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Vivere per
inerzia può essere una scocciatura quanto una benedizione.
Chi vive per inerzia non causa alcun tipo di problema, disturbo o contrattempo
a coloro con cui entra in contatto. E’ come se, invece di inciampare su un
difetto dell’asfalto e rovinare su un passante, inciampi e cadi giusto accanto
a lui: non gli causi alcun tipo di danno, ma intanto sei caduto e, anche se ti
sei fatto male, quasi non lo senti, perché sei abituato a vivere per inerzia. E
allora ti alzi, ti spolveri, e vai avanti, ed è come se non fosse successo
nulla.
Poi arriva il momento in cui semplicemente non puoi più far finta di nulla.
Proprio non ci riesci. E il tuo mondo costruito per inerzia sembra crollare
come un castello di carte.
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Il mio castello di carte iniziò a crollare un pomeriggio particolarmente uggioso
di fine settembre. L’estate non era finita da molto, ma già s’era portata via
il bel tempo, e con lui il mio matrimonio. Avrei considerato quella come
l’estate peggiore della mia vita, se non avessi saputo sin dal principio che io
e April ci saremmo lasciati. Almeno poteva avere il
buon gusto di farla finita in aprile, così mi sarei anche fatto una bella
risata. Pensai che prenderla in quel modo non mi aiutava a spazzare via i
pensieri negativi dalla testa, e ritenni che la cosa migliore da fare fosse usare
al meglio la mia memoria selettiva ed iniziare ad eliminare i ricordi superflui.
Così va meglio, mi dissi, senza nemmeno sentire l’eco della mia voce.
Sospirai. In effetti era stato un bene quel nostro litigio definitivo: sua
madre m’aveva preso ormai in antipatia, i suoi irritanti parenti –non se ne
salvava uno- mi mettevano in soggezione, e le amiche con cui talvolta usciva
sapevano solo darmi sui nervi.
“Bene, almeno adesso non sarò costretto a dividere il conto in banca con
nessuno”, continuavo a ripetermi, tanto per alleviare la solitudine che già si
faceva sentire. Ero tornato in città dalla mia ultima vacanza al mare dalla
famiglia di lei, «Torna a vivere da solo. Io resterò qui ancora per un po’,» mi
aveva detto appena prima che partissimo. Io avevo alzato le mani come in segno
di resa, abbassato gli occhi al pavimento e messo su un mezzo sorriso.
«Aspettavo solo che me lo dicessi,» avevo replicato facendo un passo indietro,
perché chi vive per inerzia non ha la possibilità di avanzare proposte di
spontanea volontà.
«Tornerà strisciando da me,» mi ero detto mentre guidavo in autostrada con le
movenze di un robot, gli occhi fissi come quelli d’una bambola. Ma non lo fece.
Non tornò da me, e iniziai a credere di essere stato io l’incapace per tutto
quel tempo. Non sapevo neanche tenermi una donna e prevalere su di lei. A
trentacinque anni suonati.
Scossi la testa mentre percorrevo la strada verso il mio condominio con una
busta di pane appena comprato appesa al braccio e una sigaretta ancora spenta
in mano. Avevo ormai smesso di fumare, o almeno credevo di averlo fatto, ma mi
concedevo uno strappo alla regola quando mi sentivo particolarmente frustrato,
anche perché, in teoria, chi vive per inerzia non ha regole, vive come gli
viene, e quindi non avevo costrizioni morali di alcun tipo, e una sigaretta me
la concedevo più volte senza sensi di colpa.
Mi fermai davanti ai binari del tram perché vidi che stava per ripartire e che
il semaforo era rosso. La signora grassa accanto a me mi fissava e non sapevo
darmi un perché, ma non ci feci caso più di tanto.
Ne approfittai per accendermi la sigaretta, col pensiero che, magari, una
brusca svolta nella mia vita non mi avrebbe fatto poi così male. Giusto per
frenare o accelerare, e quindi piantarla di andare sempre alla stessa andatura.
Dopo aver sbuffato scontento una nuvola di fumo, mi sentii spingere brutalmente
di lato e intercettai un’ombra passare come un fulmine nello spazio che s’era
creato tra me e la signora grassa. Quando riallacciai lo sguardo alla figura,
la vidi correre sui binari e oltrepassarli di tutta fretta: era una ragazzina
con un cappellino da baseball da cui fuoriuscivano lunghi capelli neri. Di
tanto in tanto si guardava indietro, gli occhi lucidi e le guance bagnate. Dava
la sensazione di essere inseguita da qualcuno. Per assicurarmene, voltai il
capo alle mie spalle e in effetti vidi qualcun altro correre e spintonare e
urlare come un ossesso.
«Laura! Laura, fermati, per favore!» sbraitava. Ma non si vergognava, con tutta
quella gente intorno? In ogni caso, la sua corsa sarebbe terminata lì, visto
che il tram era già partito e stava prendendo velocità.
«Ma cosa…?» mi chiesi ad alta voce dopo aver notato
che il pazzo non aveva intenzione di fermarsi, anzi, teneva gli occhi incollati
alla figura che si allontanava dall’altra parte dei binari. Era forse fuori di
testa? Voleva morire? Il tram gli era quasi addosso, ormai. Se quel tipo fosse
passato in quel momento, l’avrebbe preso in pieno. Doveva frenare o accelerare,
tutto tranne che procedere alla stessa andatura.
Lasciai che la sigaretta rotolasse a terra quando mi allungai e afferrai
saldamente il ragazzo dal gomito per poi tirarlo violentemente verso di me,
evitandogli una morte certa. A causa dell’inerzia e dello sforzo appena
compiuto, barcollai e mi sbilanciai cadendo all’indietro, col ragazzino che mi
seguì a ruota finendomi pesantemente in grembo. Un suono soffocato m’abbandonò
la gola e le sopracciglia iniziarono ad aggrottarsi, segno che ero lì lì per incazzarmi.
Gridolini concitati e preoccupati si propagarono nell’aria e la gente lì
intorno accorse a chiedere al malcapitato numero due se si fosse fatto male.
Nessuno faceva caso a me, il malcapitato numero uno. Mi scostai a fatica dal
corpo di quel ragazzo, che ancora non aveva mosso un muscolo, quasi fosse sotto
shock.
«Sei idiota o cosa? Che ti salta in mente?» chiesi con un diavolo per capello,
riferendomi al suicidio che stava per compiere, pur inconsciamente. Ma quello
sembrava non ascoltarmi. Continuava a tastarsi la canottiera bianca e la
faccia, partendo dalle orecchie e finendo sul naso.
«Sono…vivo?» mormorò a se stesso, incredulo.
«Per poco, ragazzo, per poco! E tutto grazie a questo signore coraggioso,»
disse la vecchia grassa di prima che si stagliava in piedi accanto a me. Cos’è,
non esistevano più le vecchiette che utilizzavano il termine “giovanotto”? Mi
sentivo più vecchio di quanto già non fossi. Il ragazzo –che, notai, aveva i
capelli chiari e pettinati all’insù-, ancora a terra, spostò lo sguardo accanto
a me e, seguendolo, m’accorsi della mia busta del pane, ormai rovesciato a
terra. Una pagnotta era anche rotolata per strada.
«Anche quella era del signore,» disse la vecchia riferendosi alla busta. Ma non
riusciva a farsi gli affaracci suoi? Il biondo, o
castano, o quello che era, svettò in piedi quasi dimentico della caduta, e mi stupì
che la testa non gli girasse come una trottola.
«Lei…Lei mi ha salvato da morte certa,» disse
commosso dopo che anche io fui in piedi. Mi prese le mani con un gesto fulmineo
e le portò all’altezza del petto, gli occhi stranamente brillanti. Io lo
guardai come si guarda uno poco sano di mente e ritirai le mani all’istante, ma
quello, caparbio, me le riprese fra le sue.
«Se non ci fosse stato lei, io adesso sarei…» continuò,
quasi con l’affanno, e lo sguardo gli cadde sulla mia povera pagnotta
maciullata dalle ruote di un furgone. «…come posso
sdebitarmi?»
La frase fatta che m’ha tormentato arrivando a provocarmi istinti omicidi e
suicidi. Tentai di rimanere calmo, nonostante sentissi un sopracciglio pulsare
dal nervoso.
«Non devi,» risposi ritirando nuovamente le mani.
«Invece sì! Lei mi ha salvato la vita!» gli luccicavano seriamente gli occhi.
Sembrava essersi pure dimenticato della tizia che stava inseguendo con tanta foga.
Ero tentato di ricordarglielo.
«No, guarda, io adesso andrò a comprarmi dell’altro pane e tu farai finta
chenon sia successo niente, ok?» cercai
di tranquillizzarlo, ché mi sembrava troppo entusiasta.
«Ci sono! Inizierò con comprarle del pane. Andiamo,» asserì, completamente
ripreso dallo shock quasi-morte e prese a trascinarmi
da un braccio, quasi fossi il suo cane.
«Ma che stai dicendo? Non scherziamo. Tu ora vai a casa dalla mamma e io me ne
andrò per conto mio, chiaro?» feci nervoso e già pentito di averlo tirato via
da quei binari.
«Ehi, quanti anni pensa che abbia?» mi chiese lui di rimando. In effetti avevo
dato per scontato che fosse un ragazzino, ma non avevo un’idea precisa della
sua età. Gli guardai per qualche istante il viso ovale, i capelli chiari
scompigliati e gli occhi anch’essi chiari, di un azzurro accecante, e grandi.
Intercettai il nasino da signorina, la bocca screpolata e le guance che al sole
sembravano lucide. Non era un gigante, mi arrivava sì e no alle spalle.
Inoltre, con quell’espressione imbronciata e le braccia incrociate sembrava
proprio un bambino.
«Non saprei… quindici, sedici?» optai, ma ricevetti
un’occhiata di disappunto da parte sua.
«Ne ho venti!» esclamò. Lo fissai ancora per qualche secondo, poi la mia
sentenza.
«Poco importa. Sei sempre un ragazzino,» e ripresi a camminare verso la
panetteria.
«Ehi, mi aspetti! Le ho detto che comprerò quel pane ed è quello che farò.»
insistette quello tornandomi velocemente alle calcagna.
«Sei cocciuto,» constatai sbuffando. Lui annuì più volte, quasi soddisfatto
della sua cocciutaggine, poi mi guardò di sottecchi in silenzio, i suoi passi
che s’udivano più dei miei.
«Lei… come si chiama?» chiese dopo un po’.
«Andrea,» risposi piatto. «E tu, moccioso?» aggiunsi marcando l’ultima parola.
«Valerio. E non sono un moccioso».
Lo guardai sorridendo beffardo.
«Già il fatto che lo puntualizzi indica il contrario».
Con questa frase lo zittii per un po’, e provai l’infantile sensazione
d’orgoglio che si fa spazio in me ogni qualvolta riesco in qualche modo a
spiazzare i miei interlocutori.
Finalmente arrivammo in panetteria, e quel Valerio mi ordinò di aspettare fuori
mentre apriva la porta e la faceva tintinnare. Così pensai di accendermi
un’altra sigaretta sperando che non andasse nuovamente sprecata. Pensai
velocemente a cos’altro avrei dovuto fare una volta tornato a casa, ma non mi
venne in mente nulla, e mi dissi che andare sempre alla stessa andatura poteva
essere tanto rilassante quanto angosciante. Mi misi due dita sulla radice del naso
quasi per evitare che mi si aggrottassero ulteriormente le sopracciglia e mi
costrinsi a mettere il cervello un po’ in standby.
Dopo cinque minuti, il biondo ricomparve con la busta piena di pane appena
sfornato.
«Ecco qui,» fece sorridendo e porgendomi la busta. Curioso, diedi un’occhiata
al suo interno e feci una faccia contrariata.
«Baguette? Ciabatte? Io mangio solo rosette,» puntualizzai, e il tizio abbassò
la fronte per la vergogna. Ovviamente non era vero, qualsiasi tipo di pane per
me andava bene, ma mi divertiva prenderlo in giro. Aveva una faccia che ti
faceva voglia di dirgliene di tutti i colori.
«M-mi dispiace, però…non ho
più soldi per…»
«Ah, incapace. Non sei nemmeno in grado di restituire un favore,» dissi interrompendolo
bruscamente, poi girai i tacchi e mi allontanai, sicuro che non mi avrebbe
seguito. Ma mi sbagliavo. Quel tipo era più insistente di quanto pensassi.
«Aspetti! Non vuole che faccia qualcos’altro?» chiese mentre mi raggiungeva a
grandi falcate.
«E che cosa? Sei un buono a nulla».
Quello, alla mia frase, rimise il broncio.
«Non le permetto di trattarmi in questo modo. Chi si crede di essere?» fece,
adesso quasi nervoso.
«Un uomo di quindici anni più grande di te,» gli risposi, poi imboccai la via
di casa mia.
«Pensa che l’età c’entri qualcosa? Prenda Lesbia e Catullo, per esempio. Lei
aveva dieci anni in più di lui, eppure si rispettavano».
A quel commento, scoppiai a ridere di cuore, quasi mi tenevo la pancia. Ma che
passava per la mente ai giovani d’oggi? Ero convinto fossero interessati alle
moto, alle pasticche e al sesso, non alla letteratura latina.
«A parte che Lesbia era definita “Amica omnium”, l’amica di tutti, quindi
dubito avesse molto rispetto per il povero Catullo, ma poi…com’è
che te ne esci con questi commenti?» chiesi, ora un po’ curioso, visto che,
dopotutto, si stava trattando del tema della mia vita.
«Sono appassionato di letteratura. E a ottobre inizierò con l’università,»
rispose, e le sue parole mi stupirono: non aveva proprio la faccia di un
letterato. Ma poi, a me cosa interessava se prendeva facoltà di lettere o di
ingegneria o di veterinaria? Senza replicare, continuai per la mia strada, fino
ad arrivare al cancelletto del condominio in cui abito. D’istinto, allungai il dito
sul citofono, lì dov’era recata la scritta “Martins –
Ruggeri”, poi scossi velocemente la testa e mi diedi uno schiaffo in fronte.
Ormai vivevo solo, e avevo ancora l’abitudine di suonare al citofono, quasi aspettandomi
che qualcuno mi facesse la cortesia di aprirmi e magari di salutarmi con un
bacio e magari di chiedermi della giornata e magari di farmi sedere a tavola e
mangiare e magari di mettermi su una coperta nel caso mi fossi addormentato sul
divano. Giustamente.
Frugai scocciato nella tasca della giacca scialba che indossavo sempre più
spesso e aprii il cancello con le chiavi per poi entrare nell’androne lucido.
«Bene, mi ha fatto piacere conoscerti, arrivederci,» salutai, nel modo più
cordiale possibile. Ma quello tenne caparbiamente aperto il cancello nero con
il piede.
«Sicuro che non vuole che le faccia qualche altro favore?»
«Sicurissimo. Ora torna a casa, per favore,» risposi quasi implorante, i nervi
già a mille.
«Ma davvero? Lei mi ha salvato la vita, e…»
Il mio sguardo assassino lo fulminò.
«Sì, ripensandoci puoi farmelo, un favore: levati dai piedi e lasciami in
pace,» dissi ormai quasi urlando, e ritenni di essere piuttosto spaventoso. Con
un movimento brusco, riuscii a chiudere quel dannato cancello, poi voltai le
spalle a quel tipo che adesso s’era appeso alle sbarre, e feci girare le chiavi
anche nel portone interno, per poi salire le scale quasi di fretta e chiudermi
in casa. Notai che le orecchie mi fischiavano mentre mi lasciavo andare su uno
dei due divani in pelle blu. Detestavo le seccature, le detestavo con tutta
l’anima, e quel giorno me n’era capitata una bella grossa. Ma adesso potevo
dire di essere in grado di tranquillizzarmi: bastava un bicchiere di tè verde,
una sigaretta e magari un bel film. No, la sigaretta no, avevo smesso di
fumare. O almeno, così credevo.
«Pessima giornata,» mi dissi sospirando, come ormai facevo ogni volta che
tornavo a casa, che fosse mattina, pomeriggio o notte inoltrata.
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La scrissi su un quaderno, questa storia,
e solo adesso mi sono decisa a copiarla sul computer. Però se voglio continuare
a copiare, ho bisogno che qualcuno mi dica se è accettabile o se fa schifo ai
cani XD Grazie, se lo farete :)
La stessa sera di un’altra pessima
giornata, una mia ex compagna del liceo, Sara, si fece sentire attraverso un
sms e mi invitò a bere qualcosa a casa sua. Proprio quando stavo per rispondere
che avevo un altro impegno in realtà inesistente, il telefono era squillato
facendomi saltare dallo spavento.
«Ci saranno anche Valentina, Guido e Francesco,» mi aveva detto con la sua
vocina squillante e ovviamente fastidiosa. Sembrava non esistere qualcosa che
non mi desse fastidio. Pensai che alla fin fine mi andava di bere qualcosa con
gli amici dopo tutta l’estate che non ci vedevamo. Le dissi che sì, andava
benissimo, per le otto e mezza sarei stato da lei, e certo che avevo già
mangiato, non c’era bisogno che mettesse su dei toast, e poi a me i suoi toast
avevano sempre fatto schifo. Chiusi la chiamata, lanciai il cellulare sul divano
e andai a mettermi su qualcosa di decente, ma appena prima che riuscissi a
infilarmi le scarpe, trillò il campanello. Quel suono tintinnante che
m’infastidiva. Convinto che fosse la vicina che voleva in prestito dell’altro
prezzemolo, andai ad aprire scocciato. Ma quando spalancai la porta, sulla
soglia non c’era alcuna vicina. Al suo posto però, lì sul tappeto, troneggiava
un inquietante scatolone. Allargai la visuale e in effetti la mia vicina c’era,
lì in piedi davanti alla sua porta.
«E’ suo?» chiesi indicando la scatola.
«No, dev’essere suo. L’ha
lasciato uno strano ragazzo poco fa,» rispose lei mentre si mangiucchiava
l’unghia del pollice. Un ragazzo? Ebbi un terribile presentimento. Mi decisi ad
aprire la scatola lì sul posto e, quando diedi una sbirciatina all’interno,
aggrottai le sopracciglia in maniera spaventosa: decine e decine di rosette
riempivano ogni spazio libero.
«Del pane? Quel bel ragazzo le ha regalato…
del pane?» fece la signora ridacchiando tra sé.
«Com’era fatto?» chiesi senza perdere tempo, e forse ansimando leggermente.
«Il ragazzo? Mmh… quando si
è girato ho visto che aveva i capelli all’insù».
«Sì, ma il colore dei capelli?» feci ancora, e il mio affanno non prometteva
nulla di buono.
«Erano chiari, se non sbaglio. Ma non molto. Poi era piuttosto basso, più di
lei, ma meno di me,» prese a stropicciarsi il grembiule. «Molto, molto bello,»
aggiunse. Le sue fantasiose descrizioni mi stavano solo confondendo le idee,
dannazione. Ma tanto avevo già capito, potevo anche evitare di portarla per le
lunghe.
«Ah,» mugugnai senza aggiungere altro, poi tornai dentro per finire di mettermi
le scarpe. Avrei portato il pane in cucina più tardi.
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Cercando di ignorare l’episodio del pane, quella sera mi presentai a casa di
Sara con un sorriso sulle labbra, dovuto più al nervoso che ad altro. Al
ritrovo, oltre a quelli elencati poco prima dalla padrona di casa, era presente
anche Gaia, e fui tanto sorpreso di vederla quanto disperato. Ah, pessima
giornata.
Il nostro ultimo incontro risaliva al matrimonio con April, quindi due anni prima. Da quel momento, s’era
volatilizzata. E adesso se ne stava seduta lì sul divano color panna con le
gambe accavallate, come niente fosse, come se il tempo non fosse passato
affatto. Eppure la trovai cambiata parecchio, ma forse erano solo i suoi
capelli biondi ad essere particolarmente diversi: in testa erano ricci come al
solito, ma sulle spalle le scendevano due grossi boccoli decorati da nastri
rosa, come le acconciature di una volta. Terribili, orribili.
Parlando del più e del meno più avanti, venni a sapere che faceva la
parrucchiera adesso.
«Ah, ecco perché i capelli…»
commentai accennando ai boccoli con un dito.
«Esatto. Ti piacciono così?» chiese lei accarezzandoseli.
“Certo che no, sono ridicoli,” naturalmente non dissi così, ma mi limitai ad
annuire sorridente. Dopo aver finito di bere il suo caffè, Gaia mi scrutò coi
suoi occhietti verdi poco casti. Esattamente come li ricordavo. Quelli no, non
erano cambiati affatto.
«E così…hai divorziato da
tua moglie?»
Io la guardai male.
«Cosa te lo fa pensare?»
Ma fu Francesco a rispondere alla mia domanda.
«In primo luogo, non hai la fede, ma il segno dell’abbronzatura sul tuo dito
indica che te la sei tolta da poco, ovvero alla fine dell’estate. E poi…» lanciò un’occhiata a Sara,
che non faceva nulla per fargli tenere la bocca chiusa. «Sara e April si conoscono e le notizie
corrono in fretta,» concluse con un sorriso soddisfatto, e Sara rotolò gli
occhi all’indietro mentre prendeva un sorso dalla sua tazza. A causa
dell’imbarazzo per essere stato messo nuovamente in soggezione –è qualcosa che
non riesco a digerire-, affogai la faccia nel limoncello.
«Tu e le tue manie da investigatore. Un giorno ti ucciderò e ti farò
investigare sulla tua stessa morte,» replicai scocciato.
«L’importante è che tu ti sia lasciato,» riprese Gaia, ora più silenziosa, e si
permise di posare una mano sulla mia gamba. No, eh. No. Non è che aveva
intenzione di riprendere a tampinarmi come due anni prima? Certo, ci mancava
solo questa.
