasione giusta, che potevo coglierla senza farmi troppe seghe mentali.
«Va bene,» raggiunsi la sua mano e gliela strinsi, e la voce che uscì dalla mia bocca non sembrava neanche la mia. «Non può accadere nulla di male in una settimana,» ribadii, quasi per autoconvincermi. E fino a quella sera continuai a ripetermi come un automa “Nulla di male, nulla di male”, fino a storpiarne orrendamente le parole.
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Il trasferimento di Valerio Castelli era previsto per quella domenica mattina. Il senso di responsabilità che già premeva su di me andò peggiorando con l’avvicinarsi del giorno fatidico, fino a quasi schiacciarmi il sabato pomeriggio. Di restare a casa quel sabato sera non se ne parlava: il brutto di quando sono solo, è che ho sempre occasione di confrontarmi coi miei pensieri e le mie preoccupazioni, e di solito ne esco sconfitto, da queste discussioni col mio cervello. Quindi mi decisi ad alzare il culo e trovarmi qualcosa da fare che mi distraesse. Uscii e guidai verso il locale di Giusy: ero sicuro che l’avrei trovata, perché mi aveva detto che il finesettimana c’era sempre lei dietro il bancone. Mi decisi ad uscire anche perché sentivo che quella sarebbe stata l’ultima serata che potevo passare liberamente, senza palle al piede.
Spinsi la porta col vetro verde ed entrai ancora cauto e circospetto: in fondo, era solo la seconda volta che ci mettevo piede, dovevo ancora farci l’abitudine. Anche se questo significava diventare cliente abituale, e per quale motivo avrei dovuto diventare un cliente abituale di un locale di quel tipo?
Mi diressi al bancone cercando di ignorare qualunque cosa stesse succedendo attorno a me, ma prima che riuscissi ad arrivare, intercettai con la coda dell’occhio una massa di capelli ricci venirmi incontro.
«Non ci credo! Sei davvero tornato!» esclamò Giusy contenta baciandomi la guancia.
«Sì. Ho avuto un’altra giornata impossibile e volevo bere qualcosa,» ammisi, la mano che stropicciava un occhio, quasi fossi pronto ad andare a letto.
«Bene! Accomodati, ché ti verso un altro Angelo Azzurro». Non capivo perché dovesse scegliere lei quello che dovevo bere, ma non mi andava di lamentarmi. La seguii sino al bancone e, dopo essermi seduto su uno sgabello, notai dei faretti colorati sopra di me e per tutto il resto del locale che la volta prima non c’erano e che, sicuramente, rendevano l’atmosfera un attimo più accogliente. Probabilmente ero troppo sovrappensiero per potermene accorgere prima.
«E quelli?» chiesi indicandoli con un cenno del capo.
«Ah, servono per domani sera. Abbiamo organizzato una festa a sorpresa per il compleanno di Giulio, sai, quel ragazzo con cui parlavi l’altra volta. Solo che non ho resistito e li ho accesi già da stasera. Spero solo che non venga…» neanche riuscì a concludere la frase, che dovette interrompersi di botto. Fissò la porta d’entrata per poi indietreggiare e rivolgersi a una sua collega.
«Marty, le luci! Spegni le luci!»
Prontamente, l’amica bionda si fiondò su una serie di interruttori e gli effetti speciali sparirono di botto. Mi voltai, sicuro che la cosa non fosse passata per nulla inosservata, ma Giulio aveva la sua stessa espressione imperturbabile, per nulla sorpresa, sicuramente bonaria.
«Giulio! Buonasera! Qual buon vento? Di solito non vieni di sabato!» strillò Giusy quando il ragazzo si fu appostato sullo sgabello accanto al mio. Non era proprio in grado di recitare.
«Beh, oggi non c’era niente di bello in tv,» sorrise lui con gli occhi socchiusi. Dopodiché voltò il capo nella mia direzione e mi rivolse la parola. «Oh, ciao. Tu sei l’etero dell’altra volta. Andrea, giusto?»
Gli strinsi la mano senza troppo entusiasmo rivolgendogli un sorriso stanco.
«Sì, esatto. Come stai?» chiesi con tono di voce altrettanto stanco.
«Io bene, ma tu? Tu vedo distrutto». Non gli si poteva nascondere niente. Niente.
«In effetti lo sono…Mi stanco facendo niente».
«Beh, perché allora non sei nel tuo lettuccio? Non mi fraintendere, sono felicissima che tu sia qui,» si intromise Giusy mentre prendeva l’occorrente per il mio drink.
«E’ che ho paura che questa sia l’ultima volta che potrò uscire liberamente la sera,» risposi appoggiando il gomito al bancone e il mento sul palmo della mano, lo sguardo fisso su un punto impreciso del top di Giusy.
«E perché?» chiesero in coro quei due. Li guardai per assicurarmi che non avessero la faccia di persone curiose e pettegole. Poi mi accorsi che c’era troppa poca luce per poter scorgere i loro occhi e rinunciai.
«Domani mattina uno dei miei studenti si trasferirà a casa mia su richiesta del padre…» iniziai, per poi raccontare scocciato tutta la storia, senza magari soffermarmi su particolari insignificanti della conversazione tra me e Bruno. Alla fine del mio racconto, Giulio si tolse gli occhiali da vista e, mentre se li puliva con la maglia nera, fece:
«E’ carino, almeno?»
Giusy rise e io lo guardai di traverso.
«Cosa c’entra questo? Dovrei avere in casa una specie di…figlio,» borbottai, e mi meravigliai di aver pronunciato per davvero una frase del genere.
«Beh, ma guarda il lato positivo. Verrai pagato per fare da badante…»
«E da tutore,» lo corressi.
«…sì, e da tutore, a un moccioso. Quanti anni hai detto che ha?»
«Venti,» risposi in un soffio.
«Ma è carino?» ripeté quel tipo mentre si rimetteva gli occhiali sul naso, e io sbuffai, più rumorosamente questa volta.
«Sì, sì, è carino. E’ biondo, ha gli occhi chiari, è alto più o meno quanto Giusy e si chiama Valerio. E’ questo che volevi sentirti dire?» ormai sembravo voler scaricare il mio nervoso su chiunque.
«Ehi ehi, che sfuriata. Devi avere i nervi a mille». Aspettò che calmassi i bollenti spiriti, poi parlò nuovamente. «Comunque, non è detto che tu non possa più uscire. Anzi, perché domani non ci diamo appuntamento qui, più o meno alla stessa ora? E porta Valerio con te».
Mi trascinai una mano nei capelli, sbuffando ancora. Okay, avevo capito che Giulio voleva provarci anche col mio studente.
«Che stai dicendo? E’ troppo giovane, non reggerebbe mai a queste…visioni,» dissi piuttosto alterato, e indicai due uomini nel tavolo in fondo che se ne stavano tranquillamente avvinghiati.
«Reggerà benissimo, non fanno nulla di scandaloso. Dai, portalo in prova. State anche solo un’oretta. E, se si comporta bene, lo porterai altre volte con te, se per lui è un problema stare solo a casa. Ma insomma, ha anche vent’anni!» esclamò lui spostandosi dagli occhi il lungo ciuffo nero.
«Sì, ma sono io che non mi fido a lasciare uno sconosciuto solo in casa mia. E poi, lui sarà sotto la mia responsabilità,» ribattei e Giusy, che aveva appena finito di servire una ragazza, mi diede una pacca sulla spalla ridendo.
«Oh, come sei diventato serio, Ruggeri. Una volta non eri così. Dai, cerca di venire a trovarmi anche domani,» e fece un occhiolino finale, ricordandomi della festa a sorpresa in onore di Giulio.




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Credo che potremmo considerare questo come il capitolo di svolta. Cioè no…cioè, non so neanche io che sto dicendo <3 Ho introdotto il personaggio della signora Rosaria che è uno dei miei preferiti, in seguito comparirà ancora una volta e l’ameranno tutti <3
C’è un motivo per cui ho messo una frase in corsivo, nel testo, probabilmente perché si ripeterà XD (perché spoilero sempre, sigh).
Okay, alla prossima!




Mirokia

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Cap. 5



 



Tornai a casa prima di mezzanotte, stremato quasi avessi fatto una corsa e, senza neanche pensare a cos’è che dovevo cucinare il giorno dopo –di solito, chi vive per inerzia non si fa di questi problemi-, mi buttai sul letto e dormii, dormii tanto, senza mai neanche alzarmi per andare al bagno.
E la mattina dopo, ovviamente, mi alzai più o meno all’ora di pranzo. Il primo pensiero che mi passò per la testa fu quello di grattarmi in mezzo alle gambe e tenere a bada l’erezione mattutina; il secondo fu quello di farmi il caffè, uno bello forte. Poi, finalmente, mi venne in mente di dare un’occhiata all’orologio e, deformando spaventosamente la bocca, mi sollevai di colpo col busto infischiandomene della testa che girava vorticosamente. Mi trascinai in corridoio e andai a sbattere in modo imbarazzante contro qualunque parete, spremendomi il mignolo del piede contro la cassapanca in legno. Urlai silenziosamente bestemmiando il calendario, poi guardai nuovamente l’orologio appeso sopra la porta della cucina: le 11 meno un quarto. Mi venne da tirare un sospiro di sollievo: Castelli sarebbe dovuto arrivare verso mezzogiorno.
Col mignolo rosso e gonfio che pulsava dolorosamente, ciabattai in cucina e misi su l’acqua per la pasta, un ciuffo di capelli che mi solleticava la fronte e mi dava un fastidio boia, addosso ancora i vestiti del giorno prima. Non avere voglia persino di mettere su il pigiama prima di dormire è grave, lo è davvero.
Presi dal frigorifero della pancetta e la scartai, di malavoglia, come al solito. E, prima di metterla a cuocere in un pentolino a parte, il citofono squillò facendomi prendere un colpo. Era troppo silenzioso in casa, sarà stato quello il motivo.
Strascicai i piedi sino alla porta, poi afferrai il citofono sentendo le mani come di burro.
«Chi è?» chiesi con la voce ancora piena di sonno.
«Sono Valerio Castelli,» rispose una voce trafelata. Oh, era pure in anticipo, a quanto pareva.
«Aspetta, vengo ad aiutarti,» proposi trattenendo uno sbadiglio.
«Non c’è bisogno, ho solo un borsone. Aprimi, salgo da solo,» asserì, e io alzai le spalle per poi premere il pulsante che apriva il portone. Sembrava essersi abituato ormai ad usare il “tu” per rivolgersi a me. Fosse stata una situazione normale, non avrei avuto niente da ridire, anzi, preferivo se la gente mi trattava come suo pari. Ma così sembrava una bidella che dava del tu al preside, tanto per dire. O un vescovo che dava del tu al papa. Forse non avrei dovuto paragonarmi al papa, pessima idea, non avevo tutta questa autostima per poterlo fare davvero. Ma comunque, lasciai correre la questione del “tu” pensando al fatto che mi stessi impuntando su qualcosa di davvero poco conto e camminai velocemente in camera mia, dove mi degnai di cambiarmi almeno la maglia a maniche corte. Poi schizzai in bagno a dare una veloce sciacquata ai denti, tanto per non stendere il mio studente mentre gli parlavo.
Quando tornai, lo trovai ad aspettare sulla soglia della porta chiusa, un grosso borsone blu da palestra ai piedi.
«Entra pure,» dissi mentre mi grattavo la nuca, anche se ormai c’era già, dentro casa. Era tanto per non saltare i convenevoli. E poi dovevo anche piantarla di essere scortese, soprattutto col mio ospite, perciò strinsi gli occhi e sorrisi quanto bastava. Quello avanzò goffamente dopo aver tirato sulla spalla il borsone da palestra e mi consegnò una busta rosa pallido.
«Te la manda mio padre,» disse senza neanche guardarmi. Sembrava più interessato a tutto ciò che si ritrovava attorno. Sulla busta vi era scritto in una calligrafia alta e stretta: “Grazie ancora”, ed era riempita da due banconote ben stirate da cinquanta euro. Spalancai gli occhi, la salivazione azzerata: quel fatto mi sapeva tanto di attività illecita. Castelli notò il mio silenzio e la mia espressione e alzò le spalle.
«E’ solo ricco,» asserì senza troppi problemi e con una punta di astio. Io annuii perplesso e richiusi la busta, poi lo esortai a togliere la giacca. «Sembra che sarò destinato a servirti e riverirti per sempre,» fece il ragazzo sorridendo e consegnandomi la giacca.
«Perché?» chiesi spontaneamente mentre andavo ad appendere l’indumento sull’appendiabiti dietro la porta.
«Beh, mi hai offerto un posto dove stare e te ne sono riconoscente. In questo mio breve soggiorno dovrò cercare un modo per sdebitarmi,» disse convinto, lo sguardo che ancora vagava in giro, fin troppo curioso.
«Vedi di non pensare sempre a come sdebitarti e inizia a togliere la tua roba dalla borsa. Metterai le tue maglie e i tuoi pantaloni nei cassetti di mia moglie,» feci, incurante di quello che avevo appena detto, e gli diedi le spalle per poter fare uno sbadiglio. Voltandomi nuovamente, vidi Castelli essere diventato un pezzo di ghiaccio, quasi avesse visto un fantasma.
«Come…mio padre mi ha detto che lei era single». Cos’è, quando era nervoso o scioccato, usava il “lei”? O andava a caso?
«Sì, scusami, ho sbagliato termine. La mia ex-moglie».
«Ma non mi ha nemmeno detto che ha divorziato».
«Beh, perché non gliel’ho detto».
«E perché non gliel’ha detto?»
Mentre faceva domande a raffica, lo conducevo con piccoli cenni in camera mia. Andai velocemente ad alzare la serranda ché, addormentato com’ero, mi ero scordato di fare un po’ di luce in quella camera.
«Perché non me l’ha chiesto,» conclusi, con un tono che non ammetteva repliche, e quello, dopo aver inclinato la testa di lato, aprì titubante il cassetto che gli avevo indicato e iniziò a riempirlo con la roba che tirava fuori con cautela dalla borsa.
«Allora…io dormirò sul divano?» chiese quindi, le maglie sistemate ordinatamente a seconda del colore. Notai che era ordinato almeno il doppio di April.
«Nient’affatto. La stanza accanto la uso come ufficio, ma tengo un letto per precauzione. Di solito ci dorme mia sorella quando viene a trovarmi, ma puoi tranquillamente usufruirne.»
Alla mia risposta, adottò uno sguardo divertito, forse per i miei termini poco usuali con cui a volte infarcivo le frasi. Dopodiché disse un “Grazie mille”, chiuse il cassetto e andò a dare un’occhiata alla stanza accanto.
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«Non sembra la casa di un insegnante di lettere,» commentò quando mi raggiunse in cucina.
«Cosa ti aspettavi, i versi di Dante come carta da parati?» chiesi ironico mentre giravo con un cucchiaio di legno la pancetta che scricchiolava nel pentolino. Lui fece un risolino particolarmente melodioso e che, notai, non mi diede fastidio. Probabilmente era uno dei pochi suoni che non mi facevano aggrottare spaventosamente le sopracciglia. Molte volte avevo pensato al fatto che avrei dovuto nascere in un mondo silenzioso o pieno della musica che  piaceva solo a me. Quella che ti fa sembrare tutto più leggero, anche solo per tre o quattro minuti, quella che sembra risanarti l’anima, quella che ti porta in un posto migliore. Ma è ormai risaputo, una canzone non salva la vita e dà solo l’impressione di renderla migliore.
«Qualcosa del genere,» disse ridacchiando ancora e, automaticamente, venne da sorridere anche a me, così dal nulla. Mi accorsi poi di come il suo sguardo puntasse il paniere strabordante di pane.
«Chissà di chi è la colpa,» dissi allora tornando con lo sguardo sulla pancetta. Quello adesso fece una risatina controllata, quasi si stesse vergognando.
«Pensavo ti piacessero le rosette…»
«Ma non hai ancora capito che ti stavo prendendo in giro quando l’ho detto? Adesso finirà per diventare duro e immangiabile,» dissi scuotendo la testa.
«Quindi mi darai da mangiare solo pane e acqua?»
Pensavo lo stesse dicendo per canzonarmi un po’ o per farsi una risata, ma il tono e l’espressione erano piuttosto seri: si vede che non aveva idea di quand’è che doveva prendere qualcosa sullo scherzo e quando invece si trattava di una questione seria.
«In realtà la pasta alla carbonara è quasi pronta, ma se vuoi mangiare pane e acqua, accomodati pure,» risposi alzando le spalle, poi sollevai il coperchio della pentola grande per fargli vedere gli spaghetti ormai cotti.
«Ah! La pasta al bicarbonato è la mia preferita!» esclamò contento, e andò a prendere uno dei due piatti che avevo messo sul tavolo apparecchiato poco prima, mentre lui disfaceva la borsa.
«Bicarbonato?» chiesi io confuso e infastidito allo stesso tempo, e intanto scolavo la pasta nel lavandino.
«So come si chiama, non sono stupido. Solo che da piccolo la chiamavo così e ho tenuto l’abitudine,» mi spiegò, e fece un largo sorriso quando finalmente ebbe la sua porzione di pasta al bicarbonato. Lo guardai mentre prendeva posto al tavolo e annusava poco educatamente la pasta, la mano già sulla forchetta, la lingua che leccava leggermente le labbra, e mi chiesi se quello fosse lo stesso ragazzo di cui parlava Bruno Castelli. Suo padre aveva descritto quella figura allegra e sorridente in maniera completamente opposta, e mi dissi che magari aveva un lato oscuro che ancora non s’era premurato di mostrarmi, come un po’ tutti, d’altronde.
Riempii anche il mio piatto, misi due pagnotte al centro del tavolo e mi accomodai di fronte a lui. Gli dissi che se voleva, il telecomando era sul mobile accanto alla televisione e poteva accendere la tv e guardare quello che gli andava. Lui ribatté di non potersi prendere tutte quelle libertà in casa di uno sconosciuto –perché in effetti, io e quel tipo eravamo praticamente due sconosciuti. Mi chiedevo come suo padre si fidasse a mandarlo in casa di uno sconosciuto. Che fosse la mia faccia fiacca ad ispirare fiducia?
Ma comunque, nonostante avesse detto di non volersi prendere certe libertà, il momento dopo stava già cercando un canale sulla mia televisione e, quando la trovò, fece una faccia soddisfatta.
«Va bene MTV? Ti dà fastidio la musica?»
«Sono altre le cose che mi danno fastidio,» ammisi sorridendo alla pasta e godendomi qualunque tipo di canzone stesse riempiendo la cucina. Rimanemmo in silenzio per un po’, ognuno concentrato sul proprio piatto, finché non riconobbi le prime note di una canzone e alzai lo sguardo verso la televisione, notando che Castelli la stava già guardando. Sospirai e chiusi leggermente gli occhi quando la melodia quasi mistica di Charlie Brown dei Coldplay mi entrò nel cervello quasi trascinandomi su un altro pianeta.
«Ti piacciono i Coldplay?» mi chiese lui quando notò la mia espressione da ebete. Tornato alla realtà, tentai di ricompormi, e bevvi un po’ d’acqua.
«Credo sia il mio gruppo preferito,» ammisi, anche se subito mi comparve davanti agli occhi un’immagine dei Take That, tutta evanescente, come quella dei poster che avevo da ragazzino.
«Allora ascolti musica giovane,» mi schernì quello con il mento appoggiato sul palmo della mano, e io alzai gli occhi al cielo.
«Se la musica è bella la ascolto, punto,» dichiarai, un altro sorso nervoso d’acqua. L’altro rise e disse un “va bene, va bene” arrendevole per poi tornare a guardare la televisione, una forchettata di spaghetti vicino alla bocca. Poi, neanche a farlo apposta, un ex membro dei Take That fece la sua comparsa in televisione. Mangiai un po’ di pasta, poi dissi: «Questa è vecchiotta,» senza notare subito lo sguardo rapito che aveva adottato Castelli, le labbra che si muovevano seguendo il testo di “She’s the one” di Robbie Williams. I suoi occhi trasparenti sembravano seguire ogni movimento del cantante, e la forchetta era rimasta nel piatto, e ci rimase per gran parte della canzone.
«Cos’è, sei innamorato di questa canzone?» chiesi leggermente divertito.
«No, non è la canzone…» e distolse lo sguardo per poi mettersi imbarazzato una mano dietro la nuca. «E’ Robbie che mi piace. Ho sempre avuto una piccola cotta per lui, mi incanto sempre quando esce in televisione,» aggiunse, di nuovo con quel tono di vergogna. Non aveva tutti i torti, anche a me, quando avevo la sua età, piacevano particolarmente i Duran Duran, per esempio, e me ne vergognavo, perché la loro musica era un po’ precedente al mio anno, e loro erano piuttosto grandicelli.
«Spero di non dovermi fare strane idee…» dissi guardandolo di sottecchi, e lui fece una risata del tutto sforzata grattandosi insistentemente l’orecchio. Poi tornò a mangiare con voracità senza più buttare sguardi alla televisione. Mentre mangiavamo, pensai di doverlo mettere al corrente dei miei piani per quella sera, così a sfregio. Poi, a seconda della sua risposta, avrei agito di conseguenza.
«Ascolta… Stasera dovrei andare alla festa di compleanno di un mio caro amico,» iniziai, anche se a dirla tutta Giulio lo conoscevo giusto da qualche giorno. «e, dato che non mi fido ancora a  lasciarti solo a casa…»
«Sei molto schietto,» rise lui interrompendomi.
«Sì, dicevo…Ti dispiacerebbe venire con me? Torneremo molto presto, perché domani mattina dovresti avere lezione».
«Anche tu,» puntualizzò lui.
«Sì. Hai lezione con me. Quindi ci ritireremo verso le dieci. Ti va?»
Sembrava quasi che stessi dando il primo appuntamento a una liceale. Lui annuì dopo aver sbirciato attraverso un ciuffo di capelli chiari che gli cadeva sulla fronte.
«Certo. Tutto quello che vuoi,» rispose sorridendo, le labbra sporche di uova. Scossi la testa, gli passai un fazzoletto di carta e gli suggerii di pulirsi, e mi venne da ridere quando assistetti al suo modo buffo di pulire via lo sporco dalla bocca.
Dopo mangiato, mi raccomandò di sedermi comodo sul divano, perché avrebbe pensato lui a sistemare la cucina. Chiese se poteva utilizzare la lavastoviglie o se aveva da lavare tutto a mano e io gli dissi che, purtroppo, la lavastoviglie non funzionava da una settimana e che presto avrei chiamato qualcuno a farla aggiustare. E quello, caparbiamente, mi disse che non vi erano problemi e che ci avrebbe pensato lui. Sì alzò la manica destra fino alla spalla e mi fece segno di andarmene dalla mia stessa cucina, quindi io, perplesso, raggiunsi il divano in soggiorno e accesi la televisione. Era sintonizzata su un canale radio-visione che stava mandando una canzone di cui non sapevo il titolo ma che di certo avevo già sentito. Di tanto in tanto davo un’occhiata in cucina e vedevo una camicia a quadri sovrastata da capelli di cui non ero ancora riuscito a definire il colore muoversi a ritmo di musica, e la scena mi divertiva a tal punto che non avrei cambiato canale per nulla al mondo.
«Chi sono questi?» chiesi a voce alta, visto che il volume non era per nulla basso.
«Non lo so, ma hanno un bell’aspetto,» fece l’altro mentre muoveva il fondoschiena a destra e a sinistra e sciacquava i piatti.
«Do loro massimo sedici anni,» dissi tirando a indovinare, il telecomando ancora in mano.
«Credo che abbiano più o meno la mia età, invece,» rispose Castelli, e prese pure a canticchiare piano. Alzai le spalle, ormai convinto di essere una frana nell’indovinare l’età delle persone, e aspettai che finisse la canzone prima di cambiare canale. In basso uscì la scritta: One direction, e il nome della canzone che non ricordo, ma di sicuro nel video musicale c’erano quei bambini che andavano in giro per Londra, su uno dei tipici pullman rossi.
Castelli canticchiava ancora per conto suo, il rumore dell’acqua che per poco non copriva la sua voce, un piede che teneva il tempo. Pensai che, cavolo, una specie di sguattero canterino non sarebbe stato niente male. Almeno io avrei pensato al mio lavoro e Castelli si sarebbe occupato della casa, oltre che dello studio, dello sport, dei litigi con la famiglia e dei sentimenti feriti della povera ragazza cieca. Per non parlare di quel Damiano, che l’avrebbe preso a pugni seduta stante. Eh sì, ero proprio un uomo impegnato, io.
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Per tutto il pomeriggio, Castelli se ne stette a riordinare a modo suo la scrivania che si trovava davanti a quello che adesso era il suo letto e navigò per un’oretta su internet. Non mi venne da dirgli nulla sulla scrivania, tanto la usavo poco, di solito lavoravo sul tavolo in salotto. E comunque, ordinata in quel modo, sembrava anche più bella, più guardabile.
Per le 20 si mise ai fornelli dopo avermi chiesto un grembiule o qualcosa del genere in prestito.
«Sei serio?» gli chiesi, minacciando di scoppiare a ridere. Quello mi lanciò uno sguardo offeso, poi disse: “Posso anche farne a meno” e, con grande disinvoltura, iniziò a spaccare uova in padella. Non sapevo se fosse una buona cosa mangiare uova a pranzo e a cena. Alzai le spalle e, mentre quello era impegnato sui fornelli, frugai in uno dei cassetti e gli lanciai su una spalla un vecchio grembiule di April tentando di non ridere. Lui se lo allacciò al collo velocemente, poi disse “Lascia fare a me” e mi cacciò nuovamente dalla cucina, continuando a cucinare quelle che sembravano essere omelettes.
Non ci mise molto e, quando lo sentii trafficare con piattini e bicchieri mi resi conto che aveva già apparecchiato la tavola, con le omelettes nel piatto e l’insalata al centro. Ma in quel momento suonò il campanello e io, che me ne stavo a leggere la lezione che avrei dovuto presentare il giorno dopo, andai ad aprire di malavoglia, come al solito.
Sulla soglia vi era l’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere.
«L’ho trovata, professore. Dove ha nascosto Valerio?» Fabio Martone entrò prepotentemente in casa senza preavviso, lo sguardo che puntava dappertutto tranne che sulla mia persona. Lo trattenni istintivamente dal braccio: non sopportavo la gente che si intrufolava in casa senza il mio permesso.
«Cosa desideri?» gli chiesi con finta gentilezza, il nervoso che già mi montava dentro.
«Valerio sta qui, vero?» fece quello, che adesso s’era convinto ad alzare lo sguardo su di me, quello sguardo inspiegabilmente carico di rabbia. E ancora volevo capire che diavolo avessi fatto perché mi trattasse a quel modo. Feci per rispondergli col suo stesso tono di voce, ma Castelli fece capolino dalla cucina.
«Fabio? Che ci fai qua?»
Domanda legittima, ma che non adottasse quello sguardo quasi fosse caduto dal pero. Quasi fosse normale presentarsi a casa degli insegnanti all’ora di cena ed entrare in casa loro sbraitando. Martone si liberò dalla mia stretta, poi si fiondò sul biondo e lo abbracciò, come commosso.
«Oh, Vale! Sapevo che ti avrei trovato in questo postaccio!» si sciolse dall’abbraccio e gli premette affettuosamente le guance. Poi guardò il suo abbigliamento e storse il naso. «Che è quella roba che hai addosso? Vieni, andiamocene,» dopo avergli stropicciato per bene il grembiule, lo prese per mano e lo tirò verso la porta, nonostante Castelli facesse resistenza ma, prima che potessero raggiungerla, la chiusi e mi ci misi davanti. «Che sta facendo?» sibilò Martone, gli occhi pungenti come spilli.
«Non posso lasciare che tu lo porta via,» dissi secco, il mento alzato nella sua direzione.
«E perché mai?» adesso quel tipo aveva preso a braccetto l’amico stringendoselo possessivamente contro il fianco.
«Perché il ragazzo è sotto la mia responsabilità,» risposi, sottolineando il “mia”.
«Responsabilità un corno,» ribatté quello con disprezzo, poi si rivolse a Castelli. «Fosse per lui, ti lascerebbe andare, ma tiene troppo ai soldacci di tuo padre».
Lo guardai male, malissimo. Quel mio studente non mi andava per nulla a genio.
«Non penso sia solo per quello,» intervenne quindi Castelli, lo sguardo rivolto verso di me. «Andrea ha una dote naturale nell’aiutare la gente,» aggiunse tranquillamente. Okay, ora mi chiamava anche per nome? Cos’ero, uno dei suoi amichetti psicotici? Quando Martone glielo sentì pronunciare, strinse gli occhi sin quasi a chiuderli e digrignò rumorosamente i denti: sembrava una bestia pronta a sferrare un attacco.
«Con questo vuoi dire che non dormirai da me stanotte?» chiese quindi conferma, il tono decisamente più morbido quando si rivolgeva all’amico.
«Già. Per una settimana soggiornerò qui,» rispose Castelli, quasi fosse roba da nulla.
«Una settimana?! Ma è tantissimo!» piagnucolò il moro abbracciando l’altro, in una scena da vomito. «Ma mi raccomando! Domenica prossima torni da me. E vieni a trovarmi in questi giorni. Spero che Andrea…» e calcò il nome guardandomi di sottecchi. «ti tratti come si deve. Ciao, Vale».
«Ciao Fa, a domani».
Martone lo baciò sulle guance e Valerio ricambiò con una pacca poco convinta sulla spalla, poi lo lasciò andare e tirò un lungo sospiro.
«Andiamo, ché le omelettes saranno già fredde,» disse quasi sconsolato, le braccia che ciondolavano ai lati del corpo.
«E’ un’abitudine per lui comportarsi così?» chiesi mentre andavo a prendere posto: come mi aspettavo, la tavola era apparecchiata  alla perfezione.
«Assolutamente. Non ti stupire, è così come lo vedi: ha due facce».
«Ho notato. Con te fa lo smielato e con me l’irrispettoso. Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare particolarmente geloso,» avanzai la mia palese ipotesi mentre assaggiavo un boccone di omelette: era ottima.
«Sì, lo fa con tutti coloro che provano ad avvicinarsi a me. E’ anche per questo che non strabordo di amici. Cercava di tenere lontana persino Laura».
«La ragazza non vedente?»
«Sì, lei. E ora si sarà fatto qualche strana idea anche su di te, nonostante tu sia il nostro insegnante,» spiegò a bocca piena, ma con il polso davanti alle labbra.
«Beh, visto che sai com’è fatto, avresti potuto evitare di chiamarmi per nome davanti a lui, ti pare?» gli feci notare, l’orologio che scoccava le 20 e 30.
«E perché? E’ un così bel nome. Ti dà fastidio?» adesso si era fermato e mi osservava tra le ciglia con gli occhi tra il grigio e l’azzurro che aspettavano una risposta. Stavo per dirgli che sì, in effetti quell’improvvisa confidenza era piuttosto opprimente, ma ad un tratto mi accorsi che non riuscivo più ad essere cattivo con lui.
«…Ma no.» risposi infine; lasciai passare qualche minuto, poi mi congratulai per l’ottima cena, e mi sembrò che nascondesse il viso paonazzo.
Chi li capisce, i giovani d’oggi.







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Quinto capitolo :3 Valerio e Andrea amano entrambi guardare canali musicali, perciò ho inserito tre canzoni: Charlie Brown by Coldplay (una canzone che sembra venire da un altro mondo per quanto è bella), She’s the one by Robbie Williams (un uomo che mi agita considerevolmente le ovaie), One Thing by One Direction (perché volevo mettere un Andrea che fa sempre cilecca riguardo l’età delle persone).
A questo giro, non ho inserito personaggi nuovi, e probabilmente non ne inserirò neanche nel prossimo capitolo; dipende da quanto voglio farlo lungo.
Fabio Martone è normale sì o no? Io direi che è uno che quando ha un’idea radicata in testa, non permette che qualcuno gliela strappi via e la difende a tutti i costi. Contento lui.
Il grembiule di April ha una mucca Carolina disegnata sopra, perché sì. <3
Ringrazio tanto Elena che è presa da questa storia, e sinceramente non so neanche perché. Ma mi rende felicissima ogni giorno, thank you, girl :3






Mirokia







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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Cap. 6







Come gli avevo premesso, verso le 21 portai il mio studente all’Olsen, la Terra della Felicità. Il nome di quel locale m’aveva sempre ispirato, ma non ero così sicuro che là dentro ci fosse solo felicità. E poi bisognava sempre vedere che cosa si intendesse per “felicità”. Di sicuro c’erano un sacco di angoli bui in cui la gente poteva fare cosacce: magari secondo Giusy era quella la felicità.
Tirai un sospiro di sollievo quando entrai nel locale e lo trovai più illuminato del solito, gli angoli bui che non erano poi così bui, le persone che s’ammassavano l’una sull’altra, ossigeno quasi inesistente. Quella sera l’Olsen sembrava aver fatto il pieno, nonostante fosse ancora relativamente presto. I numerosi faretti colorati mi permettevano di intravedere uno striscione al centro della stanza con scritto “Auguri” e una pila di pacchettini posizionata in bilico su uno dei tavoli tondi e neri. Fortunatamente, erano tutti indaffarati a preparare la sorpresa di Giulio, quindi non vi era alcuna scena che si potesse avvicinare allo sconcio. Anzi, il bar aveva le sembianze di un normalissimo localino in centro aperto fino alla mezzanotte. Quando mi voltai a guardare Castelli che mi stava dietro, lo vidi ammirare il locale con occhi meravigliati e che cambiavano colore a seconda della luce che li colpiva.
«Che figata questo posto,» commentò, un sorriso di stupore sul volto.
«Sì…forse un po’ piccolo,» dissi io tentando di non perderlo d’occhio. Quasi non ci si riusciva a muovere, tra la gente, figuriamoci farsi spazio per arrivare la bancone. Fu per quel motivo che Castelli afferrò tra pollice e indice un lembo della mia camicia e lo tenne stretto durante il tragitto.
«Beh, nella botte piccola c’è il vino buono,» urlò quindi, per sovrastare il vociare della gente. Assentii col capo e procedetti, la gente che mi urtava senza chiedere scusa, mentre Castelli, se calpestava anche solo mezzo piede, iniziava a piagnucolare una serie infinita di scuse. Dio, che seccatura.
Fortuna che il locale era piccolo e raggiungemmo il bancone in tempo relativamente breve: Giusy e il collega Ascanio erano entrambi piegati su quella che sembrava una grossa torta, e la mia amica armeggiava con un aggeggio per spremere panna o cioccolato, mentre l’altro tentava di infilare una candelina che raffigurava un grosso “30”.
«Ciao Giusy. Hai bisogno di una mano?» chiesi cauto, il gomito di una tizia tra le costole.
«Se fossi capace di scrivere sulle torte, mi faresti un enorme favore!» rispose lei, del tutto agitata, probabilmente infastidita dalla mia domanda da Mister ovvietà.
«Fammi provare,» proposi, e Giusy, spazientita e madida di sudore sulla fronte, mi passò lo strumento morbido. «Cosa devo scrivere?»
«”Auguri psico…patico”,» sillabò Giusy, e io iniziai incerto a premere il cioccolato, ma quello si concentrò tutto in un punto, e mi sentii di aver appena combinato un disastro. «Oh, porc-» imprecai. A quel punto, Castelli mi prese lo strumento dalle mani e si avvicinò lui stesso alla torta.
«Fa’ provare a me,» disse scacciandomi con la mano, proprio come faceva quando doveva cucinare o sparecchiare e non voleva gente tra i piedi. Si piegò e iniziò a spremere il cioccolato con precisione, trasformando il mio errore di poco prima in una stella. Con una scrittura più o meno elegante, completò il messaggio sulla torta e poi ci guardò uno per uno e ci chiese se andasse bene.
«Ci chiedi se va bene?! E’ splendido! Hai le mani d’oro! Ma chi sei? Non ti ho mai visto,» esclamò Giusy, poi vide che io stavo strabuzzando gli occhi e le facevo segnali con la mano, e quella capì al volo. «Ah, sì, tu devi essere Valerio. Ti chiami Valerio, giusto? Il mio amico ci ha parlato di te».
«Davvero? Mi fa piacere,» disse lui con un sorriso che gli lasciava le fossette sulle guance, poi si presentò ai due baristi stringendo loro la mano.
«Anche il festeggiato vuole conoscerti,» continuò la mia amica con enfasi, io che alzavo gli occhi al cielo.
«E dov’è?»
«Deve ancora arrivare. E’ una festa a sorpresa,» gli confidò, come se quello già non lo sapesse, e gli fece l’occhiolino, il mascara che brillava esageratamente. Guardai l’orologio e dissi che se Giulio non fosse arrivato entro le 22, non ci avrebbe trovato, perché l’indomani avrei dovuto svegliarmi molto presto. Ma quello, con sommo tempismo, fece il suo ingresso giusto qualche minuto dopo. Non appena mise piede nel locale, coriandoli bianchi seguiti da un paio di rumori forti simili a scoppi gli ricoprirono completamente la testa e i faretti colorati illuminarono gli invitati, che urlarono all’unisono un eccitato “Sorpresa!”. Giulio sorrise e scosse la testa, non solo per togliersi i coriandoli di dosso.
«Non vi nascondo che me l’aspettavo,» ammise con un sorriso bonario.
«Non c’è gusto con te!» protestò una sua amica in fondo alla stanza provocando le risate generali.
«Ma scommetto che questa non te l’aspettavi,» esclamò Giusy facendosi largo tra la gente mentre teneva in bilico su una mano il vassoio che reggeva la grossa torta.
«Non ci credo! E’ con la pasta alle mandorle?» chiese Giulio con gli occhi che luccicavano, come quelli di un bambino che ha ricevuto il suo primo Power Ranger sotto l’albero di Natale.
«Certo che sì. L’abbiamo fatta in comunità,» rispose l’altra col suo solito sorriso fresco e genuino, e prese il vassoio con entrambe le mani quando dovette avvicinarla al festeggiato per permettergli di soffiare sulla candelina. Ascanio, ancora dietro il bancone, stappò un paio di bottiglie di spumante e iniziò a riempire alcuni bicchieri stretti e lunghi che, pensai, dovevano essere flûtes, e chiamò a gran voce Castelli con un “Ehi, tu!”, nonostante fosse a pochi metri da lui. Il volume della musica sembrava aumentare gradualmente. Il mio studente si sentì chiamare e s’avvicinò al bancone, si fece sussurrare qualcosa nell’orecchio e annuì per poi prendere un po’ di bicchieri e distribuirli in giro. Forse erano a corto di personale. Con un “Prego” o un “Ecco a te”, passò i bicchieri a coloro che aveva di fronte, tra cui spuntò anche Giulio.
«Ehi,» fece quest’ultimo quando intercettò Castelli, il tono particolarmente interessato. «Anche tu hai partecipato all’organizzazione della festa?» chiese quindi, e io cercai di districarmi dalla folla per poter almeno sentire metà di quello che si dicevano.
«Beh…solo la scritta sulla torta è opera mia,» rispose quello, l’espressione del pesce fuor d’acqua. Giulio trattenne una risatina a quella reazione così buffa.
«Ma chi sei? Io non ti conosco,» disse quindi, gli occhiali che sembravano scivolare piano sul naso.
«Sono una specie di imbucato. Sono venuto con lui, e…» dopo che mi ebbe indicato, Giulio finalmente realizzò e mise una mano pesante sulla spalla di Castelli.
«Ah! Valerio! Piacere, io sono Giulio. Allora tu sei il famoso coinquilino,» si presentò con una veloce –praticamente inesistente- stretta di mano.
«Ma…sono davvero così famoso?» fece l’altro, il tono divertito.
«In realtà no, ma il nostro Andrea era così nervoso di averti in casa che lo sei diventato».
A quel punto allungai il collo e intervenni nella conversazione, ché mi infastidiva alquanto se si parlava di me e io ero pure presente. Un’altra cosa che mi infastidisce.
«Non esagerare adesso,» dissi con falsa modestia e Giulio, in tutta risposta, mi rivolse un sorriso.
«Grazie per gli auguri,» fece ironico, con Castelli che spostava lo sguardo dall’uno all’altro, quasi per capire che tipo di relazione ci fosse tra noi due.
«Ah, è vero. Buon compleanno,» feci, veramente per nulla dispiaciuto. Che diavolo me ne importava, chi lo conosceva.
«Sì, certo. Comunque, caro Valerio, divertiti. Io mi butto nella mischia. Anzi, perché non vieni con me?» propose il festeggiato e, senza aspettare una risposta da parte del biondo, se lo trascinò dietro immergendosi nella folla che già iniziava a scatenarsi a ritmo di musica. Avevo tentato di fermarli, ma non c’era stato verso. Bene, prima serata e mi sono già perso il ragazzo, pensai con le mani nei capelli. Mi guardai intorno in cerca di uno spiraglio attraverso cui passare, e il risultato fu quello di intravedere una tizia con la pelle scura e una parrucca lunga e verde fosforescente che ballava con un tizio con gli occhiali da sole –perché là dentro il sole spaccava le pietre, decisamente- mentre un’altra tipa coi capelli corti e scuri sparafleshati dalle luci psichedeliche si strusciava contro di lei, da dietro. E mi sembrava di assistere a un video musicale di Nicki Minaj. Ed era preoccupante se riuscivo a ricordarmi quel nome impossibile di quella cantante che, davvero, non era proprio fatta per quelli della mia età.
Tirai un lungo sospiro e decisi di rimboccarmi le maniche e di spingere un po’ di gente. Che tanto loro non erano gentili con me, perché avrei dovuto esserlo io con loro? Ma ancor prima che riuscissi a muovermi, sentii la spalla destra sprofondare, quasi qualcuno ci si fosse appoggiato a peso morto. Mi voltai, e trovai una completa sconosciuta, le labbra lucide, il fiato alcolico, gli occhi che faticavano a rimanere aperti, come anche le gambe che faticavano a reggerla in piedi. Già ubriaca. Come poteva anche solo essere possibile? I casi umani li trovavo tutti io, tutti.
«Ascolta, sei tu il proprietario di quel gioiellino che gira inerme per il locale?» mi chiese, le parole che si capivano a fatica, la testa ciondolante. Fortuna che teneva i capelli legati in una coda alta, altrimenti a quell’ora se li sarebbe ritrovati sparsi in faccia.
«Di chi sta parlando?» feci io, anche se mi sarei fatto volentieri ripetere la domanda.
«Di quel bambino, quello coi capelli chiari. Mi ci sono innamorata, un colpo di fulmine. Me lo presteresti per una notte? Te lo riporto, lo giuro».
La guardai male, malissimo –era un mio hobby- quando realizzai che poteva benissimo avere la mia età e si era ridotta in quello stato, a fare la pedofila.
«Mi dispiace, dovrà cercarsi un altro giocattolo,» le risposi tagliando corto, ché in teoria non avrei dovuto calcolarla dall’inizio, poi me la scrollai poco carinamente di dosso e ripresi a cercare Castelli. Erano già quasi le dieci, e la mia puntualità svizzera stava per andare a farsi fottere. In mezzo alla gente festante individuai Giusy, che chiacchierava allegramente con due tizie con la cresta.
«Giu, hai visto il mio studente?» le urlai sovrastando a fatica la musica.
«Sì, l’ho visto passare poco fa, ma non credo lo troverai più. Se lo stavano divorando,» gridò lei a sua volta, le due tipe con la cresta già inghiottite dalla folla. Il terrore puro s’impadronì dei miei occhi.
«Come, cosa?! E da che parte è andato?» domandai, agitato come poche volte lo ero stato.
«Verso i divanetti, credo».
Non appena mi diede l’informazione, mi diressi a passo spedito verso la direzione indicata, incurante delle spallate che ricevevo seguite da insulti poco carini. Poi lo vidi, un ciuffo familiare di capelli che spuntava da uno dei divanetti a due posti. Feci il giro per poter avere la visuale completa, e mi maledissi di non essere rimasto a casa a guardare un fottuto programma musicale: seduti sul divano se ne stavano Castelli al centro, Giulio alla destra e un altro tipo strano alla sua sinistra. Tutti e due erano pressati sui fianchi del mio studente e gli passavano le mani sui capelli e sul viso, le labbra che si muovevano davanti alle sue orecchie tinte di rosso. Sul tavolo di fronte troneggiavano cinque bicchieri di spumante vuoti e non ci voleva chissà quale scienziato per dedurre che li avevano fatti bere tutti e cinque a Castelli. Subito mi allungai su di loro, e tirai con forza il mio allievo dal polso, facendo quasi scontrare gli altri due. Questo dimostrava quando fossero letteralmente appoggiati a Valerio.
«Che diavolo fai?!» feci del tutto fuori di me rivolto a Giulio, le dita del mio alunno che si stringevano debolmente sulla manica della mia camicia mentre lo reggevo con un braccio dietro la schiena.
«E dai, è il mio compleanno, dovresti accontentarmi,» rispose lui, che sicuramente aveva qualcosa di strano negli occhi lucidi, nelle palpebre calanti e negli occhiali storti sulla faccia.
«Non dire stronzate. Se ci riprovi, per te è finita,» dissi drastico, innervosito ulteriormente dalla sua risposta data così alla leggera.
«Diavolo. Te la sei davvero presa così tanto?»
Finalmente sembrava rendersi conto della rabbia che mi montava dentro.
«Esatto. Il ragazzo è sotto la mia responsabilità, quindi metti conto che sia di mia proprietà. E tu non ridere, idiota,» rivolsi l’ultima frase acida all’amico di Giulio che sghignazzava come un animale. «Adesso ce ne andiamo, ti saluto. E tanti auguri,» questa volta lo dissi con disprezzo e delusione. Dopodiché rimisi in piedi il mio alunno, che guardava in aria con sguardo confuso, simile a quello che aveva quando quel famoso tram stava per metterlo sotto. Sarà stato il suo sguardo da shock. Me lo trascinai dietro per un po’ poi, per facilitarmi le cose e per avere qualche agevolazione, me lo caricai in spalle con non poco sforzo e ordinai alla gente di fare largo, ché avevo un ragazzo svenuto sulla schiena. Non che fosse realmente svenuto, era giusto per crearmi un varco, che non tardò infatti ad aprirsi.
Fortunatamente, questa volta avevo parcheggiato la macchina non troppo lontano dal locale, e non mi ci volle molto per raggiungerla, aprirla e adagiare Castelli sui sedili posteriori. Mi misi al posto di guida imprecando piano.
«Giornata pessima, pessima».
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Arrivati a casa, aiutai il ragazzo a sedersi sul divano. Era sveglio e sembrava capire quello che gli succedeva intorno, ma forse gli alcolici avevano colpito le sue articolazioni, e quindi gli risultava difficile tenersi in piedi.
«Come ti senti?» gli chiesi piegandomi su di lui.
«Bene, non si preoccupi,» rispose quello, la faccia un po’ pallida, ma che tutto sommato non aveva un brutto aspetto. Quel tipo sembrava non essere capace di aver un brutto aspetto.
«No che non stai bene, se mi dai del “lei”,» tentai di sdrammatizzare, e a quanto pare ci ero riuscito.
«Sì, sembra strano anche a me darti del lei,» sorrise, e mi fece spazio per sedermi accanto a lui.
«Ascolta…Ti devo le mie scuse. Non immaginavo che ci sarebbero stati certi risvolti,» dissi col mio raro tono mortificato, la testa leggermente bassa, mentre quello aveva gli occhi che sorridevano.
«Ma no, non importa. Però avresti dovuto dirmi che il festeggiato era gay,» mi rimproverò quindi.
«Veramente…l’intero locale è gay,»
«E tu frequenti un locale gay?»
«Solo per poter frequentare Giusy,»
«Che è gay».
«No che non lo è!»
«Ah, mi sembrava». Facemmo uno scambio velocissimo di battute, finché il tutto non si spense. Seguirono attimi di lungo e impaziente silenzio, perché sentivo che non era finita qui, Castelli stava per dire qualcos’altro, ma sembrava non essere sicuro di volerlo dire. Allora io aspettavo, finché lui non girò gli occhi languidi su di me e poi sui propri jeans sbiaditi. «Io sono gay».
Lo stomaco mi si contorse, gli occhi si spalancarono, sorpresi, la gola deglutì. Che stava dicendo? Tentai di salvare il tutto in extremis buttandola sul ridere.
«No che non lo sei, hai solo bevuto troppo,» feci col sorriso forzato, ma quello mi puntò, gli occhi che sembravano aver preso una sfumatura più scura, le labbra strette.
«Non era una domanda. Io sono gay, punto,» disse spudoratamente. Non è che pensava di essersi preso una sbandata per Giulio, in quei dieci minuti che aveva passato con lui? Mi misi una mano in fronte, e pensai che probabilmente la sua lingua si muoveva a sproposito per l’alcol che aveva ingerito. Allora lo presi con cautela dal gomito per farlo mettere in piedi.
«Dai, adesso basta vaneggiare, vai a dormi-»
«E ho una cotta per te,» dichiarò a quel punto, prendendomi del tutto alla sprovvista. Mi fermai con ancora la mano stretta sul suo gomito, lo sguardo fisso, un Castelli di fronte a me che mi guardava con decisione e sfrontatezza, i pugni e le labbra serrati.
«Hai una…cosa? Oh Dio,» feci con una mano sulla fronte, la testa che negava. «Tu…hai solo bevuto troppo,» ripetei, più per convincere me stesso. «Ora vai a letto,» aggiunsi, e lo accompagnai verso la camera in fondo al corridoio tenendolo per il braccio.
«Ti dico che sono lucido,» mi informò lui una volta seduto sul letto, nel buio della camera.
«Sì, ne sono convinto. Ora buona notte,» conclusi in fretta, e chiusi la porta quasi sbattendola, poi andai a passo svelto in camera mia.
Vivere per inerzia non mi aveva mai agitato tanto. Che diavolo prendeva al mio buon vecchio castello di carte? Perché non voleva starsene fermo, per Dio? Perché continuava ad ondeggiare procurandomi il voltastomaco? Mi sembrava di essere appena salito su una giostra, una di quelle montagne russe col giro della morte.
«Ho una cotta per te».
E con quello, la giostra s’era come messa in moto. Mi aveva detto una volta la signora Rosaria: “La mia vita è stata tanto intensa ed emozionante, che mi sono sentita sempre quasi fossi sulle montagne russe. Può sembrarti strano, ma era quella la sensazione.” Allora l’avevo trovato strano. Ma in quel momento dovevo ammettere che non lo era per niente.
Che seccatura, le montagne russe. Che seccatura.




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Perdonate le velleità di Giulio, in realtà è un uomo buono, io lo conosco bene ;_;
Quindi, Valerio dice le cose a cuore aperto perché deve ancora entrare ufficialmente nel mondo degli adulti, e gli è rimasta questa cosa del non avere peli sulla lingua, tipica dei bambini. Già che dice “Ho una cotta per te”. Quand’è che si parla di cotta, alle elementari? XD Chissà quand’è che si renderà conto di avere vent’anni, non dodici. Però è il mio bambino, sta bene così <3
Andrea si infuria e torna calmo e si agita a random, ormai è normale. Non proprio roba da tutti i giorni, ma normale. [Marialuce, è normale.]
Per Elena: no, Ascanio non è gay, è solo un tipo che lavora lì con Giusy XD D’altra parte, manco Giusy è lesbica, è solo una big big gay supporter, un po’ come noi e come tutti coloro che leggono la mia storia XD Come se fossero tanti lol
Va beh, ho finito. <3







Mirokia

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


Cap. 7






Pensai fino all’una di notte all’inaspettata confessione di Castelli, nel buio della camera, gli occhi puntati sul soffitto nero, le coperte alzate sino al collo, il sonno che non ne voleva sapere di avere il sopravvento su di me.
Ma che gli era saltato in mente, a quel tipo, santo cielo? Era perlomeno capace di dare peso alle parole? Pensava un momento prima di parlare a vanvera? Sicuramente la sua era stata un’azione avventata, accelerata dagli alcolici, qualcosa che in condizioni di perfetta lucidità non avrebbe mai fatto. E quelle erano solo…
delle parole dette con leggerezza da ragazzini ancora ingenui.
La voce di Bruno Castelli si fece spazio tra i miei pensieri e non potei fare altro che dargli ragione: quelle erano solo parole vuote, senza importanza. Perché avrei dovuto preoccuparmi per un paio di parole vuote dette da un ragazzino disadattato? Non c’era un perché, e quello era tutto. Adesso mi sarei girato su un fianco e mi sarei messo a dormire.
E molto probabilmente, ciò che aveva detto neanche lo pensava. Era che quell’episodio dei due tizi che lo toccavano ovunque e gli sussurravano cose sconce all’orecchio non l’aveva lasciato del tutto illeso, magari leggermente traumatizzato fino a fargli avere certe convinzioni. E’ terribile quando qualcuno riesce a inculcarti un’idea: difficilmente riesci a liberartene. Quindi mi dissi che doveva essere andata per forza così, e rotolai su un fianco, deciso a prendere sonno, una volta per tutte.
Che poi, non è che s’era fatto strane idee su di me solo perché ero andato tre o quattro volte nel locale di Giusy? O perché avevo detto che mi piacevano i Coldplay? O perché sapevo cucinare la pasta alla carbonara? O perché mi piacevano le rosette? Ma che diavolo c’entrava adesso? A una certa ora della notte iniziavo decisamente a dare i numeri. E avevo voglia di fumare, adesso. Fumare tre o quattro sigarette di seguito, fumare, fumare…poi mi addormentai, di colpo.
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Nonostante alla fine mi fossi auto convinto con le mie fantasiose argomentazioni, la mattina dopo non riuscivo a guardare il ragazzo in faccia.
Quando raggiunsi la cucina ciabattando e sbadigliando, una mano che grattava insistentemente la nuca, fui destato bruscamente da un allegro “Buongiorno!”. Aprii per bene gli occhi e vidi il piccolo tavolo in cucina apparecchiato in modo maniacale, pieno di leccornie che non sapevo nemmeno di avere, una tazza girata al contrario lì dove ero solito sedermi io, una bustina di tè mollata nella tazza di fronte alla mia. E davanti a quella tazza se ne stava un Castelli con le braccia conserte che seguiva uno dei programmi stupidi su Real Time, il volume al minimo. Ma che…dov’era finita la nutella? Lo sapevo che quella stronza di April me l’aveva nascosta per non farmi ingrassare. E adesso troneggiava lì in mezzo al tavolo, circondata da biscotti, fette biscottate, un paio di merendine che chissà a quando risalivano, la moka del caffè fumante, due tipi di zucchero, e poi la marmellata e il cartone del latte e le bustine del tè. Ma che diavolo…?!
Senza rispondere al saluto del ragazzo, tornai spedito in camera mia, quasi qualcuno mi stesse inseguendo, e iniziai a frugare nei cassetti come uno poco sano di mente. Poi mi ricordai improvvisamente dov’è che le mettevo sempre, e mi diedi uno schiaffetto in fronte: erano lì in bella vista sul comò, come sempre. Presi le mie sigarette e tornai già più lentamente in cucina, per poi uscire sul balcone.
«Tranquillo, stai ancora dormendo…» dissi a me stesso mentre mi lasciavo andare sullo sdraio lì fuori e poi mi accendevo una sigaretta. «Fumare nei sogni non fa male, ne devo approfittare,» aggiunsi poi, ma la sensazione forte del fumo che colpiva i polmoni sembrava fin troppo vera. Adagiai la schiena sulla sdraio, il sopracciglio destro che pulsava, gli occhi chiusi e la guancia posata sulla mano aperta: non avevo mai visto nulla del genere, neanche nei buffet degli hotel, come poteva non essere tutto frutto della mia immaginazione?
Dovetti rassegnarmi che quella era la realtà e, dopo aver finito la sigaretta, rientrai più rilassato e presi posto al tavolo, lo sguardo sulla tazza capovolta.
«Latte, tè o caffè?» iniziò Valerio, le braccia ancora conserte e gli occhi sorridenti. Ma che aveva quello, che si alzava di buonumore? Esisteva una sola spiegazione: era un alieno.
«…Hai qualche problema serio?» domandai quindi mollando il pacchetto stropicciato di sigarette sul tavolo. «Tu fai sempre colazione così a casa tua?» aggiunsi indicando con la mano aperta la marea di roba che occupava il tavolo.
«No, di solito bevo solo tè e biscotti. Ma avevo detto che in qualche modo mi sarei sdebitato, ricordi?» rispose quello, e prese a stringere con il cucchiaino la bustina nella sua tazza. Ancora con questa storia, per carità! E poi bestemmiai nella mia testa. Mi coprii la bocca quasi avessi bestemmiato ad alta voce, Dio che vergogna, poi sospirai e mi rassegnai per l’ennesima volta in dieci minuti.
«Dove…dove hai trovato la nutella?» chiesi girando l’etichetta del barattolo verso di me.
«Era nel mobile in balcone, dietro ai funghi e ai carciofi sott’aceto,» rispose lui tranquillamente, e prese il suo primo sorso di tè. Sembrava stesse aspettando me per iniziare a fare colazione. «Non pensavi di avercela?»
«No, è che April l’aveva nascosta da qualche parte e io non ho mai avuto troppa voglia di mettermi a cercarla. Diceva che mi fa ingrassare,» dissi con l’entusiasmo di un criceto morto, gli occhi che si spostavano svogliati dal caffè al latte alle bustine di tè. Il ragazzo portò nuovamente la tazza alle labbra, poi scosse la testa.
«Ma no, credo che tu possa permettertela,» disse con leggerezza, quasi a volermi incoraggiare. «Non ti fa male un po’ di dolcezza prima di entrare in aula,» aggiunse, il tono da mammina premurosa. Stavo per chiedergli chi diavolo si credeva di essere per dirmi indirettamente che sono un acido col cuore di pietra che ha bisogno di essere addolcito, ma ero troppo in coma per poter reagire come si deve. E comunque, chi vive per inerzia, non ha neanche la voglia di percepire i consigli spassionati, figuriamoci di reagire ad essi. Sospirai, la voglia calpestata sotto ai piedi, poi presi una fetta biscottata e ci spalmai sopra un bel po’ di nutella: Valerio non sapeva che io mangiavo già una quantità considerevole di roba dolce. Mentre masticavo piano, quasi mi andò di traverso quando quello se ne uscì con un:
«Bella serata ieri, eh?»
Tuttavia mi salvai con un solo colpo di tosse e risposi con “Mmh,” non sapendo se la sua domanda fosse ironica o meno. Se lo era, allora si ricordava ogni particolare della sera prima. Se non lo era, allora potevo sperare che le sue parole fossero state dette un po’ a caso, sputate fuori da qualcuno che non regge l’alcol poi così bene. E mi dava fastidio essere un insegnante di letteratura in quei momenti, perché, per quanto cercassi di negarlo, davo sempre peso alle parole, che fossero dette ridendo o piangendo. Pregavo come un idiota che mi desse un qualche segno che mi facesse capire che la sera prima era ubriaco per davvero, ma quel segno non arrivò, anzi, il ragazzo s’alzò tranquillamente dopo aver finito di bere il suo tè e mi sorrise.
«Ti scoccia se vengo con te in macchina? Hai il permesso per parcheggiare accanto all’università, no? Non mi va di prendere i mezzi pubblici,» disse, una mano dietro la nuca. Ma come poteva anche solo pensare che avrei fatto da taxi a un mio studen-
«No, non mi scoccia,» dissi lentamente senza neanche aver concluso il pensiero, e diedi un altro morso alla fetta biscottata.
«Bene, allora ti aspetto di là». E se ne andò lasciandomi da solo col mio cervello, che anche quella mattina non aveva voglia di mettersi in moto.
Una mezz’ora dopo eravamo in strada, lui tutto sorridente, io con l’umore a zero come sempre, una sigaretta che mi pendeva dalle labbra, per niente sicuro che il fumo non gli desse fastidio. Ma che me ne importava, avevo bisogno di una tregua, i miei nervi erano a mille, e sapevo anche chi era che mi ci aveva portato, su quelle dannate montagne russe.
«Che hai? Stai male?» mi chiese Castelli più volte dal sedile dal passeggero. Ma stava scherzando? Si rendeva conto delle domande idiote che faceva? O faceva il finto tonto, oppure non si ricordava davvero nulla della sera prima. Si sperava. Anche se avrei voluto essere io quello dalla memoria corta.
«Mal di stomaco. Forse la nutella era scaduta,» inventai e quello, tutto trafelato, frugò nello zaino, ché aveva una pillola contro il dolore che funzionava a meraviglia. Rifiutai gentilmente, gli occhi che bruciavano, la bocca che rideva dal nervoso. Pensai che era solo la mattina del secondo giorno.
In una settimana non può accadere nulla di male.
Nulla di male. Le ultime parole famose.
---
A fine lezione, Castelli venne a dirmi che in quelle due ore di spiegazione s’era divertito moltissimo –non trovavo un senso logico alle sue parole, e dovetti concludere nuovamente che quello lì fosse un alieno- e che gli dispiaceva, ma non sarebbe venuto a pranzo perché doveva esercitarsi. Non mi passò per la testa di chiedergli di che tipo di esercizio si trattasse; magari andava a tirare su qualche peso in palestra così da poter almeno rimanere in piedi nel caso gli arrivasse un pugno da parte di Damiano, o come si chiamava. Mi feci la prima risata della giornata al pensiero di Valerio che tirava su pesi, era davvero un’immagine buffa.
Fece ritorno a casa solo verso le sei di sera e, quando entrò col suo solito sorriso sul bel faccino, mi chiesi dov’è che se ne andava a gironzolare, a parte in palestra a tirare su pesi. Mi venne di nuovo da ridere, ma mi trattenni, ché quello già mi guardava con due punti interrogativi al posto degli occhi.
In quel momento mi squillò il cellulare, e io feci una corsetta per andare a recuperarlo in bagno: forse l’avevo lasciato lì quando m’ero fatto la barba. Era Giusy, voleva dirmi che Giulio le aveva raccontato del piccolo diverbio del giorno prima all’Olsen e che adesso, sempre Giulio, si sentiva talmente in colpa da non avere il coraggio di chiamarmi per chiedermi scusa.
«E allora lo fai tu al posto suo?» chiesi, ancora piuttosto alterato. Bastava il pensiero a tirarmi su il nervoso.
«No…Ma mi faceva così pena che, dopo averlo convinto, gli ho dato il tuo indirizzo. Volevo avvisarti che sta venendo da te,» disse quella, quasi fosse nulla, e io mi innervosii ulteriormente.
«Adesso?! Ma perché gliel’hai dato senza il mio permesso?»
Valerio mi guardava stranito, vedendo che stavo perdendo le staffe, e io gli diedi le spalle, come se in quel modo non potesse ascoltare la conversazione.
«Vuole solo chiederti scusa! Non te la prendere per ogni cosa, Andrea!» esclamò Giusy dall’altra parte, e sembrava davvero spazientita. E dovevi essere uno bravo per riuscire a far alterare Giusy. Stetti un attimo in silenzio respirando col naso, poi feci un lungo sospiro.
«E va bene, d’accordo. Grazie d’avermi avvisato,» feci, ormai rassegnato. Sapevo rassegnarmi con la stessa velocità con cui mi saltavano i nervi. Stavo per mettere giù quando lei mi richiamò.
«Andrea?»
«Dimmi».
«Tornerai nel mio locale?» chiese, con tono quasi supplichevole e leggermente lamentoso. Ci pensai un attimo, tenendola un po’ sulle spine, le dita che carezzavano il mento appena privato della barba.
«Non lo so. Ma sicuramente non porterò il ragazzo con me,» conclusi, col tono più gentile che potessi usare, poi salutai e riattaccai.
«Cosa c’entro io?» mi chiese Castelli con una mano sul petto una volta che mi fui voltato nella sua direzione. Aspetta, perché diavolo adesso era così vicino?!
«Era Giusy, la proprietaria del locale in cui ti ho portato ieri. Le ho solo detto che non ti porterò più là dentro,» dissi sbrigativo facendo lo slalom tra lui e il tavolino in mezzo al salotto.
«Beh, ma non mi è successo nulla di male».
Aha. Quell’espressione m’era fin troppo familiare, e minacciava di rimbombarmi in testa ancora per un po’.
«Nulla di male?» ripetei con un sopracciglio alzato e quello, non sapendo proprio cosa dire, se ne stette zitto, mentre io me ne andai nella stanza accanto scuotendo la testa.
---
Un quarto d’ora dopo squillò il citofono e io aprii senza neanche rispondere, risparmiandomi le cerimonie sul “Chi è?” “Sono Giulio il mangiatore di uomini” “Oh, proprio non ti aspettavo, prego, accomodati, fa’ come se fossi a casa tua e il mio studente fosse cosa tua”.
Ma l’uomo che mi comparve sulla soglia mi sembrava un po’ diverso da come lo ricordavo, e il suo aspetto non era poi così minaccioso.
«Che hai…fatto ai capelli?» fu la mia domanda spontanea. Infatti, il caratteristico ciuffo lungo e nero di Giulio era del tutto sparito, e i capelli sopra e dietro erano stati drasticamente accorciati: adesso aveva la tipica pettinatura a spazzola. Era curioso, perché mi resi conto di non aver mai visto per davvero gli occhi o le sopracciglia di Giulio, con quel ciuffo che si ritrovava: erano entrambi nerissimi, le ciglia lunghe e folte.
«E’ il mio nuovo taglio da sfigato pentito,» disse quello con sguardo dispiaciuto. Il suo…cosa? Oh, santo cielo, ma da quando in qua la gente si taglia i capelli per il dispiacere? O a quanti anni fa risale questa moda? Avevo un altro caso umano tra le mani, benissimo.
«Intendi farmi sentire in colpa a mia volta, adesso?» chiesi tentando di ignorare il sopracciglio destro che pulsava. Al mio fianco comparve anche Castelli: perché un solo caso umano non bastava.
«No…sono davvero dispiaciuto. Il fatto è che il mio amico ieri sera m’ha dato una pastiglietta spacciandola per vitamine che mi ha mandato fuori di testa,» spiegò torcendosi le mani.
«Vitamine? Ma sei stupido? Non ci credo,» dissi convinto, gli occhi che guardavano altrove.
«No, ha ragione. L’ho visto coi miei occhi,» intervenne il mio alunno, e Giulio lo guardò grato.
«Che ne puoi sapere tu? Eri ubriaco,» ribattei frettolosamente senza neanche guardarlo.
«E’ successo prima che mi facessero bere. E comunque non ero ubriaco. Mi tremavano solo un po’ le gambe,» disse quello con serietà, e subito mi tornarono in mente flash della sera prima e di Valerio che tentava di convincermi che era perfettamente lucido e che le sue non erano parole dette a caso. Mi venne un attacco di depressione, quindi tentai di cambiare discorso.
«Sì, comunque, non dovresti frequentare gente di quel tipo,» ripresi rivolgendomi a Giulio.
«Lo so, non dovrei,» e abbassò la fronte ora scoperta. Aveva una fronte spaziosissima, diamine. Calò un silenzio ricco di tensione tra noi, e Castelli, avvertita l’atmosfera pesante, tentò di rompere il ghiaccio.
«Dai, sei perdonato. Vieni, entra, ché faccio il caffè,» prese Giulio dal braccio e lo trascinò in casa con mio leggero disappunto, poi lo invitò a sedersi sul divano, quasi fosse casa sua. Ed era lì solo da due giorni. Non capisco da dov’è che si prendeva tutte queste libertà. «Arrivo subito,» disse poi, e sparì in cucina: stava più tempo lì che nelle altre stanze.
Anche io mi sedetti sul divano –non sullo stesso di Giulio, quello accanto- e stetti per un po’ a  guardare il pavimento, silenzioso quanto lui.
«Eh. La responsabilità è una bella gatta da pelare,» commentò Giulio dopo un po’. Io annuii solennemente senza staccare gli occhi da terra. «Ma…è solo questo che ti ha spinto a reagire in quel modo?» aggiunse, e io finalmente spostai lo sguardo ora confuso su di lui.
«In che senso, scusa?»
«Nel senso che mi sembra strano per uno come te perdere le staffe,» spiegò, le dita delle mani intrecciate come le mie, le braccia appoggiate sulle ginocchia nella mia stessa posizione.
«Fidati che non è strano,» intervenni prima che potesse andare avanti.
«Eri davvero fuori di te. Sicuro che non ci sia nient’altro?» chiese quindi, e io lo guardai infastidito alzando il mento e poggiando una mano aperta sulla coscia, quasi volessi alzarmi e andarmene.
«Che cosa deve esserci? Non ho capito che cosa intendi tu per “nient’altro”. Ho la fiducia del padre che mi paga per prendermi cura di suo figlio, perciò non posso deluderlo. Quell’uomo è capace di denunciarmi se dovessi torcere un capello al ragazzo,» spiegai, anche se erano cose che gli avevo già detto.
«Quindi, alla fin fine, non ti importa granché di lui,» suppose.
«Eh,» confermai, seppur con la convinzione che mancava quasi del tutto. Infatti, lui prese a scrutarmi, come gli piaceva tanto fare e, dopo che gli ebbi rivolto uno sguardo da “Che c’è?!”, tirò su la testa ed emise la sua sentenza.
«A me sembra il contrario, ma non voglio affrettare i tempi, verrà tutto da sé,» disse, lo sguardo rivolto alla televisione spenta, io che lo guardavo con la bocca socchiusa senza capire un’acca di quello che diceva. Alzai le sopracciglia perplesso e decisi di non sforzarmi più di tanto e appoggiai il mento alla mano. In quel momento tornò l’oggetto della nostra conversazione con in mano un vassoio con il caffè.
«Parli del diavolo,» mi sussurrò Giulio sorridendo senza farsi vedere nel momento in cui Castelli poggiò il tutto sul tavolino di fronte al divano.
«Quanto zucchero?» chiese poi, servizievole fino alla nausea, come sempre.
«Io uno,» disse Giulio.
«io due e mezzo,» feci io senza curarmi troppo della ridicola richiesta, e Valerio sorrise mentre versava lo zucchero nelle tazzine colorate, piegato sul vassoio.
«Siamo in calo di zuccheri?»
Sapevo che cercava di essere simpatico per risollevare l’atmosfera, e quei suoi tentativi, oltre ad essere buffi, mi facevano anche sentire meglio, in qualche modo. Mentre muoveva la testa da una tazzina all’altra, notai che aveva qualcosa incastrata nei capelli.
«Che hai qui?» allungai la mano per districare quello che sembrava un pezzo di foglia secca dalla massa amorfa di capelli chiari. Castelli stette fermo e immobile finché non riuscii a tirare fuori il pezzo di foglia, poi si morse le labbra, non mi disse né grazie né altro e si sollevò per poi allontanarsi di fretta.
«Vado a prendere dei biscotti,» disse velocemente, mangiandosi anche qualche parola, e fuggì in cucina per poi chiudersi all’interno. Dalla parete trasparente vidi che s’era appoggiato alla porta con la schiena. Alzai le spalle senza davvero capire e quando mi voltai, con mio stupore, vidi che Giulio aveva spalancato gli occhi meravigliato nella direzione in cui era scappato Valerio.
«Qui è scattato il campanello d’allarme,» disse sciogliendosi in un sorrisetto eloquente.
«Che campanello?» chiesi, il tono stanco di uno che ne ha abbastanza, di novità.
«Quello nella testolina del tuo amichetto. Sembra che tu abbia fatto colpo su di lui». A quell’affermazione, mi si strinse inspiegabilmente un nodo alla gola.
«Ma per favore,» sdrammatizzai facendo schioccare la lingua in maniera insopportabile.
«Ti dico di sì. Uno come me se ne accorge subito se una persona è infatuata,» insistette quello. Ah beh, l’infatuazione non è poi così grave, alla fin fine…No, ma a che pensavo? Certo che era grave! Lui era un mio studente, io avevo quindici anni in più di lui e, badiamo bene…eravamo entrambi uomini. Fosse stata una bella docente trent’enne col nome di Valeria, forse…
«Non può essere che si tratti di…ammirazione?» chiesi arrampicandomi sugli specchi.
«Non credo che quel distogliere lo sguardo e il rossore sulle guance siano dovuti all’ammirazione, ma se vuoi pensarla così…» lasciò la frase in sospeso facendomi venir voglia di mangiarmi le mani e, dopo che ebbe mandato giù il caffè tutto d’un colpo –era bollente, come diavolo aveva fatto?- si alzò leccandosi le labbra.
«La conversazione m’interessava, ma temo che dovrò andare,» disse mostrandomi un sorriso. «Ringrazia di cuore Valerio, e chiedigli scusa ancora per ieri,» aggiunse, e si stava avviando alla porta con me al seguito, quando suonò il campanello.
«Che succede ancora?» mi chiesi spazientito per poi andare ad aprire. L’individuo dietro la porta entrò senza farsi scrupoli e scostandomi di lato con una spallata.
«Fammi vedere Valerio,» borbottò col fiatone, quasi si fosse fatto una corsa e, a passo da gigante, si diresse in cucina per poi saltare addosso all’amico con fare allegro.
«E questo?» fece Giulio trattenendo a fatica le risate.
«E’ un compagno di corso di quell’altro,» dissi con lo sguardo assassino.
«Quindi anche lui è un tuo studente».
«Sì, ma se vuoi, con lui puoi farci quello che ti pare. Anzi, fatelo bere, dategli vitamine, torturatelo, il fatto non mi tange,» dissi, piuttosto sprezzante da parte mia.
«E invece con Valerio il fatto ti tange, eh?» fece Giulio, il tono complice e strizzando l’occhio.
«Senti, non esagerare con tutta questa confidenza. Mi conosci da pochi giorni, non sai nulla di me,» dissi, e ritenni di aver concluso il discorso. Infatti, con un “Okay, okay, mi arrendo”, Giulio uscì dalla porta e mi salutò con un cenno, poi voltò il capo.
«Ah, un’ultima cosa. Fai attenzione al tipo che poco fa si è fiondato in cucina. Credo sia presissimo dal nostro Valerio, anche se la cosa mi sembra un po’ più complicata. Buona fortuna,» e se ne andò così, lasciandomi con l’amaro in bocca. Chiusi la porta con l’ennesimo sospiro e andai verso la cucina, ma non avevo voglia di assistere a un’altra scena smielata delle loro, proprio no. Così presi al volo una confezione di Ringo –scoprire di averli in casa fu un’illuminazione per me- e mi chiusi in camera da letto a guardare la televisione: CSI Miami, non potevo desiderare niente di più rilassante. Non uscii dalla stanza se non per fare una doccia veloce, e Valerio non lo incrociai più per quella sera. Volevo tenermi fuori dal mondo degli adolescenti, e allo stesso tempo qualcosa –o magari qualcuno- mi ci attirava all’interno.





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Ah, i casi umani. Ah, gli alieni (è che stavo ascoltando U.F.O. dei Coldplay, tanto per dire). Se li becca tutti Andrea <3 E Giulio che gioca a fare l’indovino, tanto amore anche per lui <3
Un’altra caratteristica di Andrea –che probabilmente avrete già capito- è la golosità. Tutto ciò che è dolce fa per lui [MESSAGGI SUBLIMINALI], ma questo non significa che debba renderlo dolce, anzi XD
CSI Miami è il top, rido per tutta la puntata, neanche riesco a godermela. Horatio mi fa ridere, è inutile XD
Il fatto della Nutella nascosta mi ricorda tanto la canzone di Cremonini: “Ogni volta in cui ti penso mangio chili di marmellata, quella che mi nascondevi tu, l’ho trovata”, così a random XD
Okay, ci siamo, GRAZIE AL CUBO PER LE RECENSIONI, vi amo come foste tanti piccoli Valerio.