“Fammi riprendere, almeno,” stavo per dirle, ma Guido mi salvò dalla situazione
con un’altra delle sue battute superficiali.
«Ehi, Andrè! Hai messo su qualche chiletto
quest’estate?» fece gonfiando la faccia rubiconda.
«Eh sì, mi hai beccato,» ammisi con una mano dietro la nuca. Si misero a
ridere, tutti a parte Gaia che continuava a fissarmi tra le ciglia piene di
mascara. Ti prego, no.
---
Per quella sera evitai qualsiasi altro contatto con Gaia, ed ero straconvinto
di aver fatto più che bene. “Non la voglio un’altra storia. Non ancora. Non con
lei!” continuavo a ripetermi, la sigaretta che mi pendeva dal labbro mentre
pensavo al fatto che avevo smesso di fumare. O almeno, credevo di averlo fatto.
Tanto alla fine, se vivi per inerzia, non hai mai certezze, ti piace stare nel
forse. Spensi la sigaretta appena accesa strofinandola piano sul portacenere
pulito, poi feci un suono con le labbra chiuse, indugiai con gli occhi sulla
televisione sintonizzata su un canale di televendite, poi presi nuovamente
l’accendino e mi riaccesi il mozzicone, tirando un po’, fanculizzando un po’ tutto, il mondo in generale. E
volli davvero dormire sul divano col sedere che per poco non scivolava giù e il
collo abbandonato sulla testiera, ma pensai che mi si sarebbe solo deformata la
schiena in maniera orribile. Spensi la sigaretta che era a metà e poi la
televisione, e mi trascinai in camera da letto. Mi chiesi cosa avrebbero
pensato i miei studenti se avessero mai assistito alla mia routine.
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La mattina seguente mi alzai all’ora di pranzo e piagnucolai quando, appena
prima di poter aprire del tutto gli occhi, suonò il campanello. Andai ad aprire
ciabattando e con i capelli che andavano per conto loro, e ciò che trovai sulla
soglia mi destò all’istante, quasi avessi preso la scossa: un altro pacco di
rosette.
«Ma chi è quello lì, che mi moltiplica i pani? Gesù Cristo?» dissi ad alta
voce, sconsolato. “I giovani d’oggi. Sono strambi e insopportabili,” pensai
addentando rabbiosamente una pagnotta. “Quindi stamane pane e marmellata,” mi dissi
accigliato.
Ma non bastò quella mattina, no. Il pomeriggio del giorno dopo trovai un altro
sacchetto con delle altre rosette fresche di forno.
«No, mi sono stufato. Adesso esco e lo cerco per tutto il quartiere finché non
lo trovo. Poi gliene dirò quattro,» decisi a quel punto, arrabbiato e stufo di
quei regali indesiderati. Lasciai perdere quello che stavo facendo –lavare il
bagno- e uscii senza davvero sapere da che parte dirigermi. Una volta fuori,
pensai che probabilmente il panificio poteva essere il punto di partenza. Dio,
detestavo profondamente le seccature. E quella era una seccatura bella e buona.
Cosa ci fa uno che vive per inerzia con le seccature?
Entrai nel negozio con un cipiglio nervoso, poi alzai lo sguardo e intercettai
quello del simpatico panettiere con due grossi baffi biondi. Misi le mani in
tasca e gli chiesi informazioni.
«Per caso si è accorto di un certo idiota che ultimamente compra grosse
quantità di pane? In particolare rosette,» feci, sicuro di far centro. Infatti,
l’uomo annuì convinto e si grattò il mento coperto da una corta barba.
«Eccome se me ne sono accorto! Pensavo facesse opere di carità,» rispose
ridendo. Scossi la testa sospirando.
«Purtroppo no. Quello è un degenerato. Anche oggi è venuto, vero?» aspettai che
il panettiere mi desse un cenno di assenso. «Sai mica dove abita, o da che
parte se n’è andato?»
«Mi sembra che abbia detto di dover prendere il pullman qui fuori. Ma ne sono
passati già due, quindi suo figlio dev’essersene
andato, ormai».
Benissimo, adesso venivo anche scambiato per il padre di un ventenne. Ma
sembravo davvero di età così avanzata? Probabilmente era la mia espressione
costantemente accigliata a tradirmi. Dalla costatazione dell’uomo, comunque,
conclusi che la mia ricerca fosse già finita. Ringraziai e poi uscii per andare
a controllare dov’è che conduceva la linea 72: vidi che il capolinea era
addirittura fuori città. Quel moccioso poteva essere andato a vagabondare da
qualunque parte. Sbuffando rumorosamente, girai i tacchi, e stavo facendo volentieri
marcia indietro quando individuai dei movimenti dietro al cancello di un
condominio. Inizialmente pensai ad una coppietta intenta a baciarsi ma, con
un’analisi più attenta, mi accorsi che uno dei due alzava i grossi pugni in
aria, a mo di minaccia. Ah, odiavo le zuffe. Come tante altre cose. Con le mani
in tasca, spostai velocemente lo sguardo a destra e a sinistra e intercettai un
vecchio che si accingeva a sedersi alla fermata del pullman. Mi feci vicino e
gli presi delicatamente un gomito; a quel gesto, il vecchio si voltò con gli
occhi ridotti a fessure e il bastone già alzato per darmelo in testa. Sorrisi:
era una persona sveglia.
«Non intendo derubarla, deve aiutarmi. Stia al gioco e dia delle risposte
intelligenti e convincenti,» gli bisbigliai, e indicai velocemente con lo
sguardo le due figure in ombra dietro il cancello. «Ehi, Gianni. Come mai c’è
un’auto della polizia?» chiesi a voce alta, col mio scarso talento in fatto di
recitazione.
«Quale auto…?» fece il
vecchio un attimo spaesato.
«Stia al gioco, ho detto,» gli ripetei a denti stretti. Lui finalmente capì e
mi rispose sapientemente:
«Beh, sembra che stiano cercando un ladruncolo di appartamenti».
«Ah, ecco il perché di tutte le pattuglie che ho visto in zona!» esclamai dando
il colpo di grazia. Vidi il tizio che aveva i pugni in aria fermarsi ad
ascoltarci, guardarsi intorno, dare un’ultima spintonata alla sua vittima e poi
uscire furtivamente di scena.
«Complimenti, lei sì che sa improvvisare,» mi congratulai col vecchio, che si
sollevò leggermente il cappello per ringraziare, poi andai a vedere come stava
lo sfortunato o sfortunata che il mostro tutto muscoli stava importunando.
«Tutto bene?» chiesi e, quando quello alzò la testa guardandomi mortificato, lo
puntai con un dito. «Aha! Ti
ho trovato, biondino da strapazzo!»
Sì, era quel Valerio il ragazzino che ora mi fissava con tanti di occhi. Sotto
shock per la seconda volta?
«Adesso io e te dobbiamo fare un bel discorso, perché…» iniziai, ma quello mi interruppe
afferrandomi velocemente le mani.
«Mi ha salvato di nuovo!» esclamò e, davvero, mi venne voglia di sparire dalla
faccia della Terra. O di seppellirmi vivo. O di strozzarmi con una rosetta.
«No, non è così. Avessi saputo che eri tu, non l’avrei mai fatto,» dovevo
essere il più duro possibile se volevo scollarmelo di dosso. Strattonai via le
mani e me le misi in tasca in modo che non le potesse più prendere.
«Beh, resta il fatto che mi ha salvato. Le sarò debitore per sempre!» e, con
uno slancio di non so che cosa, si buttò su di me e mi abbracciò.
«Ma…sei fuori di testa?!»
urlai divincolandomi. Quello sogghignò e mi lasciò andare, permettendomi di
sistemare le pieghe sulla camicia.
«Questa volta mi avrebbe ucciso davvero, me lo sento,» disse poi, con tono
abbattuto.
«Questa volta? Perché, ce ne sono state altre?» chiesi, e quello annuì mesto.
Stette un po’ zitto e si guardò intorno come se temesse di vedersi arrivare un
pugno in faccia da un momento all’altro. «Perché ce l’ha con te, quel
bestione?» mi venne spontaneo chiedere. E com’è che adesso mi interessavo dei
problemi dei ragazzini rompiscatole? «Non che mi importi,» aggiunsi infatti.
«Se a te sembra un bestione, pensa a me!» esclamò lui, poi s’accorse di aver
detto qualcosa che non andava e si coprì la bocca con entrambe le mani. Io
capii subito, allargai le labbra in un sorriso sghembo e gli feci un cenno per
indurlo a seguirmi. Non avevo voglia di stare fermo lì tutto il giorno.
«Va bene se mi dai del tu. Magari riesci a farmi ringiovanire di qualche anno,»
dissi, e il biondo sembrò essere felice del permesso appena ricevuto. Mentre mi
camminava accanto, si mise a raccontare qualcosa.
«Quel tipaccio che hai visto si chiama Damiano,» fece una pausa per schiarire
la voce, il che mi diede il tempo di intervenire.
«Questo chiarisce l’intera faccenda,» feci ironico.
«Eh, se non mi lasci continuare…!»
cercava di controllarsi, ma era già nervoso, e quasi mi sembrava di vedere il
me stesso di qualche anno prima.
«Come se ti stessi ascoltando. Va beh, vai avanti,» dissi con un gesto della
mano. Lui mi guardò male, per poi proseguire con cautela.
«Hai presente quella ragazza che stavo inseguendo la settimana scorsa?»
«Ah, sì. La pazza». Ricordai i capelli neri e lisci come spaghetti che
spuntavano dal cappellino con la visiera, la giacca di jeans sbiadita e i suoi
occhi lucidi.
«Non puoi biasimarla. E’ cieca».
Ah.
A quelle parole, mi sentii un attimo in colpa e feci una smorfia dispiaciuta
con la bocca.
«Mi spiace…»
«E’ così dalla nascita,» mi informò lui.
«E perché correva così?»
E io perché facevo l’impiccione con tutte quelle domande? Non avrei voluto
diventare io stesso una seccatura!
«E’ questo il punto. Devi sapere che io e lei siamo grandi amici, sin dalle
elementari. Ma, giusto l’altro giorno, mi ha confessato qualcosa che io non
sono ancora capace di gestire, non con lei».
Lo interruppi per provare a indovinare. Era talmente banale da poter essere
benissimo presunto anche da un bambino.
«Ha confessato di amarti».
Lui mi guardò stupito.
«Sì. Come lo sai?»
Io alzai le spalle senza rispondere, e quello sembrò rivolgermi uno sguardo
quasi ammirato.
«E immagini anche perché piangeva?» chiese poi, e mi mise un attimo in
difficoltà.
«Er…»
«L’ho rifiutata. Perché non l’ho mai vista come più di un’amica. Tipico, no?»
spiegò. Decisi di fargli tagliar corto, perché già mi stava sembrando una
storia troppo da film.
«E cosa c’entra il ciccione?» chiesi, e lo feci ridacchiare di gusto.
«Beh, il ciccione è il fratello maggiore di Laura, la ragazza cieca in
questione. Ogni volta che ferisco sua sorella, anche involontariamente o
indirettamente, quello mi viene a cercare e mi minaccia. E oggi mi stava per
picchiare per aver rifiutato Laura,» concluse con un respiro profondo.
Camminando camminando,
eravamo arrivati quasi a casa mia senza neanche accorgercene e stava scendendo
la sera. L’arancione e il viola del cielo si mischiavano in un colore
indistinguibile.
«Hai già chiesto scusa a questa tua amica?» domandai alla fine.
«Lo farei se lei non fuggisse e se non ci fosse sempre Damiano nei paraggi…» abbassò la testa per la
vergogna.
«Siamo un tantino vigliacchi, eh?» lo schernii un po’, e lui mi lanciò uno
sguardo arrabbiato per l’ennesima volta. «Beh, sono quasi a casa. Bella storia,
comunque. Ti saluto,» mi congedai poi, brusco, e mi diressi verso il cancello
nero.
«Ehi, un attimo! Devo ancora sdebitarmi per tutte le volte che mi hai salvato
la pelle!»
«Tutte le volte? Due non è “tutte le volte”!» Poi, finalmente, mi ricordai del
vero motivo per il quale ero uscito di casa. «Ah, e a proposito, visto che hai
toccato l’argomento: niente. più. rosette. E soprattutto,» gli picchiettai la
fronte con l’indice, «niente più favori. Ho evitato che finissi in situazioni
spiacevoli perché sono un buon samaritano, tutto qui,» conclusi. Valerio mi
guardò tra il sorpreso e l’interrogativo.
«Quindi…questo significa
che adesso prediligi le ciabatte?»
Mi misi una mano sugli occhi. E io che pensavo avesse capito. Stavo per
rispondergli in malo modo, quando un paio di mani sconosciute si posarono sulle
palpebre di Valerio. Il biondo sorrise tra sé.
«Fabio, ma non ti stanchi mai di fare sempre gli stessi giochetti?»
A quel punto, lo sconosciuto che adesso sapevo si chiamasse Fabio, abbracciò
Valerio da dietro.
«E dai, Vale, è divertente!»
Il nuovo arrivato aveva i capelli scuri che ricadevano spettinati sulla fronte,
gli occhi sottili, la stessa statura di Valerio e un’espressione fin troppo
allegra dipinta sul volto mentre cercava di baciare l’amico sulle guance
lucide.
«Dormi da me anche stanotte?» chiese quel Fabio con la faccia da oca giuliva.
«Ovviamente. Stavo per venire, visto che ormai è quasi buio,» gli rispose
l’altro.
«Infatti ero preoccupato e sono venuto a cercarti. Andiamo via in moto, ok?»
ancora altri bacetti. Bene, io a questo punto me ne andrei e toglierei il
disturbo. Tanto che ci sto a fare qui, il palo? pensai, per poi voltarmi e
proseguire verso casa.
«Aspetta, dove vai?» m richiamò il moccioso biondo.
«A casa?» risposi con una domanda per fargli capire che io, davanti a quella
scenetta romantica, non volevo starci un minuto di più. L’amico mi rivolse la
sua attenzione, come se solo in quel momento si fosse accorto della mia
presenza. Ottimo, va sempre meglio, adesso sono anche invisibile. La sua
espressione da ebete mutò diventando quasi irata, e i suoi occhi mi puntarono
riducendosi a fessure. Ci mancava poco che gli spuntassero i canini da vampiro,
le unghie da licantropo e gli si accendessero le pupille di rosso.
«Chi è quello?» chiese allora, rivolto a Valerio.
«Potrei farti la stessa domanda,» intervenni, visto che non mi faceva così
piacere se, per riferirsi a me, utilizzavano i pronomi dimostrativi “questo” o
“quello”. “Avrei anche una ventina di anni in più di te,” stavo per aggiungere.
«Ah, lui è Andrea, il mio salvatore,» disse Valerio un po’ in imbarazzo. Lo
sguardo di Fabio si fece letteralmente di fuoco, poi si rivolse ancora
all’amico brillando e sorridendo.
«Eh? Si chiama Andrea o Salvatore?»
Il biondo scoppiò a ridere, ma io non lo trovavo divertente.
«Bene, ora che abbiamo fatto le presentazioni, io me ne andrei». Girai
finalmente i tacchi senza più intenzione di fermarmi.
«Aspetta, ma…»
«E niente più rosette!» con questo, zittii chiunque dei due mi avesse
richiamato e quasi fuggii nella mia dolce, noiosa, solitaria, umile, spoglia
casa. «E io che volevo un cane. Col cazzo, sto molto meglio da solo,» mi dissi,
una volta lanciate le scarpe in un angolo dell’ingresso ed essermi gettato a
volo d’angelo sul divano più grande. «Pessima giornata, pessima,» mormorai tra
me e me prima di stiracchiarmi e concedermi dieci minuti di riposo.
---
Ringrazio chi ha messo la storia nei seguiti e la persona tanto gentile che ha
lasciato un commento *_* Grazie!
Stavo pensando che Andrea è proprio insopportabile…
Ho creato un personaggio impossibile da apprezzare XD Ma non so chi sia peggio
tra lui e Fabio. Pure quello, boh, non so da dove mi sia saltato fuori ^^’
Beh, alla prossima :)
Fortunatamente, in quegli ultimi giorni che mi separavano dalle prime lezioni
universitarie, il pane smise di comparirmi magicamente sulla soglia della
porta. Il che mi sollevò a tal punto da quasi migliorarmi l’umore. Se prendevo
il caffè, per esempio, non davo di matto e riuscivo a godermelo senza effetti
collaterali; se la vicina veniva a chiedermi del prezzemolo –non capivo che
diavolo ci facesse con tutto quel prezzemolo- non la squadravo dall’alto in
basso quasi mi avesse ucciso il gatto; e, soprattutto, non toccavo sigaretta,
anzi, ero convinto di avere il pacchetto vuoto e quindi neanche ci pensavo.
Decisi di approfittarne un po’, ché non capitava tutti i giorni che mi sentissi
tranquillo e pacato, e giusto la serata che precedeva la mia prima lezione
dell’anno, presi la mia bella macchina e me ne andai a fare un giro in centro
città.
Avevo saputo che una mia ex compagna del liceo, giusto un paio di mesi prima,
aveva aperto un locale tutto suo, e quella mi sembrò la serata adatta a bere e
ricordare i vecchi tempi con un’amica. Così l’avevo chiamata, al che era
rimasta stupita, diceva di non ricordarsela così bassa, la mia voce. Avevo riso
goffamente e le avevo detto che probabilmente era tutto dovuto alla mia calma,
ché quando mi salivano i cinque minuti sapevo incrinare la voce a dovere. Poi
le avevo chiesto se potevo fare un salto a trovarla, se, insomma, le avrebbe
fatto piacere. Quella mi aveva risposto che certo, mi avrebbe accolto a braccia
aperte, macché, spalancate, e subito mi aveva dato l’indirizzo del locale.
In una mezz’oretta scarsa avevo già parcheggiato nella piazza giusto lì accanto
e avevo raggiunto il bar a piedi.
Perderlo di vista era praticamente impossibile, ciononostante camminavo
talmente svelto da averlo sorpassato. Poi guardai i numeri affissi al muro e mi
grattai la testa sentendomi in imbarazzo, ché un gruppetto di tizi poco
raccomandabili, ognuno con una birra in mano, seguiva i miei movimenti con un
sorrisetto di scherno. Solo quando mi posizionai di fronte al locale della mia
amica, si misero tutti a ridere, per poi fingere di star parlando di un
argomento divertente. Alzai le spalle piuttosto incurante e con esse il capo:
sopra ad una grande porta con due battenti rivestiti con vetro opaco di un
color verde bottiglia, troneggiava un neon non molto luminoso, di un tenue
verde scuro, che diceva: “Olsen: The LandofHappiness”, e
l’ultima parola si illuminava a intermittenza, non so se fosse fatto apposta o
se fosse rotta. Entrai cauto e subito mi accorsi della luce verdognola e
soffusa che mi impediva di distinguere i dettagli all’interno. Intercettai
delle ombre di persone e poltrone, e in fondo quella del bancone. Riuscii a
evitare un tavolino nel centro della sala grazie a un neon verde a forma di
cicogna che puntava fortunatamente nella mia direzione.
«Beh, non è male…» mi dissi, sempre ben attento a non
urtare o calpestare nulla mentre mi avvicinavo al bancone nero e lucido. Due
ragazzi mi urtarono per passare e subito alzarono una mano in segno di scusa.
Dissi loro di non preoccuparsi e poggiai sospirando le mani sul bancone.
«Andrea! Che piacere!»
Dall’alone verde e bianco spuntò una nuvola altrettanto fitta di capelli ricci,
in cui riuscii a riconoscere i lineamenti della mia amica.
«Ehilà, Giusy. Come stai?» chiesi, e mi allungai per darle due baci sulle
guance.
«Benone, come vedi! Sono contenta che tu sia venuto a trovarmi,» mi sorrise e
io feci lo stesso. Mi piaceva chiacchierare con Giusy, era una delle poche
persone con cui mi sentivo a mio agio e di cui gradivo la compagnia.
«Proprio bello, il tuo locale!» esclamai quindi guardandomi intorno. Due donne
avevano appena preso posto nel tavolino a pochi metri da me, quello su cui per
poco non rovinavo, giusto qualche minuto prima.
«Davvero? Agli altri non ha fatto una bella impressione…»
ammise lei mentre prendeva un bicchiere da asciugare.
«Ma va. E’ carino. Ha anche un bel nome. “La
Terra della Felicità”, eh? Credi che uno come me riuscirebbe a trovare un
po’ di felicità, qui dentro?» chiesi ridendo, e mi accorsi di aver riportato a
galla quella mia mancanza di serenità con cui mi vedevo costretto a convivere.
«Beh, se hai certe tendenze, sono sicura di sì,» rispose lei tutta felice.
Tendenze?
«Cosa? In che senso?» domandai, con due punti interrogativi al posto degli
occhi. Quella sospirò e strofinò lo straccio sulla base del bicchiere.
«Dai, non dirmi che non te ne sei ancora accorto,» disse, col tono di chi si è
scocciato di ripetere sempre le stesse cose. Poi indicò il tavolo accanto a me
e, quando mi voltai in quella direzione, vidi le due donne che s’erano
sistemate lì poco prima tenersi le mani e baciarsi tranquillamente. Sobbalzai,
e non feci in tempo a ricostruirmi l’immagine che avevo appena visto in testa,
che notai due ragazzi alla mia destra che si sorridevano e ammiccavano. Mi
girava la testa, adesso.
«Ma…non mi avevi detto che si trattava di un locale
gay!» esclamai, sentendomi fuori posto.
«E perché avrei dovuto dirtelo?» ribattè lei, poi
sbuffò tirando indietro qualche riccio che gli cadeva prepotente sulla fronte.