 

 




Mirokia

 

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


Cap. 8

 

 

 

 

 

 

Passarono tre giorni di colazioni abbondanti, pranzi da re, merende con panini generosamente imbottiti –il fatto che fossero sempre rosette era piuttosto inquietante-, cene per niente leggere e camomilla o cioccolata calda prima di andare a letto. Sapevo che non mi sarei mai e poi mai abituato a una routine del genere: era terribilmente asfissiante! Già non riuscivo a trovare del tempo per stare un po’ in pace col mio cervello, ma adesso non lo trovavo neanche per grattarmi in mezzo alle gambe senza che non mi sentissi osservato. Era snervante, mi avrebbe condotto lentamente all’incontinenza. E poi, ancora dovevo capire per quale assurdo motivo sobbalzavo ogni qualvolta quel Valerio mi rivolgeva la parola: non aveva un tono di voce presuntuoso, non parlava urlando, non spuntava all’improvviso strillandomi nell’orecchio –però a volte sì, compariva dal nulla e mi faceva prendere un coccolone-, ma è pur vero che, nonostante mi stessi abituando al timbro della sua voce, quando entrava a casa col suo “Sono tornato”, quasi sputavo il caffè che stavo bevendo sul quotidiano aperto sul tavolo; o magari mi cadeva la sigaretta col rischio di farmi un buco sui pantaloni o di lasciare una bruciatura sul piede nudo.
Poi però c’erano i giorni in cui Castelli neanche tornava a casa dall’università perché, a quanto diceva, doveva andare a “esercitarsi”, e io stavo a casa solo come un coglione, in un silenzio tanto opprimente da farmi strabuzzare gli occhi come un vecchio pazzo. Perché era così che andava: prima mi lamentavo della troppa invadenza del ragazzo, della sua gentilezza snervante, della sua fastidiosa scrupolosità, delle sue attenzioni da mammina premurosa che mi facevano sentire come se non fossi capace di badare a me stesso - a trentacinque anni suonati -, poi mi annoiavo se non ce l’avevo intorno, e quindi mi lamentavo un’altra volta per il motivo opposto.
E quei pensieri tornarono a farsi presenti quando misi una tazzina sotto la macchinetta del caffè e mi incazzai perché non veniva fuori la schiuma. Perché quando lo faceva Valerio c’era tanta schiuma da poterci poggiare sopra lo zucchero senza che quello sprofondasse nel caffè? Perché lui ci riusciva e io no? Volevo il caffè con la schiuma, Santo Iddio, dov’era quel moccioso quando serviva?  Non avevo neanche il suo numero di cellulare per poterlo rintracciare, e sarebbe dovuta essere la prima cosa che avrebbe dovuto darmi. Perché ero così incosciente?
Bevvi il mio caffè senza schiuma con un cipiglio nervoso e sputai immediatamente nel lavandino quando m’accorsi di non averci messo lo zucchero.
«Ma porca di quella put-» il resto si confuse col rumore dell’acqua che scorreva. Non m’era mai capitato di bere il caffè amaro, non mi scordavo mai, mai, di mettere almeno due cucchiaini di zucchero. Mi misi una mano pesante in faccia, e tirai un sospiro di sollievo quando mi squillò il cellulare. Distrazione, svago, qualcosa che m’alleggerisse il cervello.
Risposi al telefono con un tono fin troppo allegro, sicuramente forzato e, quando dall’altra parte riconobbi la voce di Gaia, la mia ex compagna di liceo che soleva tampinarmi, mi feci una bestemmia mentale: ed erano già due bestemmie in una settimana, avrei dovuto smetterla, sarei finito dritto tra le fiamme dell’inferno.
Quella disse che le dispiaceva molto disturbarmi –come se stessi facendo qualcosa di meglio oltre alle seghe mentali-, ma voleva vedermi perché aveva un’informazione importantissima da comunicarmi. Le chiesi sospirando se potesse darmela per telefono, ma lei rispose che avrebbe preferito parlarmi faccia a faccia. Oh, perfetto. Avrei rifiutato molto volentieri, ma il suo tono mi sembrava insolitamente serio. Mi dicevo che qualcosa mi puzzava, e non era il caffè amaro che avevo ancora davanti al naso. Quindi le dissi che sì, andava bene, e lei mi propose di incontrarci davanti alla palestra che frequentava, visto che era appena entrata e sarebbe uscita nel giro di un’ora e mezza. Mi feci dare bene l’indirizzo e fui lieto di sapere che frequentava la palestra del mio quartiere. Le dissi che ci saremmo visti lì davanti un’ora e mezza dopo e riattaccai, comunque sollevato di essermi trovato qualcosa da fare. Lanciai un’occhiata alla busta rosa pallido sul tavolo e mi ricordai di doverla ancora aprire: m’ero ritrovato quella cosa tra la pubblicità del nuovo ipermercato e tra le bollette, e già avevo idea di cosa fosse, ma avevo quasi timore di sbirciare all’interno. Quella situazione mi sapeva davvero tanto di cosa losca, soprattutto quando ricevi due buste con dentro in tutto duecento euro ogni settimana. Anzi, la settimana non era ancora finita, era possibile che m’arrivasse un terzo pagamento.
Infilai velocemente la busta nel cassetto del tavolo, quasi scottasse, poi mi studiai delle carte per la lezione di lunedì e vidi un po’ di cartoni animati per far passare il tempo: i Simpsons, i soli che il bambino dentro me mi permetteva ancora di vedere.
Dopodiché feci per uscire, ma un pensiero andò a quell’altro incosciente, che se ne stava fuori senza dirmi l’orario in cui sarebbe tornato. E io non avevo idea di quanto tempo sarei rimasto fuori. Ma che mi importava, al massimo sarebbe rimasto ad aspettare seduto sulla soglia come un barbone, non era affar mio, aveva solo da non gironzolare come gli pareva e piaceva.
«Le dispiace tenere questo doppione delle chiavi?» chiesi dopo aver suonato il campanello della vicina, il buon samaritano che tornava in superficie. Lo odiavo, quel buon samaritano, mi faceva fare cose idiote. La signora negò con la testa e racchiuse nella mano grassocce le chiavi col portachiavi di metallo. «Se per caso vede arrivare un ragazzino strano…»
«Ah, sì, il suo coinquilino. Il ragazzo del pane,» mi interruppe quella parlando a raffica. Ah, avevo tra le mani un’amante del gossip. Se non lo sapeva ancora tutto il palazzo era un vero miracolo.
«Sì, lui. Se lo vede arrivare prima di me, può consegnargli queste chiavi? Così non resterà fuori casa,» dissi evitando di portare su il discorso “gossip”. Lei adesso annuì stropicciandosi con l’altra mano il grembiule sporco.
«Certo. Magari lo avvisa che ce le ho io, le chiavi».
«Non ho il suo numero di cellulare,» ammisi alzando le spalle.
«Beh, è bene che se lo faccia dare. Non è preoccupato che gli succeda qualcosa? Il mondo là fuori è un lupo affamato!» esclamò agitandomi un dito grassoccio davanti al naso, e io m’allontanai d’istinto di qualche passo. Okay, la cosa stava degenerando.
«Me ne rendo conto. Provvederò a farmelo dare. Ora la saluto, vado di fretta,» mentii per poi mollarla lì sulla soglia, le chiavi penzolanti in una mano e lo sguardo leggermente perplesso. Dovevo essere io quello con lo sguardo perplesso, santo cielo!
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Ero davanti alla palestra da cinque minuti senza vedere l’ombra di Gaia e già battevo il piede per terra con impazienza. Ma che stava facendo là dentro, Clio makeup? O la messa in piega, visto che faceva la parrucchiera? Mi ero scordato del suoi capelli orribili, avevo quasi paura di doverli rivedere.
Spazientito, decisi di entrare e di aspettarla dentro, perché magari si stava facendo la scorta di barrette energetiche al distributore automatico. L’edificio era nuovo ed enorme, pensai che fosse sicuramente più grande della scuola materna giusto accanto. Sembrava diviso in tre precise sezioni: nel centro si apriva una di quelle tipiche palestre scolastiche, solo che invece di avere il pavimento verde e le pareti bianche, era tinta di un colore scuro e deprimente, e in mezzo alla stanza vi era posizionato un largo materassino e dal soffitto pendevano quelli che sembravano sacchi da boxe. Va bene, a quanto pare non era una palestra scolastica. Alla mia destra c’era un lungo corridoio, e una lamina dorata sul muro indicava che in quella direzione vi era la sala pesi, completa di stanze per lo Spinning e per l’aerobica o gli sport di gruppo, quelli con la musica. Probabilmente era da lì che sarebbe venuta fuori Gaia. La tizia alla reception osservava i miei movimenti da turista, e forse stava anche per chiedermi cosa desiderassi e se, magari, mi facesse piacere fare un giro turistico della palestra, ma un cliente la tenne impegnata, e gli fui grato. Mi stavo rendendo conto che parlare con le persone mi faceva sempre meno piacere.
La stanza che m’attirava di più, comunque, era quella a sinistra: era circondata da pareti di vetro su cui erano stampate sagome di ballerini e ballerine; il pavimento era in legno e sulla parete opposta a me era posto un enorme specchio. Sbirciai curioso attraverso il vetro, visto che m’era sembrato di intravedere del movimento all’interno: una lezione sembrava essere in corso. Mi stupii alquanto quando mi parve di riconoscere una figura in mezzo al gruppo di ragazzi e ragazze che si muovevano in sincronia: era niente popo di meno che Valerio Castelli. Ma me lo trovavo davvero dappertutto, non era possibile. Ammisi comunque che non mi sarei mai immaginato facesse il ballerino, con quei suoi movimenti goffi e la capacità con cui inciampava sul filo dell’aspirapolvere: m’era sempre sembrato il contrario della coordinazione –tranne forse  quando cucinava e faceva il caffè-. Sorrisi automaticamente quando lo vidi con la faccia concentrata, gli occhi che tentavano di non andare sui propri piedi, che faceva strisciare a terra e alzava in aria al ritmo di una musica che sentivo a malapena. L’istruttrice, tutta contenuta in una tutina nera e fucsia, parlava e consigliava agli allievi i giusti movimenti ma, quando poi si muoveva lei, sembrava niente in confronto ai ragazzi a cui insegnava. O almeno, quella era la mia sensazione: sapevo di non essere un grande esperto di balletti o robe simili. Osservando più attentamente mi accorsi di conoscere un’altra persona tra quelle, e mi chiesi con un cipiglio nervoso com’è che conoscevo così tanti adolescenti: mi pareva fosse la ragazza cieca di cui Castelli mi aveva parlato più volte; Laura, forse? In effetti si notava benissimo che era una non-vedente: teneva lo sguardo fisso nel vuoto, ma l’espressione attenta lasciava intendere che seguisse con cura le note della canzone e, anche se i movimenti non erano uguali a quelli dei compagni, andava perfettamente a ritmo.
La coreografia terminò qualche secondo dopo con due passi ad effetto, poi l’insegnante fece loro i complimenti e tutti s’applaudirono sorridenti. Avevo appena visto Castelli andare verso Laura tutto trafelato e con aria mortificata ottenendo solo il rifiuto dell’altra, quando sentii qualcuno picchiettarmi sulla spalla.
«Scusa se ti ho fatto aspettare. C’erano dei problemi con le docce,» disse Gaia e, no dai, s’era davvero truccata, e anche pesantemente. Lo sapevo, altro che docce. La salutai con un cenno, e quella mi disse di andare a parlare fuori. Una volta all’aperto, ci appoggiammo con la schiena alla mia macchina e lei mi rivolse uno sguardo sofferente. Pensavo stesse per dirmi una cavolata delle sue spacciandola per tragedia.
«Di cosa volevi parlarmi?» chiesi arrivando subito al punto. Lei si torse le mani e guardò altrove.
«Il fatto è che…sono a conoscenza di un fatto su cui mi è stato chiesto ti tacere,» disse pettinandosi i capelli umidi con una mano. «Ma io non sono il tipo di persona che nasconde qualcosa di importante a un caro amico, quindi ti ho chiamato con l’intenzione di dirti tutto,» continuava a girarci intorno e mi rendeva sempre più impaziente, nonché nervoso, quasi non lo fossi già abbastanza di mio.
«Dai, allora, parla,» la incitai incrociando le braccia. Lei mi guardò quasi mortificata e mi fece segno di accostarmi al suo viso. Quando fui abbastanza vicino, inspirò profondamente e si mise anche una mano davanti, come quando devi confidare un segreto al tuo migliore amico.
«So…il vero motivo per cui April ti ha lasciato,» mi sussurrò incerta, e io strabuzzai gli occhi.
«E’ perché non andavamo d’accordo,» dissi a voce malferma, ormai non più tanto sicuro che fosse quello il motivo.
«Ma no,» fece lei scuotendo la testa e guardando altrove, e sembrava fin troppo titubante di andare avanti, quasi fosse una questione di suo interesse, e non mio. Picchiettai le dita sul mio stesso braccio, poi sospirai rumorosamente.
«Che aspetti a dirmelo?» feci, le dita che fremevano inspiegabilmente. Gaia mosse i capelli quando si girò di scatto verso di me, con lo sguardo da “E va bene, facciamola finita con questa pantomima”.
«Era incinta. Non di te, di un altro, non so chi sia,» asserì, quasi con cattiveria, come fosse lei la vittima, e non io. Non io.
Io non ero niente.
Il mondo sembrò vacillare su di me, il castello di carte perdeva pezzi e sarebbe crollato di lì a poco. No, scusa… che cosa? Guardai nel vuoto per un po’, poi mi schiacciai il palmo della mano sugli occhi e scoppiai in una risata fragorosa, di quelle a cui ti lasci andare quando rasenti la disperazione, il naso che tirava su quasi avessi il raffreddore.
«Quindi avrei una…specie di figlio illegittimo? Se non ci fossimo lasciati, io avrei avuto la possibilità di avere un figlio?» e continuavo a ridere come un decerebrato, perché dentro piangevo e non riuscivo a reagire diversamente. Non mi importava che April mi avesse tradito; quel che contava era il figlio. Cazzo, per quanto io non sopportassi le scocciature, e le grida, e qualunque cosa avesse a che fare con i bambini, io con un figlio sarei stato a posto. Io e un figlio, e basta. Sarebbe stata l’unica persona di cui mi sarei preso sinceramente cura, sarebbe stata l’unica ragione di vita, sarebbe stato motivo di orgoglio vederlo crescere secondo i miei insegnamenti. Forse mi vergognavo a dirlo, ma avere un figlio mi avrebbe reso completo.
O magari ero io a fraintendere tutto. Quello che volevo, forse, non era proprio un individuo che avesse il mio stesso sangue, ma qualcuno da proteggere, da accarezzare quando mi sentivo solo, con cui parlare se avevo bisogno di sfogarmi, qualcuno di cui fidarmi. Magari confondevo le due cose, e non andava bene, no, per niente, dovevo iniziare a pensare a cosa diavolo volevo per buttare giù quel dannato castello di carte e costruirne sulle sue fondamenta uno più forte, più solido, più bello.
Che seghe mentali di merda mi facevo, adesso stavo male e basta, che ci fosse un motivo logico o meno.
«Non deprimerti, per favore!» mi implorò Gaia quando s’accorse che la risata si stava spegnendo piano e tramutando in quelli che sembravano leggeri singhiozzi. «Vieni qui,» disse poi e, con un cenno della mano, si offrì come spalla su cui piangere. Se non fossi stato appena informato di un fatto così triste, probabilmente non avrei lasciato che mi stringesse così forte e che mi dicesse parole di conforto, a cui credevo ben poco, conoscendo il suo carattere poco dolce e sincero.
«Ascolta…Lasciati indietro questa storia. Non sarebbe meglio ricominciare daccapo?» mi sussurrò all’orecchio mentre tenevo lo sguardo ancora asciutto fisso sull’asfalto, il mento sulla sua spalla.
In quel momento, dall’edificio che avevamo di fronte uscì la ragazza cieca seguita da Valerio che la richiamava senza che venisse ascoltato. Quest’ultimo vide me e Gaia stretti, mi riconobbe, fece una smorfia e finse di non conoscermi per poi tornare a inseguire l’amica, che camminava lungo il marciapiede sfiorando di tanto in tanto il muro alla sua destra con la punta delle dita.
Schioccai la lingua per poi sollevare il mento dalla spalla di Gaia e sciogliermi dal suo abbraccio, mentre quella ancora mi carezzava i capelli sulla nuca.
«Allora? Non ti va di ricominciare?» chiese, nuovamente. Io la guardai negli occhi adesso verde scuro, poi lanciai uno sguardo oltre la sua spalla intercettando la figura di Castelli che si allontanava.
«Sì,» dissi con voce ferma. «Ma non con te». Le tolsi con calma le braccia avviluppate attorno al mio collo e mi infilai in macchina con la mia solita espressione accigliata, anche se adesso lo era un po’ di più.
«Ci vediamo,» salutai e, senza neanche offrirle un passaggio, partii nella stessa direzione in cui si dirigevano Castelli e l’amica, per poi accostarmi quando li ebbi raggiunti.
«Dove stai andando?» chiesi con fare sgarbato dopo aver abbassato il finestrino.
«Da Fabio,» mi disse quello freddamente, quasi ce l’avesse con me. Non anche lui, ti prego.
«Beh, sali. Anche la tua amica. La accompagno a casa, se vuole». Sì, aveva ragione Castelli, ero fin troppo disposto ad aiutare la gente, quando tutto quello che dovevo fare era pensare un po’ alla vita che conducevo. Che orribile difetto.
«No, grazie, non si preoccupi, vado a piedi,» rispose lei con cortesia.
«Tranquilla, Laura, non è uno sconosciuto, è un mio insegnante. Puoi fidarti,» fece Castelli per risparmiarmi il fiato, e la ragazza, dopo qualche secondo di ripensamento, guardò verso la direzione dell’amico e decise di fidarsi. Salì in macchina, nonostante continuasse a tenere uno sguardo diffidente, e fu seguita a ruota da Valerio.
La accompagnai a casa dopo che quest’ultimo mi ebbe indicato la strada, aspettai che facesse ingresso nel suo portone, poi feci un’inversione a U e tornai verso il mio condominio.
«Ho detto che devo andare da Fabio,»  protestò Valerio una volta che si rese conto di dov’è che ci trovavamo.
«Non importa. Tu vieni a casa con me».
«Ma perché?» chiese ancora dopo essere sceso dalla macchina e avermi raggiunto al cancelletto.
«Perché non mi piace quel tipo di gente,» rispondevo mentre aprivo con le chiavi e senza girarmi per guardarlo.
«Non deve piacere a te!» esclamò mentre mi seguiva per le scale e poi dentro casa. Gli feci segno con lo sguardo di entrare una volta per tutte, poi gli chiusi la porta alle spalle sbattendola.
«Ho detto che tu resti qui. Ora finiscila e lasciami in pace,» dissi duramente, e andai a sedermi sul divano con la testa che cadde pesantemente tra le mani, gli occhi socchiusi che vedevano il pavimento distorto. Oltre a pensare al fatto che se non avessi fatto l’egoista e l’orgoglioso a quell’ora starei aspettando l’arrivo di un figlio, pensavo alle bugie di April, che diceva di detestare chiunque non riuscisse a tirare fuori le palle e a dire la verità, quella nuda e cruda, a descrivere i fatti così come stavano. Anche quello mi dava fastidio. Inutile dire che ormai la lista delle cose che mi procuravano fastidio s’era triplicata.
«Che è successo?» Non m’ero proprio accorto del divano che s’era leggermente abbassato accanto a me, premuto dal peso di Castelli. Io mi limitai a scuotere piano la testa. «C’entra quella donna con cui ti ho visto poco fa?» chiese ancora. Alzai il capo e guardai in aria per evitare che gli occhi lasciassero cadere le lacrime: piangere mi procurava solo un forte mal di testa, ed ero convinto non servisse a nulla.
«Un figlio…» mormorai, senza neanche sapere se avessi davvero parlato o meno. Sembrava tutto nella mia testa, parlavo da solo, e mi sentivo solo. Poi un tocco tiepido prese possesso del mio corpo, e m’accorsi che Castelli aveva appoggiato le sue mani sulle mie spalle e tentava di guardarmi in faccia, con serietà, i lineamenti per nulla turbati.
«Hai messo incinta quella ragazza?»
Pensavo che se ne uscisse con qualcosa di più furbo. Tornai un attimo in me, ché dovevo sembrare assolutamente patetico con quella smorfia triste sul volto.
«No…no! Ma perché non mi lasci perdere? Che ti importa? Non sei un mio parente, né tantomeno un mio amico. Sei fastidioso,» sibilai, in maniera tanto odiosa da pensare di non essermi mai detestato così tanto. Lui guardò in basso, annuì e sospirò, quasi avesse capito dell’altro, poi si rizzò in piedi e andò a rifugiarsi nella stanza accanto. Strinsi il pugno fino a graffiarmi il palmo con le unghie, e mi maledissi dieci volte di seguito, mettendo uno “Scusa” dietro l’altro rivolto a Valerio, senza riuscirlo a dire ad alta voce. Poi l’emicrania dovuta al mio trattenere le lacrime mi si insinuò nelle tempie, mi fece distendere sul divano e mi costrinse a dormire, per tentare di pensare un po’ di meno. Volevo pensare, e poi smettere di farlo subito dopo. Mi sentivo un incapace.

 

 

 

 

 


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Capitolo leggermente angst, a volte ci sta (in realtà ci sta sempre, ahh, l’angst! <3). Badate, sto riuscendo ad aggiornare così in fretta perché non ho ancora iniziato l’università (DOMANI) e perché mi state deliziando con le vostre recensioni, io…IO VI ADORO *piange
Comunque, ehm. Basta smancerie <3
Nel prossimo capitolo introdurrò due personaggi che mi piacciono molto e che spero apprezzerete anche voi <3 Gaia la odio, ma spero si sia capito. Andrea è confuso, sta male, ma non sa neanche lui perché: non propriamente per il fatto che la sua ex moglie era incinta di qualcun altro, quanto per il fatto che s’è perso l’occasione di avere un figlio, o comunque, qualcuno di molto caro e di cui fidarsi, al suo fianco [MESSAGGI SUBLIMINALI]. Quindi facciamo che lui stesso non sa perché sta male, pace.
Ah, e poi…“Non avevo neanche il suo numero di cellulare per poterlo rintracciare, e sarebbe dovuta essere la prima cosa che avrebbe dovuto darmi.” La
prima cosa [MESSAGGI SUBLIMINALI].
Ah, un’ultimissima cosa: nello scorso capitolo ho letto un paio di errori. Volevo solo dirvi che spesso non è colpa mia, ma del correttore automatico, o quello che è. A volte mi combina brutti scherzi. E poi, quando vado a rileggere prima di postare, magari sono di fretta e non faccio attenzione e mi perdo per strada questi errori/orrori di battitura. Per dire, invece di “Ieri sera”, è venuto fuori “Ieri s’era”. Non vorrei che pensaste che non so come si scrive “sera”, hahaha, sarebbe terribile, in effetti.
E quindi niente, tenterò di fare più attenzione d’ora in poi ^^’



 

 




Mirokia

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo nono ***


Cap. 9







Quando mi svegliai, erano già le otto di sera e avevo la testa che mi girava leggermente. Mi misi a sedere e aspettai di fare uno sbadiglio che non arrivò, poi mi accorsi di avere il corpo tiepido: ero coperto dal mio pleid colorato. Era opera di Valerio il Premuroso, senza dubbio. Mi chiesi dov’era andato a scovare quel pleid, non lo vedevo da tempo.
«Come stai?» mi chiese gentilmente quando entrai in cucina trascinando con me il pleid. Valerio era seduto al tavolo a guardare con interesse un quiz sul primo canale.
«Insomma…» borbottai, e  finalmente uno sbadiglio arrivò e forzò la mia mano davanti alle labbra. Guardai con le lacrime agli occhi dovute allo sbadiglio il mio alunno e i suoi occhi chiari tempestati dalle luci blu della televisione. Mi chiesi se fosse arrabbiato, e il fatto che me ne stessi preoccupando non prometteva nulla di buono. Avevo appena aperto la bocca per chiedergli scusa, quando lui parlò anticipandomi.
«Non vorrei darti altre preoccupazioni, ma ha telefonato tua sorella». Mi misi una mano sulla fronte sudata. Ci mancava solo lei.
«E che voleva?»
«Mi ha detto che verso le nove avrebbe portato qui un certo Michele perché domani tu hai la giornata libera, mentre lei e il suo compagno devono lavorare fino a tardi. Mi ha chiesto di riferirti questo,» concluse con garbo, e io feci uno strano lamento. Com’è che non aveva messo su il broncio? L’avevo trattato a merda un paio d’ore prima, e aveva ancora la voglia di parlarmi con quel tono calmo e gentile? Era un alieno e basta, caso chiuso.
«Non si può mai stare tranquilli,» borbottai col fare del vecchio rompipalle.
«Questo Michele è…un bambino?» fece quello con gli occhi puntati alla televisione.
«Sì, è mio nipote».
«Allora puoi stare tranquillo, posso pensarci io. Ci so fare con i bambini,» mi rassicurò. Ah, certo, non era solo bravo a cucinare, a ballare e a spremere cioccolato sulle torte; sapeva fare anche il baby sitter. Mi chiedevo se potesse occuparsi anche di un cane, nel caso un giorno ne avessi comprato uno.
«Ma figurati, non posso lasciare che tu…» provai a  dire, ma fui interrotto.
«Invece sì. Non sono così inaffidabile come sembro,» disse lui, questa volta un po’ infastidito. «Prova a fidarti un po’,» aggiunse, lo sguardo luminoso adesso puntato nel mio. Ma che aveva quel ragazzo? Non poteva essere perfetto, che Cristo! Inclinai la testa di lato, nessuna ruga di espressione sulla mia fronte, le sopracciglia rilassate, poi annuii con un sorriso accennato e tornai sul divano.
Non mangiai molto quella sera, ma Valerio non disse nulla al riguardo e mi lasciò mangiucchiare quello che mi andava, mentre lui sgranocchiava dell’insalata. Inoltre, non tirò più fuori il discorso di quel pomeriggio, e per questo lo ringraziai mentalmente. Parlò solo una volta quando disse:
«Ti invidio, sai?»
«Per quale motivo?» O meglio, perché lui, individuo a quanto pareva perfetto, doveva invidiare un inetto come me?
«Perché quando sei triste ti incazzi. Fossi anche io così, avrei superato un bel po’ di traumi,» disse con fare imbarazzato, quasi si stesse confidando a cuore aperto, e intanto tirava su i piatti e li metteva nel lavandino.
«Perché, tu che fai?»
«Piango come una femmina,» rise lui, ma sembrava una di quelle risate pesanti, per niente sincere, un po’ malinconiche. Volevo davvero chiedergli altro, ma non desideravo essere invadente, e quello era uno dei momenti in cui il silenzio era la cosa migliore.
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Mia sorella arrivò alle otto e un quarto e teneva in braccio il piccolo Michele, che come al solito si guardava intorno, nonostante conoscesse già bene casa mia. Fu Valerio ad accoglierli, e il suo sorriso si spense inspiegabilmente quando vide mia sorella Simona sulla porta. Spostò lo sguardo da lei a me al rallentatore, più di una volta, la bocca spalancata e la pupilla allargata, e ci mise un po’ prima di spiccicare parola.
«Ma…siete…identici,» fece a poco a poco, e Simona alzò gli occhi al cielo per poi entrare e chiudere la porta da sé.
«E’ ovvio, piccolo sconosciuto. Siamo gemelli,» lo informò Simona, col tono di una a cui non va più di ripetere sempre la solita solfa e io, in tutta risposta, sprofondai sul divano alzando a mia volta gli occhi al cielo. «Che ci fa questo tizio in casa tua? E’ il baby sitter per Michele? O il tuo badante?» fece ancora, con tono antipatico. Era di famiglia, nient’altro da dire.
«Non sono affari tuoi,» risposi in fretta, e quella si mise una mano davanti alla bocca dopo aver adagiato il bambino a terra.
«Uhh, oggi è un giorno no, eh? Ma d’altronde, i tuoi sono sempre giorni no. Prendi esempio dal ragazzo qui presente,» disse, e indicò Valerio, che s’era già inginocchiato davanti al bambino per poter socializzare con lui. Niente di nuovo, era un alieno, dopotutto.
«Ci proverò,» acconsentii, tanto per farla stare zitta.
«Bene, allora io scappo. Buona serata». Andò a baciare il bambino sul capo, poi venne verso di me e mi mollò uno schiaffetto sulla guancia. «E su con la vita,» concluse, e se ne andò lasciando in casa l’eco della sua voce e il tintinnio della sua cintura contro la cerniera della giacca.
«Ciao, Michi,» salutai mio nipote muovendo la mano, un sorriso sulle labbra, senza alzarmi dal divano.
«Ciao zio,» fece lui, coi riccioli rossi sempre più folti e le lentiggini sul naso che sembravano più scure e evidenti.
«Per la miseria. Questo bambino sembra un bambolotto! Ha gli occhi verde acqua!» esclamò Valerio osservandolo da vicino.
«Sì, ma non è altrettanto tranquillo. Ha una parlantina…» lo avvisai. Infatti, subito dopo, Michele aprì la piccola bocca per parlare.
«Ma tu chi sei? Mica ti conosco,» chiese al mio alunno, che mi guardò con una mano premuta davanti alle labbra. Sarà stata già la quarta volta in una settimana che gli ponevano la stessa domanda.
«Lo so, lo so. Io mi chiamo Valerio, piacere,» e gli strinse la mano, almeno quattro volte più piccola della sua. «Adesso ci conosciamo».
Il piccolo lo guardò diffidente, quindi voltò il capo nella mia direzione.
«E’ amico tuo?» mi chiese.
«No no, io sono…»
«Sì, è mio amico,» confermai con un mezzo sorriso, e Castelli mi guardò piuttosto stupito. E ne aveva tutto il diritto, visto che qualche ora prima gli avevo sibilato che non era mio parente, né tantomeno mio amico, e quindi non aveva da impicciarsi degli affari miei.
«Allora possiamo giocare. Quanti anni hai?» domandò Michele ora rivolto al suo nuovo amico, e già aveva cambiato espressione facciale.
«Venti. E tu?»
«Mio zio è molto più grande di te,» a quell’affermazione, Castelli abbassò repentino lo sguardo e lo vidi arrossire violentemente. Era paonazzo a dir poco e, non seppi neanche perché, ma mi vennero in mente Giulio e i suoi discorsi contorti. «Io ne ho sei. Ci guardiamo un cartone?» aggiunse poi mio nipote, cavando d’imbarazzo l’altro.
«Agli ordini! Zietto, ci serve un dvd,» disse quello allegramente col capo voltato nella mia direzione, la vocetta piccola a imitare quella del bambino. Sorrisi beffardo e indicai con un cenno il mobile in legno antico sotto la televisione.
«Vedi, nel mobiletto dovrebbero esserci la Sirenetta e Robin Hood».
Valerio si mise a gattoni –la marca delle mutande in bella vista- e prese a rovistare nel mobile, sempre come se fosse a casa sua. Magari già lo sapeva che là dentro tenevo i dvd.
«Cosa preferisci, Michele?» chiese mentre cercava tra i dvd di azione e gli horror.
«Robin Hood! La Sirenetta è per femmine,» rispose, giustamente, mio nipote. Era piccolo, ma già ben spigliato.
«Giusto! Vada per la volpe fuorilegge!» esclamò il ragazzo, e tirò fuori il cd dalla custodia, per poi inserirlo nel lettore dvd: aveva già imparato ad usarlo e l’aveva acceso una sola volta, quando io ci avevo messo una settimana buona per capire anche solo da dove diavolo s’accendeva. La presentazione iniziale della Walt Disney illuminò la stanza di azzurro, e Castelli andò a spegnere le luci del salotto per creare un’atmosfera migliore. Portò per mano Michele sino al divano, poi si sedette accanto a me e lo fece accomodare sulle sue ginocchia. Osservai Michele e la sua espressione attenta con una sensazione simile alla tenerezza, e mi chiesi per l’ennesima volta in quel giorno come sarebbe stata la mia vita con un figlio tra le braccia. Poi spostai l’attenzione su Valerio e pensai che aveva davvero un bel profilo, un paio d’occhi che sembravano lo specchio del cielo e sapevano trasmetterti del sereno anche quando ti sembrava tutto nuvoloso. C'era qualcosa in lui che ancora non riuscivo ad afferrare e che ti costringeva a volergli bene, anche se non ne avevi voglia. In qualche modo, te la faceva venire. Erano solo sei giorni che soggiornava in casa mia, e dovetti ammettere che sarebbe stata dura non avercelo più intorno. Almeno mi faceva innervosire di tanto in tanto, così non sarei diventato un’ameba.
Mentre ci pensavo, in un tempismo perfetto, mi squillò il cellulare, e mi rifugiai in corridoio per poter rispondere senza disturbare i due che guardavano la tv. Quando risposi, riconobbi la voce di Bruno, il padre di Castelli.
«Professore, mi scusi per l’orario!» si affrettò a dire prima che potessi salutarlo come si deve.
«Ma no, si figuri, ho appena finito di mangiare,» mentii, ché tanto non avevo praticamente mangiato.
«Ho telefonato per Valerio. Come sta andando?» chiese la voce trafelata dall’altra parte..
«Bene, suo figlio non crea alcun disturbo,» ammisi, tendendo l’orecchio sinistro nel caso mio nipote mi stesse richiamando. Ma sembrava tutto tranquillo, anzi, c’era fin troppo silenzio per avere due chiacchieroni in casa.
Un attimo, avevo davvero detto “Nessun disturbo?” Stavo realizzando solo in quel momento che Valerio non disturbava per davvero, anzi. Ero stato io che, fermo nella mia cocciutaggine, avevo continuato a pensare a lui come a una seccatura di cui mi sarei sbarazzato volentieri. Ma ripensandoci, non riuscivo a trovare un motivo plausibile per cui avrei dovuto sbarazzarmi di lui. Mi faceva pure uscire la schiuma nel caffè, e m’ero accorto di essere un fan della schiuma. Sì, doveva per forza restare.
«Ne è sicuro? Quindi non è un problema se rimane ancora per un po’ e io continuo a pagarla?» chiese Bruno col tono piagnucoloso.
«Assolutamente no, può rimanere quanto vuole e non c’è bisogno che lei mi paghi, davvero. Mi sento un approfittatore».
«Ma che dice? Lei è troppo gentile!» esclamò quello riempiendomi di elogi.
«No, dico davvero. Ospito con piacere suo figlio, non lo faccio per i soldi. Quindi non c’è n’è bisogno». Mi parve di sentire l’uomo dall’altra parte tirare su col naso, la voce commossa.
«Non so come ringraziarla…Mi sdebiterò!» disse, e io alzai gli occhi al cielo: mi sembrava di sentire Valerio dire le stesse identiche parole. Sarebbero diventate la mia rovina.
«Ma si figuri, non ci sono problemi. Alla prossima, signor Castelli,» dissi pazientemente.
«Grazie ancora, a presto!» ringraziò e mise giù, lasciandomi incredibilmente più sollevato, non sapevo se per il fatto di aver concluso quella conversazione snervante o se fosse dovuto ad altro. Ed arrivò anche una sorta di turbamento che si tramutò in brividi dietro il collo e in torcersi di stomaco. Forse avevo solo fame. Lo sperai per davvero.
«Era mio padre?» mi chiese Castelli quando tornai in salotto con ancora il cellulare rosso stretto in mano.
«Sì. Mi ha chiesto se puoi restare ancora,» dissi senza alzare lo sguardo, e tornai a sedermi accanto a loro.
«E che gli hai detto?»
«Che puoi restare quanto vuoi. Per te va bene?» feci, una gentilezza strana che s’era presa possesso di me. Sveglia, Andrea, che diavolo ti prende, non sei più tu, digli una parola sgarbata, guardalo male, incazzati, incazza-
«Assolutamente! Grazie,» e si allungò per darmi frettolosamente un bacio sulla guancia.
«Shh! State zitti, ché Robin Hood sta lanciando la freccia!» strillò Michele e solo in quel momento mi ricordai che c’era pure lui lì con noi. Tornammo a guardare tutti e tre la televisione, in silenzio, e mi sentivo la guancia stranamente intorpidita.
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Quando Fabio Martone venne a sapere che il suo caro Valerio sarebbe rimasto da me ancora per un po’, non si fece attendere. Prima di tutto tempestò l’amico di domande fastidiose –come “preferisci lui a me, vero?”-, poi iniziò a minacciarmi puntandomi un dito addosso, fino a toccarmi il petto col polpastrello. E fu ancora peggio quando, all’ennesima minaccia, gli risposi che se provava a rivolgersi un’altra volta a me con quel tono, avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per bocciarlo all’esame di letteratura italiana e latina. Volevo solo spaventarlo e scrollarmelo di dosso, santo cielo. E invece le mie parole non fecero che fomentare la sua voglia di spezzare qualche gamba.
Me lo ritrovai sotto casa una di quelle sere, quando ancora doveva fare buio. Lui e altri due ragazzi che s’era portato dietro mi bloccarono davanti al parco giochi dietro casa mia, ché a quell’ora, avranno pensato, di lì non ci passava un’anima. Ero solo io l’idiota che prendevo quella scorciatoia per arrivare prima a casa, e quelli sicuro mi avevano pedinato.
Ohi ohi ohi, pensai quando mi ritrovai la bella faccia di Fabio Martone venirmi incontro. Feci per girare i tacchi e tornare indietro, ma alle mie spalle avevo uno smilzo e un tarchiato che sembravano avercela proprio con me. Ma che avevo fatto di male per meritare tutto questo? Vivere per inerzia non avrebbe dovuto causarmi di questi problemi. Sempre se il mio castello di carte fosse effettivamente ancora in piedi o si fosse perso qualche grosso pezzo per strada.
«Adesso chiama il padre di Vale e digli che non vuoi più suo figlio,» mi disse quella faccia tosta, le braccia incrociate. Lo smilzo e il tarchiato formavano con Martone un semicerchio che mi chiudeva contro il cancello posteriore del mio stesso condominio.
«Senti, non posso rovinare un rapporto di fiducia solo per i capricci di un adolescente in preda agli scompensi ormonali,» dissi io dimostrando dopotutto una certa freddezza, ma vidi lo smilzo tirare fuori dalla tasca quello che sembrava un coltellino a serramanico, seppur chiuso.
«Chiamalo adesso. E senza storie,» ripeté Martone, e io non poteri fare altro che ubbidire, ché quel coltellino lì mi faceva paura, e non poca. Mi chiesi che diavolo saltasse in testa ai giovani. Pensavo che fossero interessati alle macchine, alle pasticche e alla discoteca, non a minacciare un povero insegnante che tenta di farsi gli affaracci suoi. Per cosa, poi?
Alzai gli occhi al cielo e frugai nella tasca della giacca per poi tirare fuori il solito cellulare rosso. Cercai il numero di Bruno, con tutta la calma del mondo, quasi stessi aspettando che un miracolo accadesse e apparisse qualcuno in tutina da Superman a salvarmi.
«Che sta succedendo qui?» chiese una voce tremendamente familiare. Mi sarei messo a piangere di gioia. Certo, non aveva la tutina azzurra e rossa, ma ci poteva stare. Valerio disse di essersi affacciato alla finestra perché stavo tardando e di aver riconosciuto le nostre figure che discutevano davanti al parco giochi, quindi era sceso di corsa. Carino da parte sua.
«Non ti intromettere, eh,» sbottò Martone, e non m’era mai capitato di assistere a una risposta sgarbata da parte sua rivolta all’amico.
«Certo che mi intrometto. Perché hai portato qui Paolo e Marco?» chiese il biondo e io, intanto, ne approfittai per far scivolare nuovamente il cellulare nella giacca.
«Non devo dare conto a nessuno di quello che faccio. E adesso spostati, ché sono furioso,» disse Martone quando si rese conto che Valerio aveva intenzione di frapporsi fra me e i suoi due amici teppisti.
«Io non mi muovo da qui finché non te ne sarai andato e ci avrai lasciato in pace,» rispose Valerio, che a quanto pare era pure coraggioso. Ce l’aveva un dannatissimo difetto?
«Ci avrai lasciato in pace? Ma come parli? Come se foste marito e moglie?» fece il moro ancora più adirato, e io picchiettai sulla spalla del mio coinquilino senza farmi notare.
«Non sarebbe meglio se li tranquillizzassimo e cercassimo di entrare in casa?» e il premio per la proposta più idiota andava ad Andrea Ruggeri.
«No. Ora sono arrabbiato anche io,» replicò l’altro facendo un passo avanti, i denti che strisciavano tra loro in un rumore insopportabile.
Oh, perfetto, favoloso.
«La vogliamo piantare con questa sceneggiata?» iniziò allora Castelli, io che restavo in disparte a fare l’inutile come sempre. «Piantala di essere geloso per finta. So bene perché fai tutto questo. Piantala di dirmi che lo fai per il mio bene, che vuoi solo proteggermi, o addirittura che mi ami. Sai almeno che valore hanno per me quelle parole?» gli chiese retoricamente, ma non gli diede il tempo di rispondere che riprese a parlargli a cuore aperto. «Conosco le ultime volontà di Alessio e in tutto questo tempo hai cercato di esaudirle con intenzioni nobili, nonostante le tue maniere non lo fossero poi tanto. Ma adesso basta. Non credo proprio che fossero questi i suoi desideri».
«Scusa, che hai detto? Tu lo sapevi?» ribatté Martone, lo sguardo minaccioso che s’era spento di colpo. E adesso chi era questo Alessio? Da dove spuntava, dannazione, perché ero l’ultimo a capire come stavano le cose? Non che mi importasse, ma adesso volevo saperlo e basta.
«Sì, l’ho saputo anche prima di te, ma ho evitato di dirtelo. So bene che era lui quello da cui eri preso, non io. Quindi finisci questa messinscena e torna a casa. Fammi quest’ultimo favore,» concluse Valerio, i pugni prima serrati che adesso si rilassavano gradualmente.
«Non posso tradirlo,» fece in tutta risposta l’altro, il mento ancora alto, ma tuttavia indeciso sul da farsi, i due suoi amichetti che guardavano in cagnesco il mio studente. Così decisi che era tempo per me di avere voce in capitolo.
«Valerio,» gli sussurrai dietro la schiena, e il suo nome sembrò strano nella mia bocca: in effetti era la prima volta che lo chiamavo per nome. «Adesso ce ne torniamo a casa,» lo avvisai, poi mi rivolsi direttamente ai tre davanti a noi. «C’è un’auto dei carabinieri che continua a fare avanti e indietro. Se non ve ne andrete con le mani in tasca, passerete dei problemi. Quindi arrivederci,» dissi mettendomi accanto a Castelli e prendendolo leggermente dal gomito, per costringerlo a venire via con me. I teppisti si guardarono tra loro e, anche se diffidenti, preferirono non rischiare, e s’allontanarono a passo svelto, con Martone che non distolse lo sguardo da Valerio finché non ebbe girato l’angolo.
«Io non ho visto nessuna volante,» ammise quest’ultimo quando fummo soli.
«Lo so. Ma lo scherzo dei carabinieri funziona sempre. L’ho usato anche con te,» gli dissi facendogli l’occhiolino, e lui mi rivolse uno sguardo confuso. Gli feci un cenno con la testa e, in silenzio, continuammo a percorrere la scorciatoia fino ad arrivare al cancelletto di casa.
«Scommetto che adesso vuoi che ti racconti di Alessio,» provò a indovinare una volta sedutosi sul divano più piccolo. Io alzai le spalle, fingendomi disinteressato, ma tanto lui lo sapeva che volevo che me ne parlasse. Non so come, ma lo sapeva.
«Alessio era…la persona che più contava nella mia vita. Lo amavo più di me stesso,» iniziò quando mi sedetti accanto a lui. A quell’affermazione mi trovò impreparato: un brivido di fastidio si fece spazio dietro la nuca fino a scendere sulla schiena, tanto da farmi portare una mano dietro al collo per grattarmelo. Sensazione fastidiosa a cui ancora non riuscivo ad associare un perché valido. Chi era, una sua vecchia fiamma, o qualcosa del genere?
«Era mio fratello,» disse alzando le spalle, e a quanto pare gli era sfuggita la mia espressione infastidita. Naturalmente mi sentii in colpa quando mi disse che si trattava del fratello, perché sapevo solo saltare a conclusioni affrettate, guardavo sempre il lato negativo di ogni aspetto. E perché poi sarebbe dovuto essere negativo, il fatto che potesse avere un ex fidanzato?
«E’…morto?» chiesi con tutta la delicatezza possibile, anche se mi rendevo conto di non averne poi molta. Lui scosse la testa, ma abbassò comunque lo sguardo sui propri pantaloni.
«Si buttò dal balcone. Stava male per la morte di mamma e per le continue delusioni che portava al padre. Non si sentiva capito da nessuno, bensì tagliato fuori dal mondo. Io lo so perché con me ci parlava. Con me e con Fabio,» spiegò, le mani che si torturavano e iniziavano a tremare.
«Ma…è…?» stavo per fare la stessa domanda di un momento prima, pensando che non l’avesse sentita, ma quello scosse la testa ancor prima che potessi finire di parlare.
«No, ha subìto un forte trauma. Adesso dorme in ospedale da un bel po’ di tempo. Dicono che se si sveglierà, non sarà comunque in grado di vivere normalmente, sarà come un vegetale, anche se non del tutto. Mio padre dice che non si sveglierà, ha perso le speranze, ma io praticamente vivo solo per vedergli aprire gli occhi,» la voce iniziava ad affievolirsi e ad essere rotta dai singulti che gli partivano dalla gola in suoni gutturali e poco piacevoli. Dopodiché chiuse gli occhi, come a ricordare quei momenti, o probabilmente per trattenere le lacrime. Io lo guardai sinceramente mortificato e gli misi istintivamente una mano sulla spalla. Forse non serviva a molto, probabilmente a niente, ma volevo fargli capire in qualche modo che io c’ero, ero lì e lo stavo ascoltando. «Scrisse un messaggio sul cellulare che ritrovai io per primo sul balcone. Un messaggio che voleva inviare a Fabio, ma che non aveva più inviato. Così glielo mandai io credendo che fosse importante, poi finalmente mi chiesi che ci faceva il cellulare di Alessio là fuori. Allora guardai giù, sulla strada,» si interruppe perché bloccato da un singhiozzo. Il viso iniziò a bagnarsi improvvisamente, le lacrime scivolavano veloci fino a raggrupparsi sul mento, ma quello non emetteva suoni che non fossero leggeri singhiozzi gutturali, quasi fosse abituato a piangere a quel modo. Quasi non fosse una novità. La mia mano scivolò sulla sua schiena e lo attirò verso il mio petto, lasciando che si sfogasse un po’ lì, silenziosamente, le guance che s’imporporavano piano, gli occhi che iniziavano a gonfiarsi e arrossarsi per lo sforzo. «Il messaggio diceva: “Prenditi cura del mio tesoro”, e quel tesoro sarei io. Per questo Fabio mi sta addosso, perché gliel’ha chiesto Alessio. E Fabio stravedeva per lui, non ne hai idea,» tirò su col naso parlando a scatti, poi affondò ulteriormente la fronte nel mio maglioncino, le dita che ne stringevano debolmente un lembo. «Adesso sai dov’è che me ne andavo quando tornavo tardi a casa. Da Alessio.» un'altra pausa, poi si mise d’impegno per tentare di trattenere al meglio i respiri affannosi. «Sembra che le persone a me care siano destinate a sparire».
Lo strinsi più forte, lasciando che alzasse la fronte per respirare, e intanto pensai che i miei problemi non erano neanche paragonabili a quello che aveva passato lui. Eppure lo vedevi sempre sorridente, ottimista, attivo, genuino, altruista, beneducato. E non avevo idea di dove prendesse tutta quella forza.
«Manchi solo tu, adesso,» mormorò ad un certo punto.
«Cosa?» allentai la presa e gli permisi di alzare gli occhi rossi e gonfi nei miei.
«Sparirai anche tu, da un momento all’altro,» si spiegò, il labbro inferiore che tremava. Non avrei mai pensato di vederlo piangere in quel modo. Eppure mi ritrovai a pensare che avesse un bell’aspetto anche ad occhi venati di rosso e con le labbra piegate all’ingiù.
«Non ti devi preoccupare di questo,» mormorai, e pure la mia voce era gutturale adesso.
«Non puoi immaginare quanto mi preoccupa, invece,» fece lui, le dita che presero a stringere di più sulle mie braccia. Lo guardai col capo inclinato di lato, cercando di pensare a quand’è che ero stato così importante per qualcuno. E quand’è che qualcuno lo era stato così tanto per me.
Mi piegai su di lui, adesso che aveva lo sguardo stanco che guardava oltre la mia spalla, poi avvertii il sapore delle sue lacrime quando gli toccai la guancia con le labbra e successivamente la bocca umida di pianto.
Il tempo sembrò fermarsi lì, e non era solo un modo di dire. Forse ero io che m’ero bloccato sulla sua bocca, incapace di allontanarmi, una mano che cercava la sua e la stringeva, avvertendo il palmo sudato e i polpastrelli delle dita freddi come il ghiaccio. Solo in quel momento sollevai il capo, e aprii gli occhi che avevo chiuso d’istinto, per poi ritrovarmi davanti la sua espressione del tutto imbarazzata, gli occhi lucidissimi che evitavano in tutti i modi i miei. Le labbra gli tremavano facendo quasi battere i denti, e le gote erano ormai rosso pastello. A quei segnali ebbi un cattivo, cattivissimo presentimento.
I dettagli più frequenti sono la lucidità degli occhi, perché le palpebre sbattono più velocemente, i palmi delle mani sudano leggermente e le punte delle dita diventano gelide. Le labbra tremano quasi impercettibilmente e, per i più sensibili, vi è il tipico rossore delle guance.
Deglutii e, quasi con timore, feci pressione col pollice sul polso del ragazzo, sentendo distintamente il cuore mancare di un battito.
Merda. Questo ragazzo s’è appena innamorato di me.
Poi feci attenzione al mio respiro del tutto irregolare e al mio viso: lo sentivo caldo, bollente, quasi fosse sferzato dalle fiamme, e mi dissi che, merda, ci ero cascato in pieno anche io.






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Il mio primo giorno di università è stato un trauma. Perché la sede è lontana da casa mia, e ho una lezione al mattino e una al pomeriggio, e devo fare avanti e indietro col pullman, e, e…sono distrutta. Intanto però, al test di piazzamento di inglese, ho fatto 96 su 100. Il che allevia  leggermente le mie sofferenze fisiche.
Ma tanto ho aggiornato lo stesso perché mi dite che volete leggere il seguito, e, e, mi sento in dovere di ringraziarvi per le vostre gentilissime e apprezzatissime recensioni **
Nel capitolo ho introdotto tre personaggi nuovi: Simona, Michele e Alessio. Simona è Andrea al femminile, solo meno boriosa e pigra, ma credo si fosse capito XD Michele è un bimbo bello ma con la lingua lunga, e ce ne sono fin troppi, di bimbi così, haha! Alessio volevo farlo morire, ma è brutto che muoiano tutti, quindi ho cercato una soluzione alternativa ma non meno triste. Povero Cristo. Ah, Alessio me lo sono immaginato coi capelli biondi corti e pettinati all’insù, gli occhi castani e il pizzetto a mo di capretta sul mento lol Tanto per dargli un volto XD
E poi sì, il momento bacio è arrivato *fa festa lanciando coriandoli*, anche se non si è sicuri che Valerio l’apprezzerà come si deve. Si vedrà.
Grazie ancora se recensirete, vi abbraccio forte!







Mirokia

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Capitolo 10
*** Capitolo decimo ***


Cap. 10










Ricordo che dopo quel bacio, il mondo sembrò tornare a girare, e io mi portai la mano aperta alla bocca lasciando vagare gli occhi oltre la spalla di Valerio, il cuore che sembrava sprofondarmi sui piedi, mentre sentivo il suo sguardo che andava e veniva, quasi mi guardasse e poi evitasse di farlo alla velocità della luce. Non pensai a niente, in quel momento. Ero solito passare tutto il giorno in elucubrazioni mentali, ma in quei secondi, davvero, avevo il vuoto cosmico in testa, un battito frenetico che mi rimbombava nelle orecchie, lo sguardo perso in chissà quali mondi sconosciuti.
Tornai in me solo nel momento in cui Valerio si alzò tremando e, a passo svelto e testa bassa, andò a chiudersi in quella che era diventata camera sua, senza più dirmi una parola. Mi chiesi che mi era saltato in testa, che diavolo credevo di fare, se per caso fossi impazzito; e lo stesso non riuscii a nascondere la preoccupazione di quella sua reazione, perché, seppur inconsciamente, avevo creduto che sarebbe andata in modo diverso. Mi ero in qualche modo convinto –o più propriamente, era stato lui più volte a cercare di farmelo capire- che una sorta di sentimento strano e sconosciuto ci fosse, da parte sua. Per quello, quando si alzò e se ne andò senza neanche guardarmi, mi venne spontaneo rimanerci un po’ male. Forse avevo invaso la sua privacy o, ancora più probabile, avevo frainteso tutto quanto e da parte sua non c’era alcun tipo di sentimento che si avvicinasse all’affetto amoroso. Ah, ma a cosa diavolo pensavo?! Sembrava stessi analizzando e commentando un carme catulliano.
Sed fieri sentio et excrucior.
Ahh, no, basta, basta! Dovevo prendere una boccata d’aria fresca, per forza, o sarei soffocato, in quell’aria pregna di sensazioni strane che sembrava premere su di me come un macigno e allo stesso tempo mi dava l’impressione di galleggiare, sospeso tra mille bollicine.
Che cazzo avevo bevuto? Che Valerio m’avesse corretto il caffè? E di nuovo c’era sempre quel ragazzino a insinuarsi nei miei pensieri.
Sfregai più volte le mani sui pantaloni e mi decisi ad alzarmi, sentendo la testa girare leggermente. Ma possibile che fossi sobrio? Ubriaco d’amor-
UBRIACO D’AMORE?! Ma mi rendevo conto delle cazzate che mi passavano per la testa? Basta, sarei uscito. Avevo già la giacca sotto il braccio quando percorsi il corridoio fino ad arrivare all’ultima stanza, quella in cui Valerio sembrava essersi chiuso.
«Sto uscendo un’oretta. Per caso vuoi venire?» chiesi, le labbra accostate al vetro giallognolo della porta. Certo che ero furbo: uscivo per tentare di riordinare le idee –e intendevo farlo da solo- e poi chiedevo al mio studente se voleva venire. Magari a complicare le cose, visto che in quel momento filava tutto liscio come l’olio. Quello comunque non mi rispose e io, automaticamente, tirai fuori il portafoglio che tenevo nella tasca della giacca e da lì presi il mio biglietto da visita –che, per altro, non davo mai ad anima viva- per poi farlo passare sotto alla porta.
«Qui c’è il mio numero. Chiamami, se hai bisogno,» dissi a voce sostenuta, ma non ricevetti nuovamente risposta. Magari voleva solo stare un po’ solo, esattamente come me. Abbassai il capo, infilai la giacca e me ne uscii, notando come fosse già buio, lì fuori. Ficcai le mani in tasca e nascosi il viso dal naso in giù nel colletto della giacca, lo sguardo fisso sulla strada, col rischio di inciampare e cadere su qualche passante. Pensai che in quel modo avrei causato dei problemi alle persone, e che chi vive per inerzia non causa alcun tipo di disturbo o problema a coloro con cui entra in contatto. Ma in quel caso l’avrei fatto, avrei urtato qualcuno, perché non mi guardavo attorno, ero totalmente sovrappensiero, e questo portava a domandarmi se non stessi iniziando ad abbandonare la vita che avevo sempre condotto.
Camminai fino alla scuola media del mio quartiere e mi appoggiai al suo cancello accendendomi una sigaretta, frustrato. Qualcosa stava cambiando, me lo sentivo dentro. La mia vita non era più piatta, stava iniziando ad avere degli alti e bassi. Mi strinsi una mano all’altezza del petto quasi a voler far rallentare il battito cardiaco con quella stretta, e mi chiesi che diamine mi stava succedendo e, soprattutto, se ne valesse la pena dare una svolta alla vita, cambiare abitudini, cambiare visione del mondo. Cambiare e basta, insomma.
Presi una lunga boccata e chiusi gli occhi, recitandomi in testa Pablo Neruda, le parole che sembravano illuminarsi sulle mie palpebre:
“Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.”
Quelli erano sentimenti, lo erano per forza, e quello era anche un errore. E inoltre, il cuore batteva. Batteva ed era particolarmente fastidioso.
Ero così sovrappensiero che neanche mi accorsi di una figura ben piazzata che mi passò davanti per poi fermarsi, forse avendo riconosciuto il mio volto.
«Andrea?» mi chiese, quasi non ne fosse poi tanto sicuro. Eppure ci eravamo visti giusto un paio di settimane prima, santo cielo. Lo guardai passando lentamente gli occhi sui suoi lineamenti appena illuminati dal lampione sulla strada, poi salutai con un cenno del capo non troppo entusiasta.
«Ah…Guido,» dissi riconoscendo la pancia da birra tipica del mio amico.
«Che ci fai qui fuori tutto solo?» mi chiese coprendo con la sua schiena immensa l’unica fonte di luce a me disponibile.
«Niente, sto pensando,» risposi semplicemente, la sigaretta che si stava consumando da sola col passare del tempo, lo sguardo fisso nel vuoto, per non guardare il mio amico, che quella sera mi sembrava ancora più rotondo.
«Sigaretta? Che c’è, pene d’amore?» Le sue domande erano sempre piuttosto invadenti e fastidiose.
«Forse,» risposi lasciando la questione in sospeso.
«Okay, vuoi fare il misterioso… Ascolta, ci sarai anche tu domani sera?»
«Dove?» chiesi, tanto per chiedere. In realtà avevo altro a cui pensare. Ben altro.
«Ci eravamo organizzati per andare al cinema tutti insieme. Gaia non te l’ha detto?» fece Giudo, gli occhi che seguivano la punta bruciata della sigaretta, quasi ne fosse attratto terribilmente.
«Le sarà sfuggito». Lui si mise a pensare con una mano sul mento, anche se sapevo benissimo che al massimo stava pensando a un criceto che gira sulla sua ruota.
«Forse non te l’ha voluto dire perché ci sarà anche April,» mi rivelò quindi.
«Allora non contare sulla mia presenza,» dissi in fretta per poi buttare fuori l’ultima nuvola di fumo, lasciar cadere la sigaretta e schiacciarla con la punta del piede, per poi calciarla lontano.
«Ma dai, che ti importa? Almeno ti sfoghi un po’, ti vedo molto stanco».
«Lo sono, Guido, lo sono,» ammisi, forse più a me stesso, ed ero quasi tentato di tirare fuori un’altra sigaretta. Dovevo tenermi impegnato con qualcosa, ché parlare con Guido non mi soddisfaceva più di tanto.
«E allora! Andiamo a vederci un film e dopo ci facciamo una birretta. Non è mica detto che devi parlarci, con April,» esclamò regalandomi una pesante pacca sulla spalla. Ma era proprio quello il problema: se l’avessi vista, mi sarebbe venuta voglia di chiederle se era vera la storia del bambino e, se la risposta fosse stata affermativa, perché mi aveva mentito, e poi tante altre cose. Ma non volevo far trasparire ancora la mia preoccupazione per lei, perciò alzai le spalle, quasi non facesse poi tanta differenza per me.
«Ci penserò. A che ora inizierebbe il film?» chiesi infine.
«Alle venti, ma ci vediamo lì una mezz’oretta prima, sennò i biglietti li vediamo col binocolo».
«Okay. Dove, al The Space?» chiesi grattandomi la nuca. Nemmeno mi ricordavo se si chiamava Medusa o The Space. Forse erano la stessa cosa? Non andavo al cinema da secoli, era roba da giovani. I film facevo che scaricarmeli illegalmente. Complimenti, professore, continui pure così a infrangere le regole, proprio lei che è un docente.
«Esatto. Allora ci conto, eh? E porta tu le sigarette, ché mia moglie mi ha vietato categoricamente di fumare,» fece Guido sospirando. Allora feci che allungargliene una delle mie consigliandogli di fumarsela mentre tornava a casa.
«Ma come farò con la puzza?» si chiese allarmato rigirandosi tra le dita quello che per lui era un gioiello.
«Senti, mi sembri un adolescente problematico che ha paura della mamma. Fumatela e basta!» esclamai, e nel mentre gli infilavo nella tasca della camicia il mio accendino giallo. «Tieni, ti regalo anche l’accendino. Io sto tentando di smettere,» aggiunsi, poi girai i tacchi, e iniziai ad allontanarmi quasi a fargli capire che non ammettevo repliche.
«Ehi, cafone, saluta almeno!» mi urlò dietro lui, e sicuramente lo sentì almeno mezzo quartiere. Alzai gli occhi al cielo.
«Cosa vuoi, che ti baci?» chiesi senza neanche girarmi, e a un tono di voce decisamente più basso del suo.
«’Fanculo, Andre, sei simpatico come un ombrello aperto nel culo,» borbottò lui, e sentii il rumore dell’accendino che scattava, segno che s’era finalmente deciso ad accendersi la sigaretta. Mi venne da ridere a quell’immagine dell’ombrello nel culo, e voltai il capo di profilo.
«Ci vediamo domani,» dissi trattenendo la risata, e lo intravidi mentre mi mandava a quel paese col braccio e si poggiava a sua volta al cancello per fumare tranquillo. Scossi la testa con un sorriso e mi incamminai per tornare a casa. Ero a metà strada quando mi squillò il cellulare rompendo quella quiete bellissima che s’era venuta a creare. Controllai il numero sul display, ma non lo conoscevo.
«Pronto».
«Un’ora è passata da un pezzo,» riconobbi quella voce spazientita come quella di Valerio. Il cuore mi sprofondò nel petto e allo stesso tempo il lato destro della bocca si sollevò in un mezzo sorriso.
«Che fai, mi controlli?» chiesi ironico, ma dall’altra parte non ci fu cenno di risata. «Comunque, non preoccuparti, sono quasi a casa,» dissi quindi, per colmare quell’attimo di disagio.
«Okay. Non passare dalla scorciatoia dietro casa,» mi raccomandò prima di chiudere la comunicazione, senza la possibilità quindi di ascoltare il mio “Non lo farò”. Ma che aveva quel ragazzo? Ah, è vero. Anche lui era uno di quegli adolescenti problematici di cui avevo parlato prima, solo che lui non aveva una madre di cui aver paura.
---
Quando entrai in casa, Valerio era rannicchiato sul divano –quasi fosse a casa sua- a guardare la televisione sintonizzata su Zelig, ma sul suo viso non c’era ombra di risate. Forse le battute erano peggiorate? Ricordavo fosse un programma che almeno un sorriso sincero te lo strappava. Notai che evitava di guardarmi, e il cuore non poté che stringermisi.
«Come stai?» gli chiesi mentre mi spogliavo della giacca.
«Abbastanza male,» rispose quello senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Vuoi parlarne un po’ con me?» gli proposi, leggermente spaventato dalla risposta che potevo ricevere.
«Perché ti faccio pena?» chiese lui di rimando con le labbra che tremavano, e io scossi la testa con un sorriso sghembo. Ecco che cos’era, allora. Credeva che quella mia iniziativa fosse dovuta alla grande pena che provavo per lui e per la sua triste storia. Forse dovevo fargli capire che, quando la gente mi fa pena, di solito la compatisco e basta, non mi metto a baciarla sulla bocca.
«No. Perché ti vorrei conoscere un po’ meglio,» dissi sinceramente alzando le spalle, adesso più tranquillo, poi mi permisi di accomodarmi accanto a lui che, fortunatamente, restò fermo lì dov’era.
«Hai già visto come sono: piagnucolone, depresso, insistente, sfigato, disadattato. Cosa vuoi sapere altro?» sembrava dov’esse avere un altro attacco di pianto. E a me fece solo tanta tenerezza. Di solito non ero sensibile a sceneggiate del genere, mi provocavano solo l’ennesimo fastidio.
«Io non vedo solo questo. Vedo anche un ragazzo studioso, bravo in cucina, capace a relazionarsi coi bambini, eccezionale nel ballo, ordinato, intelligente e di bell’aspetto,» sorrisi un po’ di più, cosa che, in effetti, non facevo quasi mai. Ma questa volta le guance sembravano tirare verso l’esterno in modo spontaneo, per nulla forzato. Lui si accorse della mia espressione così diversa, e incrociò le gambe sul divano.
«Come sai che ballo?» mi chiese quindi, non con tono diffidente, semplicemente curioso.
«L’altro giorno, in quella palestra… mi è capitato di sbirciare nella sala in cui ti eserciti.» dissi e gli feci quello che doveva sembrare un occhiolino. Lui cambiò espressione, il volto sembrò illuminarsi, e mi dissi che ci metteva poco a cambiare umore: era tutto così repentino, se aveva a che fare con lui.
«Davvero? E che ne pensi della coreografia?» chiese con un cipiglio nuovo.
«Ne ho vista solo una parte ma, per quello che ho visto, non è male. E tu sei molto bravo, nessun dubbio in merito,» dissi dopo aver appoggiato il gomito allo schienale del divano e mi fui girato per bene verso di lui, che a quelle parole mi guardò di sottecchi.
«Mi sta lecchinando, professore?»
Scoppiai improvvisamente in una fragorosa risata, e dovetti portare la mano davanti alla bocca aperta per non fare troppo rumore.
«Direi di no. Non ne sono in grado, davvero…»
«Allora cos’era quel bacio?»
La sua domanda improvvisa mi spiazzò, e pensai di essere diventato viola per la vergogna. Inoltre, la mia risata fragorosa era diminuita d’intensità tutto d’un colpo e adesso s’era trasformata in una risatina imbarazzata, una di quelle che vogliono cavarti d’impiccio ma che alla fine non fanno che lasciar affondare ancora di più il piede nella fossa.
«Beh, quello… era…» mi grattai la testa guardando in basso a destra, mentre Valerio si affrettava ad agitare le mani davanti a me.
«Non importa, scusa, sono io che sono insistente come al solito,» disse, pure lui con la risata imbarazzata. Mi sentii sollevato per non dover dare una spiegazione a quel gesto avventato. Un gesto che però, mi accorsi, forse non era stato poi così avventato, dato che avevo ancora voglia di farlo, mentre guardavo i suoi occhi chiari che sembravano supplicarmi un altro bacio. Mi dissi: “Al diavolo,” e in quell’attimo di silenzio che seguì, mi allungai su di lui e gli lasciai un mezzo bacio sul lato della bocca, breve e veloce, per poi alzarmi in piedi, troppo imbarazzato per guardare la sua espressione con possibile reazione.
«Vado a letto, buonanotte,» dissi frettolosamente spacciando quello come un bacio della buonanotte.
«Sono le nove…» fece Valerio in un soffio prima che potessi allontanarmi ulteriormente.
«C’è qualcosa in tv?» chiesi, il momento di imbarazzo che sembrava svanire man mano.
«Inception tra poco,» fece quello prendendo in mano il telecomando, il tono nuovamente allegro, quasi quella sera non fosse successo assolutamente nulla. Quasi non avesse mai discusso con Martone, non si fosse mai confidato con me piangendo come un dannato, quasi non lo avessi baciato, quasi il nostro rapporto non fosse cambiato. In qualche modo mi sentii di doverlo ringraziare mentalmente: stava riuscendo a non farmi sentire a disagio.
«Non so cosa sia».
«Non conosci Inception?!» fece il ragazzo a bocca spalancata, il telecomando che per poco non gli cadeva di mano.
«Dovrei?» chiesi sorridendo con le braccia conserte.
«Non capisci niente, vai a dormire,» ne concluse lui mentre si sistemava meglio sul divano e cambiava canale.
«Ah, tu ordini a me di andare a dormire?» domandai con un sopracciglio alzato, sinceramente divertito dalla situazione. Poi mi lasciai andare di peso sul divano –facendo quasi saltare l’altro- e appoggiai le mani sulle gambe aperte. «E adesso, per ripicca, resto qui a guardare questo fantomatico film,» dissi quindi, mentre sentivo la sua risata riservata propagarsi nell’aria.
«Non te ne pentirai,» fece, più contento, poi si alzò per andare a spegnere la luce.
Dalla metà alla fine del film, fatta eccezione per la pubblicità, Valerio tenne il capo appoggiato sulla mia spalla e io non ebbi neanche il coraggio di  scrollarmelo di dosso. Mi chiesi se mi rendevo conto della confidenza che si stava prendendo quel ragazzo e del fatto che io gliela permettevo, gliela concedevo. Mi dissi che quella confidenza mi muoveva qualcosa nel petto e nello stomaco, mi scuoteva l’anima e lasciava che le membra formicolassero. Come quella sensazione di quando ti si addormenta qualcosa e tenti di svegliarla.
Mi stavo svegliando anche io. Non esistevo più, iniziavo a vivere.


 



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Non sapevo se far finire qui il capitolo o mandarlo avanti, ma alla fine ho deciso di spezzare, anche perché il quaderno in cui ho scritto la storia, termina qui XD Poi va avanti in un altro quaderno, ma va beh.
Nello scorso capitolo ho dimenticato di fare un paio di appunti, uno dei quali l’ho illustrato nella risposta a una recensione. Il primo riguarda una metafora che nessuno avrà colto, perché l’ho voluta vedere solo io, e comunque non ho fatto granché per metterla in risalto XD Si tratta di Robin Hood. Valerio bacia sulla guancia Andrea, e in quel momento Michele interviene per dire loro che Robin Hood sta per scoccare la freccia. Questo perché, in contemporanea, anche un altro tizio stava per scoccare una freccia (Cupido) HAHAHAHAH Sono ridicola, Cristoddio.
Poi, secondo punto. Nello scorso capitolo, Andrea s’è addormentato sul divano e al risveglio s’è trovato addosso una coperta, opera di Valerio il Premuroso. Ora, “
Ormai vivevo solo, e avevo ancora l’abitudine di suonare al citofono, quasi aspettandomi che qualcuno mi facesse la cortesia di aprirmi e magari di salutarmi con un bacio e magari di chiedermi della giornata e magari di farmi sedere a tavola e mangiare e magari di mettermi su una coperta nel caso mi fossi addormentato sul divano.” (Capitolo Primo). Coincidence? I THINK NOT.
Su questo capitolo invece non ho molto da dire; Guido è comparso nel secondo capitolo, mi pare. E’ uno degli ex compagni di liceo, si trovava a casa di Sara insieme a Gaia e Francesco.
Inception è un film a cui sono affezionata e che, mi vergogno di dirlo, non conoscevo. Ne sentivo parlare in continuazione, ma non mi ero mai decisa a vederlo. Poi alcune sere fa l’hanno mandato in televisione e mi ci sono messa d’impegno XD Mi ha presa tantissimo, l’ho trovato eccezionale *_*
Grazie ancora per le recensioni, faccio il possibile per poter rispondere a tutti, perché mi riempite  di gioia e ci tengo a farvelo sapere. Un bacio!