«Ma tu sei…?»
«No, non lo sono. E’ stato un mio amico gay a farmi venire l’idea,» disse, e si
spostò per chiedere ai due alla mia destra se volessero qualcosa da bere. Loro
dissero che sì, magari due Margaritas, così, per
ravvivare la serata. Qualcosa di leggero.
Mi grattai nervosamente il labbro inferiore, e aspettai molto impazientemente
che Giusy finisse di ridacchiare con quei tizi, ma dato che sembrava volermi
ignorare, mi alzai dallo sgabello, deciso ad andarmene. Ma quella mi vide e mi
fermò.
«Aspetta, Andrè, non andare via così,» poi fece il giro del bancone e mi venne
incontro. «Siediti, dai. Ti offro qualcosa da bere e poi chiacchieriamo un po’,
ti va? Tanto ci sono Martina e Ascanio al bar,» fece
dopo avermi accompagnato e fatto accomodare ad un tavolo. Ammetto che, mentre
aspettavo che Giusy finisse di servire gli ultimi clienti, puntavo occhiate
guardinghe ovunque, quasi avessi timore di vedermi comparire davantiun omone di colore alto tre metri e spesso
due, che mi ordinava di andare a letto con lui, altrimenti mi avrebbe
spappolato il cervello. Mi venne la risatina isterica al pensiero. E’ vero che
una persona si piazzò nel mio stesso tavolo, ma non era né alta, né di colore e
non aveva intenzione di spappolarmi il cervello. Mi notò solo dopo un paio di
minuti.
«Scusa, era occupato?» chiese, la voce particolarmente ferma e controllata.
Cercai di scrutarlo con l’aiuto della poca luce e riuscii a capirci qualcosa:
era un tipo giovane, avrà avuto tra i venticinque e i trent’anni. Teneva i
capelli neri corti dietro e lunghi sul ciuffo, che ricadeva sugli occhiali da
vista dal bordo nero.
«No no, fai pure,» risposi con la voce leggermente incrinata e lo sguardo che
fuggiva.
«Grazie,» ringraziò, e prese a fissarmi senza pudore, mentre io picchiettavo
nervosamente le dita sul tavolo. «Sei etero?» chiese dopo neanche tanto tempo.
Lo guardai con una faccia da “Ma come…?”, e lui
sorrise bonario. «Per il semplice fatto che eviti il mio sguardo,» rispose alla
domanda che gli avevo fatto mentalmente. Assunsi un’espressione imbarazzata, e
quello agitò la mano davanti a sé. «Non ci proverò con te, tranquillo».
A quelle parole, rilassai i muscoli e smisi di picchiettare le dita.
«Mi dispiace,» mormorai, e mi accorsi che era la cosa più stupida che potessi
dire. Mi dispiacevo per che cosa, esattamente? Ero idiota?
«Ma figurati, anche se è un peccato. Comunque, io sono Giulio, piacere».
«Andrea,» e ci demmo la mano. Pensai con una punta di cinismo a che cosa aveva
potuto fare con quella mano, anche poco prima.
«Non preoccuparti, è persino più pulita della tua,» asserì con un altro
sorriso. Che aveva sempre da sorridere? E perché sembrava sapermi leggere nel
pensiero? Diamine, i tipi strani tutti io li incontravo. «Come sei capitato
qui? Sei amico di Giusy?»
«Esatto,» mi affrettai a rispondere. Lui mi guardò di sottecchi, gli occhiali
che scivolavano piano sul naso.
«Ehi, non essere così nervoso. Davvero, hai addosso un’inquietudine che mi
mette paura,» disse con la faccia preoccupata, e cercò di farmi sentire a suo
agio con una pacca sulla spalla.
«Inquietudine? Quale inquietudine?» Ci capivo sempre meno.
«Lo intuisco dal tuo modo di fare».
Lo guardai un attimo infastidito, e a quel punto mi venne spontaneo fargli una
domanda, seppur senza alcun tipo di cattiveria.
«Ma sei uno…psicologo, o qualcosa del genere?»
Lui sorrise soddisfatto e annuì poggiando il mento sulle mani intrecciate.
«Amo il mio lavoro». Anche io feci di sì con la testa.
«Dev’essere interessante». Giulio fece una faccia
sognante.
«Non sai quanto,» disse, e provai un pizzico d’invidia per quel ragazzo che
sembrava provare un amore viscerale per il suo lavoro. Probabilmente, tornava a
casa col sorriso sulle labbra, o magari non vedeva l’ora di alzarsi la mattina
per andare al lavoro. L’invidia quasi mi sotterrò. «Decodificare i pensieri, le
emozioni e i sentimenti è qualcosa di affascinante. Sai cosa mi dicono i miei
colleghi? Che sono particolarmente in gamba per quanto riguarda i sentimenti
amorosi,» continuò quel Giulio, e io feci una faccia da “Ah, sì?”, curioso di
cosa avrebbe detto dopo. «Insomma, sono in grado di individuare il momento
esatto in cui nel cuore di una persona scatta l’amore,» mentre finiva la frase,
Giusy mi portò un bicchiere lungo pieno di un liquido azzurro fosforescente,
salutò Giulio e disse che ci avrebbe raggiunto in un batter d’occhio.
«E come ci riesci?» mi azzardai, tentando di portare avanti quel discorso. Non
sapevo neanche io cos’era, ma iniziava a interessarmi.
«Risulta molto più semplice se hai la possibilità di posare una mano sul petto
della persona in questione e ne puoi ascoltare il respiro e il battito
cardiaco. Accade qualcosa di curioso, perché il petto s’alza e s’abbassa più
velocemente del normale, ma il respiro è mozzato, quasi assente. E’ un
controsenso, se ci pensi. Il cuore, invece, fa un balzo non indifferente e
facilmente percepibile». Giulio si interruppe un attimo per rispondere al
telefono. Stette giusto qualche secondo, disse un paio di parole, borbottò un
saluto e poi chiuse la comunicazione. «Che dicevo? …Ah,
sì. Se, invece, non hai la possibilità di percepire il battito e il respiro,
occorre un’analisi più vaga delle zone erogene o, in generale, le zone più
ricche di terminazioni nervose, e quindi più delicate».
Eh?
Probabilmente gli rivolsi uno sguardo da pesce lesso, perché rise con una mano
davanti alla bocca. Poi riprese, più lentamente e con termini decisamente più
semplici.
«I dettagli più frequenti sono la lucidità degli occhi, perché le palpebre
sbattono più velocemente, i palmi delle mani sudano leggermente e le punte
delle dita diventano gelide. Le labbra tremano quasi impercettibilmente e, per
i più sensibili, vi è il tipico rossore delle guance. E tutto questo si svolge
in pochi istanti, ci credi?» concluse con un sorriso gigantesco, e con quella
domanda che rimase sospesa tra noi. Stetti un attimo in silenzio, perché
impegnato ad annotarmi tutto ciò che Giulio mi aveva appena comunicato. Magari
mi sarebbe potuto servire, un giorno. E, dirò, non avevo tutti i torti.
---
Dopo una vivace conversazione con Giusy e Giulio, dissi loro cortesemente che
avevo da andarmene, davvero spiacente. Arrivai a casa che era l’una e mezza di
notte e, una volta mollata giacca e sfilata la camicia, misi su il nuovo cd di
Jason Mraz, come se non fosse abbastanza tardi. Me
l’ascoltai tutto, senza saltare neanche una traccia, e intanto navigavo
distrattamente su internet col computer portatile sulle gambe. La decisione di
restare sveglio un’altra mezz’ora abbondante non fu delle migliori, perché la
mattina dopo mi alzai più stordito del solito. Sì, era stata una pessima idea
fare notte fonda proprio la sera prima del mio ritorno in aula. Di malavoglia,
mi trascinai in cucina col giornale del giorno prima sotto l’ascella, accesi la
macchinetta del caffè e ci misi su una capsula aromatizzata. Poi premetti un
pulsante e lasciai scendere il caffè. Il tutto ad occhi rigorosamente chiusi.
Senza neanche degnarmi di aprire il giornale –d’altra parte, avevo gli occhi
chiusi- bevvi il caffè e andai a vestirmi: giacca e cravatta, scarpe lucide e
dello stesso colore della cintura, occhiali da vista sul naso. Li indossavo
solo durante le ore di lezione, ma metterli in anticipo mi impediva di
dimenticarli sul comodino. Diedi un’occhiata al mio riflesso sullo specchio in
camera da letto e storsi il naso: mai una volta che avessi i capelli più o meno
a posto. E poi avevano come delle striature più chiare, segno del passaggio del
sole. Non andava per niente bene, sembravo ancora più vecchio così. E quelle
rughe sulla fronte? Lo dicevo che dovevo piantarla di starmene sempre lì
accigliato, quasi tutto il mondo m’avesse fatto un torto. E quel paio di borse
scure sotto gli occhi?
Mi passai una mano sul volto tentando di distogliere l’attenzione dal mio
pessimo aspetto fisico; e allora la rivolsi al pacchetto di sigarette
abbandonato sul comò, ma scossi la testa e decisi di resistere alla tentazione
lasciandole lì dov’erano: più che altro non avevo voglia di parlare a un
docente e puzzare di fumo.
Presi la mia cartella blu scuro, le chiavi della macchina, e uscii di casa con
l’umore a zero, come al solito. Quel temporaneo buonumore del giorno prima mi
sembrava già fin troppo lontano. E, sempre come al solito, arrivai in aula
puntuale come un orologio svizzero. Puntuale, noioso, monotono, con la vita che
va avanti per inerzia. Vidi l’aula brulicare di alunni che si stavano
sistemando ordinatamente sulle sedie disposte ad arco. Quando il suono di passi
si placò, mi permisi di percorrere con lo sguardo ogni viso di ogni allievo,
come per avere un quadro più chiaro della situazione. Non l’avessi mai fatto.
Lì nella seconda fila partendo dall’alto individuai un viso conosciuto. No, due visi conosciuti: erano quel Valerio
e il suo amico strambo. A pensarci, il primo mi aveva detto che avrebbe preso letteratura
all’università, solo che io non avevo dato affatto peso alle sue parole. E
adesso me lo ritrovavo come studente. Ma poteva essere possibile anche solo
pensare a una tale rottura? E lui aveva una faccia se possibile ancora più
sorpresa della mia, mentre se ne stava lì con la bocca spalancata.
Cercando con tutte le mie forze di ignorare la sensazione di essere puntato da
due occhi particolarmente insistenti, mi voltai e scrissi il mio nome alla
lavagna.
«Buongiorno a tutti. Mi chiamo Andrea Ruggeri e sarò il vostro insegnante di
letteratura latina e italiana,» dissi dandomi un tono. Qualcuno fece cenno di
aver ricevuto il messaggio, altri quasi mi ignoravano, un gruppo di ragazzine
mi guardavano ridacchiando. Scossi la testa e diedi un’occhiata all’elenco dei
ragazzi iscritti al mio corso: c’erano solo un Valerio e un Fabio: il primo
faceva di cognome “Castelli”, l’altro “Martone”.
Quando alzai nuovamente gli occhi sulla classe, Castelli agitava la mano in
segno di saluto, mentre Martone se ne stava con la
guancia appoggiata alla mano e lo sguardo scocciato rivolto alla finestra. Ed è
solo il primo giorno, pensai esasperato. Ignorai quel saluto rivolto con tanto
entusiasmo e proseguii con la mia prima lezione dopo l’estate, che sembrava
essersene andata del tutto, dato che era iniziata a cadere una pesante pioggia.
“Splendido, splendido!” mi dissi ironico, le rughe sulla fronte sempre più
profonde, lo sguardo talmente truce che le ragazze che prima mi guardavano
ridendo adesso erano quasi intimorite dal mio aspetto.
Fortunatamente, la lezione finì più in fretta di quanto avessi calcolato e
uscii insieme ai ragazzi, pronto a farmi una corsetta sotto la pioggia per
raggiungere la macchina. Utilizzai a malincuore la mia adorata cartella per
ripararmi alla bell’e meglio, e il fatto che stessi sprofondando già in alcune
pozzanghere mi diede sui nervi. Possibile che avesse già piovuto tanto? Forse è
perché chi vive per inerzia non s’accorge del tempo che scorre o di ciò che gli
succede intorno? Ma dovetti rispondermi di no quando m’accorsi di una ragazza
che pure faceva di tutto per coprirsi con la giacca, senza successo. Dai
capelli ricci e rossi la riconobbi come una mia studentessa del terzo anno.
«Giannizzi, hai scordato l’ombrello?» mi permisi di
chiederle tentando di sovrastare il chiasso che facevano i piedi nelle
pozzanghere. Una domanda piuttosto stupida, Ruggeri, complimenti.
«Sì, professore,» disse lei quando mi riconobbe attraverso la pioggia fitta.
«Non è che può darmi uno strappo anche questa volta?»
«Ma certo, Giannizzi, altrimenti tornerai a casa
zuppa. Vieni». Lei fece come le era stato detto, uscì dal cancello principale
subito dopo di me e si accartocciò la giacca ormai impregnata sotto il braccio
nel momento in cui si dovette piegare per entrare in macchina.
«Mi dispiace, le bagnerò tutto il sedile…» mi disse
la ragazza, di cui non ricordavo neanche il nome. I capelli gocciolanti avevano
preso un colore decisamente più scuro e gli occhi erano di un grigio tetro
incastonati in un viso dalla pelle bianca come latte, con una spruzzatina di
lentiggini sul naso.
«Non preoccuparti, cosa vuoi che sia un po’ d’acqua,» replicai stranamente
cortese, e misi in moto. Dopo aver fatto dieci metri con la pioggia impossibile
che batteva forte sul parabrezza, m’accorsi di due ragazzi che si accingevano
ad andare via in moto. Avrei capito se avessero avuto entrambi il casco, ma uno
di loro sembrava esserne sprovvisto, e chissà che febbrone da cavallo si
sarebbe preso in moto con quella tempesta. E non era neanche un ragazzo
qualunque, per dire. Mi accostai appena dietro la moto e abbassai leggermente
il finestrino ignorando momentaneamente la pioggia che mi investiva in pieno.
«Castelli, non ti conviene andare in moto con questo tempaccio. Sali in macchina,
che ti porto io a casa,» dissi, come automaticamente, nonostante dovessi ben
sapere che fare il buon samaritano non ripagava mai. Anzi. Ti ripagava, sì, ma
con una seccatura dietro l’altra.
«Ma io devo andare da lui,» mi urlò quello di rimando, e indicò il compagno
sulla moto che, anche senza fare due più due, immaginai fosse Martone.
«Allora ti accompagno a casa sua. Muoviti, ché non posso stare fermo per
molto,» ribattei, e tirai subito su il finestrino, qualunque sarebbe stata la
sua risposta. Vidi il ragazzo annuire e andare a dire due parole al ragazzo
che, visibilmente infastidito, s’allacciò il casco, allontanò il piede dal
marciapiede e partì senza degnarsi di rispondere. Che diavolo hanno in testa i
giovani d’oggi?
«Scusa per il disturbo,» fece Castelli quando entrò in macchina, e mi stupii
del “tu” che continuava ostinatamente ad usare.
«Niente,» mugugnai scostante, poi misi la prima e ripartii. In tutto quel
trambusto, Giannizzi si era limitata a tracciare
segni incomprensibili sul finestrino appannato. Non mi arrabbiai, sapevo che
era un suo vizio, che non lo faceva mica apposta. Mi innervosiva non ricordarmi
il suo nome, così aguzzai la vista sull’etichetta che pendeva dalla cartella
che teneva poggiata sulle gambe e mi schiarii la gola.
«Martina, tu abiti in Via…Chiesa, vero?»
Lei annuì e mi disse che le dispiaceva da morire farmi arrivare fin lì, anche
se era decisamente esagerata, visto che non era così lontano da casa mia.
Guardai nello specchietto retrovisore il moccioso là dietro che se ne stava
troppo zitto, e vidi che adesso guardava il sedile in cui era seduta la mia
allieva di traverso, e lo fece per tutta la durata del viaggio. Fortunatamente,
la ragazza sembrò non accorgersi dello sguardo truce di quello, e se ne stette
a guardare con occhi preoccupati la pioggia che non voleva saperne di
diminuire.
«Non preoccuparti, è una scaricata passeggera,» dissi accennando un sorriso.
Lei sembrò rilassarsi alle mie parole, e si appoggiò meglio allo schienale, gli
occhi socchiusi.
«Grazie, professore. Anche questa volta mi ha salvata,» ringraziò la ragazza
quando mi fermai davanti al suo grande portone marrone scuro. Le rivolsi un
sorriso rassicurante e la salutai con la mano appena prima che scappasse sotto
la pioggia con lo zaino sulla testa.
«Dove abita il tuo amico?» chiesi poi rivolto all’altro mio ospite.
«Vado a casa mia». Mi diede una risposta non pertinente che mi costrinse a
guardarlo dallo specchietto retrovisore: teneva le braccia incrociate al petto
e gli occhi trasparenti incollati al finestrino reso opaco dal vapore acqueo.
Non capivo che ci fosse da guardare, lì fuori. E in ogni caso, non avrebbe
visto nulla col vetro appannato.
«Bene. Allora dov’è che abiti, Castelli?» chiesi quindi sbuffando piano. A
quella domanda, lui reagì slegando le braccia e infilando di scatto la testa in
mezzo ai due sedili. Che diavolo, i movimenti fulminei di quel tizio
rischiavano di farmi venire un infarto, dato che io, prima di fare qualcosa, ci
pensavo almeno dieci volte. O semplicemente ero troppo pigro per farlo in
fretta.
«Perché non chiami anche me per nome? D’altra parte mi conosci già…»
Le sue parole mi fecero aggrottare le sopracciglia dallo stupore e mi
costrinsero ad appoggiare la fronte sulla mano aperta. Ma che passa per la
testa ai giovani d’oggi?
«Perché dovrei farlo? Io sono il tuo insegnante, tu un mio studente e ti tratto
come tale,» risposi sperando di sembrare paziente. Anche se la vibrazione nella
mia voce non prometteva nulla di buono.
«Ma con quella ragazza…» tentò di dire, ma lo fermai
sul tempo.
«Ti prego di non paragonarti agli altri,» e il mio tono sembrò tanto duro da
convincerlo a stare zitto. Avrà pensato che non sopportassi la sua vista, che
non potessi soffrire il suo atteggiamento, che odiavo la sua voce e avrei
voluto togliermelo in fretta dai piedi e magari non vederlo mai più. E forse
poteva anche esserci un fondo di verità, ma io, i problemi, ce li avevo con me
stesso. Il ragazzo non c’entrava niente, e io mi stavo comportando come un
cafone senza che nemmeno lo conoscessi. Un atteggiamento infantile, senza
dubbio.
“Quando hai intenzione di crescere per davvero?!” la voce della mia ex moglie
mi riecheggiava nelle orecchie come un lontanissimo ricordo, e risaliva solo
all’estate prima. Mi chiesi se fossi stato io a sbagliare tutto nella vita.
Forse già solo l’idea di vivere come viene non era delle migliori, figuriamoci
metterla in pratica. E mi dissi che, in realtà, non ricordavo di aver mai messo
davvero in pratica qualcosa. Sospirai pesantemente e mi passai il palmo della
mano sulla fronte umida, poi guardai nuovamente nello specchietto.
«Puoi dirmi dove abiti?»
---
Castelli non parlò più dal momento in cui m’aveva comunicato la via e il numero
in cui abitava. Si limitò ad indicarmi il cancello verde bottiglia quando ci
passammo accanto, e io mi accostai il più possibile per non fargli prendere
troppa pioggia. Ma fortunatamente, quando il ragazzo uscì dalla vettura,
qualcuno si affrettò a coprirlo con un enorme ombrello blu scuro.
«Oh, grazie al cielo sei tornato,» mi sembrò di sentire sotto il frastuono
della pioggia. Poi lo vidi abbassarsi sul mio finestrino, il ragazzo accanto a
lui che si divincolava dalla sua stretta. Rassicurato dall’ombrello che avrebbe
coperto anche il mio volto, abbassai il finestrino, e l’uomo –che, notai, era
calvo e aveva incastonati nel viso due occhi tondi e azzurri, quasi
inquietanti-, allungò la mano che prima era serrata attorno al braccio di
Castelli.
«Buongiorno, sono Andrea Ruggeri, l’insegnante di Valerio,» mi presentai
allungando la mano a mia volta. Lui fece un mezzo inchino rispettoso, e gli
occhi lucidi sembravano parlare da sé.
«La ringrazio infinitamente di essersi disturbato così tanto. Grazie per aver
riaccompagnato mio figlio». Per come mi lodava e riveriva, sembrava non vedesse
il figlio da settimane. Scossi la testa e aguzzai la vista su Castelli, che
sembrava ancora scuro in volto, le mani in tasca e lo sguardo rivolto altrove.
«Ma si figuri, non è stato un problema. Abito a pochi isolati da qui,» dissi
per tagliare corto. Come al solito, mi sentivo tremendamente a disagio quando
venivo messo in soggezione.
«Papà, ti avverto che non resterò molto,» disse il figlio, seppur a bassa voce.
L’altro lo ignorò deliberatamente e si alzò leggermente con la schiena per
salutarmi.
«La lascio andare, professore. Buona giornata, e grazie ancora!»
Gli feci un cenno di saluto, chiusi il finestrino e ripartii scivolando un poco
sull’acqua, gli occhi offesi di Castelli che sembravano ancora puntarmi. E certo
che avevo dei problemi, sicuramente ero io quello che non andava.
Semplicemente, sembrava che per quanto prendessi bene la mira e tenessi fermo
l’arco, non riuscissi a fare in modo che la freccia centrasse il bersaglio, o
che almeno ci si avvicinasse, al bersaglio. Tanto per dirla con una metafora.
---
Ringrazio in particolare El, che si è interessata alla storia <3 E chi commenta e
mette nelle seguite, ovviamente.
Ho introdotto quattro nuovi personaggi, due dei quali –Giusy e Giulio- compariranno ancora per tutto il resto della storia.
Giusy è un personaggio allegro, l’ho fatta così perché mi piacerebbe essere
come lei, sempre vogliosa di fare e sorridente e amichevole e servizievole. Ma
probabilmente sono affezionata di più a Giulio; lo immagino come un esserino piuttosto basso e magro ma con le spalle larghe, i
capelli nerissimi che quasi gli coprono gli occhi e gli occhiali neri alla
moda. E lo vedo molto affabile, ma con la voglia di divertirsi –e lo fa, quando
trova l’occasione lol-. Il padre di Castelli –ha
anche un nome, verrà svelato nel prossimo capitolo- è un tizio un po’ patetico,
che fa le cose e poi subito se ne pente e vorrebbe tornare indietro nel tempo.
Tipico di molta gente, insomma. Giannizzi è una tipa
un po’ svampita (già il fatto che scrive cose sui finestrini delle macchine
altrui senza accorgersene è preoccupante) e per il suo aspetto mi sono ispirata
a una ragazza che conosco, dai luuunghi capelli ricci
e rosso fuoco, qualcosa di spettacolare (tipo The Brave XD Andate a guardarlo,
a proposito XD).
E niente, spero che Andrea non rompa troppo le balle, riconosco che non sia
molto simpatico come personaggio, ma credo che in seguito migliorerà XD Su
Valerio non dico nulla perché mi piace, e la vorrei conoscere per davvero, una
persona come lui. Penso non mi annoierebbe mai, o comunque farebbe molta fatica
:)
Okay, la smetto, mi sto dilungando. Un abbraccio!
Quando quella sera suonò il campanello, ebbi quasi il timore di vedermi
comparire dell’altro pane sulla soglia. Il fatto che il campanello mi suonasse
solo quando la vicina voleva del prezzemolo e quando un degenerato scaricava
razioni di pane sulla porta, mi faceva sentire alquanto sfigato. E solo,
magari. Ma quando aprii, un dolce aroma si prese possesso delle mie narici, e
sorrisi quando intercettai la figura della signora Rosaria. Era una donna bassa
e magrolina che a fatica si teneva in piedi: era già da qualche anno che aveva
contratto una malattia che presto l’avrebbe resa disabile, e andava sempre
peggiorando, i capelli gli si imbianchivano sempre più velocemente, le gambe e
le braccia sembravano muoversi al rallentatore, la mandibola a volte andava per
conto suo, la lingua le si attaccava al palato mentre parlava, facendola
incespicare nelle parole. Abitava al secondo piano, e di tanto in tanto veniva
a portarmi qualcosa da mangiare, sostenendo che fossi sciupato, quando lei era
almeno la metà di me.
Disse che aveva fatto un attimo fatica a scendere da me, e alla mia domanda “E
non ha preso l’ascensore?” lei rispose che era roba da vecchi aspettare
l’ascensore, perciò aveva fatto prima a scendere a piedi. Adesso mi porgeva una
delle sue torte alla frutta dicendo che ci teneva tantissimo a farmela
assaggiare.
La signora Rosaria mi riempiva sempre di complimenti ed era piacevole
conversare con lei: nonostante non riuscisse quasi mai ad iniziare una frase
senza balbettare o strabuzzare gli occhi, era particolarmente intelligente e
arguta, e sapeva reggere qualunque tipo di discorso. Diceva sempre di volermi
adottare, perché avrebbe sempre voluto un figlio maschio e, se mai l’avesse
avuto, l’avrebbe desiderato identico a me. Mentre mi parlava, di tanto in tanto
aggiungeva un “Come sei bello”, e mi dava pacche affettuose sulle spalle e
buffetti sulla guancia, e io quasi tornavo bambino quando ero in sua compagnia.
E anch’io, ormai, la consideravo al pari di una madre, sempre così premurosa e incoraggiante,
solare e attiva, nonostante i suoi problemi.
Rosaria lasciò la torta e poi tornò a casa, ché aveva la domestica a casa e non
si fidava a lasciarla da sola, mi confidò con un occhiolino. Chiesi se volesse
che l’accompagnassi, ma quella disse che questa volta avrebbepreso volentieri l’ascensore. Ringraziai
ancora per la torta e tornai dentro, per poi mangiarmene due grosse fette e
leccarmi golosamente i baffi. Dopodiché, mi misi a guardare senza troppa voglia
un film su Mediaset Premium, ma l’abbiocco causato da quella splendida torta mi
costrinse ad abbassare il volume al minimo e a prendere sonno lì sul divano, i
capelli ancora non del tutto asciutti dalla doccia che avevo fatto qualche ora
prima.
---
Il giorno dopo mi svegliai tutto dolorante, con la schiena bloccata per metà, e
pensai di darmi seriamente per malato già il secondo giorno. Ma i sensi di
colpa me lo impedirono, dannazione. Sarebbe stato meglio non mettere proprio il
naso fuori casa. Infatti, chi mi ritrovai all’uscita dall’università, in piedi
accanto al cancello, un paio di vecchi occhiali da sole, una mano in tasca e
l’espressione imbarazzata? No, non Castelli, bensì il padre. Vedevo grosse,
enormi nuvole nere all’orizzonte. Implorai qualunque Dio che non fosse lì per
me, ma in effetti, perché doveva essere lì per me? Non aveva motivo di
cercarmi, e io mi stavo facendo seghe mentali per nulla. Non girava mica tutto
intorno a me, santo cielo.
«Professor Ruggeri…?»
Mi congelai sul posto. L’avevo sorpassato tentando di ignorarlo e adesso mi
stava chiamando. Probabilmente voleva solo essere salutato, dopotutto ci
eravamo conosciuti il giorno prima e sarebbe stato maleducato da parte mia non
accennare un saluto. Doveva essere quello, senz’altro.
«Si ricorda di me? Sono il signor Castelli, ci siamo conosciuti ieri,» mi
disse, mentre io gli davo ancora le spalle, indeciso se ignorarlo per davvero o
girarmi a dargli retta. E di certo non sono un maleducato, io. Mi voltai
sorridendo imbarazzato e con una mano dietro la nuca, poi mi accorsi che dovevo
sembrare particolarmente ridicolo, e feci un colpo di tosse per poi tornare
serio e impeccabile –come se ne fossi davvero capace.
«Certo che mi ricordo, buongiorno. E’ venuto a prendere suo figlio?» chiesi
speranzoso, anche se dovevo ammettere che non me ne importava nulla.
«No, non credo verrebbe con me,» rispose quello, tono e espressione
malinconici. Fece una pausa, e a me venne da ridere per il nervoso, perché quel
silenzio non prospettava nulla di buono. Io e i miei brutti presentimenti
sempre fondati, dannazione.
«Senta, ha qualche minuto per me?» chiese quindi, e io lo guardai con una
faccia da “Lo sapevo!”
«A-adesso?» feci guardando l’orologio da polso.
Ovviamente non avevo nessun impegno, ma lo sguardo cadde lì automaticamente.
«Sì, ma se ha impegni, possiamo fissare un colloquio…»
si affrettò a dire l’uomo, le mani sulla difensiva. No, Dio, odiavo i colloqui.
Mi mettevano seriamente ansia, e non ne capivo ancora il motivo. E poi, le
scocciature, è meglio togliersele di torno il più in fretta possibile, se non
si vuole temerle nei giorni a venire.
«No, guardi, va bene adesso. Pranzerò più tardi, non ci sono problemi,»
assentii, con lo stomaco che mi si era chiuso per davvero. «Di cosa deve
parlarmi?» aggiunsi. Lui si fece più vicino, quasi mi volesse confidare un
segreto e,
«Vorrei che andassimo a parlare da qualche altra parte,» disse, probabilmente
infastidito dalla grande quantità di ragazzi che s’erano fermati sul cancello.
---
Pochi minuti dopo eravamo in un bar lì di fronte a prendere un aperitivo, i
miei occhi che tornavano più volte sui pasticcini strabordanti
di crema in bella vista nelle teche di vetro.
Il padre di Castelli, che mi aveva detto di chiamarsi Bruno (ironico, vista la
mancanza di capelli e la pelle chiarissima), sembrava turbato e incerto se
quanto stava per dirmi fosse opportuno o meno. Io prendevo sorsi dal mio ginger
col sopracciglio destro che pulsava e i pasticcini che mi chiamavano. Non
bastava la torta alla frutta della signora Rosaria, no.
«E’ per caso successo qualcosa?» mi azzardai allora, visto che non si decideva
a spiccicare parola.
«In effetti sì…e va avanti da due settimane…»
riuscì finalmente a dire, le mani che si torcevano e lo sguardo che fuggiva.
«Me ne vuole parlare?» Ecco, l’atteggiamento da buon samaritano. Non mi
smentivo mai. Mai. E poi, cos’era quel tono da colloquio di lavoro?
«Si tratta di mio figlio…»
“E ti pareva,” pensai all’istante, rendendomi conto che quel ragazzino era
ormai ovunque: nel mio quartiere, sul posto di lavoro e anche nei discorsi.
Scossi la testa e provai a prestare attenzione alle parole dell’uomo, piuttosto
che ai pasticcini. «Vede…Mi vergogno un po’ a dirlo,
ma io quest’estate mi sono risposato per la terza volta…»
“Complimenti, playboy,” avevo voglia di dirgli ironicamente, ma mi trattenni.
Non avrei mai voluto sembrare maleducato o confidenziale.
«E per quanto mia moglie tenti di essere buona e gentile, non riesce a farsi
accettare da mio figlio. E lo stesso è successo con la mia seconda moglie,»
fece una pausa e ne approfittai per fargli capire che stavo seguendo il
discorso con un cenno del capo. Adesso aveva abbassato la testa e strisciava
nervosamente il pollice sul bicchiere di forma allungata. «Sa, con sua madre
aveva un rapporto stupendo. Non faceva che renderla orgogliosa, che
assecondarla, che portarla in giro, fuori al parco, a fare le passeggiate…»
«Portarla in giro?» iniziavo a vederci un attimo più chiaramente.
«Mia moglie era malata,» spiegò mentre si grattava la nuca con una mano, forse
leggermente a disagio. «Stava sulla sedia a rotelle. Un anno dopo è morta,» lo
disse normalmente, come se fosse una storia già raccontata fino allo
sfinimento. Non mi azzardai a chiedere che razza di malattia avesse la sua
prima moglie e mi limitai a dire che mi dispiaceva molto.
«Grazie, professore,» ringraziò con il capo inclinato verso il basso, la voce
distorta da una nota d’emozione. «Mio figlio rimase molto colpito da questa
morte e, quando conobbi Elena, mi giurò che, se l’avessi sposata, mi avrebbe
detestato e, con me, anche lei. Tuttavia io presi sottogamba quella specie di
minaccia e la sposai comunque. Valerio mantenne la sua promessa e, anche se in
casa c’era, sembrava un fantasma ed evitava qualsiasi tipo di contatto con
noi,» si fermò a bere e si assicurò che stessi ascoltando e seguendo il
discorso. «In quel periodo, pensai ad una depressione adolescenziale
temporanea. Sa, delle parole dette con
leggerezza da ragazzini ancora ingenui. Però, quando divorziai da Elena e
tentai di ricominciare con Monica, lui non ci vide più e dopo qualche settimana
lasciò addirittura la casa,» concluse, con voce rotta, l’aperitivo che per poco
non gli andava di traverso, per la velocità con cui sentì il bisogno di
bagnarsi la gola subito dopo.
«E questo è successo due settimane fa?» chiesi per conferma dopo essermi
assicurato che non si stesse affogando.
«Esatto».
“Allora perché diamine parli in passato remoto?” mi chiesi grattandomi il mento
e chiudendo gli occhi per non lasciar trasparire il fastidio che mi formicolava
all’altezza della nuca.
«E dove sta adesso?» chiesi allora, la mano che si spostava dal mio mento
ruvido alla nuca. Mi rendo conto che potesse sembrare un gesto maleducato,
quello di stare sempre a toccare la nuca, ma in quel momento non mi sembrò
rilevante.
«Come?» fece quello sollevando il capo dalla propria bevanda.
«Suo figlio, intendo. Dove vive?»
«E’ proprio questo il problema. Si è rifugiato a casa di un amico di cattiva
fama che non mi pare la compagnia più adatta,» rispose con faccia ricca di astio
e pregiudizio, lo sguardo che fuggiva sulla vetrata accanto a noi. Facendo
sapientemente il solito due più due, ne dedussi che quell’amico di cui parlava
doveva trattarsi di Martone.
«Cattiva fama?» ripetei, anche se non ne ero più di tanto stupito. Quel tipo ce
l’aveva proprio, la faccia di un poco di buono.
«Sì, non ne parlano molto bene… E’ uno poco
raccomandabile, insomma. Si dice in giro che abbia i genitori truffatori, e io
non voglio avere niente a che fare con quella gente, né desidero che mio figlio
li frequenti,» disse con le mani intrecciate e il mento che poggiava su di
esse, il tono duro e fermo. Sospirai, perché il mio cattivo presentimento stava
lentamente uscendo allo scoperto, e tentai di anticiparlo, quasi per sfida
personale. Per vedere se, insomma, ci avevo azzeccato.
«Quindi, in poche parole, sta cercando un posto migliore dove far dormire suo
figlio?»
Bruno alzò gli occhi e mi guardò meravigliato, le pupille improvvisamente
luccicanti ela bocca che si piegava
piano all’insù. Annuì piuttosto sorpreso della mia finta perspicacia, poi si
fece nuovamente insicuro tutto d’un colpo, come all’inizio della nostra
conversazione.
«Ora…non vorrei sembrarle inopportuno, ma…lei è sposato?» chiese a quel punto, e io socchiusi gli
occhi, ben sicuro di dove volesse arrivare.
«No, sono single,» e gli evitai anche la storia del divorzio. Lui fece per
continuare, ma lo precedetti alzando una mano in segno di scusa. Sperai non
pensasse che avevo intenzione di zittirlo. «Ha intenzione di chiedermi se posso
ospitarlo?»
«E’ incredibile, lei mi legge nel pensiero!» fece una faccia contenta e
speranzosa al contempo, ma dovette rabbuiarsi quando s’accorse della mia
espressione non così entusiasta.
«Mi spiace, non posso farlo. Siamo insegnante e studente, non possiamo…»
«Beh, perfetto, così sembrerà il suo tutore! Per favore, la pago!»
Ma stava parlando sul serio? Sembrava si stesse per mettere a piangere, e il
tono di voce era disperato, e sono sicuro che se in quel momento gliel’avessi
chiesto, si sarebbe persino inginocchiato davanti a me. Lo guardai costernato e
confuso, la voce che mi usciva stridula dalla gola.
«Ma le pare questo il problema? E’ che…»
«La prego, professore. Non abbiamo parenti qui, sono tutti giù in Puglia… Mi faccia questo grande favore, le giuro che la
pagherò settimanalmente. E poi sarà per poco! Sono sicuro che dopo un po’ mio
figlio si convincerà a tornare a casa. Glielo garantisco,» concluse, le mani
congiunte e l’espressione da agnello smarrito negli occhi trasparenti. Ammetto
che il fatto dei parenti in Puglia mi aveva fatto un po’ pena, ma davvero, era
qualcosa di impensabile. Eppure ci stavo già rimuginando su inconsapevolmente,
lo sguardo incantato sul bicchiere vuoto davanti a me.
«Non lo so, signor Castelli, perché… come facciamo con
i letti?» sparai la prima cosa che mi passò per la testa, e a lui sembrò anche
una domanda legittima.
«Dormirà tranquillamente sul divano, l’ha fatto per molto tempo,» rispose
l’altro prontamente, e non mi venne di chiedergli da quand’è che i figli si facevano
dormire sul divano.
«E’ allergico a qualcosa, suo figlio?» adesso tiravo fuori le questioni più
assurde. Se era allergico a qualcosa, erano problemi suoi. Si prendeva un
antistaminico e tanti saluti.
«Solo al pelo di cane, leggermente, ma a nessun tipo di cibo».
Mi maledissi per non aver mai comprato un cane.
«Fa sport?» sembrava un esame medico, sul serio. Ma avevo quasi paura di far
terminare quella conversazione. E allo stesso tempo, non vedevo l’ora di darci
un taglio e fuggire da quel posto pieno di odori invitanti.
«Sì, ma non è niente di pericoloso, e la sede è vicino casa,» rispose quello
velocemente, per niente spazientito da quelle domande. Pensai che
probabilmente, suo figlio frequentasse la palestra o la piscina. In teoria
c’erano senza dubbio altri argomenti da mettere in discussione, ma in quel
momento non riuscii a trovare nient’altro, e appoggiai le labbra alle mani
intrecciate. Poi alzai gli occhi su Bruno e scossi la testa.
«Non saprei…»
«Facciamo così: lo prende in prova per una settimana. Se le dà fastidio o non
apprezza la sua presenza o altro, lo caccia via a calci e io non avrò alcun
tipo di risentimento nei suoi confronti. Ci sta?» chiese infine, e mi allungò
una mano aperta sul tavolo. Pensai che fosse decisamente impossibile liberarsi
da una situazione del genere soddisfacendo i desideri di entrambi, e in quel
momento il buon samaritano che era in me, quella stupida debolezza di cui
dovevo imparare a liberarmi, protestava, pulsava in testa, diceva di lasciarmi
andare, che tanto non c’era nulla di male. Mi ricordava che io ero solo, e mi
sentivo più solo di quanto in realtà non fossi, e mi diceva che forse badare a
qualcuno non mi avrebbe fatto male, mi avrebbe distratto un po’, e magari reso
un attimo più umano. Mi diceva che la vita che conducevo, quella per inerzia,
non gli stava più bene, e che desiderava che un alito di vento venisse a far
crollare il mio castello di carte in bilico per miracolo. E mi diceva anche che
quella era l’occasione giusta, che potevo coglierla senza farmi troppe seghe
mentali.
«Va bene,» raggiunsi la sua mano e gliela strinsi, e la voce che uscì dalla mia
bocca non sembrava neanche la mia. «Non può accadere nulla di male in una
settimana,» ribadii, quasi per autoconvincermi. E
fino a quella sera continuai a ripetermi come un automa “Nulla di male, nulla
di male”, fino a storpiarne orrendamente le parole.
---
Il trasferimento di Valerio Castelli era previsto per quella domenica mattina.
Il senso di responsabilità che già premeva su di me andò peggiorando con
l’avvicinarsi del giorno fatidico, fino a quasi schiacciarmi il sabato
pomeriggio. Di restare a casa quel sabato sera non se ne parlava: il brutto di
quando sono solo, è che ho sempre occasione di confrontarmi coi miei pensieri e
le mie preoccupazioni, e di solito ne esco sconfitto, da queste discussioni col
mio cervello. Quindi mi decisi ad alzare il culo e trovarmi qualcosa da fare
che mi distraesse. Uscii e guidai verso il locale di Giusy: ero sicuro che
l’avrei trovata, perché mi aveva detto che il finesettimana c’era sempre lei
dietro il bancone. Mi decisi ad uscire anche perché sentivo che quella sarebbe
stata l’ultima serata che potevo passare liberamente, senza palle al piede.
Spinsi la porta col vetro verde ed entrai ancora cauto e circospetto: in fondo,
era solo la seconda volta che ci mettevo piede, dovevo ancora farci
l’abitudine. Anche se questo significava diventare cliente abituale, e per
quale motivo avrei dovuto diventare un cliente abituale di un locale di quel
tipo?
Mi diressi al bancone cercando di ignorare qualunque cosa stesse succedendo
attorno a me, ma prima che riuscissi ad arrivare, intercettai con la coda
dell’occhio una massa di capelli ricci venirmi incontro.
«Non ci credo! Sei davvero tornato!» esclamò Giusy contenta baciandomi la
guancia.
«Sì. Ho avuto un’altra giornata impossibile e volevo bere qualcosa,» ammisi, la
mano che stropicciava un occhio, quasi fossi pronto ad andare a letto.
«Bene! Accomodati, ché ti verso un altro Angelo Azzurro». Non capivo perché
dovesse scegliere lei quello che dovevo bere, ma non mi andava di lamentarmi.
La seguii sino al bancone e, dopo essermi seduto su uno sgabello, notai dei
faretti colorati sopra di me e per tutto il resto del locale che la volta prima
non c’erano e che, sicuramente, rendevano l’atmosfera un attimo più
accogliente. Probabilmente ero troppo sovrappensiero per potermene accorgere
prima.
«E quelli?» chiesi indicandoli con un cenno del capo.
«Ah, servono per domani sera. Abbiamo organizzato una festa a sorpresa per il
compleanno di Giulio, sai, quel ragazzo con cui parlavi l’altra volta. Solo che
non ho resistito e li ho accesi già da stasera. Spero solo che non venga…» neanche riuscì a concludere la frase, che dovette
interrompersi di botto. Fissò la porta d’entrata per poi indietreggiare e
rivolgersi a una sua collega.
«Marty, le luci! Spegni le luci!»
Prontamente, l’amica bionda si fiondò su una serie di interruttori e gli
effetti speciali sparirono di botto. Mi voltai, sicuro che la cosa non fosse
passata per nulla inosservata, ma Giulio aveva la sua stessa espressione
imperturbabile, per nulla sorpresa, sicuramente bonaria.
«Giulio! Buonasera! Qual buon vento? Di solito non vieni di sabato!» strillò
Giusy quando il ragazzo si fu appostato sullo sgabello accanto al mio. Non era
proprio in grado di recitare.