Mirokia

 

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Capitolo 11
*** Capitolo undicesimo ***


Cap. 11




 

 

 

 

 


La mattina dopo mi svegliai prima del previsto, ma in un certo senso ero stato sempre sveglio. Ero riuscito a dormire sì e no due ore, mentre il resto della notte l’avevo passato a far lavorare il cervello come poche volte aveva lavorato, anche se sapevo che la parte razionale di esso stava andando lentamente a farsi fottere. Le seghe mentali che m’ero fatto quella notte erano state spaventose, allucinanti, pensai che durante tutto il corso della mia vita non mi ero mai fatto un terzo di quelle pare mentali. Nemmeno quando dovevo decidermi se sposare o no April. Lì m’era bastato farmi due conti in testa e dirmi che mi sarebbe convenuto accasarmi. E poi mio padre ci teneva particolarmente a vedermi sull’altare prima di lasciare le penne. Probabilmente l’avevo fatto solo ed esclusivamente per vederlo sorridere fiero di me e spegnersi con l’espressione serena e il sorriso sulle labbra. Forse non sarebbe più stato così fiero di me se mi avesse visto in quel momento, con una mano che premeva in mezzo alle gambe sopra la stoffa dei pantaloni del pigiama, il respiro corto che tentavo di mozzare ulteriormente per il terrore che quello che dormiva nella stanza accanto alla mia potesse sentirmi, gli occhi chiusi e i polpacci che si contraevano lasciando le gambe doloranti, mentre le dita dei piedi si allungavano verso la base del letto. Le seghe mentali di quella notte non avevano fatto altro che mettermi addosso la voglia di farmene una vera e propria, quasi per esorcizzare quei pensieri insistenti che non avevano nessuna intenzione di lasciarmi in pace. Li avrei cacciati via, quei pensieri, insieme col mio sperma, una volta travolto dall’orgasmo. Cercai a lungo, tra i ricordi, qualcuno su cui fantasticare, qualcuno da poter spogliare col pensiero e con cui potevo far cigolare un letto immaginario. Mi venne da piangere dalla vergogna quando mi resi conto che l’unico che non faceva che comparirmi dinanzi agli occhi era Valerio Castelli. Avrei voluto fustigarmi e sbattere la testa contro il muro fino a perdere la capacità di pensare.
Alla fine ci rinunciai, pensando di non essere nelle condizioni migliori per masturbarmi. Quando mi misi in piedi, mi resi conto dal modo in cui mi brontolava lo stomaco che la sera prima non avevo cenato, e avevo lasciato a digiuno anche Valerio. Ma pure lui non s’era preoccupato di farsi un panino al volo o di sgranocchiare due grissini. Si vede che entrambi avevamo ben altro per la testa.
Feci un’abbondante colazione e trovai il tempo di fumare una sigaretta in balcone, poi andai a vestirmi in silenzio assoluto. Valerio non aveva lezione quel giorno, mentre io avevo da gestire un laboratorio di analisi, commento e approfondimento di un testo letterario; quindi non mi azzardai a svegliarlo come a volte mi capitava di fare. Prima di andarmene aprii comunque cauto la porta della camera in cui dormiva, poi mi venne spontaneo sorridere e mi appoggiai allo stipite della porta con le braccia conserte mentre tenevo gli occhi sulla sua strana posizione: se ne stava spaparanzato a pancia in su, con le braccia sopra la testa e i polsi che si sovrapponevano, la coperta che gli arrivava all’ombelico scoperto. Mi allontanai dallo stipite con le braccia ancora conserte e mi chinai sul suo letto per coprirlo meglio, giusto per evitare che prendesse freddo. Gambe e braccia sembravano muoversi da sole, non ero io a governarle, facevano tutto loro. Portai la coperta sino al suo petto, poi lui, in un gesto incondizionato durante il sonno, fece schioccare la lingua, si leccò i lati della bocca e abbassò le braccia per poi stringere tra le mani la coperta che gli avevo praticamente porto. Dopodiché, si voltò su un fianco riprendendo a respirare profondamente, una gamba che s’era piegata fino a sfiorare il gomito del braccio destro. Era quasi in posizione fetale, adesso. Mi incantai sulla sua espressione beata e mi venne voglia di mollare tutto e distendermi lì al suo fianco, a riposare con lui. Ma dovevo anche smetterla di farmi venire certe voglie, che sicuramente non s’addicevano a me. Mi ero già dimenticato di April e di quell’affaruccio da niente riguardante il possibile bambino che portava nell’addome? E avevo scartato del tutto la proposta di quella gatta morta di Gaia di ricominciare tutto daccapo? Ma soprattutto, mi ero forse scordato di essere il suo insegnante, di avere quindici anni in più di lui e di essere un uomo? Eh? Mi stava sfuggendo un po’ tutto di mano, a quanto pareva. Mi venne in mente Giulio e il fatto che aveva più o meno previsto come sarebbero andate le cose. Se in futuro avessi avuto bisogno di un cartomante, lo avrei chiamato di sicuro. Scossi la testa per mandar via i pensieri molesti, poi inforcai gli occhiali da vista che avevo infilato nel taschino della giacca e me li misi sul naso, sempre per non dimenticarmeli, ché già l’ultima volta li avevo scordati sul comò accanto alle sigarette.
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Il laboratorio fu in grado di farmi pensare solo a forme retoriche e parafrasi per un paio di ore, e fu un piacere vedere i ragazzi partecipare attivamente alla lezione: sembravano litigare per chi doveva alzare per primo la mano e quindi ricevere da me il permesso di parlare. Riuscii quasi a divertirmi. Il che ammortizzò la mia esasperazione quando, una volta tornato a casa, trovai mia sorella e mio nipote girare allegramente per le stanze.
«Non ti avevo detto di venire il meno possibile?» chiesi retoricamente mentre lanciavo la cartella sulla sedia in salotto e mi sfilavo pacatamente la giacca.
«Era quello che avevo intenzione di fare. Ma Michele voleva assolutamente vedere il tuo amico qui,» replicò Simona, e indicò Valerio, che la fissava fin troppo intensamente mentre Michele se ne stava appeso alla sua gamba e gli strattonava i jeans.
«Che hai da guardare?» fece allora mia sorella con faccia arcigna.
«No, è solo che… Non ho mai visto una cosa simile…» disse l’altro, e faceva davvero fatica a parlare, quasi avesse la salivazione azzerata.
«Che cosa? Ho del tacchino tra i denti?»
La guardai di sottecchi: certo che ne sparava, di cazzate.
«No, no, il fatto è che…insomma, lei e suo fratello siete praticamente la stessa persona,» disse il ragazzo spostando più volte lo sguardo da me a Simona.
«Si chiamano gemelli, caro. E poi cos’è, una presa in giro? Sono io quella mascolina o è lui l’effeminato?» fece quella, e io mi sedetti sul divano cacciando la testa all’indietro e buttando fuori un sospiro sconsolato.
«Ha ragione Valerio. Infatti a volte mi sbaglio e chiamo “Mamma” lo zio,» intervenne il piccolo Michele togliendo d’impiccio Valerio, che trattenne una risata. «Che facciamo oggi, Valerio?» riprese poi mio nipote, adesso che aveva l’attenzione del suo nuovo amico. Quello sorrise stringendo gli occhi e si accucciò sul bambino poggiando le braccia sulle gambe piegate.
«Vedi, oggi non potremo giocare perché io ho le prove di ballo. Tu sai ballare?» disse fintamente dispiaciuto, e io intanto ascoltavo la loro conversazione con un cipiglio divertito: guardare interagire mio nipote e Valerio mi metteva addosso un’inquietante serenità.
«Certo, sono il migliore della scuola,» rispose Michele tutto pompato.
«Allora perché non vieni a ballare con me?» propose il biondo, gli occhi che sorridevano tanto da sembrare chiusi.
«Sì, sì, dai, andiamo in fretta».
«Ci andremo dopo pranzo. Dai, ché ho preparato un po’ di pesce, dei piselli e dei finocchi di contorno. E come frutta, le banane!»
Inutile dire che quel pranzo mi sembrò fin troppo ambiguo. Non pensare male, ti prego, è una coincidenza, non saltare a conclusioni affrettate, mi ripetevo mentre chiudevo gli occhi e mi passavo una mano sulla fronte. E poi, magari, non era una coincidenza, ma il subconscio del ragazzo che mi lanciava chiari messaggi. Cosa avrei dovuto fare, in situazioni simili? Cosa?
«Immagino che dovrò accompagnarli io per badare a Michi, giusto?» azzardai per poi lasciarmi andare a un lungo sbadiglio.
«Mi sembra ovvio. Infatti, io sto per andarmene,» e un attimo dopo, Simona era già fuori casa, veloce come il vento, e stava pure per impigliarsi la giacca nella porta, per quanto andava di fretta.
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Passammo il resto del pomeriggio sulla porta della sala da ballo a guardare Valerio che si esercitava. Dopo l’imbarazzo iniziale –me ne stavo lì dritto come uno stoccafisso, col timore incombente che qualcuno mi riprendesse e mi dicesse di levarmi dalle scatole, ché non potevo stare lì- la mia attenzione fu del tutto rapita dai movimenti fluidi del mio studente, che quasi sembrava soffrire a ogni nuovo passo, non capivo se per la canzone o per il coinvolgimento nella coreografia. Era uno dei più motivati lì in mezzo: era talmente serio e concentrato e trasportato dalla musica, che sembrava stesse già ballando su un palco degno di essere chiamato tale davanti a centinaia di persone.
Ero talmente preso, che neanche m’accorsi di mio nipote che ad un certo punto prese la rincorsa e sfrecciò tra i ballerini iniziando a urlare per imitare il ritornello della canzone. I ragazzi si videro costretti a interrompere il balletto per non schiacciare mio nipote, mentre l’istruttrice trovò la scena troppo divertente per non ridere. Poi andò a spegnere la musica dicendo che per quel giorno sarebbe bastato così, e fece un applauso ai ragazzi, che pure si congratularono gli uni con gli altri. E io ero ancora mezzo incantato per rendermi conto di tutto questo ambaradam. Mi diedi quindi dell’idiota per essermi lasciato sfuggire il bambino, e andai a recuperarlo mormorando uno “Mi scusi” vergognato all’istruttrice, che intanto si asciugava il collo con un piccolo panno e si slegava i capelli. Lei disse, “Si figuri, è un bambino,” e si piegò sul borsone aperto vicino allo specchio.
«Allora? Ti è piaciuto?» chiese Valerio rivolto a Michele, le mani poggiate sulle cosce e un asciugamano appeso al collo.
«Molto,» risposi io al posto di mio nipote, che mi guardò incrociando le braccia e poi si ritrovò attratto terribilmente dalla radio; neanche me ne accorsi quando la sua mano scivolò dalla mia e andò a toccare tasti a caso della radio.
Valerio intanto era arrossito visibilmente a quella mia risposta, e di nuovo tentava in tutti i modi di guardare altrove, e sembrava essersi dimenticato anche lui di Michele. Solo l’istruttrice faceva caso a lui: gli si era piegata accanto raccomandandogli di non toccare troppo la radio. Laura se ne andò in quel momento salutando Valerio e muovendo la mano in alto, segno che in qualche modo i due avevano fatto pace.
Io tossii piano, imbarazzato, e approfittai della conversazione avviata per avvisare il ragazzo che quella sera sarei andato al cinema con qualche amico. Tanto per non lasciarlo impreparato.
«Ah, anche io vado a vedere un film. Fabio vuole scusarsi con me, così usciamo un po’ stasera,» disse lui asciugandosi maggiormente il collo.
«Allora è possibile che ci incontreremo. Chissà, magari ti farò conoscere anche la mia ex moglie,» dissi, particolarmente curioso della sua reazione. Quello infatti sgranò gli occhi, ma fece di tutto per non sembrare sorpreso.
«Ci sarà anche lei?»
«Sì, ma cercherò di trattenere la voglia di parlarle,» feci alzando leggermente le spalle.
«Perché, cosa devi dirle?» mi chiese lui senza neanche far caso ai compagni che uscivano come un fiume in piena dalla sala salutando anche lui. Sembrava non ci fosse nessun altro attorno a noi.
«Non ti sembra di stare esagerando con le domande?» feci con un sopracciglio alzato e il finto tono di rimprovero, le braccia conserte.
«S-sì, scusa, hai ragione, non sono affari miei,» si affrettò l’altro abbassando il capo, e intanto Michele salutava urlando l’ultima ragazza appena uscita dalla porta. Io alzai un lato della bocca in un sorriso brutto e sghembo e scompigliai i capelli di Valerio già disordinati di loro, e lui strinse gli occhi quasi si aspettasse che lo colpissi.
«Te ne parlerò quando saremo soli,» dissi, con una gentilezza che, seriamente, mi spaventava. «Perché sei…così gentile con me?» chiese lui infatti, e io mi limitai ad alzare nuovamente le spalle.
«Non lo so,» risposi sinceramente. «Ma tu cerca di approfittartene, perché non sono sempre così di buonumore,» aggiunsi riportando le braccia conserte, e lui annuì sorridendo, poi parlò un’altra volta.
«Andrea… vorrei che sapessi una cosa».
«Dimmi». Quel suo tono serio non mi piaceva per niente.
«Quella sera…quella volta in cui mi hai portato nel locale della tua amica…ricordi?» fece quello titubante, lo sguardo che schizzava a destra e a sinistra.
«B-beh, certo…» Avevo uno dei miei brutti e sempre fondati presentimenti.
«Ecco…Non ero ubriaco. Ricordo perfettamente tutto ciò che ti ho detto, e lo confermo,» disse, seppur con qualche difficoltà: sembrava che gli stessero tremando le gambe, ma probabilmente era dovuto allo sforzo appena compiuto nel balletto. Sentii girare la testa. Avevo la sensazione che si stesse gonfiando e tirando verso l’altro, e che di lì a poco sarebbe esplosa. E, mentre Valerio tentava di far stare ferme le gambe che tremavano, io tentavo senza successo di bloccare la mia mano che si allungava per tastare il viso del mio coinquilino, quasi volesse fargli una carezza. Ma, con mia sorpresa, fu lui ad accelerare il mio movimento prendendomi la mano e incollandosela alla guancia, che scottava in maniera impressionante ed era leggermente umida di sudore. E poi si strusciò con movimenti impercettibili contro il palmo della mia mano, gli occhi chiusi e le punte delle orecchie rosso pastello.
Mi sentivo male. Ma seriamente. Dentro di me c’era il casino più totale, lo stomaco faceva a guerra col cuore, che a sua volta discuteva col cervello. Inoltre, da qualche parte sotto la pelle era scoppiato un incendio, perché non era possibile che avessi certe vampate di caldo tanto improvvise. Tutto, tutto stava cambiando, ma non riuscivo a capire se in bene o in male. Dove diavolo era finita la mia serietà? Adesso sospiravo come un ragazzino alla sua prima cotta. Ed ero tutt’altro che un ragazzino: avevo ben trentacinque anni, e quell’appena ventenne mi faceva sobbalzare solo sfiorandomi una mano. Stavo impazzendo.
E’ sbagliato. Basta, devo smetterla, mi sto comportando in modo pessimo, mi ripetevo come un automa e, quando notai che l’istruttrice s’era fermata a guardarci sospettosa, finalmente trovai la forza per allontanarmi da Valerio, prendere dal polso Michele –che non faceva altro che protestare- e portarlo nel parco del quartiere, per far giocare lui e per permettere a me di pensare in santa pace.
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Avevo pensato sin troppo quel pomeriggio, persino mentre spingevo Michele sull’altalena, ma non ne avevo ricavato granché. Prima di tutto, dovevo chiarire se la mia fosse effettivamente omosessualità o una sbandata passeggera e di poco conto che nel giro di qualche settimana si sarebbe esaurita. Se fosse una roba di passaggio, insomma. Peccato che le fasi di passaggio si riscontrano negli adolescenti, non negli uomini che vanno verso i quaranta.
Mentre guidavo verso il cinema mi dissi che forse avrei dovuto evitare che la cosa andasse avanti, che avrei dovuto reprimere il tutto stringendo i denti. Magari ne sarei uscito incolume.
Arrivai alle otto meno qualche minuto, ma notai con sollievo che i ragazzi avevano già provveduto a prendere un biglietto anche per me. Ringraziai, e loro –Guido soprattutto- mi misero le mani nei capelli accusandomi di essere sempre in ritardo. Non avevano ancora capito che detestavo quando mi si toccava i capelli, a quanto pare. Francesco, Guido e Sara iniziarono a parlarmi –Gaia se ne stava in disparte-, ma io non davo davvero ascolto a nessuno: ero concentrato sulla figura della mia ex moglie, che ebbe anche il coraggio spudorato di salutarmi allegramente con la mano. Io feci finta di non vederla, anche se le mie doti recitative erano pressoché inesistenti. Lo stesso feci quando adocchiai Valerio, che se ne stava giusto dietro di me insieme al suo pessimo amico, con cui scherzava tranquillamente, senza dare l’impressione di avermi visto in coda per entrare.
La mia fila era la seconda a partire dal basso, e mi scocciò tremendamente il fatto che fossi così vicino allo schermo. Ma pare che non ci fossero altri posti disponibili: quello era un film uscito giusto il giorno prima e, francamente, non avevo neanche idea di quale fosse il titolo. Come mi aspettavo, capitai niente popo di meno che accanto ad April. Dopo aver fatto roteare gli occhi, li buttai velocemente sul suo addome, ma mi sembrava lo stesso, piatto addome di sempre.
«Ciao, Andrea. Come stai?» fece quando si accorse di essere accanto a me, anche se giurai l’avesse fatto apposta a sedersi lì. Non era cambiata di una virgola: capelli castani della stessa lunghezza, frangetta leggera che le terminava appena sotto le sopracciglia, occhi azzurro opaco che mi incutevano una certa malinconia. Ma in quel momento non riuscii a farmi tornare in mente il motivo esatto per cui avevo deciso di stare con lei: sembrava già tutto così lontano. In ogni caso, mi ero ripromesso che con lei non ci avrei parlato.
«Fra, faresti cambio di posto con me?» decisi quindi di proporre all’amico alla mia destra. Quello alzò le spalle dicendo che per lui era lo stesso e sollevò il sedere per poi farlo sprofondare nuovamente sul mio posto. Sospirai, ora più contento, e solo quando iniziò il film mi resi conto di chi avevo di fianco.
«Ciao,» mi salutò Valerio senza troppa enfasi. Pensai al mio proposito di ignorarlo, ma lo ignorai invece il proposito, ché proprio non ce la facevo a non rivolgergli la parola.
«Hai visto che alla fine ci siamo incontrati?» feci retoricamente, e lui annuì con gli occhi sorridenti. Martone non si accorse di me, il che fu un bene.
Non avevo davvero idea di che film fosse, ma di certo non dava i propositi di essere comico. I vicoli bui di New York e le luci blu della polizia suggerivano un film d’azione, o qualcosa di drammatico. Quando comparve quello che doveva essere il protagonista, mi dissi che l’avevo già visto da qualche parte nei panni di un vampiro con la pelle luccicante. Dio, che film terribile era stato, quello, se ci ripensavo.
Comunque, azzeccai in pieno: il film era drammatico, a quanto pareva. Già a metà, sentii qualche ragazza dietro di me tirare su con il naso, quasi avessero il raffreddore. Guardai alla mia destra e vidi che anche Valerio aveva in volto un’espressione coinvolta e i lati della bocca piegati all’ingiù. Notai che Martone aveva appena appoggiato la testa sulla sua spalla, e a quel gesto m’irrigidii leggermente, non sapendo di che farmene di quella sensazione di fastidio dietro il collo. Non ci volle molto perché, come mi aspettavo in realtà dall’inizio del film, il protagonista tirasse le cuoia. Qualcuno in sala singhiozzava, altri tiravano fuori fazzoletti e salviettine, c’era chi piangeva con le lacrime, e io non potei fare altro che compatirli; Valerio invece cercò la mia mano lì sul bracciolo mentre fissava rigidamente la scena, tentando di non lasciarsi andare ai sentimenti -quel tipo li mostrava sempre con troppa facilità. Quando la trovò, lasciai che me la stringesse leggermente, poi, senza che riuscissi a fare in tempo ad accorgermene, intrecciò le sue dita alle mie, ed io ebbi come un mancamento d’aria. Neanche avevamo il coraggio di guardarci per pochi istanti: ce ne stavamo col collo dritto a fissare le scene, senza più fare davvero attenzione al film.
Fanculo, il mio cuore non esisteva più. Non ricordavo neanche più qual era stata l’ultima volta che avevo tenuto la mano a qualcuno. Lo trovavo un contatto così intimo che mi stava mandando in pappa il cervello.
Poi però il film finì, anche piuttosto bruscamente, e io fui costretto a malincuore a mollare la mano di Valerio. Le luci si accesero e la gente, scossa per il finale, iniziava a fluire fuori dalla sala con in mano fazzolettini di ogni genere.
«Bel film, eh?» fece Guido per primo quando fu in piedi, mentre dietro di lui scorrevano i titoli di coda. «Ora, birretta time
«Dobbiamo proprio, Guido?» chiese Francesco sbadigliando sommessamente.
«Ma sì, dai. Perché non andiamo nel nuovo locale di Giusy? Oggi non è venuta perché aveva da lavorare,» propose l’altro. Io gettai un’occhiata al mio coinquilino per poi scuotere la testa e agitare le mani.
«No, non se ne parla proprio,» e, vedendo i loro sguardi interrogativi, mi affrettai ad aggiungere: «E’ un locale gay».
«Ah, allora io non vengo, mi spiace,» fece subito Francesco con aria annoiata.
«Non me l’aspettavo da Giusy…» borbottava intanto Guido con una mano sul mento e lo sguardo al pavimento.
«Mi rincresce, ma vale lo stesso per me,» intervenne Gaia e, forse era una mia impressione, ma sembrava volesse fuggire il più in fretta possibile.
«Io vorrei rivedere Giusy, quindi per me va bene,» disse April alzando una mano aperta, come quando a scuola un alunno alza la mano per ottenere la parola.
«Okay, allora siamo solo noi tre?» fece Guido una volta tornato in sé dalla sua riflessione su Giusy.
«Potrei…venire anche io?»
Una voce nuova si fece largo nel nostro gruppetto, e tutti i miei amici puntarono lo sguardo sul ragazzo che ora s’era messo accanto a me, l’atteggiamento e lo sguardo riservato. Stettero tutti in silenzio, quasi fossero sicuri che Valerio non avesse parlato con loro, poi mi resi conto che forse ero io quello che doveva dare delle spiegazioni.
«Ah, er…lui è…il mio… coinquilino, sì. Scusate se non ve l’ho presentato prima,» mi affrettai a dire, i peli sulle braccia dritti dall’imbarazzo. Martone adesso mi guardava con una faccia da “Che ci fai tu qui?!” e a me venne la risata nervosa, ché con quel tipo non c’era da scherzare, lo avevo imparato a mie spese.
«Ma…non è un po’ piccolo per venire con noi?» chiese Guido guardando il ragazzo dall’alto in basso.
«Ma no, ha vent’anni. D’altra parte, non posso lasciarlo andare a casa da solo,» dissi, ignorando del tutto la presenza di Martone. E così non facevo altro che attirare ulteriormente la sua antipatia, eccellente. April spostò lo sguardo dalla mia faccia allarmata ma che tentava di tenere i lineamenti composti a quella spontanea di Valerio, che se ne stava premuto al mio fianco quasi fosse mio figlio. Mi stavo deprimendo.
«Va beh. Andiamo,» decise alla fine April alzando le spalle.

 

 

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Il film in questione è Remember Me. Quando lo vidi, piansi con le lacrime, lol. E, ovviamente, l’attore luccicante è Robert Pattinson XD
Piccola nota: scrissi questa storia all’inizio del 2010, ma adesso, ricopiandola sul computer, naturalmente la allungo e aggiungo cose, anche se i dialoghi sono gli stessi. Questo spiega alcune discrepanze. Per esempio, il fatto del nome del cinema. Prima il mio cinema era Medusa, adesso è The Space. Ah, per chi se lo stesse chiedendo, ma credo lo specificherò in seguito, la storia è ambientata a Torino, la mia città. E i parenti di Valerio –così come anche lui- sono pugliesi perché anche io sono nata a Lecce. Prendo spunto da cose personali, così riesco a gestirle meglio XD
Ultima cosa: trovo che l’accarezzarsi e il tenersi per mano sia qualcosa di intimo e dolcissimo. Passo e chiudo! :)







Mirokia

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Capitolo 12
*** Capitolo dodicesimo ***


Cap. 12






 

 



All’entrata dell’Olsen fu Giulio ad accoglierci, quasi stesse facendo gli onori di casa. Ma era sempre e costantemente lì quel tizio?
«Andrea, Valerio! Che piacere! Entrate, vi faccio subito avere un tavolo per…quanti siete?» Giulio ci salutò con un entusiasmo enfatizzato che non mi piaceva per niente, poi fece per contarci, lì nel buio del locale.
«Siamo in cinque,» dissi per tagliare corto, e intanto aprivo i primi bottoni della camicia, ché già mi stavo agitando.
«Perfetto. Seguitemi, da questa parte,» e ci portò in fondo alla sala, dove erano stipati i tavoli più lunghi. Ci sedemmo, io abbandonandomi a peso morto sulla sedia pieghevole e instabile, Valerio prendendo posto accanto a me, Guido che poggiava il sedere con cautela, quasi sulla sedia ci fosse un esplosivo pronto a fargli a pezzi il deretano. Seguì con lo sguardo Giulio finché non se ne fu andato dopo averci lasciato i menu, poi girò di scatto il capo verso di noi.
«Com’è che vi conosce?» chiese sospettoso.
«Siamo venuti qui già una volta,» risposi, e a quel “siamo”, la mia ex moglie, così come Sara, che di solito non badava agli affari altrui, alzò un sopracciglio sorpresa.
«Ma è gay?» fece Guido, insistente. Io e Valerio annuimmo solennemente, e quello prese ad allarmarsi.
«Oh no, e adesso?»
«Tranquillo, ché a te non filano nemmeno i gay,» lo zittì Sara, e io, trattenendo una sghignazzata epica, non potei far altro che darle ragione.
Giulio tornò poco dopo con in mano un taccuino chiedendoci se avessimo già deciso cosa ordinare. Ma non avevo capito, Giulio che stava a fare? Il cameriere? Non me lo chiesi più di una volta e ordinai il mio solito Angelo Azzurro, mentre gli altri tre ordinarono una birra, ognuno di una marca diversa.  Castelli mi chiese di poter bere almeno un Bacardi, quasi volesse ottenere il permesso dal padre, e io acconsentii, a patto che fosse stato solo uno.
Giusy comparve all’improvviso dalla nuvola di fumo –colpa delle sigarette elettroniche che ci fumavano in faccia- facendomi prendere un coccolone, e si buttò a baciare contenta April, Sara e Guido, che per prima cosa le chiese se fosse lesbica o bisessuale. Lei neanche rispose e alzò gli occhi al cielo, ché Guido era in grado di far salire i cinque minuti anche a lei.
«Allora, hai intenzione di non parlarmi per tutta la sera?» se ne uscì dal nulla April una volta che Giusy fu tornata a servire i clienti e che Guido l’ebbe piantata di guardarsi intorno circospetto. In effetti, mi ricordava qualcuno di molto familiare.
«Sono troppo irritato per farlo,» risposi quando vidi che i suoi occhi s’erano posati su di me.
«Che novità,» fece quella, che aveva dovuto sopportare parecchi miei giorni no. «Ancora scosso per il divorzio?» me lo chiese quasi con sfida e, dall’espressione che aveva adottato il mio coinquilino, capii che aveva inquadrato per bene la mia ex moglie. Non era cattiva: semplicemente se la credeva un po’.
«Per niente. Mi dà solo un po’ fastidio quando mi si dicono le bugie,» dissi senza neanche rendermene conto. Quando ero nervoso, o arrabbiato, o ubriaco, spesso non riuscivo a trattenermi dal parlare.
«Bugie? Ce l’hai con me?» fece April con una mano sul petto, i lineamenti del viso che iniziavano a corrucciarsi.
«Proprio con te, che fai la faccia incazzata davanti alle bugie degli altri e poi non ti fai scrupoli a dirne a tua volta,» buttai fuori, particolarmente incazzato, senza neanche accorgermi di aver mandato giù più di metà drink.
«Mi vuoi spiegare per bene che stai farneticando?»
«Dimmi un po’ la ragione per cui mi hai rispedito a casa, mollandomi,» dissi muovendo le dita verso di lei e poi verso uno dei colleghi di Giusy, che mi portasse qualcosa da bere.
«Perché non andavamo più d’accordo? Perché avevamo sviluppato interessi diversi che non avevano un punto d’incontro? Perché le nostre strade erano destinate a separarsi? Quale ti va bene tra queste?» domandò lei a braccia ora conserte, e lo avvertivo dal tono di voce che gli stava dando parecchio fastidio il mio atteggiamento.
«Eh. Lo pensavo anche io. Poi però m’è arrivata una certa voce riguardo a un certo bambino che potresti star aspettando,» ecco, l’avevo detto. Lingua sciolta dall’alcol e dalla rabbia. E avevo anche adottato un terribile tono da so-tutto-io. E io detestavo a morte i so-tutto-io. Ergo, ero arrivato a detestarmi. Come se fosse una novità, in effetti.
«…Come come? Io starei aspettando un bambino? Ma stai scherzando? Te l’avrei detto senz’altro! Da chi hai saputo questa bella stronzata?» a quella mia uscita, April quasi gridò incredula sbattendo la sua birra sul tavolo, e io dovevo anche aspettarmelo, visto che era sempre stata una dal carattere forte e dall’intemperanza impossibile da marginare. Io mi morsi l’interno della guancia e stetti zitto, convinto a non voler fare il nome di Gaia, ma,
«Da quella ragazza bionda che era con voi al cinema,» la informò Valerio, e io gli indirizzai uno sguardo di rimprovero appena prima di finire il mio secondo bicchiere.
«Ah. Sì, dovevo immaginare fosse opera di quell’infame. Un’infame che ha passato la vita a trovare un modo per farti entrare nel suo letto. Te ne rendi conto sì o no? Ti giuro, pensavo fossi più furbo,» mi disse lei incrociando le braccia e lasciandosi andare sullo schienale della sedia, mentre io, in tutta risposta, mugugnai qualcosa di incomprensibile e mandai giù una parte della birra di Guido, che stava fissando languido due donne che si baciavano sedute accanto a lui. Pure Sara le stava guardando con interesse, ma nessuno dei due sembrava far caso al nostro litigio, quasi fosse una roba scontata ormai.
«Quindi, se ancora non hai capito, non sono incinta,» concluse quindi April con tono che non ammetteva repliche.
«Bene, meglio!» esclamai io con gli occhi che si incrociavano e la mano destra che s’alzava quasi a mandare a fanculo il mondo. Non solo mia moglie, tutti quanti. Presi un altro sorso di birra senza che il mio amico se ne accorgesse, poi sentii un morbido calore appropriarsi della mia mano, e fu tanto improvviso che per poco non sobbalzai: per rassicurarmi, Valerio aveva fatto strisciare la sua mano lungo il mio braccio e mi aveva stretto le dita sotto il tavolo, per poi rivolgermi un sorriso. E va bene, avrei mandato a fanculo tutti a parte lui.
In quel momento, vedemmo sbucare Giulio che si frappose fra me e Valerio abbracciandoci e stringendoci alla sua faccia.
«Allora, come andiamo? Se i miei occhi non mi ingannano, ultimamente voi due state “socializzando” molto intensamente, vero?» ci fece, tutto contento, e in quel momento pure Guido e Sara si girarono a guardarci. Proprio quando non avrebbero dovuto, dannazione.
«Zitto o ti ammazzo,» sibilai con gli occhi ridotti a fessura e intanto il sudore freddo sulla fronte.
«Quindi loro non lo sanno?»
«Non c’è niente da sapere,» dissi sbrigativo dopo aver mollato la mano di Valerio. Mi stavo scaldando e non andava bene. «Anzi, mi sono stancato. Ora ce ne andiamo,» annunciai, e svettai in piedi prendendo Valerio dal gomito. Non l’avessi mai fatto: adesso mi girava tutto, e vedevo due Guido davanti a me, ed erano anche più in carne del normale.
«Aspetta, perché tanta fretta? Gli ormoni non resistono?» fece Giulio sinceramente divertito, e pensai che anche lui avesse bevuto qualcosa di forte.
«Andrea, non ti conviene guidare!» mi avvisò April, ché secondo lei avevo bevuto troppo. Sapeva bene lei qual era il mio limite, e a quanto pare l’avevo superato, anche se non poi di molto. Neanche la ascoltai, infilai la giacca e poi la porta, con Valerio agganciato con le dita alla mia cintura.
«Sei sicuro di poter guidare?» mi chiese quest’ultimo una volta che ci fummo infilati in macchina.
«Sì, sì, sono solo nervoso perché non so a chi credere,» risposi mentre scuotevo la testa, come se non potesse girarmi ulteriormente, e mettevo in moto.
«Tua moglie mi sembrava credibile, perché aveva tutti i motivi per alterarsi, mentre non mi fiderei dell’altra,» Valerio disse la sua, e io stetti a respirare forte col naso prima di immettermi in carreggiata e fare di sì col capo.
«Okay, mi fido di te. Quindi ha ragione April. E ha ragione anche quando dice che dovrei essere più furbo. Cristo, quanto mi vergogno,» iniziai a sminuirmi, gli occhi lucidi e la birra che mi tornava su per la gola. L’alcol iniziava a lavorare nel mio cervello ed eravamo appena usciti dal centro quando la macchina iniziò a procedere a zig-zag.
«Oh, che hai?» chiese subito quello accanto a me, turbato.
«Un colpo di sonno, ma adesso va meglio,» e, in perfetta coerenza, quasi andai a finire nella corsia di senso opposto.
«Accosta,» mi ordinò Valerio, rigido sul sedile.
«Ma ti dico che…»
«Accosta subito!» e utilizzò un tono tanto spaventato, che mi sentii costretto a mettere la freccia a destra e ad accostare in una strada secondaria, le braccia che muovevano da sole il volante. «Scusa, ma… non voglio ancora morire,» si giustificò una volta spenta la macchina.
«Neanche io,» concordai lasciandomi andare con un sospiro sul sedile dopo aver tirato con fatica il freno a mano. Seguirono dieci minuti, o forse un quarto d’ora, di pesante silenzio, dovuto probabilmente al fatto che eravamo di nuovo soli dopo il famoso bacio della sera prima. Già, la sera prima. Erano passate solo ventiquattr’ore e già mi sembrava di avere l’indice collegato a quello del mio alunno da un filo rosso, di quelli che sembrano instabili ma che poi non si spezzano. Mi dissi che dovevo smetterla con le mie pare mentali, non giovavano per nulla alla mia salute, e così evitai di andare avanti col filo dei miei pensieri –altro che filo rosso- e lasciai parlare la bocca odorosa d’alcol senza che prima si consultasse col cervello.
«Senti, io…» iniziai, gli occhi chiusi per potermi riprendere più in fretta. Valerio mi guardò interrogativo spronandomi con lo sguardo ad andare avanti. «Forse sto fraintendendo le mie stesse… sensazioni, ma credo di potermi ancora accorgere, nonostante l’età, quand’è che… mi innamoro…» mugugnai, e intanto aprii gli occhi per poter intercettare la sua espressione: era incredula, forse shockata, ma i suoi lineamenti si rilassarono subito dopo e le spalle gli si sollevarono.
«Sei ubriaco,» mi disse, la faccia rassegnata. Strinsi le labbra e buttai la nuca sul poggiatesta per poi fare una risatina cupa.
«Cos’è, i ruoli si sono rovesciati? Mi sembra di rivivere una scena già vista. Ma ero io ad accusarti di essere ubriaco e tu a dichiararti. E a quanto pare adesso sei tu a non credermi,» dopo quelle parole dette, con mia grande sorpresa, con calma e consapevolezza, Valerio prese a spalancare gli occhi e si portò poi una mano sul petto respirando quasi affannosamente. Probabilmente s’era reso conto che no, non erano parole dette con leggerezza da ragazzini ancora ingenui. «Credi che un ubriaco possa farti discorsi del genere?» aggiunsi quindi. Lui scosse la testa senza togliermi gli occhi di dosso, e a quel punto decisi di voltare il capo per agganciare il suo sguardo. Gli Angeli Azzurri m’avevano messo le ali, sembravo aver acquistato un minimo di sicurezza che ogni uomo come si deve dovrebbe avere. Senza neanche darmi il tempo di pensarci una seconda volta, mi allungai sul sedile del passeggero tanto quanto bastava perché potessi passare una mano sul braccio di Valerio, quasi volessi scaldarlo dal freddo.
«Scusa l’impertinenza, ma sei…adorabile,» gli sussurrai, tentando di mantenere il tono composto e di non sembrare un qualche maniaco pedofilo con pessime intenzioni. Pensai a quando avevo dato del pedofilo a Giulio, e volli mordermi la lingua. «Mi…piaci. Davvero tanto. E’ da un…un bel po’ che non provo sensazioni del genere. Anzi…non ricordo di averle mai provate». La mia mano scese sul suo braccio avvolto dal maglioncino fino ad incontrare la sua mano, fredda come il marmo. Tirai su lo sguardo nel suo, e lo vidi turbato, le labbra ora pallide socchiuse ma che non lasciavano uscire aria. Sembrava come pietrificato.
«Ti sto…facendo paura?» chiesi, sicuro fosse quello il problema. Lui aggrottò le sopracciglia e fece subito di no con la testa. «Sei agitato?» riprovai, e a quella domanda annuì con vergogna.
«Scusa, hai ragione. Non volevo metterti alle strette. E’ che credo di aver perso il senno,» dissi quasi ridendo per poi allontanarmi e tornare al posto del guidatore. Perdere il senno. Quando l’amore diventa “dementia” e il saggio perde il controllo di se stesso. Mi sentii uno dei personaggi boccacciani delle novelle del Decameron, e mi dissi che pensare alla letteratura in momenti tanto critici era da pazzi, davvero.
Misi nuovamente la macchina in moto per vedere se avevo smaltito un attimo l’alcol e se sarei riuscito ad arrivare a casa senza attentare alla vita mia e del mio studente, ma mi resi conto che non ce l’avrei fatta, ché la testa mi girava ancora, forse più per la stanchezza che per altro. Mi fermai a qualche isolato da casa mia e spensi nuovamente la macchina per poi picchiettare le dita sul volante.
«Pensi che finiremo per passare la notte in macchina?» fece Valerio quando mi vide accoccolarmi sul sedile.
«Temo di sì. Usa pure i sedili posteriori per distenderti un minimo, se qui sei scomodo».
«Okay,» assentì quello, ma non si mosse dalla sua posizione, quasi si stesse aspettando qualcosa. Da me, magari. Feci un mezzo sorriso ai suoi occhi che lampeggiavano come fulmini, poi mi tirai su e ottenni da un suo cenno del capo il permesso per toccarlo. Gli presi allora il viso tra le mani carezzandogli le guance coi pollici.
«Tu mi ami?» gli chiesi, a così poca distanza dalla sua bocca.
«Sì,» rispose lui, gli occhi che si scioglievano in dolcezza pura, le labbra che si allungavano in un sorriso rassicurante. Era sempre lui a rassicurare me, quando avrebbe dovuto essere il contrario.
Quando mi permisi di spingere la bocca sulle sue labbra, quello rilassò i lineamenti del viso e chiuse gli occhi all’istante, per poi abbandonarsi nel mio abbraccio in segno di resa.
Adorabile. Era l’unica parola che aleggiava nei miei pensieri in quel momento. Tutto di lui era adorabile: il viso, le mani, la bocca, i gesti, la voce. Sì, adorabile era l’aggettivo più appropriato.
E io mi comportavo in modo sempre più illogico e irrazionale. Avevo sempre pensato di saper tenere tutto sotto controllo, di poter reggere il mio castello di carte come avevo sempre fatto. Eppure quella volta la situazione mi sfuggiva di mano, le carte cadevano una ad una e stavano facendo un casino irreparabile.
Erano già alcuni secondi che ce ne stavamo con le labbra incollate, e fu l’ennesimo colpo al cuore quando m’accorsi che Valerio stava schiudendo le labbra e sistemandosi meglio per incastrare la sua bocca alla mia in una sorta di puzzle. Poi andò a mettermi una mano nei capelli, e mi resi conto con orrore che non mi dava fastidio. Ero solito infuriarmi quando mi si scompigliava i capelli o anche solo me li si toccava, ma in quel momento sapeva solo aumentare quella che sembrava essere la mia smania di sentirlo a contatto con me, contro la mia pelle, sulla mia pelle, sotto la mia pelle.
Il suono degli schiocchi dei nostri baci in quell’angusto abitacolo era ciò che di più sensuale avessi mai avuto la fortuna di udire. Valerio stava facendo girare in tondo la lingua in quel momento, e io la inseguivo fino a lasciarla indolenzita.
Dio, se ero nella merda. Nella merda fino al collo.
Fortunatamente, fu lui a staccarsi per primo, ché io, me ne resi conto, probabilmente non ne sarei stato capace.
«Vado…vado a dormire,» disse, mi lasciò un bacio sulla guancia e si trasferì sui sedili posteriori. Certo…lui andava a dormire. Io invece non avrei mai e poi mai preso sonno in quelle condizioni. Volevo che fosse un sogno, anzi, credevo fosse un incubo. Quello non ero io. Pensai che qualcuno dovesse tirarmi fuori dal baratro in cui stavo cadendo.
Usai buona parte della notte per disperarmi.
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Nel mio sonno tutto azzurro distinguevo lineamenti familiari, una bocca che si muoveva senza proferir suono, e che invece quando stava ferma sembrava dire “Svegliati, svegliati…”, gli occhi tanto trasparenti che ci riuscivi a vedere attraverso, fino ad intercettare le venature appena più scure e i riflessi accecanti. I suoi occhi avevano il colore del sole che filtra attraverso le nuvole, quell’azzurro abbagliante che sa colorarti l’anima. “Svegliati, svegliati…
Mi destai di colpo quasi fossi salito a galla dalle profondità del mare e, dopo aver messo per bene a fuoco la figura che mi chiamava scuotendomi il braccio, pensai di essere tornato indietro nel mio sogno, per quanto era bello e luminoso.
«Oggi abbiamo lezione alle nove,» disse la voce di Valerio, e ammisi che la trasparenza dei suoi occhi era riuscita a stordirmi. Mi tirai su con la testa che mi martellava, poi guardai l’orologio da polso: le sette e mezza.
«Sì, è vero,» mi resi conto, ciuffi di capelli che mi cadevano a caso davanti agli occhi. «Torniamo a casa a toglierci questi stracci,» affermai, e misi in moto ancor prima che quello potesse allacciarsi la cintura.
Quando arrivammo a casa mi venne solo voglia di stendermi da qualche parte e riprendere a dormire, magari cercando di continuare lo stesso sogno di poco prima. Ma vidi Valerio schizzare in camera a cambiarsi, e mi dissi che se lui era più o meno entusiasmato dal pensiero di far lezione, io avrei dovuto esserlo almeno il doppio.
Me ne andai in camera da letto senza dire niente, e per prima cosa mi tolsi la maglia, che era ormai diventata come una seconda pelle. Ma neanche feci in tempo a sfilarmela del tutto, che Valerio aprì la porta senza bussare o avvisare.
«S-scusa! Pensavo ti dovessi ancora svestire…» si discolpò immediatamente, ma ebbi la netta sensazione che l’avesse fatto apposta. Non era poi così bravo a recitare. Avevo trovato qualcosa che non era in grado di fare, dovevo segnarmelo da qualche parte.
«Figurati, ormai sei entrato. Dimmi,» ero troppo gentile e non andava bene. Avesse fatto qualcun altro quello che aveva appena fatto lui, l’avrei defenestrato.
«Hai una maglia con la zip da prestarmi? Anche della tuta,» mi chiese guardandomi senza pudore dall’alto in basso, e io cercai di coprirmi come potevo con la maglia che m’ero appena tolto. Mi vergognavo come un ladro del mio fisico così poco atletico.
«Sì, aspetta,» mi accovacciai sui miei cassetti per cercare una giacca delle mie, e intanto sentivo gli occhi del mio alunno che mi facevano la radiografia del didietro. Avevo la pelle d’oca, santo cielo.
«Ecco,» feci dopo essermi alzato e avergli porto l’indumento. Quello stava per ringraziarmi, ma ancor prima che riuscisse a farlo, gli chiusi rudemente la porta in faccia, ché se ce l’avessi avuto ancora davanti, con quegli occhi che ti ci specchiavi dentro, sarei potuto tranquillamente saltargli addosso.
Mi appoggiai con la schiena alla porta, incurante che Valerio lì fuori potesse intuire qualcosa, e sospirai, la mano sulla fronte e poi nei capelli. Andava sempre peggio. I vagoncini delle montagne russe salivano sempre più in alto, ed erano tanto veloci da procurarmi la nausea. Un giro della morte pensavo di averlo passato quella notte, mentre tenevo la bocca di Valerio affondata nella mia; ma ne vedevo così tanti in lontananza da farmi venir voglia di saltar giù dalle giostre, non importa da quanti metri di altezza. Almeno l’avrei fatta finita con la mia vita vissuta per inerzia e con quel diavolo di sentimento parassita che mi mangiava da dentro. Mi consumava.
Ma perché? Mi consumava e mi faceva male perché non volevo accettarlo, lo amavo e non volevo farlo, eppure sentivo che allo stesso tempo, lui era il solo che potesse tenermi vivo.
Placitone etiam pugnabis amori? Ti opporrai forse a un gradevole amore?
Pensai che avrei dovuto rileggermi la favola della Matrona di Efeso contenuta nel Satyricon per potermi sentire meno in colpa.
Non pensai di poter essere in grado di oppormi. E questo mi spaventava, ma allo stesso tempo mi faceva euforico, perché avvertivo distintamente il modo in cui il percorso della mia vita proseguisse, migliore del precedente, dopo una brusca e pericolosa svolta.




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Eccoci :)
Allora, spero di poter scrivere di meno nelle note questa volta.
Sara è un personaggio che non ho sviluppato di mia spontanea volontà perché è decisamente secondario, se non terziario, ma ci sono affezionata perché l’ho pensata come una donna che ascolta tutto e osserva tutto, ma che non trova nulla di interessante in ciò che vede o sente. Fondamentalmente si fa gli affari suoi e non racconta la sua vita privata in giro perché trova che non sia così piatta e noiosa come pensano gli altri. Mi piace semplicemente perché si fa gli affari suoi e trova il mondo attorno a sé poco interessante.
Giulio è un tappetto, comunque! Non mi ricordo se l’ho detto nei capitoli precedenti, ma volevo metterlo in evidenza XD
Visto che sto studiando letteratura italiana, di tanto in tanto salta fuori qualcosa in merito. E poi l’altro giorno ho comprato il Satyricon di Petronio e lo sto divorando, ho già voglia di rileggerlo senza neanche averlo finito. Lo consiglio a tutti coloro che amano leggere di fatti reali e tangibili, e pure un pochetto crudi. E, naturalmente, che amano le storielle tra omosessuali, lì c’è da sbizzarrirsi <3
Bueno, ho fatto anche pubblicità, chi meglio di me (?)
Ringrazio per le recensioni che continuo a ricevere, you make my heart smile :)








Mirokia


 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo tredicesimo ***


Cap. 13








A lezione quel giorno avevo da presentare Petrarca e collegarlo con Boccaccio, ma feci davvero fatica, sia perché m’era completamente passato di mente di rileggermi le carte relative alla lezione, sia per lo sguardo inevitabile del mio studente che sentivo premere insistentemente su di me. E il tutto era amplificato dal ricordo vivido di quella notte. Sapevo di aver bevuto più del normale ma, per volere del cielo, ricordavo perfettamente ogni singolo secondo in quella macchina, anche quando ce n’eravamo stati zitti o quando ero riuscito a trovare una posizione comoda e la momentanea pace dei sensi per approfittarne e prendere sonno. E ricordavo anche come la mattina, appena prima di uscire di casa, Valerio m’aveva picchiettato sulla spalla per poi lasciarmi un bacio prolungato sulla guancia, la mia giacca della tuta già sulle spalle. Ci mancava solo il bacio del “Buona giornata”.
Riuscii comunque a sopravvivere, anche se i ragazzi erano confusi dalla maniera in cui argomentavo, quella mattina: se scrivevo parole alla lavagna scambiavo l’ordine delle lettere, quando parlavo dicevo una parola per un’altra, e ogni qualvolta sfioravo l’argomento amoroso del Petrarca mi partiva un colpo di tosse.
Tornai a casa all’ora di pranzo, ma Valerio mi aveva già detto –con un messaggino sul cellulare pieno di faccine sorridenti- che non avrebbe mangiato a casa perché doveva scappare da Laura e poi, insieme a lei, sarebbe andato in palestra. Sperai che si fosse portato dietro il doppione delle chiavi di casa, nel caso fossi dovuto uscire.
Il mio pranzo fu frugale, niente a che vedere con la roba che mi preparava Valerio, e alla fine mangiai una banana senza riuscire a non pensare male e mi feci il caffè che, puntualmente, venne fuori senza schiuma, maledizione.
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Il pomeriggio tardi ricevetti una visita da parte di Rosaria, la signora del secondo piano, quella fissata con le torte alla frutta, quella che fa fatica a parlare e camminare e che pensa che io sia l’uomo più affascinante del mondo. Certo che ne aveva, di coraggio.
Scese un’altra volta le scale da sola, e disse di essere venuta a chiedermi se, per favore, avevo una Bibbia da prestarle, perché quella sera sarebbe dovuta andare ad un incontro in chiesa, e la sua ce l’aveva la sua amica Adele. Mi grattai la nuca e feci una faccia pensierosa, per poi dire:
«Er… In questo momento non ricordo dove l’ho messa,» o dove l’aveva messa mia moglie, più che altro. Era come il fatto della Nutella, che non ero riuscito a trovarla finché non ci aveva pensato Valerio. Solo che questa volta non avrei potuto aspettare il suo ritorno per poi ordinargli di cercare per la casa un libro.
«Non ti preoccupare, tanto la messa è alle sei. Puoi portarmela quando la trovi,» mi fece lei rassicurante strabuzzando un occhio.
«Sì, tanto credo che sia nella libreria. Vado subito a cercarla»
«Fai con calma, bellissimo. Ché ti vedo un tantino nervoso e caotico,» disse regalandomi piccole pacche affettuose sulla spalla. Annuii dicendole che aveva ragione, che dovevo acquistare un attimo di serenità, lei sorrise coi lati della bocca tremolanti e allungò una mano ad accarezzarmi la guancia leggermente ispida e il mento. Mi salutò con un cenno del capo e tornò su con una signora che stava prendendo l’ascensore in quel momento.
Come le avevo promesso, appena chiusi la porta andai a vedere dov’è che poteva essere andata a finire la Bibbia. In realtà non mi ci volle molto per scovarla: se ne stava lì sull’ultimo piano dello scaffale in corridoio, insieme a tutti i libri di grosse dimensioni, come i dizionari. Feci un sonoro starnuto quando la tirai giù e mi cadde della spessa polvere davanti al naso.
Ero sempre stato un fermo credente, e anche praticante, almeno fino a qualche anno prima. Da giovane avevo frequentato il catechismo e l’oratorio del quartiere con un entusiasmo strano, quello che prende possesso di te quando sei ancora piccolo e pieno di voglia di fare, voglia di vivere. Poi avevo iniziato a non trovarmi bene coi ragazzi dell’oratorio –uno di loro, una volta che c’eravamo trovati insieme in bagno, m’aveva chiesto di masturbarlo, perché Don Mariano gli aveva detto che era cosa buona e giusta, e io ne ero rimasto provato-, quindi avevo smesso di frequentare le riunioni per diventare un animatore e avevo pensato solo a studiare. La domenica però ci andavo ancora, in chiesa, e ovviamente durante tutte le feste sacre o le occasioni importanti come matrimoni, battesimi e comunioni. Avevo sempre evitato i funerali, perché rischiavo di sentirmi male durante la celebrazione. A quello di mio padre m’ero vomitato sui piedi per la troppa tensione e mia sorella mi aveva portato all’aria aperta facendomi bere dell’acqua e bagnandomi il viso, con Michele che ci aveva raggiunto subito dopo in braccio al padre perché s’era messo a strillare per la mancanza della mamma. Erano comunque alcuni anni che saltavo il mio appuntamento domenicale con la chiesa, forse perché amavo dormire a lungo la mattina, o perché avevo perso la voglia, o perché improvvisamente avevo avuto paura dello sguardo che mi rivolgeva Don Mariano, ormai anziano.
Sospirai e, curioso di rispolverare letteralmente il passato, camminai verso il letto di Valerio mentre sfogliavo la Bibbia. Mi stesi sul materasso e mi accesi la lampadina sul muro e lessi velocemente le prime pagine quasi stessi leggendo un fumetto, le gambe accavallate.
La creazione del mondo. Pensai che fosse rilassante leggere di come Dio creò cielo e terra, uccelli e pesci, notte e giorno, buio e luce. Feci scorrere gli occhi anche sulla parte in cui modellò l’uomo dal fango e gli introdusse nelle narici il soffio vitale per poi dargli il nome di Adamo. E quando creò Eva dopo aver estratto una costola dal corpo dell’uomo. Sorrisi tra me e me: un mucchio di sciocchezze. Eppure in quel momento mi immaginai il mio vecchio professore di religione al liceo che non voleva ammettere a se stesso che quella storia di Adamo ed Eva e del serpente e della mela e del Paradiso Terrestre fosse tutta una leggenda. Un insegnamento morale sottoforma di metafora. Ricordai come fosse convinto delle sue affermazioni, come riveriva il crocefisso appeso in classe ogni volta che varcava la soglia e come baciava la Bibbia quando finiva di leggerne le pagine. Una sua frase frequente tornò a rimbombarmi in testa, e anche allora sembrava infastidirmi in qualche modo, perché era una lettura che avevamo affrontato nello stesso periodo in cui il mio compagno in oratorio mi chiedeva di toccarlo o mi diceva: “Succhiamelo, per favore. Dimmi che per te non sarebbe un problema. Dimmi che è normale se te lo ordina uno più grande”, perché lui aveva tre anni in più di me. Una frase che diceva: “Il Signore li creò diversi perché si completassero stando insieme, così come il bene e il male, la luce e il buio. E’ impossibile poter concepire un uomo unirsi a un altro uomo o una donna a un’altra donna. E’ peccato.
Mi rizzai a sedere con le pagine tra le mani che sembravano scottare, poi presi a stropicciarmi nervosamente gli occhi. Un peccato. Merda, mi mancava proprio questo tipo di preoccupazione: adesso le fiamme dell’inferno mi sembravano maledettamente vicine. Chiusi la Bibbia con un tonfo spargendo altra polvere nell’aria per evitare che mi suggestionasse ancora, anche se ormai le parole del mio insegnante erano tornate a galla infondendomi quella sottile sensazione di paura che per un periodo s’era presa possesso di me, durante i miei diciassette anni.
Tentando di scacciare dalla testa i fantasmi del passato, un passato fin troppo remoto e che non avrei dovuto ricordare così bene, salii velocemente al secondo piano per portare il libro alla signora Rosaria. Quella mi aprì, poi disse con il volto scavato “Hai fatto in fretta, tesoro”, e mi invitò a entrare, ché, a pensarci bene, aveva pensato di volermi far assaggiare un pezzo della sua torta al limone. Accettai a testa bassa e andai a sedermi al suo tavolo rotondo in legno chiaro e lucido. Lei sparì in cucina e io le chiesi se desiderasse una mano, visto che né la ragazza che s’occupava di lei, né la figlia sembravano esserci, ma quella disse “Sciocchezze, ce la faccio benissimo”, e tornò poco dopo con un largo piatto pieno di una torta marroncina con dei tagli gialli dal profumo invitante e già privata di un paio di fette. Ringraziai abbassando nuovamente il capo quando me ne porse un pezzo su un fazzoletto, anche se non la mangiai subito: vide che portavo la torta alla bocca senza decidermi ad aprirla per mordere il dolce, quasi ci fosse qualcosa che mi preoccupava. Ma lei evitò di chiedere cosa ci fosse che non andava, finché non fui io a parlare per primo.
«Posso farti una domanda?»
«Dimmi, bello,» fece lei, contenta che avessi voluto parlargliene. Io andai a allargarmi con un dito il colletto della camicia, quasi dovessi venir condannato a morte nel caso avessi continuato a parlare.
«La Bibbia cita alcuni peccati. Tu credi che proprio tutti possano essere considerati tali?» temetti di non essermi spiegato a dovere, ma quella mi guardò di sottecchi.
«Hai commesso un peccato?» mi aveva inquadrato subito.
«Er…non so, voglio dire, è un po’ contradditorio con la parola di Dio, e quindi…» balbettai, e  lei quasi articolava le parole in modo più spedito di me.
«Insomma, quanti giri di parole. Mi vuoi dire o no quale sarebbe questo peccato?» e mi guardò con una faccia da “Non hai ucciso nessuno, vero?”
«E dopo penserai male di me?» ero dannatamente timoroso di come avrebbe reagito la cattolicissima Rosaria, ma allo stesso tempo avevo una grande voglia di confidarmi con qualcuno, di farmi dare un consiglio da qualcuno che non fosse Giulio. Giulio e la sua sfera di cristallo.
«Certo che no. Non cambio quasi mai idea sulle persone. Quella che mi sono fatta all’inizio di solito vale fino alla fine. E poi, ti confido una mia convinzione: spesso si odia il peccato, ma si ama il peccatore,» mi disse facendo un occhiolino, ma era più probabile fosse un tic. La sua ultima frase aleggiò per un po’ nell’aria e mi piacque parecchio. Tanto che me l’annotai da qualche parte nel mio cervello, ringraziando mentalmente la donna per avermela confidata. Presi un respiro profondo.
«Hai presente il capitolo della creazione? Quando sono stati creati l’uomo e la donna…»
«Certo che ho presente,» fece lei annuendo più volte e incitandomi a continuare con la mano che vibrava.
«Ecco. Secondo la fede, i sessi opposti devono procreare, e…»
«Freeena il cavallo. Mi stai dicendo che potresti essere dell’altra sponda?»
Colpito e affondato. Arrossii –o almeno, pensai di essere arrossito- incassando la testa nelle spalle, e lei si mise a ridere a scatti, quasi come un robot. «E io che pensavo avessi ucciso qualcuno!» esclamò con una mano davanti alle labbra e la risata incontrollata. «Invece, il tuo fantomatico peccato è quello di amare!». Io alzai il capo.
«Amare?» ripetei, come un bambino a cui devono spiegare la lezione.
«Ma sì, caro. E Dio dice di amare il prossimo, di distribuire amore in giro, eccetera, quindi è bene che non rompa le scatole,» concluse con energia, e a me venne da ridere, tanto che non riuscii più a trattenermi. Quella donna era fantastica, basta, sentivo di volerle un bene profondo. «E dimmi… è quel bel ragazzo che vedo entrare e uscire da casa tua, vero?» mi chiese poi, quando mi vide più rilassato. Io annuii, decisamente più sereno e con le lacrime che m’uscivano da un occhio a causa della forte risata. «Bene, te lo sei trovato pure bellissimo. E’ degno della tua, di bellezza! Fammi un favore…» e si accostò a me, mentre io, curioso, tendevo l’orecchio. «Non fartelo scappare. Vai a dargli un bacio, senza pensare a certe letture da vecchie bacucche,» e sollevò la Bibbia trionfante. Mi alzai, la ringraziai con un profondo inchino –tanto che per poco non toccavo le ginocchia con la fronte- e tornai a casa mia col cuore più leggero, quasi quel temuto “peccato” si fosse trasformato in un’opera di bene.
---
Quando aprii la porta di casa, la prima cosa che notai fu la luce che proveniva dalla cucina. Dopodiché allargai lo sguardo e trovai sul divano la giacca della tuta che avevo prestato a Valerio, segno evidente che aveva fatto ritorno a casa. Senza dire niente, ma con un sorriso inquietante sul volto, andai a mettere la giacca nell’armadio, non senza aver dato un’occhiata al mio coinquilino, che sembrava piegato sul piano della cucina, forse a farsi un panino.
Quando appesi l’indumento a una delle poche grucce libere, cadde volteggiando da una delle due tasche un pezzo di carta piegato. Pensai di non ricordare di aver messo una roba del genere nella tasca, e neanche mi passò per la testa che potesse essere proprietà di Valerio, così la raccolsi e la aprii. Ebbi un tuffo violento al cuore quando mi accorsi di aver riconosciuto la calligrafia:
“Caro Andrea,
so che dovrei prestare attenzione alla tua lezione su Petrarca, ma il profumo insistente della tua giacca mi ricorda che avrei voluto scriverti due righe. Sai, sto attraversando un periodo piuttosto strano: da quando ti ho incontrato/scontrato, diciamo, mi sembra di vivere un’altra vita, una vita non mia, e di cui non avrei mai potuto pensare di fare esperienza. Insomma, ti cucino il pranzo, ti lavo i panni, poi tu mi svegli la mattina e mi porti a scuola, e la sera ci guardiamo un film insieme. Sembra quasi che io e te ci siamo uniti in una sorta di… famiglia? Mi vergogno anche solo a scriverlo, scusa… E comunque, volevo dire che io ne sono felice, lo sai bene, ma posso capire come puoi sentirti tu. Ti vergogneresti a far sapere in giro che vivi con un tuo studente, ed avresti perfettamente ragione. Quindi, se preferisci, posso tornare a vivere a casa mia e tentare di dialogare con mio padre e di rivolgere la parola alla sua nuova fiamma, di cui non ricordo neanche il nome. Dimmi senza problemi se per te è meglio che me ne vada. Non ci sarà alcun tipo di rancore, te l’assicuro :) E scusa se te l’ho chiesto per iscritto ma, non so perché, con te non riesco mai a parlare… la lingua mi si annoda. Si vede che mi stai fin troppo antipatico :P

                                                                                                                          Valerio”

La lessi tutta d’un fiato, senza mai fermare gli occhi o fare una pausa, e il primo sentimento che mi colse fu la paura.
Se ne vuole andare?
Il secondo, forte da stringermi il cuore, fu la tenerezza.
Gli si annoda la lingua?
Il terzo fu molto simile all’amore, che mi travolse come una gigantesca onda, un’onda calda, bollente.
Gli piace il mio profumo?
In un primo tempo pensai di rispondergli anche io per iscritto, ma era qualcosa di banale, infantile, e troppo complicato. Mi ci voleva troppo tempo a scrivere tutto quello che avrei voluto dirgli, e perché farlo, quando un gesto parla molto più di mille parole? Sì, sarebbe stato meglio qualcosa di più diretto. Mi diressi a passo pacato in cucina, ché tanto lo sapevo che s’era accorto che ero tornato a casa, e vidi che era ancora lì a tagliare quella che sembrava verza: a quanto pare preparava delle verdure bollite per quella sera. Sorrisi beffardo, mi avvicinai da dietro e gli sventolai quella pseudo-lettera davanti agli occhi.
«E questa?»
Lui deglutì e rise del tutto imbarazzato. Fosse stato per lui, avrebbe pianto dalla vergogna.
«Ahah, l’hai letta?»
«Sì, e ho concluso che sei un idiota,» dissi per poi ripiegare il foglietto e lasciarlo sul piano della cucina accanto alla verza.
«Eh, lo immaginavo,» fece lui rammaricato, sempre con quel sorriso sforzato, vergognatosi di aver fatto una cosa tanto infantile.
«Sei un idiota se pensi che ti permetterò di andare via,» mi corressi, adesso non più con tono irrisorio, ma melenso come quello che trovavi solo nei film romantici. Per sottolineare la mia intenzione di non volermelo lasciar scappare, lo sovrastai avvolgendo le braccia attorno alle sue spalle, sempre da dietro, e poggiando il capo sul suo collo immacolato. Il profumo dello shampoo al cocco mi stava facendo girare la testa. Chiusi gli occhi e mi beai di quell’attimo di silenzio e di quel buon profumo, mischiato a quello del detersivo per piatti. «Credevo di avertelo già detto, o forse non sono stato abbastanza chiaro: io ti…ti amo. Tu non fuggi via da me,» aggiunsi, ancora incapace di pronunciare come si deve quelle due, imbarazzanti, parole. Le avevo mai dette? Avevo mai sentito quel calore espandersi all’altezza del petto? Avevo mai stretto a me qualcuno come stringevo quel ragazzo in quel momento? Avevo mai affondato il naso nei capelli di qualcuno con così tanta smania?
Nascosi le labbra sotto i capelli che gli coprivano la nuca e carezzai piano quella porzione di pelle con la bocca, notando come avesse un neo particolarmente grande proprio lì dietro al collo, al centro. Era bellissimo anche quello.
Valerio aveva preso a respirare a fatica, e tentava in tutti i modi di non farmelo notare, ma ormai avevo imparato ad accorgermi di ogni sua minima reazione. E a sospirare a mia volta quando glielo sentivo fare. Mi prese una delle mani che tenevo agganciate attorno alle sue spalle e se la portò sul petto a sinistra.
«Lo senti?» mi chiese lasciando scemare l’ultima parola. «Temo di star per scoppiare,» ammise, il cuore che mi faceva vibrare le dita per quanto palpitava.
«Lo stesso vale per me,» dissi a mia volta tentando di far aderire il più possibile il mio petto alla sua schiena, sperando che sentisse almeno la metà dei battiti che stavo avvertendo io. C’era così tanto silenzio, che potevano addirittura essere uditi, se ci facevi attenzione. Feci scorrere la bocca vicino al suo orecchio e lo strinsi ancora più forte, quasi a volergli lasciare i segni delle dita sulle braccia, per poi dondolarlo leggermente a destra e sinistra. Lo sentii sorridere, travolto dall’onda di tenerezza che pensavo non sarei mai riuscito a dimostrare. ‘Fanculo, facevo davvero venire la nausea. «Ti amo,» gli sussurrai all’orecchio, perché potevo diventare ancora più nauseante, se volevo. Ma il fatto era che non volevo, eppure mi veniva da farlo, e mi veniva pure da lasciargli una scia di baci sul collo adesso, notando con piacere come i brividi prendessero possesso della sua pelle sensibile.
«Sì?» chiese sorridendo allegro.
«Sì…» confermai, e subito dopo spostai una mia mano sul suo volto, tastando coi polpastrelli la linea del suo naso e quella delle labbra, e lui mi prese a baciare le dita, e io giurai che non riuscivo a respirare a causa del nodo alla gola. Non ci volle molto perché Valerio iniziasse a percorrere con la bocca la lunghezza del mio dito indice, per poi tirare fuori la lingua e lasciarla passare sulla base del dito e piano salire fino alla punta. Tirai fuori la lingua pure io, istintivamente, quando avvertii quello che aveva deciso di fare col mio dito. Mi sentivo girare la testa. La sua saliva sulla mia mano non mi dava fastidio, Cristo, anzi, mi faceva gonfiare i pantaloni in modo spropositato.
Spostai la mano che non era impegnata ad essere leccata sul suo fianco, per poi spingere impercettibilmente il bacino contro di lui. Dio santo, sembravo uno di quegli sporchi pervertiti che ne approfitta del pullman affollato per strusciartisi addosso senza che tu possa reagire perché sei bloccato tra la gente.
«Scusa…» dissi, pateticamente, quasi quella parola potesse alleviare la gravità del movimento perverso che compivo contro il suo fondoschiena. Ma quello non sembrò dispiacersene e, dopo aver lasciato perdere la mia mano, scostò la verza facendola finire nel lavandino, e si piegò lentamente sul piano della cucina, muovendo allo stesso tempo il fondoschiena in modo circolare, roba da farti perdere il senno. Arrivò a poggiare la guancia sul piano grigio e freddo rabbrividendo un poco, le mani aperte accanto al viso, il respiro affannoso, gli occhi socchiusi, le belle e sottili labbra che si separavano e si riunivano, quasi stessero soffiando.
La mia mano umida della sua saliva si mosse sul suo ventre e fece una sorta di massaggio, mentre anche io mi piegavo piano su di lui.
«Siamo peccatori, lo sai?» feci ad un certo punto, snervato dal silenzio pressante e imbarazzante, proprio nel momento in cui lo baciavo dietro l’orecchio.
«Andrò all’inferno?» mi chiese lui, schiacciato contro il piano della cucina.
«Probabilmente,» risposi, e intanto gli soffiavo sul collo facendolo rabbrividire.
«Anche tu, allora,» mi disse quello, mentre gli marcavo il retro dell’orecchio con una scia di saliva.
«Ovviamente».
«E tu lo chiami inferno? A me sembra il Paradiso,» commentò Valerio, e io la trovai una frase così perfetta da poter essere benissimo inserita nei Baci Perugina al posto di quelle cazzate senza senso che ero solito trovare. Il tono con cui l’aveva detto, morbido ed emozionato, mi diede un incipit a cui forse non avrei dovuto affidarmi così in fretta. Ero sopra di lui, ormai, e il suo corpo era piegato ad angolo retto sotto il mio. La protuberanza nei pantaloni si vedeva e si sentiva, l’erezione strisciava contro i boxer e faceva male. Mi permisi di fare qualcosa, allora: scesi coi baci sino ad appena sotto il collo, poi portai le mani a sollevargli la polo verde chiaro e andai, adesso improvvisamente svelto, a carezzargli il petto e lo stomaco nudi, sentendo come la sensazione sui polpastrelli fosse piacevole. Allo stesso tempo lasciavo scie di baci e saliva lungo tutta la schiena scoperta, ed arrivai a circondargli la pelle dei fianchi con la bocca e quindi con i denti, mordendo piano, poi più forte, e prendendo a succhiare di tanto in tanto, come una belva affamata.
«Aspetta,» tentò di fermarmi Valerio, la voce soffocata contro il finto marmo. «Stiamo correndo troppo… aspetta…» ripeté, ma la sua voce mi arrivava ovattata alle orecchie, come un sogno lontano e che andava dissolvendosi, e io dovevo correre, inseguirlo, o mi sarebbe sfuggito dalle mani come sabbia tra le dita. E quindi andavo avanti come un automa, una mano che aveva raggiunto uno dei suoi capezzoli, che sembrava tanto strano quanto piacevole tra le mie dita. «F-fermati!» quasi strillato, questa volta. Mi bloccai di colpo, quasi fossi stato svegliato di soprassalto da una secchiata d’acqua fredda. Mi tirai su stordito, e quando allontanai delicatamente anche il mio bacino dal suo corpo, mi ritrovai il mio studente disteso sul piano della cucina, con la polo alzata sino alle spalle e un succhiotto evidente su un fianco. Per non parlare dei segni dei morsi lì in corrispondenza delle due fossette sovrastanti il fondoschiena. Ma che ero diventato, una bestia, forse?
Lui si sollevò a sua volta sistemandosi la maglietta e massaggiandosi istintivamente il fianco, non sapendo che in quel modo avrebbe aumentato il rossore, probabilmente.
«Scusa se ti ho fermato, ma per me è importante,» disse quando si fu voltato verso di me e riuscii a guardarlo negli occhi per la prima volta dopo quella mattina. Il pensiero di non averlo guardato in faccia mentre gli facevo quelle cose mi fece vergognare come un ladro, tanto che avevo voglia di buttare la faccia nelle mani a coppia e piangere come un poppante. E non piangevo dal funerale di mio padre. Lui però era calmo, e io pensavo che mi avesse bloccato perché aveva paura di cosa avrei potuto fargli, io uomo trentacinquenne che non fa sesso da un po’, ma non sembrava spaventato. E, quando stavo per chiedergli nuovamente scusa per tutta quella situazione, lui mi precedette. «Non so cosa significhi per te un “Ti amo”, ma…» si stropicciò i lembi della polo e puntò il suo sguardo dritto nel mio.  «per me equivale a una promessa. Quindi, se hai intenzione di dirmi ancora una volta quelle due parole, dovrai poi prenderti la responsabilità di tenermi con te fino alla fine dei tuoi giorni,» aggiunse, prendendomi un po’ alla sprovvista, e non si decise ad abbassare gli occhi dai miei. Come? Esisteva davvero qualcuno che ancora credeva nell’amore eterno? E dovevo proprio andarmi a innamorare di un tipo del genere? Pensavo che la nuova generazione fosse disillusa, o che perlomeno pensasse alle macchine, alla discoteca e alle pasticche, non all’amore eterno. Oh per carità, come l’avrei gestita quella gatta da pelare? «Data questa premessa, adesso sei ancora convinto di potermi dire quelle parole?» insistette Valerio, le braccia ora incrociate contro il petto, gli occhi che richiedevano una risposta immediata e convinta, senza troppi ripensamenti o dubbi. Io invece i miei pensieri ce li avevo eccome. Non è che non fossi sicuro di amarlo, ma per come sapevo di essere fatto, poteva anche essere che il sentimento se ne sarebbe andato col passare del tempo. Non potevo prendermi l’onere di tenermi il ragazzo fino alla fine dei miei giorni, come lui stesso aveva detto. Sperai che non fosse serio, ma quello teneva lo sguardo duro ancora puntato su di me, e il piede che picchiettava sul pavimento, anche se non insistentemente, le braccia conserte e le mani che stringevano la pelle delle braccia. Dedicai un attimo un pensiero a quel che era rimasto della mia famiglia, ai miei amici, ai miei colleghi e conoscenti, al padre di Valerio. Mi chiesi che cosa ne sarebbe stato di loro se mai avessi deciso di tenere accanto a me quel ragazzo, di cosa avrebbero pensato, se mi avrebbero mai più rivolto la parola, se sarei rimasto ancora più solo di quanto già non mi sentissi. E, durante quel flusso di pensieri, abbassai il capo e finii per guardare i piedi di Valerio che si muovevano nervosi. E non risposi.
«Come pensavo,» disse Valerio, il tono rassegnato e deluso, mentre, ne ero sicuro, si dava mentalmente dello stupido. Poi i suoi piedi si spostarono e lo portarono nella stanza accanto. Qualche minuto dopo sentii chiudere la porta d’ingresso, e io ancora dovevo tirare su il capo. Lo sguardo mi cadde sulla verza nel lavandino, poi mi misi due dita sugli occhi e strinsi tanto da avere la sensazione di sanguinare dalle orbite.
Figuriamoci se riuscivo a farne mai una giusta, io. Frugai nella tasca dei pantaloni e ne tirai fuori il pacchetto di sigarette ormai ridotto a un pezzo di carta stropicciato e schiacciato. Fortunatamente, l’unica sigaretta all’interno s’era salvata. La portai alle labbra ancora pregne del sapore dei fianchi morbidi di Valerio, quindi me le leccai prima di accendere il bastoncino bianco e aspirare. Mi accorsi solo in quel momento di non essere in balcone e che stavo fumando forse per la prima volta dentro casa. Non mi importava. Non mi importava più di nulla. Nulla che non riguardasse Valerio, perlomeno.


 

 


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Spero di aver fatto contento qualcuno con questo capitolo ^^ Amo la tensione sessuale **
Purtroppo Valerio, essendo il passivone, deve anche fare la parte della femminuccia che ancora  sogna il principe azzurro e l’amore eterno. E deve avere le mestruazioni, di tanto in tanto, altrimenti non è un passivone di quelli che si rispettano.
Andrea, dal canto suo, a volte si lascia andare, ma non lo fa apposta, la carne è debole. Noi lo amiamo lo stesso. Almeno, io lo amo <3
In questo capitolo ho accennato al passato di Andrea, giusto alcuni flash più vividi, e mi sono soffermata sulla questione religiosa, fin troppo spinosa e impossibile da trattare in metà capitolo. Ma io l’ho voluta lasciare sul “leggero”, e Rosaria ha pensato al resto. Ha sdrammatizzato il tutto e ha cambiato l’umore di Andrea da nero a bianco.
Ah, ecco, c’era una curiosità –sempre se vi interessa XD- che ho scritto nella risposta a una recensione e che copio e incollo qui. Riguarda la scelta dei nomi dei personaggi:
Il mio intento è proprio quello di comunicare una certa... normalità, con questa storia. Non sopporto le esagerazioni in un racconto, o le descrizioni di personaggi che non possono esistere, perché troppo perfetti. Faccio una scelta precisa anche dei nomi: ho scelto un nome americano per la ex moglie di Andrea perché volevo che spiccasse subito, dato che è su un livello d'importanza leggermente più alto rispetto alle altre donne presenti nella storia. Andrea è il nome più comune del mondo, e volevo dare al personaggio proprio l'idea del "normale", "ordinario", anche se poi ho notato che è utilizzato per indicare il protagonista in innumerevoli storie originali, e mi sono detta che forse è davvero troppo ordinario. Ma non avrei mai potuto cambiarlo, quel nome designerà il mio personaggio, che mi è così caro, e per sempre sarà così <3 
Valerio è un nome che mi sa di leggerezza e serenità e di azzurro, ed è già meno usato, per quello l'ho scelto. Per quanto riguarda gli altri nomi, li considero quasi tutti bruttini, e l'ho fatto apposta a sceglierli, perché mi infastidiscono le storie in cui i personaggi hanno nomi bellissimi e perfetti -come, ad esempio, coloro che ambientano la storia in America e usano come nomi "Erik", "Mark", "Stephen", "Alice", "Harmony", "Steve", "Edward", eccetera, nomi perfetti e belli, insomma-. Per dirti, il nome Edward è affascinante e misterioso, ma se lo traduciamo in italiano? Viene fuori un nome che a me piace davvero pochissimo -chiedo scusa se hai parenti o amici con questo nome-: Edoardo. Eppure, l'ho usato per designare il protagonista di una storia che ho scritto su un quaderno XD 


Okay, credo di aver scritto fin troppo XD
Ah, volevo dirvi che, grazie soprattutto a coloro che leggono questa storia, sono stata inserita tra gli autori preferiti da 100 persone! *piange di felicità* Ho raggiunto un traguardo, GRAZIE!
E, già che ci sono, metto qui di seguito il link della mia pagina autrice su Facebook, nel caso qualcuno volesse leggere gli aggiornamenti sul social network:
http://www.facebook.com/mirokiaEFP
Vi abbraccio tutti! E vi ringrazio di cuore!