«Beh, oggi non c’era niente di bello in tv,» sorrise lui con gli occhi
socchiusi. Dopodiché voltò il capo nella mia direzione e mi rivolse la parola. «Oh,
ciao. Tu sei l’etero dell’altra volta. Andrea, giusto?»
Gli strinsi la mano senza troppo entusiasmo rivolgendogli un sorriso stanco.
«Sì, esatto. Come stai?» chiesi con tono di voce altrettanto stanco.
«Io bene, ma tu? Tu vedo distrutto». Non gli si poteva nascondere niente.
Niente.
«In effetti lo sono…Mi stanco facendo niente».
«Beh, perché allora non sei nel tuo lettuccio? Non mi fraintendere, sono
felicissima che tu sia qui,» si intromise Giusy mentre prendeva l’occorrente
per il mio drink.
«E’ che ho paura che questa sia l’ultima volta che potrò uscire liberamente la
sera,» risposi appoggiando il gomito al bancone e il mento sul palmo della
mano, lo sguardo fisso su un punto impreciso del top di Giusy.
«E perché?» chiesero in coro quei due. Li guardai per assicurarmi che non
avessero la faccia di persone curiose e pettegole. Poi mi accorsi che c’era
troppa poca luce per poter scorgere i loro occhi e rinunciai.
«Domani mattina uno dei miei studenti si trasferirà a casa mia su richiesta del
padre…» iniziai, per poi raccontare scocciato tutta
la storia, senza magari soffermarmi su particolari insignificanti della
conversazione tra me e Bruno. Alla fine del mio racconto, Giulio si tolse gli
occhiali da vista e, mentre se li puliva con la maglia nera, fece:
«E’ carino, almeno?»
Giusy rise e io lo guardai di traverso.
«Cosa c’entra questo? Dovrei avere in casa una specie di…figlio,»
borbottai, e mi meravigliai di aver pronunciato per davvero una frase del
genere.
«Beh, ma guarda il lato positivo. Verrai pagato per fare da badante…»
«E da tutore,» lo corressi.
«…sì, e da tutore, a un moccioso. Quanti anni hai
detto che ha?»
«Venti,» risposi in un soffio.
«Ma è carino?» ripeté quel tipo mentre si rimetteva gli occhiali sul naso, e io
sbuffai, più rumorosamente questa volta.
«Sì, sì, è carino. E’ biondo, ha gli occhi chiari, è alto più o meno quanto
Giusy e si chiama Valerio. E’ questo che volevi sentirti dire?» ormai sembravo
voler scaricare il mio nervoso su chiunque.
«Ehi ehi, che sfuriata. Devi avere i nervi a mille». Aspettò che calmassi i
bollenti spiriti, poi parlò nuovamente. «Comunque, non è detto che tu non possa
più uscire. Anzi, perché domani non ci diamo appuntamento qui, più o meno alla
stessa ora? E porta Valerio con te».
Mi trascinai una mano nei capelli, sbuffando ancora. Okay, avevo capito che
Giulio voleva provarci anche col mio studente.
«Che stai dicendo? E’ troppo giovane, non reggerebbe mai a queste…visioni,»
dissi piuttosto alterato, e indicai due uomini nel tavolo in fondo che se ne
stavano tranquillamente avvinghiati.
«Reggerà benissimo, non fanno nulla di scandaloso. Dai, portalo in prova. State
anche solo un’oretta. E, se si comporta bene, lo porterai altre volte con te,
se per lui è un problema stare solo a casa. Ma insomma, ha anche vent’anni!» esclamò
lui spostandosi dagli occhi il lungo ciuffo nero.
«Sì, ma sono io che non mi fido a lasciare uno sconosciuto solo in casa mia. E
poi, lui sarà sotto la mia responsabilità,» ribattei e Giusy, che aveva appena
finito di servire una ragazza, mi diede una pacca sulla spalla ridendo.
«Oh, come sei diventato serio, Ruggeri. Una volta non eri così. Dai, cerca di
venire a trovarmi anche domani,» e fece un occhiolino finale, ricordandomi
della festa a sorpresa in onore di Giulio.
---
Credo che potremmo considerare questo
come il capitolo di svolta. Cioè no…cioè, non so
neanche io che sto dicendo <3 Ho introdotto il personaggio della signora
Rosaria che è uno dei miei preferiti, in seguito comparirà ancora una volta e
l’ameranno tutti <3
C’è un motivo per cui ho messo una frase in corsivo, nel testo, probabilmente
perché si ripeterà XD (perché spoilero sempre, sigh).
Okay, alla prossima!
Tornai a casa prima di mezzanotte, stremato quasi avessi fatto una corsa e,
senza neanche pensare a cos’è che dovevo cucinare il giorno dopo –di solito,
chi vive per inerzia non si fa di questi problemi-, mi buttai sul letto e
dormii, dormii tanto, senza mai neanche alzarmi per andare al bagno.
E la mattina dopo, ovviamente, mi alzai più o meno all’ora di pranzo. Il primo
pensiero che mi passò per la testa fu quello di grattarmi in mezzo alle gambe e
tenere a bada l’erezione mattutina; il secondo fu quello di farmi il caffè, uno
bello forte. Poi, finalmente, mi venne in mente di dare un’occhiata
all’orologio e, deformando spaventosamente la bocca, mi sollevai di colpo col
busto infischiandomene della testa che girava vorticosamente. Mi trascinai in
corridoio e andai a sbattere in modo imbarazzante contro qualunque parete,
spremendomi il mignolo del piede contro la cassapanca in legno. Urlai
silenziosamente bestemmiando il calendario, poi guardai nuovamente l’orologio
appeso sopra la porta della cucina: le 11 meno un quarto. Mi venne da tirare un
sospiro di sollievo: Castelli sarebbe dovuto arrivare verso mezzogiorno.
Col mignolo rosso e gonfio che pulsava dolorosamente, ciabattai in cucina e
misi su l’acqua per la pasta, un ciuffo di capelli che mi solleticava la fronte
e mi dava un fastidio boia, addosso ancora i vestiti del giorno prima. Non
avere voglia persino di mettere su il pigiama prima di dormire è grave, lo è
davvero.
Presi dal frigorifero della pancetta e la scartai, di malavoglia, come al
solito. E, prima di metterla a cuocere in un pentolino a parte, il citofono
squillò facendomi prendere un colpo. Era troppo silenzioso in casa, sarà stato
quello il motivo.
Strascicai i piedi sino alla porta, poi afferrai il citofono sentendo le mani come
di burro.
«Chi è?» chiesi con la voce ancora piena di sonno.
«Sono Valerio Castelli,» rispose una voce trafelata. Oh, era pure in anticipo,
a quanto pareva.
«Aspetta, vengo ad aiutarti,» proposi trattenendo uno sbadiglio.
«Non c’è bisogno, ho solo un borsone. Aprimi, salgo da solo,» asserì, e io
alzai le spalle per poi premere il pulsante che apriva il portone. Sembrava
essersi abituato ormai ad usare il “tu” per rivolgersi a me. Fosse stata una
situazione normale, non avrei avuto niente da ridire, anzi, preferivo se la
gente mi trattava come suo pari. Ma così sembrava una bidella che dava del tu
al preside, tanto per dire. O un vescovo che dava del tu al papa. Forse non
avrei dovuto paragonarmi al papa, pessima idea, non avevo tutta questa
autostima per poterlo fare davvero. Ma comunque, lasciai correre la questione
del “tu” pensando al fatto che mi stessi impuntando su qualcosa di davvero poco
conto e camminai velocemente in camera mia, dove mi degnai di cambiarmi almeno
la maglia a maniche corte. Poi schizzai in bagno a dare una veloce sciacquata
ai denti, tanto per non stendere il mio studente mentre gli parlavo.
Quando tornai, lo trovai ad aspettare sulla soglia della porta chiusa, un
grosso borsone blu da palestra ai piedi.
«Entra pure,» dissi mentre mi grattavo la nuca, anche se ormai c’era già,
dentro casa. Era tanto per non saltare i convenevoli. E poi dovevo anche
piantarla di essere scortese, soprattutto col mio ospite, perciò strinsi gli
occhi e sorrisi quanto bastava. Quello avanzò goffamente dopo aver tirato sulla
spalla il borsone da palestra e mi consegnò una busta rosa pallido.
«Te la manda mio padre,» disse senza neanche guardarmi. Sembrava più
interessato a tutto ciò che si ritrovava attorno. Sulla busta vi era scritto in
una calligrafia alta e stretta: “Grazie ancora”, ed era riempita da due
banconote ben stirate da cinquanta euro. Spalancai gli occhi, la salivazione
azzerata: quel fatto mi sapeva tanto di attività illecita. Castelli notò il mio
silenzio e la mia espressione e alzò le spalle.
«E’ solo ricco,» asserì senza troppi problemi e con una punta di astio. Io
annuii perplesso e richiusi la busta, poi lo esortai a togliere la giacca. «Sembra
che sarò destinato a servirti e riverirti per sempre,» fece il ragazzo
sorridendo e consegnandomi la giacca.
«Perché?» chiesi spontaneamente mentre andavo ad appendere l’indumento
sull’appendiabiti dietro la porta.
«Beh, mi hai offerto un posto dove stare e te ne sono riconoscente. In questo
mio breve soggiorno dovrò cercare un modo per sdebitarmi,» disse convinto, lo
sguardo che ancora vagava in giro, fin troppo curioso.
«Vedi di non pensare sempre a come sdebitarti e inizia a togliere la tua roba
dalla borsa. Metterai le tue maglie e i tuoi pantaloni nei cassetti di mia
moglie,» feci, incurante di quello che avevo appena detto, e gli diedi le
spalle per poter fare uno sbadiglio. Voltandomi nuovamente, vidi Castelli
essere diventato un pezzo di ghiaccio, quasi avesse visto un fantasma.
«Come…mio padre mi ha detto che lei era single».
Cos’è, quando era nervoso o scioccato, usava il “lei”? O andava a caso?
«Sì, scusami, ho sbagliato termine. La mia ex-moglie».
«Ma non mi ha nemmeno detto che ha divorziato».
«Beh, perché non gliel’ho detto».
«E perché non gliel’ha detto?»
Mentre faceva domande a raffica, lo conducevo con piccoli cenni in camera mia.
Andai velocemente ad alzare la serranda ché, addormentato com’ero, mi ero
scordato di fare un po’ di luce in quella camera.
«Perché non me l’ha chiesto,» conclusi, con un tono che non ammetteva repliche,
e quello, dopo aver inclinato la testa di lato, aprì titubante il cassetto che
gli avevo indicato e iniziò a riempirlo con la roba che tirava fuori con
cautela dalla borsa.
«Allora…io dormirò sul divano?» chiese quindi, le
maglie sistemate ordinatamente a seconda del colore. Notai che era ordinato
almeno il doppio di April.
«Nient’affatto. La stanza accanto la uso come ufficio, ma tengo un letto per
precauzione. Di solito ci dorme mia sorella quando viene a trovarmi, ma puoi
tranquillamente usufruirne.»
Alla mia risposta, adottò uno sguardo divertito, forse per i miei termini poco
usuali con cui a volte infarcivo le frasi. Dopodiché disse un “Grazie mille”,
chiuse il cassetto e andò a dare un’occhiata alla stanza accanto.
---
«Non sembra la casa di un insegnante di lettere,» commentò quando mi raggiunse
in cucina.
«Cosa ti aspettavi, i versi di Dante come carta da parati?» chiesi ironico
mentre giravo con un cucchiaio di legno la pancetta che scricchiolava nel
pentolino. Lui fece un risolino particolarmente melodioso e che, notai, non mi
diede fastidio. Probabilmente era uno dei pochi suoni che non mi facevano
aggrottare spaventosamente le sopracciglia. Molte volte avevo pensato al fatto
che avrei dovuto nascere in un mondo silenzioso o pieno della musica chepiaceva solo a me. Quella che ti fa sembrare
tutto più leggero, anche solo per tre o quattro minuti, quella che sembra
risanarti l’anima, quella che ti porta in un posto migliore. Ma è ormai
risaputo, una canzone non salva la vita e dà solo l’impressione di renderla
migliore.
«Qualcosa del genere,» disse ridacchiando ancora e, automaticamente, venne da
sorridere anche a me, così dal nulla. Mi accorsi poi di come il suo sguardo
puntasse il paniere strabordante di pane.
«Chissà di chi è la colpa,» dissi allora tornando con lo sguardo sulla
pancetta. Quello adesso fece una risatina controllata, quasi si stesse
vergognando.
«Pensavo ti piacessero le rosette…»
«Ma non hai ancora capito che ti stavo prendendo in giro quando l’ho detto?
Adesso finirà per diventare duro e immangiabile,» dissi scuotendo la testa.
«Quindi mi darai da mangiare solo pane e acqua?»
Pensavo lo stesse dicendo per canzonarmi un po’ o per farsi una risata, ma il
tono e l’espressione erano piuttosto seri: si vede che non aveva idea di
quand’è che doveva prendere qualcosa sullo scherzo e quando invece si trattava
di una questione seria.
«In realtà la pasta alla carbonara è quasi pronta, ma se vuoi mangiare pane e
acqua, accomodati pure,» risposi alzando le spalle, poi sollevai il coperchio
della pentola grande per fargli vedere gli spaghetti ormai cotti.
«Ah! La pasta al bicarbonato è la mia preferita!» esclamò contento, e andò a
prendere uno dei due piatti che avevo messo sul tavolo apparecchiato poco
prima, mentre lui disfaceva la borsa.
«Bicarbonato?» chiesi io confuso e infastidito allo stesso tempo, e intanto
scolavo la pasta nel lavandino.
«So come si chiama, non sono stupido. Solo che da piccolo la chiamavo così e ho
tenuto l’abitudine,» mi spiegò, e fece un largo sorriso quando finalmente ebbe
la sua porzione di pasta al bicarbonato. Lo guardai mentre prendeva posto al
tavolo e annusava poco educatamente la pasta, la mano già sulla forchetta, la
lingua che leccava leggermente le labbra, e mi chiesi se quello fosse lo stesso
ragazzo di cui parlava Bruno Castelli. Suo padre aveva descritto quella figura
allegra e sorridente in maniera completamente opposta, e mi dissi che magari
aveva un lato oscuro che ancora non s’era premurato di mostrarmi, come un po’
tutti, d’altronde.
Riempii anche il mio piatto, misi due pagnotte al centro del tavolo e mi
accomodai di fronte a lui. Gli dissi che se voleva, il telecomando era sul
mobile accanto alla televisione e poteva accendere la tv e guardare quello che
gli andava. Lui ribatté di non potersi prendere tutte quelle libertà in casa di
uno sconosciuto –perché in effetti, io e quel tipo eravamo praticamente due sconosciuti.
Mi chiedevo come suo padre si fidasse a mandarlo in casa di uno sconosciuto. Che
fosse la mia faccia fiacca ad ispirare fiducia?
Ma comunque, nonostante avesse detto di non volersi prendere certe libertà, il
momento dopo stava già cercando un canale sulla mia televisione e, quando la
trovò, fece una faccia soddisfatta.
«Va bene MTV? Ti dà fastidio la musica?»
«Sono altre le cose che mi danno fastidio,» ammisi sorridendo alla pasta e
godendomi qualunque tipo di canzone stesse riempiendo la cucina. Rimanemmo in
silenzio per un po’, ognuno concentrato sul proprio piatto, finché non
riconobbi le prime note di una canzone e alzai lo sguardo verso la televisione,
notando che Castelli la stava già guardando. Sospirai e chiusi leggermente gli
occhi quando la melodia quasi mistica di Charlie Brown
dei Coldplay mi entrò nel cervello quasi
trascinandomi su un altro pianeta.
«Ti piacciono i Coldplay?» mi chiese lui quando notò
la mia espressione da ebete. Tornato alla realtà, tentai di ricompormi, e bevvi
un po’ d’acqua.
«Credo sia il mio gruppo preferito,» ammisi, anche se subito mi comparve
davanti agli occhi un’immagine dei Take That, tutta
evanescente, come quella dei poster che avevo da ragazzino.
«Allora ascolti musica giovane,» mi schernì quello con il mento appoggiato sul
palmo della mano, e io alzai gli occhi al cielo.
«Se la musica è bella la ascolto, punto,» dichiarai, un altro sorso nervoso
d’acqua. L’altro rise e disse un “va bene, va bene” arrendevole per poi tornare
a guardare la televisione, una forchettata di spaghetti vicino alla bocca. Poi,
neanche a farlo apposta, un ex membro dei Take That
fece la sua comparsa in televisione. Mangiai un po’ di pasta, poi dissi: «Questa
è vecchiotta,» senza notare subito lo sguardo rapito che aveva adottato
Castelli, le labbra che si muovevano seguendo il testo di “She’s
the one” di Robbie Williams. I suoi occhi trasparenti
sembravano seguire ogni movimento del cantante, e la forchetta era rimasta nel piatto,
e ci rimase per gran parte della canzone.
«Cos’è, sei innamorato di questa canzone?» chiesi leggermente divertito.
«No, non è la canzone…» e distolse lo sguardo per poi
mettersi imbarazzato una mano dietro la nuca. «E’ Robbie che mi piace. Ho sempre
avuto una piccola cotta per lui, mi incanto sempre quando esce in televisione,»
aggiunse, di nuovo con quel tono di vergogna. Non aveva tutti i torti, anche a
me, quando avevo la sua età, piacevano particolarmente i Duran Duran, per esempio, e me ne vergognavo, perché la loro
musica era un po’ precedente al mio anno, e loro erano piuttosto grandicelli.
«Spero di non dovermi fare strane idee…» dissi
guardandolo di sottecchi, e lui fece una risata del tutto sforzata grattandosi
insistentemente l’orecchio. Poi tornò a mangiare con voracità senza più buttare
sguardi alla televisione. Mentre mangiavamo, pensai di doverlo mettere al
corrente dei miei piani per quella sera, così a sfregio. Poi, a seconda della
sua risposta, avrei agito di conseguenza.
«Ascolta… Stasera dovrei andare alla festa di
compleanno di un mio caro amico,» iniziai, anche se a dirla tutta Giulio lo
conoscevo giusto da qualche giorno. «e, dato che non mi fido ancora alasciarti solo a casa…»
«Sei molto schietto,» rise lui interrompendomi.
«Sì, dicevo…Ti dispiacerebbe venire con me? Torneremo
molto presto, perché domani mattina dovresti avere lezione».
«Anche tu,» puntualizzò lui.
«Sì. Hai lezione con me. Quindi ci ritireremo verso le dieci. Ti va?»
Sembrava quasi che stessi dando il primo appuntamento a una liceale. Lui annuì
dopo aver sbirciato attraverso un ciuffo di capelli chiari che gli cadeva sulla
fronte.
«Certo. Tutto quello che vuoi,» rispose sorridendo, le labbra sporche di uova.
Scossi la testa, gli passai un fazzoletto di carta e gli suggerii di pulirsi, e
mi venne da ridere quando assistetti al suo modo buffo di pulire via lo sporco
dalla bocca.
Dopo mangiato, mi raccomandò di sedermi comodo sul divano, perché avrebbe
pensato lui a sistemare la cucina. Chiese se poteva utilizzare la lavastoviglie
o se aveva da lavare tutto a mano e io gli dissi che, purtroppo, la
lavastoviglie non funzionava da una settimana e che presto avrei chiamato
qualcuno a farla aggiustare. E quello, caparbiamente, mi disse che non vi erano
problemi e che ci avrebbe pensato lui. Sì alzò la manica destra fino alla
spalla e mi fece segno di andarmene dalla mia stessa cucina, quindi io,
perplesso, raggiunsi il divano in soggiorno e accesi la televisione. Era
sintonizzata su un canale radio-visione che stava mandando una canzone di cui
non sapevo il titolo ma che di certo avevo già sentito. Di tanto in tanto davo
un’occhiata in cucina e vedevo una camicia a quadri sovrastata da capelli di
cui non ero ancora riuscito a definire il colore muoversi a ritmo di musica, e
la scena mi divertiva a tal punto che non avrei cambiato canale per nulla al
mondo.
«Chi sono questi?» chiesi a voce alta, visto che il volume non era per nulla
basso.
«Non lo so, ma hanno un bell’aspetto,» fece l’altro mentre muoveva il
fondoschiena a destra e a sinistra e sciacquava i piatti.
«Do loro massimo sedici anni,» dissi tirando a indovinare, il telecomando
ancora in mano.
«Credo che abbiano più o meno la mia età, invece,» rispose Castelli, e prese
pure a canticchiare piano. Alzai le spalle, ormai convinto di essere una frana
nell’indovinare l’età delle persone, e aspettai che finisse la canzone prima di
cambiare canale. In basso uscì la scritta: One
direction, e il nome della canzone che non ricordo, ma di sicuro nel video
musicale c’erano quei bambini che andavano in giro per Londra, su uno dei
tipici pullman rossi.
Castelli canticchiava ancora per conto suo, il rumore dell’acqua che per poco
non copriva la sua voce, un piede che teneva il tempo. Pensai che, cavolo, una
specie di sguattero canterino non sarebbe stato niente male. Almeno io avrei
pensato al mio lavoro e Castelli si sarebbe occupato della casa, oltre che
dello studio, dello sport, dei litigi con la famiglia e dei sentimenti feriti
della povera ragazza cieca. Per non parlare di quel Damiano, che l’avrebbe
preso a pugni seduta stante. Eh sì, ero proprio un uomo impegnato, io.
---
Per tutto il pomeriggio, Castelli se ne stette a riordinare a modo suo la
scrivania che si trovava davanti a quello che adesso era il suo letto e navigò
per un’oretta su internet. Non mi venne da dirgli nulla sulla scrivania, tanto
la usavo poco, di solito lavoravo sul tavolo in salotto. E comunque, ordinata
in quel modo, sembrava anche più bella, più guardabile.
Per le 20 si mise ai fornelli dopo avermi chiesto un grembiule o qualcosa del
genere in prestito.
«Sei serio?» gli chiesi, minacciando di scoppiare a ridere. Quello mi lanciò
uno sguardo offeso, poi disse: “Posso anche farne a meno” e, con grande
disinvoltura, iniziò a spaccare uova in padella. Non sapevo se fosse una buona
cosa mangiare uova a pranzo e a cena. Alzai le spalle e, mentre quello era
impegnato sui fornelli, frugai in uno dei cassetti e gli lanciai su una spalla
un vecchio grembiule di April tentando di non ridere.
Lui se lo allacciò al collo velocemente, poi disse “Lascia fare a me” e mi
cacciò nuovamente dalla cucina, continuando a cucinare quelle che sembravano
essere omelettes.
Non ci mise molto e, quando lo sentii trafficare con piattini e bicchieri mi
resi conto che aveva già apparecchiato la tavola, con le omelettes
nel piatto e l’insalata al centro. Ma in quel momento suonò il campanello e io,
che me ne stavo a leggere la lezione che avrei dovuto presentare il giorno
dopo, andai ad aprire di malavoglia, come al solito.
Sulla soglia vi era l’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere.
«L’ho trovata, professore. Dove ha nascosto Valerio?» Fabio Martone
entrò prepotentemente in casa senza preavviso, lo sguardo che puntava
dappertutto tranne che sulla mia persona. Lo trattenni istintivamente dal
braccio: non sopportavo la gente che si intrufolava in casa senza il mio
permesso.
«Cosa desideri?» gli chiesi con finta gentilezza, il nervoso che già mi montava
dentro.
«Valerio sta qui, vero?» fece quello, che adesso s’era convinto ad alzare lo
sguardo su di me, quello sguardo inspiegabilmente carico di rabbia. E ancora
volevo capire che diavolo avessi fatto perché mi trattasse a quel modo. Feci
per rispondergli col suo stesso tono di voce, ma Castelli fece capolino dalla
cucina.
«Fabio? Che ci fai qua?»
Domanda legittima, ma che non adottasse quello sguardo quasi fosse caduto dal
pero. Quasi fosse normale presentarsi a casa degli insegnanti all’ora di cena
ed entrare in casa loro sbraitando. Martone si liberò
dalla mia stretta, poi si fiondò sul biondo e lo abbracciò, come commosso.
«Oh, Vale! Sapevo che ti avrei trovato in questo postaccio!» si sciolse
dall’abbraccio e gli premette affettuosamente le guance. Poi guardò il suo
abbigliamento e storse il naso. «Che è quella roba che hai addosso? Vieni,
andiamocene,» dopo avergli stropicciato per bene il grembiule, lo prese per
mano e lo tirò verso la porta, nonostante Castelli facesse resistenza ma, prima
che potessero raggiungerla, la chiusi e mi ci misi davanti. «Che sta facendo?»
sibilò Martone, gli occhi pungenti come spilli.
«Non posso lasciare che tu lo porta via,» dissi secco, il mento alzato nella
sua direzione.
«E perché mai?» adesso quel tipo aveva preso a braccetto l’amico stringendoselo
possessivamente contro il fianco.
«Perché il ragazzo è sotto la mia responsabilità,» risposi, sottolineando il
“mia”.
«Responsabilità un corno,» ribatté quello con disprezzo, poi si rivolse a
Castelli. «Fosse per lui, ti lascerebbe andare, ma tiene troppo ai soldacci di tuo padre».
Lo guardai male, malissimo. Quel mio studente non mi andava per nulla a genio.
«Non penso sia solo per quello,» intervenne quindi Castelli, lo sguardo rivolto
verso di me. «Andrea ha una dote naturale nell’aiutare la gente,» aggiunse
tranquillamente. Okay, ora mi chiamava anche per nome? Cos’ero, uno dei suoi
amichetti psicotici? Quando Martone glielo sentì
pronunciare, strinse gli occhi sin quasi a chiuderli e digrignò rumorosamente i
denti: sembrava una bestia pronta a sferrare un attacco.
«Con questo vuoi dire che non dormirai da me stanotte?» chiese quindi conferma,
il tono decisamente più morbido quando si rivolgeva all’amico.
«Già. Per una settimana soggiornerò qui,» rispose Castelli, quasi fosse roba da
nulla.
«Una settimana?! Ma è tantissimo!» piagnucolò il moro abbracciando l’altro, in
una scena da vomito. «Ma mi raccomando! Domenica prossima torni da me. E vieni
a trovarmi in questi giorni. Spero che Andrea…» e
calcò il nome guardandomi di sottecchi. «ti tratti come si deve. Ciao, Vale».
«Ciao Fa, a domani». Martone lo baciò sulle guance e Valerio ricambiò con
una pacca poco convinta sulla spalla, poi lo lasciò andare e tirò un lungo
sospiro.
«Andiamo, ché le omelettes saranno già fredde,» disse
quasi sconsolato, le braccia che ciondolavano ai lati del corpo.
«E’ un’abitudine per lui comportarsi così?» chiesi mentre andavo a prendere
posto: come mi aspettavo, la tavola era apparecchiataalla perfezione.
«Assolutamente. Non ti stupire, è così come lo vedi: ha due facce».
«Ho notato. Con te fa lo smielato e con me l’irrispettoso. Non vorrei
sbagliarmi, ma mi pare particolarmente geloso,» avanzai la mia palese ipotesi
mentre assaggiavo un boccone di omelette: era ottima.
«Sì, lo fa con tutti coloro che provano ad avvicinarsi a me. E’ anche per
questo che non strabordo di amici. Cercava di tenere lontana persino Laura».
«La ragazza non vedente?»
«Sì, lei. E ora si sarà fatto qualche strana idea anche su di te, nonostante tu
sia il nostro insegnante,» spiegò a bocca piena, ma con il polso davanti alle
labbra.
«Beh, visto che sai com’è fatto, avresti potuto evitare di chiamarmi per nome
davanti a lui, ti pare?» gli feci notare, l’orologio che scoccava le 20 e 30.
«E perché? E’ un così bel nome. Ti dà fastidio?» adesso si era fermato e mi
osservava tra le ciglia con gli occhi tra il grigio e l’azzurro che aspettavano
una risposta. Stavo per dirgli che sì, in effetti quell’improvvisa confidenza
era piuttosto opprimente, ma ad un tratto mi accorsi che non riuscivo più ad
essere cattivo con lui.
«…Ma no.» risposi infine; lasciai passare qualche
minuto, poi mi congratulai per l’ottima cena, e mi sembrò che nascondesse il
viso paonazzo.
Chi li capisce, i giovani d’oggi.
---
Quinto capitolo :3 Valerio e Andrea amano
entrambi guardare canali musicali, perciò ho inserito tre canzoni: Charlie BrownbyColdplay
(una canzone che sembra venire da un altro mondo per quanto è bella), She’s the oneby
Robbie Williams (un uomo che mi agita considerevolmente le ovaie), OneThingbyOne Direction (perché volevo mettere un Andrea che fa
sempre cilecca riguardo l’età delle persone).
A questo giro, non ho inserito personaggi nuovi, e probabilmente non ne
inserirò neanche nel prossimo capitolo; dipende da quanto voglio farlo lungo.
Fabio Martone è normale sì o no? Io direi che è uno
che quando ha un’idea radicata in testa, non permette che qualcuno gliela
strappi via e la difende a tutti i costi. Contento lui.
Il grembiule di April ha una mucca Carolina disegnata
sopra, perché sì. <3
Ringrazio tanto Elena che è presa da questa storia, e sinceramente non so
neanche perché. Ma mi rende felicissima ogni giorno, thankyou, girl :3
Come gli avevo
premesso, verso le 21 portai il mio studente all’Olsen,
la Terra della Felicità. Il nome di quel locale m’aveva sempre ispirato, ma non
ero così sicuro che là dentro ci fosse solo felicità. E poi bisognava sempre
vedere che cosa si intendesse per “felicità”. Di sicuro c’erano un sacco di
angoli bui in cui la gente poteva fare cosacce: magari secondo Giusy era quella
la felicità.
Tirai un sospiro di sollievo quando entrai nel locale e lo trovai più
illuminato del solito, gli angoli bui che non erano poi così bui, le persone
che s’ammassavano l’una sull’altra, ossigeno quasi inesistente. Quella sera l’Olsen sembrava aver fatto il pieno, nonostante fosse ancora
relativamente presto. I numerosi faretti colorati mi permettevano di intravedere
uno striscione al centro della stanza con scritto “Auguri” e una pila di
pacchettini posizionata in bilico su uno dei tavoli tondi e neri.
Fortunatamente, erano tutti indaffarati a preparare la sorpresa di Giulio,
quindi non vi era alcuna scena che si potesse avvicinare allo sconcio. Anzi, il
bar aveva le sembianze di un normalissimo localino in centro aperto fino alla mezzanotte.
Quando mi voltai a guardare Castelli che mi stava dietro, lo vidi ammirare il
locale con occhi meravigliati e che cambiavano colore a seconda della luce che
li colpiva.
«Che figata questo posto,» commentò, un sorriso di
stupore sul volto.
«Sì…forse un po’ piccolo,» dissi io tentando di non
perderlo d’occhio. Quasi non ci si riusciva a muovere, tra la gente, figuriamoci
farsi spazio per arrivare la bancone. Fu per quel motivo che Castelli afferrò
tra pollice e indice un lembo della mia camicia e lo tenne stretto durante il
tragitto.
«Beh, nella botte piccola c’è il vino buono,» urlò quindi, per sovrastare il
vociare della gente. Assentii col capo e procedetti, la gente che mi urtava
senza chiedere scusa, mentre Castelli, se calpestava anche solo mezzo piede,
iniziava a piagnucolare una serie infinita di scuse. Dio, che seccatura.
Fortuna che il locale era piccolo e raggiungemmo il bancone in tempo
relativamente breve: Giusy e il collega Ascanio erano
entrambi piegati su quella che sembrava una grossa torta, e la mia amica
armeggiava con un aggeggio per spremere panna o cioccolato, mentre l’altro
tentava di infilare una candelina che raffigurava un grosso “30”.
«Ciao Giusy. Hai bisogno di una mano?» chiesi cauto, il gomito di una tizia tra
le costole.
«Se fossi capace di scrivere sulle torte, mi faresti un enorme favore!» rispose
lei, del tutto agitata, probabilmente infastidita dalla mia domanda da Mister
ovvietà.
«Fammi provare,» proposi, e Giusy, spazientita e madida di sudore sulla fronte,
mi passò lo strumento morbido. «Cosa devo scrivere?»
«”Auguri psico…patico”,» sillabò Giusy, e io iniziai
incerto a premere il cioccolato, ma quello si concentrò tutto in un punto, e mi
sentii di aver appena combinato un disastro. «Oh, porc-»
imprecai. A quel punto, Castelli mi prese lo strumento dalle mani e si avvicinò
lui stesso alla torta.
«Fa’ provare a me,» disse scacciandomi con la mano, proprio come faceva quando
doveva cucinare o sparecchiare e non voleva gente tra i piedi. Si piegò e
iniziò a spremere il cioccolato con precisione, trasformando il mio errore di
poco prima in una stella. Con una scrittura più o meno elegante, completò il
messaggio sulla torta e poi ci guardò uno per uno e ci chiese se andasse bene.
«Ci chiedi se va bene?! E’ splendido! Hai le mani d’oro! Ma chi sei? Non ti ho
mai visto,» esclamò Giusy, poi vide che io stavo strabuzzando gli occhi e le
facevo segnali con la mano, e quella capì al volo. «Ah, sì, tu devi essere
Valerio. Ti chiami Valerio, giusto? Il mio amico ci ha parlato di te».
«Davvero? Mi fa piacere,» disse lui con un sorriso che gli lasciava le fossette
sulle guance, poi si presentò ai due baristi stringendo loro la mano.
«Anche il festeggiato vuole conoscerti,» continuò la mia amica con enfasi, io
che alzavo gli occhi al cielo.
«E dov’è?»
«Deve ancora arrivare. E’ una festa a sorpresa,» gli confidò, come se quello
già non lo sapesse, e gli fece l’occhiolino, il mascara che brillava
esageratamente. Guardai l’orologio e dissi che se Giulio non fosse arrivato
entro le 22, non ci avrebbe trovato, perché l’indomani avrei dovuto svegliarmi
molto presto. Ma quello, con sommo tempismo, fece il suo ingresso giusto
qualche minuto dopo. Non appena mise piede nel locale, coriandoli bianchi
seguiti da un paio di rumori forti simili a scoppi gli ricoprirono
completamente la testa e i faretti colorati illuminarono gli invitati, che
urlarono all’unisono un eccitato “Sorpresa!”. Giulio sorrise e scosse la testa,
non solo per togliersi i coriandoli di dosso.
«Non vi nascondo che me l’aspettavo,» ammise con un sorriso bonario.
«Non c’è gusto con te!» protestò una sua amica in fondo alla stanza provocando
le risate generali.
«Ma scommetto che questa non te l’aspettavi,» esclamò Giusy facendosi largo tra
la gente mentre teneva in bilico su una mano il vassoio che reggeva la grossa
torta.
«Non ci credo! E’ con la pasta alle mandorle?» chiese Giulio con gli occhi che
luccicavano, come quelli di un bambino che ha ricevuto il suo primo Power Ranger sotto l’albero di Natale.
«Certo che sì. L’abbiamo fatta in comunità,» rispose l’altra col suo solito
sorriso fresco e genuino, e prese il vassoio con entrambe le mani quando
dovette avvicinarla al festeggiato per permettergli di soffiare sulla
candelina. Ascanio, ancora dietro il bancone, stappò
un paio di bottiglie di spumante e iniziò a riempire alcuni bicchieri stretti e
lunghi che, pensai, dovevano essere flûtes, e chiamò
a gran voce Castelli con un “Ehi, tu!”, nonostante fosse a pochi metri da lui.
Il volume della musica sembrava aumentare gradualmente. Il mio studente si
sentì chiamare e s’avvicinò al bancone, si fece sussurrare qualcosa nell’orecchio
e annuì per poi prendere un po’ di bicchieri e distribuirli in giro. Forse
erano a corto di personale. Con un “Prego” o un “Ecco a te”, passò i bicchieri
a coloro che aveva di fronte, tra cui spuntò anche Giulio.
«Ehi,» fece quest’ultimo quando intercettò Castelli, il tono particolarmente
interessato. «Anche tu hai partecipato all’organizzazione della festa?» chiese
quindi, e io cercai di districarmi dalla folla per poter almeno sentire metà di
quello che si dicevano.
«Beh…solo la scritta sulla torta è opera mia,»
rispose quello, l’espressione del pesce fuor d’acqua. Giulio trattenne una
risatina a quella reazione così buffa.
«Ma chi sei? Io non ti conosco,» disse quindi, gli occhiali che sembravano
scivolare piano sul naso.
«Sono una specie di imbucato. Sono venuto con lui, e…»
dopo che mi ebbe indicato, Giulio finalmente realizzò e mise una mano pesante
sulla spalla di Castelli.
«Ah! Valerio! Piacere, io sono Giulio. Allora tu sei il famoso coinquilino,» si
presentò con una veloce –praticamente inesistente- stretta di mano.
«Ma…sono davvero così famoso?» fece l’altro, il tono
divertito.
«In realtà no, ma il nostro Andrea era così nervoso di averti in casa che lo
sei diventato».
A quel punto allungai il collo e intervenni nella conversazione, ché mi
infastidiva alquanto se si parlava di me e io ero pure presente. Un’altra cosa
che mi infastidisce.
«Non esagerare adesso,» dissi con falsa modestia e Giulio, in tutta risposta,
mi rivolse un sorriso.
«Grazie per gli auguri,» fece ironico, con Castelli che spostava lo sguardo
dall’uno all’altro, quasi per capire che tipo di relazione ci fosse tra noi
due.
«Ah, è vero. Buon compleanno,» feci, veramente per nulla dispiaciuto. Che
diavolo me ne importava, chi lo conosceva.
«Sì, certo. Comunque, caro Valerio, divertiti. Io mi butto nella mischia. Anzi,
perché non vieni con me?» propose il festeggiato e, senza aspettare una
risposta da parte del biondo, se lo trascinò dietro immergendosi nella folla
che già iniziava a scatenarsi a ritmo di musica. Avevo tentato di fermarli, ma
non c’era stato verso. Bene, prima serata e mi sono già perso il ragazzo,
pensai con le mani nei capelli. Mi guardai intorno in cerca di uno spiraglio
attraverso cui passare, e il risultato fu quello di intravedere una tizia con
la pelle scura e una parrucca lunga e verde fosforescente che ballava con un
tizio con gli occhiali da sole –perché là dentro il sole spaccava le pietre,
decisamente- mentre un’altra tipa coi capelli corti e scuri sparafleshati
dalle luci psichedeliche si strusciava contro di lei, da dietro. E mi sembrava
di assistere a un video musicale di NickiMinaj. Ed era preoccupante se riuscivo a ricordarmi quel
nome impossibile di quella cantante che, davvero, non era proprio fatta per
quelli della mia età.
Tirai un lungo sospiro e decisi di rimboccarmi le maniche e di spingere un po’
di gente. Che tanto loro non erano gentili con me, perché avrei dovuto esserlo
io con loro? Ma ancor prima che riuscissi a muovermi, sentii la spalla destra
sprofondare, quasi qualcuno ci si fosse appoggiato a peso morto. Mi voltai, e
trovai una completa sconosciuta, le labbra lucide, il fiato alcolico, gli occhi
che faticavano a rimanere aperti, come anche le gambe che faticavano a reggerla
in piedi. Già ubriaca. Come poteva anche solo essere possibile? I casi umani li
trovavo tutti io, tutti.
«Ascolta, sei tu il proprietario di quel gioiellino che gira inerme per il
locale?» mi chiese, le parole che si capivano a fatica, la testa ciondolante.
Fortuna che teneva i capelli legati in una coda alta, altrimenti a quell’ora se
li sarebbe ritrovati sparsi in faccia.
«Di chi sta parlando?» feci io, anche se mi sarei fatto volentieri ripetere la
domanda.
«Di quel bambino, quello coi capelli chiari. Mi ci sono innamorata, un colpo di
fulmine. Me lo presteresti per una notte? Te lo riporto, lo giuro».
La guardai male, malissimo –era un mio hobby- quando realizzai che poteva
benissimo avere la mia età e si era ridotta in quello stato, a fare la pedofila.
«Mi dispiace, dovrà cercarsi un altro giocattolo,» le risposi tagliando corto,
ché in teoria non avrei dovuto calcolarla dall’inizio, poi me la scrollai poco
carinamente di dosso e ripresi a cercare Castelli. Erano già quasi le dieci, e
la mia puntualità svizzera stava per andare a farsi fottere. In mezzo alla
gente festante individuai Giusy, che chiacchierava allegramente con due tizie
con la cresta.
«Giu, hai visto il mio studente?» le urlai
sovrastando a fatica la musica.
«Sì, l’ho visto passare poco fa, ma non credo lo troverai più. Se lo stavano
divorando,» gridò lei a sua volta, le due tipe con la cresta già inghiottite
dalla folla. Il terrore puro s’impadronì dei miei occhi.
«Come, cosa?! E da che parte è andato?» domandai, agitato come poche volte lo
ero stato.
«Verso i divanetti, credo».
Non appena mi diede l’informazione, mi diressi a passo spedito verso la
direzione indicata, incurante delle spallate che ricevevo seguite da insulti
poco carini. Poi lo vidi, un ciuffo familiare di capelli che spuntava da uno
dei divanetti a due posti. Feci il giro per poter avere la visuale completa, e
mi maledissi di non essere rimasto a casa a guardare un fottuto programma
musicale: seduti sul divano se ne stavano Castelli al centro, Giulio alla
destra e un altro tipo strano alla sua sinistra. Tutti e due erano pressati sui
fianchi del mio studente e gli passavano le mani sui capelli e sul viso, le
labbra che si muovevano davanti alle sue orecchie tinte di rosso. Sul tavolo di
fronte troneggiavano cinque bicchieri di spumante vuoti e non ci voleva chissà
quale scienziato per dedurre che li avevano fatti bere tutti e cinque a
Castelli. Subito mi allungai su di loro, e tirai con forza il mio allievo dal
polso, facendo quasi scontrare gli altri due. Questo dimostrava quando fossero
letteralmente appoggiati a Valerio.
«Che diavolo fai?!» feci del tutto fuori di me rivolto a Giulio, le dita del
mio alunno che si stringevano debolmente sulla manica della mia camicia mentre
lo reggevo con un braccio dietro la schiena.
«E dai, è il mio compleanno, dovresti accontentarmi,» rispose lui, che
sicuramente aveva qualcosa di strano negli occhi lucidi, nelle palpebre calanti
e negli occhiali storti sulla faccia.
«Non dire stronzate. Se ci riprovi, per te è finita,» dissi drastico,
innervosito ulteriormente dalla sua risposta data così alla leggera.
«Diavolo. Te la sei davvero presa così tanto?»
Finalmente sembrava rendersi conto della rabbia che mi montava dentro.
«Esatto. Il ragazzo è sotto la mia responsabilità, quindi metti conto che sia
di mia proprietà. E tu non ridere, idiota,» rivolsi l’ultima frase acida
all’amico di Giulio che sghignazzava come un animale. «Adesso ce ne andiamo, ti
saluto. E tanti auguri,» questa volta lo dissi con disprezzo e delusione.