Mirokia

 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordicesimo ***


Cap. 14


 

 







Dopo quel pomeriggio, mi sentii tremendamente in colpa per come mi ero permesso di trattare Valerio. Gli ero quasi saltato addosso quando con lui non avevo avuto un contatto più intimo di un bacio. Anche se non dovevo dimenticare le volte in cui mi aveva preso per mano o quando s’era lasciato carezzare o quando m’aveva mollato un bacio sulla guancia. A pensarci bene… la colpa era più sua che mia. Se non avesse voluto che gli facessi quelle cose, si sarebbe tirato indietro sin dall’inizio, e invece era stato lui il primo a piegarsi a novanta, a sospirare e a fare quei versetti da donna di facili costumi. Era lui che mi seduceva!
…No, così non andava. Stavo davvero parlando come un vecchio maniaco che tenta di discolparsi dopo aver molestato un minorenne. Ma Valerio non era affatto un minorenne, dannazione, ed era stato consenziente, e non era illegale quello che m’ero permesso di fare. Non avevo motivo di sentirmi in colpa sotto quell’aspetto.
Mentre mi facevo l’ennesimo caffè senza schiuma, pensavo a in che modo potevo porre fine a quel silenzio straziante. Sintonizzare la televisione su MTV non bastava. Come non bastava mettere su il solito cd di Jason Mraz, che in condizioni normali m’avrebbe rilassato e regalato un qualcosa di simile al buonumore. Ma quelle non erano condizioni normali: quello era già il secondo giorno che tra me e il mio coinquilino regnava il silenzio assoluto. Non è che stavamo spalla a spalla senza rivolgerci la parola, era che non riuscivamo proprio a beccarci nella stessa stanza. Questo perché lui, nelle poche ore in cui si ritrovava a casa, se ne stava chiuso nella camera che una volta era il mio ufficio a studiare letteratura latina, senza mai alzare il capo. In realtà non potevo sapere se alzasse o meno il capo, ma quando passavo davanti alla sua porta, che magari a volte finiva per essere socchiusa, lo vedevo con la testa pendente in avanti, quasi stesse dormendo seduto; ma il fatto che girasse le pagine mi suggeriva che era bello sveglio e che si stava impegnando particolarmente, senza chiedermi chiarimenti come gli capitava di fare a volte. Sembrava voler diventare autosufficiente, fare tutto ciò che era in suo potere per guadagnarsi una certa autonomia. Era lui ad uscire a fare la spesa, senza dirmi nulla, e quando io tornavo dal lavoro trovavo già il frigorifero e la dispensa pieni, e non mi mancava nulla. E il fatto che comperasse la roba coi soldi del padre senza neanche guardare i miei mi disturbava, e non poco. Quindi mi innervosivo, diventavo irascibile, poi però trovavo nel mobiletto in salotto una decina di confezioni di Twix, un vasetto nuovo di Nutella e i biscotti con le gocce di cioccolato che mi facevano impazzire e mi veniva da piangere, perché non sapevo se fossi io quello che si faceva leggere come un libro aperto o fosse Valerio che passava il tempo –se riusciva a ritagliarsene un po’- a segnarsi su un foglio il cibo che mi vedeva consumare più spesso. E l’ultima ipotesi era piuttosto inquietante.
Qualcos’altro di curioso era il fatto che, comunque e in qualunque caso, se lui era a casa, a pranzo e a cena mi ritrovavo la tavola imbandita, senza però il suo piatto. Non sapevo se mangiasse prima o se non mangiasse affatto. E io non avevo neanche avuto le palle di prenderlo da parte e chiedergli cos’è che esattamente voleva, e per quale motivo mi stava evitando e tornava a casa più  tardi del solito. Forse non l’avevo fatto perché avevo paura –come un mocciosetto dell’asilo- che quello in qualche modo si fosse disinnamorato di me, se mai lo era stato davvero, o si fosse stancato della mia compagnia. Possibile che ce l’avesse ancora con me per il “ti amo” non ripetuto?
Dovevo svagarmi un po’, non ce l’avrei fatta ad andare avanti in quelle condizioni, mi sentivo contorcere lo stomaco e avevo la nausea a ogni ora del giorno a causa della tensione. Decisi di uscire, magari sarei andato all’Olsen. Lasciai andare la tazzina nel lavandino col rischio di romperla e spensi la tv nonostante la bella canzone di Lionel Richie, poi mi diressi senza darmi il tempo di pensare verso la camera in cui s’era nuovamente chiuso Valerio una mezz’oretta prima. Bussai alla porta, ma non ci fu risposta dall’altra parte: magari dormiva, o aveva le cuffie. Allora mi permisi di socchiudere la porta e buttare uno sguardo nella stanza, per poi intercettare immediatamente la figura di Valerio piegata su un libro, la luce sulla scrivania che gli illuminava i capelli facendoli sembrare ancora più chiari. Non appena mi vide sbucare, il ragazzo si asciugò velocemente dal viso quelle che sembravano essere lacrime.
«Sto andando a salutare Giusy. Vuoi venire con me?» provai a chiedergli cauto.
«No, grazie. Devo rivedermi questo capitolo,» rispose lui senza alzare il capo dal libro.
«Sicuro? Potrai studiare domani.»
Lui mi guardò con gli occhi venati di rosso e respirò quasi strozzandosi con la sua stessa saliva. Fece due o tre colpi di tosse, poi parlò, ostinandosi a non alzare gli occhi dalla pagina.
«Per quanto mi riguarda, non so se domani sarò ancora qui». Fu una risposta che sinceramente non mi aspettavo. Il cuore fece un balzo e prese a dolere, lo stomaco a contorcersi e a provocarmi i soliti sensi di nausea, mentre la mano sulla maniglia tremava, come anche la mia voce quando si decise a parlare.
«Vuoi andartene?»
«E’ la migliore cosa da fare,» rispose lui piuttosto composto, la schiena e il collo dritti, ma io lo sapevo che erano tesi, la bocca che si muoveva pronunciando le parole come quando si recita una parte in uno spettacolo teatrale scadente. Come se si fosse studiato quel copione da un po’ e adesso fosse arrivato il momento del debutto. Sì, era teso e nervoso proprio come un attore alle prime armi. Quello che non aveva ancora imparato era che, quando si parla al pubblico, bisogna fronteggiarlo, con le spalle e il busto rivolti ad esso. Era davvero un principiante.
Mentre me lo ripetevo per evitare di deprimermi, chiusi nuovamente la porta e uscii si casa in fretta, quasi per permettere all’aria fredda di congelare le lacrime che pizzicavano ai lati degli occhi.
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Arrivai al bancone del locale di Giusy trascinando i piedi quasi fossi stremato da giorni di sonno che per qualche misterioso motivo mi era stato negato. Quel misterioso motivo aveva due dannatissimi occhi che sembravano riflettere il cielo sereno e un profumo che ti entrava nelle vene alla stregua della droga, e come tale ti rendeva dipendente.
Quando mi poggiai con entrambe le braccia al bancone quasi fosse l’unico appiglio presente al mondo e io stessi per cadere da un momento all’altro, pensai di essere talmente depresso da emanare un alone viola e nero.
«Andre! Buonasera!» salutò Giusy nonostante avesse ben notato che avevo le braccia incrociate sul bancone e la testa affondata tra di esse, come un vecchio che si addormenta sul tavolo dopo pranzo, o un bambino che è costretto dalla maestra a mettersi in quella posizione per punizione, o un liceale che prende sonno durante matematica. Alzai lentamente la testa, con lo sguardo spossato e, molto probabilmente, alquanto spaventoso. «Ma…che brutta cera che hai,» fece quando s’accorse del mio colorito molto vicino al grigio zombie.
«Dov’è Giulio?» chiesi senza ribattere alle sue costatazioni alquanto ovvie, la voce piagnucolosa.
«L’ho visto uscire sul retro poco fa. Dev’essere andato a fumare,» fece lei perplessa e col capo inclinato di lato.
«Ah…Grazie,» ringraziai flebilmente, poi mi alzai senza aggiungere altro e mi trascinai di nuovo fuori, ma sul retro, non lontano dai bagni. Avevo sempre timore di avventurarmi nel retro dei locali, perché era sempre lì che succedevano le cose più spiacevoli –scippi, risse, stupri, uccisioni, sesso all’aperto, droghe consumate illegalmente, ubriachi che si minacciano con bottiglie rotte e che fanno pipì contro il muro-, almeno nei film. E io forse sprecavo troppo tempo della mia vita a vedere film del genere. Mi preparai ad assistere a qualche scena di cui, in qualunque caso, non avrei dovuto essere testimone, ma lì fuori  era ben illuminato da un neon bianco sopra la mia testa e non c’era poi tanta gente, solo un ragazzone dallo sguardo dolce e un paio di jeans larghi e sbiaditi che parlava imbarazzato a due damerini tutti in tiro, uno bassino coi capelli ricci e la birra in mano, l’altro con la chioma castana laccata, gli occhi chiari e in mano un drink fosforescente. E poi contro il muro nella penombra si riconosceva Giulio che fumava e intanto parlocchiava animatamente con un tizio dai capelli lunghi.
Mi avvicinai schiarendomi la gola e sentendomi tremendamente fuori posto, ma fortunatamente, quando Giulio si girò e mi riconobbe, mi salutò con un sorriso.
«Ehi, latin lover. Che ci fai qui?» mi chiese, una punta di curiosità nella sua voce. Notai che i capelli gli erano ricresciuti in fretta, era quasi impressionante che il ciuffo nero fosse già arrivato a metà della sua fronte. Inoltre, non aveva gli occhiali sul naso: probabilmente portava le lenti a contatto, o magari ci si era seduto sopra e adesso era costretto a girare senza vedere un tubo.
«Vorrei parlarti,» gli dissi, mani in tasca, occhi che fuggivano timorosi dal tizio alto coi capelli lunghi. Giulio si voltò verso quest’ultimo e,
«Ti dispiace?» gli chiese. Quello scosse il capo e intanto buttò fuori una nuvola di fumo, e dall’odore mi accorsi che non era una sigaretta normale. «Dimmi pure. Problemi col tuo coinquilino?» domandò Giulio arrivando subito al punto, una volta che ci fummo spostati un po’ più in là. Lo guardai sempre più sorpreso.
«Come fai a…
«Respiro corto e affannoso, tipico delle ansie amorose,» si affrettò a dirmi, interrompendomi. M’ero scordato di quanto riusciva a leggermi dentro semplicemente guardandomi in faccia o ascoltando il modo in cui respiravo. Mi arresi da subito, ché sapevo di non potergli nascondere nulla.
«Beh, hai indovinato. Vedi, è successo che…» e gli raccontai ogni cosa senza scendere troppo nei particolari: gli parlai velocemente della situazione familiare di Valerio, di come mi faceva trovare sempre il pranzo e la cena pronti, di come facesse la spesa e si occupasse di tutto ancor prima che io riuscissi ad accorgermi che la dispensa si stava svuotando o che il latte era quasi finito. Poi gli raccontai del primo bacio, della presa di coscienza, del mio tentativo di stupro –al che lui commentò: “Non ti biasimo”- e al repentino cambiamento del suo atteggiamento. Gli chiesi allora, seppur con voce inesistente e una vergogna che mi faceva formicolare la base del collo –perché mi ero ripromesso che non sarei mai andato a parlare dei miei fatti personali con quello lì- consigli su come comportarmi, dato che quella situazione sembrava ferirmi da dentro.
«Lui vuole solo una conferma. Dopo tutto quello che ha passato, è normale che non voglia soffrire ancora, anche se questo significa rinunciare alla persona a cui tiene di più.» iniziò quello, per poi prendere un tiro dalla sigaretta quasi completamente consumata. «Probabilmente, pensa che proverebbe meno dolore ad allontanarsi da te adesso che non avete ancora un legame stabile. Quindi ti ha posto questa condizione: o stiamo insieme per sempre felici e contenti, oppure faccio che andarmene, così tagliamo i ponti in modo netto e ti dimentico da subito. In poche parole, la scelta sta a te. Ma stai sicuro che non se ne andrà così facilmente: se l’hai visto piangere, vuol dire che è troppo affezionato per farlo. Non crucciarti più di tanto, perché vedrai che domani sarà ancora a casa e che sfrutterà qualsiasi occasione per rimanere,» concluse regalandomi una pacca sulla spalla, e nello stesso momento lasciò cadere il mozzicone con nonchalance per poi pestarlo con la punta del piede. Io seguii il suo discorso senza fare una piega, e dovetti dare per buona ogni sua parola, visto che sinceramente non sapevo che altro fare. A questo punto io, piuttosto che lasciarlo andare e tornare a vivere senza la sua presenza intossicante e allo stesso tempo quasi benefica, gli avrei promesso di tenerlo con me per sempre. Anche se sapevo che il per sempre non esiste. Ma sapevo anche che senza di lui non avrei vissuto, perché quando pensavo di “vivere” per inerzia, in realtà esistevo e basta, nessuna forte emozione che riuscisse a colpirmi, nessun sentimento particolare che mi si radicasse nel cervello e nell’anima, nessun buon motivo per alzarmi la mattina con entusiasmo. Invece a volte capitava che aprivo gli occhi sedotto dall’odore del caffè, e quando arrivavo in cucina ciabattando e trovavo Valerio già al lavoro con tazzine, cucchiaini, fette biscottate e bustine da tè, sorridevo e pensavo valesse la pena vivere. Talvolta credevo di star ancora sognando, e mi pareva un sogno bellissimo, e ridevo tra me, e decisi che per niente al mondo mi sarei negato quella serenità che non provavo da anni.
Il mio flusso di pensieri fu interrotto dallo squillo antiquato del mio cellulare. Mi venne male al cuore quando vidi scritto “Valerio Castelli” sul display.
«E’ lui?» sillabò Giulio, quasi avessi già risposto e non volesse farsi sentire. Annuii, gli diedi la schiena e mi allontanai di qualche passo prima di rispondere.
«P-pronto
«Andrea…»
La sua voce era terribile. Debole, sconsolata, rauca, coi singhiozzi che facevano da sottofondo.
«E’…è successo qualcosa?» chiesi già allarmato, ché sentirlo star male mi procurava sempre una stretta al cuore. Il suo pianto era anche il mio.
«Sì… ma non so come dirtelo,» disse con un tono di voce orribile, quasi facesse fatica a respirare.
«Cosa? Cosa è successo?»
Già stavo pensando agli avvenimenti più disparati: magari Valerio aveva deciso di uscire e s’era dimenticato di chiudere la porta ed era entrato un ladro e aveva fatto piazza pulita. Dio, no. O magari era successo qualcosa a lui, magari l’avevano derubato mentre era per strada o, peggio, molestato, o peggio! Magari il fratello di Laura l’aveva preso a botte. O magari Fabio Martone, per vendicarsi della serata al cinema in cui gli avevo sottratto Valerio, era venuto a spaccarmi le finestre con le pietre. O magari Bruno Castelli s’era accorto che tra me e suo figlio c’era stato qualcosa e tentava di trascinarlo via a forza da casa mia. Avevo i brividi, maledizione.
«Forse non tocca a me dirtelo…» fece Valerio a fatica, perché si interrompeva ogni due parole.
«Dimmelo e basta,» dissi sbrigativo, i denti che martoriavano il pollice.
«Ecco… è appena passato il capo condominio, e…» si interruppe nuovamente, e io picchiettai il piede sull’asfalto. «Ti cercava, pensava di dovertelo dire prima che lo scoprissi da solo…»
«Vuoi sbrigarti a dirmelo, santo cielo?» sbottai, la mano sudata già nei capelli. Valerio si schiarì la voce e disse “Va bene” prima di parlare.
«Qualche ora fa la signora del secondo piano…»
«Rosaria?»
«Sì. E’ morta».
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Lì per lì pensai che Valerio mi stesse giocando un brutto scherzo per vendicarsi di me e di come l’avevo fatto star male o qualcosa del genere. Così gli chiesi più volte se stesse dicendo sul serio, se non mi stesse prendendo in giro, ma l’altro quasi strillò arrabbiato “Ti sembra che potrei scherzare su una questione del genere?!”, perché pensava non mi fidassi di lui. E quello che desideravo era, invece, aver capito male e quindi aver frainteso tutto. Non poteva essere successo, non in quel momento, ci avevo parlato giusto due giorni prima, avevo mangiato la sua torta, le avevo prestato la Bibbia, le avevo parlato di Valerio. Le avevo parlato, Dio santo. Le avevo… le avevo detto “Ci vediamo”.
Ero rimasto lì in silenzio a non voler credere a quel mucchio di stronzate, con Valerio che mi richiamava e che decise poi di stare in silenzio con me, quasi a rispettare il mio sgomento. Sapeva che non avevo ancora messo giù, perché il mio respiro era particolarmente pesante quando trattenevo il pianto. Non avevo da piangere, perché non era niente vero. Era una combutta contro di me, qualcuno mi voleva male e mi stava facendo soffrire a quel modo. Adesso sarei tornato a casa e l’avrei trovata sulla soglia, Rosaria, con la Bibbia in mano, a dirmi che di sera ero ancora più affascinante, poi mi avrebbe ridato il libro con un grosso sorriso tremolante e avrebbe deciso di salire le scale a piedi, perché l’ascensore è per i vecchi. Quel che diceva Valerio non aveva senso.
Chiusi la comunicazione quando mi resi consapevole di essere in torto, e mi sentii come mordere le membra.
«E’ morto qualcuno?» chiese Giulio preoccupato, ma con la totale mancanza di tatto. E, ovviamente, colse nel segno. Annuii e neanche mi girai a guardarlo, figuriamoci se l’avrei salutato. Mi sentivo a pezzi. Non avrei neanche avuto la forza di premere a fondo la frizione.
Giulio non disse niente quando tornai a testa bassa dentro il locale, e Giusy fortunatamente non sembrò vedermi nel momento in cui dovetti passarle davanti per poter uscire dall’altra parte.
Tornai a casa che stavo dieci volte peggio di come ero uscito. Salii le scale e intercettai la figura di Valerio sulla porta, stretto nelle spalle, le braccia conserte quasi avesse un gran freddo, lo sguardo fissato su un punto impreciso davanti a sé. Quando vide che stavo salendo direttamente al secondo piano, si affrettò a seguirmi chiudendosi la porta alle spalle.
Sul pianerottolo vi era un gran caos e un viavai di condomini: la vicina di casa di Rosaria sembrava essere lì da più di un’ora, e per quello s’era messa a parlare con una donna del quarto piano spiegandogli l’intera faccenda seppur con riguardo, e da poco s’era aggiunta alla conversazione per niente felice anche la mia vicina di casa. Per il resto regnava un silenzio luttuoso, tutti guardavano a terra, a un uomo tremava la bocca perché piangeva senza volere che gli altri se ne accorgessero: si teneva la mano nodosa davanti agli occhi e di tanto in tanto sussultava. Mi venne voglia di consolarlo, se non fosse per il fatto che adesso stavo piangendo più vistosamente di lui e magari ero io quello ad aver bisogno di una consolazione. Avevo appena perso una seconda madre.
«L’hanno già portata via». Il capo condominio era comparso accanto a me e adesso mi poggiava la mano sulla spalla in segno di conforto, ché lui sapeva in che rapporto eravamo io e Rosaria: per quello era sceso personalmente ad avvisarmi, per evitare che venissi a saperlo da me in modo troppo brusco. Mi sforzai di reprimere i singhiozzi gutturali, perché facevo già abbastanza compassione con il viso rosso per il pianto. Sentivo le vene sulla fronte pulsare per lo sforzo.
«Come?» riuscii a chiedere, poi mi resi conto della domanda senza senso e riprovai. «Come…Com’è morta?»
«Infarto. L’ha colta mentre era al telefono con la figlia che, preoccupata, è venuta qui di corsa,» disse lui passandosi la mano sulla testa rasata.
«Quindi… l’ha trovata lei?»
«Sì, aveva con sé le chiavi di casa. Ha aperto e l’ha trovata a terra, già morta,» raccontò molto francamente, e a quella verità mi venne solo da piangere più forte. Se io stavo così male, non avrei immaginato la figlia. Guardai in alto per cacciare indietro le lacrime, come ogni volta che mi capitava di dover piangere, chiedendomi se avessero riservato a Rosaria un posto d’onore in Paradiso. Incrociai le braccia contro il petto, e solo in quel momento mi voltai a guardare Valerio, che se n’era stato fino a quel momento accanto a me: aveva il volto inspiegabilmente coperto di lacrime.
«Perché?» chiesi riferendomi al pianto che s’era fatto insieme a me. «Non la conoscevi,» e mi soffiai il naso con un fazzoletto che avevo stropicciato nella giacca.
«E’ per te,» disse lui semplicemente alzando le spalle. Si aggrappò alla manica della mia giacca e mi costrinse a sciogliere le braccia allacciate tra loro per poi abbracciarmi, forse sperando di consolarmi. Io lo strinsi ancora più forte lì sul penultimo scalino e gli passai la mano nei capelli: quel gesto aiutò a rilassarmi un minimo, e ne fui tanto lieto da sospirare piano sulla sua spalla.
«Tu hai passato momenti peggiori e adesso stai cercando di consolare me. Stupido,» gli mormorai senza mai smettere di passargli la mano sui capelli. Ma almeno avevo smesso di tirare su col naso e di parlare a tratti. Senza quel ragazzo lì con me, probabilmente sarei già andato fuori di testa. Stetti aggrappato a lui ancora un po’ a sentirlo respirare a fatica prima di parlare ancora.
«Hai ancora intenzione di andartene e di farmi stare più male di quanto già non stia?»
Lo sentii mentre smetteva del tutto di respirare prima di rispondere.
«Io…non voglio che tu soffra. Ma non voglio soffrire nemmeno io,» disse piano, quasi fosse un segreto da confidare a me e a me soltanto, e dopotutto lo era. Nessuno dei due aveva voglia di soffrire e di far soffrire l’altro, a quanto pareva. La pensavamo allo stesso modo.
«Se resti… ti prometto che non soffrirai,» dissi quindi, tenendolo ancora tra le braccia, tanto che la gente iniziava a pensare che Valerio fosse un parente di Rosaria. Il ragazzo mi diede pacche sulle spalle per farmi smettere di stringere a quel modo.
«V-va bene, però smettila di piangere. Andiamo a casa, è peggio se restiamo qui,» propose, e io non potei fare altro che dargli ragione. Lo seguii giù per le scale dopo aver chiesto al capo condominio di farmi sapere il giorno del funerale non appena ne fosse venuto a conoscenza. Avevo il mal di testa che mi torturava le tempie, il che mi ricordò quanto fosse terribile la sensazione post-pianto. Avevo sicuramente gli occhi rossi e gonfi con due profonde occhiaie che li marcavano. Dovevo essere il peggiore dei mostri.
«Vai a riposare, devi essere distrutto,» Valerio, premuroso fino al midollo, mi carezzò un ciuffo di capelli e mi passò la mano sulla guancia, e sperai non la trovasse umida di lacrime. Annuii ma, prima di ritirarmi in camera, tornai indietro da lui e lo presi un’ultima volta tra le braccia: non avevo pensato ad altro che alla morte quella sera, e in quel momento sentivo la voglia di vivere scorrermi nelle vene. Come linfa vitale.
«Sicuro che domani non sarai sparito?»
Lo sentii sorridere.
«Sì. Non credo che avrei il coraggio di allontanarmi da te,» ammise stringendosi con le mani alla mia schiena. «Penso di averti amato sin dal giorno in cui mi hai salvato la vita. Io ti devo tutto. Non faccio che pensare al fatto che, se non ci fossi stato tu e il tuo istinto da buon samaritano, io quel giorno sarei morto. Non sarei qui a parlarti,» al solo pensiero mi girò la testa. Ne ho già abbastanza di parlare di morti, pensai amaramente. «Ma non è stato così, tu l’hai evitato. E adesso io appartengo a te, completamente. E sento che se provassi a separarmi da te, potrei morirne,» concluse, con particolare verve e coraggio. Ah, sì? Lui mi faceva quei discorsi? Si rendeva conto di essermi entrato dentro e di essersi stanziato dappertutto nel mio corpo? Sentivo battere l’amore ovunque, Cristo santo, ero pazzo d’amore. Lo lasciai andare e lo guardai in faccia dopo avergli spostato un ciuffo di capelli dalla fronte.
«Ascoltami bene: ti amo,» gli ripetei, questa volta con convinzione e fermezza, senza permettermi di tentennare.
«Ma quelle premesse…
«Ne tengo conto, e ho detto che ti amo,» dissi ancora una volta per sottolineare il concetto, e sul suo bel volto s’allargò finalmente un sorriso felice. Lo sentii sussurrare tra sé e sé un “Evviva,” prima di allacciare le braccia al mio collo e stamparmi una ventina di brevi baci sulle labbra, che solo a causa sua sorrisero un po’. Pensai che se fossi nato ai tempi dello Stil Novo e avessi conosciuto questo ragazzo, gli avrei scritto una poesia pensando a lui come a un angelo. «Buonanotte, angelo,» mi scappò quando venne il momento di andare a letto. Lui sembrò apprezzare il soprannome e si allungò a baciarmi la punta del naso.
«Dormi bene. Se non riesci a prendere sonno, chiamami. Verrò a farti qualche carezza,» mi disse quello con una dolcezza del tutto disarmante.
«Per chi mi hai preso? Per un vecchio a cui badare?» gli chiesi con il sopracciglio alzato. Lui scosse la testa con le dita che mi grattavano dietro le orecchie.
«Per il mio uomo,» disse semplicemente, dando per scontato il fatto di doversi prendere cura del suo uomo. Questa volta fui io ad arrossire in modo vergognoso. Gli diedi un ultimo bacio e mi ritirai in camera, mentre lui, a sua detta, restava ancora mezz’oretta a guardare la tv.
Alla fine, quella notte non presi sonno per davvero, ma non mi azzardai a chiamare Valerio, che di certo era già sprofondato in uno dei suoi sonni per niente leggeri. Il peso di aver perso una persona fondamentale come Rosaria era grande, ma in qualche modo sapevo di poter superare quel lutto. Vedevo in tutto quel buio uno spiraglio, una luce che s’allargava di minuto in minuto, e quella luce aveva il nome di Valerio.






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Bene, non so davvero cosa scrivere. Sto ascoltando Tiziano Ferro da ore e credo di avere il cervello un po’ intirizzito. Inoltre, sono le tre e mezza di notte, forse non l’orario adatto a scrivere. Potrei aver fatto degli errori, ma ho letto più volte, spero non ci sia nulla di terribile XD
Ho fatto morire Rosaria perché anche nel 2010 ero amante delle morti e delle lacrime nelle storie, anche se devo dire di essere peggiorata. C’è chi “Mirokia” la definisce con “Ahh, quella che non sa cosa sia un genere che si allontani dall’angst o dal malinconico”, oppure “Ahh, quella che fa morire i protagonisti”, o ancora “Ahh, quella che trasforma i protagonisti delle sue storie in assassini che ammazzano i propri amanti a sangue freddo”. Ecco, no, nel 2010 non ero ancora così drastica, quindi sappiate che Valerio e Andrea NON moriranno. Manderei a quel paese un sacco di capitoli XD Fosse stata una one-shot ci avrei pensato eccome #SadisticTime.
Okay, non ho più niente da dire, se non un grande GRAZIE, come sempre, a tutti coloro che continuano seguirmi. Grazie per le 49 recensioni, per le 10 persone che hanno messo la storia nei preferiti, le 5 che l’hanno messa nelle ricordate e le 41 nelle seguite. Fenchiu :)

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Mirokia

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Capitolo 15
*** Capitolo quindicesimo ***


Cap. 15



 

 

 







Due giorni dopo mi comunicarono la data del funerale di Rosaria, che si sarebbe tenuto quella domenica. Per quella volta mi presi un giorno di permesso, e fino alla data prestabilita Valerio le provò tutte per tirarmi su di morale, o per lo meno per distrarmi. Non cenammo una sola sera di quelle a casa. Mi disse che “Ti sarai stufato ormai della roba che ti preparo io” e, quando stavo per ribattere che non era affatto vero, che la sua cucina sarebbe sempre stata una novità per me, mi anticipò dicendo con decisione che saremmo andati a mangiare da qualche parte fuori.
La prima volta ero titubante: insomma, non ero mai uscito con lui in una cenetta romantica, e avevo davvero il timore di quello che avrebbe potuto pensare la gente, vedendoci seduti uno di fronte all’altro in modo così complice. Ma lui sembrò aver già previsto un mio possibile disagio o imbarazzo e, quando entrammo nel locale che aveva scelto per primo, lo guardai con un misto di ammirazione e rimprovero. Sì, rimprovero, perché non avevo idea di dove fossimo finiti.
«Ok… Dove mi trovo?» chiesi non appena oltrepassammo le porte del locale, ma l’altro non fece in tempo a rispondermi che una tizia dai tratti decisamente orientali e dal tipico abito giapponese mi si piazzò davanti iniziando a fare brevi e riverenti inchini.
«…Perché questa si sta inchinando?» bisbigliai al mio coinquilino, e quello rideva sotto i baffi.
«Plego, qui sedele attolno a lullo,» ci fece la donna indicandoci due dei tanti posti ancora disponibili attorno a un grosso rullo su cui non facevano che passare piccoli piattini colorati contenenti cibi strani.
«Che diavolo ha detto?!» sbottai quando presi posto e Valerio s’accomodò accanto a me trattenendo le risate.
«Di sederci attorno al rullo,» disse quello, con la faccia di uno che la sapeva lunga e stava parlando con un ritardato. «E’ un locale giapponese, nel caso tu non l’avessi capito,» aggiunse congiungendo le mani. Mi doveva aver portato lì proprio perché in quel modo non saremmo stati seduti l’uno di fronte all’altro in un tavolo a parte come le coppiette appena sposate.
«Non sono ancora così stupido,» ribattei guardandolo di sottecchi, e neanche riuscii a finire di dire la frase, che tra di noi comparve una seconda tizia giapponese, questa volta più piccolina e con un vestito lucido bianco coi fiori rossi.
«Calne alla piastla?» chiese con un sorriso fin troppo largo. Lanciai uno sguardo interrogativo a Valerio, ché avevo capito di nuovo poco e niente, e quello sospirò per poi prendere la parola.
«Sì grazie».
«Pollo, maiale o mista?»
Ehi, questo l’avevo capito.
«Mista, la ringrazio,» fece Valerio tutto composto, e regalò un sorriso bellissimo alla tizia bianca e rossa che quasi mi fece ingelosire. Se ne andò la ragazza e al suo posto comparve un ragazzino dell’età di Valerio che si piegò su di noi con due tubetti in mano, uno rosso e uno verde.
«Salsa dolce o piccante?» chiese veloce come un fulmine.
«Per me dolce,» disse Valerio, e mi diede la parola con un cenno del capo. Lo guardai con tanti di occhi: sì, era dolce per davvero.
«…Dolce anche per me,» e mentre lo dicevo guardavo il mio studente e sorridevo e lo facevo arrossire e poche volte m’ero sentito così soddisfatto di me stesso. Il ragazzo orientale guardò prima me e poi Valerio, si chiese sicuramente cosa ci fosse di sbagliato in noi, ci spremette la salsa in due piccoli contenitori e se ne andò con lo sguardo perplesso.
«Ma cos’è questa roba?» chiesi dando finalmente un’occhiata a quella sottospecie di cibo che mi passava davanti al naso.
«Prendi quello che ti ispira di più,» mi disse Valerio mentre tirava fuori dall’involucro di carta le bacchette cinesi.
«E se non mi ispirasse nulla?»
Lui mi guardò di sottecchi e, sospirando, prese due piattini, uno contenente degli strani spaghetti, e l’altro due cosi allungati che sembravano fritti.
«Tieni: spaghetti di riso e involtini primavera. Inzuppa l’involtino nella salsa dolce,» mi fece, quasi con sufficienza. Lo guardai storto mentre mi porgeva i piatti.
«Scusami se sono un po’ diffidente, eh,» mi lamentai mentre scartavo le mie bacchette.
«Non è che sei diffidente, è che hai troppa paura del cambiamento! Quando ti si presenta una situazione che deraglia dal binario della tua vita, fuggi e ti copri occhi e orecchie. Sii pronto al cambiamento!» esclamò mentre prendeva una specie di frittatina e anche una chela di granchio. Mi ripetei quelle parole in testa prima di ribattere, perché sapevo che non ne potessero esistere di più veritiere: nessuno m’aveva inquadrato così bene come Valerio. A parte Giulio, forse, ma lui non contava.
«Ne sono già cambiate un po’ di cose, nella mia vita,» dissi quindi mentre tentavo di prendere l’involtino sporco di salsa tra le bacchette. Forse avrei anche avuto una risposta, se il ragazzo di prima non si fosse di nuovo frapposto tra noi con uno scatto che quasi mi fece volare giù dalla sedia.
«Ho dimenticato! Cosa volete da bele
«Er… acqua,» fece Valerio, palesemente frastornato dall’ennesima apparizione improvvisa.
«Natulale
«Sì».
«Due?»
«Sì, sì!» sbottai a quel punto, innervosito, e quello si allontanò con la coda tra le gambe, spaventato dal mio gesto improvviso. Sospirai, e mi resi conto che quel tipo nel giro di due secondi sarebbe tornato per darci le bottiglie. E io che contavo di avere qualche minuto di conversazione privata con Valerio. Macché, il locale s’era già riempito, e accanto a me s’era piazzata una nonnetta davvero grossa, mentre dalla parte di Valerio s’era seduto un bambino che faceva un casino indescrivibile.
Ma dovetti ammettere che non fu male. Mi feci risate grosse e sincere, nonostante avessi perso Rosaria qualche giorno prima. Si vedeva che Valerio stava facendo del suo meglio per strapparmi un sorriso –tra cui farsi sporcare il naso di salsa dolce e imboccarmi con le sue stesse bacchette- e pensai che la sua terapia non fosse affatto male, mi sentivo per davvero più leggero.
Allo stesso modo si comportò le due serate seguenti: prima mi portò in un fast food dicendomi che dovevo provare tutti i tipi di cibi che usavano consumare i giovani –ancora devo capire cosa sono esattamente delle patatine “Vertigo”-, poi mi mostrò un luogo non dissimile dallo Starbucks americano, e mi lasciò provare il caffè freddo, mentre lui si prendeva una cioccolata ghiacciata alla menta e un dolcetto che, mi disse, mi avrebbe portato in paradiso. Non gli dissi che era lui quello che mi ci portava, in paradiso. Anche solo con quella faccia sorridente e le labbra macchiate di cioccolato. Il dolcetto faceva abbastanza schifo, ma lui era buono come sempre. Dovetti chiedergli di venire in bagno con me, perché avevo davvero tanta voglia di leccargli via il cioccolato dalle labbra. Era arrossito e mi aveva seguito a testa bassa.
Quella stessa sera, dato che era il giorno prima del funerale di Rosaria, Valerio mi chiese se volessi andare a ballare, per sfogarmi un po’. Gli dissi che no, grazie, ma questo era davvero troppo. Va bene mangiare la roba che si ingurgitano i “giovani”, va bene uscire dai locali puzzolenti di fritto, va bene sopportare il cinese, o giapponese, o quello che era, che ti si presenta alle spalle facendoti venire un coccolone, ma in discoteca non mi piaceva andare manco da giovane. E il pensiero di entrare in una di quelle scatole buie piene di ragazzini e ragazzine dagli ormoni in subbuglio mi metteva su un’ansia non trascurabile.
«Va bene, allora. Non andremo a ballare. Però lascia che ti porti in un posto,» mi disse quindi Valerio tutto sorridente, le mani nelle tasche della giacca e il vapore che gli usciva dalla bocca mentre camminava verso piazza Vittorio. Torino di sera era qualcosa che toglieva il fiato già di suo, figuriamoci se ci passeggiavi con una creatura quale era Valerio. Tanto dolce da non sembrare vera.
«A quest’ora? Sono le undici,» gli feci notare mentre fumavo la mia prima sigaretta della serata.
«E tu vai a dormire alle undici, giusto? Mmh, che noia…» fece quello, e sapeva che con quelle parole mi avrebbe fatto innervosire.
«Ascolta, avevi solo da non sceglierti un vecchio come compagno di giochi,» ribattei scorbutico e quello, in un momento in cui ci ritrovammo soli sulla strada, si allungò e mi diede un morso all’orecchio, facendomi quasi strillare come una femminuccia.
«Ba ba ba, sempre a borbottare. Vecchio caprone,» mi prese in giro, e io arrossii dalla vergogna. Che diavolo di insulto era “vecchio caprone”? «Ma mi piaci comunque, anche se vai a dormire alle undici,» e si accostò nuovamente a me per strofinarmi il naso sulla guancia. Mi guardai intorno imbarazzato, visto che non eravamo poi lontani dalla facoltà di lingue e, chissà per quale motivo, pensavo che potesse esserci della gente che conoscevo lì nei dintorni. O che conosceva me. Fortunatamente, però, il ragazzo non azzardò più un altro dei suoi gesti avventati: semplicemente se ne stava un po’ più avanti di me, quasi a volermi guidare –e in effetti lo stava facendo-, le mani nelle tasche della giacca, l’andatura da ubriaco, se ne andava un po’ a destra e un po’ a sinistra ciondolando, e mi chiesi se lo stesse facendo apposta. Poi però mi ricordai di come Giulio, una di quelle volte in cui avevamo fatto conversazione, mi avesse detto che quando qualcuno è felice cammina in modo strambo. Notai solo in quel momento che pure io procedevo a zig zag senza rendermene conto.
Attraversammo la piazza in questo modo, lui che sembrava saltellare davanti a me, io che, nonostante il lutto ancora fermo nel cuore, non riuscivo a non sorridere tra me e me. Poi arrivammo davanti al ponte che porta alla Gran Madre, e lui si fermò per girarsi e farmi un cenno col capo: con la mano mi fece segno di seguirlo a destra, e già c’era troppa gente strana per i miei gusti. Stranamente, però, nessuno sembrava fare caso a me: erano tutti immersi nelle loro birre o nelle loro grosse sigarette o nelle loro conversazioni o nei loro scleri, e io passavo del tutto inosservato, nonostante fossi, probabilmente, il più grande lì in mezzo.
«Dove stiamo andando?» chiesi a Valerio quando iniziammo a percorrere una strada in discesa che costeggiava il fiume. Ragazze che, non so come facessero, se ne andavano in giro con pantaloncini e collant o calze a rete, altri tizi avevano dei rasta su tutti i capelli e ridevano gutturalmente a causa del troppo alcol ingerito, gente già più normale se ne stava in mezzo alla strada a distribuire volantini con un sorriso. «Dove siamo?» chiesi nuovamente dopo essermi fatto più vicino al ragazzo, visto che ancora non m’aveva risposto.
«Ai Murazzi,» rispose quello con leggerezza e mi fece segno di affiancarlo. Presi distrattamente due volantini che mi porgeva una ragazza dai capelli rosso fuoco, poi evitai un ragazzo pieno di piercing e il cane che portava al guinzaglio.
«Sono questi i Murazzi?!» domandai esterrefatto passando poi lo sguardo sui molteplici locali e stand che occupavano i lati della strada. Le luci colorate e psichedeliche delle mini discoteche spesso si riflettevano sull’asfalto e sopra la gente che ci passava davanti, e la musica diventava quasi assordante quando ti ritrovavi davanti all’entrata.
«Davvero non ci sei mai stato?» chiese Valerio, e voleva sembrare incredulo, ma non lo era, perché ormai m’aveva inquadrato per bene, e sapeva che in un posto del genere non ci avrei mai messo piede. Evitai infatti di rispondere, e lui sorrise, perché si aspettava di certo una reazione simile.
«Non ti piace?» chiese quindi, in mezzo al frastuono.
«Secondo te?» gli feci retoricamente, preso in faccia dalle luci multicolore provenienti dai locali e stordito dalla musica e dall’odore forte di fritto che emanavano gli stand di cibo.
«Almeno hai provato qualcosa di nuovo,» disse Valerio alzando le spalle, e si addentrò ulteriormente nella calca, mentre io gli stavo dietro a fatica.
«Ma scusa, tu frequenti di questi posti assiduamente?» gli domandai quando trovammo tempo per respirare.
«No, quasi mai. Però quando vengo qui non penso più a niente. Mi rilassa quasi».
«E io che pensavo che per rilassarsi bastasse silenzio e tranquillità,» feci ironico, e quello scosse la testa due volte, poi,
«Entriamo qui,» mi ordinò e, afferratomi la mano, mi trascinò subito a destra, tanto velocemente da farmi socchiudere gli occhi. Quando li riaprii per bene, mi ritrovai al buio quasi completo: la stanza piccola e rettangolare era illuminata ai quattro angoli da lampade a luce soffusa, e qualche faretto indicava la presenza di un piccolo bancone bar, alle cui spalle se ne stava un ragazzo tatuato, magro e con un paio di occhiali da vista enormi, e un mini-frigo contenente vari tipi di birra. Nella parete di fronte vi era un’apertura attraverso cui si accedeva a quella che sembrava la pista da ballo: gruppi di ragazzini sembravano scatenarsi a ritmo di musica da discoteca, quella un po’ scadente che ascoltano i giovani, e un dj portava avanti la serata intervenendo di tanto in tanto durante le sessioni musicali. Il fatto che nella stanza adiacente alla pista da ballo si potesse fumare sembrava l’unica cosa buona del locale.
«Vieni,» e quel Valerio prese a tirarmi le dita verso la pista tutta colorata e piena di gente. Lo guardai sinceramente terrorizzato.
«Non vorrai portarmi lì in mezzo,» gli feci minaccioso.
«Da qui sembra tanta gente, ma vedrai che ci sarà un sacco di spazio,» ribatté l’altro senza perdere tempo a guardarmi mentre mi parlava. Tirò ancora finché non fui costretto a piantarla di puntellare i piedi sul pavimento, ché se andavamo avanti in quel modo mi avrebbe spezzato qualche dito.
«Dimmi che non sono l’unico anziano, qui,» piagnucolai quando raggiungemmo la massa di ragazzi –avevamo trovato giusto un grosso buco nell’angolo della stanza.
«Non direi proprio,» disse Valerio divertito indicando con un cenno del capo un vecchio non lontano da noi che si muoveva in modo strambo e completamente fuori ritmo, un paio di occhiali da sole ultramoderni posati sul naso. Mi venne da ridere e quasi sputacchiai in faccia al mio studente.
Solo in quel momento mi accorsi che s’era messo a ballare. La musica non era sensuale, solo assordante e fastidiosa e ripetitiva e senza alcuna melodia, ma Valerio era sexy in maniera preoccupante. Andava a ritmo, sì, ma i suoi movimenti non erano rigidi e sgraziati come quelli di tutti gli altri tamarri presenti in pista: le movenze erano morbide e fluide, gli occhi socchiusi suggerivano quasi la sua maniera di concentrarsi, e per un attimo pensai che stesse dando più attenzione al movimento del proprio corpo che a me. Ma non era così. Quando meno me l’aspettavo, in un momento in cui avevo deciso anche io di ondeggiare in maniera patetica per simulare una sorta di ballo, lui portò una mano dietro alla mia nuca e in quel modo mi trascinò sulla sua bocca. Ed era serio, deciso, adulto, anche dal modo in cui aveva preso a baciarmi: lentamente, in modo snervante, completamente fuori ritmo, la lingua morbida e umida che carezzava sensualmente la mia.
Nessuno ci aveva fatto caso. Nessuno sembrava accorgersi di noi che facevamo sesso con la bocca lì in un angolo più buio della stanza, sotto la musica spacca timpani, le mie mani smaniose che si trattenevano dallo spogliarlo lì davanti a tutti, e nelle membra un senso di libertà che non m’era mai appartenuto, un senso di dinamismo e cambiamento, che tentava in tutti i modi di estinguere quelle fiammelle d’inerzia che ancora mi bruciavano alla base dello stomaco. Appoggiammo le nostre fronti l’una contro l’altra, sorridemmo, lui si azzardò a muovere le labbra secondo le parole della canzone, poi si incollò nuovamente sulla mia bocca già aperta per accoglierlo, e riprendemmo a baciarci come non ci fosse un domani.
E nessuno faceva caso a noi.
Sarei cambiato. Perché ne avevo voglia. Avrei iniziato a vivere, e tutto sembrava avere origine da quel bacio privo di vergogna.





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Credo che sia corto come capitolo, e chiedo scusa :( Ma dato che subito dopo ci sarebbe stato il funerale, mi sembrava un po’ di rovinare l’atmosfera di serenità del capitolo :(
Okay, finalmente sono riuscita a scrivere che tutto si svolge a Torino XD Se vi piace la storia e non siete mai venuti a Torino, fateci un salto e vi farò vedere i luoghi in cui ho ambientato Inerzia lol
Il locale giapponese all’inizio del capitolo si chiama Mishi Mishi, e non penso proprio che esista solo qui HAHA, e io ci vado spesso perché adoro la cultura e il cibo giapponese (anche se lì dentro di giapponese c’è solo il sushi, lol). Ho preso facoltà di lingue, e sto studiando inglese e giapponese <3 Il che non fregherà a nessuno, ma piscia.
Il fast food è il Mc Donald, credo si fosse capito dalle patate Vertigo, che sono quelle arancioni e attorcigliate (cacchio, che lessico poco curato stanotte).
Il bar simile allo Starbucks si chiama “Busters coffee” e ci vendono praticamente le stesse cose, solo che nello Starbucks sono tre volte più buone :)
I Murazzi del Po in teoria è il posto più mal frequentato (si dice? Mi sa di no, ma ciccia) di Torino insieme a Porta Palazzo, ma mi piace andarci, sembra di stare in una grande fiera in cui al posto di bancarelle che vendono braccialetti ci sono piccole discoteche e localetti. E gente strana. E stranieri. Va beh.
Il locale in cui entrano Andrea e Valerio è lo stesso in cui sono entrata io un paio di volte. Gli altri mi sa che non li ho ancora visti. D’altra parte, non ci vado quasi mai ai Murazzi, non è che sono amante della confusione e degli ubriachi <3
Okay, mi dileguo e penso bene a come costruire il prossimo capitolo XD
Sayounara!








Mirokia

 

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Capitolo 16
*** Capitolo sedicesimo ***


Cap. 16

 

 

 

 

 






«Voglio venire con te,» mi disse Valerio con già la giacca sotto il braccio e la voce ferma e decisa. Io lo guardai dopo essermi messo la mia, di giacca, e andai a dargli un buffetto sulla guancia rivolgendogli uno sguardo dolce. Fosse stato per me, non avrei avuto problemi a portarmelo dietro, anzi, sarebbe stato motivo di conforto in una giornata per me tanto funesta: detestavo a morte i funerali, davvero. Ero ben cosciente dell’effetto che facevano su di me, e non avevo intenzione di coinvolgere Valerio nei miei dolori e farlo stare male a sua volta. Così gli consigliai di astenersi e magari di approfittarne per studiacchiare qualcosa.
«Voglio venire,» ripeté con il broncio, e sembrava quasi insistente come quella lontana volta in cui mi chiedeva se volessi che mi facesse qualche favore per sdebitarsi.
«No, tu resti a casa,» gli dissi, ma senza riuscire ad usare un tono duro. Andai in cucina intenzionato a prepararmi un caffè forte prima di uscire, con la speranza che mi aiutasse a tenermi su, ma Valerio mi raggiunse in fretta e mi schiaffeggiò le mani quando vide che le stavo mettendo sulla macchinetta.
«Faccio io,» borbottò senza troppi giri di parole, e abbandonò la giacca sul tavolo per poi farmi il caffè mentre io finivo di abbottonarmi il cappotto e di avvolgermi al collo la sciarpa. Faceva un freddo bestia.
«Grazie…» ringraziai quando il ragazzo mi consegnò la tazzina bollente e la portai alla bocca notando come fosse notevolmente più amara del solito. Sorrisi alla sua espressione arrabbiata a metà. «…amore mio,» conclusi il ringraziamento di poco prima, nonostante il caffè lasciato amaro apposta; i lineamenti del suo volto si raddolcirono all’istante e, se non fosse stato per il fatto che m’ero già buttato in gola in caffè dato che ero di fretta, sono sicuro che me l’avrebbe strappato dalle mani per aggiungerci lo zucchero. Come i bambini. Lo amavo, lo amavo da morire. Ma non mi azzardai a dirlo ad alta voce, ché con quell’”Amore mio” mi ero già esposto troppo. Senza contare che adesso mi vergognavo tantissimo di averlo detto: per la miseria, non avevo mica quindici anni, e non dovevo mica dare il nomignolo sdolcinato al mio amante.
Il mio…amante? Ma in che termini la stavo pensando?!
Lui si accorse della mia espressione che imbarazzata era dir poco e, quando fece per prendermi  la tazzina dalle mani per lasciarla nel lavandino, si soffermò con le sue dita calde sulle mie, e restò a guardarle mentre si carezzavano piano. Poi si decise ad alzare il capo e rifletté i suoi occhi nei miei. Non avrei mai più incrociato degli occhi del genere. Lui sapeva dare luce alle giornate uggiose. Lui era il mio cielo.
Si alzò sulle punte e, mentre sfregava il pollice sulle mie dita leggermente più grosse delle sue, mi lasciò un bacio sul naso.
«Vai, o farai tardi. Io scendo giù al mercato. Abbiamo bisogno di qualcosa?» chiese, così vicino al mio viso che avevo paura di respirargli troppo addosso. Il fatto che sembrassimo marito e moglie, stranamente, non mi dava alcun tipo di fastidio. Perché non mi dava fastidio? Io ero un fastidio unico, nessuno aveva mai avuto il coraggio di metterlo in dubbio.
«Credo che sia finito il pane,» dissi e, automaticamente, l’altro allargò le labbra in un sorriso.
«Rosette?»
Annuii soddisfatto e mi allungai a lasciargli un bacio sulla bocca mentre teneva il capo basso e mi sistemava la sciarpa, la faccia rosa pastello.
«Posso chiederti una cosa?» fece quindi il ragazzo, adesso paonazzo. Lo spronai a parlare con un cenno del capo. «Il tappeto che abbiamo in cucina ti piace?»
Rimasi stupito dalla domanda, ma non lo diedi a vedere e alzai le spalle.
«Mi è indifferente. E’ un acquisto di April».
«Possiamo cambiarlo?  Non riesco ad aspirare via le briciole, e quel colore mi fa passare la voglia di vivere,» disse lanciando uno sguardo di pietà al lungo e stretto tappeto verde muschio. Scoppiai a ridere, e il che fu un bene, perché m’ero alzato col piede sbagliato al pensiero di dover assistere a un funerale.
«Vuoi fare la donna di casa? Mi sta bene. Al mercato ne vendono parecchi,» dissi, e questa volta fui io a baciarlo sul naso, e quello si scostò, forse resosi conto pure lui che eravamo tanto sdolcinati da far venire la nausea. Ci schiarimmo entrambi la gola, poi lui scappò a prendere la giacca e uscì di tutta fretta, mentre io avevo ancora la tazzina vuota in mano.
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Non presi la macchina per andare in chiesa, ché tanto distava dieci minuti a piedi da casa mia. Mi feci tutta la strada con gli occhi incollati all’asfalto e le mani nelle tasche del cappotto, la bocca nascosta nella sciarpa, nei piedi la voglia di girare i tacchi e tornare indietro. Davvero, l’ultimo funerale era stato per me un trauma, e sicuramente avrei avuto qualche dejà vu una volta attraversata la soglia della chiesa.
E pensavo così intensamente ai miei probabili dejà vu che neanche mi accorsi di essere arrivato a destinazione: metà della gente sembrava essere già entrata, ma qualcuno era ancora fuori a cercare di convincere una donna sulla quarantina ad entrare, mentre quella si divincolava come una disperata.
Accanto a me comparve dal nulla mia sorella, che mi cinse le spalle senza parlare e mi guidò, anche lei a testa bassa, verso l’entrata della chiesa, quasi fossi un malato bisognoso di supporto.
La messa fu un disastro: me ne ero stato tre quarti d’ora con la mano davanti alla faccia per evitare che tutti mi vedessero col viso rosso e gonfio, e ci mancò poco che mi incazzassi per il fatto che non riuscivo a trattenere le lacrime. Uscii anche dieci minuti prima della fine, perché il dejà vu di me che mi vomitavo sui piedi era talmente vivido che m’aveva fatto venir voglia di farlo nuovamente. Simona mi aveva seguito e aveva preso a farmi vento con la mano senza mai parlare, come se potesse servire a qualcosa. E quando la gente iniziò ad uscire appresso alla bara, fu ancora peggio: si buttarono tutti addosso alla figlia per esprimere il loro dispiacere e per dare le condoglianze, mentre quella, che riconobbi come la donna che fuori dalla chiesa si agitava e diceva di non voler entrare, non rispondeva a nessuno e piangeva silenziosamente, il volto completamente bagnato. Io non mi permisi ad avvicinarmi, e mi dissi che, davvero, avrei dovuto smetterla di piangere, ma non feci altro che aumentare l’intensità del pianto e il pulsare sulle mie tempie. Diedi un bacio da lontano alla bara marrone chiaro, poi io per primo dissi a Simona di portarmi a casa, ché lì non ci volevo più stare.
«Dai, asciugati la faccia,» mi incitò quella non appena entrammo in casa e ci fummo chiusi la porta alle spalle. Andai a prendere un pezzo di scottex e mi asciugai gli occhi quasi con stizza, le tempie che sembravano voler esplodere.
«E Michele?» chiesi, per rivolgere l’attenzione a qualcosa che non fosse il fatto che avessi pianto come un poppante.
«L’ho lasciato a Lorenzo. Oggi non aveva niente da fare,» rispose quella sospirando e alzando le spalle.
«Okay, ma io non ti voglio in casa mia,» le dissi, come sempre molto gentile nei suoi confronti.
«Invece dovresti volermi. Questa casa è un disastro,» e indicò con un gesto ampio del braccio il salotto, che a me sembrava perfettamente in ordine. Ma sapevo che maniaca dell’ordine sapeva essere mia sorella, e per lei il “disastro” poteva equivalere anche a un centrotavola con l’angolo spiegazzato o un quadro inclinato o un soprammobile fuori posto. «Adesso ti aiuto a metterla in ordine, così magari mi dai la paghetta».
«Ma te la scordi proprio,» dissi senza troppa enfasi, lo scottex ancora ficcato in un occhio che tentava di assorbire i residui di lacrime. Simona sbuffò infastidita, poi notò qualcosa gettato a caso sul divano.
«E questa cosa sarebbe?» prese l’oggetto con le mani a mo di pinza e lo guardò schifata: era una maglietta stropicciata di Valerio. Mi vergognai tremendamente quando mi resi conto che ero stato io a sfilargliela deliberatamente la sera prima, dopo essere tornati dai Murazzi, mentre lo baciavo su tutta la faccia e il collo credendo di non potermi fermare. Non so con quale incredibile forza di volontà ero riuscito a darmi una regolata.
«E’…mia! Dammi, la metto in lavatrice,» feci tentando di salvare la situazione in extremis, e le strattonai dalle mani l’indumento.
«Mi sembrava un po’ piccola, comunque…» facendo spallucce, l’altra se ne andò in cucina a preparare qualcosa per pranzo.
Quando Valerio tornò, fu sorpreso di trovare Simona a casa, ma una delusione non vedere neanche l’ombra di Michele.
«Scusa, ma non potevo certo portarmelo al funerale,» si giustificò Simona quando quello gli chiese notizie del bambino. Continuava a tenere un atteggiamento piuttosto brusco nei suoi confronti, forse perché ancora non aveva capito da dove diavolo era saltato fuori. E dire che erano già passati quasi due mesi. Ma Simona non s’era mai messa in testa di scoprire da dov’è che venisse il ragazzo e per quale motivo soggiornasse in casa mia, fondamentalmente perché non le importava molto di quello che facevo nella mia vita. A malapena parlava con April, e a me diceva che non lo faceva perché i loro caratteri erano del tutto incompatibili, ma io ho sempre saputo che di me e di April non le era mai importato un fico secco. Eravamo identici, io e lei, a parte il fatto che lei era sempre in giro a fare commissioni e non se ne stava un attimo ferma, mentre io amavo fare il sedentario e appiattirmi il culo da qualche parte. Ma sembravamo avere la stessa mentalità, e la cosa era inquietante. O forse non più di tanto: se due fratelli si tolgono pochi anni –o, in questo caso, sono gemelli- e stanno sempre a stretto contatto, uno dei due, talvolta, rimane influenzato dai modi di fare dell’altro. E mi venne spontaneo pensare che era stata lei ad influenzare me: io ero troppo debole per farlo con lei.
Me ne stetti seduto e salutai Valerio con un sorriso tirato, che lui ricambiò non appena si fu assicurato del ritorno in cucina da parte di mia sorella.
«Che te ne pare?» fece tutto contento srotolando il suo acquisto principale e mollando la busta del pane sul tavolo. Guardai il tappeto nuovo con una mano sul mento, ma tanto non lo stavo davvero guardando, perché i miei occhi continuavano a salire sul volto di Valerio che spuntava da sopra il tappeto rosso scuro.
«Bellissimo,» dissi, e ovviamente non mi riferivo al tappeto. Quello poteva essere di qualunque forma o colore: se lo teneva in mano Valerio sarebbe risultato sempre perfetto ai miei occhi.
«Non lo stai neanche guardando,» sospirò lui, che s’era accorto del mio sguardo fisso nel suo che fuggiva. E mi diede le spalle quando poggiò il tappeto sullo schienale di una sedia e si tastò le tasche di giacca e pantaloni per rispondere al cellulare che stava squillando.
«Ah, papà». Suo padre lo chiamava regolarmente ogni due giorni e, a differenza dei primi giorni in cui Valerio gli sbatteva il telefono in faccia o gli chiedeva di lasciarlo in pace o se ne stava zitto o mugugnava “sì” o “no” scocciati, adesso rispondeva in modo garbato, e a volte si degnava anche di raccontargli di quello che faceva durante il giorno, senza mai toccare ovviamente i momenti un po’ meno ordinari passati con me.
«Eh? Oh, sì, va tutto a gonfie vele,» disse mentre guardava la porta della cucina e teneva una mano sul fianco. Ultimamente gli ripeteva a ruota quella frase, e il padre dall’altra parte gongolava contento. «Sì, con gli studi tutto bene. Sì, l’ho imparata, la coreografia. Dobbiamo farne un’altra. No, il saggio è a fine maggio, sta’ tranquillo,» continuò con tono cantilenante, ma per niente nervoso o alterato, poi si fermò ad ascoltare l’ennesima domanda del padre e si voltò verso di me.
«Come vanno i rapporti col mio prof?» ripeté la domanda apposta per farmi sentire, poi disse: «Migliorano di giorno in giorno,» e mi fece un occhiolino, che, normalmente, mi avrebbe dovuto far sprofondare dalla vergogna, ma che non fece altro che provocarmi un leggero sorriso –forse anche perché la testa mi scoppiava troppo per poter anche solo provare a fare altro-. Sentirlo così sereno mi metteva di buon umore e mi aiutava a non pensare alla mancanza di Rosaria, l’unica che riuscisse a farmi sentire a mio agio e a tirare fuori il meglio di me. Sinceramente, mi piaceva il nuovo me. Non provavo più disprezzo per lui: adesso riuscivo a guardarmi allo specchio con dignità e il fatto che non mi sentissi più sporco o amorale  per quello che provavo o che facevo, mi spaventava un po’. E se stessi diventando pazzo senza accorgermene? Mi chiedevo a volte. I pazzi, i maniaci, sono convinti di fare sempre la cosa giusta, e non fanno che sentirsi sempre meglio, quando normalmente ciò che fanno è considerato il risultato di una mente deviata, malata. Io stesso non sapevo dire se fossi sano o malato, o più l’uno che l’altro, o tutti e due allo stesso modo. Non sapevo neanche se fino a quel momento, fino al momento in cui m’ero accorto di provare qualcosa di strano per il ragazzo, fossi stato sano, o se avessi vissuto una vita del tutto malata, ristagnante, inattiva, per niente produttiva, senza scopo. O forse quella svolta improvvisa era da considerare follia e quindi qualcosa che si discostava dalla normalità, o meglio, dalla sanità.
Non ci stavo capendo più niente e, sinceramente, preferivo non pensarci e vivere come veniva, che, d’altronde, era quello che avevo sempre fatto e che sapevo fare meglio. E poi, mi sentivo Svevo a pensarla in quel modo, il che mi metteva ansia.
Andai a prendermi le gocce per il mal di testa dopo aver mangiato qualche grissino giusto per riempirmi un minimo lo stomaco, mentre Valerio finiva di parlare col padre e poi se ne andava in cucina ad apparecchiare e a sistemare il nuovo tappeto lì dove Simona trafficava con pentole e pentolini.
Mangiammo il nostro pasto, io in religioso silenzio, Valerio che rispettava la mia voglia di stare zitto standosene muto a sua volta, Simona che sbuffando faceva zapping, premendo ripetutamente i tasti del telecomando, incapace di trovare un canale che le garbasse. Poi ad una certa si alzò di scatto, col sopracciglio destro che pulsava come era solito fare il mio.
«Questo silenzio è snervante, Gesù. Vado a fumare,» e mollò la forchetta nel piatto vuoto, poi tornò all’entrata per prendere le sigarette dal cappotto e uscì in balcone chiudendosi fuori. A quel punto Valerio allungò il braccio e prese il telecomando: sembrava non stesse aspettando altro. Senza guardarmi e con la faccia seria seria sintonizzò la tv su un canale musicale, e alzai subito il capo quando riconobbi la musica dei Coldplay.
«Sapevo che su Mtv a quest’ora avrebbero fatto la replica di un loro concerto. Stavo solo aspettando l’occasione giusta per cambiare canale,» disse, adesso sorridendo a disagio, non sapendo se gradissi o meno della musica in quel momento, qualunque fosse il cantante, o il gruppo. Non gli dissi che mi diede fastidio, anche perché non era vero. Ma non gli dissi neanche che m’aveva fatto piacere, quel suo gesto. Mi limitai a spingere il suo capo verso le mie labbra e a dargli un bacio sulla fronte. Poi mi misi a canticchiare Viva la vida.
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Il pomeriggio tardi suonò il citofono, e quando dall’altra parte sentii: “Postaaa!” detto da una vocetta piccola e femminile, feci un lamento con la gola e alzai gli occhi al cielo. Aprii e mi andai a buttare sul divano come al solito, mentre Valerio uscì dalla cucina asciugando un bicchiere e si appostò in piedi accanto al divano, come una sottospecie di maggiordomo. Mi venne da ridere.
«Sorpresa!» esclamò la stessa vocetta una volta che Lorenzo, il compagno di mia sorella, fece il suo ingresso con Michele appollaiato su una spalla. Dopo di lui entrarono pure Guido, Sara ed April, e io davvero non avevo idea del motivo per cui stavano oltrepassando la soglia della porta in quel momento. Il mio primo pensiero era stato Simona: li avrà chiamati per non rimanere sola con noi due anime in pena. Invece,
«Sembra che siano venuti a tirarti su di morale,» mi sussurrò in un orecchio Valerio, con ancora il bicchiere in mano e l’altra che copriva la sua bocca e il mio orecchio. «Non sei così solo, dopotutto,» aggiunse, e io mi resi conto di non avergli mai confidato qualcosa del genere. E’ vero, mi sentivo solo, pensavo di esserlo completamente, ma mai l’avevo ammesso a me stesso, quasi mi costasse una fatica incredibile. E se non l’avevo ammesso a me stesso, era ovvio che non potessi averlo ammesso a lui. Ma quello m’aveva capito, mi aveva letto negli occhi, era stato in grado di decifrare i pensieri di cui io avevo paura e che tenevo quindi nascosti in un anfratto buio del cervello. Come facesse, non lo sapevo.
Valerio poggiò il bicchiere e lo straccio sul tavolo, e spalancò le braccia per permettere a Michele di prendere la rincorsa e di buttarsi su di lui.
«Ciao, peste,» lo salutò una volta in piedi, il bambino stretto tra le braccia. April si premurò di non sedersi accanto a me: sapeva che la sua presenza mi infastidiva, e forse era venuta giusto per non sembrare del tutto menefreghista.
«Desiderate un caffè?» chiese Valerio mentre Michele gli si accoccolava sul petto. Non l’avevo mai visto tanto affettuoso, di solito era un bambinetto antipatico e con la parlantina impossibile da smorzare. E invece adesso se ne stava con gli occhi e i pugnetti chiusi e il sorriso sulle labbra, e pure Lorenzo lo guardava col capo inclinato, sicuramente chiedendosi che ne era stato di suo figlio.
«Preparamene tre,» disse Sara con nonchalance, e Valerio rise per finta pensando che scherzasse, ma quella, «Dico sul serio,» fece, e il ragazzo tornò serio di colpo, mentre Guido rideva sotto i baffi e diceva che anche a lui sarebbe andato un caffè.
«Andiamo, ti insegno a prepararlo,» disse Valerio al bambino che adesso aveva lasciato a terra, e lo prese per mano portandolo in cucina. Stavo per alzarmi per prendere per lo meno qualche biscotto per tutta quella gente, quando il citofono squillò di nuovo. Andò ad aprire Simona, come fosse casa sua.
«Ah, ma ci sono già tutti!» fu il primo commento di Giusy quando entrò trascinandosi dietro la massa di capelli gonfi e ricci. Ma non solo quella: dalla nuvola di capelli castani fece capolino quel nano di Giulio, che salutò con la mano e poi provvide a spostarsi il ciuffo non ancora ricresciuto del tutto.
«Posso capire gli altri, ma tu che ci fai qui?» non mi trattenni dal fare quella domanda a Giulio, che si tolse gli occhiali appannati per poterci guardare in faccia.
«L’altra sera te ne sei andato con quella faccia da funerale, è semplicemente umano preoccuparsi, no?» chiese retoricamente, quasi a volermi dire che io non sapevo cosa volesse dire essere umano, e si venne a piazzare proprio accanto a me mentre io, scocciato, guardavo altrove.
Pensai un’altra volta di alzarmi per prendere i biscotti, ma neanche m’ero messo in piedi che Valerio arrivò con i caffè e due tipi di biscotti su un vassoio, quelli bianchi con lo zucchero e quelli neri ripieni di cioccolato. Quando posò il tutto sul tavolino in vetro di fronte al divano, trovai Giulio che lo guardava colmo di ammirazione, le mani congiunte sotto il mento e gli occhi che brillavano. Gli tirai una gomitata piuttosto violenta, e quello prese a tossire, ma tanto avevano tutti gli occhi incollati a Valerio. Che per altro era solo mio, e forse avrei dovuto dirlo a tutti, se volevo che smettessero di guardarlo a quel modo. Pure Michele era ai suoi piedi con la venerazione negli occhi. Ma che avevano tutti?
«Chiudi la bocca, bello,» mi bisbigliò Giulio dopo la gomitata, e solo in quel momento mi accorsi che m’ero fissato anche io su Valerio, per altro con le fauci spalancate. Le serrai facendomi persino male ai denti e tirai un’altra gomitata a Giulio, facendolo ridere dal dolore.
Feci cenno a Valerio di avvicinarsi a me, mentre i miei amici ammiravano il ben di Dio sul vassoio. Solo Sara sembrava disinteressata, e aveva già in mano due dei suoi tre caffè.
«Ci sono anche quelli con le gocce di cioccolato, mi pare…» gli dissi all’orecchio.
«In realtà ne sono rimasti pochi e so che a volte la sera ti fai del latte e ce li inzuppi. Non vorrei che stasera rimanessi a secco,» fece lui in tutta risposta, e Giulio era lì con l’orecchio teso, e di nuovo era nella posizione adorante di prima, tanto commosso che si sarebbe messo a piangere.
«Oh, Valerio, sei perfetto,» mugolò come un emerito cretino. I casi umani, sempre i casi umani. Quello, più che uno psicologo, sembrava un critico di opere d’arte.
«In cosa? Non ho fatto niente,» disse subito quello, e a me veniva voglia di coprire gli occhi di tutti con dello scotch per pacchi. E nel caso di Giulio pure la bocca, che rischiava di sbavare da un momento all’altro.
 «E’ mio!» esclamò Michele adesso appeso alla gamba di Valerio, e a Lorenzo venne da ridere. “Lasciatelo tutti stare, per la miseria”, stavo per mettermi ad urlare, ma forse non era poi il caso: mi avrebbero preso per pazzo. Già. Per pazzo.
Sara sospirò e si prese il terzo caffè, ma prima fece per accendersi una sigaretta interamente bianca.
«, se vuoi fumare fammi il piacere di farlo in balcone,» feci con tono che sembrò sgarbato. Per quanto fossi distratto dalla conversazione tra Giulio e Valerio, con la coda dell’occhio controllavo gli altri presenti. Lei alzò le spalle, poi si mise in piedi e andò verso il balcone con la tazzina in mano.
«Aspetta, vengo con te,» fece April, che sinceramente si sentiva un pesce fuor d’acqua, quasi non ci fosse proprio più spazio per lei nella mia vita. Pure Guido le seguì, ché s’era finalmente comprato un pacchetto di sigarette tutto suo. Simona e Lorenzo chiusero il gruppetto e si chiusero alle spalle pure la porta del balcone, lasciando in salotto pochi superstiti.
«Non fumavi anche tu? Perché non fai il bravo e raggiungi gli altri?» chiesi a Giulio col sopracciglio che mi pulsava, ma il mal di testa che per fortuna aveva  avuto la buona idea di lasciarmi in pace.
«E tu come ti chiami?» fece quello in tutta risposta rivolto a mio nipote, ancora appeso come un koala alla gamba di Valerio. Michele lo guardò male, non rispose, ma alzò gli occhi in direzione del biondo, e quello gli sorrise dicendo  che andava tutto bene, era loro amico, poteva stare tranquillo. Allora il volto di Michele, incredibilmente, si illuminò.
«Lascia stare mio nipote,» tentai di dire, ma quello stava già rispondendo.
«Mi chiamo Michele,» disse con le guanciotte rosse, e sembrò tenero persino a me.
«Ehi, Michele, lo sai cosa fanno tuo zio e il tuo amico Valerio di notte?»
Valerio diventò di un colore simile al viola e a me andò di traverso la saliva: che andava dicendo, quell’infame? Non avevamo ancora fatto nulla, al massimo qualche pomiciata sul divano o distesi sul letto. Che aveva intenzione di dire? Giusy si fece più vicina, estremamente curiosa.
«Cosa? Diventano supereroi e vanno a salvare il mondo?» optò il piccolo, e fui lì per ridere. Doveva vedere Valerio come il suo eroe.
«Proprio così! Sono Batman e Robin,» disse Giulio, e fece un sorriso decisamente inquietante. «Solo che loro non salvano il mondo. Più che altro Batman passa la notte a mettere la Batmobile in garage,» ghignò Giulio, e Valerio tornò viola di colpo, io mi strozzai nuovamente, e Giusy e Michele si misero d’impegno a tentare di decodificare le parole di Giulio.
«Giulio, non dire cazzate, non è ancora successo!» esclamai senza controllarmi, e Valerio fece un singhiozzo.
«Ancora? Questo vuol dire che hai intenzione di farlo succedere, quindi,» mi disse in modo eloquente, e io mi portai due dita agli occhi, mentre Valerio scappava nella stanza accanto, probabilmente per l’imbarazzo. Sembrava dover evaporare da un momento all’altro.
Sospirai e dissi a Michele di dimenticare tutto, ché non era niente vero.
«Beh, vai a casa, dai, è tardi,» dissi a Giulio alzandomi in piedi e facendogli segno con la mano di smammare, ché mi stava dando seriamente fastidio.
«Stavo scherzando. Ve la prendete per nulla,» disse quello adesso serio.
«Sì, io me la sono presa. Lui è solo morto d’imbarazzo,» gli spiegai, e già ero vicino alla porta scorrevole del corridoio per vedere dov’è che s’era andato a nascondere Valerio. Giulio rise e tirò fuori una sigaretta. Parlò mentre rideva e teneva il bastoncino penzolante tra le labbra.
«E’ davvero un tesoro di ragazzo,» disse, poi alzò la mano aperta e con un “Con permesso”, andò a fumare anche lui. Giusy chiamò a sé Michele e provò a parlarci, forse per togliermi l’impiccio del bambino, adesso che volevo andare a cercare Valerio. Probabilmente aveva capito pure lei. E dire che avevo fatto tante storie quando avevo scoperto che il suo locale era gay. Adesso sì, mi veniva voglia di sotterrarmi.
Mi fiondai in corridoio, ma Valerio non era andato per nulla lontano: se ne stava lì, giusto accanto alla porta, al buio e con le spalle al muro.
«Fammi il favore di non ascoltare cosa dice quel tizio,» iniziai dopo essermi posizionato di fronte a lui. Ma quello, incredibilmente, stava sorridendo dietro alla mano racchiusa a pugno davanti alla bocca.
«Scusa, ma l’idea di me e te che facciamo certe cose rischiava di farmi esplodere. Credo che il livello di calore nel mio corpo si sia alzato di almeno il doppio. E non è l’unica cosa che s’è alzata».
Probabilmente ero io quello viola adesso. Abbassai istintivamente lo sguardo sui suoi pantaloni, e quello ridacchiò schiaffeggiandomi piano sulla guancia. «Mi sono nascosto per quel motivo,» rivelò, ed era troppo buio perché potessi vedere la sua espressione: che fosse imbarazzata, divertita, o maliziosa? «Ma tu vai pure. Tornerò quando mi sarà passata,» mi rassicurò poi poggiandomi una mano sulla spalla.
«E quanto tempo pensi di metterci?»
«Non lo so… vado in bagno, tu torna pure di là,» mi disse ridendo a disagio, e adesso che m’abituavo al buio lo vedevo mentre se ne stava con le gambe leggermente piegate all’interno e la mano che s’agitava in aria.
«Quelli si saranno fermati a parlare in balcone,» feci io sbuffando e mettendomi le mani nelle tasche dei jeans.
«Beh, va’ da loro,» Valerio agitò nuovamente la mano, e sembrava quasi se la stesse facendo addosso, per come stringeva le gambe. Ma io persistevo nella mia immobilità: me ne stavo lì fermo a guardare per terra, quasi stessi metabolizzando la mia prossima mossa. Sentii calore su tutta la fronte quando mi venne da dire:
«O potrei aiutarti col tuo…problema… così poi torniamo di là insieme, e Michele evita di strillare,» dissi, tanto velocemente da mangiarmi la metà delle parole. Sentii l’altro trattenere il respiro, e probabilmente i suoi occhi s’allargarono.
«Me l’hai chiesto per…per davvero?» fece incredulo, e di là in salotto mi parve di sentire Michele già piagnucolare l’assenza di Valerio.
«Ma se pensi di poter fare da solo, okay, voglio dire…»
«Facciamo in fretta, vieni,»
E poi lo fece. Mi afferrò dalla manica della maglia rossa e, tutto nervoso, mi trascinò quasi di peso in bagno, quello più piccolo, in fondo al corridoio.
«Oh, Dio. Oh, Dio,» lo sentivo ripetere tra sé mentre mi faceva entrare e chiudeva la porta a chiave dietro di sé. Me ne stetti lì dritto in piedi e aspettai che si voltasse prima di farlo finire con delicatezza contro il termosifone bollente. Probabilmente sarebbe davvero evaporato di lì a poco. Ma era ancora buio, e io proposi di accendere la luce, ma quello diceva che si vergognava e che era meglio stare così, al buio.
«Ma io voglio vederti…» dicevo io, quasi supplichevole. Quello sembrò pensarci, e intanto si sbottonava con lentezza snervante i pantaloni. Pensavo avesse fretta, ma se la prendeva comoda. Iniziai ad agitarmi pure io, non pensavo che l’avrei davvero fatto, che avrei permesso alla mia mano di scendere e posarsi sul rigonfiamento fastidioso tra le sue gambe.
«Non faccio facce molto carine…» mi avvisò lui trattenendo il respiro quando oltrepassai con la mano i pantaloni. Che stavo facendo, Dio. Sperai che mi fermasse, perché io non ero in grado di farlo. Ero troppo debole, non avevo tutto questo autocontrollo.
«Fammi accendere solo quelle dello specchio… non fanno molta luce,» gli assicurai mentre gli respiravo sul viso, e quello fece scorrere una mano dietro al mio collo per poi tirarmi sulle sue labbra e baciarmi alla velocità della luce.
«Okay,» acconsentì, e annuì anche. «Ma spostiamoci dal termosifone, sto andando a fuoco,» disse quindi, ed ero sicuro che avesse il volto completamente coperto di chiazze rosse dovute al caldo, e magari anche a qualcos’altro. Allungai il braccio non impegnato e feci scattare le due lucine sopra lo specchio, così che finalmente potessi guardarlo in faccia. Come pensavo: era rosso come un peperone, e bollente da far preoccupare un medico. Entrambi sobbalzammo quando sentimmo Michele strillare in salotto.
«Esige la tua presenza,» dissi mentre lo aiutavo a spostarsi in un angolo un attimo più fresco: finì con le spalle contro il mio accappatoio blu, e mi parve che lì stesse piuttosto bene.
«E io esigo la tua,» ribatté Valerio, facendomi capire che quel problemino lì si stava ingrandendo, e noi eravamo sempre più di fretta. “Datti una mossa,” intendeva dirmi, anche se non l’avrebbe fatto per nulla al mondo, lo sapevo bene.
«Stai fermo sotto la luce,» dissi quando lo vidi spostarsi col volto in una zona d’ombra creata dalla mia testa. «Ecco, così… sì, così,» mi assicurai di averlo sott’occhio per bene, poi mi convinsi a lasciar scivolare la mano sotto il suo intimo. Un’esplosione di sensazioni forti e travolgenti avvolsero la mia mano e poi il mio braccio e poi il resto del mio corpo in pochi istanti, facendomi rabbrividire quasi avessi freddo. Ma, al contrario, sudavo da quanto caldo avvertivo. Era come quando metti la mano sotto l’acqua bollente e senti i brividi pizzicarti la schiena, molto simili a quelli che ti compaiono sulle braccia quando avverti uno spiffero di vento.
«Oh Dio, oh Dio,» tornò a dire quello nel momento in cui glielo toccai. Glielo stavo carezzando. Ed eravamo anche di fretta, quindi i miei movimenti erano piuttosto frettolosi e insicuri. Non sapevo che stavo facendo. Ma l’espressione sul volto ben illuminato di Valerio non poteva far altro che dare un senso a tutto quello. E giurai che se l’avessi guardata troppo a lungo sarei potuto venire nei pantaloni. Era… non sapevo come descriverlo. Mozzava il fiato.
«Ho detto che non fa…faccio delle belle espressioni, non mi fissare,» mi riprese quello, ma senza durezza nella voce e nello sguardo. La durezza era altrove. Ma che diavolo di battute mi facevo?
«Scusa,» mi limitai a dire, e abbassai lo sguardo sul suo collo scoperto, intenzionato a morderglielo un po’, ma appena quello chiuse gli occhi nella sua estasi personale, tornai a fissare la sua espressione particolarmente erotica: aveva gli occhi stretti e i lati della bocca rivolti all’ingiù, i denti leggermente scoperti, quasi stesse soffrendo. Sembrava essere già vicino.
«Ci sei?» provai a domandargli, e mi sentii un idiota.
«Ancora un attimo… fai più forte…» mi disse lui, e aveva la voce arrochita, e io pensai di poter svenire dal capogiro che m’era venuto tutto d’un colpo. Gli lasciai un attimo il sesso, e andai ad abbassargli maggiormente i pantaloni in modo che potessi muovermi più velocemente. Valerio li fermò a metà coscia tenendoseli con una mano, e io ripresi quello che stavo facendo con più foga, mentre con l’altra mano mi permettevo di tastargli il fondoschiena, stranamente più fresco rispetto al resto del corpo, così bollente da scottare e far male. Poi mi spinsi col capo sul suo collo ancora immacolato e succhiai piano in più punti, facendolo sospirare forte. Aspettai di sentirlo mugolare, ma fui accontentato solo quando mi venne nella mano, e a quel punto si lasciò sfuggire un suono piuttosto rumoroso dalla bocca che entrambi tememmo potesse essere stato sentito persino dal salotto. Per quel motivo ci zittimmo subito dopo, nonostante avessimo il respiro affannoso che lottava per uscire rumorosamente dalla nostra gola. Ma tutto era in ordine, tutto silenzioso, persino il pianto di Michele era cessato. Giusto un lontano brusìo ci suggeriva che il salotto si era ripopolato, ma sperai che Giulio o Giusy si fossero inventati qualcosa riguardo la nostra assenza. Sperai inoltre di non fare alcuna brutta figura tornando in quel momento col mio coinquilino al seguito.
«G-grazie…» riuscì a dire lui, e adesso gli era venuto pure il singhiozzo a causa del respiro trattenuto a lungo. Arrossii, o almeno, sentii il calore invadermi le guance e la fronte. Feci un sorriso, poi mi premurai di lavarmi le mani, e lui prese un pezzo di carta igienica per pulirsi. Imbarazzante. Lo era per davvero. Ed era successo tutto a causa di quell’incosciente di Giulio.
… Forse avrei dovuto ringraziarlo, una volta tornato in salotto.





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E’ più lungo questo capitolo, vero? Vero.
Viva le seghe ;__;
Valerio mogliettina perfettina e che incanta tutti mi piace, non so a voi XD
Grazie ancora a coloro che seguono la storia e la commentalo, love ya :3


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Piccola curiosità: la casa di Andrea è casa mia. Cioè, le stanze in cui immagino succedano tutte queste cose sono le stanze di casa mia XD Di solito immagino altre case in cui sono stata, ma per questa volta è andata così XD


 

 

 


Mirokia



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Capitolo 17
*** Capitolo diciassettesimo ***


Cap. 17

 

 

 

 

 




Tenuto in scacco da un ragazzino.
Scossi la testa e poi la poggiai sul palmo della mano, chiedendomi per l’ennesima volta se davvero valesse la pena giocarmi la reputazione, il lavoro e la famiglia –quella che avevo sparsa un po’ in tutta Italia- per un moccioso di appena vent’anni che era entrato nella mia vita con violenza, portandosi dietro il suo mondo e travolgendo il mio. Pensai che probabilmente ai superstiti della mia famiglia non importava niente di quello che facevo io a Torino: molti di loro, a mio parere, neanche si ricordavano la mia faccia o come mi chiamavo. Mi dissi che quando uno vive per inerzia, è ovvio che resta invisibile e silenzioso agli occhi degli altri, ed è normale dimenticarsi in fretta il suo volto o il suono della sua voce. Ma la cosa non mi preoccupava, non mi aveva mai toccato, e in quel momento mi sembrò un bene non avere molti affetti familiari.
Mandai un pensiero anche a Rosaria, chiedendole mentalmente se ne valesse la pena. Se non fosse il caso che Valerio si trovasse qualcuno di più giovane, con meno responsabilità, di bell’aspetto e che si fa meno seghe mentali. Le chiedevo se fosse il caso di lasciarlo andare, se avrei sentito la sua mancanza, se davvero avevo intenzione di andare fino in fondo con lui. Se ne valesse la pena.
«Ti vanno i biscotti insieme al tè?»
Alzai piano il capo e vidi che Valerio era appena spuntato dalla cucina, le guance inspiegabilmente rosse e gli occhi lucidi.
«Credo che siano finiti…» dissi incerto.
«Ne ho comprati degli altri ieri. Quelli con le gocce al cioccolato. So che sono i tuoi preferiti,» rispose prontamente quello, tanto premuroso da far venire la nausea. Sollevai il lato destro della bocca in un sorriso e scossi la testa, e mi dissi che sì, ne valeva decisamente la pena.
«Che ci fai con uno come me?» chiesi a mia volta, per niente pertinente alla sua, di domanda. Lo vidi agitarsi improvvisamente, tanto che le dita sulla porta scorrevole presero a tremare visibilmente.
«C-che domanda è, scusa?» fece balbettando all’inizio, e io alzai le spalle, quasi trovassi la mia domanda perfettamente legittima.
«Non mi vedi come un povero vecchio incapace di gestire la propria vita?»
Lui sospirò rumorosamente, si grattò la nuca, poi tornò in cucina senza chiudere la porta e parlò mentre trafficava con tazze e cucchiaini.
«Non saprai gestire la tua, ma la mia di certo. Oltre ad avermi salvato la pelle più volte, mi hai accolto in casa e hai lasciato che invadessi i tuoi spazi, anche se più che altro non avevi alternative. Ma, da come ti comportavi all’inizio, non credevo che mi avresti fatto rimanere così a lungo,» concluse, ed entrò in salotto con un vassoio rotondo con su stampata un’immagine di New York notturna che reggeva due tazze di tè fumante, un piattino con i biscotti e un contenitore con lo zucchero di canna.
«Non avevo intenzione di farlo, infatti,» dissi quando posò il tutto sul tavolino in vetro davanti al divano. La tv era sintonizzata, come al solito, su un canale musicale, e adesso mandavano una canzone di Tiziano Ferro. Della serie che io, non guardando mai i telegiornali, non avevo idea di quello che succedeva nel mondo. Come se me ne importasse, in effetti. «Non amo le seccature, e probabilmente tu sei la seccatura più grande con cui abbia mai avuto a che fare,» aggiunsi mentre mi allungavo per aggiungere lo zucchero al tè. Valerio mi guardò rammaricato, ma senza troppi sensi di colpa, e si aggiunse un cucchiaino scarso di zucchero al tè, mentre io ero già al terzo.
«Mi spiace,» disse lui alzando le spalle e guardando in basso. D’altro canto, io sorrisi beffardo e gli lasciai un buffetto sulla guancia, poi mi allungai a baciarlo sotto l’orecchio e mi dissi che dovevo smetterla di lasciarmi trasportare della smania di baciarlo in qualunque momento. «Tuttavia, tu sei l’unica seccatura che abbia mai amato,» gli dissi allora, proprio lì contro l’orecchio, e quando m’allontanai lo vidi mentre si grattava il collo dall’altra parte, forse imbarazzato.
«O-okay, beviamo il tè,» disse nervosamente. Fissò gli occhi sulla bevanda mentre prendeva la tazza e se la portava alle labbra, poi li spostò sullo schermo luminoso della televisione, e i suoi occhi tempestati da luci colorate erano quasi ipnotizzanti. Mi chiesi come sarebbe stato osservarli mentre guardavano dei fuochi d’artificio. O un falò ricco di scintille. O il mare colpito dal sole. O i faretti di una discoteca. E quella bocca che prendeva sorsi di tè, che si stringeva e allargava, si inumidiva e tornava asciutta. Me la immaginai mentre beveva un drink con la cannuccia, mentre dava un morso a un dolce e si sporcava di panna, o mentre se ne stava racchiusa attorno a…
«Che… che c’è?» la sua voce che mi richiamava mi fece rendere conto che lo stavo fissando e, soprattutto, che stavo davvero pensando a…quella cosa. Dio, no, ero un pervertito. Mi chiesi se Rosaria mi avrebbe perdonato anche quel tipo di pensieri.
«Niente,» dissi allungandomi per prendere qualche biscotto e il mio tè. «Guardiamo un film?» proposi poi, a bocca piena, e anche in fretta, quasi a voler coprire con la voce i pensieri del tutto funesti. L’altro annuì e prese il telecomando con un biscotto che gli pendeva dalla bocca. «C’era giusto un film su Premium Steel…» dissi lasciando la frase in sospeso.
«Non sarà un horror, spero!» fece Valerio tutto trafelato, e gli cadde pure il biscotto dalla bocca.
«Ti spaventano? Sul serio?» chiesi ridacchiando.
«C-certo che no,» rispose quello, serio serio, la faccia immersa nella tazza. Io mi trattenni dallo scoppiargli a ridere in faccia.
«Allora non ti dispiacerà se ne guardiamo uno,» gli presi il telecomando dalle mani senza troppe cerimonie e sintonizzai sul canale che desideravo. «Oh, ma guarda, è appena iniziato».
Valerio rientrò sul divano e si chiuse a riccio con le ginocchia contro il petto e la tazza che gli copriva metà faccia. Certo che non aveva paura. Era l’esatto stereotipo della ragazzina spaventata dall’ululare del vento. Lo guardai sogghignando, poi finii di bere il mio tè e posai la tazza per potermi mettere comodo sul divano, con le braccia distese sulla spalliera. Alla prima scena di tensione, vidi Valerio coprirsi gli occhi con la tazza con su stampato un cuore e la scritta “I love London” e sobbalzare leggermente dalle spalle quando succedeva effettivamente qualcosa. Stava impiegando tutta la sua compostezza per farmi credere di non essere terrorizzato, ma ovviamente tutti i suoi sforzi risultavano inutili. Poi ad un certo punto si lasciò sfuggire un: «Ah! Che cazzo era?!» che fece sobbalzare anche me riferito a una creatura pallida apparsa all’improvviso, e il fatto che avesse detto una parolaccia tradiva in pieno la sua -mascherata in modo pessimo- tranquillità. A quel punto sospirai, poi lasciai scivolare il mio braccio sulle sue spalle –al che, sobbalzò nuovamente- e lo trascinai sul mio petto, a stretto contatto col mio cuore. Sembrò calmarsi all’istante quando sentì il calore sulla guancia, e mi avvolse una mano attorno alla vita, così da tenermi più stretto. Non ci volle molto perché presi ad accarezzargli i capelli con movimenti circolari delle dita. Allora lui voltò il viso verso di me e aspettò che mi chinassi leggermente per baciarlo sulla bocca, con passione particolarmente profonda. Di quel film più non ne vedemmo avante.
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La sera dopo ci ritrovammo nella stessa esatta posizione, il suo capo sprofondato nel mio maglione all’altezza dello stomaco, il mio braccio che gli circondava le spalle, l’altra mia mano che carezzava il dorso della sua. Solo che quella volta avevo lasciato che fosse lui a scegliere il film da vedere. Avevamo iniziato col dare un’occhiata a Resident Evil perché lui aveva detto di averci giocato al Nintendo, ma la vista del sangue lo infastidiva, e io sperai che non volesse guardare uno di quei film strappalacrime adatti al pubblico femminile e masochista. Ne era capacissimo, quello lì. Ma, fortunatamente, si fermò su un canale in cui trasmettevano un film storico, una roba tipo Troy che però non era Troy.
«Non ti faceva schifo la vista del sangue?» chiesi quando vidi un moro sguainare la spada e tagliare la gola al nemico senza tante cerimonie.
«Qui non schizza dappertutto. E si vede poco,» rispose quello, che tanto era contraddittorio lo stesso, mordicchiandosi l’unghia del pollice.
«Bah, contento tu».
Poi arrivò la scena di sesso. Sesso spinto, si intende. Sentivo il suo corpo tutto rigido tra le mie braccia, la bocca che non si apriva manco per respirare, e mi immaginai le sue guance tinte di rosso per l’imbarazzo e lo sguardo che puntava a terra, ma che di tanto in tanto schizzava sulla tv, incapace di distoglierlo del tutto. Io riuscivo a tenere gli occhi fermi sul film solo perché mi consolava il fatto che esistesse qualcuno che si imbarazzasse più di me nel vedere una scena spinta passare in televisione, specialmente quando si è in compagnia. Gli diedi una leggera pacca sulla spalla e mi schiarii la voce.
«Hai già… avuto esperienze del…del genere?» chiesi a bruciapelo, riferendomi ovviamente al sesso. Lui fece un suono a bocca chiusa, quasi a volermi dire che si rifiutava di dirmelo. Ma alla fine pure lui si schiarì la voce e mormorò un flebile “Sì”. Che mi aspettavo? D’altronde aveva sempre vent’anni. Io avevo iniziato a fare cose sporche alla tenera età di quattordici anni. Non mi azzardai a chiedergli i particolari –quando l’aveva fatto, con chi, dove, se era un uomo o una donna, in quale contesto, a che velocità e in quanto tempo-, il che lo spinse, in qualche modo, a continuare a parlare di sua spontanea volontà. «Qualche anno fa mi ritenevo… brutto,» si mise a sedere in modo che potesse guardarmi in faccia mentre parlava, e sentivo che stavo per sorbirmi la storia della sua vita. Non che mi dispiacesse, ma il suo tono era piuttosto serio, sembrava che non ne parlasse mai con nessuno. «Pure adesso in realtà, ma prima era qualcosa che non mi faceva dormire la notte. Ero un po’ diverso da adesso, sia caratterialmente che fisicamente: i ragazzi mi prendevano in giro perché dicevano avessi il “fisico di un neonato”, e poi perché portavo i capelli lunghi fino alle spalle e quindi sembravo una femmina,» si toccò inconsapevolmente i capelli e io gli feci capire con un cenno del capo che stavo seguendo il suo racconto. «Inoltre il mio carattere non m’aiutava: ero talmente chiuso e timido che non riuscivo neanche a salutare qualcuno di conosciuto o a rispondere quando la professoressa mi chiedeva se stessi male o meno, visto che spesso ero pallido,» e adesso si tastò la guancia, come non riuscisse a tenere le mani a posto. Segno di nervosismo, mi dissi.  «Mi sentivo a disagio in qualunque situazione, mi vergognavo per tutto, tranne… quando facevo i pompini. Cioè, scusa…» si tappò la bocca con la mano, perché accortosi di essersi lasciato prendere dal racconto e aver pronunciato una parola non proprio adatta alla casa di un insegnante di letteratura. Io storsi la bocca, non tanto per il termine volgaruccio, quanto per il fatto che…Valerio aveva avuto un passato da risucchia-tutto? Ma che diavolo…?
«Non importa,» scossi la testa e sorvolai sulla parola ‘pompino’, ché tanto sarebbe sempre stata la più comoda da usare anche per me.
«Ti sta dando fastidio questo discorso? Me ne vergogno molto e non ne ho mai parlato con nessuno,» disse con una mano sul petto. Io gli dissi che ciò che pensavo di lui non sarebbe mai cambiato, e quello fece un sospiro sollevato prima di continuare.
«Più che altro, lo facevo per sentirmi accettato. In qualche modo, pensare che alla gente piaceva farmi fare quelle cose, mi faceva sentire più carino, quasi bello. A volte mi sporcavano la faccia e mi dicevano “Sei bellissimo così”, anche se non mi baciavano mai sulla bocca, ma a me andava bene così, perché mi dicevano che ero bello, e mi bastava. Penso di aver dato il mio primo bacio ben dopo i pom… i rapporti orali, insomma,» si torse le mani perché stava per ripetere quella parola poco carina e io, pur essendo rimasto parecchio basito dalla rivelazione, tentai di non darlo a vedere e mi grattai il mento.
«A chi l’hai dato?» chiesi quindi, l’inspiegabile gelosia che pungeva dietro il collo.
«Me ne vergogno, ma… a Fabio. E’ stato l’unico che dopo il servizio mi ha bacia-»
«Hai fatto un pomp… servizio orale anche a Martone?!» esclamai, adesso incapace di trattenermi. Immaginare il mezzo teppista in atteggiamenti intimi con Valerio mi faceva ringhiare come un animale.
«Era amico stretto di mio fratello, lo vedevo sempre, e lui voleva assicurarsi che la voce che girava su di me fosse vera. Ma avevo quindici anni. Poi ho cambiato scuola e ho smesso,» si affrettò a dire quando mi vide leggermente agitato.
«Hai smesso perché hai cambiato scuola?»
Scosse la testa, e per rassicurarmi mi poggiò la mano sul ginocchio.
«No, perché ho trovato il fidanzato. E’ stata con lui la prima volta, ma non andò bene. Ci lasciammo dopo un paio di mesi perché secondo lui c’era “troppa differenza d’età”, quando in realtà io avevo sedici anni e lui venti. Ma non mi opposi, perché tanto non lo amavo, volevo solo essere amato. E non ci ero riuscito più di tanto. Ma comunque, dopo il primo fidanzato, iniziai ad avere non pochi corteggiatori, soprattutto l’estate al mare. Effettivamente, solo l’estate riuscivo ad avere delle storie. D’inverno ero impegnato a studiare e non avevo voglia di avere ulteriori pensieri per la testa. Poi è morta mia madre e li ho dovuti avere per forza, i pensieri,» spostò lo sguardo adesso malinconico dal mio e si mise a farlo girovagare per la stanza, poi guardò in basso. «Non molto tempo dopo c’è stata la storia di mio fratello, che mi ha tenuto chiuso in casa e in ospedale per oltre due settimane. A malapena mangiavo e dormivo, ero magro che si vedevano le costole, pallido e con due occhiaie da far invidia agli zombie. Ormai non mi preoccupavo neanche più di apparire brutto o carino,» alzò le spalle e iniziò a fare piccoli cerchi con l’indice sul mio ginocchio, mentre prendeva un respiro e continuava. «Poi mio padre, dopo essersi ripreso dal trauma, ha tentato di ricominciare con altre due donne, ma non penso possa esistere un’altra donna al mondo bella come lo era lei. Dopo la morte di mamma, comunque, l’ho fatta finita con le relazioni: non avevo più l’umore, e poi Fabio mi si era appiccicato, e non lasciava che vedessi neanche Laura, a momenti. Come ti ho già detto, per altro. Quindi, a differenza di tutti i ragazzi della mia età, io non sto in una relazione sentimentale da parecchio tempo,» si interruppe e, dopo avermi rivolto gli occhi trasparenti, si schiaffeggiò in fronte, come se si fosse ricordato improvvisamente qualcosa, ma sapevo che lo stava facendo apposta. Non era bravo a recitare, non lo era per niente. «Ah, ma poi sei arrivato tu a tirarmi via dai binari di un tram! Il destino s’è deciso a farmi un regalo, finalmente,» e si buttò nuovamente col capo sul mio petto, così pesantemente da farmi quasi male. Gli accarezzai i capelli sospirando: adesso che m’aveva rivelato il suo passato, mi sentivo di conoscerlo sin da bambino, e la cosa mi fece sentire legato a lui da un laccio ancora più solido, da un nodo ancora più stretto, e il fatto che si fosse messo a nudo solo con me mi inorgogliva come un bambino che riceve elogi dal padre. Restammo un po’ in silenzio, la sua mano che ancora mi massaggiava il ginocchio, poi dissi qualcosa, come una sorta di conferma.
«Ti senti brutto anche con me?»
«Tu mi trovi bello?» chiese quello divertito, lo sguardo che cercava il mio. Io ridacchiai per quella domanda così diretta e dalla risposta tanto ovvia.
«Vai a chiedere a Giulio cosa ne penso del tuo aspetto,» dissi, visto che m’era capitato più volte di parlare con quel tizio, l’unico con cui potessi sfogare la mia smania amorosa. Lui arrossì mandando giù il groppo in gola e rise nervoso quando mi disse:
«Veramente, mi riferisce già ogni parola che esce dalla tua bocca». Adesso toccò a me arrossire.
«Quell’infame,» borbottai, quasi tra me e me.
«E’ il mio agente segreto. Fa finta di esserti amico, ma in realtà lavora per me,» disse quello ridendo sotto i baffi, e io mi passai una mano sulla faccia.
«Spero non ti abbia detto tutto tutto…» feci allora, le speranze già pronte a sgretolarsi.
«Beh…» iniziò l’altro, e intanto si sollevò dal mio petto e prese un respiro profondo. «Mi ha detto che a volte…ecco… fai pensieri un po’ strani,» disse senza neanche  guardarmi in faccia, e io mi dissi “Lo sapevo!”, con gli occhi che volevano piangere dall’imbarazzo. Intanto mi appuntai in testa di non aprire mai più bocca con quel pettegolo di Giulio. «Oppure sogni strani…» continuò Valerio mentre io deglutivo in modo imbarazzante e rumoroso. «In uno di questi c’ero io che facevo… così,» la mano del ragazzo si spostò lentamente dal ginocchio al cavallo dei miei pantaloni, sostò lì sopra e strinse appena, mentre io spalancavo gli occhi sorpreso, o forse agitato, più che altro.
«Aspetta, non devi…» cercai di dire, la saliva completamente azzerata.
«Lascia fare a me,» disse con tono più fermo, quasi a non voler ammettere repliche. Nella mia testa la voce del buonsenso mi urlava di non lasciarglielo fare, di fermarlo santo cielo, di allontanarlo con la mano quasi stessi scacciando una mosca, perché no, quello era davvero qualcosa di immorale. Va bene che qualche sera prima lo avevo accontentato in bagno, ma era stata una cosa veloce e frettolosa, anche se… beh… incredibilmente eccit-, no dovevo smetterla.
Gli misi una mano sul polso per fermarlo ma, a quel tocco, tornai automaticamente a qualche giorno prima, quando Valerio mi aveva chiesto se poteva tenermi per mano, visto che stavamo tornando a casa dalla scorciatoia buia dietro casa, costeggiando il parco giochi mai frequentato. Glielo avevo lasciato fare e, dopo attimi di silenzio, quello mi aveva chiesto retoricamente:
«Non siamo più semplice studente e insegnante, giusto?»
Io avevo sorriso tra me e me e avevo stretto un po’ di più le sue dita, facendole quindi intrecciare alle mie e dicendomi che tenersi per mano faceva tanto da adolescenti innamorati: era una sensazione che non provavo da anni. Anzi, forse mi era addirittura nuova.
«Sembra di no,» avevo detto con consapevolezza.
«Cosa siamo allora?» aveva domandato ancora, l’altra mano che si scaldava nella tasca della giacca.
«Vuoi dare un nome alla relazione?» avevo chiesto di rimando, e quello aveva annuito, col vapore  leggero che gli fuoriusciva dalla bocca socchiusa.
«Posso considerarmi il tuo… fidanzato?» aveva detto con voce quasi inesistente, l’imbarazzo evidente che traspariva dal volto arrossato non solo a causa del freddo.
«Se ti fa piacere,» avevo risposto, euforico e spaventato come un bambino che sale per la prima volta su una nuova giostra. Una giostra che porta sempre più in alto, incurante delle forti vertigini che procura.
E adesso pensavo al fatto che, beh, i fidanzati, normalmente, fanno di quelle cose. Ma mi sembrava comunque così sbagliato e prematuro, che ero già pronto a bloccare la mano che stava tentando di slacciare cintura e pantaloni. E poi mi sentivo in colpa. Perché lui aveva la faccia da bambino, l’innocenza che, nonostante i vent’anni e il passato da risucchia-tutto, si riusciva ancora a leggere nelle iridi acquose, nei capelli sempre scompigliati, nel contorno delle labbra, sui muscoli ben poco delineati delle braccia, sul petto spoglio, sulle fossette sulle guance e quella piccola sul mento, e sulla pelle ancora morbida, non segnata dal tempo. E sentivo che, se lo stava facendo, era perché voleva dimostrarmi di essere alla mia altezza, di essere abbastanza grande da essere considerato mio pari.
«Valerio,» lo chiamai, e quello alzò il capo verso di me. «Non devi dimostrarmi niente, non farlo,» gli dissi con la mano che adesso gli toccava i capelli, quelle ciocche ormai troppo lunghe che gli ricadevano sugli occhi e davanti al naso e a volte lo facevano starnutire. Quello, contro le mie aspettative, fece un sorriso divertito e scosse la testa.
«Non prendermi per uno sprovveduto. So come funzionano queste cose. Come hai avuto modo di sperimentare, sono un tipo sincero, e se non avessi avuto una voglia spropositata di farlo, non l’avrei mai fatto. Non sono uno che fa le cose per rendersi adulto agli occhi degli altri,» e mentre parlava con una mentalità decisamente da adulto, scivolò giù dal divano e sentii il momento in cui le sue ginocchia urtarono il pavimento. Lo ritrovai quindi inginocchiato accanto alle gambe, mentre tornava ad armeggiare con la cerniera dei miei pantaloni, lo sguardo comunque fisso nel mio. «Ma se sei tu a non volerlo, allora è un altro discorso,» disse poi improvvisamente, quasi il tarlo del dubbio si fosse insinuato nel suo cervello in quel preciso istante.
«N-no, non è quello, cioè…»
Non potevo mentire con la voce che tremolava e i boxer tesi sotto la sua mano grande. Aveva delle mani gigantesche, mi ritrovai a pensare. E calde, bollenti.
«Dipende da quanto te la senti tu. Io lo desidero…tantissimo,» disse quindi, la mano che indugiava sulla patta aperta dei pantaloni, gli occhi quasi supplichevoli che minacciavano di scandagliarmi l’anima. Pensai a quante sfaccettature del suo carattere avrei dovuto portare alla luce prima di poter dire di conoscerlo davvero. Io invece ero così piatto, un personaggio che in uno spettacolo teatrale avrebbe fatto parte della scenografia, mentre lui brillava sotto un riflettore, nel ruolo del protagonista. E in quel frangente avevo anche il coraggio di compatirmi.
«Forse è che… mi vergogno un po’,» snocciolai, e in effetti la vergogna era tanta.
«Di cosa?» sorrise Valerio bonario.
«Insomma… il mio corpo non è più aitante come una volta, potrebbe non soddisfare le tue aspettative da… da giovane, ecco…» ma che diavolo stavo dicendo, mi incartavo da solo. Lui mi guardò con una faccia da “La pianti di dire cazzate?”, poi mi sollevò un lembo della camicia blu e mi posò un leggero bacio sotto l’ombelico.
«Guarda che hai trentacinque anni, non novanta,» quindi avvolse le braccia attorno ai fianchi e mi abbracciò in quella posizione, strusciando la guancia contro il mio povero, poverissimo membro, che se ne stava lì a tentare di resistere ancora un po’. «Mi piaci un sacco!» esclamò poi con quel suo fare genuino, e pensai di essermi acceso come una candelina. Si allontanò dalle mie gambe e tornò un attimo su, mi carezzò il viso e stette a fissarmi per secondi che sembrarono interminabili. Io gli passai una mano dietro al collo e lo guardai a mia volta, sorridendo come una ragazzina che si emoziona per un complimento ricevuto dal ragazzo più figo della scuola.
«Tu devi essere pazzo,» dissi scuotendo leggermente la testa.
«Sì, di te!»
«No, ti prego, risparmiami queste frasi da giornaletti per ragazze!» esclamai, e quello mi rise sulla bocca quando si allungò per baciarmi. E fu allora che lo fece senza preavviso: mentre mi distraeva con un bacio particolarmente audace, fece scivolare la mano dritta dritta nei miei boxer, quasi avesse già calcolato nei minimi particolari il percorso da fare in precedenza. Sobbalzai leggermente, ma non ebbi il coraggio di interrompere il bacio, e avvertii distintamente come quelle dita lunghe e bollenti si chiudevano su di me; il respiro mi si mozzò in quell’istante, mentre la lingua sembrò intorpidita, tanto che per qualche secondo non fui in grado di ricambiare il bacio. Socchiusi gli occhi e mi accorsi che anche i suoi erano mezzi aperti, intenti ad osservare ogni mia piccola reazione. Mosse la mano sulla mia lunghezza nonostante avesse l’impedimento di mutande e pantaloni, e quelle mani erano tanto calde che sarei volentieri entrato in iperventilazione.
«Ti… scandalizzi se ti dico una cosa?» mi chiese quando si separò dalla mia bocca per respirare, il pollice che torturava la punta del mio membro facendomi emettere dei suoni simili a quelli di un uomo agonizzante.
«Di-dipende,» soffiai, rischiando di soffocare con la mia stessa saliva. Ma pensavo che, dopo quello che m’aveva già rivelato, avrebbe potuto dirmi qualunque cosa.
«Io…» iniziò, e si spostò sul mio orecchio, poi, «Desidero succhiartelo tanto da far indolenzire la mascella, far addormentare la lingua e avere la sensazione di soffocare,» mi disse, apparentemente senza pudore, la mano che non si fermava, anzi, aumentava il ritmo. Pensai di essere diventato di un colore simile al viola. Non… che diavolo accadeva alla nuova generazione? Non… non me l’aveva detto davvero, no, non potevo crederci. Ma volevo. Volevo, perché adesso ero eccitato da fare schifo, e se Valerio mi avesse lasciato in quelle condizioni, mi sarei strusciato senza ritegno contro una gamba del tavolo. Come minimo.
«S-s-sei pazzo, Dio mio,» balbettai col sudore che già mi imperlava le tempie. Il mio mondo costruito per inerzia veniva spazzato via da una bomba atomica.
«Scusa, ho esagerato,» mormorò Valerio subito dopo, lo sguardo pentito ma non troppo, la bocca sottile che richiedeva baci a non finire.
«Non sai quello che dici,» feci ad occhi socchiusi, il respiro affannato. Perché aveva da essere così schietto? Perché i giovani non se ne stanno mai al loro posto? Ora non facevo che immaginare il mio studente che me lo succhiava fino allo sfinimento. Non andava bene, oh no. «Lo desidero anche io, Dio,» mi scappò poi, senza neanche rendermene conto. Come se fosse stato il mio corpo e i miei istinti a parlare per me. O i miei pensieri perversi. Lo sguardo piacevolmente sorpreso di Valerio stranamente non mi fece voglia di rimangiarmi le parole appena pronunciate.
Scivolò giù dal divano una seconda volta, questa volta più velocemente, senza mai lasciare che la sua mano si dividesse dal mio sesso che pulsava spaventosamente.
«Aspetta,» fece lui, quando si accorse di avere l’impedimento dei pantaloni. Sollevai con fatica il fondoschiena dal divano quanto bastava perché Valerio potesse sfilarmi i jeans chiari e accartocciarli sulle caviglie insieme ai boxer. Poi scavalcò il tutto e riuscì a posizionarsi davanti alle mie gambe ora spalancate, ché sentivo l’inguine in fiamme e avevo bisogno d’aria. Ma il ragazzo non mi diede tregua, si fiondò su di me come un leone che si fionda sulla sua preda.
Calda. Morbida. Bagnata. Avida. Rumorosa. Quella bocca mi faceva avere le vertigini. Ero sulle montagne russe ancora una volta, sul giro della morte, a testa in giù.
L’atteggiamento di Valerio era quello di uno che sta morendo di fame e gli viene offerto per la prima volta dopo giorni un tozzo di pane. Succhiava con passione, come non ci fosse un domani, quasi fosse la ragione della sua vita. Affondai le dita nella finta pelle del divano, perché no, non volevo venire dopo appena cinque secondi che faceva su e giù con la testa. Non volevo perché era imbarazzante, o molto più probabilmente perché volevo godermi il più a lungo possibile l’espressione estasiata di Valerio, come quella di un inguaribile goloso che ha appena addentato il suo dolce preferito. Se ne stava con gli occhi chiusi e la bocca piena, la mano alla base del mio membro che di tanto in tanto scendeva giù a stringere i testicoli e poi tornava al suo posto, più calda di prima.
Il rumore del risucchio si fece più forte, e Valerio si spinse tanto in avanti che pensai dovesse soffocare da un momento all’altro. Era riuscito a prenderlo tutto in bocca. Interamente. Sfiorava i peli pubici con la punta del naso. Stavo per venire e svenire allo stesso tempo. Probabilmente dopo essere venuto sarei svenuto. Volevo chiamarlo, avvisarlo, perché sentivo che mancava poco, ero già al culmine, in così poco tempo; ma non riuscivo a pronunciare una sola parola, figuriamoci un’intera frase. Non facevo altro che mugolare come un animale in calore e tentare, senza successo, di tenere lo sguardo fisso sull’espressione particolarmente eccitante di Valerio. Dovevo fermarlo: stavo per venire e l’avrei soffocato di certo. Quella non era mica acqua, era materiale viscoso che ti si incolla alla gola, santo cielo! Ma tutto ciò che riuscii a fare fu alzare una mano e piantargliela nei capelli, per poi tentare di allontanargli il capo tirandogli debolmente le ciocche chiare. Non riuscivo a spiccicare parola, e volevo dirgli che, per l’amor del cielo, stavo per svuotarmi nella sua bocca. Ma lui sembrò capire, e tornò su col capo, fino a produrre rumori osceni sulla punta del mio membro, riempita di saliva e solleticata dalla lingua morbida e umida. Poi, il colpo di grazia: tirò su gli occhi luminosi e li puntò nei miei, e lessi in loro il desiderio incontenibile. Non lussuria, non sensualità sporca, solo… desiderio bruciante. Lo vedevo, lo leggevo, lo capivo, lo sentivo scottare sulla pelle.
Riportò lo sguardo sul mio sesso, tirò fuori la lingua e prese a leccare la punta come fosse un gelato. Non aveva intenzione di allontanarsi, stava lì ad aspettare che gli venissi in faccia, e intanto mi torturava dando brevi lappate, ma era bastato quel suo sguardo pieno di tutto il desiderio del mondo a farmi oltrepassare il limite. Emisi un orrendo suono gutturale quando mi travolse l’orgasmo, ma fu un piacere ancora più grande quando vidi il modo in cui travolgeva il volto del mio studente. Quello teneva gli occhi e la bocca socchiusi, l’espressione estasiata, quasi avesse vissuto per anni nella siccità e adesso sentisse sul viso la pioggia dopo tanto tempo. Dello sperma riuscì a colargli lungo il collo, e Valerio lo seguì con un dito, gli occhi ancora socchiusi e il volto sollevato, per poi raccoglierlo e percorrere la strada a ritroso fino al mento, per poi finire sulle labbra. Si tracciò il contorno delle labbra con l’indice sporco, e io non feci altro che fissarlo e deglutire, a occhi e bocca spalancati. Sembrava galleggiare nella sua estasi personale mentre si ripuliva le labbra con la lingua, minuziosamente, per poi fare lo stesso col dito, adesso ad occhi chiusi.
Fu il completo silenzio a farlo tornare alla realtà. Aprì gli occhi acquosi e si ritrovò davanti la mia espressione imbambolata e le mie gambe ancora aperte.
«Ti giuro che è la prima volta,» furono le sue prime parole, dette velocemente, a voce leggermente rauca.
«Che…che cosa?» gli domandai, chiedendomi se davvero quello non fosse un sogno particolarmente realistico. Dio, era successo davvero. Avevo assistito davvero a scene tanto spinte.
«E’ la prima volta che faccio di queste cose… cioè, non sono mai stato così volgare in vita mia, te lo giuro, io…» cercò di dire, e si inceppava nelle parole, e la scena era surreale, visto che aveva la faccia bianca e appiccicosa.
«Sei davvero volgare,» confermai, questa volta quasi a volerlo prendere in giro. «Dovresti guardarti allo specchio,» gli suggerii quindi, e intanto mi coprivo con le mani la mia zona intima, visto che l’euforia del momento stava svanendo a poco a poco e veniva rimpiazzata dalla vergogna.
«Scusa, davvero, io non sono così, non faccio di queste cose, ma con te m’è venuto spontaneo. Io… ti ho desiderato da subito, e ho frenato tante volte il mio istinto di entrare in camera tua e pregarti di farmi tuo per tutta la notte e anche quella successiva e anche quella dopo ancora. Davvero, l’ho desiderato tantissimo, l’ho agognato. Questa è l’unica spiegazione che posso dare al mio comportamento. Perdonami,» parlò in modo veloce e appena comprensibile, piegando il capo in segno di scusa, e credetti di aver visto brillare delle lacrime ai lati dei suoi occhi. Gli ormoni giovanili erano una forza della natura. Un tornado. Un tornado che investiva il mio castello di carte. Gli sollevai il viso dal mento scivoloso, e infatti vidi una lacrima rotolargli sulla guancia sporca dall’occhio destro.
«Fammi ricapitolare: sei giovane, bello, ordinato, bravo in cucina, ottimo babysitter, ottimo ballerino, studente diligente, educato, maturo, una forza d’animo che fa invidia, sai usare il coso per spremere sulle torte e… mi fai avere l’orgasmo migliore della mia vita. Sei perfetto. Hai tutto ciò che uno come me possa desiderare,» dissi, senza neanche pensare, e mi stupii delle mie stesse parole, del mio tono di voce dolce da far venire il voltastomaco. Della marea di complimenti che non m’ero mai sprecato di fare a nessun altro. Lui sorrise, gli zigomi si sollevarono, due buchi andarono a scavare le guance. Poi però sembrò tornare triste,
«Anche fin troppo,» disse guardandosi volontariamente in mezzo alle gambe. «Sono un ragazzo. E anche tu lo sei. Continuerai a volermi bene nonostante questo piccolo particolare?» domandò dopo aver risollevato il volto. Gli sorrisi, una tenerezza infinita che mi riempiva il cuore, il pollice che andò ad asciugargli l’unica lacrima che gli aveva rigato il volto.
«No, non ti vorrò bene. A Michele voglio bene, a Giusy voglio bene, a Guido voglio bene –o forse non più di tanto. A te ti amo,» e me ne fregai della frase italiana grammaticalmente scorretta. Dovevo sottolineare che lui era diverso da tutti gli altri, che lui si distingueva dalla massa, che lui spiccava nella nebbia che aveva sempre composto la mia vita vissuta per inerzia. Lui l’amavo, e questo era tutto. Strofinai il mio naso contro il suo, lo baciai sulle labbra, lo feci ridere.

 


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Credo dovrei cambiare il rating. Mi sa che adesso è rosso D:
Eeee quindi, visto che sono buona e cara, ho scritto un capitolo in cui ci sono loro due e basta, nessun ospite indesiderato, e niente angst. Solo fluff e p0rn <3 Mi stupisco di me stessa D:
Bene, guys - anche se credo che solo girls abbiano il coraggio di leggere questa roba XD -, vado a dormire, ché domani ho un bel mini-test di giapponese che m’attende :D Come se fossi pronta :D


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Capitolo 18
*** Capitolo diciottesimo ***


Cap. 18



 

 

 

 



Dopo l’evento del secolo –almeno per me, visto che non mi ero mai fatto fare un lavoretto tanto coi fiocchi, per altro da parte di un giovanotto-, ricordo che Valerio non riusciva a guardarmi in faccia per la vergogna. In realtà pure io evitavo il più possibile il suo sguardo, ma non lo facevo intenzionalmente: proprio non ero in grado di guardarlo negli occhi senza provare un misto di imbarazzo e vergogna, e quindi gli parlavo osservando la tovaglia o il pavimento o l’orologio a cucù.
Temetti che stesse pensando che volessi ignorarlo per come s’era comportato, e dalle sue espressioni un po’ addolorate capivo che, sì, probabilmente lo stava davvero pensando. Stavo diventando sempre più bravo a decifrare le sue emozioni.
S’era fatto la doccia da poco, e adesso si stava asciugando i capelli col phon, l’accappatoio verde acqua ancora stretto addosso.
«Perché non togli quella cosa bagnata che hai addosso?» gli chiesi quando passai dal bagno e lo vidi farsi aria sui capelli con la testa tra le nuvole. Lui si voltò piano a guardarmi, poi lanciò un’occhiata al proprio accappatoio e divenne rosso come un peperone. «No, cioè… Non adesso, non qui… voglio dire, non in quel senso! Non ti asciugherai mai con quel coso impregnato di acqua!» mi affrettai a dire quando lo vidi arrossire in quel modo, e misi pure le mani sulla difensiva, come se davvero avessi pensato a qualcosa di sconcio. Lui fece come se non avessi detto niente, e tornò con lo sguardo fisso sullo specchio di fronte a lui.
«Ma fa freddo,» ribatté, e si strinse ancora di più nell’accappatoio, e si buttò aria bollente in faccia. In effetti non era poi così caldo in casa, stranamente. Io stesso, seppur in maglioncino, di tanto in tanto mi sfregavo le mani sulle braccia, vittime dei brividi di freddo. Accigliato, andai a controllare la temperatura dei termosifoni e, quando li trovai spenti, mi venne da bestemmiare.
«Possibile che in questo condominio non vada mai bene né l’acqua calda né il riscaldamento?» mi lamentai ad alta voce, e mi diedi dello stupido quando mandai il pensiero a Rosaria che, poverina, doveva sentire freddo. In occasioni come quella –mancanza di riscaldamento o black out temporaneo- salivo su a stare con lei, talvolta portandole una coperta pesante da aggiungere alla sua. Ma Rosaria non c’era, e io dovevo smetterla di pensare il contrario.
Sospirai, e mi costrinsi a smetterla di imprecare al vuoto, perché tanto non sarebbe servito a nulla. E poi, in un’oretta il problema si sarebbe risolto, visto che gli altri condomini, ancora più polemici di me, si sarebbero fiondati all’istante dal capo condominio. Andai in camera di Valerio e presi da sotto il cuscino il suo pigiama, poi mi infilai un attimo in camera mia per tirare fuori una delle mie felpe pesanti: ero intenzionato a darglieli in modo che si vestisse in bagno e non sentisse freddo. Ma quando tornai sulla porta del bagno, Valerio stava già uscendo: aveva appeso l’accappatoio umido e adesso se ne stava sulla soglia in mutande. Lui era… in mutande. Mi resi conto che era la prima volta che lo vedevo tanto scoperto. C’era solo un pezzo di stoffa che non lo rendeva completamente nudo. Ed era, Dio, dolorosamente bell-
«Non avevi detto di avere freddo?!» esclamai troncando bruscamente i miei pensieri poco carini.
«E tu non mi avevi detto di togliere l’accappatoio? Avevo intenzione di fare una corsetta sino in camera, ma mi sei comparso davanti all’improvviso!» ribatté quello, e in effetti aveva i brividi su tutto il corpo, e per poco i denti non gli battevano. Sbuffai senza aggiungere altro e gli misi in mano la roba che gli avevo portato.
«Cambiati e poi vieni a letto,» dissi esortandolo a rientrare in bagno, senza neanche pensarci.
«Vieni…a letto?» ripeté incredulo, ma sicuramente lo ero più io di lui.
«Vai, volevo dire… Vai,» mi corressi, e sembrai patetico in modo imbarazzante. Che mi passava per la testa? O per la lingua? Neppure a April avevo mai detto “Cambiati e poi vieni a letto”. Al massimo un “Andiamo a dormire”.
Valerio si richiuse perplesso in bagno e, mentre anche io mi sistemavo per la notte, lo sentii canticchiare mentre si rivestiva: probabilmente l’imbarazzo non gli impediva di essere il solito Valerio. Quando quello uscì, io mi stavo già infilando sotto le coperte con solo la luce sul comodino accesa, ché il giorno dopo dovevo alzarmi presto, e pure lui, visto che avevamo lezione insieme. Ma non feci in tempo a coricarmi, che sentii il materasso deformarsi dalla parte opposta alla mia e quasi mi prese un colpo: Valerio s’era seduto lì dove soleva sedersi April, e mi dava le spalle, e probabilmente si torceva le mani come faceva spesso.
«Er, che… che cosa desideri?» chiesi timoroso, il capo vicino al cuscino.
«Mi hai detto tu di venire a letto,» fece quello senza voltarsi o anche solo muoversi di un millimetro.
«Ma poi mi sono corretto,» gli feci notare, e forse avevo la voce che tremava un po’. Detto da lui, il verbo “venire” mi comunicava altro. E il pensiero di lui che veniva effettivamente nel mio letto mi offuscava la mente come un gas velenoso.
«Ho i piedi congelati,» se ne uscì lui in tutta risposta stringendosi nelle spalle.
«Beh, metti un paio di calze,» ribattei tentando di sembrare freddo, ma il tono fin troppo acuto della mia voce tradiva il mio nervosismo.
«Non dormo mai con le calze, mi danno fastidio,» disse quello, e adesso faceva dondolare le gambe e teneva le braccia appoggiate al materasso. Non sapevo cos’altro inventarmi ma, ancora prima che potessi pensare a qualcosa, lui se ne uscì con un flebile: «Dormiamo insieme…
Una botta al cuore, forte, fortissima. Dannato ragazzino, mi stava rovinando la vita. Mi avrebbe fatto venire un infarto prima o poi.
«Non lo so, voglio dire… domani dobbiamo alzarci presto, e io non riesco a dormire con te nel letto,» ammisi, per fargli capire che il problema era proprio lui, la sua presenza, il calore del suo corpo che s’avvertiva seppur distante, il suo respiro pacato, il profilo perfetto mentre se ne stava assopito.
«Giuro che non darò fastidio, me ne starò per conto mio,» promise lui, e solo a quel punto si voltò a guardarmi, una mano schiacciata sul petto.
«Non è per quello…» Non mi preoccupava il fatto che lui potesse tenermi sveglio coi suoi movimenti, mi preoccupava proprio lui. Possibile che non lo capisse? Neanche un’ora prima eravamo in salotto, io seduto sul divano con le dita piantate nei capelli di Valerio, che teneva il capo affondato tra le mie gambe. Brividi andarono a stuzzicare l’inguine, e me ne vergognai. «Tu lo sai qual è l’effetto che mi fai ormai… poi, dopo quello che mi hai fatto prima, voglio dire…»
«Ho capito, vado di là,» tagliò corto Valerio, assecondando i miei discorsi instabili, e si alzò permettendo al materasso di distendersi nuovamente. Ma quando fece per andarsene, io, come un povero idiota, come una marionetta i cui fili erano in mano a un ragazzino, mi schiarii la voce per esortarlo a fermarsi per ascoltarmi.
«Se sarai discreto come un fantasma, puoi restare. Ma fammi dormire, per favore,» dissi inciampando nelle mie stesse parole, e mi fiondai sotto le lenzuola, coprendomi fin sull’orecchio e allungando il braccio per spegnere la luce sul comodino. Lo sentii sorridere, e non avevo idea di come riuscissi a sentirlo sorridere. Forse me lo immaginavo, o percepivo il suo sguardo divertito che puntava sulla mia schiena. Si risedette sul mio letto, poi lentamente infilò le gambe sotto le coperte e ringraziai Dio e tutti i santi che stessi morendo di sonno e che, soprattutto, quello avesse addosso il pigiama. Si fosse presentato come appena poco prima, quando l’avevo trovato semi nudo sulla porta del bagno, probabilmente non avrei risposto delle mie azioni. Dio, che vecchio pervertito. Vecchio caprone pervertito.
Ero così impegnato a darmi del vecchio caprone, che mi accorsi solo dopo qualche minuto che il lenzuolo sopra di me tremava impercettibilmente e, allungando l’orecchio, mi resi conto che era Valerio a farlo muovere, mentre batteva furiosamente i denti. Doveva morir di freddo.
«Credo che ti darò ascolto… Ho troppo freddo ai piedi, vado a prendere dei calzini…» disse quando mi voltai nella sua direzione, preoccupato dal movimento delle coperte. Strisciò verso la fine del materasso e io, da bravo coglione che non sa dire di no ai propri istinti, mi allungai ad afferrargli il braccio, anche se tutto quello che riuscii a fare fu lasciargli un pizzicotto.
«Non ce n’è bisogno. Ti ho chiesto di farmi dormire e stai facendo un mucchio di storie! Vieni e stai zitto,» gli feci segno con la mano di tornare verso il centro del letto. Quello non se lo fece ripetere due volte, convinto di avermi fatto arrabbiare, e quando fu abbastanza vicino a me, gli tirai giù il capo nell’incavo della mia spalla, e lo esortai a intrecciare le sue gambe con le mie picchiettandogli coi piedi coperti dai calzini le dita fredde e intirizzite. Come volevasi dimostrare. Non potevo stare lontano da lui, mi risultava impossibile anche solo allontanarlo per un attimo dai miei pensieri. E ogni fibra del mio corpo desiderava il calore della sua pelle, o il gelo che si impossessava dei suoi piedi quando si ostinava a voler dormire senza i calzini. Il mio istinto lo voleva imprigionato tra le mie braccia, e la razionalità gliela stava dando vinta sempre più spesso, sempre più velocemente. E non mi dispiaceva. Ero felice come un bambino mentre sentivo il suo respiro sconnesso contro il mio collo e avvertivo le sue dita fremere contro la mia schiena. Le nostre gambe erano incastrate, aggrovigliate come un gomitolo di lana, il suo naso da signorina strofinava contro la mia mandibola ruvida, le sue dita lunghe stringevano la maglia del pigiama, e io intanto non riuscivo a non lasciargli dei baci sulla fronte e sui capelli profumati di shampoo. Avrei voluto sinceramente rimanere in quella posizione per sempre. Anche se sapevo che il per sempre non esiste.
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Il parcheggio nella piazza accanto all’università era strapieno come sempre, nonostante fosse mattina presto, ma il posteggio in cui solevo parcheggiare, stranamente, era sempre libero. Andavo a mettere la macchina lì ogni giorno, automaticamente, parcheggiando in maniera maniacale, perfettamente nelle strisce, a qualche centimetro dal marciapiede.
Scendemmo ridendo dalla macchina, perché ci stavamo raccontando delle barzellette e le sue, stranamente, le trovavo divertenti.
«Vado avanti da solo come al solito,» disse lui una volta che ebbi tirato fuori la ventiquattrore. Quando veniva a lezione in macchina con me, infatti, si assicurava di non farmi fare la figura di quello che si porta in giro in macchina i propri alunni, e correva davanti a me in modo che non ci vedessero arrivare insieme.
Tutte quelle nostre precauzioni, tuttavia, sembrarono non bastare.
La avvertii subito una strana e pesante atmosfera quando varcai la soglia dell’aula. Valerio se ne stava tranquillamente seduto in fondo all’aula nel suo solito posto, a scherzare con Martone, mentre io avvertivo una tangibile inquietudine nell’aria. Non sapevo se fosse per il tempo atmosferico –sembrava che dovesse piovere di lì a poco- o per il fatto che un paio di miei studenti seduti nelle prime file mi guardavano come se avessero pronta una bomba da scoppiarmi in faccia. Per tutta la lezione sentii tale macigno pesarmi sul cuore, quasi impedirmi di respirare come si deve, e le mie sensazioni non erano poi così infondate, dopotutto. Mancava un quarto d’ora alla fine della lezione e, come ogni volta, avevo intenzione di dedicarlo alle nuove informazioni che sarebbero state caricate sul mio sito personale o alle mail che avevo letto ma a cui non avevo potuto rispondere. Poi dissi:
«Mi dispiace, ma oggi non potrò ricevervi, perché…»
«Ha un appuntamento romantico?»
Era stato un ragazzo in seconda fila a parlare. Aveva la guancia appoggiata al palmo della mano e il sorrisetto schernitore, quasi mi stesse prendendo in giro. No, non quasi. Lo stava facendo davvero. Tentava di mettermi in imbarazzo. E ci stava riuscendo, senza dubbio.
«…Come?» chiesi infatti, stralunato, preso alla sprovvista.
«Non so, dato che l’altra sera l’ho vista cenare al giapponese con una persona speciale, ho pensato che dovesse averci un appuntamento romantico,» disse quello, in modo arrogante, il sorriso ancora ben disegnato in faccia e le braccia ora conserte. Il mio cervello entrò in panico, e non seppi reagire sul momento. Quello che mi venne da fare fu soltanto gettare un’occhiata negli ultimi banchi in alto, e trovai un Valerio pallido e sconvolto, quasi avesse visto un fantasma. Martone guardava prima lui e poi me, sorpreso quanto noi. E sperai davvero che non ne sapesse niente, o gli avrei fatto passare dei guai.
«Pensavo fosse suo parente, ma quando gliel’ho chiesto mi ha detto di no. Certo che, intelligente com’è, avrebbe potuto chiedersi per quale motivo gli stavo facendo una domanda del genere,» continuò il ragazzo nelle prime file, e quando tirai su nuovamente lo sguardo, vidi Valerio mettersi una mano in fronte e poi nei capelli, sicuramente incolpandosi furiosamente. «E poi, sinceramente, non ho mai visto due parenti giocare con la salsa di soia come due piccioncini,» disse ancora quel tizio di cui neanche avevo mai visto la faccia, e io mi portai una mano a grattarmi la corta barba sulle guance. Non sapevo cosa fare, che dire, come comportarmi, se negare, ammettere, fare finta di niente, arrabbiarmi… ero come paralizzato. Ma la mia espressione doveva essere impassibile. Non come quella di Valerio, che sembrava aver visto passargli davanti altri dieci fantasmi.
Ingoiai il groppo in gola e mi schiarii la voce: dovevo dire qualcosa, qualunque cosa. Forse avrei fatto finta di niente.
«Dicevo che non potrò ricevervi perché ho una riunione di consiglio, e…»
«Sta sviando la conversazione?» mi interruppe il ragazzo, e io scossi la testa spazientito.
«Non vi ho detto sin dalla prima lezione di alzare la mano se volete che vi dia la parola?»
«Sì, ma ci ha anche detto che avrebbe risposto ad ogni nostra domanda. Quindi io le chiedo, professore: ha una relazione gay con uno dei ragazzi qui presenti?» chiese, impertinente, la lingua biforcuta come quella di un serpente, mentre insinuava in me il sottile desiderio di commettere un omicidio. Nessuno aveva mai osato trattarmi a quel modo, e adesso che qualcuno aveva trovato una crepa nella mia vita apparentemente perfetta, ne stava approfittando per umiliarmi. Sperai che si rendesse conto dell’affronto che mi stava facendo: mettersi contro un insegnante al primo anno è un suicidio.
«Che le costa ammetterlo? Non le rovinerà mica la carriera,» osò continuare il bastardo, senza pudore, e intanto i due compagni accanto ridacchiavano, e anche metà della classe, mentre l’altra metà si guardava intorno incredula. Un rumore in fondo all’aula distrasse i ragazzi e poi anche me:  Valerio s’era appena alzato e messo in spalla la borsa, e adesso fuggiva a passo svelto dall’aula, incapace di stare a sentire altro. La porta rimase socchiusa, e i ragazzi che attendevano fuori che finisse la lezione, iniziarono ad entrare pensando che avessi terminato.
«…Ci vediamo giovedì,» mi limitai a dire nel microfono, e i ragazzi misero via in fretta quaderni e libri per poi apprestarsi a spintonare per poter uscire, senza evitare ovviamente di parlocchiare riguardo quanto era  appena successo.
«E io che non avevo intenzione di dire il nome. S’è scavato la fossa da solo, quel Valerio,» sentii il ragazzo di poco prima parlare, e lo aveva fatto a voce tanto alta che ero sicuro volesse farmi sentire. Non avevo davvero mai avuto una voglia così sconsiderata di spaccare la faccia a qualcuno. L’umiliazione e la vergogna mi bruciavano alla base dello stomaco. Mi infilai in fretta la giacca, presi la ventiquattrore e mi feci un varco tra gli studenti per poter uscire più in fretta: Valerio era fuggito veloce come la luce, e fuori adesso pioveva, e sicuramente quello s’era messo a correre sotto la pioggia come un disperato tipico dei film di serie B. E il fatto che pensassi a Valerio con la mia carriera in bilico, pronta a cadere e sgretolarsi, era preoccupante. Possibile che non riuscissi a pensare a nient’altro?
Uscii dall’edificio col piccolo ombrello blu alla mano: la pioggia era scrosciante. Immaginavo che avrebbe piovuto in modo tanto violento: le nuvole di quella mattina non avevano promesso niente di meglio. Provai a chiamare Valerio al cellulare, ma sembrava avercelo spento. Borbottai tra me e me quanto quelle svolte improvvise mi dessero fastidio –e dire che all’inizio non desideravo altro che un cambiamento repentino nella mia vita-. Svoltai sotto il porticato e mi permisi di chiudere l’ombrello durante il tratto che conduceva alla piazza dove la mia macchina si stava subendo la pioggia. E lo trovai lì, appoggiato contro il muro accanto al nuovo negozio di fumetti, bagnato come un pulcino, la borsa abbandonata ai piedi, lo sguardo gonfio rivolto a terra. Restai voltato verso la piazza quando gli parlai.
«Andiamo a casa,» mi limitai a dire. Quello alzò le spalle ma non lo sguardo, e lasciò che il capo piegato in avanti permettesse alle gocce d’acqua sui suoi capelli di bagnargli ulteriormente i pantaloni e le scarpe, come se non fossero già zuppi.
«Vai. Io vengo via in pullman,» mormorò con voce rotta dal pianto, e mi si strinse il petto a vederlo stare così.
«Non dire sciocchezze, non hai l’ombrello»
«Io ce l’ho»
Accanto a Valerio fece la sua comparsa Martone, un ombrello rosso che gli pendeva dal polso, lo sguardo duro e severo che cercava il mio. Poi rivolse l’attenzione all’amico adottando un tono di voce morbido e un’espressione apprensiva, la mano che andava a dargli pacche sulla spalla.
«Vale, vieni, torna a casa con me,» gli propose vicino all’orecchio. Quello tirò su col naso e, senza mai distogliere lo sguardo da un punto impreciso del pavimento lucido del porticato, annuì stancamente. Allora Martone lo prese dalle spalle e lo trascinò con sé verso la fermata del pullman, pronto ad aprire l’ombrello. Gli stavo per urlare che non doveva neanche provarci a portarselo a casa sua e che doveva lasciarlo tornare da me, ma c’era troppa gente tra cui alcuni ragazzi del mio corso, e in un nanosecondo quei due sembravano essere spariti sotto la pioggia e la nebbia.
Pessima, pessima giornata. Era davvero una giornata fottutamente pessima. E non mi importava se la suddetta frase non esistesse in italiano: era fottutamente pessima e basta.


 




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L’università mi toglie tempo e ispirazione, quindi è normale che a volte mi ritrovi a fare ritardo con gli aggiornamenti XD Ma è anche vero che non vi ho mai dato un giorno preciso della settimana in cui dico di aggiornare, perciò ho ragione io, BUHAHAHAHAH
Anyway, vi posso dire con certezza equivalente al 70 per cento che i capitoli saranno 22. Quindi in teoria la storia dovrebbe terminare –con mia profonda tristezza- tra quattro capitoli… sempre se non tiro fuori un avvenimento non presente nel quaderno che mi sembra geniale a tal punto da dover per forza allungare la storia. Non si sa mai. Never say never!

Intanto, vi lascio per l’ennesima volta la pagina facebook Mirokia che ho modificato un pochetto (ci ho messo il mio tocco angst <3):
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Capitolo 19
*** Capitolo diciannovesimo ***


Cap. 19

 

 




Valerio non ci tornò più a casa. Stetti ad aspettarlo tutto il giorno, con la pioggia fuori che imperversava, dicendomi che forse tardava ad arrivare perché, dopo l’umiliazione subìta in aula, aveva bisogno di stare un po’ da solo coi propri pensieri. Ma era ormai sera, fuori la pioggia s’era fatta sottile, e di Valerio nessuna traccia. Avevo provato a chiamarlo più volte al telefono, almeno una decina, ma l’avevo trovato sempre spento ed ero stato preoccupato a morte che gli fosse successo qualcosa. Se n’era andato via con Martone, e sapevo bene che cosa era in grado di fare quello lì: non c’era mica da fidarsi. Avrebbe potuto costringerlo a tagliare i ponti con me o a rimanere a casa sua puntandogli un coltello alla gola e gettandogli il cellulare nel cesso. Avrebbe potuto forzarlo a fargli un servizietto orale come ai vecchi tempi e magari gli avrebbe mollato dei ceffoni perché aveva osato smettere di frequentare casa sua.
Mi ero fatto tante di quelle ipotesi che non fecero altro che aumentare la mia ansia. C’era anche da dire che il ragazzo era sotto la mia responsabilità, e in quel momento non avevo idea di dove potesse essersi cacciato, di con chi fosse e cosa stesse facendo. La paura mi inglobò, e il fatto che non fossi mai stato così in ansia per qualcuno mi ricordò quanto effettivamente non potessi fare a meno di Valerio, quanto fossi dipendente da lui, quanto sentissi di non poter respirare se non sapevo di avercelo al sicuro tra le mie braccia. Quanto fossi incontrovertibilmente fottuto. Provai a chiamare un’altra volta all’una di notte, e sarà stata la mia quindicesima chiamata: contai una decina di squilli, poi mi decisi a riattaccare all’undicesimo, quando sentii aprire dall’altra parte e mi misi a sedere dalla mia posizione supina.
Sentii un rumore simile al guaito di un cane, qualcosa come un singhiozzo e un naso che tirava su, e una voce di sottofondo che sussurrava, e diceva:
«Non dirgli così. Fidati, me ne occupo io, non ti devi preoccupare, Vale. Farei qualunque cosa per te, lo sai,» un accento marcato del sud mi indicò quella voce come appartenente a Martone. Sembrava quasi che la conversazione fosse stata aperta per sbaglio, e io me ne stavo in silenzio a captare qualsiasi rumore, ma a quel punto il suono del pianto si fece più vicino, e la voce rotta di Valerio fece la sua comparsa.
«Mi dispiace…» riuscì a dire tra i singhiozzi. Martone gli disse qualcosa come “Me ne occupo io” ripetendolo più volte, quasi a volerlo convincere a chiudere la comunicazione.
«Dove sei?» chiesi allarmato adesso che finalmente avevo avuto modo di sentire la voce di Valerio.
«Da Fabio,» fece quello, e sembrò trafficare con dei fazzoletti.
«Vengo a prenderti?» domandai, e m’ero messo in piedi così in fretta che la testa aveva preso a girarmi vorticosamente. Mi appoggiai al comò come un anziano che fatica a reggersi in piedi.
«No,» rispose lui all’istante, piagnucolando un po’. Pensai che fosse rimasto scosso da quello che era successo quella mattina, e che magari non avesse così voglia di vedere colui che aveva lasciato che l’umiliassero. Mi si strinse il cuore al pensiero.
«Domani mattina allora passo a prenderti,» provai a chiedere indirettamente, speranzoso. Ma quello tirò su col naso e di nuovo disse:
«No»
E allora tornò su il timore che Martone lo stesse costringendo a rimanere a casa sua, con qualche minaccia di cattivo gusto.
«Che ti sta facendo?» chiesi, a bassa voce, col timore che l’oggetto della conversazione stesse ascoltando la telefonata.
«Chi?»
«Il tuo… amico,» e badai bene a pronunciare l’ultima parola ironicamente.
«Mi sta ospitando a casa sua! Che cosa credi che possa farmi? Ti ho già detto che era in fissa con mio fratello, non con me!» esclamò, avendo colto perfettamente l’ironia nella mia voce, e quasi sobbalzai per come il suo tono m’aveva trafitto le orecchie e il cuore.
«Ma…»
«E quel pompino gliel’ho fatto cinque anni fa, non essere così asfissiante!» mise in chiaro, con delle tracce di singhiozzo ancora udibili. Questa volta non aveva evitato di pronunciare la parola incriminata, sembrava averlo fatto apposta. Inoltre, era la prima volta che mi accusava in quel modo, quasi davvero fossi un peso impossibile da reggere. Probabilmente avevo esagerato a fargli una ventina di chiamate e avrei dovuto aspettare che fosse lui a darmi dei segni, quando ne aveva voglia. Ma ero così preoccupato, maledizione… e glielo dissi, quasi volessi lasciar parlare i miei pensieri.
«Ero così… preoccupato,» e il mio tono era sconsolato, forse anche sollevato. Sollevato che non gli fosse successo assolutamente nulla, che stesse bene, che stesse chiuso al caldo in una casa, per quanto il suo accompagnatore non mi andasse a genio.
Ci fu un attimo di silenzio, e per poco non pensai che fosse caduta la linea. Ma poi sentii tirar su col naso e la voce ora morbida di Valerio dirmi:
«…Davvero
Annuii contro il telefono come se mi potesse vedere, e adesso veniva da piangere a me al pensiero del magone che avevo sino a qualche minuto prima all’altezza del cuore.
«Ho avuto una paura folle,» ammisi tastandomi il petto sopra la canottiera.
«Pensavo non volessi più vedermi»
«Perché?»
«Ti ho rovinato la vita!»
«Quale vita? Non avevo nessuna vita prima di te,» mi venne da dire, spontaneamente, e non pensai al fatto che potesse scoppiare  in una crisi isterica solo per quelle mie due frasi. Sembrava infatti che avessi aperto il rubinetto delle lacrime: riprese a piangere e a singhiozzare il doppio di prima, con Martone in sottofondo che gli diceva “Dai, basta,”, il rumore dei capelli contro il cellulare che sembrava quasi un disturbo di linea.
«Valerio? …Valerio?» chiamai per assicurarmi che fosse ancora in ascolto, e quando lo sentii trattenere i singhiozzi per riuscire ad ascoltare ciò che avevo da dire, feci: «Torna a casa,» e a quel punto il cellulare sembrò rimbalzare su un materasso, sentii qualcuno ridacchiare e la comunicazione si interruppe.
Di nuovo, non avevo idea di cosa potesse essere successo, e un po’ ero tornato a preoccuparmi, visto che avevo tentato di richiamare ma il telefono squillava senza ottenere risposta. Tornai in salotto, feci per un po’ avanti e indietro picchiettandomi il cellulare sul mento, quasi fossi perfettamente cosciente di essere in attesa di qualcosa. Uscii in balcone e mi accesi una sigaretta, e solo quando arrivai a metà mi resi conto che fuori pioveva ancora, anche se solo leggermente. E le strade erano deserte, ovviamente, a quell’ora della notte. Persino i ragazzini idioti che si divertivano a spingere le loro amichette sotto la pioggia fumando come dei fighi le sigarette elettroniche se n’erano rimasti a casa.
Avevo appena spento la sigaretta quando mi suonò il citofono e sobbalzai dalla paura, col cuore che prese a battere freneticamente. Poi sorrisi, inconsciamente, perché già ben sapevo chi c’era lì sotto, a pregare di farsi aprire il più presto possibile. Premetti il pulsante di apertura del cancello senza neanche chiedere chi fosse, e aprii la porta lasciando che dell’aria fredda entrasse in casa. Lo sentii correre su per le scale, col rischio di scivolare, e una volta che mi si piantò davanti, completamente bagnato, con gli occhi gonfi e il fiatone, mi saltarono in mente tanti di quei rimproveri. Perché diavolo correvi per le scale? Avresti potuto farti male! Perché non hai fatto più piano? C’è gente che dorme a quest’ora! Perché non ti sei fatto prestare un ombrello? Sei fradicio! Perché sei tornato da solo a quest’ora della notte? Sei pazzo!
Ma tutto quello che riuscii a dire fu:
«Perché ci hai messo tanto?» e gli feci segno di entrare, pazienza se gocciolava per tutta la casa, non me ne poteva importare di meno.
«Scusa se ti ho fatto… arrabbiare. O preoccupare,» mormorò lui, la voce ancora mezza impastata dal pianto. Gli chiusi la porta alle spalle e lui se ne stette fermo all’entrata, come fosse la prima volta che metteva piedi in casa mia e avesse bisogno del permesso per poter camminare liberamente. Me ne stetti pure io lì impalato, davanti a lui, le braccia lungo i fianchi, in attesa che alzasse il capo che teneva ostinatamente rivolto al pavimento. E quando lo fece non ci pensai due volte a prendere ciò che ormai era di mia proprietà e spingermelo sulla bocca, come se fossero mesi che non riuscivamo a vederci. Era passata solo una giornata, una maledettissima giornata, che io avevo trascorso col magone sul petto, e avevo sentito tale mancanza d’aria, di vita. Tutto sembrò tornare ad avere senso quando lui s’abbandonò alla mia stretta e affondò le sue labbra nella mia bocca, coi suoi capelli bagnati che mi strisciavano sulle guance e i vestiti freddi e zuppi che mi si appiccicavano sulle braccia scoperte. Sembrava un bacio sotto la pioggia ma senza la pioggia.
Si appese con le mani al mio collo, e si staccò solo per poter percepire il mio respiro sulla sua pelle, come se col mio soffio potessi purificarlo.
«L’odore del tabacco…» si limitò a sussurrare, gli occhi chiusi mentre respirava sulla mia bocca e mi costringeva piano contro il muro. Si buttò ancora tra le mie labbra aperte e mi baciò caoticamente, facendo scontrare la sua lingua con la mia in modo poco elegante, e in poco tempo si ritrovò a mordermi forte il labbro inferiore, come una belva a digiuno da giorni. In altre situazioni, credo che l’avrei scostato, o l’avrei rimproverato con lo sguardo, o l’avrei tirato via dalla maglietta per avermi fatto quasi sanguinare il labbro, ma quella volta non sentii dolore, solo il piacere sottile che si insinuava nel cervello e gli impediva di ragionare, per poi spingersi in tutto il resto del corpo e gonfiarsi fino a far scottare la pelle nonostante fosse adesso umida di pioggia.
Mi spinsi con la bocca sul suo collo bagnato e non potei fare altro che leccare via le gocce d’acqua e poi passare un’altra volta con solo le labbra per tentare di asciugare le scie che m’ero lasciato dietro. Lui se ne stette col capo alzato e il collo bello dritto e con la mano tra i capelli mi guidava perché non mi perdessi neanche un millimetro della sua pelle ancora fresca di pioggia.
«Scaldami… scaldami professore,»
Probabilmente il vecchio Andrea si sarebbe sentito turbato da quell’appellativo, si sarebbe ricordato che Valerio era un suo studente molto più piccolo di lui e l’avrebbe allontanato con una scusa. Ma il vecchio Andrea stava morendo lentamente e il che, sinceramente, non mi spiaceva. La sua apostrofe mi fece invece sospirare quasi rabbiosamente mentre gli torturavo coi denti il collo privo dei segni della barba, e gliene lasciavo altri, più visibili e di un rosso scuro, che adesso gli tempestavano la pelle sotto la gola.
Non m’ero accorto di avergli tirato giù la maglietta da un braccio mentre lo mordevo, e adesso mi ritrovavo altra sua pelle bagnata e da asciugare, da scaldare, davanti agli occhi. Quindi passai subito a baciargli la spalla appena scoperta, lì nel buio dell’entrata, mentre quello rabbrividiva con quel suo fare adorabile e allo stesso tempo inspiegabilmente provocante, e si permetteva di insinuare una mano sotto alla maglia a maniche corte che indossavo in casa, sfiorandomi la pelle al di sotto e facendomi rabbrividire a mia volta.
«Di’… vuoi farmi impazzire?» gli chiesi col corpo che ansimava tutto, la smania tangibile nell’aria, la mia bocca che cercava altri pezzi di pelle, la mano che gli tirava giù quella dannata manica finché poteva, mentre le sue dita avevano già raggiunto la mia schiena bollente e la marchiavano coi polpastrelli ancora freddi.
«Possiamo farlo,» disse lui, la voce altrettanto rotta dagli ansimi, una delle due mani che scendeva impaziente sul cavallo dei miei inguardabili pantaloni della tuta, pantaloni che rendevano inevitabilmente più diretto il contatto.
«E io… che volevo aspettare…» riuscii a dire, la mano che invece di andare a scostare la sua, gli costrinse il polso ad accarezzarmi la lunghezza al di sopra della stoffa scivolosa.
«Aspettare cosa?» mi chiese lui, giustamente, le labbra che continuavano a scontrarsi alle mie, così come aveva preso a fare il bacino, che spingeva contro la mano che strofinava in mezzo alle mie gambe. Negai impercettibilmente con la testa mentre mi mordeva un’altra volta le labbra.
«Non lo so,» ammisi, in evidente stato confusionale. Sollevò la mano dai miei pantaloni e permise alle due erezioni già rilevanti di strusciare l’una sull’altra, e il fatto che anche lui portasse i pantaloni della tuta –che non erano suoi, doveva averglieli prestati Martone- non aiutò affatto l’autocontrollo che già sembrava aver fatto le valigie. «Possiamo farlo,» affermai quindi, i vapori dell’eccitazione che m’annebbiavano la mente. Valerio emise un suono d’assenso, una specie di risolino acuto proveniente dalla gola, e mi aiutò a togliergli la maglia che aveva appiccicata alla pelle quando tentai nell’impresa. «Possiamo farlo,» ripetei, e forse lo dissi ancora una volta prima di buttarmi sul suo petto ormai nudo, spoglio e chiaro, e sembrò come se la mia bocca stesse facendo l’amore col suo corpo. Mi assicurai di scaldargli la pelle infreddolita con la lingua che cercava smaniosamente i punti più sensibili, trovandoli nei capezzoli già duri a causa dell’umidità e nei fianchi carnosi e intorno all’ombelico. Stavamo stretti lì all’entrata, a malapena c’era lo spazio per inginocchiarsi, ma lo stesso sembravamo convinti a non volerci ancora spostare. Non poggiai le ginocchia per terra ma restai leggermente sollevato quando arrivai a leccargli la zona comprendente l’ombelico, mentre con un pollice sfregavo velocemente un suo capezzolo e con l’altra mano tentavo di abbassargli i pantaloni. Ma anche in quell’occasione lui m’aiutò, ché sembrava impossibile riuscire a spogliarlo con solo una mano. Allora mi prese la mano che gli strattonava i pantaloni della tuta e se la portò sul fianco morbido, mentre lui provvedeva ad abbassarsi l’indumento con entrambe le mani e sospirava quando il suo membro sotto le mutande mi sfiorava la faccia. Lo baciai appena sopra l’elastico dei boxer chiari e mi venne da sorridere quando notai la fantasia infantile del suo intimo: sembravano dei pois colorati. Mi eccitarono da morire.
Mentre percorrevo con la lingua che quella sera non ne voleva sapere di starsene ferma la sagoma del membro di Valerio sopra i boxer facendolo gemere a scatti quasi avesse la tosse, pensai al fatto che la sera prima eravamo nella situazione opposta e io mi facevo tanti di quei problemi che la metà bastava. Adesso invece ero stato io ad inginocchiarmi per primo. Nonostante la paura della notte prima di far dormire Valerio nel mio letto, nonostante quello che era accaduto quella mattina, nonostante il rischio di perdere il lavoro a causa della mancanza di autocontrollo.
Un altro paio di rumori da parte del ragazzo, e lo persi davvero, l’autocontrollo.
Salii su dopo avergli macchiato di saliva l’intimo colorato, e lo trovai  ansimante, con la faccia sofferente e il labbro inferiore che di tanto in tanto finiva intrappolato tra i denti. Lo costrinsi ad aprire la bocca col pollice sul mento, e quello tirò subito fuori la lingua in cerca della mia, quasi fosse questione di vita o di morte. Lo accontentai e lasciai che la mia lingua si scontrasse alla sua all’esterno delle bocche e poi finissero a inseguirsi tra le sue labbra, mentre col ginocchio picchiettavo la sua erezione umida e la coscia, per sospingerlo verso il salotto, ché lì mi muovevo a fatica. Intendevo farlo camminare ancora un po’, seppur all’indietro e mentre ce ne stavamo con le bocche incollate, ma lui inciampò sui propri pantaloni accartocciati sulle caviglie e finì per rovinare a terra, lì davanti alla televisione, ma la nostra smania era tanta da costringerci ad andare avanti con quello che stavamo facendo. Valerio si liberò dei propri pantaloni della tuta dimenando i piedi, così da poter aprire le gambe e permettermi di finirgli addosso, a stretto contatto col suo corpo ormai coperto solo dall’intimo. Mi sospinsi su di lui divorandogli il collo e simulando l’atto sessuale col bacino, incapace di darmi un freno, mentre lui socchiudeva gli occhi e strisciava con le mani sulla mia maglia nella disperata ricerca dell’orlo per potermela finalmente sfilare. Quando m’allontanai leggermente per potermela togliere secondo il suo desiderio, lessi su di lui i brividi di freddo, visto che se ne stava con la pelle ancora umida a contatto col pavimento che bollente di certo non era. Fortunatamente, il riscaldamento era tornato a funzionare, ma i brividi su quelle braccia pallide erano ben evidenti, e i capezzoli erano duri e dritti. Stavo per proporgli di andare di là in camera, o di salire almeno sul divano, per quanto la finta pelle fosse fredda, ma quello non mi permetteva di sollevarmi, mi teneva ora imprigionato tra le gambe e con una mano grande e pesante sul collo tentava di spingermi in basso, dove il bacino vibrava e sembrava colpito da spasmi. Con l’indice gli abbassai l’intimo dal fianco, e ogni volta che scoprivo un nuovo pezzo di pelle lo marchiavo con la saliva e coi segni dei morsi, finché non riuscii ad accartocciargli anche i boxer alle caviglie e lui fu costretto a disfarsene scuotendo i piedi. Avvertii l’odore acre del sesso e, guardando con più discrezione possibile il membro pericolosamente eretto del mio alunno, m’accorsi che era già ricoperto del liquido pre-spermatico. Feci finta di ignorare l’evidente bisogno di Valerio e mi piegai a saggiare con labbra e lingua la pelle dell’inguine, tenendo ben aperta la gamba destra con la mano. Tremava sotto di me, e le bollicine della pelle d’oca erano ben evidenti, e i peli erano rientrati.
«Hai freddo?» chiesi con la bocca impegnata, convinto a volerlo portare in una stanza più calda.
«Freddo? Muoio di caldo,» mormorò quello lasciando che la bocca espellesse respiro bollente. «Cazzo,» gli scappò, respirando a scatti, quasi non ci fosse ossigeno a sufficienza.
«Non dire le parolacce in casa mia,» lo ammonii tra una lappata e l’altra, incapace di smettere di assaggiarlo, lì dove il sapore era più forte. Badai bene a non sfiorargli mai direttamente il membro con la bocca, e mi concentrai lì sull’inguine e sul pube e poi più in basso, lasciando che solo i capelli solleticassero la pelle tesa e lucida. Pensai che da un momento all’altro Valerio sarebbe impazzito. Aveva preso a sbattere un pugno a terra, mentre l’altra mano mi tirava i capelli sulla nuca, senza rendersi conto che non fa male la cute tirata sulla nuca. Quindi io non lo sentivo, la sua mano che mi tirava i capelli era come una carezza, e il pugno sbattuto a terra non faceva rumore, e io ero perso nel suono della mia stessa saliva su di lui e dei suoi respiri sconnessi alternati al piagnucolare supplichevole. Sentii la lingua dolorante quando la piegai per scendere sotto e poi svoltare di lato, a destra. Valerio seguì i miei movimenti rotolando leggermente di lato, e quando sentì che staccai la bocca e la riattaccai sulla sua natica, si convinse a girarsi quasi completamente di schiena, il membro dolorante che strisciava sul pavimento freddo.
«Oh Dio, oh Dio…» lo sentii bofonchiare mentre se ne stava a faccia in giù, la guancia schiacciata sul pavimento, il bacino che s’alzava il più possibile per incontrare la mia bocca, che non si faceva problemi a rimanere incollata al fondoschiena morbido e carnoso. Aveva un sedere da donna, sporgente e rotondo, era stupefacente. E la mia voglia di esplorarlo tutto mi spaventò, ma non fu in grado di farmi desistere. La sua mano che si sospingeva sul proprio fondoschiena e arrivò sino alla piccola apertura per poi allargarmela davanti alla faccia con due dita fu la mia condanna a morte. M’avvicinai con la bocca a quelle dita, e solo quando ebbi coperto l’entrata con le labbra Valerio ritirò la mano e prese a muovere piano il fondoschiena, incapace di stare fermo. La mano che aveva appena usato andò a toccarsi il membro che, immaginavo, doveva bruciargli e pulsare parecchio.
«Ohh, Dio,» prese a ripetere tra gli spasmi, e non capivo per quale motivo dovesse invocare sempre Dio, che non era la persona più adatta da chiamare in situazioni del genere.
Valerio alzava ancora il bacino, con fatica, e tentava di puntare le ginocchia sul pavimento rischiando di scivolare. Eravamo scomodi, ma da lì non riuscivamo a spostarci.
Emisi un rumore di risucchio osceno che mi diede fastidio alle orecchie, ma che fu seguito da un gemito prolungato da parte del ragazzo che non fece che aiutarmi a dimenticare il fatto che gli stessi leccando avidamente il didietro. Una mia mano strisciò sulla sua schiena inarcata, l’altra andò a cercare la sua che si muoveva in modo sconnesso e tremolante sul suo bisogno e gliela scostò delicatamente, per poi prendere il suo posto e strofinare con foga doppia, facendolo ringhiare contro il pavimento. Suoni che non sembravano umani abbandonavano le sue labbra, e io non sapevo se prenderli come un apprezzamento o meno.
«P-professore…» esordì quindi, e solo in quel momento mi accorsi che si stava succhiando un dito, forse per evitare di urlare.
«Mi… piace quando mi chiami così,» ammisi dopo essermi tirato su dal suo fondoschiena, e avevo tanto caldo che probabilmente la mia faccia era di un bel rosso acceso. Allontanai anche la mano dal suo sesso –con suo disappunto- e mi presi un attimo per guardare il mio studente sotto di me. Era qualcosa di allucinante: sussultava piano, come se il battito del cuore si fosse propagato in tutto il corpo e lo stesse facendo pulsare vistosamente; le braccia tremavano perché non riuscivano più a reggere il peso del corpo, e le gambe erano poco stabili; la pelle risultava lucida e tesa, lungo la coscia scendeva del sudore. Era bellissimo, e io sentivo di stare impazzendo. Qualche mese prima non avrei mai, mai pensato che un ragazzino completamente nudo in posizioni compromettenti e lucido di sudore fosse bello. Eppure il pensiero che quello che stavamo facendo fosse sbagliato o volgare non mi oltrepassò i pensieri neanche per sbaglio.
«Lo so…» disse lui mentre spostava con fatica un braccio reggendo tutto il proprio peso su quello sinistro. «Me l’ha detto Giulio,» aggiunse, e intanto si portò il dito tutto mordicchiato e lucido di saliva sulla propria entrata iniziando a stuzzicarla e ad allargarla da sé, sotto ai miei occhi. Avevo pensato di fare una battuta su quanto fosse pettegolo Giulio, ma dalla bocca non mi uscì niente, se non un brevissimo suono strozzato che lasciava intendere il mio piacevole sgomento. Mi tastai in mezzo alle gambe: riuscivo a malapena a muovermi, a causa dell’enorme problema lì sotto, dolorante già da un po’. Mi abbassai allora i pantaloni, senza mai distogliere lo sguardo da quello che Valerio stava facendo con estrema enfasi, ma sentii di non avere il tempo di sfilarmeli come si deve, mi sentivo esplodere le mutande. Dio, che vergogna.
Abbassai gli occhi solo un attimo su di me quando mi premurai di calare l’intimo e lasciarlo sulle cosce, ma quando rialzai lo sguardo vidi Valerio armeggiare già con due dita, che sforbiciavano nell’entrata e gli facevano avere scosse lungo tutto il corpo. Giurai di non aver visto mai niente del genere, neanche nei film porno, neanche nelle mie fantasie, neanche nei racconti dei miei amici. C’era davvero da star male. Mi avvicinai strisciando sulle ginocchia, e quando gli fui addosso gli sfilai le dita dall’entrata prendendolo dal polso –al che si lasciò andare a un sospiro- e mi posizionai su di lui, seguendo la linea della sua schiena, badando a non schiacciarlo sotto il mio peso. Alzò più che poteva il bacino, e mentre mi ancoravo al suo fianco con una mano, gli poggiai le labbra tra il collo e la spalla, sentendo l’odore forte di capelli umidi di pioggia entrarmi nelle narici. Con la mano libera mi presi il membro, poi chiusi gli occhi e cercai l’entrata di Valerio, trovandola al secondo tentativo. Il mio alunno piegò la parte anteriore del corpo sui gomiti, fino a far aderire la fronte al pavimento, poi iniziò a prendere respiri profondi, nonostante per la maggior parte fossero spezzati.
«Avanti,» disse, ormai quasi giunto al limite, con quel tono supplichevole e che aveva allo stesso tempo il sapore di un ordine che mi faceva girare la testa. Mi sistemai tra le sue natiche, gli strinsi il fianco fino a graffiarlo, ed entrai prepotentemente, ché pure io ero stremato dall’orgasmo contro cui lottavo per tentare di farlo tardare ancora un po’.
Era tanto stretto da farmi male. Mi facevo largo a fatica, e quello se ne stava con la faccia sul pavimento e la gola che emetteva suoni di animali feriti. Uscii dopo neanche la prima spinta e mi sputai sulla mano, un gesto che mai avevo fatto, e con quella andai a cospargermi il membro ingrossato, con Valerio che mi supplicava di rientrare, perché c’era quasi, e voleva venire solo nel momento in cui sarei stato completamente dentro di lui. Entrai nuovamente, e questa volta riuscii a farlo scivolare tutto, alla prima spinta. Tirai indietro il bacino e di nuovo spinsi forte, col pube che cozzava rumorosamente contro il suo fondoschiena, la mia bocca che voleva invocare tutti i santi del paradiso. Valerio aveva nuovamente un dito in bocca per impedirsi di strillare come una donna di facili costumi, ma non mi poté ingannare quando l’orgasmo lo travolse dopo solo la quinta spinta. Era al limite, lo era per davvero, e appena ero entrato completamente in lui, s’era lasciato andare. E anche le braccia, e anche le gambe, volevano lasciarsi andare, e crollare sul pavimento, se non fosse che io dovevo ancora oltrepassarlo, il mio limite.
«Sei…sei scomodo?» chiesi ansimando rumorosamente, ma quello non mi rispose: si limitò a sospirare contro il pavimento dopo aver abbandonato il dito mordicchiato. «Puoi voltarti?» gli domandai, sperando che mi desse segni di vita. Ancora non rispose, ma mi accontentò e rotolò su un fianco fino a finire disteso supino, dominato dal suo insegnante che era pronto a rientrare e terminare quello che aveva iniziato. Osservai la faccia estatica di Valerio mentre spingevo in lui in quella nuova posizione, e sorrisi anche io quando lo vidi aprire gli occhi quasi svegliato dal proprio sonno e dedicarmi un sorriso soddisfatto. Si lasciò andare a gemiti poco rumorosi, e pensai che dovesse avere un altro orgasmo di lì a poco. Ma non avrebbe fatto in tempo, perché io ero già lì a dare l’ultima spinta, precisa e prolungata, per poi uscire e venire all’esterno: non sarebbe stata l’idea migliore venirgli dentro. Il mio sperma andò a mischiarsi alle tracce del suo sopra l’ombelico, e il mio sospiro fu tanto liberatorio che probabilmente fu sentito da metà condominio. Le braccia mi tremarono mentre tentai di appoggiarmi sui gomiti: non ero mai stato in grado di fare le flessioni normalmente, figuriamoci in situazioni del genere. Appoggiai la fronte sulla sua spalla, e lui respirò forte col naso mentre mi cingeva la nuca con una mano. Forse non mi rendevo ancora conto di quello che avevo fatto, o magari non volevo pensarci, ma quel silenzio era più eloquente che mai,  e lentamente mi faceva tornare la ragione, insieme alla forza nelle braccia stanche e doloranti. Dopo aver aspettato che Valerio finisse la sua serie di baci sul collo, mi sollevai e mi misi in piedi coprendomi l’intimità col primo indumento che avevo trovato per terra: probabilmente erano anche i pantaloni di Martone, e la cosa mi piacque poco.
«Vieni, andiamo a fare un bagno,» dissi, con la voce che voleva sembrare dura ma che era tutt’altro, dolce da far venire il mal di stomaco. Allungai la mano a Valerio, e quello mi sorrise prima di tentare di alzarsi. Ma fece una smorfia di dolore e tornò con la schiena a terra, col rischio di prendersi una bronco polmonite.
«Che succede?» chiesi piegandomi su di lui.
«Non sei stato esattamente…delicato,» rise quello insieme alle smorfiette di dolore, e io provai tenerezza mista a felicità che mi costrinse a rispondere con un: «Ti ci porto in braccio»
«Come le novelle spose?»
«Come le novelle spose».