Dopodiché rimisi in piedi il mio alunno, che guardava in aria con sguardo
confuso, simile a quello che aveva quando quel famoso tram stava per metterlo
sotto. Sarà stato il suo sguardo da shock. Me lo trascinai dietro per un po’
poi, per facilitarmi le cose e per avere qualche agevolazione, me lo caricai in
spalle con non poco sforzo e ordinai alla gente di fare largo, ché avevo un
ragazzo svenuto sulla schiena. Non che fosse realmente svenuto, era giusto per
crearmi un varco, che non tardò infatti ad aprirsi.
Fortunatamente, questa volta avevo parcheggiato la macchina non troppo lontano
dal locale, e non mi ci volle molto per raggiungerla, aprirla e adagiare
Castelli sui sedili posteriori. Mi misi al posto di guida imprecando piano.
«Giornata pessima, pessima».
---
Arrivati a casa, aiutai il ragazzo a sedersi sul divano. Era sveglio e sembrava
capire quello che gli succedeva intorno, ma forse gli alcolici avevano colpito
le sue articolazioni, e quindi gli risultava difficile tenersi in piedi.
«Come ti senti?» gli chiesi piegandomi su di lui.
«Bene, non si preoccupi,» rispose quello, la faccia un po’ pallida, ma che
tutto sommato non aveva un brutto aspetto. Quel tipo sembrava non essere capace
di aver un brutto aspetto.
«No che non stai bene, se mi dai del “lei”,» tentai di sdrammatizzare, e a
quanto pare ci ero riuscito.
«Sì, sembra strano anche a me darti del lei,» sorrise, e mi fece spazio per
sedermi accanto a lui.
«Ascolta…Ti devo le mie scuse. Non immaginavo che ci
sarebbero stati certi risvolti,» dissi col mio raro tono mortificato, la testa
leggermente bassa, mentre quello aveva gli occhi che sorridevano.
«Ma no, non importa. Però avresti dovuto dirmi che il festeggiato era gay,» mi
rimproverò quindi.
«Veramente…l’intero locale è gay,»
«E tu frequenti un locale gay?»
«Solo per poter frequentare Giusy,»
«Che è gay».
«No che non lo è!»
«Ah, mi sembrava». Facemmo uno scambio velocissimo di battute, finché il tutto
non si spense. Seguirono attimi di lungo e impaziente silenzio, perché sentivo
che non era finita qui, Castelli stava per dire qualcos’altro, ma sembrava non
essere sicuro di volerlo dire. Allora io aspettavo, finché lui non girò gli
occhi languidi su di me e poi sui propri jeans sbiaditi. «Io sono gay».
Lo stomaco mi si contorse, gli occhi si spalancarono, sorpresi, la gola
deglutì. Che stava dicendo? Tentai di salvare il tutto in extremis buttandola
sul ridere.
«No che non lo sei, hai solo bevuto troppo,» feci col sorriso forzato, ma
quello mi puntò, gli occhi che sembravano aver preso una sfumatura più scura,
le labbra strette.
«Non era una domanda. Io sono gay, punto,» disse spudoratamente. Non è che
pensava di essersi preso una sbandata per Giulio, in quei dieci minuti che
aveva passato con lui? Mi misi una mano in fronte, e pensai che probabilmente
la sua lingua si muoveva a sproposito per l’alcol che aveva ingerito. Allora lo
presi con cautela dal gomito per farlo mettere in piedi.
«Dai, adesso basta vaneggiare, vai a dormi-»
«E ho una cotta per te,» dichiarò a quel punto, prendendomi del tutto alla
sprovvista. Mi fermai con ancora la mano stretta sul suo gomito, lo sguardo fisso,
un Castelli di fronte a me che mi guardava con decisione e sfrontatezza, i
pugni e le labbra serrati.
«Hai una…cosa? Oh Dio,» feci con una mano sulla
fronte, la testa che negava. «Tu…hai solo bevuto
troppo,» ripetei, più per convincere me stesso. «Ora vai a letto,» aggiunsi, e
lo accompagnai verso la camera in fondo al corridoio tenendolo per il braccio.
«Ti dico che sono lucido,» mi informò lui una volta seduto sul letto, nel buio
della camera.
«Sì, ne sono convinto. Ora buona notte,» conclusi in fretta, e chiusi la porta
quasi sbattendola, poi andai a passo svelto in camera mia.
Vivere per inerzia non mi aveva mai agitato tanto. Che diavolo prendeva al mio
buon vecchio castello di carte? Perché non voleva starsene fermo, per Dio?
Perché continuava ad ondeggiare procurandomi il voltastomaco? Mi sembrava di
essere appena salito su una giostra, una di quelle montagne russe col giro della
morte. «Ho una cotta per te».
E con quello, la giostra s’era come messa in moto. Mi aveva detto una volta la
signora Rosaria: “La mia vita è stata
tanto intensa ed emozionante, che mi sono sentita sempre quasi fossi sulle
montagne russe. Può sembrarti strano, ma era quella la sensazione.” Allora
l’avevo trovato strano. Ma in quel momento dovevo ammettere che non lo era per
niente.
Che seccatura, le montagne russe. Che
seccatura.
---
Perdonate
le velleità di Giulio, in realtà è un uomo buono, io lo conosco bene ;_;
Quindi, Valerio dice le cose a cuore aperto perché deve ancora entrare
ufficialmente nel mondo degli adulti, e gli è rimasta questa cosa del non avere
peli sulla lingua, tipica dei bambini. Già che dice “Ho una cotta per te”.
Quand’è che si parla di cotta, alle elementari? XD Chissà quand’è che si renderà
conto di avere vent’anni, non dodici. Però è il mio bambino, sta bene così
<3
Andrea si infuria e torna calmo e si agita a random,
ormai è normale. Non proprio roba da tutti i giorni, ma normale. [Marialuce, è normale.]
Per Elena: no, Ascanio non è gay, è solo un tipo che
lavora lì con Giusy XD D’altra parte, manco Giusy è lesbica, è solo una big big gay supporter, un po’ come noi e come tutti coloro che
leggono la mia storia XD Come se fossero tanti lol
Va beh, ho finito. <3
Pensai
fino all’una di notte all’inaspettata confessione di Castelli, nel buio della
camera, gli occhi puntati sul soffitto nero, le coperte alzate sino al collo,
il sonno che non ne voleva sapere di avere il sopravvento su di me.
Ma che gli era saltato in mente, a quel tipo, santo cielo? Era perlomeno capace
di dare peso alle parole? Pensava un momento prima di parlare a vanvera?
Sicuramente la sua era stata un’azione avventata, accelerata dagli alcolici,
qualcosa che in condizioni di perfetta lucidità non avrebbe mai fatto. E quelle
erano solo… delle parole dette con leggerezza da ragazzini ancora ingenui. La voce di Bruno Castelli si fece spazio tra i miei pensieri e non potei
fare altro che dargli ragione: quelle erano solo parole vuote, senza
importanza. Perché avrei dovuto preoccuparmi per un paio di parole vuote dette
da un ragazzino disadattato? Non c’era un perché, e quello era tutto. Adesso mi
sarei girato su un fianco e mi sarei messo a dormire.
E molto probabilmente, ciò che aveva detto neanche lo pensava. Era che
quell’episodio dei due tizi che lo toccavano ovunque e gli sussurravano cose
sconce all’orecchio non l’aveva lasciato del tutto illeso, magari leggermente
traumatizzato fino a fargli avere certe convinzioni. E’ terribile quando
qualcuno riesce a inculcarti un’idea: difficilmente riesci a liberartene.
Quindi mi dissi che doveva essere andata per forza così, e rotolai su un
fianco, deciso a prendere sonno, una volta per tutte.
Che poi, non è che s’era fatto strane idee su di me solo perché ero andato tre
o quattro volte nel locale di Giusy? O perché avevo detto che mi piacevano i Coldplay? O perché sapevo cucinare la pasta alla carbonara?
O perché mi piacevano le rosette? Ma che diavolo c’entrava adesso? A una certa
ora della notte iniziavo decisamente a dare i numeri. E avevo voglia di fumare,
adesso. Fumare tre o quattro sigarette di seguito, fumare, fumare…poi
mi addormentai, di colpo.
---
Nonostante alla fine mi fossi auto convinto con le mie fantasiose argomentazioni,
la mattina dopo non riuscivo a guardare il ragazzo in faccia.
Quando raggiunsi la cucina ciabattando e sbadigliando, una mano che grattava
insistentemente la nuca, fui destato bruscamente da un allegro “Buongiorno!”.
Aprii per bene gli occhi e vidi il piccolo tavolo in cucina apparecchiato in
modo maniacale, pieno di leccornie che non sapevo nemmeno di avere, una tazza
girata al contrario lì dove ero solito sedermi io, una bustina di tè mollata
nella tazza di fronte alla mia. E davanti a quella tazza se ne stava un
Castelli con le braccia conserte che seguiva uno dei programmi stupidi su RealTime, il volume al minimo.
Ma che…dov’era finita la nutella? Lo sapevo che
quella stronza di April me l’aveva nascosta per non
farmi ingrassare. E adesso troneggiava lì in mezzo al tavolo, circondata da
biscotti, fette biscottate, un paio di merendine che chissà a quando
risalivano, la moka del caffè fumante, due tipi di zucchero, e poi la
marmellata e il cartone del latte e le bustine del tè. Ma che diavolo…?!
Senza rispondere al saluto del ragazzo, tornai spedito in camera mia, quasi
qualcuno mi stesse inseguendo, e iniziai a frugare nei cassetti come uno poco
sano di mente. Poi mi ricordai improvvisamente dov’è che le mettevo sempre, e
mi diedi uno schiaffetto in fronte: erano lì in bella vista sul comò, come
sempre. Presi le mie sigarette e tornai già più lentamente in cucina, per poi
uscire sul balcone.
«Tranquillo, stai ancora dormendo…» dissi a me stesso
mentre mi lasciavo andare sullo sdraio lì fuori e poi mi accendevo una
sigaretta. «Fumare nei sogni non fa male, ne devo approfittare,» aggiunsi poi,
ma la sensazione forte del fumo che colpiva i polmoni sembrava fin troppo vera.
Adagiai la schiena sulla sdraio, il sopracciglio destro che pulsava, gli occhi
chiusi e la guancia posata sulla mano aperta: non avevo mai visto nulla del
genere, neanche nei buffet degli hotel, come poteva non essere tutto frutto
della mia immaginazione?
Dovetti rassegnarmi che quella era la realtà e, dopo aver finito la sigaretta,
rientrai più rilassato e presi posto al tavolo, lo sguardo sulla tazza
capovolta.
«Latte, tè o caffè?» iniziò Valerio, le braccia ancora conserte e gli occhi
sorridenti. Ma che aveva quello, che si alzava di buonumore? Esisteva una sola
spiegazione: era un alieno.
«…Hai qualche problema serio?» domandai quindi
mollando il pacchetto stropicciato di sigarette sul tavolo. «Tu fai sempre
colazione così a casa tua?» aggiunsi indicando con la mano aperta la marea di
roba che occupava il tavolo.
«No, di solito bevo solo tè e biscotti. Ma avevo detto che in qualche modo mi
sarei sdebitato, ricordi?» rispose quello, e prese a stringere con il
cucchiaino la bustina nella sua tazza. Ancora con questa storia, per carità! E
poi bestemmiai nella mia testa. Mi coprii la bocca quasi avessi bestemmiato ad
alta voce, Dio che vergogna, poi sospirai e mi rassegnai per l’ennesima volta
in dieci minuti.
«Dove…dove hai trovato la nutella?» chiesi girando
l’etichetta del barattolo verso di me.
«Era nel mobile in balcone, dietro ai funghi e ai carciofi sott’aceto,» rispose
lui tranquillamente, e prese il suo primo sorso di tè. Sembrava stesse
aspettando me per iniziare a fare colazione. «Non pensavi di avercela?»
«No, è che April l’aveva nascosta da qualche parte e
io non ho mai avuto troppa voglia di mettermi a cercarla. Diceva che mi fa
ingrassare,» dissi con l’entusiasmo di un criceto morto, gli occhi che si
spostavano svogliati dal caffè al latte alle bustine di tè. Il ragazzo portò
nuovamente la tazza alle labbra, poi scosse la testa.
«Ma no, credo che tu possa permettertela,» disse con leggerezza, quasi a
volermi incoraggiare. «Non ti fa male un po’ di dolcezza prima di entrare in
aula,» aggiunse, il tono da mammina premurosa. Stavo per chiedergli chi diavolo
si credeva di essere per dirmi indirettamente che sono un acido col cuore di
pietra che ha bisogno di essere addolcito, ma ero troppo in coma per poter
reagire come si deve. E comunque, chi vive per inerzia, non ha neanche la
voglia di percepire i consigli spassionati, figuriamoci di reagire ad essi. Sospirai,
la voglia calpestata sotto ai piedi, poi presi una fetta biscottata e ci
spalmai sopra un bel po’ di nutella: Valerio non sapeva che io mangiavo già una
quantità considerevole di roba dolce. Mentre masticavo piano, quasi mi andò di
traverso quando quello se ne uscì con un:
«Bella serata ieri, eh?»
Tuttavia mi salvai con un solo colpo di tosse e risposi con “Mmh,” non sapendo se la sua domanda fosse ironica o meno.
Se lo era, allora si ricordava ogni particolare della sera prima. Se non lo
era, allora potevo sperare che le sue parole fossero state dette un po’ a caso,
sputate fuori da qualcuno che non regge l’alcol poi così bene. E mi dava
fastidio essere un insegnante di letteratura in quei momenti, perché, per
quanto cercassi di negarlo, davo sempre peso alle parole, che fossero dette
ridendo o piangendo. Pregavo come un idiota che mi desse un qualche segno che
mi facesse capire che la sera prima era ubriaco per davvero, ma quel segno non
arrivò, anzi, il ragazzo s’alzò tranquillamente dopo aver finito di bere il suo
tè e mi sorrise.
«Ti scoccia se vengo con te in macchina? Hai il permesso per parcheggiare
accanto all’università, no? Non mi va di prendere i mezzi pubblici,» disse, una
mano dietro la nuca. Ma come poteva anche solo pensare che avrei fatto da taxi
a un mio studen-
«No, non mi scoccia,» dissi lentamente senza neanche aver concluso il pensiero,
e diedi un altro morso alla fetta biscottata.
«Bene, allora ti aspetto di là». E se ne andò lasciandomi da solo col mio
cervello, che anche quella mattina non aveva voglia di mettersi in moto.
Una mezz’ora dopo eravamo in strada, lui tutto sorridente, io con l’umore a
zero come sempre, una sigaretta che mi pendeva dalle labbra, per niente sicuro
che il fumo non gli desse fastidio. Ma che me ne importava, avevo bisogno di
una tregua, i miei nervi erano a mille, e sapevo anche chi era che mi ci aveva
portato, su quelle dannate montagne russe.
«Che hai? Stai male?» mi chiese Castelli più volte dal sedile dal passeggero.
Ma stava scherzando? Si rendeva conto delle domande idiote che faceva? O faceva
il finto tonto, oppure non si ricordava davvero nulla della sera prima. Si
sperava. Anche se avrei voluto essere io quello dalla memoria corta.
«Mal di stomaco. Forse la nutella era scaduta,» inventai e quello, tutto
trafelato, frugò nello zaino, ché aveva una pillola contro il dolore che
funzionava a meraviglia. Rifiutai gentilmente, gli occhi che bruciavano, la
bocca che rideva dal nervoso. Pensai che era solo la mattina del secondo
giorno. In una settimana non può accadere nulla di male.
Nulla di male. Le ultime parole famose.
---
A fine lezione, Castelli venne a dirmi che in quelle due ore di spiegazione
s’era divertito moltissimo –non trovavo un senso logico alle sue parole, e
dovetti concludere nuovamente che quello lì fosse un alieno- e che gli
dispiaceva, ma non sarebbe venuto a pranzo perché doveva esercitarsi. Non mi
passò per la testa di chiedergli di che tipo di esercizio si trattasse; magari
andava a tirare su qualche peso in palestra così da poter almeno rimanere in
piedi nel caso gli arrivasse un pugno da parte di Damiano, o come si chiamava.
Mi feci la prima risata della giornata al pensiero di Valerio che tirava su
pesi, era davvero un’immagine buffa.
Fece ritorno a casa solo verso le sei di sera e, quando entrò col suo solito
sorriso sul bel faccino, mi chiesi dov’è che se ne andava a gironzolare, a
parte in palestra a tirare su pesi. Mi venne di nuovo da ridere, ma mi
trattenni, ché quello già mi guardava con due punti interrogativi al posto
degli occhi.
In quel momento mi squillò il cellulare, e io feci una corsetta per andare a
recuperarlo in bagno: forse l’avevo lasciato lì quando m’ero fatto la barba.
Era Giusy, voleva dirmi che Giulio le aveva raccontato del piccolo diverbio del
giorno prima all’Olsen e che adesso, sempre Giulio,
si sentiva talmente in colpa da non avere il coraggio di chiamarmi per
chiedermi scusa.
«E allora lo fai tu al posto suo?» chiesi, ancora piuttosto alterato. Bastava
il pensiero a tirarmi su il nervoso.
«No…Ma mi faceva così pena che, dopo averlo convinto,
gli ho dato il tuo indirizzo. Volevo avvisarti che sta venendo da te,» disse
quella, quasi fosse nulla, e io mi innervosii ulteriormente.
«Adesso?! Ma perché gliel’hai dato senza il mio permesso?»
Valerio mi guardava stranito, vedendo che stavo perdendo le staffe, e io gli
diedi le spalle, come se in quel modo non potesse ascoltare la conversazione.
«Vuole solo chiederti scusa! Non te la prendere per ogni cosa, Andrea!» esclamò
Giusy dall’altra parte, e sembrava davvero spazientita. E dovevi essere uno
bravo per riuscire a far alterare Giusy. Stetti un attimo in silenzio
respirando col naso, poi feci un lungo sospiro.
«E va bene, d’accordo. Grazie d’avermi avvisato,» feci, ormai rassegnato.
Sapevo rassegnarmi con la stessa velocità con cui mi saltavano i nervi. Stavo
per mettere giù quando lei mi richiamò.
«Andrea?»
«Dimmi».
«Tornerai nel mio locale?» chiese, con tono quasi supplichevole e leggermente
lamentoso. Ci pensai un attimo, tenendola un po’ sulle spine, le dita che
carezzavano il mento appena privato della barba.
«Non lo so. Ma sicuramente non porterò il ragazzo con me,» conclusi, col tono
più gentile che potessi usare, poi salutai e riattaccai.
«Cosa c’entro io?» mi chiese Castelli con una mano sul petto una volta che mi
fui voltato nella sua direzione. Aspetta, perché diavolo adesso era così
vicino?!
«Era Giusy, la proprietaria del locale in cui ti ho portato ieri. Le ho solo
detto che non ti porterò più là dentro,» dissi sbrigativo facendo lo slalom tra
lui e il tavolino in mezzo al salotto.
«Beh, ma non mi è successo nulla di male». Aha. Quell’espressione m’era fin troppo familiare, e
minacciava di rimbombarmi in testa ancora per un po’.
«Nulla di male?» ripetei con un sopracciglio alzato e quello, non
sapendo proprio cosa dire, se ne stette zitto, mentre io me ne andai nella
stanza accanto scuotendo la testa.
---
Un quarto d’ora dopo squillò il citofono e io aprii senza neanche rispondere,
risparmiandomi le cerimonie sul “Chi è?” “Sono Giulio il mangiatore di uomini”
“Oh, proprio non ti aspettavo, prego, accomodati, fa’ come se fossi a casa tua
e il mio studente fosse cosa tua”.
Ma l’uomo che mi comparve sulla soglia mi sembrava un po’ diverso da come lo
ricordavo, e il suo aspetto non era poi così minaccioso.
«Che hai…fatto ai capelli?» fu la mia domanda
spontanea. Infatti, il caratteristico ciuffo lungo e nero di Giulio era del
tutto sparito, e i capelli sopra e dietro erano stati drasticamente accorciati:
adesso aveva la tipica pettinatura a spazzola. Era curioso, perché mi resi
conto di non aver mai visto per davvero gli occhi o le sopracciglia di Giulio,
con quel ciuffo che si ritrovava: erano entrambi nerissimi, le ciglia lunghe e
folte.
«E’ il mio nuovo taglio da sfigato pentito,» disse quello con sguardo
dispiaciuto. Il suo…cosa? Oh, santo cielo, ma da
quando in qua la gente si taglia i capelli per il dispiacere? O a quanti anni
fa risale questa moda? Avevo un altro caso umano tra le mani, benissimo.
«Intendi farmi sentire in colpa a mia volta, adesso?» chiesi tentando di
ignorare il sopracciglio destro che pulsava. Al mio fianco comparve anche
Castelli: perché un solo caso umano non bastava.
«No…sono davvero dispiaciuto. Il fatto è che il mio
amico ieri sera m’ha dato una pastiglietta spacciandola per vitamine che mi ha
mandato fuori di testa,» spiegò torcendosi le mani.
«Vitamine? Ma sei stupido? Non ci credo,» dissi convinto, gli occhi che
guardavano altrove.
«No, ha ragione. L’ho visto coi miei occhi,» intervenne il mio alunno, e Giulio
lo guardò grato.
«Che ne puoi sapere tu? Eri ubriaco,» ribattei frettolosamente senza neanche
guardarlo.
«E’ successo prima che mi facessero bere. E comunque non ero ubriaco. Mi
tremavano solo un po’ le gambe,» disse quello con serietà, e subito mi
tornarono in mente flash della sera prima e di Valerio che tentava di
convincermi che era perfettamente lucido e che le sue non erano parole dette a
caso. Mi venne un attacco di depressione, quindi tentai di cambiare discorso.