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E’ arrivato il grande giorno! Il giorno della bombata! <3
Volevo dirvi che non avevo mai scritto cinque pagine word di p0rn, giusto per XD E se volevo cambiare nuovamente il rating in arancione, ora non posso proprio più farlo D:
Non sapevo se farli rumorosi o silenziosi durante il sesso, e alla fine ho optato per una roba a metà (?) che spero vi sia piaciuta ugualmente XD
Un bacio a coloro che ancora mi seguono e che hanno voglia di recensire e farmi sapere che ne pensano della storia! :)



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Mirokia

 

 



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Capitolo 20
*** Capitolo ventesimo ***


Cap. 10


 

 

 

 

 

 



Alla fine l’avevo davvero preso in braccio, ma gli avevo raccomandato di rimanere un attimo steso sul divano mentre andavo a preparare l’acqua per la vasca. Gli chiesi se volesse qualcosa per coprirsi, ma lui negò dicendo che non dovevo preoccuparmi e se ne stette sul divano in finta pelle disteso supino mentre io riempivo la vasca d’acqua e mi assicuravo di tanto in tanto della sua temperatura. Mi misi su un paio di boxer giusto per non sentirmi del tutto indifeso, poi andai a prendere Valerio. Gli chiesi se riusciva a mettersi in piedi, e lui disse di sì, che davvero non dovevo preoccuparmi di nulla, ma le notai le smorfie di dolore sul suo volto anche solo quando si mise a sedere, perciò mi preoccupai di fargli scorrere un braccio sulla mia spalla e di tirarlo su in quel modo, come quando si accompagna a casa un ubriaco.
«Ti ho fatto davvero così male?» gli chiesi quando lo sentii saltellare su una gamba.
«Vorrei vedere… Non sei esattamente piccolo. E ci hai messo foga…»
«Scusa,» dissi imbarazzato e a testa bassa.
«Zitto, è stato meraviglioso,» ribatté lui all’istante, con quella voce che aveva un non so che di malinconico. Quando arrivammo in bagno, lui saltellando e io trascinandomelo sul fianco, lo aiutai ad adagiarsi in vasca. Rabbrividì per la temperatura dell’acqua e respirò forte sperando di abituarsi in fretta al calore. Io feci un salto in camera da letto a prendere le sigarette e poi nel secondo bagno, quello più piccolo, per recuperare il mio accappatoio. Tornai nel bagno grande e lasciai l’accappatoio sul lavandino, buttai il pacchetto di sigarette a terra e cercai un asciugamano piccolo da stendere davanti vasca, nel caso avessimo fatto acqua. Valerio attendeva tenendosi strette le gambe e guardandomi dall’alto in basso con tanto di occhi. Dedicai imbarazzato un pensiero ai miei boxer, e mi chiesi se fosse il caso di entrare con l’intimo nella vasca; ma poi mi dissi “Sei scemo, per caso? Te lo sei bombato pochi minuti fa, il Valerio, che rilevanza può avere se ti vede nudo un’altra volta? Hai dei problemi seri” e la voce nella mia testa fu abbastanza convincente. Mi spogliai del tutto e mi affrettai ad immergermi nell’acqua, la schiena appoggiata contro la vasca sul lato opposto a Valerio. Sospirai di sollievo quando l’acqua mi toccò tutto, e buttai la testa all’indietro, con le gambe di Valerio che se ne stavano chiuse al centro, mentre io le tenevo aperte ai lati.
«Era da un po’ che non facevo un bagno. Sempre e solo la doccia…» mormorai ad occhi chiusi, le braccia appoggiate ai bordi della vasca. «Mi sento come se stessi scaricando tutto lo stress della settimana scorsa,» confessai sospirando, ma quello se ne stava immobile, chiuso a riccio, le braccia che si tenevano le gambe e lo sguardo fermo sull’acqua, quasi stesse pensando intensamente a qualcosa. Veramente all’inizio pensai fosse squagliato dal caldo. Tirai su la testa e la inclinai per guardarlo in faccia, sapendo benissimo a cosa stava pensando. Era la stessa cosa a cui io tentavo di non pensare commentando su quanto fosse rilassante fare il bagno caldo.
«Valerio… quello che è successo stamattina…»
«E’ colpa mia,» mi interruppe quello senza guardarmi in faccia.  «Avrei dovuto fare più attenzione. E adesso guarda cosa ho combinato,» aggiunse, e avvicinò il mento alle ginocchia sollevate. Feci schioccare la lingua e sospirai, non sapendo davvero come avrei dovuto reagire a quello che era successo.
«Anche io sono stato sprovveduto, abbiamo sbagliato entrambi a esporci così tanto,» dissi con una mano che passava tra i capelli e che si fermava a grattare la nuca.
«No, io ti ho costretto a cenare con me, io ti ho portato a ballare, io ti ho baciato sulla pista da ballo, davanti a persone che avrebbero potuto benissimo riconoscerti. Ma non me ne importava, perché pensavo solo a quanto fosse bello averti, senza rendermi conto che avrei potuto danneggiarti. E così è stato. Mi sento una merda e credevo che non avrei più avuto il coraggio di guardarti in faccia,» disse,veloce come un treno, il vapore che iniziava ad accumularsi attorno a noi.
«…In effetti non ci siamo guardati in faccia più di tanto,» feci ironico, e avevo anche voglia di fare battute penose, a quanto pareva. Ma lui almeno sorrise, forse più per pena che per altro. Allungai il braccio e andai ad accarezzarlo con l’indice sotto al mento, notando come cercasse di tenere gli occhi giù, rivolti all’acqua. «Mi vuoi guardare, adesso?» lo spronai, continuando a far strisciare il dito sotto il mento. Non resistette a lungo: qualche secondo dopo fece guizzare gli occhi trasparenti su di me, e io subito mi sentii invadere dalla serenità. Quei suoi occhi erano la mia vita, la mia vita vera, e sarebbero stati anche la mia morte. Sorrisi come un ebete e lui non poté fare altro che sorridermi a sua volta, sospirando come una ragazzina. Gli feci segno con la mano di avvicinarsi, e quello si staccò piano dalla sua posizione.
«Appoggiati,» gli dissi indicandomi il petto, e lui, muovendosi con cautela per non lasciare che dell’acqua strabordasse, si girò di schiena e si adagiò su di me, il capo appoggiato sulla mia spalla sinistra. Lo avvolsi con le braccia sperando che non gli desse fastidio e gli posai un bacio sul collo ancora asciutto, facendolo rabbrividire.
«Che intendi fare?» mi chiese dopo un po’ che me ne stavo con la bocca appoggiato alla sua spalla e lo sguardo fisso nel vuoto, pensieroso. Allontanai il capo e allungai una mano all’esterno della vasca asciugandomela sul panno che avevo messo a terra, poi presi una sigaretta che spuntava dal pacchetto e feci per accendermela.
«Ti dà fastidio?» chiesi con la sigaretta che penzolava dalle labbra. Lui scosse la testa.
«Al contrario,» disse, e si accoccolò sul mio petto socchiudendo gli occhi. Adoravo fumare in vasca, ed era davvero troppo tempo che non lo facevo, troppo per poter evitare di farlo. Ma se avesse infastidito anche solo leggermente il mio Valerio avrei lasciato perdere sigarette e tutto. Avrei smesso di fumare definitivamente per lui. Avrei modificato gli orari in cui mi addormentavo e in cui mi svegliavo per lui. Avrei ribaltato completamente la mia vita per lui. Lui, che era così affamato d’amore, e che adesso mi stringeva inconsciamente le dita della mano sotto l’acqua, in attesa di una risposta.
«Che intendo fare? Non lo so… spero solo che quell’idiota non vada a spargere in giro la voce. Non sono riuscito neanche a fare in tempo a negare tutto, che tu già t’eri alzato per poi scappare via, lasciando intendere che le accuse derisorie di quel ragazzo non fossero del tutto false».
«Lo dicevo che è stata colpa mia,» disse l’altro facendomi finire a malapena la frase, e girò il capo verso il muro, senza però mollare  la presa sulla mia mano, anzi, rafforzandola. Alzai le spalle e buttai fuori una nuvola di fumo.
«Hai reagito d’istinto. Vorrei essere capace di farlo anche io. La razionalità non è sempre una buona cosa, spesso sa solo confonderti. Ammiro la tua spontaneità,» gli dissi, sincero come  poche volte lo ero stato, e avvertii il suo corpo irrigidirsi appena.
«Come fai a farmi ancora dei complimenti dopo la cazzata che ho fatto? Ti cacceranno dalla facoltà!» esclamò, la voce un po’ stridula, e io gli strofinai il capo sui capelli come un gatto in cerca di coccole per farlo calmare.
«No, non è così che funziona. Finché non hanno prove concrete, non possono sbattermi fuori. Le parole di un ragazzetto arrogante non contano niente, là dentro. E in ogni caso, in teoria, possiamo fare quello che vogliamo. Non hai mica dodici anni, sei maggiorenne e vaccinato e consenziente. Non verrò sbattuto fuori,» il mio discorso era perfettamente razionale, ma quella razionalità era nettamente diversa da quella che ero solito tirare fuori nella mia vita precedente, quella che puntava all’equilibrio, al rafforzamento delle basi del mio castello di carta, alla costruzione della mia esistenza mediocre, silenziosa e disinteressata. Adesso invece la mia razionalità snocciolava discorsi che miravano a rendere lecito quel mio squarcio di cielo, quel pezzo di felicità che avevo trovato, e che dovevo proteggere, a tutti i costi. E avevo bisogno di sapere che quella felicità non mi avrebbe lasciato di sua spontanea volontà, che sarebbe rimasta sulle mie spalle, leggera come una piuma, calda come un raggio di sole, ancora per un po’ di tempo.
«Ma avrai problemi, di sicuro. Inizieranno a circolare le voci. Due uomini che escono insieme sono già uno scandalo nella nostra società, ma addirittura alunno e insegnante…»
«Se mai le cose dovessero peggiorare, mi vedrò costretto a fare domanda altrove,» lo interruppi continuando a fumare con un braccio fuori dalla vasca, curioso della sua reazione, o forse più speranzoso.
«Dici che ti trasferiresti?» mi chiese, la voce che tremava e lasciava intendere il timore che aveva preso ad agitarglisi nello stomaco.
«Se la situazione diventa ingestibile sì, ma non credo che…»
«Io verrò con te,» mi interruppe subito, risoluto, il capo adesso rivolto verso di me, anche se riuscivo a vederne perfettamente solo il profilo.
«Non ho detto che mi trasferisco,» gli feci notare, la cenere che cadeva sul pavimento blu e di cui non poteva importarmene di meno.
«Se dovessi farlo, sappi con un largo anticipo che io ti seguirò ovunque andrai,» mi disse, seriamente, tanto che mi fece scoppiare a ridere tossendo fumo a destra e a sinistra.
«Devo avere paura?» chiesi divertito, mentre quello se ne stava lì a guardarmi, terribilmente serio.
«Sarò la tua ombra,» annunciò, e quel suo tono mi fece nuovamente sorridere divertito perché, davvero, non c’era motivo di essere seri. E adesso che mi ero assicurato che la mia felicità mi avrebbe seguita anche se avessi dovuto lasciarla andare, mi mise addosso un’inquietante serenità. Pensai di non essermi mai sentito così a posto nel mondo, nonostante gli avvenimenti di quella mattina, nonostante la ferita ancora fresca dovuta alla morte di Rosaria, nonostante fossi stato praticamente dimenticato da ciò che rimaneva della mia famiglia, nonostante il divorzio risalente solo a qualche mese prima. Nonostante tutto, stavo una meraviglia.
Tirai fuori la mano che tenevo sotto l’acqua e attirai il capo di Valerio su di me, per poi baciarla la tempia. Mi sta bene, non lasciarmi mai, stavo per dirgli, ma non ero tanto sentimentale da poterlo fare. La sigaretta era quasi finita, la bruciatura era ormai arrivata al filtro, ma Valerio si aggrappò al mio braccio per poi trascinarselo vicino alla bocca e fare l’ultimo tiro della sigaretta. Glielo lasciai fare, poi allontanai subito il mozzicone dalla vasca per evitare che la cenere cadesse nell’acqua, e lasciai andare il filtro ormai vuoto sul pavimento. Allora Valerio si voltò verso di me più che poté e buttò fuori il fumo sulle mie labbra socchiuse, che raccolsero quello che riuscivano a raccogliere, lo mandarono giù nei polmoni e lasciarono andare ciò che rimaneva. Mi sorrise e allo stesso tempo mi attirò con gli occhi, quindi io non potei fare altro che avvicinarmi ulteriormente e posargli un bacio sul lato della bocca. Lui mi appese una mano dietro la nuca e mi spostò sulla sua bocca, prendendo subito a baciarmi con trasporto e sospirando ogni qualvolta ne trovava l’occasione. Il collo era ben teso, e ne approfittai per accarezzarlo, facendolo sorridere sulla mia bocca.
«Fai il solletico,» mi disse, i denti bianchi a contatto con le mie labbra, e io giurai di volerlo mangiare. Gli mordevo le labbra adesso, e sentii davvero la fame che avevo di lui, la avvertii all’altezza dello stomaco e nel basso ventre, che avevo iniziato a muovere circolarmente sotto di lui. Portai la mano che prima reggeva la sigaretta sotto l’acqua, per poi percorrere con i polpastrelli la linea del suo fianco e finire sul fondoschiena morbido.
«Fa ancora male?» gli chiesi mentre mi avvicinavo con una lentezza snervante alla sua entrata.
«No. Hai ragione, un bel bagno caldo allevia tutte le sofferenze,» disse lui, completamente a sua agio, la testa ben appoggiata al mio petto.
«Sicuro che non fa male?»
«Sicuro… perché? Vuoi farlo ancora?» mi chiese, un misto tra serietà e divertimento, e io gli risposi con un paio di baci tra i capelli.
«Se solo avessimo qualcosa per…» mi interruppi guardando fisso davanti a me, oltre la spalla di Valerio. «Passami quel flacone,» gli chiesi poi, indicandogli col dito l’unico che si trovava sul bordo vasca sul lato opposto. Valerio s’allungò, lo prese e tornò al posto per poi leggere l’etichetta.
«Cosa… Johnson’s baby? Usi l’olio per il corpo Johnson’s baby?!» esclamò divertito, con la mano davanti alla bocca. Sbuffai e gli tolsi il flacone dalle mani.
«Non giudicarmi, ha un buon profumo. E idrata la pelle,» dissi col broncio mentre lo stappavo e subito dopo andavo a togliere il tappo alla vasca da bagno così che l’acqua potesse fluire via. Lui non obiettò su quello che stavo facendo, e parlò mentre il rumore del risucchio era più forte.
«Magari oggi scoprirai che è più utile a qualcos’altro,» e per quanto la frase fosse maliziosa, il suo tono era spontaneo e innocente come sempre, come un bambino che gioca con le costruzioni e  che ti dice tutto contento qual è il modo migliore per incastrare due pezzi.
«Hai freddo?» gli domandai quando ci ritrovammo stretti nella vasca vuota.
«No, sei caldo, contro di te sto bene,» mi disse, e si sistemò meglio su di me facendo scontrare inevitabilmente il fondoschiena con la mia erezione neonata. Dissi “Meno male”, e mi spremetti dell’olio sulle dita, pensando a quanto fosse imbarazzante quel rumore nel silenzio più totale. Tornai ad essere nervoso, come il bambino di prima che sta completando la torre e trema tutto mentre cerca di posare in cima l’ultimo pezzo senza lasciar crollare tutta la costruzione. Spostai quindi la mano insicura sotto di lui, che alzò leggermente l’anca per facilitarmi il movimento.
«Sei sicuro che…
«Vai,» mi rassicurò lui ancor prima che finissi di parlare. Poggiai le dita oliose e profumate contro la sua entrata, e lo vidi rabbrividire vistosamente, ebbe quasi uno scatto della gamba.
«E’ fredda?» chiesi, come un povero idiota, credendo che l’olio sulle mie dita bollenti potesse in qualche modo diventare freddo. Lo sentii sorridere tra sé, disse “No”, poi sembrò voler continuare la frase e la concluse con “…professore”, sicuro che in quel modo sarebbe riuscito a farmi perdere il controllo. E non aveva proprio tutti i torti.  Un mio dito gli scivolò dentro e gli mozzò il respiro. Si aggrappò al lato della vasca senza riuscire a reggersi decentemente, e restò a bocca aperta per un po’, mentre gli occhi li teneva stretti. Altro che freddo, il mio olio sulle dita adesso era bollente, bruciava quasi. Curvai il dito a uncino,  e Valerio sussultò trattenendo qualunque suono tentasse di uscirgli dalle labbra, poi prese a muoversi anche lui su di me.
«Due…» mormorò quindi, la voce che graffiava.
«Cosa?» chiesi, decisamente a fatica, quasi avessi fatto una lunga ed estenuante corsa.
«Due dita…mettile…» si interruppe quando si accorse che mi stavo già accingendo ad aggiungere il dito medio. Pensai che dovesse bruciargli un po’ a causa di quello che avevamo fatto prima di entrare in vasca, ma scese imperterrito sopra le mie due dita, quasi non avesse bisogno di altro nella vita. Portai l’altra mia mano sulla sua spalla, poi mi feci vicino al suo orecchio e,
«Fermo,» sussurrai, stringendogli piano il braccio, e quello smise di muoversi su e giù sulle mie dita, permettendomi così di lasciar fare a me. Si vedeva che era stanco e dolorante, non volevo farlo affaticare ulteriormente. Come se in quel modo non si sarebbe stancato. Era proprio vero che non ero più in grado di ragionare in quelle condizioni.
Tentai di alzarmi sulle ginocchia senza scivolare, poi presi nuovamente il flacone dell’olio e glielo aprii lì dove tenevo ferme le dita, facendolo rabbrividire per l’ennesima volta. Dopodiché mi impegnai a sbattergli le due dita in profondità, sforbiciando più che potevo, e intanto massaggiandogli l’anello muscolare all’esterno col pollice. Finalmente un suono abbandonò la sua bocca, ed era molto simile a quello di un animale in agonia. Gli chiesi per l’ennesima volta se gli faceva male, continuando comunque a lavorare con le dita senza ritegno, ma quello disse solo:
«Mi piace,» con la voce che si sforzava per non sembrare particolarmente lasciva. Scesi a baciargli il collo e, mentre cercavamo entrambi una posizione comoda –sembravamo essere fissati coi luoghi scomodi, a dirla tutta-, mi accorsi di essergli sopra, adesso. Lui stava fermo come gli avevo detto, rannicchiato contro la ceramica della vasca, la mano che aveva iniziato a muoversi sopra la propria erezione, la solita espressione sofferente che adottava quando era particolarmente eccitato.
Mentre tentavo di infilargli l’anulare, pensai che avrei dovuto fargli quello che non avevo fatto prima, lì in salotto. Gli infilai la mano libera tra le cosce, che mi premurai di separare, per poi spingere con il palmo la gamba sinistra verso l’esterno e riuscire finalmente a posizionarmi tra le sue gambe. Piegai tutte le falangi a uncino, e intanto mi buttai a succhiargli la base del membro eretto. Un suono strozzato e poco piacevole all’udito abbandonò la sua gola.
«Non trattenerti,» mormorai mentre gli soffiavo sulla punta del sesso. Non l’avevo mai preso in bocca, Dio, era qualcosa del tutto nuova per me, non avevo avuto un passato da risucchia-tutto, e di certo non mi ero mai esercitato coi cetrioli che comprava mia madre. Quindi trovai difficoltà a fare un lavoro come si deve. Scesi giù con la bocca, ma arrivai a prenderne solo poco più di metà, perché ancora non ero abituato a riempirmi la bocca in quel modo.
Ancora abituato? Perché, avevo forse intenzione di abituarmi?
Negai con la testa quasi a voler dire di no alla mia domanda retorica, ma quel gesto sembrò far impazzire Valerio, che ancora tentava di non urlare mordendosi a sangue le labbra.
«Non trattenerti,» dissi nuovamente dopo essermelo sfilato dalla bocca.
«E’ tardi, ci sentiranno,» disse lui, tra i sospiri trattenuti e i grossi brividi su tutto il corpo.
«Che ti importa?» chiesi tra una lappata e l’altra, tentando di essere il più preciso possibile mentre seguivo le vene in evidenza sulla sua lunghezza.
«Importa… a te…» fece quello a fatica, il capo gettato all’indietro col rischio di sbattere la nuca contro il bordo della vasca.
«Non mi importa,» asserii mentre avvertivo il suo cuore battermi sulla lingua.
«No?»
«No».
Valerio si mise a urlare all’improvviso, tanto forte da spaccarmi i timpani e farmi venire un coccolone. Per poco non gli morsi il pene.
«Che…che succede?» chiesi, un attimo scosso.
«Sono rumoroso, mi dispiace… so che dà fastidio e quindi…»
«Ti fai troppi problemi,» dissi divertito prima di sfilare le dita e strappargli un gemito. Salii verso la sua bocca lasciandogli una scia di baci su tutto il corpo e poi incastrai le mie labbra alle sue facendogli assaggiare il suo stesso sapore. Mi mugolò in bocca, e continuò a farlo anche quando mi staccai per ravvivargli i succhiotti sul collo, quasi non riuscisse più a stare zitto. Gli presi i polpacci e li sollevai: mi posai quindi la gamba sinistra sulla spalla, mentre la destra la lasciai andare sul bordo della vasca, a penzoloni.
«Urla quanto ti pare, a me non dà fastidio,» gli mormorai contro la bocca mentre cercavo la sua entrata per la seconda volta in quella sera. «La tua voce è l’unico suono che non mi infastidisce,» ammisi, e lui mi sorrise e annuì prima di baciarmi. E per la seconda volta in quella sera, mi spinsi dentro di lui come non ci fosse un domani, con troppa foga, rischiando di lacerarlo. Ed era per me la cosa più preziosa, il mio squarcio di felicità, e tanto l’amavo da non riuscire a controllarmi. Lui pianse dal dolore e urlò di piacere, e io non sapevo se essere preoccupato per la forza che ci stavo mettendo o felice per il piacere che gli stavo provocando. Una serie di “Aah” prolungati si propagarono per la stanza, finché non sentii Valerio gridarmi un “Più forte!” gracchiante che mi fece capire che, sì, gli stava piacendo, e io non potevo che esserne felice. Come un bambino che completa la sua torre di Lego e qualcuno gli dice che è la cosa più bella che abbia mai visto.
«Ancora…» 
Era stremato, ormai immobile sotto di me, e io ero al culmine, ma continuava a chiedermene ancora, e ancora.
«Dentro… stai dentro,» mi supplicò, e non aveva neanche più la forza di gemere. Gli dissi che non avevo intenzione di sporcarlo all’interno, quindi venni fuori, sulla sua coscia destra e lui sembrò cadere in trance, a occhi socchiusi, come qualcuno che ha appena  assunto delle droghe e non riesce più a muovere un muscolo.
«Dio santo…» invocai con una mano davanti alla bocca. Mi piegai su di lui con le braccia che non mi reggevano più e gli posai un bacio sulla fronte di nuovo coperta di sudore. «Scusami, maledizione. Giuro che non alzerò più un dito su di te, te lo giuro, io…»
«Mi hai… scopato maledettamente bene. Io… sono il ragazzo più felice del pianeta…» disse, gli occhi che ora guardavano tutto tranne me e la testa che ciondolava. Sembrava davvero aver assunto allucinogeni. «Ti amo tanto,» aggiunse poi, il tono cantilenante, quindi sospirò e chiuse gli occhi, quasi volesse dormire lì, accartocciato nella vasca.
Aspettai che tornasse un po’ in sé, che si rendesse conto che non poteva mettersi a dormire là dentro, poi lo baciai sulle guance tese in un sorriso e gli dissi che avrei riempito nuovamente la vasca di acqua, visto che eravamo tornati ad essere sporchi. Lo aiutai a lavarsi, e lui aiutò me a strofinare la schiena; gli lavai i capelli ancora umidi di pioggia grattandolo per bene sotto le orecchie con lo shampoo alle more, e lui per tutto il tempo fece un rumore con la bocca simile alle fusa dei gatti, e tenne gli occhi socchiusi e sbadigliò sommessamente. Quella situazione aveva tutte le caratteristiche di un sogno soffuso e odoroso e silenzioso.
Dopo il nostro secondo bagno, lo aiutai a uscire dalla vasca, ché rideva e barcollava come un ubriaco, e gli avvolsi l’accappatoio sulle spalle, mentre lui continuava a fare le fusa. Gli frizionai poi i capelli con un asciugamano più piccolo e mi sembrò di star accudendo un figlio, o un malato, visto che ridacchiava come uno poco sano di mente. Dopo avergli dato il phon e raccomandato di asciugarsi per bene i capelli che, notai, non erano poi così corti, andai in camera da letto a cambiarmi per la notte. Valerio accese il phon dando il via al fastidioso rumore di quest’ultimo e del cavo che sbatteva sul lavandino, e solo in quel momento mi resi conto che, diavolo, erano le tre di notte passate. Dovevo davvero darmi una regolata e smetterla di andare a dormire così tardi. Ma come facevo a dormire, come? Probabilmente non avrei chiuso occhio, quella notte.
«Tutto bene?» chiesi al vuoto quando il rumore del phon s’interruppe. Non ricevetti risposta, ma subito dopo Valerio entrò in camera mia zoppicando, in canottiera e mutande, e si lasciò andare sul materasso coi capelli finalmente asciutti e disordinati. Feci per alzarmi per andare ad asciugare i miei, di capelli, ma quello svettò a sedere a dispetto dei dolori che provava un po’ in tutto il corpo e mi riportò dov’ero tirandomi dal braccio. Mi girai a chiedergli spiegazioni con lo sguardo, e lui mi sorrise raggiante appoggiandosi col braccio sul materasso.
«Ti amo tantissimo,» mi disse senza alcun pudore, e io sentii di essermi acceso, come più di una volta era successo, come una candelina. Si distese supino senza smettere di sorridere ed allargò le braccia, aspettando che lo abbracciassi e, probabilmente, lo riempissi di baci. Non potevo non accontentarlo, non riuscivo ad ignorarlo, non ce la facevo. Così mi dimenticai dei capelli ancora umidi, e finii per rotolarmi sul letto con Valerio, a coccolarci come due quindicenni travolti dall’amore.
Restammo a parlare una mezz’ora del più e del meno, e stavo quasi per prendere sonno quando quello, inaspettatamente, mi sussurrò sulle labbra che voleva ancora fare l’amore. E quella era la terza volta in una sola notte. Pensai che, davvero, non m’ero mai sentito tanto spossato in vita mia.
Spossato e incredibilmente soddisfatto. E nella mia vita mai m’ero sentito soddisfatto. C’era sempre qualcosa che mancava, che rovinava il tutto, che mi lasciava l’amaro in bocca. Ma stavo tentando di accantonare la mia vita condotta per inerzia. E Valerio mi stava dando una mano, no, un braccio, no, tutto il corpo.
Respirava forte nel sonno, e la spalla nuda contro la guancia gli spingeva le labbra in fuori. Le ciglia chiare tremavano appena e i capelli andavano per conto loro. Restai sveglio un paio d’ore a guardarlo dormire.





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Forse sono un po’ inutili i capitoli in cui ci sono loro due e basta, no? XD Poi mi è sembrato poco scorrevole come capitolo, ma lascio a voi il giudizio, che siete davvero in gamba <3 Grazie di leggermi <3
Come avete notato, ho deciso di fare Valerio rumoroso. Perché tanto era destinato ad esserlo sin dall’inizio XD
Spero che si senta l’amore forte che c’è tra i due… vorrei farlo trasparire il più possibile. :)
Grazie ancora a chi recensisce, e un abbraccio speciale a Ceci, una cara amica che ha voluto cimentarsi nella lettura di questa storia e che sembra le sia piaciuta parecchio! <3



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Mirokia (ps, per chi se lo stesse chiedendo, Mirokia si legge con l’accento sull’ultima “i”!)

 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo ventunesimo ***


Cap. 21

 

 

 

 

 

 

 

 

Fui in piedi soltanto a mezzogiorno e mezza, e mi morsi le nocche per non essermi ricordato di mettere la sveglia. Ma come avrei potuto anche solo buttare un pensiero alla sveglia dopo il trambusto di quella notte. La luce forte che filtrava dalla serranda si fermò proprio sui miei occhi, e non fece altro che illuminare tutti i ricordi legati a circa otto ore prima. Quasi riuscivo a vedermelo, Valerio a cavalcioni su di me che faceva su e giù col bacino, le gambe che tremavano e che quando non riuscivano a reggerlo, lo lasciavano cadere sul mio sesso, che gli si piantava in profondità facendolo urlare come un ossesso. Con premura, gli avevo detto “Piano, fa’ piano”, poi avevo ribaltato le posizioni e mi ero assicurato di poterlo far venire con spinte decisamente più controllate e morbide. Non ci era voluto molto, e lui non s’era lamentato affatto della mia decisione di dare un ritmo più pacato alle spinte, anzi; mi aveva confessato di essersi sentito vicino a me più che mai, di aver proprio avuto la sensazione che i nostri corpi si fossero incastrati e non potessero mai più separarsi, di aver potuto guardarmi negli occhi nel momento in cui raggiungevo il limite e implorarmi di venirgli dentro. Mi passai una mano sulla faccia quando mi ricordai di aver ceduto alle sue preghiere. E mi sorrisi nella mano quando mi ritrovai ad ammettere che era stato comunque meraviglioso. Mi girai a guardarlo, lentamente, quasi avessi paura di non trovarlo più lì: e invece c’era, la faccia quasi completamente immersa nel cuscino, la schiena scoperta a metà e una gamba piegata verso il gomito, mentre l’altra stava stesa e diritta. Le braccia erano avviluppate al cuscino, e i capelli erano una massa indefinita che gli copriva quel poco di profilo che emergeva dal cuscino. Pensai che avrebbe dovuto avere lezione di storia alle due, e probabilmente ero lì per svegliarlo, ma subito cambiai idea e andai a darmi una sciacquata lasciandolo riposare. Ero un pessimo, pessimo insegnante. Non avrei dovuto fargli saltare le lezioni. Ma allo stesso tempo non potevo lasciare che se ne andasse in giro in quelle condizioni: se si riusciva a mettere a sedere era già un miracolo.
Io avevo lezione alle sei di sera con i ragazzi del secondo anno, perciò non sarei stato costretto a spiegare con la sensazione di avere puntati sulla schiena gli occhi di quella faccia di bronzo che m’aveva sputtanato davanti a tutti. Pensai che era successa la stessa cosa a un altro mio collega, solo senza sputtanamento: lui frequentava una ragazza sua studentessa, e si era venuto a sapere. I due si erano poi lasciati perdere, e la faccenda era diventata una storiella a cui pochi ancora credevano. Mi chiesi cosa sarebbe successo se invece i due amanti non si fossero lasciati. Trascorsi quelle ore lì a pensare in silenzio a quella possibilità, anche se di tanto in tanto tornavano flash di quella notte e arrossivo convulsamente oppure mi mangiavo le mani perché m’ero reso conto che non ero riuscito a resistere, e avevo lasciato che le passioni travolgessero la ragione.
Mentre mi cucinavo un po’ di pasta col tonno, decisi di accendere la televisione per dare un po’ di rumore ai pensieri. Rinunciai a svegliare Valerio per la seconda volta e mi decisi a mettergli da parte un bel piatto di pasta per quando si sarebbe alzato. E, se proprio non riusciva ad alzarsi, gliel’avrei portata in camera, raccomandandogli di non sporcare il letto.
Sentii il rumore leggermente cigolante delle molle del letto verso le tre del pomeriggio. Dalla cucina lo intravidi mentre sgusciava in bagno dondolando a destra e a sinistra, come un robot mal funzionante, sbadigliando e con una mano incastrata nei capelli improponibili, ancora tutto nudo. Distolsi immediatamente lo sguardo e continuai a fare quello che stavo facendo – pulire la cucina, cosa che da quando era arrivato Valerio facevo con più voglia -. Con la coda dell’occhio lo vidi attraversare nuovamente il corridoio camminando come un menomato e andare verso la camera che occupava lui di solito. Di solito, perché sembrava essersi trasferito nella mia ormai. Gli mollai il piatto sul tavolo insieme a posate e bicchiere e mi rifugiai in balcone, nonostante il freddo bestiale. Che diavolo facevo, mi nascondevo? Come un bambino intimidito dalla bambina che gli piace? Aprii l’armadietto in ferro e ficcai la testa all’interno, magari avrei fatto finta di cercare un vasetto di sottaceti. Ma poi sentii aprire la porta e,
«Buongiorno,» disse quello piuttosto allegramente facendo capolino sul balcone. «Grazie per la pasta, la mangio subito,» e richiuse la porta, facendomi sentire come un cretino. Ero rimasto immobilizzato ad ascoltarlo, ma non a causa del freddo. Dovevo reagire a quel modo ancora per molto? Alla fine mi decisi ad entrare con un vasetto vuoto in mano che non mi sarebbe servito assolutamente a nulla, e lui era accanto al forno, in piedi, vestito con una tuta larga, a mangiare la pasta col piatto in equilibrio su una mano, e io avevo idea del perché non si stesse sedendo. Guardandolo mentre si sporcava le labbra con gli spaghetti, mi venne solo da dirgli:
«Dormito bene?»
Ero patetico, lo ero davvero.
Lui alzò lo sguardo e annuì mentre risucchiava uno spaghetto e si sporcava ulteriormente.
«Sono solo un po’ acciaccato,» fece poi senza un filo di vergogna, e s’appoggiò con la schiena al forno continuando a mangiare. Feci un risolino imbarazzato e che mi faceva sembrare del tutto scemo e mi sedetti a mangiare un mandarino, sperando che l’imbarazzo del “giorno dopo il misfatto” sparisse in fretta. Ed ero quasi riuscito a rilassarmi, quando suonò il campanello, distraendomi da Valerio che mangiava la banana. Forse fu un bene che suonarono alla porta. Quando andai ad aprire, trovai sulla soglia la mia vicina di casa, quella del prezzemolo, e io subito misi le mani avanti.
«Mi dispiace molto, ma al momento sono a secco di prezzemolo. Dovrei andare a comprarlo,» dissi, con  tutta la gentilezza possibile, anche se pure un bambino si sarebbe accorto del mio finto dispiacere. Ma lei disse “No, no!”, e mi allungò una confezione di tortellini.
«Volevo ringraziarla per tutte le volte che mi ha prestato il basilico. Tenga, me li ha inviati mia sorella dalla Calabria,» disse, con un tono fin troppo morbido, e mi allungò i tortellini con un sorriso furbo. Un attimo a disagio, accettai i tortellini dopo un paio di “Ma non ce n’era bisogno” falsissimi, e solo a quel punto mi resi conto che Valerio mi aveva raggiunto e agitava la mano verso la signora in segno di saluto. Aveva ancora quella dannata banana in mano, ma quanto ci metteva a finirla?
«La vedo meglio, sa?» mi chiese retoricamente la donna, le mani unite sul grembiule vecchio, e io la ringraziai goffamente. «Sarà merito di sua moglie,» aggiunse poi, il tono di una che la sapeva lunga. Corrucciai le sopracciglia in un’espressione confusa.
«Mia… moglie?»
«Sì… Non siete tornati insieme?» mi chiese, la mano sotto il mento, quasi si fosse accorta di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«Chi le ha detto questa stupidaggine?» domandai tentando di non sbottare. Valerio accanto a me ma a debita distanza ingoiò un pezzo di frutta, particolarmente preso dalla nostra conversazione.
«No, è che… l’ho dedotto dai, insomma… dai rumori di stanotte…» guardò altrove, imbarazzata ma poi non così tanto. «Tutto quel baccano mi ha svegliata,» e rise come un’idiota, mentre io ero diventato un pezzo di ghiaccio e Valerio s’era bloccato pietrificato con la bocca semiaperta sulla banana. «Ma magari avevi la televisione accesa, voglio dire, non sono sicura che…» si stritolava le mani, convinta di aver fatto una pessima figura, e lo stesso continuava a ridacchiare, pensando forse che in quel modo sarebbe riuscita a sdrammatizzare. Io me ne stavo ancora con la mano sulla porta e l’altra a reggere i tortellini, la bocca spalancata, lo sguardo fisso, senza la più pallida idea di cosa dire o cosa fare. Che vergogna allucinante. Forse per evitare qualunque tipo di conversazione, le avrei sbattuto la porta in faccia facendo finta di nulla. Non era una cattiva idea. Ma proprio nel momento in cui stavo per prendere una decisione, Valerio mi si affiancò nascondendosi la banana dietro la schiena, quasi potesse essere un indizio che riconduceva al tipo di relazione che vigeva  tra noi due.
«Ha ragione lei, signora,» disse zompettandomi accanto, cercando di sembrare naturale. «E’ colpa mia, mi scusi. Mi sono addormentato con la tv ad alto volume stanotte, e effettivamente, quando mi sono svegliato, stava andando in onda un film non adatto ai minori. E come temevo, l’ho svegliata. Mi dispiace,» disse, con tono umile e pentito, e abbassò il capo davanti alla vicina, che si mise una mano sul cuore, colpita da tanta cortesia e umiltà. Tirai un sospiro di sollievo senza farmi notare, e Valerio mi guardò con la coda dell’occhio in modo furbo, ben conscio di avermi salvato in extremis. La vicina si scusò a sua volta di essere stata indiscreta e disse che da quel momento in poi avrebbe imparato a farsi gli affari suoi, anche se lo trovavo praticamente impossibile.
Quando richiusi la porta, feci un grande e rumoroso sospiro di sollievo, mentre quello scoppiò a ridere e non fu più in grado di finire la sua banana a causa delle troppe risate.
«C’è mancato poco,» disse, poi mi mise una mano sulla spalla – al che, probabilmente sobbalzai – e si fece vicino al mio orecchio. «Anche se sarei stato curioso di vedere la sua faccia se le avessimo detto che gli artefici di quel baccano siamo stati io e te,» e mi puntò sul petto l’indice della mano che reggeva la banana. Mi vennero i sudori freddi, perché non era possibile che quello, sfondato com’era, stesse ancora tentando di stuzzicarmi a dovere. Ma poi non fece altro che abbracciarmi e schiacciare la guancia contro il mio petto, ringraziandomi per quanto era successo quella notte. Io mi limitai ad accarezzargli il capo, e quello lo sollevò riflettendo così la luce dei suoi occhi nei miei.
«Te ne sei pentito?» mi chiese, quell’espressione speranzosa di una risposta negativa. Mi sciolsi davanti a quegli occhi, e mi resi conto di essere diventato un vero e proprio pappamolle. Ormai sembrava che vivessi in funzione di Valerio. Infatti,
«No,» gli dissi baciandolo sulla fronte. «Lo rifarei,» aggiunsi, sottolineando il fatto che non mi fossi pentito, anzi, che m’era andato parecchio a genio.
«Adesso?» fece lui, quasi implorante, e sembrava un cagnolino scodinzolante. Lo guardai sorpreso e in parte divertito.
«Ma non ti reggi in piedi,» gli dissi con calma, quella mia voce ormai diventata come miele, le mani che lo cercavano sempre e che adesso gli carezzavano il viso.
«Mica dobbiamo farlo in piedi…» mi fece notare per poi strusciare il naso contro il mio collo, e solo in quel momento mi resi conto che eravamo nell’entrata, proprio come la sera prima. Come se tutto stesse per ripetersi.
«No, amore, devo andare a lavoro, lo sai,» dissi molto sapientemente e, stranamente, riuscii a liberarmi senza difficoltà dal suo abbraccio. Forse perché era rimasto imbambolato a guardarmi, come se avesse la testa tra le nuvole o avesse assunto allucinogeni.
«Come mi hai chiamato?» chiese mentre mi guardava allontanarmi.
«Come… come ti ho chiamato?» ripetei, io stesso dimentico di ciò che avevo appena detto. Lui mi guardò come si guarda una magnifica opera d’arte e sorrise sospirando.
«Vai a prepararti. Ti faccio il caffè,» disse alla fine, poi si strinse nelle spalle e se ne andò in cucina col suo largo sorriso sulle labbra. Bah, i giovani d’oggi.
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Arrivai in facoltà con largo anticipo come spesso mi capitava di fare, e lì all’entrata trovai il mio collega di glottologia a fumare accanto al posacenere. Era il famoso docente che si diceva avesse avuto una scappatella con una sua studentessa. Non potevo incontrarlo in momenti migliori. E io volevo davvero entrare in facoltà fingendo di non averlo visto, così da non doverci parlare e dare spiegazioni riguardo certe voci che erano iniziate a circolare, ma quello mi diede una pacca sul braccio e,
«Non salutare mai, mi raccomando. Asociale del cazzo,» mi disse il buon Carlo Bonatti, papale papale, e senza una parola in più mi allungò il proprio pacchetto di Merit facendomi cenno di prendere una sigaretta e fumare con lui.
«Ho le mie,» dissi distrattamente, ma lui fece un altro cenno col capo.
«Prendila, te la offro,» mi esortò nuovamente, e quello sguardo non ammetteva rifiuti. Sbuffai e sfilai una di quelle sigarette che avevano pure un brutto sapore e lasciai che il mio collega me l’accendesse.
«Che hai oggi?» gli chiesi, visto il suo particolare scazzo nei miei confronti, ma anche in quelli della sigaretta, visto che era arrivato a morderne il filtro.
«Che cazzo dici? Io sono sempre così,» ribatté lui spostando il peso da un piede all’altro, il capo sempre più privo di capelli che quasi rifletteva la luce dei lampioni.
«E’ successo qualcosa?» domandai ancora, perché tanto non me la dava a bere. Ed ero sicuro che avrebbe tirato fuori la storia della mattina del giorno prima, quando un insegnante a caso era stato sputtanato da un allievo e accusato di avere un rapporto omosessuale con uno dei suoi studenti, per altro presente in quella stessa aula. Ma quello si grattò la testa, sputò il fumo, dondolò sui talloni e,
«Le solite perdite di tempo. Han fatto una piccola rissa qui davanti una mezz’oretta fa, e io sono stato l’unico stronzo che è andato lì a dividerli. Mi è arrivato un cazzotto sullo zigomo,» disse, e mi indicò lo zigomo in questione facendomi notare quanto fosse gonfio rispetto all’altro.
«E non si per cosa si siano messi a litigare?» chiesi, la sigaretta a metà, fumata controvoglia.
«Sapessi che cosa passa per la testa di certi coglioncelli!» si grattò di nuovo la testa e si mise la mano nella tasca del cappotto beige simile a un impermeabile da investigatore. Buttò il mozzicone di sigaretta, rabbrividì leggermente nella sciarpa, poi tirò fuori un secondo bastoncino e se lo accese. «Ne fumo un’altra, tanto ho lezione alle sei e mezza. Tu vai pure, ti ho importunato abbastanza,» mi disse agitando la mano con la sigaretta. Io feci la mia solita faccia perplessa – perché sì, Bonatti era un altro di quei casi umani di cui tanto mi lamentavo – e schiacciai la sigaretta ancora da finire nel posacenere, poi mi accinsi ad entrare, quando,
«E comunque benvenuto nel club, amico. Sempre che sia vera la storia che te la fai con un ragazzino,» mi disse Bonatti nel momento in cui oltrepassai la soglia, congelandomi sul posto. Tutti, lo sapevano già tutti. Feci per rispondere ma, conoscendolo, quello non avrebbe creduto alle mie parole, né a quelle di chiunque altro: si fidava solo di ciò che vedeva, e non avrebbe dato alcun peso alle mie giustificazioni. Perciò evitai di ribattere ed entrai nell’edificio allentandomi la sciarpa.
Percorsi la strada verso l’aula 34 con la netta sensazione di essere osservato e deriso da studenti e bidelli, quando probabilmente era solo la mia fervida immaginazione o le mie manie di persecuzione. Tentai di ignorare quella bruttissima sensazione e, quando vidi appoggiata accanto alla porta dell’aula immediatamente precedente una faccia che proprio non avrei voluto vedere in quel momento, pensai che fosse un’allucinazione: Fabio Martone, le braccia conserte e l’atteggiamento da duro, il giubbotto in pelle da motociclista e un orecchino che non avevo mai notato brillargli all’orecchio. Ma non era il solo particolare a decorargli la faccia: un livido violaceo metteva in evidenza uno dei due zigomi, di loro per niente pronunciati, sul labbro aveva del sangue incrostato e sulla guancia un paio di graffi. Guardava altrove con aria concentrata, e quando s’accorse della mia presenza, seguì con gli occhi la mia figura che gli passava davanti, poi disse:
«Può dire a Valerio che quel coglione non darà più problemi. Benché meno i suoi amici idioti,» non slegò le braccia conserte e non si spostò dalla sua posizione, ben conscio del fatto che mi sarei fermato una volta sentito il nome di Valerio. Guardai il ragazzo in faccia, quel bel faccino adesso ridotto male.
«L’hai picchiato?» chiesi, la risposta che se ne stava davanti ai miei occhi. Lui mi guardò con un’espressione da “Ma che domanda è?”, e io mi sentii un povero cretino. «Non risolverai niente con la viol-»
«Senta, stia buono, ok? E’ solo con la violenza che ho convinto quel buono a nulla a farsi i cazzi suoi. Conosco solo questo modo per far rigare dritto le persone,» mi interruppe alzando leggermente il mento e lasciandomi intravedere un altro piccolo livido rosso lì sotto. «Ho provato a far rigare dritto anche lei, professore, ma credo che Valerio l’abbia preferito a me.» slegò le braccia e se le infilò nelle tasche della giacca in pelle nera. «Ha vinto lei, e non so come abbia potuto fare. E’ un normalissimo, mediocre trentacinquenne col mal di vivere, uno stipendio nella media e l’incapacità di tenersi una donna. Insomma, il solito, patetico individuo che ti passa accanto e neanche te ne accorgi, per quanto si uniforma alla massa. Così grigio, triste, senza personalità, senza ambizione, pigro sino al midollo, con la disgustosa abitudine di dare una mano a chi è in difficoltà, forse perché si sente in dovere di prendersi cura di qualcuno, visto che di se stesso non lo fa. Zero forza di volontà, né troppo alto né troppo basso, né troppo bello né troppo brutto, noiosa giacca, noiosa cravatta, noiosa montatura di occhiali.» alzò le spalle, chiuse gli occhi e sospirò scuotendo la testa. «Eppure Valerio è pazzo di lei, professore. Mi sono preso una cura maniacale di lui in questi anni, e certo non mi fido a passare questo compito a lei. Ma qualcosa mi dice che devo sforzarmi ed iniziare ad accettare l’idea che Valerio possa preferire le sue braccia come rifugio, rispetto alle mie. Mi converrà accettarlo, se non voglio che inizi ad odiarmi per davvero,» mi puntò con lo sguardo severo, sicuramente non il tipo di sguardo che uno studente rivolge al suo insegnante. «Ma sappia che la osservo da lontano. E che non ho fatto tutto questo per favorire il vostro amore, ma solo perché Vale era preoccupato, e non voglio che stia in pena per qualcosa,» concluse, mi guardò per istanti che sembrarono interminabili, poi staccò la schiena dal muro e prese a camminare nella direzione opposta alla mia, il volto basso e gli occhi quasi chiusi, il livido che gli deformava la faccia e che da quella prospettiva sembrava ancora più gonfio. Per tutto il suo discorso non m’ero azzardato a intervenire, e nemmeno in quel momento mi permisi di dire qualcosa, perché sapevo che aveva ragione. Avevo ancora i brividi dovuti alla perfetta descrizione che il ragazzo aveva fatto di me, perché era riuscito a descrivermi come neanche io era mai riuscito a fare. Mi chiesi se fossi davvero così uguale alla gente. Mi chiesi per l’ennesima volta cosa Valerio avesse trovato in me. Mi dissi che una persona patetica e inutile e spenta come me avrebbe fatto meglio a uccidersi. Ma non avevo la voglia neanche di pensare a un modo per farmi fuori. E ormai vivevo in funzione di Valerio, e finché quello era vivo e mi amava, potevo pensare di avere qualcosa di importante nella mia vita.
Ma le parole di Martone mi angosciarono ugualmente. E sentii l’anima singhiozzare nel momento in cui oltrepassai la soglia dell’aula 34, per niente pronto a condurre una nuova lezione.
---
«Ti amo».
«Perché?»
«Come perché?»
«Che c’è da capire? Per quale motivo mi ami?»
Valerio si alzò sui gomiti e mi guardò come esasperato da quelle mie seghe mentali. Si sollevò nonostante avesse ormai perso completamente  le forze e mi baciò sul mento, poi strisciò con la bocca sulle mie labbra e si fermò lì socchiudendo gli occhi.
«Beh, perché mi hai salvato da…»
«Andiamo, inventatene un’altra. Non esistono i colpi di fulmine,» lo interruppi quando mi accorsi che stava tirando nuovamente fuori la storia della sua quasi-morte sotto il tram. Lui si appoggiò nuovamente sui gomiti e mi guardò col sopracciglio alzato.
«Ma io credo nel destino,» disse, fermamente, come se potesse dimostrarne l’esistenza in qualunque momento. Mi passò la mano sul braccio teso accanto alla sua spalla e me l’accarezzò a lungo, mentre, probabilmente pensava a come formulare la frase successiva. «Ero perso, e volevo essere salvato. Sei arrivato tu, un tizio comune, con nessuna particolarità, uno che ne incontri a bizzeffe per la strada, e mi hai salvato da morte certa. Ho voluto ringraziarti come potevo, poi il destino ha fatto il suo corso. Ti ho conosciuto meglio, e ho capito quanto tu fossi più perso di me. Allora ho pensato che fosse bene che ci salvassimo insieme. Tu mi hai salvato la vita, letteralmente e non, e io spero di aver risollevato un po’ la tua,» allungò la mano ad accarezzarmi la fronte scostando allo stesso tempo un ciuffo di capelli. Lui aveva la faccia sudata, lucida sotto di me, gli occhi che brillavano nella penombra come spilli, le clavicole ben in evidenza, il petto che faceva su e giù velocemente adesso che lo stavo contemplando, in tutta la sua scompostezza. «E poi… posso dire una cosa?» chiese distogliendo un po’ lo sguardo, forse sentendosi messo in soggezione dal mio, di sguardo, sin troppo insistente.
«Ormai, con tutto quello che m’hai detto…» dissi tenendo la frase in sospeso, come per dirgli che poteva dirmi tutto quello che voleva. Lui deglutì e buttò uno sguardo in basso, tra le mie gambe, per poi risalire sino alla punta dei capelli.
«Potrai anche essere un uomo pigrissimo e senza forza di volontà, ma…» sorrise leggermente beffardo. «quando si tratta di fare sesso ci dai dentro. Per quanto tu possa essere comune, fai un sesso fuori dal comune, ecco».
Mi venne da sorridere, spontaneamente, perché era impossibile che quello riuscisse a dire cose tanto spinte e sembrare impacciato allo stesso tempo.
«Voleva essere un complimento?» chiesi retoricamente.
«Certo che sì. Ti amerei solo per questo,» ammise con la risatina imbarazzata, e io gli rivolsi uno sguardo eloquente, quasi di rimprovero. «Ma ovviamente ti amo per tante altre cose,»
«Per esempio?»
«Taaante altre cose,» ripeté, e sapevo che evitava di rispondermi perché non aveva idea di cosa dire. Mi amava e basta, e non capivo come potesse farlo. Mi amava senza motivo. E’ come quando odi qualcuno senza motivo. E’ impossibile, deve per forza averti fatto un torto.
Mi appese le mani al collo e mi trascinò con lui sul cuscino, accarezzandomi piano la nuca e sorridendo tra sé. Poi lasciò che scivolassi al suo fianco e lui si alzò su un gomito passandomi una mano sul pettorale e arricciando con un dito i peli del petto. Mi coccolò per un tempo indeterminato, facendomi tornare ragazzino, sussurrandomi di tanto in tanto ciò che gli piaceva di me.
«Sei gentile,» disse per prima cosa respirandomi sulla guancia. «Anche se non con tutti,» sorrise, e il rumore del suo ghigno divertito rimaneva uno dei miei suoni preferiti. Uno dei pochi che non mi infastidivano. «Sei buono,» continuò con la faccia da ebete. «Anche di sapore!» mi diede un veloce bacio sulla guancia e sospirò, seguito immediatamente da me. «Ti piace la stessa musica che piace a me, svolgi il tuo lavoro egregiamente, sei colto, sei bello-»
«Non esageriamo,» lo interruppi subito, e quello mi poggiò la mano aperta sul petto per calmarmi.
«Per me sei bello e questo è tutto».
«Smettila,» e arrossii seriamente come una femminuccia timida che riceve un complimento dal più figo della città. Ero ridicolo e patetico.  
«E poi hai il cazzo gros-»
«VALERIO!» esclamai quasi avessi visto il diavolo. E in effetti un diavolo per capello ce l’avevo. «Cerca di controllare quella tua spontaneità!» gli raccomandai severamente mentre quello si tappava la bocca e mi chiedeva scusa con gli occhi. Mi allontanai leggermente da lui accusandolo con lo sguardo, e più quello si riavvicinava, più io mi scostavo per tenerlo lontano.
«Scusami! Ma pensavo che potessi permettermi le parolacce, adesso che lo facciamo come cricet-»
«Basta, vado a dormire di là,» decisi a quel punto. Presi i boxer da terra e me li infilai svelto, per poi scappare nella stanza accanto, con Valerio che si sbracciava per cercare di trattenermi.
«Dai, per favore, non riesco più ad addormentarmi senza di te!» esclamò rischiando di svegliare l’intero condominio, e sentii i suoi piedi picchiettare sul pavimento dietro di me, che mi rifugiavo nella camera che occupava Valerio. Mi buttai su quel letto rifatto in modo maniacale, e neanche riuscii a nascondermi sotto le coperte, che Valerio era già lì in piedi accanto a me ad aspettare che gli facessi spazio.
«Mettiti qualcosa addosso, maledizione!» sbottai quando notai la sua nudità nonostante il buio.
«Mi stai meglio tu addosso di qualsiasi altro vestito».
«Ma che risposta è? Da dove l’hai presa, da facebook?» sbuffai come un vecchio inviperito, e andai a schiacciarmi contro il muro, ovviamente colpito al cuore dalla risposta impertinente del ragazzo. Glielo feci, il posto, perché non potevo fare altrimenti. E probabilmente saremmo potuti tornare nel letto grande, ma questo era più fresco, e ci teneva più stretti. Si infilò sotto le lenzuola e si aggrappò alla mia schiena come un koala, riempiendomi le spalle di bacetti. Morivo di felicità.






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Ho ricevuto la recensione più lunga della mia vita privatamente. Bellissima, commovente, e contenente anche qualche perplessità. Desideravo davvero rispondere, ma non sapevo in che modo spiegarmi… Forse perché io stessa non ho capito i miei personaggi, si sono formati da soli XD Spero comunque di aver chiarito leggermente le idee con questo nuovo capitolo, con le parole di Fabio e di Valerio ;)
Il personaggio di Bonatti mi piace da morire! Sa dire solo parolacce, è un figo e lo amo anche se non comparirà più <3
Grazie a chi followa ancora questa storia, ovviamente <3
La mia pagina facebook è nei capitoli precedenti XD








Mirokia

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo ventiduesimo ***


Cap. 22





 



In facoltà continuarono a girare voci che di bocca in bocca diventavano sempre più false e poco credibili – avevo sentito che qualcuno andava a dire in giro che io avevo preso un mio alunno e l’avevo baciato davanti a tutti durante la lezione -, ma col passare delle settimane la cosa scemò lentamente, e solo i più pettegoli continuavano a parlarne. Inoltre, Valerio si premurò di precisare, con una freddezza che non credevo potesse appartenergli, che quella mattina era fuggito dall’aula perché aveva avuto un attacco improvviso di nausea dovuto alle schifezze che aveva mangiato la sera prima, e non poteva mica vomitare sul banco, quindi era scappato verso il bagno. Con borsa e cappotto, sì. Il tono era comunque così serio che arrivò a convincere persino me, l’unico insieme a Martone che sapeva com’erano andate davvero le cose. Quel ragazzo esercitava sulle persone un potere di persuasione allucinante senza neanche sforzarsi più di tanto. Era un talento naturale. Come io avevo un talento naturale per dare una mano ai poveri sfigati in difficoltà, lui ce l’aveva per abbindolare la gente con scuse poco credibili. Magari era riuscito a farmi cadere nella sua rete allo stesso modo. Sperai soltanto che lo facesse inconsapevolmente.
Perché quel moccioso m’aveva catturato sul serio. E io non facevo neanche lo sforzo di dimenarmi come un pesce in trappola. Anzi, ormai sembravo essere al suo servizio, nonostante lui mi raccomandasse di starmene tranquillo a casa dopo il lavoro: oltre a fargli da taxi ogni qualvolta avesse lezione con me – e anche quando non era con me, a dirla tutta; m’alzavo a orari indicibili apposta per non fargli prendere freddo -, adesso lo portavo anche in palestra a giorni alterni, e andavo pure a prenderlo. Ovviamente lo accompagnavo anche in ospedale, ma non mi azzardavo ad entrare nell’edificio, anche se Valerio m’aveva detto che a lui stava più che bene se riusciva a condividere anche il dolore per la sorte di suo fratello con me. Ma aveva capito a sue spese che gli ospedali non mi piacevano tanto quanto i funerali, perciò finiva sempre per entrare da solo. Stava dentro mezz’ora, poi si rinfilava in macchina, talvolta lacrimando, talvolta sollevato dal fatto che Alessio non si fosse ancora del tutto spento, anche se sapeva di non dover coltivare ancora delle speranze. Ormai lo faceva solo più a dispetto del padre, che invece le aveva perse sin dal primo mese di coma.
Bruno Castelli invece, nonostante continuasse a chiamare il figlio e a ricevere risposte entusiaste, ebbe la brillante idea di venire a farmi una visita a sorpresa, in un orario in cui era sicuro di aver trovato me da solo a casa. Sapeva a memoria i giorni e gli orari in cui suo figlio andava a ballare, e proprio una di quelle volte venne a premere il pulsante sul mio citofono con fare incerto. Ma il destino – dannato destino in cui stavo iniziando a credere a causa dei discorsi convinti di Valerio – volle che proprio quel pomeriggio il mio coinquilino avesse deciso di saltare l’allenamento e “saltare” piuttosto nel mio letto, col solito chiasso annesso. Gli avevo raccomandato in tutti i modi di non saltare né lezioni né allenamenti, o non si sarebbe raccapezzato al saggio di maggio, ma quello s’era discolpato dicendo che erano tre giorni che non lo facevamo, causa stanchezza che riusciva a spegnere persino un fuoco come lui, e quindi doveva approfittarne adesso che si sentiva bello in forma. E non s’azzardava mai di chiedere a me se ne avessi voglia o meno? No, si limitava ad impormelo con l’aiuto della sua potente persuasione e delle sue dolci carezze. Andò a finire che misi da parte il mio istinto da paparino e mandai a quel paese l’allenamento, e il saggio, e tutto il resto. Dopo averlo spogliato sul divano, me l’ero trascinato in camera da letto e avevo portato a termine l’opera. Il citofono squillò solo quando Valerio sgusciò dal letto rotolando a terra, perché riteneva che facesse più fresco e che quindi fosse un toccasana dopo quel tipo di sudata. Io pensavo solo che si sarebbe preso un accidente.
Convinto non si sa per quale motivo che fosse un qualche testimone di geova a quell’ora, risposi al citofono mentre mi infilavo tranquillamente le mutande.
«Professor Ruggeri? Sono Bruno Castelli, mi dispiace disturbarla, io volevo solo…»
Tappai all’istante il ricevitore e feci un suono strozzato con la gola, poi alzai gli occhi al cielo e sbattei un piede a terra, domandando al Santo Padre se fosse possibile che quel tizio – non un tizio qualunque, ma il padre del mio amante ventenne e che poteva avere pochi anni in più di me – dovesse venire a farmi visita proprio in quel momento. Cercai di riacquistare la calma, nonostante quell’altro mi stesse urlando dal pavimento della camera da letto un insistente: “Chi era?”
«Salve, cosa desidera?» chiesi al citofono, i nervi a mille, quello in camera che non aveva intenzione di stare zitto.
«Volevo scambiare due parole con lei, se possibil-»
«No, non è possibile. Voglio dire, è qualcosa riguardo suo figlio? Perché non mi dà alcun tipo di fastidio, anzi Voglio dire, non è affatto molesto, è educato e silenzioso… anche se non sempre voglio dire,» e per quante volte avevo ripetuto “voglio dire”, ero sicuro che non avesse inteso quello che volevo dire.
«Beh, sì, è riguardo mio figlio. Mi sono ormai convinto del fatto che non le stia dando fastidio, ma avrei un favore enorme da chiederle…» “Un altro?!” mi ritrovai a pensare, visto che alla fine mi ritrovavo in quella situazione a causa delle sue stupide richieste. «…la prego,» concluse con tono di voce lamentoso, e il solito buon samaritano che era in me mi costrinse ad alzare il dito e dire:
«Se… le dispiace attendere un momento fuori dalla porta… Sa, sono appena uscito dalla doc-»
«Nessun problema, aspetterò!» mi anticipò, e a quel punto non potei fare altro che schiacciare il dito sul pulsante per l’apertura del cancello. Sfrecciai in camera da letto e trovai Valerio disteso a pancia  in giù sul pavimento mentre si reggeva sui gomiti, le gambe sollevate e che si muovevano in modo alternato, come le ragazzine dei film di serie B.
«C’è tuo padre,» dissi col fiato corto, come se quella mia conversazione al citofono richiedesse ulteriori spiegazioni.
«Rompipalle. Rovina sempre i momenti migliori,» rispose quello, che non era agitato nemmeno un’unghia di quanto lo ero io.
«Senti, fai… fai finta di non esserci. Ascolto cosa ha da dirmi e tento di non portarla per le lunghe,» gli raccomandai a tono di voce già basso, ché avevo paura che Bruno fosse già in piedi dietro la mia porta. Valerio fece un cenno di assenso un po’ annoiato, senza però spostarsi dalla sua posizione.
«Mio padre sa che sono gay, comunque,» disse tranquillamente mentre guardava con aria annoiata i graffi sul parquet.
«Ah, sì?» domandai poco interessato mentre mi infilavo di fretta il primo paio di pantaloni trovati sul bordo del letto e una maglia che possibilmente non fosse girata al contrario.
«Quando s’è sposato per la terza volta, gliel’ho urlato in faccia, quasi mi aspettassi che mi avrebbe cacciato di casa a calci. Ma in realtà ha fatto l’opposto. Mi ha detto addirittura che avrei potuto invitare a casa i miei fidanzati! Tutto pur di non farmi scappare».
«Non lo biasimo,» dissi velocemente mentre mi passavo una mano tra i capelli in disordine. «Anche io farei di tutto pur di non farti scappare».
Lo sentii mentre tratteneva il respiro, probabilmente preso alla sprovvista dalle mie parole, e vidi la sua ombra contro l’armadio cambiare forma e dimensione nel momento in cui si sollevò dalla sua posizione e si sedette sui propri polpacci. Nascose le mani in mezzo alle cosce e prese a guardarmi mentre mi sistemavo i capelli davanti allo specchio, con una luce particolare negli occhi, imbambolato sul mio profilo. Mi sentii chiaramente osservato, e allora inclinai leggermente il capo ridacchiando nervosamente.
«Ci si affeziona facilmente a te,» dissi con una mano dietro la nuca, usando quella frase come scusa per le parole sdolcinate di poco prima. Quindi feci per uscire dalla stanza, più o meno pronto a incontrare il padre di Valerio, quando quest’ultimo,
«An,» mi chiamò, ed era una settimana che andava avanti con quel soprannome, dicendo che lo trovava più intimo e anche personale, perché mai nessuno si sarebbe sognato di abbreviare il nome “Andrea” in quel modo. E quando mi chiamava con quel nomignolo, mi sentivo roba sua, quasi fossi di sua proprietà e nessun altro fosse autorizzato ad entrare nella mia bolla. Mi fermai sulla soglia e voltai capo e spalle nella sua direzione, segno che ero lì, lo stavo ascoltando. «Sai cosa ha intenzione di chiederti mio padre, vero?»
Distolsi lo sguardo e lo puntai altrove, un po’ sul pavimento, un po’ sull’armadio di fronte, un po’ al soffitto, poi annuii con un sospiro. Valerio si aggrappò al comò accanto a lui e si mise in piedi con non poca fatica, negando con la testa quando feci per aiutarlo. Arrivò sino a me e mi poggiò le mani sulle spalle, l’espressione sofferente del cane che sta per essere abbandonato in autostrada.
«Non gli permetterai di portarmi via, vero?» mi chiese supplichevole, mentre il mio sguardo non riusciva a reggere il suo.
«Come faccio…» lasciai la frase in sospeso, e lui capì bene che era un “Come faccio a non permetterglielo?
«Digli… digli che lo odio. Che qui sto molto meglio, che non ho bisogno di lui,» mi intimò soffiandomi sul collo, in cerca di contatto fisico. Gli avvolsi un braccio attorno alle spalle e negai deciso.
«Non dirò mai qualcosa che possa compromettere il rapporto che hai con la tua famiglia. Soprattutto bugie,» gli dissi, tono di voce particolarmente controllato, e una sua mano mi strinse la maglietta all’altezza del petto.
«E’ vero che qui sto molto meglio»
«Ma non è affatto vero che lo odi. O che non hai bisogno di lui. Se non ci fosse lui a spedirti soldi ogni settimana, a quest’ora sarei a secco anche io. Dovresti ringraziarlo per i sacrifici che fa per accontentarti»
«Vuoi dire che dovrei tornare a casa e farlo contento?» mi chiese allora, a voce decisamente alta, le sopracciglia aggrottate e il viso alzato verso il mio.
«Voglio dire…» e andai a premergli forte il pollice sulle labbra socchiuse, pronte a parlare nuovamente. «Che dovrai parlarci tu per convincerlo a farti restare. Lui vede che stai meglio adesso, al telefono siete arrivati persino a scherzare, ti sente ridere e bene o male andate d’accordo. Pensa che tu ti sia ripreso da quella… chiamiamola “crisi adolescenziale”, e naturalmente crede che tu ormai non abbia problemi a tornare a casa. Non ci sarebbe motivo di rimanere qui, non credi?» cercai di farlo ragionare, e il modo in cui la razionalità prendeva nuovamente il sopravvento una volta che scendevo dal letto, sapeva spingere ormai come un macigno sul petto. Perché diavolo dovevo sempre usare la testa? Perché il Signore m’aveva dotato di un cervello pensante? Perché continuavo a pensare a ciò che era meglio per lui e mai a ciò che era meglio per me?
«Certo che c’è,» mi fece notare lui strattonandomi la maglietta, quasi stesse convincendo il mio istinto a venire fuori e a parlare al posto del cervello.
«Sì, ovvio che c’è, ma per me e per te. Lui non immagina che-»
«Sarà bene dirglielo, allora,» e lo vidi aprire ulteriormente la porta con un braccio e tentare di superarmi per raggiungere il salotto, così, in quelle condizioni, nudo e sudato e sporco e che altro? Pensai stesse dando di matto, quindi lo afferrai dal gomito e lo riportai dov’era.
«Non dire sciocchezze. Non la prenderà bene,» gli dissi con tono serio una volta avutolo nuovamente davanti agli occhi.
«Ha preso bene la mia omosessualità»
«Non prenderà bene la notizia della tua relazione intima con un insegnante più grande di quindici anni. Ti prego, è ancora faticoso per me prendere coscienza di una situazione tanto surreale. Non complichiamo le cose trascinando in questa follia anche tuo padre. D’accordo?» Avevo le mani sulle sue spalle adesso, e mi piegavo per riagganciare il suo sguardo, visto che l’aveva fissato al pavimento. Bruno Castelli suonò il campanello, segno che forse era anche troppo che lo facevo aspettare. Ma era tutto inutile, con Valerio perdevo la cognizione del tempo, la cognizione di me stesso. Allora il mio coinquilino fu come riscosso, alzò il viso e mi rivolse un sorriso rassicurante. Come se fossi sempre e solo io quello da rassicurare.
«Sì, va bene. Scusa l’egoismo» e si buttò ad occhi chiusi sul mio petto, abbracciandomi. «Ma è frustrante essere felici e non poterlo urlare al mondo,» aggiunse sospirando, e io gli posai un bacio sul capo.
«Se ti consola, lo urli di notte al condominio. Te ne saranno grati, immagino. Soprattutto la nostra discreta vicina,» gli dissi, più scherzoso, e gli feci l’occhiolino quando alzò il capo per guardarmi. Quel mio gesto sembrò calmarlo, e quando andai ad aprire la porta per far entrare suo padre, tornò a distendersi sul letto, con le orecchie tese ad ascoltare ogni nostra parola.
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Non andò come avevo previsto.
Il timore che Valerio potesse davvero abbandonare la mia casa, la casa che ormai consideravo nostra, mi spinse a parlare. Non volevo farlo, avrei mandato a monte qualunque cosa: la fiducia dell’uomo che mi sedeva davanti, il suo rapporto con il figlio, la possibilità che Bruno decidesse di lasciare Valerio in casa mia ancora per un po’. Non so cosa mi prese, probabilmente non riuscivo a pensare ad altro che al sorriso rassicurante e terribilmente forzato di Valerio quando mi diceva che sì, avevo ragione, non potevamo mettere al corrente suo padre di qualcosa di tanto… shockante. Ma lui l’avrebbe voluto. E io l’avevo deluso dicendogli che no, non si poteva fare, era forse impazzito?
Ero forse impazzito?
«Mi fa piacere che mio figlio non le abbia dato problemi»
«Perché avrebbe dovuto?»
«In realtà ero preoccupato che lui… insomma…» L’avevo spronato ad andare avanti, a sputare il rospo, con un cenno del capo. «Portasse in casa sua qualcuno, insomma, con cui intrattenersi,»
«Non sarebbe stato un problema,» avevo detto, le dita incrociate sul tavolo in salotto, gli occhi fissi nei suoi quasi fossi completamente conscio dei miei movimenti, delle mie parole, del mio tono di voce, quando in realtà ero guidato da qualcos’altro, quell’istinto che Valerio poco prima aveva tentato di strapparmi fuori stringendo con la mano la maglietta all’altezza del cuore.
Bruno mi aveva guardato sorpreso, quasi la mia gentilezza e disponibilità adesso fossero esagerate. Chi altro avrebbe permesso che uno sconosciuto portasse altri sconosciuti a casa propria?
«C’è… un’altra cosa che credo lei debba sapere,» mi aveva detto allora, e sapevo già dove voleva arrivare. «Mio figlio è… dice di essere gay,» aveva buttato fuori con una certa fatica, e io non mi ero sforzato di sembrare stupito. «Quindi non vorrei che…»
«Non sono preoccupato,» lo interruppi, le dita ben incastrate l’una nell’altra.
«Ma le ho appena detto che…»
«Suo figlio sta con me. Non c’è il pericolo che si porti qualcuno in casa» buttai fuori, tutto d’un colpo, le mani unite a coprire metà della bocca, quasi fossi cosciente della gravità della mia rivelazione, nonostante l’avessi lasciata andare con tanta leggerezza. Gli occhi e le sopracciglia dell’uomo si mossero in un’espressione confusa, poi concentrata nella formulazione di una risposta che si potesse rifare alla mia precedente affermazione.
«Mi rendo conto che lei sappia come tutelare i propri studenti, e la ringrazio e la stimo per questo, ma…»
«No, non mi sono spiegato bene,» lo interruppi subito, perché m’ero reso conto che non stava seguendo il mio discorso, stava seguendo il suo binario senza accorgersi che io l’avevo cambiato  sin dall’inizio della conversazione. Lui voleva arrivare a un punto, io a un altro. Che poi era il suo esatto opposto. Quindi alzai la bottiglia marrone di Bicerin versandone un altro goccio nel suo e nel mio bicchiere e sospirai. Odiavo ritrovarmi in situazioni del genere, ma in un certo senso me l’ero voluta. Presi un sorso di liquore e poi mi misi ad osservare le sfumature del liquido marroncino nel piccolo bicchiere decorato, in religioso silenzio, improvvisamente indeciso sul da farsi, con Castelli che mi guardava in attesa che mi spiegassi meglio. «Posso farle una richiesta io, questa volta?» chiesi quindi, e lui ci mise un attimo ad annuire e a dire “Certo, di cosa si tratta?”
«Vorrei che suo figlio rimanesse in casa mia,» dissi, quasi fossi a uno dei miei ricevimenti dopo le lezioni.
«Ma non credo ci sia ancora bisogno della sua gentilezza, professore»
«Vorrei che convivesse con me,» insistetti a voce ferma, perché quell’uomo sembrava cieco e sordo. Eravamo davvero su due binari diversi, lui non riusciva a capire me e io non trovavo le parole giuste per esprimermi.
«Ma… è mio figlio, non il suo,» ribatté lui, giustamente, ed ero pronto a formulare una frase più esplicita e che potesse finalmente aprirgli gli occhi, quando lui quasi si affogò col Bicerin nel momento in cui vide qualcosa alle mie spalle. «Eri qui?» domandò a voce rauca alla figura di Valerio, entrato nella stanza in quel momento. Mi voltai di scatto, avevo una paura matta di ritrovarmelo nudo, ma fortunatamente aveva avuto il buonsenso di mettersi addosso qualcosa, qualunque cosa fosse. Gli puntai uno sguardo da “Che ci fai qui, ti avevo detto che avrei risolto tutto io”, e lui mi rispose a voce alta alzando le spalle.
«Parlavate del mio destino, e così sono intervenuto,» disse semplicemente appoggiandosi alla spalliera della mia sedia. Destino? Ma che problemi aveva con quella parola, che la metteva sempre in mezzo a ogni discorso? «Mi ricordate quanti anni ho?» ci chiese poi retoricamente, e io mi misi una mano sulla fronte senza rispondere. Volevo rimanere con la faccia nascosta nella mano finché non avesse detto tutta la verità, con quella lingua lunga e senza peli che si ritrovava, con quei termini volgari e diretti che a volte si lasciava scappare con me. Ma disse soltanto “Esatto, ne ho venti, quasi vent’uno”, rispondendo in modo sbrigativo alla nostra domanda. «Quindi credo di essere in grado di decidere dove stare». Sembrò aver concluso, braccia conserte e sguardo risoluto, mentre io sbirciavo l’espressione di Bruno attraverso le dita sulla mia faccia: aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani quasi si fosse reso conto che, no, suo figlio non voleva neanche rivederlo, figuriamoci tornare a casa. Poi però,
«Papà, io ti voglio bene. Te ne voglio davvero,» disse Valerio, e suo padre tirò su il capo, preso alla sprovvista. «Ma voglio stare qui,» aggiunse, le braccia ancora più strette al petto, i piedi nudi ben piantati sul pavimento, quasi volessero mettere le radici.
«…Perché?» chiese Bruno, non riuscendo a darsi una spiegazione, ed era così cieco e ingenuo che, davvero, mi faceva male il petto.
«Perché voglio stare con Andrea»
Ohi ohi, adesso avrebbe dovuto capirlo, visto che suo figlio mi chiamava per nome e intanto appoggiava le sue mani enormi e bollenti sulle mie spalle facendomi sussultare. Ma,
«Non capisco. Cosa ti dà lui che io non ti do?» disse invece, e io liberai la faccia dalle mie dita, perché quella era una domanda a doppio taglio, e dovevo tenermi pronto a fermare Valerio nel caso gli fosse saltato in testa di rispondere a cuore aperto. Infatti,
«Beh, se vuoi che sia schietto, lui-»
«Non c’è bisogno che tu sia schietto!» lo fermai, in un attacco di energia improvviso, quasi alzandomi per tappare la bocca del ragazzo. Bruno Castelli guardava la scena con gli occhi che si incrociavano, e ancora non riusciva a vedere, o più probabilmente non voleva.
Mentre Valerio tentava di non farsi colpire dalle mie braccia che si divincolavano, provò ancora una volta ad essere più esplicito, ma non riuscì ad arrivare neanche a metà frase che gli feci cenno di  zittirsi. Presi un respiro profondo, con Castelli che mi guardava con tanti di occhi, e pensai sul serio di avere a che fare con un bambino. Poi dissi:
«Sono profondamente innamorato di suo figlio, signor Castelli,» la mia voce sembrava strana persino alle mie orecchie, e gli occhi rimanevano quasi chiusi, incapaci di guardare l’interlocutore. «Mi permetta di tenerlo con me. Non potrei mai arrecargli alcun tipo di offesa, lo terrò come fosse fatto di vetro, pagherò ogni sua spesa, soddisferò ogni sua richiesta. Mi rendo conto che è una follia, e che io stesso devo ancora abituarmi a un pensiero che si scosta tanto dalla vita di tutti i giorni, dalla normalità. Ma suo figlio è la sola persona che sia mai riuscita a suscitare il mio interesse per la vita,» mi interruppi, le mani adesso chiuse a pugno sulle gambe e lo sguardo basso, in attesa di qualche pugno volante. Valerio stringeva piano le sue mani sulle mie spalle, e pensai che quello non era proprio il momento di mostrare certi gesti affettuosi al signor Castelli.
«…Ah,» si limitò a buttare fuori l’uomo, lasciando intendere che in realtà aveva capito sin dall’inizio dov’è che volevo arrivare, ma forse sperava di sbagliarsi. Portò una mano a grattarsi la nuca, e giustamente non aveva voglia di guardarmi in faccia, né a me, né a suo figlio. Semplicemente vagava con lo sguardo per il salotto, visibilmente a disagio, lo sguardo sinceramente deluso. «Dovevo… aspettarmelo,» disse dopo un po’, gli occhi fissi sulla bottiglia del Bicerin. «Quel suo buon umore doveva avere per forza una causa. Adesso almeno so qual è».
Non s’azzardò a guardarci da quel momento in poi, e gli fui quasi grato. Perché in ogni caso non sarei riuscito a sostenere il suo sguardo di padre ferito. Dio, ero un mostro. C’era bisogno di dirglielo?
Sentii la presa di Valerio sulle mie spalle allentarsi e il suo respiro farsi più sollevato e mi dissi che sì, c’era bisogno. Valerio desiderava che lo facessi, e sentivo che avrei davvero fatto qualunque cosa per lui. Mi chiesi se non fosse il primo passo verso il completo annullamento di sé. Rosaria mi aveva detto una volta che quando uno s’innamora per davvero, mette nella relazione tutto quello che ha, mette in gioco tutto se stesso pur di far star bene l’altro. L’altro esiste e tu ti annulli, e sta bene così. Però se pure l’altro è innamorato profondamente, anche lui preferisce annullarsi pur di far star bene te. E così siete annullati entrambi, o state bene entrambi. Vivete tutt’e due contando sull’esistenza dell’altro. Era un concetto difficile, adesso lo capisco.
«Non posso contare sul tuo ritorno a casa, vero?» riprovò Bruno Castelli, gli occhi puntati al pavimento, senza alcuna intenzione di alzarli verso suo figlio. Quello scosse la testa lentamente, ma dato che il padre non lo stava guardando, disse un “No” rauco, e Bruno sospirò, quasi si fosse sempre aspettato una simile fine da parte del figlio minore. Aveva perso la moglie, il figlio grande, e il piccolo aveva deciso di andarsene per le cattive strade, per quanto lui avesse cercato di allontanarlo da altri tipi di pericoli, come quel Fabio Martone. Probabilmente si sentì in colpa, Bruno, per aver scelto proprio me come pseudo tutore di suo figlio. Era riuscito a trovare proprio l’unico disadattato col male di vivere e facilmente influenzabile. O forse doveva biasimare suo figlio, perché era sempre in grado di affascinare chiunque, con quelle sue maniere tanto naturali ma dal grande potere persuasivo. Sì, probabilmente era colpa di suo figlio. Ma non lo faceva apposta ad essere tanto privo di difetti, non poteva mica prendersela con lui. E poi era suo figlio. Lo amava più di sé stesso, e sempre l’avrebbe fatto. Si portò una mano a stringere gli occhi, sembrava sul punto di piangere. Pensai che si stesse sentendo terribilmente in colpa per quello che era successo, e non ebbi il coraggio di dire nulla, perché Bruno era un adulto, aveva alcuni anni in più di me, e io sapevo esattamente come potesse sentirsi, anche se non avevo mai avuto un figlio. Il mondo degli adulti. Un adulto che ha passato la vita a costruirsi le proprie condizioni e la propria normalità, vedrebbe la relazione tra me e un adolescente come un abominio. Se poi questo adulto è il padre dell’adolescente in questione…
«Mi perdoni,» mi venne da dire, e la stretta sulle mie spalle tornò a farsi più salda. Lui continuò a grattarsi il collo e finalmente gettò una fugace occhiata a suo figlio, ma fu talmente veloce che Valerio stesso non se ne accorse.
«Mio figlio vuole stare con lei, professore. Non posso fare nulla per proibirglielo, anche se vorrei esserne in grado. L’unica mia speranza è che si renda conto che una relazione del genere non può andare avanti per molto e che torni di sua spontanea volontà. A dirmi che avevo ragione. Sarebbe un peccato se però tornasse a casa ancora più a pezzi di prima. Non so se sa la storia della nostra famiglia…»
Annuii consapevole, e lui si torse le mani senza mai guardarmi.
«Starà bene,» dissi, una mano che andò automaticamente sul cuore, in una sorta di promessa. Bruno seguì con gli occhi quella mano, poi sospirò nuovamente e s’alzò dalla sedia traballando, colpito dall’ennesima delusione.
«Sarai a casa almeno per le vacanze di Natale?» chiese prima di andarsene, cappotto e sciarpa sotto il braccio, senza neanche voltarsi.
«Sì,» fece Valerio a voce alta e risoluta.
«Ti chiamo domani»
«Okay»
«Ogni giorno»
«Va bene»
Poi, nonostante mi fossi alzato per accompagnarlo alla porta, uscì prima che potessi raggiungerlo, e lo sentii borbottare uno stanco “Ma cosa sto facendo? Lo lascio qui?”, dopodiché si chiuse la porta alle spalle.





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Ho cercato di rendere la reazione del padre di Valerio il più credibile possibile. Non accetta una relazione per lui “anormale”, ma allo stesso tempo non può fare nulla per impedirgli di frequentare Andrea. Mettendomi nei suoi panni, mi sentirei impedita in questo modo, e non potrei fare altro che andarmene sperando che mio figlio continui a stare bene.
Ho ricevuto un’altra recensione bellissima – la più lunga e dettagliata della mia vita, di certo – ed ero a lezione mentre la leggevo: ero talmente felice che mi sarei messa volentieri a piangere, ma ero proprio davanti al professore e non mi sembrava il caso. Volevo dire a questa persona che ha tratteggiato i miei personaggi in maniera impeccabile e che, anzi, li conosce molto meglio lei di me. Volevo dire a questa persona che, come ha già capito, è stata una scelta volontaria quella di non descrivere fisicamente Andrea. Il motivo “primordiale”, diciamo, è perché la storia, essendo scritta in prima persona, non può presentare un Andrea che si descrive da solo. O meglio, potrebbe, ma a me piace poco. “Eccomi qui, un ordinario trentacinquenne, fortunatamente non ancora stempiato, rughe d’espressione accanto alla bocca e vicino agli occhi, fisico asciutto ma per niente tonico, ombra della barba sempre accennata…”, è brutto. Mi sa di fan fiction di serie B XD
E poi, il secondo motivo, se non il più importante, è che volevo che ognuno si facesse la propria immagine di Andrea. Volevo che il mio Andrea avesse un certo volto, che l’Andrea della mia amica somigliasse a un certo attore, che l’Andrea dell’altro mio lettore fosse l’opposto di come me l’immagino io, eccetera. Perché, tanto, anche nel mio immaginario i due protagonisti hanno un volto un po’ confuso. Il resto dei personaggi ce li ho ben stampati in testa, ma Andrea e Valerio sono così ricchi di sfumature che spesso cambiano anche aspetto. Andrea per me è quello che tutti considerano un “normalissimo uomo, forse anche troppo mediocre, chi proverebbe mai interesse per uno così?”, ma che a me attrarrebbe come le mosche col miele. Sarebbe indifferente a tutti tranne che a me. Perché la vita va così (?) e io per inerzia mi innamoro della gente random, ma di solito dura un paio di giorni <3


Quindi niente, spero di non avervi annoiato, that’s all, folks! E buon Natale!!!!!!!






Mirokia

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitreesimo ***


Cap. 23

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Seriamente?»
Giulio mi parlava da dietro il bancone, ché tanto ormai l’Olsen sembrava roba sua. Serviva i drink al posto di Giusy, che s’era presa una piccola pausa e adesso era seduta al tavolino e scherzava con Valerio, che s’accontentava del suo solito Bacardi.
«L’hai fatta franca anche col padre?»
«Mmh,» gli risposi, spossato come sempre –anche di più, visto che Valerio mi sottoponeva a sforzi fisici non indifferenti –, le braccia incrociate sul bancone, la testa che ciondolava.
«E non sei contento?» mi chiese quello retoricamente mentre sorrideva a un cliente appena entrato. O una cliente. Non capivo se era più uomo o donna.
«Dovrei essere contento di aver strappato via un figlio a suo padre?» feci io col tono del vecchio caprone, e in effetti quello sbuffò sistemandosi gli occhiali sul naso. Il ciuffo era tornato a pendergli da un lato, coprendogli sopracciglia e metà occhio.
«Non gliel’hai mica sequestrato. E non te lo sei trascinato in Siberia. Col tempo ci farà l’abitudine, vedrai,» mi assicurò quasi spazientito di quel mio brontolare come una pentola di fagioli.
«L’abitudine del pensiero di suo figlio che va a letto col suo insegnante? Non credo proprio».
«Ehi, quand’è che inizierai a viverti la tua, di vita? Sii egoista, una volta tanto, e pensa a cos’è che vuoi tu,» mise nel lavandino due bicchieri, poi si fermò con le mani sotto l’acqua corrente, quasi avesse avuto un’ illuminazione. Chiuse di botto il rubinetto e alzò il capo con una luce sfavillante negli occhi. «Aspetta, siete andati a letto?!» urlò eccitato, e Valerio e Giusy dietro di noi alzarono lo sguardo nella nostra direzione.
«Abbassa la voce, Cristo!» gli intimai allarmato, ma quello non fece altro che assumere un’espressione da fangirl assatanata.
«E com’è stato?! E’ lui il passivo, vero? Ovviamente. Quante volte l’avete fatto? Solo sul letto o anche in posti strani? Fa rumori molesti o è silenzioso? Usate il lubrificante, vero? Dovreste. Ve ne compro un po’? Ho dei preservativi dietro, li volete? Non mi servono! Vado a prendertel-»
«La pianti?! Mi sembri una donnicciola in calore, sta’ buono!» gli intimai a denti stretti afferrandolo dal colletto della maglia quando si girò per andare a prendere i suoi dannati preservativi. «E comunque, non ti racconterei niente in qualunque caso, mi sono ripromesso di tenere la bocca cucita con te,» aggiunsi mentre quello si divincolava dalla mia presa.
«E perché mai?»
«Ah, perché, mi chiedi? Non sei stato tu a riferire al ragazzo tutto quello che mi capitava di confidarti? Certo che sì, visto che mi sono permesso di dirlo solo a te. Ero convinto che gli psicologi fossero costretti al segreto professionale,»
«Non sei mica un mio cliente, belloccio. E poi l’ho fatto per il tuo bene. Vedevo il ragazzo molto propenso a fare cose sporche con te, quindi ho voluto solo spingerlo un po’, facendogli sapere che, in effetti, pure tu non aspettavi altro. E sono così felice che di aver ottenuto l’effetto sperato!» esclamò con le mani chiuse a pugno sotto il viso, dimostrandosi molto più checca di quello che dava a vedere di solito. E io avrei voluto mollargli un pugno al volo.
«Quindi, se non fosse stato per te, a quest’ora non mi troverei in questa situazione impossibile».
«Se non fosse stato per me, a quest’ora saresti a segarti nel sonno,» mi rispose quello prontamente, con un ghigno divertito, e io pensavo che quella non era proprio la faccia di uno psicologo, ma di uno psicopatico. Come gli passava per la testa di dire certe cose a voce tanto alta?
Infatti ero tanto imbarazzato da non avere la forza di ribattere, e mi schiacciai una mano sulla fronte mentre quello se la rideva. Quindi decisi che non avrei più parlato con quell’infame e mi alzai per poi raggiungere Valerio e Giusy, che avevano preso a ridere di gusto, quasi si stessero raccontando aneddoti divertenti risalenti all’infanzia. Magari Giusy stava raccontando aneddoti appartenenti alla mia infanzia, dato che eravamo cresciuti insieme. Avevo sempre la coda di paglia.
«Di che parlate?» mi intromisi sedendomi sulla panca accanto a Valerio.
«Mi stava imitando i suoi professori del liceo,» mi spiegò Giusy in quell’attimo di respiro tra una risata e l’altra, poi scoppiò di nuovo. «Non ce n’è uno che fosse a posto! Ricordi i nostri?» mi chiese poi, e io mi accorsi che, nonostante mi stessi sforzando di ricordare, non mi veniva in mente neanche un nome. Lo trovai frustrante. Valerio, ovviamente, li ricordava alla perfezione, le loro parole, le movenze, gli accenti, mentre io neanche una faccia o un nome. Ci toglievamo parecchi anni, io e lui, maledizione.
«Non ricordi la Sangriolo? Quella grinzosa di matematica. Dio, che vecchia cialtrona!»
Lei mi disse il nome, ma non riuscii a collegarci un volto. Ed ero talmente frustrato che quasi stavo per colpirmi ripetutamente la testa con le nocche. In quel momento Giulio chiamò a gran voce Giusy, che alzò il capo asciugandosi una lacrima e continuando a ridacchiare.
«Come si fa la Capoeira?» le domandò da lontano, e quella fece una faccia stranita.
«Cosa sarebbe la Capoeira
«Un drink, mi hanno chiesto-» poi però il cliente davanti a lui lo richiamò con un gesto della mano e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. «Ah, no. Caipiroska,» si corresse grattandosi dietro l’orecchio. Giusy si trascinò a malincuore al bancone, ché si stava divertendo davvero troppo a chiacchierare. E io ebbi la netta sensazione che Giulio l’avesse fatto apposta per lasciare me e Valerio soli. Come si può confondere la Caipiroska con la Capoeira? Un occhiolino da parte di quell’infame confermò il mio sospetto.
«E voi di cosa parlavate?» mi chiese Valerio non appena Giusy si fu allontanata di qualche metro.
«Bah. Di donne,» dissi la prima cazzata che mi passò per la testa, e lui fece un singhiozzo a causa della risata improvvisa e trattenuta. A quanto pare il pensiero di me e Giulio che parlavamo di donne era piuttosto buffo. E lo era, in effetti.
«Aha,» disse, dandomela vinta per finta.
«E di calcio».
«Anche di sesso, magari».
«Esatto, come tutti gli uomini che si rispettino».
Lui scosse la testa e sorrise, poi finì di bere la seconda bottiglia di Bacardi. Si guardò intorno col sorriso sulle labbra finché non intercettò una coppia di ragazzi poco più grandi di lui che se ne stavano tranquillamente seduti sulla panca a scambiarsi effusioni, senza portarle all’esagerazione. E lo sguardo di Valerio si fece un po’ invidioso. Si lasciò anche andare a un sospiro senza che se ne potesse accorgere. Sapevo che desiderava che lo baciassi in pubblico, anche se come pubblico si considera un bar gay, glielo leggevo in faccia. Era chiaro come il giorno che volesse con tutta l’anima che gli afferrassi la mano quando ci ritrovavamo a camminare vicini, o che lo baciassi prima di lasciarlo davanti alla palestra o che addirittura mi avvicinassi a dargli un buffetto quando ci ritrovavamo fuori dall’università. Sapeva bene che non potevamo spingerci a tanto, che già se in casa ci comportavamo come una coppietta sposata era tanto, e quindi non ne proferiva parola con me. Era un po’ invidioso delle coppie che potevano uscire allo scoperto, e gli dispiaceva un po’ non condividere questa nostra cosa con il resto della città. Già eravamo abbastanza sgamabili, visto che pure Giusy adesso ne era a conoscenza. Quindi in teoria lì dentro non c’era nessuno da cui nascondersi.
Feci scivolare la mia mano su quella sempre calda di Valerio che, preso alla sprovvista, ebbe uno scatto leggero del braccio. Era troppo impegnato a invidiare i due ragazzi nel tavolo accanto al nostro. Mi rivolse nuovamente l’attenzione e mi sorrise rassicurante, muovendo leggermente le dita sotto la mia mano, per farmi capire che c’era, ed era tutto per me. Gli passai più volte il pollice sul dorso della mano, e non riuscii a darmi un freno quando mi piegai su di lui a baciarlo dietro l’orecchio. Lo feci sorridere, probabilmente per il solletico. Poi tornai su con le labbra, percorsi la sua guancia e finalmente trovai la bocca. Ci stavamo davvero baciando in un luogo pubblico. Era la seconda volta dopo quella sera in discoteca, ma questa volta avevo davvero la sensazione che la gente ci stesse guardando. Non aprii gli occhi, non volevo vederla, quella gente. Mi bastava sentire le labbra di Valerio tirate in un sorriso premere piano sulle mie. Gli portai la mano libera sul collo e approfondii il contatto, ben conscio del fatto che probabilmente Giulio stava tirando urletti di gioia e Giusy ci guardava col capo inclinato di lato, intenerita.
Uscimmo dall’Olsen all’una, salutammo Giusy e Giulio muovendo una mano, mentre quelle libere erano strette in una morsa, che non si sciolse neanche fuori dal locale. Andavamo verso i parcheggi con le mani intrecciate, in silenzio, lui con un sorriso che partiva da un orecchio e arrivava all’altro, io col cuore che non me lo sentivo per quanto andava di fretta. Poi, una volta arrivati, aprii la macchina con un sonoro “bip”, ma prima di lasciarlo entrare, lo spinsi piano contro la portiera e lui mi avvolse le braccia al collo con entusiasmo.
«Cos’hai oggi? Sei intraprendente,» mi fece notare mentre evitava apposta di baciarmi e lasciava che strusciassi il naso contro il suo collo.
«Non sono io. Sei tu che mi spingi ad essere così,» non mi feci problemi a dargli la colpa del mio comportamento, e lui sorrise ad occhi chiusi, con una mano ferma sulla mia che era scesa sul suo fianco, quasi temesse che lo spogliassi lì nel mezzo del parcheggio.
«Allora sono fiero di me, perché mi piaci un sacco quando prendi di queste iniziative. Ti confesso che era da un po’ che volevo essere preso per mano o baciato in pubbl-»
«Lo so, lo so. Non hai più segreti con me, ho imparato a leggerti come si fa con un libro. E io amo leggere libri,» lo interruppi baciandogli piano il collo, le mani che s’erano arrese al primo tentativo di infilarsi sotto la sua maglietta e s’erano quindi arrestate sulla sua cintura, strattonando leggermente ma senza andare oltre.
«Li leggi con passione,» notò lui, sempre più divertito dalla metafora del libro.
«Diciamo che mi immergo completamente nella lettura»
«Che topo di biblioteca,» e me lo disse quasi fosse un complimento, ed ero convinto che lo fosse. Lo baciai ancora un po’ dietro l’orecchio, beandomi del suo profumo dolciastro, poi strisciai piano con le labbra sulla sua guancia e finalmente lui mi permise di baciarlo. Fu un bacio semplice e asciutto, breve, poi lui appoggiò la bocca sulla mia spalla e mi spinse ad abbracciarlo, il calore che s’impossessava velocemente delle mie membra. Sospirò piano, forse sperando che non lo sentissi, e a me venne da sospirare a mia volta, e sembravamo una coppia di fottuti quattordicenni innamorati.
Poi un gruppo di cinque ragazze in gonna corta e tacchi alti e borsette minuscole passarono accanto a noi prendendo a ridacchiare, sicuramente ubriache a metà. Pensavano di essere silenziose, e invece facevano un casino assurdo. “Ma sono due uomini?”, “Uno di sicuro, lo vedo bene ed è carinissimo”, “Sì, sono due uomini!”, “E prima si stavano baciando?”, “Oddio, non ho mai visto due uomini baciarsi!”, “Sono bellissimi!”
Io grugnii contro la spalla di Valerio, sperando che quelle cinque oche alzassero il passo, mentre lui mi strinse più forte e,
«Dicono che siamo bellissimi,» mi sussurrò, il tono di voce appena udibile.
«Tu lo sei. Vedevano solo te da quella posizione. E magari con questo mio giubbottino sono sembrato quasi giovane» dissi subito, e Valerio sbuffò leggermente, si allontanò senza sciogliersi dall’abbraccio e mi rivolse uno sguardo di rimprovero.
«Ti ho già detto che sei bello» ribadì, quasi spazientito. Quante volte aveva intenzione di dirmelo per farmelo finalmente credere?
«Lo sono per te. Tu lo sei per me e per tutto il mondo,» gli dissi passandogli il pollice sotto le labbra. Lui ghignò.
«Cos’è, invidia?»
Io non risposi alla sua domanda, perché era ovvio che no, non era invidia. Forse qualcosa che ci si avvicinava. No, di solito veniva spontaneo accostare i due sentimenti, ma erano del tutto differenti. Stavo già iniziando a provare gelosia nei confronti di tutto il mondo. Non gli dissi niente di tutto ciò, ovviamente, delle mie idee da pazzo. Mi limitai a negare leggermente col capo e a cingergli le spalle con un braccio.
«Non mi va l’idea che ti mettano tutti gli occhi addosso,» dissi alla fine, guardando oltre la sua spalla, come se qualcuno in qualsiasi momento potesse arrivare e portarmelo via. «Tutto qui»
«Vuoi dire che dovrei cercare di farmi schifare dalla gente?» chiese lui divertito, ovviamente senza prendermi sul serio. Essere particolarmente possessivo non faceva proprio parte del mio carattere.
«Come potresti riuscirci? Staresti bene anche con addosso un sacco di iuta,» sdrammatizzai, e lui fece una smorfia. La mia gelosia non tardò a manifestarsi, e il fatto che lui non le desse peso, o che non la notasse affatto, non mi aiutava.
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Adesso che andavo quasi sempre a prendere Valerio dalla palestra, notai che quello si fermava sempre più spesso fuori dall’edificio a parlare con un tizio dai capelli scuri e ricci fermati sulla testa da una vistosa fascia da tennis, ogni volta di colore diverso. Si sorridevano in modo fin troppo affabile, e vederli parlare così spigliatamente mi diede un senso di fastidio proprio dietro la nuca, che mi spinse per due volte a suonare il clacson e a fare ai due il segno con le dita di “Tagliate corto, ché ho ben altro da fare e non ho voglia di stare tutto il giorno a vedervi scambiare battute affettuose mentre io muoio di caldo e gelosia tanto da fumarmi tre sigarette in un quarto d’ora. E datevi una cazzo di mossa!”, altro suono di clacson e Valerio finalmente si ricordava che esistevo e mi raggiungeva in macchina dopo aver salutato il tizio con un sorriso.
«Ma chi è quel tipo?» gli chiesi finalmente quando li vidi parlare per la quinta volta. Prima non m’ero azzardato, perché non volevo fargli intendere di essere geloso del primo essere vivente che gli rivolgeva la parola. Non volevo mica diventare la brutta copia di Martone. No?
«Sì, scusa se ti ho fatto aspettare. E’ Massimo, un vecchio amico di mio fratello. Ha iniziato a frequentare la palestra, così ci siamo incontrati dopo tanto tempo. Io neanche l’avevo riconosciuto,» disse sorridendo di se stesso, e tirò giù il piccolo pannello per ripararsi dal sole, piuttosto forte di quel pomeriggio.
«E perché?» chiesi curioso, pronto a fumare la quarta sigaretta in venti minuti.
«Ma perché… Me lo ricordavo diverso. Piuttosto in carne e con la testa sempre rasata, invece adesso…»
«Adesso mi sembra piuttosto in forma,» lo precedetti, quasi frettoloso.
«Sì, e poi i capelli…»
«Diciamo che è un bel figo,» lo interruppi di nuovo, i nervi a fior di pelle. Lui inclinò la testa di lato, adesso non più divertito dal discorso.
«Ma che ti prende?»
«Niente, scusami,» risposi con gli occhi sulla strada, frettoloso più di prima. Mi accesi quella sigaretta e lui tenne d’occhio i miei movimenti, forse preoccupato dal fatto che stessi fumando così tanto. Si allungò e mi lasciò un bacio sulla guancia ruvida di barba.
«Dimmelo, se c’è qualcosa che non va,» disse quindi, e io rilassai un attimo i nervi, perché, davvero, me la stavo prendendo troppo. Diedi un buffetto a Valerio e lo carezzai dietro il collo prima di mettere in moto.
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Una di quelle sere fece capolino in cucina, il giubbotto blu abbottonato e la borsa maschile che portava sempre con sé già a tracolla.
«An, io sto uscendo un paio d’ore,» mi avvisò con tono allegro.
«Dove vai di bello? Hai bisogno di un passaggio?» chiesi mentre mettevo i piatti in lavastoviglie, che finalmente adesso funzionava.
«No, figurati, tre fermate di pullman e arrivo. Vado al bowling, mi ci ha invitato Massimo»
Inutile dire che un bicchiere quasi mi scivolò dalle mani.
«Chi?!» domandai, il tono di voce stridulo.
«Massimo, l’amico di mio fratello. Non ho mai giocato a bowling, però,» disse senza troppi problemi. Allungò la mano sul tavolo della cucina e prese un biscotto alle gocce di cioccolato dalla biscottiera. «Oggi cerco di imparare, così quando mi ci porterai tu, sarò in grado di batterti. Perché mi ci porterai,» disse col suo solito tono persuasivo, e mi fece pure l’occhiolino. Come potevo non lasciargli fare quello che voleva? E che diritto avevo io di non lasciarlo uscire con chi gli pareva?
«Ah… certo. Okay, ma non tornare tardi,» feci, alla stregua di una mammina premurosa. Comunque sia, non fui in grado di starmene con le mani in mano. Appena uscì di casa, mollai piatti e tutto e, come un automa, andai a cercare nella rubrica del telefono qualcuno che sarebbe stato subito disposto ad uscire con me, e la scelta ricadde inevitabilmente su Gaia. Andai a prenderla di fretta e furia, quasi stessi perdendo un treno, e con lei in macchina mi diressi verso il bowling.
«Come mai questa voglia improvvisa di vedermi?» chiese la bionda appena poggiò il suo regal sedere sul sedile. Notai che aveva cambiato nuovamente taglio di capelli: adesso erano tutti corti e ricci, ovviamente biondo platino.
«Volevo fare un giro,» dissi, molto vago. «E dirti che farmi credere che April fosse incinta è stata una scelta patetica,» aggiunsi, adesso che mi veniva in mente qualcosa riguardante quella donna senza amor proprio. A quelle mie parole, si fece piccola piccola contro lo sportello.
«Ma… io… posso spiegarti?» fece, neanche ci trovassimo in un film.
«Sì, spiegami dentro,» dissi brusco, lasciando che scendesse dalla macchina e poi sbattendo forte lo sportello. Lei s’impressionò, ma non era mica a causa sua che mi ritrovavo ad essere così assurdamente nervoso. Prima di Valerio, qualunque cosa mi scivolava addosso e io riuscivo sempre a non preoccuparmene, rimanendo nel mio stato di semi-incoscienza, lì fermo come un ameba, senza reagire o avere picchi di emozione. Sì, mi innervosivo, ma tendevo a non esternare mai nulla, a lasciare che il sopracciglio destro mi pulsasse, a desiderare di evitare le scocciature e i casi umani. Forse per quel motivo Gaia adesso mi guardava tanto intimorita: perché avevo sbattuto lo sportello, la seconda sigaretta della serata che mi pendeva dalle labbra, le sopracciglia aggrottate e la voce che vibrava. Probabilmente neanche mi riconosceva.
Mi seguì in silenzio mentre camminavo svelto verso l’entrata dell’edificio tanto vecchio fuori quanto ultra moderno all’interno. Ero tanto di fretta che stavo entrando con la sigaretta accesa, e il tizio sulla porta mi disse che, ovviamente, dentro era vietato fumare. Sbuffai e lanciai la sigaretta che neanche era a metà, poi mi infilai all’interno.
Iniziai subito a cercare Valerio con lo sguardo, e non mi ci volle molto prima di trovarlo sulla pista da bowling, ad infilarsi le calze e le scarpe fatte apposta per giocare. Si alzò barcollando e poi accettò la palla che gli stava porgendo quel Massimo, palesemente divertito dai movimenti goffi di Valerio. Feci cenno a Gaia di seguirmi, perché avevo intenzione di sedermi in un tavolo in posizione strategica, in modo che io potessi vedere lui ma che lui non potesse fare altrettanto. A che punto ero arrivato.
Prendemmo due birre, lei una piccola, io una media, alla spina. Ma che bello, c’era anche il servizio bar.
Gaia si grattò il collo e iniziò a elencarmi i motivi del suo bluff di cui ormai non mi importava più niente, mentre io intravedevo che i due “amici” adesso si battevano amichevolmente il cinque dopo uno strike fortunato di Valerio. Picchiettai nervosamente le dita sul tavolo e li adocchiai mentre si abbracciavano con pacche sulle spalle per complimentarsi dopo un secondo strike.
“Eh, no, così non va bene.” Mi ripetevo in testa, e fui tentato più volte di alzarmi ed andare a dividere quei due.
«…E poi, perché mi piaci da fin troppo tempo!» la voce di Gaia raggiungeva a fatica il mio orecchio sordo a tutto tranne che alle risate di Valerio. Ero con la testa altrove, del tutto. Buttai ancora una volta l’occhio al di là della spalla di Gaia: adesso Valerio si lamentava perché non sapeva maneggiare quella palla troppo pesante, allora Massimo si offrì per insegnargli come tenerla e come muoverla. Si mise dietro di lui e gli prese le mani trascinandole nelle sue. Eh no, un contatto di quel genere era troppo. E’ ormai risaputo come vanno a finire situazioni del genere. Mi alzai di scatto senza più voglia di nascondermi, preso da chissà quale coraggio, e raggiunsi i ragazzi. Adesso che li guardavo da vicino, notai che quel Massimo se ne stava del tutto appiccicato alla schiena di Valerio, maledizione. Furioso, presi il ragazzo e le sue ridicole fasce per capelli e lo tirai all’indietro per allontanarlo da Valerio. Quello, preso alla sprovvista, si lasciò trascinare da me e finì per sbilanciarsi e cadere all’indietro, con le natiche al suolo. Valerio barcollò e per poco non cadde a sua volta, si girò, la palla ancora stretta al petto e spostò lo sguardo dall’amico a terra a me, in piedi accanto a lui. Ci mise un po’ per rendersi conto che sì, ero Andrea, e mi trovavo lì, non ero a casa a fare i piatti.
«Che ci fai qui?» chiese, giustamente, e ancora non aveva del tutto realizzato quello che era successo. Vedeva soltanto l’amico col sedere a terra e io che evitavo di guardarlo, probabilmente già pentito della cazzata che avevo appena fatto. Non gli risposi, ma strinsi leggermente il pugno, gli occhi al pavimento.
«Chi diavolo è lei? Cosa vuole?!» sbottò quel Massimo guardando nella mia direzione, e io ancora non risposi, e distolsi lo sguardo dal pavimento per puntarlo sulla gente che adesso prestava attenzione a noi.
«Andrea,» Valerio disse il mio nome per intero, e non lo faceva da settimane, se non da mesi, e io finalmente mi degnai di puntare gli occhi su di lui. Rimise la palla da bowling al suo posto e fece qualche passo in avanti. «Mi vuoi spiegare che t’è preso? Mi stava solo mostrando…»
«So io cosa ti avrebbe mostrato prima di stanotte se non lo avessi fermato,» sputai fuori, il cervello che non connetteva, ed era probabilmente la prima volta che mi succedeva. Attorno a noi si era formato un gruppetto di persone, preoccupate che potessi essere uno squilibrato che si diverte a buttare a terra il primo ragazzo che si trova davanti. Gaia era quasi in piedi, e aveva una mano davanti alla bocca, del tutto spaesata.
«Ma di che parli? Sei un pazzo,» fece quel Massimo rimettendosi in piedi senza troppa fatica. Non mi curai di lui, e non permisi a Valerio di andare a soccorrerlo perché gli afferrai saldamente il braccio, e in quel momento lui mi guardò con profondo disappunto.
«Andiamo a casa,» gli intimai, ma quello teneva i piedi puntati al pavimento e non mi dava la possibilità di smuoverlo. Strattonò il braccio, poi se lo massaggiò e continuò a puntarmi il suo sguardo accusatorio.
«Vado a casa. Casa mia,» sottolineò con voce ferma. Poi si girò verso i presenti scusandosi con un mezzo inchino del capo. Fece lo stesso con Massimo, gli disse che gli dispiaceva, poi si cambiò le scarpe con tutta calma, tra il silenzio generale, e scappò da me a passo svelto senza ulteriori saluti. Incapace di muovermi perché pietrificato da quel suo sguardo gelido, lo lasciai andare, e tornai in me quando il brusio concitato della gente riprese a scorrere secondo la sua regolarità.

 

 

 

 

 


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Oookay, volevo dire che molto probabilmente il prossimo sarà l’ultimo capitolo! Anche se 24 è un brutto numero… Magari scelgo di finire a 25, che è più carino, fa più figo XD
Avevo una mezza intenzione di tagliare la scenata di gelosia, ma mi son detta che Andrea geloso dovevo per forza inserircelo. Certo, da come l’ho descritto, sembra che quando è geloso si trasforma in Hulk, ma non è così (ma dai?). E poi volevo dare una vocetta insignificante in capitolo a Gaia, che me la sono lasciata indietro. Certo, non ha parlato mai, ma è perché la odio, fondamentalmente. E’ un personaggio abbastanza inutile. Si può arrivare a detestare i propri personaggi? Altroché. Se amo Andrea, posso detestare Gaia. Simple but effective (?)
Massimo è un tizio random. Me lo immagino ad andare in giro sempre vestito da tennista. Interamente. Calzini annessi. A volte ha anche la racchetta. E lo so che sembra antipatico, ma in realtà non lo è. Cioè, nella mia testa non lo è, è affabile e gentile, di certo non un pervertito come crede Andrea. Ma si sa che con gli occhi dell’amore si vede la realtà distorta; come se indossassi un paio di occhiali rossi e rosa: se chiudi l’occhio sinistro vedi rosso e detesti il mondo, se chiudi l’occhio destro vedi rosa e unicorni e arcobaleni dappertutto. Quando l’uomo riuscirà finalmente a vedere bene con entrambi gli occhi aperti, allora quello si chiamerà progresso.
Bene, è normale che a quest’ora dica boiate. E’ normale.

Alla prossima allora, keep it up!






Mirokia

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattresimo ***


Cap. 24


 

 

 







Lasciai la mia birra a metà, mentre Gaia se la scolò tutta, turbata dalla scena a cui aveva appena assistito. Pagai tutto io senza pensarci tanto: sembravo non esserne più in grado, ormai. Andavo avanti seguendo l’istinto, ed era da quando avevo diciassette anni che non seguivo l’istinto. Fortunatamente, dopo la dipartita non molto allegra di Valerio, il mio istinto mi suggerì di calmare i bollenti spiriti. Vidi che il Massimo, dopo essersi alzato da terra e spolverato borbottando qualcosa di incomprensibile, cercò un numero in rubrica e si mise il cellulare all’orecchio, aspettando che dall’altra parte qualcuno rispondesse. Non ci volle molto per capire che stava tentando di mettersi in contatto con Valerio per sapere che diavolo stava succedendo, visto che io sembravo uno poco raccomandabile, piuttosto irascibile. Ma a quanto pareva, quello non rispondeva o chiudeva la chiamata, e allora Massimo faceva una faccia spazientita e stringeva il telefono in mano, pensando probabilmente a quanto fosse peggiorata la sua giornata in pochi minuti. Stava andando tutto così bene, era persino riuscito ad attaccarsi a mo di sanguisuga alla schiena di Valerio, gli avrebbe fatto bere un paio di drink et voilà!, un bel bocconcino da rivoltarsi a letto. Geniale. Bene, quel senso di civiltà che ancora avevo nascosto in qualche  anfratto del cervello e che mi spingeva ad andare a chiedere scusa al Massimo, mi abbandonò all’eco di quei miei pensieri. Quindi pagai le birre, feci un cenno a Gaia, e quella mi seguì dal locale senza fiatare. Non si azzardò a parlare neanche una volta in macchina, e riuscì ad essere così silenziosa che quasi mi parve di essere da solo.
«Ho voluto cambiare, e guarda cosa sono diventato,» borbottai al nulla quando mi fermai al semaforo, la fronte poggiata al volante, la voglia di farmi del male. Sentii Gaia aprire la bocca per replicare, ma ebbe il buon senso di richiuderla ed appoggiarsi sul sedile, lo sguardo perso fuori dal finestrino. Pensai che avesse ormai capito che m’ero servito di lei, quella sera. Arrivammo a casa sua, e lei mi chiese gentilmente se volessi salire. Il tono non era malizioso come suo solito, piuttosto cauto, come si stesse offrendo implicitamente di darmi una mano, di alleviare il mio malumore.
«No, non ce n’è bisogno,» le dissi con le mani strette sul volante, incazzato a morte con me stesso e con le mie reazioni esagerate. «…Grazie lo stesso,» mi sforzai di dire, ché un tantino in colpa mi sentivo, anche se era di Gaia che stavamo parlando. La mollai davanti al suo condominio e, senza aspettare che entrasse nel cancello, me ne andai di corsa a casa, sorpassando un semaforo rosso e rischiando di mettere sotto un pedone. Ero davvero pericoloso al volante con l’umore che mi ritrovavo.
Non chiamai Valerio una volta arrivato a casa. Sapevo che mi avrebbe chiuso la chiamata o che avrebbe spento il telefono. E poi sarebbe stato meglio se fosse stato lontano da me, se fosse tornato a casa e avesse detto al padre che aveva ragione, la nostra cosa non sarebbe mai potuta durare. E in quel momento ero tanto concentrato a darmi dello stupido, che avevo preso ad esagerare coi pensieri negativi, a desiderare di non essere mai nato, a chiedermi perché un essere inutile come me non si fosse fatto fuori ben prima. Era stata solo una scenata di gelosia, nient’altro, ma il pensiero di aver messo le mani addosso a qualcuno che non conoscevo per il sentimento infondato della gelosia non mi dava pace. Mi sfilai la maglietta restando a petto nudo e mi sedetti sul letto rifatto alla perfezione da Valerio quella mattina, poi mi accesi una sigaretta, nonostante mi fossi ripromesso di non fumare in casa. Mi guardai le mani e mi chiesi se sarei mai stato in grado di colpire Valerio in un attacco di gelosia.
No, assolutamente no, era impossibile che sarebbe mai successo. Mi stavo preoccupando per niente. Non ero un tipo violento, non lo ero mai stato, non avevo mai avuto scatti di rabbia, e la violenza mi faceva schifo, mi disgustava. Tutto poteva essere risolto con le parole. Era quella la mia filosofia, le parole hanno un potere enorme e sono un’arma a doppio taglio: possono ferire più di coltelli e possono risanare più di cure mediche. Se vuoi distruggere qualcuno, basta una manciata di parole, quelle giuste. La violenza è inutile. Con un paio di parole dirette e dette senza riserbo puoi cancellare completamente un rapporto costruito in anni di sacrifici. Così, come uno schiocco di dita. E io ero ben cosciente del potere che esercitavano le parole: ci avevo a che fare ogni giorno, le analizzavo, le comparavo, le ripetevo ad alta voce, lentamente, sottolineando ai miei allievi il significato immenso che poteva emanare un accostamento di lettere. C’erano i ‘Ti amo’ di Valerio, per esempio, che mi tenevano caldo per una giornata intera. Un Ti amo che eguaglia cinquecento parole di Montale messe in poesia.
Il valore di una parola poi ti aiuta a comprendere quand’è che puoi ometterla. Detto dai romantici, “quei momenti in cui le parole non servono”. Come quando io e Valerio ce ne stavamo seduti nel parchetto dietro casa mia, con le mani intrecciate, lui il capo sulla mia spalla e il silenzio più totale.
Ed ecco che di nuovo pensavo a lui. Sembrava che ogni momento poetico riconducesse automaticamente a lui. Dio, ero senza speranze, ormai.
Mi schiacciai il palmo della mano sulla fronte, la rabbia e la paura di poter diventare un mostro e quella di perdere per davvero Valerio che mi riempivano gli occhi; ma non ero abbastanza forte per piangere. Mi alzai sentendo il corpo dannatamente pesante e mi trascinai in salotto strascicando i piedi. Appesi la sigaretta alle labbra e aprii il mobiletto degli alcolici, quello che aprivo come minimo una volta alla settimana dopo cena o se avevo ospiti, quindi mai. Mia sorella ne era ghiotta, era lei stessa a frugare in quel mobiletto quando le capitava di rimanere appena più di due minuti in casa mia. Allungai il braccio col rischio di far cadere le bottigliette in primo piano, ma me ne incuriosiva una in fondo ancora chiusa. La tirai fuori e guardai senza troppo interesse lo stampo di un albero in fiore, scorsi con lo sguardo la scritta incomprensibile sotto lo stampo – era cinese, o giapponese, insomma, una di quelle lingue coi disegni -, poi stappai la bottiglia e annusai. Prugna. Quella roba era alla prugna. Mi facevano schifo le prugne. Mandai giù lo stesso, percependo il liquido dal sapore non dissimile dal vino bianco lasciare una scia calda al passaggio e depositarsi al sicuro nello stomaco. Non ne bevvi molto, giusto il necessario per farmi smettere di pensare. Schiacciai la sigaretta nel portacenere sul tavolo e rimisi la bottiglia dov’era. No, la lasciai sul tavolo, perché la mano mi tremava. E non mi tremava perché avevo bevuto – quella roba alla prugna non era così pesante -, ma perché avevo riconosciuto il tintinnare del portachiavi di Valerio contro la porta. Mi dissi che era la mia immaginazione e strascicai nuovamente i piedi in camera da letto per poi sedermi sul materasso, nella stessa posizione di poco prima. Ignorai il rumore della serratura che scattava, della porta che si apriva, della zip del giubbotto e dei passi in corridoio, credendoli effetti dell’alcol. Come potessi crederlo non lo so, dato che ero ancora ben sobrio. Valerio comparve in piedi davanti a me, mentre si toglieva la tracolla e la appoggiava a terra, accanto al comodino. Alzai gli occhi su di lui, e mi chiesi che cosa aspettasse a parlare, a dire qualcosa, qualunque cosa, a insultarmi. Poteva schiaffeggiarmi, comunicarmi in quel modo lo schifo che provava per me. Magari era tornato solo per quello, per umiliarmi un po’. O magari non era tornato affatto e quella era solo la proiezione delle mie speranze. Teneva lo sguardo leggermente indurito e puntato al pavimento, e intanto si toglieva la polo a righe rimanendo in canottiera. Si sedette sul materasso accanto a me, e la depressione che aveva creato mi sembrava troppo vera perché potesse essere una mia immaginazione. Si tolse con calma gli stivali e le calze, appallottolandole nelle scarpe. Si sbottonò i jeans, se li sfilò piano e li abbandonò ai piedi del letto, poi si strofinò il naso con un dito e disse:
«Vado a lavarmi,» prese dal cassetto un paio di mutande e fece per uscire.
«Perché sei qui?» riuscii a chiedergli, e la voce mi uscì terribilmente roca e brutta e non sembrava neanche la mia.
«Perché ti amo?»
Un colpo al cuore, così forte che pensai di poter svenire da un momento all’altro. Era una domanda, la sua, una domanda retorica, quasi a chiedermi “Che domande mi fai?”. Quella sua spontaneità mi avrebbe ucciso, me lo sentivo. Buttai la faccia nella mano e mi venne da singhiozzare, come se fossi ubriaco, ma non lo ero. Probabilmente stavo già piangendo. E quando sentii il palmo caldo di lacrime ebbi la mia conferma. Mi sentivo nudo, inerme, completamente aperto a Valerio; non avevo mai pianto a quel modo davanti a qualcuno, e sentivo che dovevo farlo in quel momento, di fronte a lui, nello stesso modo in cui lui era scoppiato in lacrime quando parlava di sua madre e suo fratello. Io lo avevo consolato, o almeno, avevo tentato di farlo. Adesso lui sembrava voler consolare me. E di nuovo mi chiedevo per quale assurdo motivo non mi avesse ancora lasciato andare. Io ero orrendo, fuori, dentro, facevo schifo. Lui era perfetto. E adesso aveva posato la mano sulla mia testa piegata e scossa da sussulti, quasi il più piccolo fossi io, quasi fossi io quello ad avere bisogno di cure.
«Che ti avevo detto?» mi chiese poi affondando le dita nei miei capelli, in una sorta di lenta e per niente rude carezza. «Che dovevi dirmelo, se c’era qualcosa che non andava,» si rispose da solo, la voce morbida, e immaginai anche il suo sguardo ammorbidito, le sopracciglia chiare arcuate dolcemente sopra agli occhi, le pieghe sulla fronte che si distendevano, il respiro che tornava regolare.
«Ero geloso,» mugugnai finalmente nella mano bagnata di lacrime, e lo immaginai mentre annuiva leggermente.
«Lo so,» disse in un soffio, il tono più leggero. «Me n’ero accorto, ma non volevo crederci. Era fin troppo bello che tu provassi gelosia per me,» ammise, sbandierando nuovamente la sua umiltà ai quattro venti. «Ma non pensavo fino a questo punto,» aggiunse poi, riportando l’attenzione su quello che avevo appena fatto al bowling. «Avresti dovuto parlarmene»
«Lo so,» gli risposi consapevole, pentito come un bambino che aveva toccato il fuoco e s’era bruciato nonostante gli fosse stato raccomandato di non farlo. «Faccio schifo, mi dispiace. Non merito neanche di essere guardato da te,» continuai, probabilmente peggiorando la situazione.
«Smettila, non fai schifo,» carezze più pesanti, tono adesso marcato.
«Sono patetico. La dignità che mi sono costruito in una vita è andata a farsi fottere in una manciata di minuti,» dissi ancora, incapace di controllare il fiume di parole che mi rivolgevo contro come stilettate, convinto di meritarmele.
«Quale dignità? Vivere come tutti gli altri? Questa è la tua dignità?» mi chiese, il tono decisamente più duro, ma con la voce che si rompeva ogni due parole, quasi stesse per mettersi a piangere anche lui. «Non vivere affatto?» racchiuse una ciocca di capelli in una sua mano e tirò leggermente, ma la mia testa rimaneva bassa, rivolta al pavimento.
«Era così che vivevo la mia vita. Non facevo del male a nessuno, e di conseguenza non stavo male neanche io,» borbottavo contro una mano, il polso che tentava di asciugare al meglio le lacrime.
«Tu stavi male,» disse quello, sicuro di sé, e io, ancora preso da quella vertigine provocata dal pianto improvviso e dal liquore alla prugna, scossi piano la testa.
«Ero tranquillo,» mugugnai, senza neanche pensare a quello che dicevo.
«Piantala…»
«Ero chiuso nella mia quotidianità, e andava bene cos-»
«Piantala, ho detto!»
I miei occhi incollati dalle lacrime si spalancarono all’urlo rabbioso di Valerio, e il capo si alzò di scatto quando lo sentii tirarmi i capelli verso l’altro, in un tentativo di guardarmi negli occhi. Li trovai, quegli occhi, ed erano lucidi, forse pronti a piangere, ma fissi nei miei, e non avevano intenzione di scostarsi, di rivolgere gli occhi a qualunque altra parte del mio corpo. Mi parlò dall’alto, tenendomi stretto dai capelli, costringendomi a guardarlo in faccia, pronto ad urlare di nuovo nel caso avessi abbassato lo sguardo. «Tu non vivevi affatto. Che cosa hai fatto per trentacinque anni, eh? Cosa? Quando hai intenzione di riappropriarti della tua vita e di piantarla di preoccuparti per quella degli altri? Hai vissuto nell’ombra della gente, nel loro riflesso. Hai lasciato andare avanti la tua vita per inerzia badando a non toccare le esistenze di coloro che ti stavano attorno, come se agli altri davvero importasse di te, di come vivi tu! Da quant’è che non apri gli occhi? Da quant’è che dormi? Non ti sei mai guardato intorno? Non hai mai fatto caso al mondo egoista in cui viviamo? A ognuno importa di sé e sé soltanto. Perché non dovresti farlo anche tu? Vivi per te stesso, vivi come vuoi tu, non come ti è stato detto di fare,» prese fiato, continuò a fissarmi senza battere ciglio, io che mi sentivo dentro a un film, e che avevo i brividi che mi correvano per tutto il corpo. Soprattutto sul braccio destro, quello che Valerio mi aveva inconsciamente afferrato mentre parlava. E allora diedi ascolto alle sue parole. Le raccolsi tutte, una per una, dentro di me, e non erano le stilettate che io stesso mi rivolgevo contro. Erano come tante piccole luci che andavano ad illuminare il buio che avevo in me, ad illuminare la strada che dovevo, no, volevo percorrere. Socchiusi gli occhi beandomi di quella sensazione risanatrice, i segni appiccicosi delle lacrime che ancora s’avvertivano. Riuscii a calmarmi, e così anche lui, e quando entrambi tornammo a respirare regolarmente, lui si piegò davanti a me, sistemandomi i capelli scompigliati da lui stesso dietro l’orecchio. «Andrea. Mi vuoi sì o no?» mi chiese quindi, le dita che carezzavano il retro del padiglione auricolare.
«Sì».
«Allora qual è il problema? Non ce ne sono, problemi, sei tu che vuoi vederli, o sono io, non lo so, so solo che in realtà è tutto molto più semplice di come t’è sempre parso. Vuoi del caffè? Bevilo. Vuoi andare a ballare? Fallo. Vuoi mangiare tailandese? Perché no, non ci metti nulla. Vuoi stare con me? Allora stacci e basta. Metti da parte quel tuo male di vivere. Almeno quando stai con me, o potrei pensare di esserne io la caus-»
«Non ci pensare neanche,» lo interruppi immediatamente, e lui alzò le sopracciglia.
«Beh, meno male, almeno questo,» disse ironico, quasi pensasse di essere la causa di qualche altro problema.
«Sei molto di più,» dissi per poi puntargli il petto con l’indice. «Qui dentro… qui dentro c’è la vita che io non ho mai avuto il coraggio di vivere. Sei il tassello che mancava, quello che ha messo in moto la mia esistenza. Non mi ero mai sentito tanto vivo, e questo mi ha spaventato, perché sentimenti forti come la rabbia e la gelosia mi sono quasi sconosciuti. Ma poi arrivi tu, con quei tuoi occhi trasparenti e spontanei, e mi sbatti in faccia la realtà. Mi hai fatto sentire un idiota».
«Non era quella la mia intenzione, io-»
«Lo so,» gli accarezzai la guancia badando a far aderire bene la pelle del palmo della mano alla sua, ancora fresca. Lo guardai languido, e lui si lasciò andare alla mia carezza, ora rilassato, socchiudendo quei suoi occhi che non erano mai stanchi di lottare, fino a chiuderli e a strusciare la guancia contro la mia mano, come gli capitava di fare. «Ti amo,» gli dissi, senza neanche più preoccuparmi di quanto sembrassi un dodicenne alla sua prima cotta o un’attrice di qualche scadente telefilm argentino. Lui appoggiò la fronte contro la mia, mi bisbigliò: “Abbiamo bisogno di altro?”, e io finalmente accennai un sorriso.
«No, va benissimo così,» asserii, e lui sorrise a sua volta per poi avvolgermi in un abbraccio. Si mise seduto a cavalcioni su di me e prese a strusciare il naso sul mio volto in silenzio, mentre io strisciavo la mano sulla sua coscia e ascoltavo il suo respiro su di me. Gli accarezzai con calma il collo dietro quei capelli sempre più lunghi quando iniziai a baciarlo, toccando più volte il neo nascosto lì sotto. Sapevo che gli dava fastidio, ma non se ne lamentò quella volta. Mi sentivo privato di un enorme peso, ero leggero come una piuma, rinnovato, ma per davvero, convinto ancora una volta di come una manciata di parole dirette e sincere possa dare una svolta a una vita ormai da buttare.
Quando Valerio avvertì la mia erezione spingergli sulla gamba e il mio respiro farsi più affannoso nei baci, capì che avevo un bisogno impellente di trascinarlo a letto con me e scaricare tutto il magone accumulatosi nello stomaco stringendoci l’uno dentro l’altro. Allora lui si sollevò, disse “Aspetta, vado a lavarmi e torno bello pulito”, ma io lo richiamai prima che potesse uscire.
«Fa’ andare me,» mi alzai dal letto facendo scricchiolare qualche vertebra e lo sorpassai, lasciandolo leggermente confuso. «Ne abbiamo ancora lubrificante?» chiesi sulla soglia, e quello diventò paonazzo nel sentirmi parlare con tanta leggerezza di un argomento simile.
«Sì, ce n’è ancora…»
«Va bene. Vuoi essere tu a condurre i giochi stanotte?»
Impallidì all’improvviso, assumendo un’espressione a dir poco terrorizzata.
«Co-co-co-co-co-» sembrò essere inceppato in una parola, quasi avesse il singhiozzo, e in effetti la faccia era quella di qualcuno che si stava affogando con la sua stessa saliva. «Co-come?» riuscì finalmente a formulare. Mi chiesi se potesse esistere qualcosa di più adorabile.
«Come si dice? I ruoli nel sesso. Attivo e passivo?» chiesi conferma, e quello deglutì rumorosamente.
«Oh mio Dio,» mormorò incredulo.
«Ti andrebbe di fare l’at-»
«Non ne sono in grado, scusa,» si affrettò a dire, del tutto imbarazzato dall’argomento, stringendo gli occhi e muovendo freneticamente le mani aperte davanti alla faccia.
«Ti insegno. Tu insegni a me,» dissi, parlando come un ritardato o come un uomo delle caverne.
«Lo dicevo che hai bevuto. L’ho sentito il sapore di alcol. Prugna, liquore di prugna»
Gli feci segno di stare zitto e gli poggiai la mano sulla spalla parlandogli a cuore aperto.
«Voglio concedermi a te. In tutto e per tutto. Voglio che tu capisca cosa sono disposto a fare per ringraziarti»
«Ringraziarmi di cosa?» domandò nervosamente, e io alzai le spalle.
«Ti sembrerà banale e romantico, ma di avermi salvato la vita,» dissi, sincero e schietto, e questa volta mi parve di vedere i brividi comparire sulle sue, di braccia. Scosse la testa,
«Okay, adesso sei troppo diretto, dacci un taglio,» mi ordinò, e io non potei fare altro che sorridere.
«Guarda che questa è la tua influenza. Sei contagioso,» ammisi passandogli il pollice sulla guancia. Dopodiché mi decisi ad entrare in bagno e poi nella doccia, così che potessi anche calmare un attimo il mio bisogno crescente sotto l’acqua fresca.
«E’ per questo che vuoi fare il passivo?» mi gridò quello da fuori, e io pensai al fatto che probabilmente la vicina stava sentendo ogni parola, e la cosa, stranamente, mi divertiva.
«Ehi, non entrare nel panico, è solo per stanotte,» gli gridai di rimando, da sotto la doccia.
Ma non ce la fece. Era nervoso, quasi stesse per entrare nell’aula per sostenere l’esame di maturità. Solo che quella non era proprio un’aula, anche se sempre di entrata si parlava. Gli tremavano le mani, le gambe, tremava tutto, non riusciva a godersi l’atto, diceva di non esserne in grado, e che gli dispiaceva. Non gliene feci una colpa, e gli dissi che tutto sarebbe venuto da sé, col tempo. Ne avevamo un sacco, di tempo, davanti a noi. Gli promisi che un giorno ce l’avrebbe fatta e che io ne sarei stato felicissimo. Lui mi credette e annuì, poi si rilassò, prese un lungo respiro, disse: “Ora tocca un po’ a te”, e mi mollò il tubetto di lubrificante, buttandosi a pancia in giù sul letto. Toccava a me, sì. E a dirla tutta, non vedevo l’ora che toccasse a me.
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«Mia mamma mi diceva: vivi per te stesso, vogliti bene, pensa alla tua serenità. Poi troverai una persona che amerai con tutto il tuo cuore, e allora deciderai di pensare alla sua, di serenità. E sarai felice nel farlo,» mi raccontò Valerio nella stretta vasca da bagno, mentre giocava con le mie dita e le osservava una per una.
«La sua persona speciale devi essere stato tu. Tu e tuo fratello,» gli dissi con la bocca incollata ai suoi capelli.
«Immagino di sì. E’ normale per una madre,» mormorò, e io annuii piano contro la sua nuca. «E tua madre?» mi chiese quindi, ed era una domanda legittima, e che sinceramente mi aspettavo. Alzai le spalle e lo baciai sul collo e poi dietro le orecchie.
«Non mi andava troppo a genio. Lei tradiva mio padre e non andava d’accordo con nessuno dei due, figuriamoci con mia sorella, che era una di quelle insopportabili adolescenti ribelli e menefreghiste. Quindi se n’è andata, ha formato una nuova famiglia fuori. Non ci è mancata molto,» dissi tranquillamente, e districai le dita da quelle di Valerio per poter prendere il flacone di shampoo che avevo appoggiato poco prima accanto alla vasca.
«Mi spiace,» fece quello, rammaricato, e io scossi la testa nonostante mi desse le spalle.
«Non devi. So che può suonarti strano, ma non mi importa molto di lei. Non la vedo da anni. Ha fatto tutto mio padre, ci è bastato lui,» spremetti una noce di shampoo al cocco – ormai compravo solo più quello perché era la fragranza che più stava meglio addosso a Valerio – sul palmo della mano.
«Lui non c’è più»
«No, infatti, è morto qualche mese dopo il mio matrimonio con April,» confermai per poi trasferire lo shampoo sui capelli per metà asciutti di Valerio. «Ma se n’è andato che era felice. Sua figlia le aveva dato un nipote e io mi ero sposato con una donna di sani principi che lui aveva approvato. Non nascondo che la mia voglia di sposarmi era stata scaturita dal desiderio di vederlo felice, prima che passasse dall’altra parte,» ammisi, ma non mi ci volle molto, perché era un’ammissione che avevo già fatto a me stesso al funerale di mio padre. Vedevo mio padre felice ed ero felice anche io, e neanche mi domandavo se la vita che stavo vivendo fosse la mia o quella di qualcun altro, o se mi andasse a genio, almeno un po’.
«Era lui la tua persona speciale,» mi disse Valerio mentre gli massaggiavo i capelli con la schiuma, e non era una domanda, sembrava essere certo della sua affermazione.
«Beh, magari non nel senso in cui lo intendi tu, ma tenevo particolarmente alla sua serenità. Con mia madre non stava bene, perciò, quando lei se ne andò, non feci nulla per farla rimanere. Sapevo che mio padre sarebbe stato molto meglio senza di lei,» lo massaggiai dietro le orecchie e sulla nuca, badando a insaponare per bene ogni ciocca di capelli. «E infatti è andata così. Mia sorella gli ha causato un po’ di problemi perché, come ti ho detto, era la tipica adolescente ribelle e anticonformista. Stava fuori fino a tardi, si vestiva come un’hippie, aveva un ragazzo diverso ogni due settimane, e mio padre non riusciva a stargli dietro. Io invece ero un po’ il suo cocco: andavo bene a scuola, frequentavo l’oratorio e andavo in chiesa ogni domenica. L’unico mio vizio che non poteva sopportare era il fumo – iniziai a fumare a quattordici anni -, ma non poteva farmi troppe prediche, perché lui fumava come una ciminiera. E’ per questo motivo che sin da piccolo ho sempre saputo che a mio padre sarebbe venuto un malore a causa del troppo fumo, o un cancro, o gli si sarebbero sbriciolati i polmoni, o avrebbe dovuto farsi amputare una gamba a causa dell’otturazione delle arterie. Dopo l’ennesimo tentativo di salvarlo attraverso un’operazione chirurgica, ha deciso che non andava più bene vivere a quel modo. Cadeva a pezzi. Poi i miei genitori ebbero me e mia sorella molto tardi, quindi era già anziano,» spiegai, ormai abituato alla mancanza di mio padre. Presi la cipolla della doccia e gliela azionai in testa, sciacquando per bene ogni punto della testa.
«Quindi, dopotutto, non hai vissuto proprio tutta la vita per inerzia. C’era qualcuno che desideravi rendere felice,» mi fece notare mentre si strofinava gli occhi.
«Quello era il mio pensiero da adolescente. Poi il mio stile di vita è diventato automatico, ed è quello che conosci tu. Certo, se c’era da prendere una decisione, la prendevo tenendo conto dei desideri di mio padre. Patetico?»
«Per niente,» mi baciò la mano ancora insaponata e sputacchiò un po’ di schiuma amara, provocandomi una risata spontanea. Allora torse il busto per potermi baciare sulla bocca e farmi così smettere di ridacchiare. Si risistemò sotto l’acqua e soffiò sulle poche bolle rimaste. «Com’era tuo padre?» chiese quindi, affamato di notizie su di me.
«Pelato»
«Come il mio?» domandò divertito.
«No, era più ruvido, non rifletteva la luce come il tuo,» risi delle mie stesse parole e quello mi seguì divertito. «E poi era bruttino. E’ stato sempre molto magro e aveva le occhiaie – non perché gli mancasse il sonno, era proprio una macchia della sua pelle, come una voglia. Mia sorella gli dava spesso del becchino,» sorrisi, ed ebbi un leggero attacco di nostalgia.
«Quindi tu avrai preso da tua madre,» ne dedusse Valerio, e io mi piegai leggermente a mordergli il lobo dell’orecchio.
«E’ bella, ma non ho preso da lei,» dissi ovviamente, e lui si aspettava una risposta del genere, quindi non stette a ripetermi quanto io fossi bello e si arrese subito muovendo in aria una mano e dicendo un paio di “Okay”.
«E tua madre?»
«Una massa di capelli ricci e biondi, lunghissimi, si faceva la treccia ed era Raperonzolo. Non se li tagliava neanche per sistemare le doppie punte. Come se in tutti quei ricci si potessero notare,» raccontò con naturalezza, e fui lieto di non avvertire la voce incrinata dalla nostalgia. «Poi metteva un profumo nauseabondo, ma almeno sapevi quand’è che ce l’avevi accanto. Aveva la brutta abitudine di spiare nel cellulare mentre scrivevo messaggi. E metteva sempre un rossetto quasi marrone,» disse passandosi lui stesso un dito sul labbro, quasi a ricordare la consistenza della bocca di sua madre. «E mi raccontava di continuo storielle inverosimili. Alcune terribili, su folletti malvagi che rapivano bambini, e streghe che si tramutavano in serpenti o che diventavano minuscole e ti si appoggiavano sul petto quando facevi brutti sogni. Non capivo perché me le raccontasse! Me la facevo addosso, la notte!»
«Donna singolare,» commentai ridacchiando al pensiero di un mini Valerio che allagava il letto.
«Poi ce n’erano altre più carine,» mi prese nuovamente la mano e fece un cerchio immaginario attorno al mio dito mignolo. «Mi ha convinto sin da piccolo che ognuno di noi ha un filo rosso ma invisibile appeso al mignolo, e che l’altro capo appartiene alla tua anima gemella. Non per forza un amore, anche un’amicizia indissolubile. Quella persona che porteresti con te dappertutto, che ti comprende al volo e lo fa prima di tutti, quella che ti accetta e crede in te in qualunque situazione,» avvicinò il mio mignolo al suo e poi segnò un nodo immaginario anche al suo dito. «Patetico?»
«Per niente,» gli risposi, e strinsi con l’altra mano i nostri due mignoli fino quasi a stritolarli. Pensai che quella storiella da quattro soldi mi aveva riportato davanti agli occhi un flash, come un dejà vu, un ricordo lontano, sbiadito, che non riuscivo a mettere a fuoco. Mi dissi che, se era davvero importante, prima o poi me lo sarei ricordato, e mi concessi qualche altro minuto di riposo contro il capo di Valerio. Almeno finché lui non mosse le spalle risvegliandomi dal mio torpore.
«Usciamo? Ho le dita tutte raggrinzite»
Gli dissi che certo, avrei fatto scorrere l’acqua, e quello si alzò il piedi per recuperare il proprio accappatoio. Da lì sotto avevo una perfetta visuale, paradisiaca avrei osato dire, ma a malincuore mi alzai anche io e mi coprii con un asciugamano blu. Valerio si strofinò i capelli con un asciugamano più piccolo e intanto camminava verso il corridoio, dicendomi che mi avrebbe aspettato a letto. Quelle sue parole, quelle frasi che solo una mogliettina premurosa rivolgeva a suo marito, mi scuotevano tutto, mi tramutavano in un brivido unico. Provai a immaginarmi Valerio in atteggiamenti da mogliettina, ma non mi dovetti sforzare molto, visto che in realtà già l’avevo visto. Quando mi faceva il caffè prima del lavoro, o quando mi aiutava a togliere la giacca dopo il lavoro, o quando io tornavo da lavoro e lui era in palestra e mi mandava un messaggio con scritto “Tutto bene a lavoro?”. O quando mi chiedeva se potessimo cambiare il tappeto perché quello era un brutto colore, o quando ci contendevamo il telecomando per vedere ognuno il nostro film preferito, o quando lo trovavo a stirarmi le camicie, e ogni volta che se ne stava in cucina davanti ai fornelli. Avrei sfidato chiunque a scovare un individuo perfetto quanto lui.
Prima di tornare in camera, il sorriso che partiva da un orecchio e arrivava all’altro, notai il mio riflesso nel grande specchio che avevo di lato e che si stava  lentamente spannando. Mi avvicinai a contemplare il mio volto, quasi incredulo. Sembrava quasi fossi ringiovanito. Probabilmente avevo solo sonno e mi apparivano immagini distorte, ma mi sembrò di notare la pelle sulla fronte più distesa e la linea delle sopracciglia più morbida. Mi passai un dito sulla radice del naso: quelle brutte rughe di espressione dovute alle mie sopracciglia costantemente corrugate sembravano svanite nel nulla. Sì, avevo decisamente sonno. O mi facevo suggestionare dalle storielle di Valerio. O da Valerio stesso.
Valerio Valerio Valerio. Mi rimbombava nel cervello e nel petto.

 

 

 

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Scherzavo, non è l’ultimo capitolo! Mi è stato proposto di allungare la storia perché ci sono parecchie faccende in sospeso, ma io considererei questo capitolo come la svolta definitiva nella vita di Andrea. Quindi dovrebbe concludersi tutto molto presto :) Che dite, vi piace questo Andrea qui? Non è troppo rompiballe, va XD
Transverberatio, spero di aver inserito nel capitolo tutto quello che ti interessava sapere :)

Grazie a chi segue ancora questa storia e chi ha la forza di commentare XD Fencs!





Mirokia


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Capitolo 25
*** Capitolo venticinquesimo ***


Cap. 25


 

 

 

 

 

 








Bonatti mi invitò a bere un goccio in un bar in centro durante le vacanze di Natale, e il che mi stupì, visto che non è che io e lui fossimo poi così amiconi. Lui non faceva che trattarmi a merda – si comportava così con il mondo, in realtà – e io non facevo che ignorarlo o dargli corda se proprio era in uno dei suoi giorni no. Quindi avevo accettato titubante, e anche perché mi sentivo piuttosto solo, visto che Valerio, come lui stesso aveva promesso al padre, era già partito per la Puglia, come faceva ogni anno a Natale. Era solo il giorno prima della vigilia, e lui doveva starsene lì sino al sei gennaio, perché a sua detta, suo padre ci teneva a regalare le calze della befana piene di dolciumi ai suoi due nipotini. Io ero solo in casa da tre giorni, e già mi stavo deprimendo. Mi guardai la mano prima di entrare nel bar in cui mi aveva dato appuntamento il mio collega: sul mignolo troneggiava un filo di lana rosso che Valerio aveva strappato dal suo maglioncino poco prima di partire e che poi aveva legato stretto al dito, col rischio di bloccarmi la circolazione. Poi aveva tagliato il suddetto filo e si era legato l’altra metà al proprio mignolo. “Così ti ricordi che siamo connessi anche se non ci sono. Guai a te se lo togli.” Mi aveva intimato, col cipiglio divertito, ben conscio che una roba del genere non avrebbe fatto altro che darmi fastidio, e che me la sarei tolta seduta stante. Ma a quanto pareva, avevo davvero iniziato ad impazzire, visto che era tre giorni che mi lavavo le mani senza la benché minima intenzione di tagliare via quel misero pezzo di lana attorno al dito. E di nuovo, quel filo rosso mi ricordava qualcosa, ma non riuscivo ancora a mettere bene a fuoco l’immagine stampata da qualche parte nel mio cervello.
Sospirai ed entrai nel tiepido locale odoroso di cioccolata calda, e vidi Bonatti discutere col cameriere, anche in modo piuttosto acceso. Mi dissi che avevo fatto malissimo ad andare incontro a una tale scocciatura quale era Bonatti, e alzai gli occhi al cielo, spinto a rimanere sul posto solo dalla vocetta nella mia testa – che poi era quella di Valerio – che mi diceva di prendere in mano la mia vita e di piantarla di vivere all’ombra degli altri. Bonatti si alzò dal tavolino tondo in cui era stravaccato, disse “Va bene, va bene!” al giovane cameriere, poi mi prese dal braccio e mi trascinò fuori con un “Sediamoci fuori, ché non mi fanno fumare dentro, ‘sti bastardi”. Neanche mise piede fuori che si accese la sua benedetta sigaretta, e solo dopo si allacciò il cappotto e mi fece segno di accomodarmi in un tavolino fuori. Ed eravamo gli unici seduti lì al gelo. Solo per Bonatti e la sua dannata sigaretta. “Valerio, dammi la forza”, mi ripetevo in testa, e mi sentivo anche piuttosto ritardato.
«A cosa devo questo invito?» chiesi dopo essermi rotto del silenzio disturbato soltanto dagli sbuffi di fumo del mio collega.
«Ti vedevo strano e allora ti ho invitato,» rispose lui con nonchalance, le gambe accavallate e la mano libera nascosta nelle cosce.
«Dove mi vedevi strano?» chiesi giustamente, visto che neanche mi ricordavo l’ultima volta in cui l’avevo incrociato. Lui mi disse che gli ultimi giorni prima delle vacanze natalizie entravo in facoltà che ero cupo e uscivo che ero nero pece. Non arrabbiato, piuttosto depresso, triste, e disse che aveva deciso che mi avrebbe invitato a bere qualcosa, visto che siamo colleghi e “sulla stessa barca”. Quindi era sicuro che ci saremmo capiti come, insomma, membri della “stessa squadra”. E ogni volta faceva in aria il segno delle virgolette. Insopportabile.
«Il tuo malumore è dovuto a quello che è successo due settimane fa?» mi chiese, la domanda in netto contrasto col suo solito tono menefreghista. Cos’era successo due settimane prima?
«Ma… da quand’è che ti preoccupi per me?» gli chiesi di rimando, e lui sbuffò rumorosamente e con scazzo una nuvola di fumo, facendo poi segno a una cameriera di prendere le ordinazioni.
«Senti. Io non avevo un cazzo da fare stasera, tu nemmeno, ti ho invitato a prendere un goccio per non passare la serata davanti a un film di serie B. Faresti anche solo finta di apprezzare l’iniziativa?» mi chiese retoricamente, con la cameriera lì in piedi al gelo, in attesa che quello si decidesse a ordinare. Lo guardai con un occhio socchiuso e sollevai d’istinto il lato della bocca in un sorriso, perché no, davanti a individui del genere proprio non riesci ad incazzarti seriamente. Ti fanno un po’ pena, quasi tenerezza. Mi voltai verso la povera cameriera infreddolita e le chiesi gentilmente se mi potesse portare una cioccolata calda, mentre Bonatti prima mi lanciò uno sguardo scandalizzato - molto probabilmente perché si aspettava che prendessi qualcosa di alcolico – e poi ordinò con scazzo della vodka liscia.
«Non capisco che tipo di problemi tu possa avere, comunque, se ci tieni, ti darò corda. Cos’è che vuoi sapere?» gli domandai una volta che la ragazza fu scappata dentro.
«Guarda che non sei costretto a parlare, eh, puoi anche andartene se vuoi,» mi disse lui, a quanto pare infastidito da quel mio atteggiamento del tutto disinteressato.
«Vuoi sapere a cos’è dovuto il mio malumore? O se è vera la storia che me la faccio con uno studente?» chiesi al posto suo, e a quel punto feci che accendermi una sigaretta anche io, visto che a casa non lo facevo più per non far respirare del fumo passivo al mio coinquilino.
«Non sono un pettegolo come credi, Ruggeri,» tentò di dire, ma lo bloccai con un’espressione da “Ti prego, non portiamola per le lunghe, ché già ho poca voglia di dare retta a qualsivoglia essere umano. Ascoltami e basta.”
«Entrambe le domande hanno un punto in comune: Valerio. Sì, me la faccio con uno studente, si chiama Valerio Castelli, ha vent’anni, frequenta la facoltà di lingue e letterature moderne e abita con me. Il mio malumore è dovuto a lui. Non a causa sua, ma a causa della sua mancanza. E’ Natale e lui non può stare con me. Fine». Accavallai le gambe e dedicai l’attenzione alla mia sigaretta e al fumo che lasciavo uscire dalla bocca insieme al vapore acqueo, senza far caso alla probabile espressione stupita ora dipinta sul volto del mio collega. Durante il silenzio che seguì, mi preoccupai di finire la sigaretta e di schiacciarla nel portacenere e di fare spazio alla cameriera in modo che potesse lasciarci i nostri ordini.
«…Wow. Beh, Ruggeri, non credevo potesse piacerti il tordo, ma questa tua confessione così spontanea ti rende onore, sai? Io ai miei tempi non l’avrei fatto neanche morto. Devo dire che ti ho rivalutato. Mi piaci, professore,» si decise quindi a dire, ma subito agitò le mani, certo di aver detto qualcosa di fraintendibile. «Ovviamente non in quel senso, mi hai capito,» e mandò giù la sua vodka liscia senza guardarmi in faccia neanche per sbaglio. «Sei stato sempre così sicuro di te stesso?»
«Mai,» ammisi, le mani che formavano una coppa sopra la tazza di cioccolata calda, nel tentativo di scaldarsi.
«Oh beh. Credo che il nuovo Andrea Ruggeri farà furore. Vuoi una sigaretta?» mi aprì il pacchetto davanti al naso, quasi non avesse notato che avevo appena spento la mia nel portacenere.
«Ti ringrazio, ma ho le mani congelate,» rifiutai col tono più gentile possibile, ma quello sfilò una delle sue sigarette disgustose e me la ficcò in bocca rischiando di farla cadere nella cioccolata.
«E prenditi ‘sta sigaretta senza fare la femminuccia! E non starmi depresso. Quando torna il tuo cocco?»
«Il sei,» risposi infastidito dai gesti avventati di Bonatti. Mi appoggiai la sigaretta maledetta sull’orecchio e portai la tazza fumante alle labbra.
«Passa come un fulmine. Sei solo a Natale? Vieni a stare da me, semmai. So’ solo anch’io,» e il suo non era un tentativo di abbordaggio, solo la disperata ricerca di una compagnia durante le feste. Doveva essere un uomo piuttosto solo, col carattere che si ritrovava. Mi dissi che io dovevo stare zitto, visto che non avevo un carattere migliore, e prima di Valerio ero anche più solo di lui.
«Mi spiace, ma starò con mia sorella,» gli dissi alzando le spalle. Feci una smorfia di dolore dovuta al calore della cioccolata quando s’abbatté sui miei denti leggermente sensibili.
«Che immagino sapranno tutto della tua passione per le carni giovani».
Lo guardai scoraggiato e lui alzò immediatamente gli occhi al cielo e mi rivolse un’espressione da: “Dai, sto solo scherzando un po’, che palle che siete voi insegnanti di letteratura”.
«Sto pensando a come dirglielo. Temo che sarà il mio regalo di Natale per tutta la famiglia».
«Che culo!» esclamò Bonatti, seconda sigaretta quasi terminata. «Sennò, scusa, da quant’è che state insieme?»
«In realtà non so dirti neanche se stiamo ufficialmente insieme… Voglio dire, come funziona oggi quando ci si fidanza? Ai miei tempi si faceva un regalo alla ragazza, che fossero fiori o piccoli gioielli –di solito un anello- e con quello si suggellava il fidanzamento. Voglio dire, i giovani adesso come fanno?» chiesi particolarmente frettoloso, visto che, mi accorsi, ero a corto di fiato.
«Firmano un contratto».
«Cosa?» domandai shockato, e quello spalancò gli occhi e appoggiò il pugno chiuso sul tavolo.
«Dico, ma ti stai sentendo? Prima di tutto, appena hai pensato a un possibile regalo di fidanzamento da fare al ragazzo, sei diventato tutto rosso e sei partito come un treno a parlare a vanvera. E’ stata la tua frase più lunga da quando ci siamo conosciuti, più o meno. Calmati, okay?» e mi fece notare con un dito che stavo tentando di allargarmi il colletto della camicia sotto la giacca, come avessi davvero bisogno di più ossigeno. «I ragazzi d’oggi non usano anelli o cazzate simili. Mettono su facebookImpegnato” oppure “Fidanzato ufficialmente con” se il partner ha facebook, così possono far vedere a tutti con chi è che sono infognati. Tu hai facebook
«No».
«Allora, piscia, avrà messo “Impegnato”. Oppure, magari, se non è uno che segue la moda, ti ha chiesto qualcosa tipo “Ma io e te cosa siamo?” oppure “Io per te cosa sono?” oppure “Posso considerarmi il tuo fidanza-”»
«Sì, me l’ha chiesto! E io gli ho detto che se gli faceva piacere poteva considerarmi tale,» esclamai quando riportai alla memoria i ricordi di me e Valerio che passeggiavamo per mano accanto al piccolo parco giochi dietro casa nostra. Casa… nostra? Nostra…
«Bene, quello è il giorno del vostro fidanzamento».
«…E che giorno era?!» realizzai di avere una pessima memoria, e mi stampai in fronte le cinque dita.
«Lui se lo ricorderà».
«Ma con che faccia vado a chiederglielo? Pensa a quando lui verrà a farmi gli auguri di buon anniversario e io cadrò dalle nuvole!»
Bonatti si strozzò col fumo tirato dal filtro e schiacciò la sigaretta nel portacenere mentre tossiva in un pugno e si dava colpetti sul petto. Quando tornò a respirare, aveva gli occhi rossi e la faccia sconvolta.
«…Tu sei messo davvero male, amico mio. Sei nella merda, te lo dico io. Mi sembra di stare in una puntata del Mondo di Patty, che cazzo».
Abbassai gli occhi imbarazzato, pur non avendo idea di che diavolo fosse questo Mondo di Patty. Sperai non una telenovela argentina.
«Quindi, sai dirmi almeno da quant’è che scopate? Perché scopate, vero?» domandò ancora Bonatti riprendendo il filo principale del discorso.
«Euf,» mi scappò, mimando anche con la mano la quantità abbondante dei nostri incontri a letto. Ma non solo a  letto, anche sul divano, sul tavolo, per terra, contro la cucina, in piedi contro il frigo e l’armadio, sul gabinetto. Cristo, anche sul gabinetto?! «Voglio dire, solo a volte,» mi corressi, probabilmente rosso come un peperone. «E comunque… sono tre mesi circa».
«E tu hai già intenzione di dirlo a tutta la famiglia? Non è un po’ precoce la cosa?» mi fece notare, e io mi diedi qualche secondo per pensarci, poi,
«Non lo so, ma non mi importa. Adesso sono dell’umore di dire tutto a tutti,» dissi con una mano sotto il mento.
«Non ti importa di come reagirebbe tua sorella?»
«No. E comunque, già non andiamo troppo d’accordo, non mi mancherebbe molto se decidesse di tenermi fuori dalla sua vita,» spiegai senza troppa voglia, e tirai giù altra cioccolata, ché a furia di parlare l’avevo lasciata freddare.
«Preferisci lui a tua sorella?» mi chiese incredulo, le braccia incrociate sul tavolo e gli occhi che tentavano di leggere la mia espressione rilassata e risoluta.
«Preferisco lui a tutto, forse non mi sono spiegato,» gli risposi senza pensarci su, e mi pulii le labbra col fazzoletto.
«Ma che cazzo ha ‘sto ragazzo? T’ha fulminato, t’ha fatto qualche maleficio,» ne concluse lui tornando improvvisamente indietro con la schiena e aprendo le braccia, quasi a dire che ci rinunciava a farmi ragionare. Io alzai le spalle, sorrisi e finii la mia cioccolata senza replicare. Probabilmente sì, mi aveva lanciato qualche incantesimo. E non avevo intenzione di cercare la contro-maledizione.
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Con Valerio mi sentivo ogni giorno, ma non eravamo riusciti a chiamarci nemmeno per mezzo minuto, e ci limitavamo a scambiarci messaggini, cosa che io, da buon vecchio caprone, sapevo fare con limitata dimestichezza. Non potevamo chiamarci perché, in poche parole, suo padre gli stava col fiato sul collo. Sempre. 24 ore su 24. E io mi sentivo come quei carcerati che non possono fare una chiamata ai familiari. Impossibilitato dietro una fila di sbarre. Non biasimavo suo padre, anche io mi sarei comportato così, se non peggio. Quindi cercai di farmi bastare gli sms, i suoi chilometrici, i miei stringati, spesso ridotti a una frase, proprio perché non ero abituato a scrivere messaggi, e quel telefonino touch screen di ultima generazione che mi avevano regalato Guido, Sara e Francesco al mio compleanno non mi aiutava per niente. Spesso lui mi chiedeva se fossi arrabbiato o triste, o se fosse successo qualcosa, e quando io gli chiedevo per quale motivo lo pensava, mi scriveva che le mie frasi drastiche lo preoccupavano. Gli chiedevo cosa intendeva per frasi drastiche, e lui diceva che mettevo il punto dopo ogni frase, e che lui lo mette solo quando è piuttosto arrabbiato o non ha voglia di parlare. In effetti, notavo che i suoi sms erano pieni di punti esclamativi, punti di sospensione, e smiles di ogni tipo, alcuni dei quali erano un vero mistero per me, ma mi vergognavo di chiedergli il significato. Tipo quell’ “XD” inquietantissimo, o quel “:3” altrettanto inquietante. Io gli dicevo che doveva avere pazienza, ma io scrivevo in quel modo e già facevo fatica, e che sarebbe stato meglio se potessi chiamarlo, anche solo per cinque minuti. Ma lui mi negava questa possibilità, dicendo che già per scrivere qualche sms si nascondeva il cellulare dietro la gamba o sotto le lenzuola o fingeva di avere la vescica sensibile e scappava in bagno, e quando suo padre lo vedeva scrivere, quello si inventava di star parlando con uno della facoltà. Infatti sulla rubrica mi aveva salvato con il nome di “Angelo”, sostenendo di avere davvero un compagno con quel nome, ma di non essersi mai preso la briga di chiedergli il numero. Quando stavo già iniziando ad essere geloso di quell’Angelo, lui mi disse che era un nerd allucinante, completo di faccia piena di brufoli, coi suoi fumetti sempre dentro la borsa e che si divorava tra una lezione e l’altra, seduto in corridoio, rigorosamente per terra, e con cuffie enormi collegate a un cellulare più enorme delle cuffie.
Quindi eravamo di nuovo lì, a scambiarci messaggi mentre suo padre era nella stanza accanto e io ero in macchina col riscaldamento acceso, pronto a raggiungere casa di mia sorella.
Vorrei sentire la tua voce…” mi scrisse, e io sospirai automaticamente.
A chi lo dici.
Ma non mi importa niente, a mezzanotte ti chiamo, dovesse cadere il mondo!
Sorrisi tra me e me e mi impegnai a scrivere con due mani, la sigaretta spenta appesa alle labbra.
Puoi far finta di dare gli auguri a un amico.
O posso chiamarti e fregarmene XD Tanto cosa può fare più di rimproverarmi?
Di nuovo quel misterioso “XD”. Mi ripromisi di chiederne il significato al più presto.
Proibirti di rivedermi al tuo ritorno?
Non può…
Guardai l’orario lì accanto al contachilometri, e mi accorsi di essere in leggero ritardo, cosa decisamente non da me. Ma mi dissi che se c’era di mezzo Valerio potevo anche prendermi tutto il tempo del mondo, e tornai con gli occhi sul luminosissimo display del cellulare.
Certo che può. Prima di tutto può portarmi in tribunale accusandomi di sequestro di persona e, dopo aver vinto la causa, può affibbiarti un paio di poliziotti che ti riportano a casa ogni volta che tenti di cambiare strada.
Non lo farebbe mai… Oh Dio, che prospettiva terrificante… entrerei in crisi depressiva.
Sì, perché ti sentiresti in gabbia.
No, perché non potrei più vederti! Capra!
Giusto, come avevo potuto non pensarci? Credevo che un giovinastro come lui tenesse più alla libertà e all’indipendenza che a un vecchio caprone come me. Mi dissi che, davvero, avevo 35 anni, non 90, dovevo piantarla di aggiungermene altri trenta sulle spalle. Stetti a ponderare su cosa scrivere nel messaggio successivo, ma me ne arrivò un altro prima che iniziassi a scrivere.
Sono quattro giorni che non ci vediamo. Quattro giorni che non dormiamo insieme, quattro giorni che non ti preparo la colazione, che non mi scarrozzi in macchina, che non mi dici che dovrei studiare di più, che non facciamo l’amore. Non credevo che il distacco potesse pesarmi tanto. In alcuni momenti della giornata non riesco a sopportarlo. L’altra mattina ero in piedi davanti al frigo a versarmi del latte, e m’è venuto il dejà vu di quella volta che m’hai sbattuto contro il frigo, hahah! Tutta colpa del colore del frigo dei miei nonni, è uguale al tuo!
Mi cadde la sigaretta di bocca e probabilmente divenni di una tonalità simile al viola. Mi schiacciai il cellulare sulla coscia e feci qualche lungo respiro prima di continuare a leggere –perché sì, aveva scritto un messaggio chilometrico in due minuti, quando io ce ne mettevo cinque a scrivere un paio di frasi -.
Mi manca addormentarmi spalmato su di te. Mi manca l’odore che emaniamo dopo il sesso. E sono solo quattro giorni! Pensa a quando dovrò tornare giù quest’estate per ben due mesi! Mi lego una delle bocce di mio nonno al piede e mi affogo!
Mi immaginai la scena e, sinceramente, mi venne da ridere. Forse più per non pensare al fatto di dover stare senza Valerio per due lunghi, lunghissimi, interminabili mesi. Avevo il magone al solo pensiero.
Allora, prima di tutto non può davvero mancarti il sesso! Prima che partissi l’abbiamo fatto, tipo, cinque volte di seguito? Ero stremato, pensavo che il mio amico qui non potesse alzarsi mai più, era rosso e bruciava da morire, e tu pure eri spaccato in due e, immagino, soddisfatto. Abbiamo finito il pacco maxi di preservativi, usando la scusa del “Facciamolo tanto, così ci basta per una settimana”, ma possibile che tu non ne abbia abbastanza?
Guardai l’orologio: ero in ritardo di già mezz’ora, e mia sorella iniziava a chiamarmi sull’altro telefono, quello con la scheda wind, vecchio ma sicuramente più semplice da utilizzare. Risposi velocemente mentre leggevo il messaggio di Valerio e sogghignavo. Dissi a Simona che stavo parlando con una persona e che avrei fatto un altro quarto d’ora di ritardo, poi chiusi la comunicazione con un Michele che urlava di aver paura di Babbo Natale.
…Cioè, dopo tutte le carinerie che ti ho detto io, romantico sino al midollo, sino a sembrare una ragazzina su un blog glitterato, tu mi rispondi dicendo che sono un sessuomane?
Non credo che esista come parola.
Non fare il saputello!
Risi nella mano chiusa a pugno, poi mi piegai a cercare la sigaretta che m’era caduta mentre pensavo a cosa rispondere. Me l’accesi e abbassai il finestrino, nonostante il freddo che entrava nelle ossa.
Comunque, lo sai che io non sono molto romantico. Non riesco a esserlo neanche se mi sforzo e, anzi, mi sono anche raddolcito parecchio da quando sto con te.
Mi piace il suono…
Di cosa?
“’Da quando sto con te’. Stiamo insieme, non mi sembra vero.
Anche se non mi è chiaro da quanto tempo.
Ammisi, sperando che non si arrabbiasse troppo.
Neanche io… Voglio dire, non abbiamo fatto nulla di ufficiale, e in realtà non credevo che stessi già considerando la nostra relazione come qualcosa di impegnato, dopo così poco tempo. Pensavo fossi più diffidente XD
Ma infatti lo sono. Non con te, però. Sei troppo adorabile, e non sono riuscito a starti lontano. Sei stato qualcosa di serio da subito, per me.
Scrissi, di getto, e mi accorsi anche di essere diventato più veloce nella composizione dei messaggi. Che stessi ringiovanendo a poco a poco?
Vedi che sei in grado di essere romantico? Sto squittendo come una ragazzina. E comunque, se non abbiamo ancora una data ufficiale, possiamo crearcela :)
Quando torni?
Sì, quando torno ci fidanziamo ufficialmente ;)
Non davanti al prete, vero?
Ti pare? Io neanche credo in Dio! Adesso devo scappare, reclamano il mio aiuto per il cenone!
Mi dispiacque dover terminare la nostra conversazione, che aveva preso decisamente  una piega piacevole, ma mi dissi che dovevo anche staccarmi dal cellulare ogni tanto – ero sempre fisso su quel dannato aggeggio aspettando un segno di vita da  parte di Valerio.
E hanno ragione. Vai a renderti utile.
Va bene, prof :) A mezzanotte ti chiamo, tieni il cellulare a portata di mano! Ti amo.
Mi uscì dalla gola un suono strozzato, come il guaito di un cane. Ero ridicolo.
Ti amo anche io. Tantissimo.
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Quella sera non ci fu bisogno che io dichiarassi ad alta voce, al momento del brindisi, davanti a mia sorella, mio nipote, il compagno di mia sorella e i suoi genitori e i suoi fratelli con figli annessi che io stavo insieme a un ragazzo a cui insegnavo la letteratura italiana. Questo perché, in realtà, l’unica che volevo che sapesse, più che altro per non farmi domande imbarazzanti ogni qualvolta trovava indumenti sparsi per casa, era mia sorella. E lei lo venne a sapere da sé, scorrendo la conversazione tra me e Valerio sul mio iphone. Sapevo bene che Simona aveva preso il vizio di leggere i messaggi altrui da mia madre, e quindi, probabilmente, gli mollai il cellulare sotto il naso per poi andare in bagno ben conscio del fatto che si sarebbe fatta un giro tra le mie conversazioni in quel momento di pausa tra una portata e l’altra. E comunque, l’arrivo di un messaggio di Valerio che recava il testo “Ah, salutami tanto Michele! :D” non aiutò a diminuire la visibilità del mio cellulare, che si mise a fischiare e a tremare proprio accanto alla sua mano, che si mosse automaticamente ed aprì con nonchalance il messaggio, nel caos generale.
Quando tornai dal bagno, la trovai con ancora il mio telefono in mano, mentre leggeva velocemente i messaggi, con gli occhi che scattavano a destra e a sinistra, l’espressione neutra, senza la benché minima preoccupazione di mettere giù il cellulare al mio arrivo. Io stesso non feci niente per toglierle dalle mani l’aggeggio. Anzi, aspettai pazientemente che finisse di leggere, la guancia appoggiata alla mano e il gomito appoggiato sul tavolo, proprio secondo il Galateo.
«Valerio è il tizio strano che gira per casa tua?» mi chiese ad un certo punto, senza staccare gli occhi dal cellulare.
«Sì,» dissi con un sospiro, pensando che forse forse non era stata proprio una brillante idea lasciare lì il telefono. Un terzo di quella conversazione verteva sul sesso. E non avevo poi così voglia che mia sorella leggesse i fatti miei, o almeno, non i fatti che riguardavano la mia vita sessuale. Poi Valerio era schietto e sincero anche negli sms, e non si tratteneva mai quando voleva dirmi qualcosa di particolarmente spinto.
«Non hai letto abbastanza?» le chiesi quindi, allungando la mano in attesa del mio telefono. Lei sbuffò e me lo riconsegnò appoggiandosi nella mia stessa posizione, ma rivolta verso gli ospiti che chiacchieravano allegramente tra di loro, senza degnarmi di parola o sguardo. Alzai le spalle e presi un sorso di vino, il mio sospiro coperto dalle urla dei bambini che giocavano attorno al tavolo. Poi Simona, evidentemente esclusa dalla conversazione dei parenti di Lorenzo, si voltò di scatto verso di me, che stavo finendo di mangiare gli spaghetti alle cozze.
«Fai proprio schifo,» mi disse, dritto in faccia. Io la guardai con la bocca piena e alzai le spalle, come a dire che non potevo farci niente. «Io non ci metto più piede in casa tua,» continuò, e io alzai nuovamente le spalle guardando nel piatto. «Non te ne frega niente?!» mi chiese dandomi un colpo sulla spalla, anche piuttosto potente. Alzai lo sguardo e mi pulii la bocca col fazzoletto rosso in tinta con la tovaglia.
«Mi basta lui,» ammisi, piuttosto lucido, nonostante avessi già tracannato un po’ di alcol.
«Eh?»
«Come hai potuto leggere dai messaggi, sono particolarmente preso. Lo amo».
«Ah, lo ami?» ripeté con una smorfia di derisione. «Sei patetico, lo sai, vero?» mi fece retoricamente. Non risposi e presi un altro sorso di vino.
«Vuoi che vada via?» domandai invece, con Lorenzo che adesso aveva smesso di chiacchierare e ci guardava leggermente preoccupati.
Fischiò nuovamente il mio cellulare lì accanto al piatto, e Simona lo prese prima di me e lesse il messaggio. “Salutami anche tua sorella, ovviamente!” diceva il testo. Lei distolse lo sguardo, forse infastidita, e mi restituì il cellulare.
«…Secondo me è troppo per te,» commentò guardando altrove, e io sorrisi infilandomi il cellulare in tasca.
«Lo so, lo penso anche io,» confermai  sgranocchiando un grissino.
«Voglio dire, questo tizio, oltre ad essere l’unico a far davvero divertire Michele, sa cucinare, tiene in ordine la casa, ha sempre voglia di fare sesso e si ricorda di me e ti chiede di salutarmi, nonostante io sia simpatica come un granchio nelle mutande. Tu invece fai sostanzialmente schifo,» mi ricordò con nonchalance, e io alzai le sopracciglia e strinsi le labbra.
«Sì, okay, grazie».
«Ed è anche nel fior fiore della gioventù, cosa pensa di fare infognandosi con un uomo di mezz’età?» continuò a infierire, ad affondare il coltello nella piaga.
«Ho 35 anni,» le feci notare.
«Anche io, ma ne sento addosso molti di più. Tu no?»
Non risposi, perché ovviamente me ne sentivo di più, e mi accorsi che io e mia sorella eravamo più simili di quanto pensassi. In quegli anni passati in due abitazioni diverse, mi ero dimenticato di quanto potessimo pensarla uguale. Giocherellai con un grissino spezzato arricciando le labbra, poi sentii caldo sulla spalla, e l’istante successivo mia sorella mi stava avvolgendo in un abbraccio particolarmente sentito. Le guardai i capelli stranito, poi incrociai lo sguardo di Lorenzo, interrogativo tanto quanto il mio, e portai istintivamente il braccio sulle spalle di Simona dando timide pacche, come facevo ogni qualvolta mi abbracciavano.
«Fai schifo,» ribadì, ma con la voce commossa, quasi stesse per piangere.
«E… è un bene?» domandai confuso, e quella mi annuì sulla spalla.
«”Fai schifo”. Me lo diceva papà, quando tornavo a casa ubriaca o puzzolente di fumo, o quando scopriva che m’ero fidanzata con un tizio strano,» mi disse, così dal nulla, riportando alla memoria vecchi, vecchissimi episodi.
«E aveva ragione».
«E mi paragonava sempre a te, mi faceva notare quanto tu fossi perfetto e quanto io facessi schifo. Invece adesso sei tu che fai schifo, fai più schifo di me, ti scopi un ragazzino! Ho avuto un complesso di inferiorità per 35 lunghissimi anni. E adesso, finalmente…» Sembrò quasi asciugarsi delle lacrime, e sicuramente tirò su col naso. Sciolse l’abbraccio e mi diede un buffetto sulla guancia. «No, non voglio che tu vada via. Mi piace stare in tua compagnia, adesso che so che fai schifo,» mi disse quindi, un sorriso che raramente le avevo visto in faccia, gli occhiali appannati.
«Magari potresti anche non ricordarmelo ogni tre secondi,» le chiesi indirettamente, e Lorenzo, giustamente, venne a vedere se fossimo pazzi o quasi.
«E’ successo qualcosa?» si piegò tra di noi, e Simona rise quasi isterica muovendo la mano.
«Niente. Andrea fa schifo. Non è fantastico?» fece euforica. Io e Lorenzo ci guardammo shockati, poi tornammo con gli occhi su Simona e le demmo due pacche sulla schiena.
«Aiutami a servire il pesce arrosto, va,» le disse quindi Lorenzo incitandola ad alzarsi. Lei annuì entusiasta e lo seguì al piano di sopra, dato che mangiavamo nel largo seminterrato. Mi rilassai sulla sedia e feci un lungo respiro. Era andata. A quella pazza non importava nulla del fatto che me la facevo con un ragazzo, quanto di sentirsi migliore di me. Come se non lo fosse mai stata. Probabilmente, l’immagine che mio padre le aveva dato di me era ancora troppo forte per essere sostituita dal me attuale.
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Scattò la mezzanotte, e quasi saltai dallo spavento per il tempismo con cui il mio cellulare si mise a vibrare furiosamente nella tasca dei pantaloni. Risposi frettolosamente – il costoso iphone rischiò di scivolarmi dalle mani -, mentre i bambini  si preparavano ad aprire, finalmente, i loro regali.
«Amore,» fece la voce di Valerio ancor prima che potessi dire il mio “Pronto”. «Buon Natale!»
«Puntuale, per non dire svizzero,» risi, e mi spostai in un angolo più silenzioso del seminterrato. «Buon Natale anche a te».
«Mi hai salutato Michele?»
«Sta aprendo i regali adesso,» dissi buttando un occhio ai tre bambini che scartavano i pacchi come fossero posseduti dal demonio.
«Potevi salutarlo prima!»
«Prima stavo dicendo a mia sorella di me e te,» dissi girandomi nuovamente verso il muro, le urla a ultrasuoni dei bambini che mi uccidevano l’orecchio libero dal cellulare.
«Ah, beh, allora sei perdon- come, come? Oddio. E come l’ha presa?» fece, improvvisamente nervoso, ché sicuramente non s’aspettava per nulla al mondo una notizia del genere e tanto improvvisa.
«Mi ha detto che faccio schifo,» alzai le spalle e mi mordicchiai un’unghia.
«Cazzo. Cioè, scusa. Mi dispiace».
«No, è okay. E’ un complimento detto da lei. Ti spiegherò meglio quando tornerai».
«Va bene,» disse, mesto mesto, e subito dopo, il mio orecchio appoggiato al ricevitore fu trafitto da urla disumane. Anche casa di Valerio doveva essere invasa dai bambini. Dio, che scocciatura. «Non hai idea di quanto vorrei essere lì con te. Solo sentire la tua voce mi fa uscire il cuore dal petto,» mi comunicò poi, la voce commossa.
«Pure io sono tutto emozionato,» confessai, e già lo si capiva dal mio tono di voce e da come avevo preso a stringere la camicia più o meno elegante all’altezza del petto.
«Ahahah! Vorrei vedere la tua faccia!» rise lui, e io mi morsi l’interno della guancia: la sua risata era qualcosa di extraterrestre, mi stimolava le cellule nervose.
«Ti manderei una foto, ma non sono fotogenico,» dissi fintamente rammaricato, e me lo immaginai mentre scuoteva la testa scoraggiato.
«Ovviamente. Muoviti, mandami una foto, così mi sento un po’ più vicino a te. Fanne una anche a Michele».
«Te ne fai una anche tu, quindi?» domandai tentando di non utilizzare un tono malizioso. Come se ne fossi davvero in grado.
«Come la vuoi? Da nudo o da vestito?» fece lui di rimando, una risata trattenuta, la domanda maliziosa, ma il tono da ingenuo, come sempre.
«In mutande?» proposi, e lui fece un suono con la bocca.
«Andata».
Sentii la voce di Bruno intimare al figlio di chiudere la comunicazione con un “Metti via ‘sto cellulare del demonio”, e quindi Valerio parlare con un volume decisamente più basso, tanto che feci fatica a sentire quello che diceva.
«Devo già lasciarti, mi dispiace. Ti giuro che la notte del sei gennaio stiamo tutta la notte svegli a parlare,» mi disse sommessamente, le parole che si intendevano appena.
«Dubito che tu voglia solo parlare,» feci divertito e lui ridacchiò.
«Guarda, evito di ricordarti tutte le volte che mi hai detto di “avere voglia” solo perché devo chiudere. Ancora buon Natale, saluta tutti. Ti amo da diventare matti! Ciao!»
«Ciao, amore».
Mi voltai, e avevo mia sorella in piedi a pochi centimetri da me, le mani sui fianchi, la faccia da “Sto per prenderti in giro e lo farò per il resto dei tuoi giorni senza mai stufarmi”.
«Ciao, amore,» mi fece il verso con la faccia deformata in modo orribile. «Ma vedi te se devo sentire mio fratello dire “amore” a un ventenne, oltretutto maschio. Ah, i drammi della vita, a cosa possono portare!» alzò la mano al cielo con fare teatrale e mi diede la schiena, felice di avere qualcosa con cui rompermi ulteriormente l’anima ogni giorno. Sospirando, cercai nell’iphone la fotocamera, poi raggiunsi il tavolo ormai sparecchiato e su cui i bambini aprivano e provavano i regali e puntai la fotocamera su Michele.
«Michi,» lo chiamai, e quello alzò la testa rossa solo dopo il mio terzo richiamo. «Mi sorridi?»
Lui mi guardò storto, ché mai gli avevo fatto una richiesta del genere. Quindi non si degnò di sorridermi e continuò a guardarmi in cagnesco, le mani impigliate in un nastro rosso. «Valerio vuole una tua foto,» provai a dire, e quello si illuminò all’istante, ridendo al solo nome del ragazzo. Ne approfittai per scattare la foto e fortunatamente venne bene al primo colpo.
«Lo chiami al telefono? Me lo passi?» provò a chiedere Michele, ed era già pronto a lasciar perdere i regali, saltar giù dalla sedia e urlarmi che voleva per forza parlare con Valerio sennò non mi faceva più amico. Ma Lorenzo lo precedette riportandolo sulla sedia e mostrandogli un regalo gigantesco ancora da aprire. Inutile dire che quel regalo lo ipnotizzò e lo convinse a restarsene in ginocchio sulla sedia. Lorenzo mi strizzò l’occhio con fare complice, e quello voleva poter dire due cose: A, mia sorella gli aveva raccontato già tutto ridendo istericamente e ripetendo quanto fossi uno sporco pedofilo e quanto facessi schifo; B, probabilmente era il più furbo di tutti i protagonisti della mia storia e aveva capito tutto ancor prima di me e Valerio. Ma non prima di Giulio, quello no, ché lui era un pervertito, e certe cose le sapeva addirittura prevedere.
Sospirai un’altra volta dopo aver sorriso grato a Lorenzo, poi mandai velocemente la foto di Michele a Valerio. Dopo cinque minuti, mi arrivò una foto in risposta di due bambini, il più grande coi capelli lisci e castani, due occhioni neri e un paio di occhiali dai bordi azzurri, la più piccola coi capelli ricci e biondo cenere, occhi altrettanto neri e la mano in bocca, che guardava diffidente l’obiettivo. Sotto la foto il testo diceva: “Questi sono i miei due cuginetti :) Michi è bellissimo come sempre. Tutto sua madre. Quindi tutto suo padre, visto che siete identici, hahaha! Ok, la pianto di rendermi ridicolo. Mandami una tua foto, muoviti :D
Non se ne parla.” Gli scrissi drastico. Perché col cavolo mi facevo una foto da solo o me la facevo fare da qualcuno, o andavo in bagno o farmela allo specchio o che altro. Avevo i brividi al solo pensiero.
Se te la mando io?
Non te la mando in nessun caso.
Per un attimo desiderai che il mio cellulare non fosse l’unico a prendere la linea nel seminterrato. Ma poi dovetti rimangiarmi i pensieri, se mai potesse esistere tale espressione. Mi fischiò di nuovo il cellulare segnalando l’arrivo di un mms, e quando l’aprii trovai una foto di Valerio. Conoscendolo, mi aspettavo una foto in chissà quale posizione provocante, ma in realtà se ne stava seduto ai piedi di un letto, non sapevo se nudo o meno, visto che si vedevano solo le spalle scoperte e le ginocchia – era seduto con le gambe al petto – e aveva un cappello da Babbo Natale in testa. Un ciuffo particolarmente lungo e biondo spuntava dal cappello e andava verso l’alto, non so secondo quale legge fisica. Faceva un sorriso un po’ imbarazzato, e gli occhi riflettevano il display del cellulare. Sentii una fitta al cuore che poi si propagò sino all’inguine. Era sin troppo carino, e presto tutta quella carineria mi avrebbe ucciso di certo. Salii quasi di corsa al piano di sopra senza dare spiegazioni a nessuno e andai a chiudermi in bagno. Sì, c’era un bagno anche sotto, ma probabilmente avrei emesso qualche rumore molesto mentre mi masturbavo sulla foto del mio coinquilino. Me lo immaginai mentre gemeva sotto di me con addosso solo quel cappello lì. E magari un nastro colorato, quello per i pacchi regali, che gli circondava spalle, braccia, gambe e fianchi. Non credevo che il Natale mi avrebbe fatto quest’effetto, un giorno.
Mi arrivò un messaggio sul più bello, ed ebbi pure il coraggio di aprirlo.
Mi sto masturbando pensando a te.” Diceva il testo. Mi si rizzarono le punte dei capelli, e venni l’istante dopo, nel pezzo di carta igienica che tenevo pronto nell’altra mano. Feci una smorfia e mi pulii per bene, sperando con tutta l’anima che mia sorella non mi avesse seguito e avesse origliato tutti i miei possibili rumori. Lavai le mani nel lavandino e mi sistemai i capelli, sorridendo al mio riflesso decisamente ringiovanito nonostante quello che avevo appena fatto, e finalmente risposi al messaggio.
Anche io. E grazie al tuo messaggio sono venuto.
Uscii dal bagno e andai a sedermi sul divano nel salotto buio, sollevato dal fatto che non ci fosse l’ombra di mia sorella.
Quando torno scopiamo come animali :)
Presi a tossire rumorosamente quasi mi fosse andato di traverso del fumo, e per un momento pensai che mi stesse uscendo del sangue dal naso.
Come puoi dire una cosa del genere e poi metterci vicino il sorriso?!” scrissi alquanto scosso, e la risposta arrivò qualche secondo dopo.
Quando torno scopiamo come animali. Meglio?
Scossi la testa e digitai, più velocemente del solito,
Non scrivermi più.
Perché???
Sei scurrile.
Ma va va. Dopo tutto quello che mi hai fatto…
Basta.
Ti odio.
La cosa è reciproca.
Non mi scrisse per un po’, e pensai che si fosse offeso per davvero. Stavo già per chiedergli scusa, quando mi arrivò la sua terza foto della serata: era vicinissimo all’obiettivo, tanto che si vedeva solo la sua faccia e un sorriso a trentadue denti. Gli occhi erano strizzati, quasi completamente chiusi, e in un angolo libero della foto si intravedeva quello che sembrava il muso di un gatto.
Questa è la mia faccia happy dopo essere venuto :D
Mi chiesi se esistesse un limite all’amore provato per una persona. Mi chiesi se sarei mai stato in grado di smettere di amarlo. Mi chiesi cosa sarebbe successo se fosse stato lui a smettere di amarmi.
Per il momento, pensai, mi salvo la foto e me la guardo quando mi sento solo. Gli diedi un’altra occhiata: era bellissimo pure con la faccia deformata  e i denti in primo piano. Sospirai, ancora una volta. Poi mi dissi che anche io mi sarei fatto una foto. Il vecchio Andrea non l’avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo, ma il nuovo Andrea si piaceva, e anche parecchio. Attivai il flash sperando che non mi accecasse. E sperando che anche Valerio guardasse quella foto quando sentiva di aver bisogno di me. Passandomi il pollice sul filo rosso legato al mignolo, scesi nuovamente nel seminterrato, e vidi mia sorella già pronta a prendermi nuovamente in giro.
Il Natale più bello dopo anni e anni di inerzia.


 







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This chapter is HUGE. HUGE, I tell you. And I write HUGE in capital letters just to make sure you understand that this chapter is, like, super HUGE.
Più che altro scrivevo senza accorgermene. Vado a periodi, ovviamente, come tutti. Posso rimanere inattiva una settimana e poi scrivere dieci pagine e oltre di word in due sole nottate – sì, uso la notte per scrivere, sono molto più sveglia.
Simona è adorabile, no? Cioè, è totalmente una figa, dai, hahaha, rido da sola perché ho fatto un personaggio piuttosto strambo e quindi mi vien da ridere se ci penso. Me la immagino a ridacchiare come una poco sana di mente, un po’ come… non so come spiegare l’immagine che ho in mente… tipo Rossana in… Rossana. Il cartone animato. Quando si prendeva gioco di Heric, e poi rideva tutta soddisfatta, con la bocca a triangolo e gli occhi spiritati. Ecco.
Oh, ho trovato un’immagine, è perfetta!!!


Quella è Simona da ragazzina. Ha pure lo stesso colore di capelli che m’immagino.

Spero che la roba dei messaggini non vi abbia annoiato. Io, personalmente, mi sono divertita un mondo a farli comunicare via sms come una coppia di ragazzini <3 Quelli che fissano il cellulare in attesa di quel magico messaggino che possa migliorare loro la giornata.

Bonatti l’ho riportato sulla scena perché mi stava troppo simpatico. E poi perché volevo che Andrea ammettesse davanti a un quasi sconosciuto che ha una relazione con uno studente. Il mio Andrea sta crescendo. Il mio bambino *si asciuga lacrimuccia*.
E comunque, il Natale che ho descritto è uguale a quello che passo io più o meno ogni anno, solo che di solito io sono più partecipe. Non me ne sto in un angolo a parlare col mio amante di quindici anni più piccolo, e poi comunque il mio cellulare non prende lì sotto. I due bambini descritti (i cugini di Valerio) sono i miei cugini. Federico e Francesca. Non interessava a nessuno, mmh.

Lorenzo non l’ho approfondito come personaggio perché non voglio farlo. E’ uno molto paziente e gentile, comunque, e che capisce al volo le cose. Un po’ come me, solo che io sono rompiballe. Avessi capito che Andrea se la faceva col ragazzino, sarei andata lì a dire: “Eeeh, guarda che lo so che te la fai…” eccetera. Come Giulio, stessa roba irritante. Giusto perché l’ho già fatto.
E comunque, chi se ne importa di me! Vi saluto, un bacio a chi segue ancora! La storia sta volgendo al termine, per vostra somma gioia XD



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Mirokia

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Capitolo 26
*** Capitolo ventiseiesimo ***


Cap. 26



 

 

 

 




Quando Valerio mi fece l’ennesima chiamata avvisandomi riguardo il suo arrivo imminente, non mi sentivo tanto bene. Il giorno prima avevo avuto la febbre, anche se non troppo alta, ma non ci avevo fatto troppo caso, ed ero comunque uscito a fare la spesa, ché ci tenevo a fare una sorpresa a Valerio quando sarebbe tornato – Bonatti aveva ragione: ero nella merda. Quindi avevo ignorato la temperatura salita leggermente la sera, perché la febbre la sentivo solo quando era piuttosto alta. Stranamente, avrei detto, visto che mi consideravo uno dal fisico deboluccio. Probabilmente il giorno dopo avevo avuto decimi di febbre sino al pomeriggio tardi e, impegnato com’ero stato a preparare una cena coi fiocchi, non me n’ero neanche accorto. Ma adesso che era già sera, la tavola apparecchiata con tanto di tovaglia e tovaglioli rossi e dorati in perfetta atmosfera natalizia – e anche un paio di candele per rendere la stanza più accogliente – sentivo la stanchezza della giornata acquistare il doppio del peso e gravarmi sulle spalle come un macigno.
Quando suonò il citofono, controllai per l’ultima volta che tutto fosse in ordine e, dopo aver aperto il portone, mi assicurai di aver già spento il forno e di aver messo in frigo i dolci. Poi mi appostai all’entrata dopo aver aperto la porta, addosso l’ansia del primo appuntamento. Sentii il suono frenetico dei piedi di  Valerio che salivano le scale e un “Mi scusi!” mortificato ma poi non così tanto quando superò la mia vicina che pure stava salendo le scale per rientrare a casa. Quando mi vide lì piantato sulla porta, il ragazzo non ci pensò due volte prima di saltarmi addosso, le gambe avviluppate al mio busto, lo zaino da esploratore che raddoppiava il suo peso.
«Ciao!» si limitò ad esclamare, mentre io ero lì per stramazzare a terra. La vicina non era ancora entrata in casa, ovviamente incuriosita dalla scena, e quando Valerio riappoggiò i piedi a terra, le braccia ancora appese al mio collo, e si sollevò leggermente sulle punte per lasciarmi un bacio sulle labbra, la vidi sbiancare.
«Entriamo, è meglio,» gli bisbigliai sulla bocca, mentre quello si allungava per altri baci, completamente dimentico della vicina dietro di noi, gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta, la mano che minacciava di lasciar andare la busta della spesa. Quando finalmente Valerio realizzò, si voltò verso la porta accanto alla nostra, guardò la donna del tutto paralizzata - di certo non respirava, non muoveva un muscolo, non batteva  le palpebre -, fece un suono con le labbra, poi mi picchiettò con la mano aperta sul petto incitandomi così ad indietreggiare in casa, e lui mi seguì in silenzio per poi chiudere piano la porta, quasi avesse paura che un suono poco più forte potesse dare il colpo di grazia alla vicina.
Una volta dentro, Valerio mi rivolse uno sguardo da “Credo di averne combinata un’altra delle mie, scusa”, e io scossi la testa, pensando al fatto che non avevo né voglia di arrabbiarmi, né voglia di pensare alla vicina. E poi, che me ne fregava? A momenti neanche la conoscevo. Il fatto che non ricordavo il nome non faceva che darmene la conferma.
«Bentornato,» gli dissi semplicemente, con un sorriso che aveva già perdonato il suo atto avventato. «Togli lo zaino. Non hai già mangiato, vero?» gli chiesi mentre lo aiutavo a spogliarsi, chiedendomi come facesse ad essere così energico dopo un viaggio in aereo. Io, per quelle poche volte che avevo viaggiato in aereo, ero stato prossimo allo svenimento ogni volta.
«Veramente contavo di mangiare con te. Ti ho portato dei dolci,» e si mise a frugare nello zaino poggiato sulla cassapanca lì all’entrata. Notai che aveva dato un taglio drastico ai capelli, e adesso non andavano più per conto loro se muoveva la testa. Stavano lì fermi, ma comunque tirati all’insù come al solito. Sapevo che non usava né cera, né gel, né qualunque altro prodotto per capelli: doveva essere l’elettricità nel suo corpo a spararglieli sempre in aria in quel modo.
Finalmente trovò il pacchetto di dolci – bianco a cuoricini colorati – e me la consegnò arrossendo leggermente.
«Sono tipici di giù,» mi informò, le mani intrecciate dietro la schiena.
«Oh, gra-»
«Ti vuoi mettere con me?»
Se ne uscì così, all’improvviso. Le braccia si muovevano, segno che le mani li dietro si torturavano l’una con l’altra, mentre lo sguardo tentava alla bell’e meglio di fuggire e nascondersi.
«…Eh
«Ci mettiamo insieme?»
Quando mi resi conto che la domanda non era stata solo una mia immaginazione, mi saltò un colpo al cuore e portai istintivamente una mano sul petto.
«Noi stiamo già insieme,» gli feci notare, il respiro corto.
«Ma… quella cosa ufficiale…»
«Prima mangiamo, vuoi?» gli proposi, ché, davvero, in quell’angusta entrata rischiavo di soffocare. Lui rilassò le braccia e, dopo aver assunto un’espressione imbarazzata, allungò le mani sui miei fianchi e si alzò leggermente sulle punte cercando la mia bocca. A malincuore, dovetti fermarlo ponendogli la mano sulle labbra. «Non lo farei, se fossi in te. Ho un po’ di febbre».
«Lo sapevo che eri pallido per un motivo!» esclamò quello tastandomi con un indice la guancia libera dalla barba. Quel tastarmi non fece che trasformarsi in una carezza e io, sul serio, alle sue carezze non riuscivo a resistere. Le sue mani erano più fresche, visto che veniva da fuori, e fu un sollievo sentirle sulla pelle che scottava.
Quindi alla fine lo baciai lo stesso, anche piuttosto insistentemente, le bocche che si mangiavano a vicenda, l’aria che non riusciva a passare e non ci permetteva di respirare, lo spazio ristretto che di certo non ci aiutava. Avevo brividi di freddo spaventosi su tutto il corpo, eppure quello era il bacio più bollente e famelico che, probabilmente, ci fossimo mai dati. E, sarà stata l’intensità del bacio, o l’aria mancante, o molto più semplicemente la febbre, non ci volle molto perché barcollassi, a un passo dallo svenire.
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«Guarda che riesco a stare in piedi. E’ stato solo un leggero giramento di test-»
«Tu non ti alzi da qui,» mi interruppe Valerio col tono severo delle mammine in pensiero, e mi rimboccò per l’ennesima volta le coperte, come se nella camera da letto ci fosse una bufera di neve in corso e lui dovesse proteggermi a tutti i costi.
«Ho preparato tutta quella roba… Andiamo a mangiare e dopo mi stendo di nuovo,» gli dissi quasi piagnucolando al pensiero del tempo impiegato per fare il polpettone. Io che non cucinavo da mesi, e che sinceramente non ero questo gran chef.
«Deciderò io cosa fare dopo che ti sarai misurato la febbre,» disse serio serio mentre apriva la scatoletta contenente il termometro. Lo scaricò muovendo il braccio a scatti e me lo porse. «Sei stato dolcissimo a prepararmi la cena, io, davvero, non mi sono mai sentito tanto amato, ma in questo momento sono più preoccupato per la tua salute,» mi informò dopo essersi assicurato che mi fossi infilato il termometro sotto l’ascella.
«Ma non sto per morire!» gli feci notare sollevando la parte superiore del corpo per mettermi a sedere, ma lui mi spinse nuovamente sul cuscino.
«Vado a prenderti qualcosa di fresco da mettere sulla fronte e… che pillole prendi di solito?»
«No, non ci siamo capiti. Se devo starmene steso a letto, tu non ti devi muovere da qui. Non ti vedo da più di due settimane, adesso non voglio perderti di vista neanche per un istante,» gli dissi pizzicandogli la pelle del braccio, e lui fece un mezzo broncio prima di sedersi sul materasso.
«Ti seccano le persone premurose, ho capito».
Non risposi alla sua domanda indiretta, perché era vero che sopportavo a fatica i premurosi, e mi limitai a sorridere, le membra bollenti, gli occhi che facevano male ogni volta che li sollevavo per guardare in faccia il ragazzo.
«Stai bene con questi capelli,» mi complimentai per la scelta del taglio mentre gli carezzavo il braccio, e lui con un “Dici?” sembrò arrossire nuovamente, anche se non ne avevo l’assoluta certezza, visto che con la febbre, seppur leggera, avevo una visione distorta del mondo. Magari i capelli non se li era neanche tagliati e mi stavo immaginando tutto, ne ero ben capace.
«Non ci credo, è ancora lì,» esclamò Valerio quando s’accorse del filo rosso ancora legato al dito.
«Visto?»
«Mi stupisci,» confessò mentre ci passava sopra il pollice. «Adesso puoi toglierlo, però. In effetti dà fastidio anche a me quando mi lavo le mani,» e tentò di slegare il nodo del filo, ma io ritrassi la mano e mugulai come annoiato.
«Stenditi, ché mi stanco a tenere il collo sollevato per guardarti in faccia. Tanto probabilmente ti ho già regalato il virus e domani sarai anche tu costretto a letto,» diedi una pacca al materasso accanto a me. «Così mi racconti le tue vacanze natalizie».
«Va bene, mamma,» annuì  e fece il giro del letto per poi accoccolarsi tra le coperte, tirando subito dopo un sospiro di sollievo, quasi aspettasse da tempo di riposare nuovamente su quel materasso.
E ci raccontammo davvero le rispettive vacanze, in modo dettagliato, senza omettere alcun particolare. Lui mi disse di aver avuto il fiato di suo padre sul collo 24 ore su 24, che gli aveva permesso solo una volta di vedere i suoi amici – aveva dovuto invitarli a casa a prendere il tè – e che a momenti non lo accompagnava neanche dagli zii. Non era una forma di punizione però, mi disse ancora, ma una sorta di perfettamente comprensibile possessività. Bruno amava suo figlio, e voleva tenerselo ben stretto almeno per quei pochi giorni. E magari evitare che parlasse di continuo con me, giustamente.
Poi mi raccontò di suo zio, o più precisamente, del marito di sua zia, e di come fosse convinto da anni che Valerio avesse una ragazza e di come gli regalasse sempre  manciate di preservativi perché “Non si sa mai che n’estate rrii cu nu piccinnu an brazze e sinti ancora vagnunceddhu”. Valerio gli diceva ogni volta “Zio, non c’è pericolo, io sono…”, ma quello, ancor prima che il nipote finisse di parlare, gli chiudeva la mano con dentro i preservativi e poi gli dava pacche sulle spalle: “La sacciu ca sinti prudente e giudizioso, ma credi a zio, usa questi e stai apposto, mh?
«Vorrà dire che lo accontenteremo,» gli dissi carezzandogli la guancia col dito. Lui fece un sorriso sghembo e nascose la faccia nell’incavo del mio collo.
«Scotti come l’inferno,» commentò passando un orecchio fresco sulla parte più calda del mio collo e lanciandomi un brivido su tutta la schiena.
«Hai già avuto un assaggio dell’inferno?» gli chiesi, e mi resi conto che quei brividi erano tutt’altro che fastidiosi: mi instillava il piacere carnale che soleva prendermi ogni qualvolta mi ritrovavo a contatto con Valerio. Ma quella volta, la voglia di sentirlo contro di me, fresco come l’aria di gennaio, era davvero troppa. Volevo starmene inerme sotto di lui, che passava una mano su ogni mio centimetro di pelle marchiandolo col tocco freddo.
«Diciamo così,» fece lui, un retrogusto leggermente malinconico. Parlando d’inferno gli venne in mente qualcosa, e si appoggiò sui gomiti parlandomi da vicino. «Prima che rincomincino le lezioni andrò a trovare mio fratello. Verresti con me?»
«Lo sai che gli ospedali non mi-»
«Voglio fartelo conoscere. E voglio che lui conosca te. Anche se ho paura che mi tradirai con lui, è cento volte più attraente di me,» mi disse con una smorfia infastidita, e io mi dissi che non andare a trovare suo fratello perché non mi piacevano gli ospedali sembrava piuttosto una banalissima scusa.
«In effetti credo di aver bisogno di scambiare due parole con mio cognato,» dissi quindi, accettando finalmente la sua proposta. Lui mi ringraziò abbassando leggermente le palpebre, e si allungò a baciarmi sul mento. Restò fermo su quel punto e poi iniziò a dare piccole lappate, sperando che io m’abbassassi e gli lasciassi libero l’accesso alla bocca. Lo sentii emettere un sospiro frustrato non glielo permisi, l’accesso, e invece di salire, scese sul collo appena privato della barba, strusciandosi indecentemente contro la mia gamba tra le sue. «Vuoi farlo, vero?»
Lui deglutì e annuì ripetutamente, gli occhi velati di lussuria e impazienza, il respiro già affannoso.
«Ce la fai?» mi chiese, ancora così preoccupato per quella mia febbricciola da niente.
«Non credo,» mentii facendolo aderire ulteriormente alla mia gamba. «Ma tu sì. E anche io voglio farlo, ho aspettato troppo a lungo».
«Che vuol dire “Ma tu sì”? Non vorrai che sia io a-»
«Solo quando l’avrai fatto staremo ufficialmente insieme,» inventai qualcosa per convincerlo a prendere in mano le redini, almeno per una notte. Mi resi conto che solo in quel modo mi sarei davvero sentito cosa sua, e ci avevo pensato per tutte le vacanze. «Così potrai scriverlo anche su facebook,» risi, e quello era così immerso nel pensiero della mia frase appena precedente, che si trovò un attimo spaesato.
«Io… cosa?»
«Perché ti fai tanti problemi? Non me ne sto facendo io!» gli feci notare, e quello fece una faccia da “Lo sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento”. Intrecciò una mano alla mia e prese un finto respiro profondo, perché sì, se lo aspettava, glielo leggevo negli occhi socchiusi. E non ci mise molto a convincersi che l’avrebbe fatto, questa volta.
«Er… Okay…» assentì, la mano che già scorreva sul mio addome. Ma per quanto si fosse preparato all’avvenimento, si dimostrò comunque un imbranato a metà. Un adorabile imbranato. Mi chiese se poteva togliermi le coperte di dosso e se per caso sentivo freddo. Io gli dissi che poteva fare quello che credeva, quindi lui, premuroso sino al midollo, abbassò la coperta sino a sotto l’inguine, lasciando ben coperte le gambe, che non fecero che sudare per tutto il tempo. Mi baciò attorno all’ombelico mentre tastava con insistenza in mezzo alle gambe, bramoso di potersi finalmente riempire la bocca, dopo settimane di frustrante attesa. O almeno, questa era la mia sensazione mentre lo sentivo respirare forte sui boxer che spuntavano appena dai pantaloni.  Mi sbottonò i jeans con attenzione, poi me li stropicciò sulle gambe e li lasciò lì sulle caviglie, mentre si contorceva tutto su un solo punto del mio corpo, ci si chiudeva a riccio, le membra che fremevano quasi più delle mie.
«Però dopo mi scopi tu, okay?» chiese a un certo punto con la lingua indolenzita a causa del continuo leccare, rompendo inevitabilmente l’atmosfera.
«Dipende da quanta febbre ho. E ti ho detto che non mi piace quando usi quei termini,» risposi secco, più che altro per gli ansiti che tentavo di trattenere. Lui tornò col capo tra le mie gambe borbottando un “Vecchio caprone” e solo in quel momento prese a succhiare forte, quasi a farmela pagare per avergli risposto male. E, come se non fosse abbastanza, appena mi lasciavo andare a sospiri più rumorosi e a movimenti del bacino che mi permettevano di sistemarmi meglio nella sua bocca, quello sollevava il capo e smetteva di lavorarmi, guardando compiaciuto come tendessi il bacino bisognoso in avanti, frustrato di quelle interruzioni improvvise.
«Che carino,» e mi rise sul pene. Una risata che alle mie orecchie arrivò erotica, ma parecchio, e il che non m’aiutò, perché quello era impegnato a ridermi in faccia piuttosto che continuare quello che stava facendo. Ora capivo come si sentiva lui ogni volta che mi comportavo allo stesso modo, che mi fermavo a guardare le sue espressioni mentre la mano che lo masturbava rallentava inevitabilmente.
Ma almeno adesso sembrava essere entrato nello spirito giusto.
«Te l’ho già detto che hai il cazzo più bello che abbia mai visto, o toccato, o succhiato?» mi chiese retoricamente mentre mi guardava il membro dal basso, quasi stesse osservando meravigliato chissà quale opera d’arte.
«Mi raccomando, continua a riportarmi alla mente il tuo passato da risucchia-tutto. Soprattutto adesso. Mi raccomando,» gli dissi tutto dolorante, e andai inconsciamente a posargli la mano pesante sul capo, facendo poi una leggera pressione in modo che continuasse quello che aveva interrotto. Ma lui a quel punto si alzò e frugò nel cassetto del comò in cerca del lubrificante. Prese anche un preservativo  e lo sventolò come fosse una bustina di zucchero. E io che me ne stavo lì disteso supino a soffrire.
«Con o senza?» chiese semplicemente, e sembrava tranquillo e compassato, ma la guancia gli tremava, e il cavallo dei pantaloni era straordinariamente rigonfio. Che è, gli era cresciuto durante le vacanze di Natale?
Non gli risposi, ma gli feci segno con la mano di avvicinarsi al letto, come i malati terminali che vogliono dire l’ultima parola al proprio erede. Lui mi raggiunse mettendo a fatica una gamba davanti all’altra e nel mentre si sfilò la felpa pesante, lasciando che i primi brividi andassero ad occupargli le braccia. Aprii la mano in attesa del preservativo, e lui me lo diede non senza uno sguardo di disappunto. Ma parlò solo quando gli sbottonai i pantaloni e aprii il quadrato di carta coi denti.
«Guarda che lo so mettere anche io,» disse allungando la mano per riprendersi il preservativo.
«Lo so, ma non vorrei che facessi il furbetto,»
«In che modo, sentiamo,»
«Magari facevi finta di mettertelo e poi invece lo rifilavi a me,»
Lui stette zitto per qualche secondo col fiato sospeso – e io avevo l’erezione lì sotto che non ce la faceva più -, poi si mosse e mi aiutò a tirargli giù pantaloni e boxer.
«Ti pare che vado ad architettare certi stratagemmi?» chiese tutto serio, segno che sì, ci aveva fatto un pensierino. Sorrisi tra me, poi scartai il preservativo, e lui guardò altrove mentre glielo infilavo con cautela, entrambi rossi in faccia per la posizione in cui eravamo. Non era ancora capitato che io me ne stessi steso e lui in piedi accanto a me, la sua nudità a pochi centimetri dalla mia faccia.
«Lo so mettere meglio io,» mi comunicò per poi scavalcarmi bellamente rischiando di darmi una ginocchiata nei gioielli di famiglia. Emisi un gemito di dolore.
«Ti ricordo che ho la febbre e che…» mi interruppi, le mani chiuse a coppa sul mio povero membro che non ne voleva sapere di rilassarsi.
«Che…?» mi incitò lui, sistematosi a cucchiaio dietro di me, il preservativo viscido che lasciava tracce sulla pelle, in una sensazione non del tutto piacevole, mai provata in vita. Forse ero davvero destinato ad essere io l’attivo.
«L-lascia stare»
«Guarda che non me ne sono dimenticato,» disse poi, un soffio dietro il mio orecchio, le mani che si posavano sulle mie a coppa e le allontanavano lentamente, non facendo altro che aumentare la mia frustrazione. Quindi prese a toccarmi lui, portandomi in breve tempo nuovamente a quel limite per il quale riuscivo a emettere suoni che andavano dai guaiti di cani feriti, al piagnucolìo dei bambini, al miagolare dei gatti.
«Va bene…» dissi quando sentii di esserci quasi.
«Va bene cosa?» fece lui divertito, contento di potermi stuzzicare come io facevo con lui.
«Va bene, puoi andare. Devi andare, non ho voglia di venire in questo modo,» risposi, ché lo sentivo già vicino alla mia entrata, che scivolava tra i glutei. Lo sentii soffiarmi nuovamente sul collo, poi poggiò la fronte alla mia schiena, si aggrappò con un braccio alle mie spalle e con l’altro si guidava, sperando che questa volta andasse meglio della prima.
Fu quasi un disastro, in realtà. Sentii più dolore di quanto m’ero aspettato – l’avevo detto che gli era cresciuto il pacco – e lui era stanco di spingere a metà dell’opera. Non riuscì a toccare la prostata, quindi tutto ciò che ricevetti fu dolore acuto, come se mi stessero strappando le membra. Ma venni comunque, ché era impossibile non venire con quella voce rotta che ti ansima nelle orecchie.
«Aspetta, aspe-» mi pregò dopo aver notato il mio orgasmo, ché lui doveva ancora arrivarci. Stanco contro la mia schiena, la bocca aperta che però non raccoglieva aria, si limitava a strusciare il membro dolorante sulla gamba. Stavo per allungare la mano per aiutarlo, ma venne da solo subito dopo, riprendendo finalmente a raccogliere aria nei polmoni, in respiri lunghi ma spezzati. Giurai di poter sentire da quella distanza il battito del suo cuore.
«…Non è andata troppo bene, vero?» fece lui dopo minuti di silenzio, la fronte sudata contro la mia schiena e le braccia avviluppate alla vita.
«A ripensarci, credo che mi piaccia più stare sopra,» ammisi, provocandogli una risata sollevata.
«Come ti senti?»
«Non sono del tutto in forma. Ma mi dispiace non mangiare il polpettone,»
«Pensi ancora al polpettone tu?!»
«Ho fame!»
Mi tirò un pugnetto sulla schiena, disse “Va bene, ho capito,” e rotolò giù dal letto preparandosi per una doccia calda. Mentre io pensai al fatto che, per quanta fame avessi, non ero ancora in grado di mettermi a sedere, figuriamoci di alzarmi in piedi.






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Argh, non sono in grado di descrivere rapporti sessuali inversi (?). Valerio è un passivone, non ce lo posso vedere così lol, ma era necessario un tentativo da parte sua. Spero sia stato comunque di vostro gradimento.
Le frasi in corsivo dette dallo zio sono in dialetto leccese (la mia terra <3): “Non si sa mai che un’estate arrivi con un bambino in braccio, e sei ancora ragazzino”. “Lo so che sei prudente e giudizioso, ma credi a me, usa questi e stai a posto, mh?”

Chiedo perdono per il ritardo, ma avevo un calo d’ispirazione. Non solo per Inerzia, ma per qualunque cosa. Ci sono periodi in cui scrivo a macchinetta, una shot ogni due giorni, drabble, olé, chi più ne ha più ne metta. E periodi in cui vorrei solo guardare la tv. Che noia, eh? Sì, lo so.
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo, sperando di aver fatto bene i calcoli.
Alla prossima :)






Mirokia

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Capitolo 27
*** Capitolo ventisettesimo [FINALE] ***


Cap. 27

 

 

 

 

 





Mi pettinai i capelli con una mano prima di entrare in ospedale, quasi stessi per conoscere il papa.  E fortunatamente, Valerio non s’accorse del mio gesto: già me lo vedevo a prendermi in giro con una mano schiacciata sulla bocca per evitare di ridere troppo rumorosamente. Salimmo al secondo piano, e io avevo già le gambe che mi tremavano: era ormai appurato il fatto che gli ospedali facessero uno strano effetto su di me. Non amavo l’atmosfera, le persone sedute in sala d’aspetto, la gente con la mascherina davanti alla bocca, le divise degli infermieri, l’odore nauseabondo nei corridoi, le macchinette del caffè. Nulla era di mio gradimento lì dentro. Valerio intercettò la mia espressione poco felice e mi lanciò uno sguardo da “Falla finita, non staremo tutto il giorno”, poi mi fece segno di seguirlo, ché un infermiere aveva appena spalancato una porta. La donna alla reception alzò il capo e salutò Valerio con un “Ciao, tesoro, sei sempre il primo, eh?”. Al che l’altro rispose con “Ormai sono qui più di voi”, e la donna non seppe se prenderla per un’offesa o meno.
«Uno alla volta, mi raccomando,» aggiunse quando ci vide andare spediti verso la stanza numero sette. Sentii Valerio sbuffare, poi si voltò verso di me e mi fece segno di andare per primo.
«No, no, vai tu,» gli dissi frettoloso, anche perché non sapevo esattamente cosa ci facevo in un ospedale. Non c’entravo niente, io. Valerio non fece storie e andò per primo, forse rendendosi conto lui stesso che non aveva molto senso farmi far visita a suo fratello in coma da anni. Quando entrò nella stanza ero lì per seguirlo e fregarmene della regola “Uno per volta”, ma la tizia alla reception aveva gli occhi puntati su di me, probabilmente chiedendosi da dove spuntassi e perché non mi avesse mai visto gironzolare con Valerio, e quindi non potei fare altro che sbirciare nella stanza mentre me ne stavo appoggiato al muro a braccia conserte. Tanto non vedevo un tubo, quindi era abbastanza inutile. Sapevo solo dire che Valerio era in piedi davanti a un letto e sembrava stesse parlando. Mi accostai maggiormente alla porta e mi sembrò di sentire qualcosa:
«Ti ho portato una persona. Te ne ho parlato la scorsa volta. E’ la mia persona speciale, sono sicuro che andrebbe a genio anche a te, è davvero in gamba». Poi si mise a bisbigliare per altri due minuti senza che potessi ricavarci granché e uscì con l’espressione più serena, avrei detto sollevata. Non riuscii a resisterle, e mi piegai per baciarlo sulla bocca socchiusa, nonostante avessi gli occhi della tizia ancora puntati addosso. Lui rimase spiazzato e non riuscì a spiccicare parola mentre mi lasciava passare.
Là dentro l’odore antipatico era ancora più forte: avevo quasi la tentazione di tapparmi il naso. Ma non fui in grado di muovermi di un centimetro quando intercettai la figura del fratello di Valerio distesa sul letto e circondata da macchine che emettevano suoni e luci intermittenti e da fili di diverso spessore. Non mi sentivo troppo bene: quell’immagine non faceva che portarmi alla memoria quella di mio padre, sofferente per i polmoni ridotti in briciole e per la gamba che non voleva funzionare. Forse era per  quel motivo che non ne volevo sapere di ospedali: perché non facevo che fare avanti e indietro da casa mia in ospedale sino a qualche anno prima.
Tuttavia, mi dissi che dovevo darmi un contegno e che non potevo continuare a vivere con il terrore dei funerali e il disgusto degli ospedali. Mi avvicinai rigido come un palo al letto avvolto dai fili e allungai gli occhi sul viso del ragazzo. Non potevo vedere molto, visto che aveva metà della faccia coperta da una mascherina. Ma da quello che potevo vedere, era differente in tutto e per tutto da Valerio, se non, forse, per il colore dei capelli, quel biondiccio vicino al castano. Aveva delle ciglia particolarmente folte, al contrario di Valerio, e i lineamenti squadrati come quelli del cattivo di un telefilm. Poi, a quanto mi aveva detto Valerio, aveva gli occhi scuri, tanto che facevi fatica a distinguere l’iride dalla pupilla. L’ultimo particolare che notai fu la cicatrice sulla fronte: in realtà erano tre piccole cicatrici che sembravano formare un triangolo, ed erano quei tipici puntini che rimangono sulla pelle dopo la varicella che hai fatto da bambino, soprattutto se in quel punto ti sei grattato insistentemente. Quel triangolo formato da tre piccole cicatrici mi ricordava qualcosa, o qualcuno, che si vergognava per lo stesso motivo: si vergognava di quelle cicatrici così evidenti, perché gli amici lo prendevano in giro…
Un’idea mi passò la testa veloce come un fulmine, mi dissi “Possibile?”, poi la mano andò ad accarezzargli la fronte, inconsciamente, senza darmi il tempo di chiedermi se potessi toccarlo o meno. Quel ragazzo lo conoscevo. Si chiamava Alessio, Alessio Castelli. Certo che lo conoscevo.
«Sarai sempre tu la persona speciale di Valerio. Ma in attesa del tuo risveglio, sarò io a prendermi cura di lui,» dissi ad alta voce mentre continuavo a passargli la mano sulla fronte, avvertendola particolarmente fresca rispetto alle mie dita. «Tuo fratello mi ha cambiato la vita. Vorrei che potessi vederlo, adesso. Vorrei che potessi vedere me e quello che sono diventato,» dissi ancora, senza un vero senso logico, le lacrime che inspiegabilmente pizzicavano agli angoli degli occhi. Ma prima che potessi permettermi di lasciar andare quelle lacrime, mi allontanai da Alessio e uscii velocemente dalla stanza socchiudendomi la porta alle spalle. A quel punto fu Valerio ad accogliermi con un bacio, come io avevo fatto con lui poco prima. La signora alla reception non ci salutò quando uscimmo abbracciati, io con la mano nei suoi capelli e lui col braccio stretto al mio fianco.
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Il mio ricordo risaliva al quarto anno di liceo, quando stava lentamente scemando la mia voglia di fare l’animatore in oratorio. Era ormai arrivata l’estate, e io quell’anno avevo evitato per un soffio il debito in matematica – era l’unica materia in cui non riuscivo a raccapezzarmi -, e solo per quello ero felice come una Pasqua. Ma la mia occupazione giornaliera in oratorio non faceva che buttarmi il morale a terra: i ragazzi con cui animavo non mi andavano affatto a genio – come se ci fosse davvero qualcosa che mi andasse a genio – e i bambini con cui avevo a che fare diventavano ogni anno più impertinenti e ingestibili, e mi facevano tornare a casa ogni giorno con l’emicrania e con la voglia di entrare in letargo estivo.
E quindi, il mio ricordo risaliva a uno di quei giorni lì. L’ennesima giornata passata a controllare contro voglia i ragazzini che scorazzavano per il cortile, con solo una brioche per merenda e un cappellino per ripararmi dal sole cocente.
«Scusami,» una voce femminile sembrò chiamare me, anche se poteva benissimo essere un miraggio, vista la mia visione distorta del mondo dovuta al picchiare del sole sulla mia testa. Mi voltai, e vidi una donna sulla soglia del cancelletto posteriore che, stranamente, era aperto. Maledii chiunque l’avesse lasciato aperto, visto che se l’avesse scoperto il Don, avrebbe dato la colpa a me, come sempre.
«Posso entrare?» chiese ancora la donna e io, braccia conserte e sguardo antipatico,
«Faccia pure,» dissi, ché tanto ormai era più dentro che fuori. La donna aveva lunghi e folti capelli ricci e biondi, e immaginai dovessero essere come una cappa sulla testa. Che diavolo aspettava a legarseli? Sarebbe morta di caldo, come minimo. Notai solo qualche secondo dopo che teneva per mano un bambino minuscolo che indossava un cappellino colorato e si guardava intorno quasi fosse nel paese delle meraviglie.
«Sono passata perché ho dimenticato di dare le chiavi di casa e un paio di altre cosette a mio figlio,» mi disse la signora quando mi fu abbastanza vicina.
«Chi è suo figlio?» le chiesi, e lei mi indicò con la mano libera uno dei due ragazzi che giocavano a pallone davanti al murales principale nel cortile.
«Alessio Castelli,» mi disse il nome del ragazzo, e io feci “Ah, certo”, riconoscendo in quel nome il mio animato più grande, quello che, probabilmente, l’anno dopo avrebbe iniziato il corso da animatore.
«Le dispiace tenerlo un secondo? Vado e torno».
E mi mollò il bambino che teneva per mano per poi camminare svelta verso il ragazzo biondiccio che giocava a pallone. Abbassai lo sguardo verso il piccolo, e quello mi guardò a sua volta da sotto il cappellino con la visiera.
«Er… la tua mamma arriva subito,» feci impacciato mentre stringevo la mano sudata del bimbo.
«Lo so!» esclamò quello, la voce minuscola quanto lui. «La mamma arriva sempre subito. Oggi mi ha raccontato una storia. Te la dico?» fece poi, mangiandosi tutte le parole, quasi ingozzandosi con la sua stessa saliva. Non mi capacitavo di come potesse saltare da un argomento all’altro con così facilità, ma risolsi tutto col fatto che era un bambino, per altro molto piccolo, e dai bambini molto piccoli non puoi aspettarti coerenza. In realtà puoi aspettartene ancora di meno dagli adulti.
«Certo. Dimmi tutto,» gli sorrisi, un po’ falso, e intanto cercavo con lo sguardo la madre.
«Mi ha raccontato che io ho un filo rosso legato al dito, però è invisibile, e è legato anche a un’altra persona nel mondo, e quando mi farò grande mi incontrerò con quella persona del filo, e questo si chiama destino!» disse tutto orgoglioso della sua storia e intanto muoveva l’indice della mano destra in aria, davanti alla luce del sole. Sorrisi divertito, sinceramente questa volta, gli dissi che era una storia molto carina, fantasiosa ma molto carina. Poi la madre del bambino tornò indietro tutta trafelata – probabilmente doveva essere piuttosto di fretta – e il marmocchio mi lasciò la mano per poterle andare incontro.
«Aspet-» dissi d’istinto quando mi sentii tirare in avanti nel momento in cui il bambino mi mollò la mano per allontanarsi: sembrava infatti che il suo piccolo orologio colorato si fosse impigliato al mio bracciale di stoffa rossa, uno di quelli che ogni animatore doveva avere al polso insieme alla maglia dello stesso colore. Un filo sottile collegava adesso quell’orologio e il mio bracciale, e in quel momento mi sembrò tanto ironico che mi venne da ridere, e il bambino si fermò a guardarmi ridacchiare e poi spostò lo sguardo confuso sui nostri polsi collegati, e gli si illuminarono gli occhi azzurri.
«Il filo rosso…!» esclamò tutto eccitato, e io mi avvicinai per slegarglielo dall’orologio, sorridendo per la reazione che sapevo sarebbe arrivata in quel modo.
«Perdonami il disturbo, buona giornata,» mi disse la donna quando ci ebbe raggiunto. Io scossi la testa come a dire che non aveva nulla di cui preoccuparsi e salutai con la mano da cui pendeva il filo rosso, mentre quella tentava di portare via il bambino, che non voleva schiodarsi dalla sua posizione. «Andiamo, Valerio,» lo incitò, e a quel punto il bambino la seguì senza mai distogliere lo sguardo dalla mia figura, a costo da farsi venire il torcicollo.
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Tenni per me quel ricordo, perché non sapevo quanto potesse essere veritiero. Per quanto potevo saperne, sarebbe potuta benissimo essere una mia convinzione condizionata dai racconti strambi di Valerio. O sarebbe potuto essere tutto vero a parte i nomi dei bambini: come facevo a ricordarmi che quella donna aveva fatto i nomi di Alessio e Valerio? Ma il pensiero che almeno un quarto di quel ricordo potesse essere vero, mi metteva addosso un inquietante senso di appartenenza a qualcosa, a qualcuno, sin dai miei diciassette anni. Un calore all’altezza del petto che mi teneva compagnia anche quando mi sentivo solo. Cosa che capitava raramente ormai, non solo per la presenza costante di Valerio anche quando non era fisicamente accanto a me, ma anche per quella di Giusy e Giulio, o di mia sorella, che da quando aveva scoperto il mio oscuro segreto, invece di scappare disgustata, aveva preso gusto a stare con me e mi proponeva di vederci e di uscire a fare shopping con un entusiasmo di cui mai avevo fatto esperienza. Soprattutto, era convinta che adesso mi fosse nata una passione smisurata per lo shopping. Gli stereotipi nella sua testa erano ben radicati. Non sapevo se Giulio e Giusy fossero più affezionati a me o a Valerio, ma non la finivano più di fare avanti e indietro da casa mia, anche in orari in cui sapevano benissimo di poter interrompere qualcosa. Ma stranamente non mi dava poi così fastidio. Prima di Valerio, ero di cattivo umore sin dalla mattina; ma da quando mi svegliavo e sentivo quel respiro profondo accanto a me, non riuscivo a non sorridere come un completo idiota.
In realtà sapevo che prima o poi sarebbe finita. “Il Per Sempre non esiste”, me l’ero sempre detto, e mai avrei cambiato idea, di certo non adesso che m’era capitato qualcosa di tanto bello quanto fragile, così incredibile che me lo vedevo sfuggire dalle mani in qualunque momento, negli incubi di notte o quando lo vedevo divertirsi con qualcun altro. Mi dicevo che quel sorriso che adesso rivolgeva a me, presto avrebbe illuminato qualcun altro, qualcuno di più giovane e disponibile, qualcuno che avesse la mano ferma, che fosse in grado di prendere decisioni e di badare a sé. Qualcuno di migliore. Ed erano tutti migliori di me, là fuori.
Anche lui era della stessa idea. Una sera eravamo a letto a coccolarci come ormai avevamo preso l’abitudine di fare ogni notte, e lui, dopo minuti di silenzio, se ne uscì con un “Cosa succederà quando ti stancherai di me?”
«Volevo farti la stessa domanda,» feci di rimando, non poi così sorpreso. La questione non era ancora saltata fuori, ma ce la si leggeva negli occhi quella paura di perderci a vicenda.
«Pensi che un giorno potrei stancarmi di te?» mi chiese serio serio, e io annuii per poi smettere d’istinto di carezzarlo sul braccio, quasi mi fossi realmente reso conto del pericolo che Valerio si potesse stufare di me. Lui non parlò dopo il mio cenno col capo, ma si limitò ad accoccolarsi ulteriormente contro il mio collo, quasi avesse bisogno di protezione perché aveva paura di quello che c’era fuori da quel letto.
«Non dicevi sul serio quella volta, vero?» chiesi dopo aver ripreso ad accarezzarlo, questa volta sulla nuca.
«Quando?»
«Quando hai detto che per te un “ti amo” equivale a una promessa di amore eterno. Tu non credi all’amore eterno,» dissi senza intonare la domanda, facendogli intendere che avevo ben capito il modo in cui ragionava, ormai. E lui era troppo maturo per credere in certe scempiaggini. Lui strisciò il capo nell’incavo del mio collo e rispose senza guardarmi.
«Le cose belle finiscono, e troppo in fretta,» mi avvolse maggiormente il braccio attorno al fianco e strinse un po’.  «Mi sono comportato in quel modo perché volevo ad ogni costo che il tuo affetto fosse sincero e che non mi abbandonassi alla prima occasione».
«Avevi paura di stare solo,» ne dedussi, e quello strusciò il naso contro la mia clavicola.
«No. Avevo paura che io e te non potessimo stare insieme,» mi corresse, e si mosse un po’, quasi fosse nervoso: quel tipo di conversazione non doveva piacergli particolarmente. «Però nel destino ci credo. Non so darmi una spiegazione, ma credo sin da piccolo che tutto ciò che facciamo e ci capita sia già scritto. Era destino che mia madre morisse, era destino che mio fratello finisse incosciente su un letto d’ospedale. Così come era destino che incontrassi te e che mi innamorassi davvero per la prima volta,» avvertii i suoi nervi rilassarsi, probabilmente perché era passato a un argomento di cui non gli dispiaceva parlare.
«Non hai paura che l’amore possa finire un giorno?» gli domandai allora, tornando come un razzo al discorso di prima. Lo sentii mentre si irrigidiva di nuovo e si scavava un posto comodo tra il mio collo e le mie spalle.
«Se partiamo entrambi col presupposto che niente dura per sempre, immagino che finirà,» ammise, una smorfia in volto.
«Non potresti essere tu a stancarti per primo?» optai, e lui respirò forte dal naso, quasi si stesse innervosendo. Si sollevò e mi lasciò un veloce bacio sul mento, poi si posizionò a pochi centimetri dalla mia bocca e mi guardò sollevandomi i ciuffi di capelli dalla fronte. Lessi in quegli occhi il terrore e allo stesso tempo l’ostinazione.
«Possiamo pensarci quando verrà il momento?»
Lo fissai negli occhi decisi ma tremolanti e la mia espressione si raddolcì come ogni volta che mi ritrovavo ad osservare la miriade di espressioni che il suo volto riusciva a modellare. Lo attirai dal collo e me lo portai sulle labbra, a finire quello che avevamo iniziato prima che ci perdessimo nelle carezze.
Quella notte mi dissi che la nostra storia sarebbe potuta finire. Come la maggior parte delle altre storie. Ma allo stesso tempo, mi dissi che nessuna storia mi aveva saputo rigenerare a quel modo, nessuno era riuscito a farmi sentire tanto vivo, tanto bello, nessuna esperienza mi aveva insegnato tanto quanto quei pochi mesi in compagnia di Valerio. Comunque sarebbe andata, io quel ragazzo l’avrei amato per sempre.

 

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Con oggi sono due anni che io e Valerio ci frequentiamo. Non abbiamo ancora smesso di amarci, il che per me è un record, e per lui, a quanto mi ha detto, è un miracolo. E’ davvero convinto che il destino abbia deciso di lasciarlo nelle mie mani e si sia dimenticato di portarselo via. Io gli ho detto che sono d’accordo con la decisione del destino e che lo terrei volentieri con me per ancora un po’ di tempo.
Da qualche mese s’è trovato un lavoretto: bada a un paio di bambini, uno dei quali è il figlio di un’amica di mia sorella. Ha avuto il permesso di portarlo fuori oggi, e quindi ora se lo tiene seduto sulle gambe e gli sta insegnando a fare un castello di carte, mentre mia sorella e Giusy giocano una partita a scala 40, come le vecchie paesane. Io ho giocato il primo round, poi mi sono stufato e ho lasciato fare a loro due, anche perché a malapena mi ricordo come si gioca. Mi sono dedicato alla contemplazione di Valerio e al modo in cui dà istruzioni al bambino per poter mettere una carta sopra l’altra tentando di mantenere l’equilibrio dell’intero castello. Penso all’ironia della situazione e a quanto possa benissimo essere una metafora della mia vita: Valerio sta rimettendo in piedi quel castello di carta che lui stesso ha distrutto. Lo sta ricostruendo a modo suo, e sta facendo in tutti i modi per tenerlo in piedi e per renderlo più bello e colorato che mai. Mi lancia uno sguardo quando si accorge di essere osservato, poi arrossisce e distoglie lo sguardo con in faccia quel suo solito sorriso imbarazzato. Quello che non ha ancora perso. E io, automaticamente, lo fisso ancora più intensamente, per metterlo in difficoltà e costringerlo a lasciare il bambino per venire a darmi un bacio. E i movimenti ci vengono ormai naturali, la sequenza è sempre la stessa, eppure mi pare ogni volta nuova, e ancora non riesce a stancarmi. Non so quanto ancora durerà, ma questa vita mi piace, e finalmente posso dire di poter vivere per qualcosa. Di poter vivere e basta. Ho svoltato e imboccato una nuova strada e ho scoperto che non è poi così male vivere per inerzia in questo modo.
Immagino che questa sia la mia nuova vita vissuta per inerzia.






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THE END.
Ce l’ho fatta *si bea degli applausi*
Vi confido che volevo farla finire male. Volevo farli mollare o volevo che Valerio tradisse Andrea con un giovinetto, tanto perché la vita non è rose e fiori e le storie finiscono. E gli esseri umani sono crudeli ed egoisti. La maggior parte delle volte ^^ Non sto facendo una lezione di vita, sto solo cercando di dirvi che volevo rendere la mia storia il più realistica possibile, e spero di esserci riuscita comunque con quell’argomento dell’amore eterno affrontato da Valerio e Andrea in questo capitolo. Sono entrambi coscienti che l’amore potrebbe finire, ma preferiscono pensarci quando accadrà e se accadrà davvero. Sarà un lieto fine vero e proprio? Chissà.

Grazie a coloro che mi hanno seguito in questo viaggio durato troppo tempo -.- E’ perché ho allungato i capitoli, credevo di terminare molto prima. Anyway, spero che sia stata una buona lettura per tutti. Un abbraccio!

 

 

 




Mirokia


 




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