«Sì, comunque, non dovresti frequentare gente di quel tipo,» ripresi
rivolgendomi a Giulio.
«Lo so, non dovrei,» e abbassò la fronte ora scoperta. Aveva una fronte
spaziosissima, diamine. Calò un silenzio ricco di tensione tra noi, e Castelli,
avvertita l’atmosfera pesante, tentò di rompere il ghiaccio.
«Dai, sei perdonato. Vieni, entra, ché faccio il caffè,» prese Giulio dal
braccio e lo trascinò in casa con mio leggero disappunto, poi lo invitò a
sedersi sul divano, quasi fosse casa sua. Ed era lì solo da due giorni. Non
capisco da dov’è che si prendeva tutte queste libertà. «Arrivo subito,» disse
poi, e sparì in cucina: stava più tempo lì che nelle altre stanze.
Anche io mi sedetti sul divano –non sullo stesso di Giulio, quello accanto- e
stetti per un po’ aguardare il
pavimento, silenzioso quanto lui.
«Eh. La responsabilità è una bella gatta da pelare,» commentò Giulio dopo un
po’. Io annuii solennemente senza staccare gli occhi da terra. «Ma…è solo questo che ti ha spinto a reagire in quel modo?»
aggiunse, e io finalmente spostai lo sguardo ora confuso su di lui.
«In che senso, scusa?»
«Nel senso che mi sembra strano per uno come te perdere le staffe,» spiegò, le
dita delle mani intrecciate come le mie, le braccia appoggiate sulle ginocchia
nella mia stessa posizione.
«Fidati che non è strano,» intervenni prima che potesse andare avanti.
«Eri davvero fuori di te. Sicuro che non ci sia nient’altro?» chiese quindi, e
io lo guardai infastidito alzando il mento e poggiando una mano aperta sulla
coscia, quasi volessi alzarmi e andarmene.
«Che cosa deve esserci? Non ho capito che cosa intendi tu per “nient’altro”. Ho
la fiducia del padre che mi paga per prendermi cura di suo figlio, perciò non
posso deluderlo. Quell’uomo è capace di denunciarmi se dovessi torcere un
capello al ragazzo,» spiegai, anche se erano cose che gli avevo già detto.
«Quindi, alla fin fine, non ti importa granché di lui,» suppose.
«Eh,» confermai, seppur con la convinzione che mancava quasi del tutto.
Infatti, lui prese a scrutarmi, come gli piaceva tanto fare e, dopo che gli
ebbi rivolto uno sguardo da “Che c’è?!”, tirò su la testa ed emise la sua
sentenza.
«A me sembra il contrario, ma non voglio affrettare i tempi, verrà tutto da sé,»
disse, lo sguardo rivolto alla televisione spenta, io che lo guardavo con la
bocca socchiusa senza capire un’acca di quello che diceva. Alzai le
sopracciglia perplesso e decisi di non sforzarmi più di tanto e appoggiai il
mento alla mano. In quel momento tornò l’oggetto della nostra conversazione con
in mano un vassoio con il caffè.
«Parli del diavolo,» mi sussurrò Giulio sorridendo senza farsi vedere nel
momento in cui Castelli poggiò il tutto sul tavolino di fronte al divano.
«Quanto zucchero?» chiese poi, servizievole fino alla nausea, come sempre.
«Io uno,» disse Giulio.
«io due e mezzo,» feci io senza curarmi troppo della ridicola richiesta, e
Valerio sorrise mentre versava lo zucchero nelle tazzine colorate, piegato sul
vassoio.
«Siamo in calo di zuccheri?»
Sapevo che cercava di essere simpatico per risollevare l’atmosfera, e quei suoi
tentativi, oltre ad essere buffi, mi facevano anche sentire meglio, in qualche
modo. Mentre muoveva la testa da una tazzina all’altra, notai che aveva
qualcosa incastrata nei capelli.
«Che hai qui?» allungai la mano per districare quello che sembrava un pezzo di
foglia secca dalla massa amorfa di capelli chiari. Castelli stette fermo e
immobile finché non riuscii a tirare fuori il pezzo di foglia, poi si morse le
labbra, non mi disse né grazie né altro e si sollevò per poi allontanarsi di
fretta.
«Vado a prendere dei biscotti,» disse velocemente, mangiandosi anche qualche
parola, e fuggì in cucina per poi chiudersi all’interno. Dalla parete
trasparente vidi che s’era appoggiato alla porta con la schiena. Alzai le
spalle senza davvero capire e quando mi voltai, con mio stupore, vidi che
Giulio aveva spalancato gli occhi meravigliato nella direzione in cui era
scappato Valerio.
«Qui è scattato il campanello d’allarme,» disse sciogliendosi in un sorrisetto
eloquente.
«Che campanello?» chiesi, il tono stanco di uno che ne ha abbastanza, di
novità.
«Quello nella testolina del tuo amichetto. Sembra che tu abbia fatto colpo su
di lui». A quell’affermazione, mi si strinse inspiegabilmente un nodo alla
gola.
«Ma per favore,» sdrammatizzai facendo schioccare la lingua in maniera
insopportabile.
«Ti dico di sì. Uno come me se ne accorge subito se una persona è infatuata,»
insistette quello. Ah beh, l’infatuazione non è poi così grave, alla fin fine…No, ma a che pensavo? Certo che era grave! Lui era un
mio studente, io avevo quindici anni in più di lui e, badiamo bene…eravamo entrambi uomini. Fosse stata una bella docente
trent’enne col nome di Valeria, forse…
«Non può essere che si tratti di…ammirazione?» chiesi
arrampicandomi sugli specchi.
«Non credo che quel distogliere lo sguardo e il rossore sulle guance siano
dovuti all’ammirazione, ma se vuoi pensarla così…»
lasciò la frase in sospeso facendomi venir voglia di mangiarmi le mani e, dopo
che ebbe mandato giù il caffè tutto d’un colpo –era bollente, come diavolo
aveva fatto?- si alzò leccandosi le labbra.
«La conversazione m’interessava, ma temo che dovrò andare,» disse mostrandomi
un sorriso. «Ringrazia di cuore Valerio, e chiedigli scusa ancora per ieri,»
aggiunse, e si stava avviando alla porta con me al seguito, quando suonò il
campanello.
«Che succede ancora?» mi chiesi spazientito per poi andare ad aprire. L’individuo
dietro la porta entrò senza farsi scrupoli e scostandomi di lato con una
spallata.
«Fammi vedere Valerio,» borbottò col fiatone, quasi si fosse fatto una corsa e,
a passo da gigante, si diresse in cucina per poi saltare addosso all’amico con
fare allegro.
«E questo?» fece Giulio trattenendo a fatica le risate.
«E’ un compagno di corso di quell’altro,» dissi con lo sguardo assassino.
«Quindi anche lui è un tuo studente».
«Sì, ma se vuoi, con lui puoi farci quello che ti pare. Anzi, fatelo bere,
dategli vitamine, torturatelo, il fatto non mi tange,» dissi, piuttosto
sprezzante da parte mia.
«E invece con Valerio il fatto ti tange, eh?» fece Giulio, il tono complice e strizzando
l’occhio.
«Senti, non esagerare con tutta questa confidenza. Mi conosci da pochi giorni,
non sai nulla di me,» dissi, e ritenni di aver concluso il discorso. Infatti,
con un “Okay, okay, mi arrendo”, Giulio uscì dalla porta e mi salutò con un
cenno, poi voltò il capo.
«Ah, un’ultima cosa. Fai attenzione al tipo che poco fa si è fiondato in
cucina. Credo sia presissimo dal nostro Valerio, anche se la cosa mi sembra un
po’ più complicata. Buona fortuna,» e se ne andò così, lasciandomi con l’amaro
in bocca. Chiusi la porta con l’ennesimo sospiro e andai verso la cucina, ma
non avevo voglia di assistere a un’altra scena smielata delle loro, proprio no.
Così presi al volo una confezione di Ringo –scoprire di averli in casa fu
un’illuminazione per me- e mi chiusi in camera da letto a guardare la
televisione: CSI Miami, non potevo desiderare niente di più rilassante. Non
uscii dalla stanza se non per fare una doccia veloce, e Valerio non lo
incrociai più per quella sera. Volevo tenermi fuori dal mondo degli
adolescenti, e allo stesso tempo qualcosa –o magari qualcuno- mi ci attirava
all’interno.
---
Ah, i casi umani. Ah, gli alieni (è che stavo ascoltando U.F.O. dei Coldplay, tanto per dire). Se li becca tutti Andrea <3 E
Giulio che gioca a fare l’indovino, tanto amore anche per lui <3
Un’altra caratteristica di Andrea –che probabilmente avrete già capito- è la
golosità. Tutto ciò che è dolce fa per lui [MESSAGGI SUBLIMINALI], ma questo
non significa che debba renderlo dolce, anzi XD
CSI Miami è il top, rido per tutta la puntata, neanche riesco a godermela. Horatio mi fa ridere, è inutile XD
Il fatto della Nutella nascosta mi ricorda tanto la canzone di Cremonini: “Ogni
volta in cui ti penso mangio chili di marmellata, quella che mi nascondevi tu,
l’ho trovata”, così a random XD
Okay, ci siamo, GRAZIE AL CUBO PER LE RECENSIONI, vi amo come foste tanti piccoli
Valerio.
Passarono tre
giorni di colazioni abbondanti, pranzi da re, merende con panini generosamente
imbottiti –il fatto che fossero sempre rosette era piuttosto inquietante-, cene
per niente leggere e camomilla o cioccolata calda prima di andare a letto.
Sapevo che non mi sarei mai e poi mai abituato a una routine del genere: era
terribilmente asfissiante! Già non riuscivo a trovare del tempo per stare un
po’ in pace col mio cervello, ma adesso non lo trovavo neanche per grattarmi in
mezzo alle gambe senza che non mi sentissi osservato. Era snervante, mi avrebbe
condotto lentamente all’incontinenza. E poi, ancora dovevo capire per quale
assurdo motivo sobbalzavo ogni qualvolta quel Valerio mi rivolgeva la parola:
non aveva un tono di voce presuntuoso, non parlava urlando, non spuntava
all’improvviso strillandomi nell’orecchio –però a volte sì, compariva dal nulla
e mi faceva prendere un coccolone-, ma è pur vero che, nonostante mi stessi
abituando al timbro della sua voce, quando entrava a casa col suo “Sono
tornato”, quasi sputavo il caffè che stavo bevendo sul quotidiano aperto sul
tavolo; o magari mi cadeva la sigaretta col rischio di farmi un buco sui
pantaloni o di lasciare una bruciatura sul piede nudo.
Poi però c’erano i giorni in cui Castelli neanche tornava a casa
dall’università perché, a quanto diceva, doveva andare a “esercitarsi”, e io
stavo a casa solo come un coglione, in un silenzio tanto opprimente da farmi
strabuzzare gli occhi come un vecchio pazzo. Perché era così che andava: prima mi
lamentavo della troppa invadenza del ragazzo, della sua gentilezza snervante,
della sua fastidiosa scrupolosità, delle sue attenzioni da mammina premurosa
che mi facevano sentire come se non fossi capace di badare a me stesso - a
trentacinque anni suonati -, poi mi annoiavo se non ce l’avevo intorno, e
quindi mi lamentavo un’altra volta per il motivo opposto.
E quei pensieri tornarono a farsi presenti quando misi una tazzina sotto la
macchinetta del caffè e mi incazzai perché non veniva fuori la schiuma. Perché
quando lo faceva Valerio c’era tanta schiuma da poterci poggiare sopra lo
zucchero senza che quello sprofondasse nel caffè? Perché lui ci riusciva e io
no? Volevo il caffè con la schiuma, Santo Iddio, dov’era quel moccioso quando
serviva?Non avevo neanche il suo numero
di cellulare per poterlo rintracciare, e sarebbe dovuta essere la prima cosa
che avrebbe dovuto darmi. Perché ero così incosciente?
Bevvi il mio caffè senza schiuma con un cipiglio nervoso e sputai
immediatamente nel lavandino quando m’accorsi di non averci messo lo zucchero.
«Ma porca di quella put-» il resto si confuse col rumore dell’acqua che
scorreva. Non m’era mai capitato di bere il caffè amaro, non mi scordavo mai,
mai, di mettere almeno due cucchiaini di zucchero. Mi misi una mano pesante in
faccia, e tirai un sospiro di sollievo quando mi squillò il cellulare.
Distrazione, svago, qualcosa che m’alleggerisse il cervello.
Risposi al telefono con un tono fin troppo allegro, sicuramente forzato e,
quando dall’altra parte riconobbi la voce di Gaia, la mia ex compagna di liceo
che soleva tampinarmi, mi feci una bestemmia mentale: ed erano già due
bestemmie in una settimana, avrei dovuto smetterla, sarei finito dritto tra le
fiamme dell’inferno.
Quella disse che le dispiaceva molto disturbarmi –come se stessi facendo
qualcosa di meglio oltre alle seghe mentali-, ma voleva vedermi perché aveva
un’informazione importantissima da comunicarmi. Le chiesi sospirando se potesse
darmela per telefono, ma lei rispose che avrebbe preferito parlarmi faccia a
faccia. Oh, perfetto. Avrei rifiutato molto volentieri, ma il suo tono mi
sembrava insolitamente serio. Mi dicevo che qualcosa mi puzzava, e non era il
caffè amaro che avevo ancora davanti al naso. Quindi le dissi che sì, andava
bene, e lei mi propose di incontrarci davanti alla palestra che frequentava,
visto che era appena entrata e sarebbe uscita nel giro di un’ora e mezza. Mi
feci dare bene l’indirizzo e fui lieto di sapere che frequentava la palestra
del mio quartiere. Le dissi che ci saremmo visti lì davanti un’ora e mezza dopo
e riattaccai, comunque sollevato di essermi trovato qualcosa da fare. Lanciai
un’occhiata alla busta rosa pallido sul tavolo e mi ricordai di doverla ancora aprire:
m’ero ritrovato quella cosa tra la pubblicità del nuovo ipermercato e tra le
bollette, e già avevo idea di cosa fosse, ma avevo quasi timore di sbirciare all’interno.
Quella situazione mi sapeva davvero tanto di cosa losca, soprattutto quando ricevi
due buste con dentro in tutto duecento euro ogni settimana. Anzi, la settimana
non era ancora finita, era possibile che m’arrivasse un terzo pagamento.
Infilai velocemente la busta nel cassetto del tavolo, quasi scottasse, poi mi
studiai delle carte per la lezione di lunedì e vidi un po’ di cartoni animati
per far passare il tempo: i Simpsons, i soli che il bambino dentro me mi
permetteva ancora di vedere.
Dopodiché feci per uscire, ma un pensiero andò a quell’altro incosciente, che
se ne stava fuori senza dirmi l’orario in cui sarebbe tornato. E io non avevo
idea di quanto tempo sarei rimasto fuori. Ma che mi importava, al massimo
sarebbe rimasto ad aspettare seduto sulla soglia come un barbone, non era affar
mio, aveva solo da non gironzolare come gli pareva e piaceva.
«Le dispiace tenere questo doppione delle chiavi?» chiesi dopo aver suonato il
campanello della vicina, il buon samaritano che tornava in superficie. Lo
odiavo, quel buon samaritano, mi faceva fare cose idiote. La signora negò con
la testa e racchiuse nella mano grassocce le chiavi col portachiavi di metallo.
«Se per caso vede arrivare un ragazzino strano…»
«Ah, sì, il suo coinquilino. Il ragazzo del pane,» mi interruppe quella
parlando a raffica. Ah, avevo tra le mani un’amante del gossip. Se non lo
sapeva ancora tutto il palazzo era un vero miracolo.
«Sì, lui. Se lo vede arrivare prima di me, può consegnargli queste chiavi? Così
non resterà fuori casa,» dissi evitando di portare su il discorso “gossip”. Lei
adesso annuì stropicciandosi con l’altra mano il grembiule sporco.
«Certo. Magari lo avvisa che ce le ho io, le chiavi».
«Non ho il suo numero di cellulare,» ammisi alzando le spalle.
«Beh, è bene che se lo faccia dare. Non è preoccupato che gli succeda qualcosa?
Il mondo là fuori è un lupo affamato!» esclamò agitandomi un dito grassoccio
davanti al naso, e io m’allontanai d’istinto di qualche passo. Okay, la cosa
stava degenerando.
«Me ne rendo conto. Provvederò a farmelo dare. Ora la saluto, vado di fretta,»
mentii per poi mollarla lì sulla soglia, le chiavi penzolanti in una mano e lo
sguardo leggermente perplesso. Dovevo essere io quello con lo sguardo
perplesso, santo cielo!
---
Ero davanti alla palestra da cinque minuti senza vedere l’ombra di Gaia e già
battevo il piede per terra con impazienza. Ma che stava facendo là dentro, Clio makeup? O la messa in piega, visto che faceva la
parrucchiera? Mi ero scordato del suoi capelli orribili, avevo quasi paura di
doverli rivedere.
Spazientito, decisi di entrare e di aspettarla dentro, perché magari si stava
facendo la scorta di barrette energetiche al distributore automatico.
L’edificio era nuovo ed enorme, pensai che fosse sicuramente più grande della
scuola materna giusto accanto. Sembrava diviso in tre precise sezioni: nel
centro si apriva una di quelle tipiche palestre scolastiche, solo che invece di
avere il pavimento verde e le pareti bianche, era tinta di un colore scuro e
deprimente, e in mezzo alla stanza vi era posizionato un largo materassino e
dal soffitto pendevano quelli che sembravano sacchi da boxe. Va bene, a quanto
pare non era una palestra scolastica. Alla mia destra c’era un lungo corridoio,
e una lamina dorata sul muro indicava che in quella direzione vi era la sala
pesi, completa di stanze per lo Spinning e per l’aerobica o gli sport di
gruppo, quelli con la musica. Probabilmente era da lì che sarebbe venuta fuori
Gaia. La tizia alla reception osservava i miei movimenti da turista, e forse
stava anche per chiedermi cosa desiderassi e se, magari, mi facesse piacere
fare un giro turistico della palestra, ma un cliente la tenne impegnata, e gli
fui grato. Mi stavo rendendo conto che parlare con le persone mi faceva sempre
meno piacere.
La stanza che m’attirava di più, comunque, era quella a sinistra: era
circondata da pareti di vetro su cui erano stampate sagome di ballerini e
ballerine; il pavimento era in legno e sulla parete opposta a me era posto un
enorme specchio. Sbirciai curioso attraverso il vetro, visto che m’era sembrato
di intravedere del movimento all’interno: una lezione sembrava essere in corso.
Mi stupii alquanto quando mi parve di riconoscere una figura in mezzo al gruppo
di ragazzi e ragazze che si muovevano in sincronia: era niente popo di meno che Valerio Castelli. Ma me lo trovavo davvero
dappertutto, non era possibile. Ammisi comunque che non mi sarei mai immaginato
facesse il ballerino, con quei suoi movimenti goffi e la capacità con cui inciampava
sul filo dell’aspirapolvere: m’era sempre sembrato il contrario della
coordinazione –tranne forsequando cucinava
e faceva il caffè-. Sorrisi automaticamente quando lo
vidi con la faccia concentrata, gli occhi che tentavano di non andare sui
propri piedi, che faceva strisciare a terra e alzava in aria al ritmo di una
musica che sentivo a malapena. L’istruttrice, tutta contenuta in una tutina
nera e fucsia, parlava e consigliava agli allievi i giusti movimenti ma, quando
poi si muoveva lei, sembrava niente in confronto ai ragazzi a cui insegnava. O
almeno, quella era la mia sensazione: sapevo di non essere un grande esperto di
balletti o robe simili. Osservando più attentamente mi accorsi di conoscere
un’altra persona tra quelle, e mi chiesi con un cipiglio nervoso com’è che
conoscevo così tanti adolescenti: mi pareva fosse la ragazza cieca di cui
Castelli mi aveva parlato più volte; Laura, forse? In effetti si notava
benissimo che era una non-vedente: teneva lo sguardo fisso nel vuoto, ma
l’espressione attenta lasciava intendere che seguisse con cura le note della
canzone e, anche se i movimenti non erano uguali a quelli dei compagni, andava
perfettamente a ritmo.
La coreografia terminò qualche secondo dopo con due passi ad effetto, poi
l’insegnante fece loro i complimenti e tutti s’applaudirono sorridenti. Avevo
appena visto Castelli andare verso Laura tutto trafelato e con aria mortificata
ottenendo solo il rifiuto dell’altra, quando sentii qualcuno picchiettarmi
sulla spalla.
«Scusa se ti ho fatto aspettare. C’erano dei problemi con le docce,» disse Gaia
e, no dai, s’era davvero truccata, e anche pesantemente. Lo sapevo, altro che
docce. La salutai con un cenno, e quella mi disse di andare a parlare fuori.
Una volta all’aperto, ci appoggiammo con la schiena alla mia macchina e lei mi
rivolse uno sguardo sofferente. Pensavo stesse per dirmi una cavolata delle sue
spacciandola per tragedia.
«Di cosa volevi parlarmi?» chiesi arrivando subito al punto. Lei si torse le
mani e guardò altrove.
«Il fatto è che…sono a conoscenza di un fatto su cui
mi è stato chiesto ti tacere,» disse pettinandosi i capelli umidi con una mano.
«Ma io non sono il tipo di persona che nasconde qualcosa di importante a un
caro amico, quindi ti ho chiamato con l’intenzione di dirti tutto,» continuava
a girarci intorno e mi rendeva sempre più impaziente, nonché nervoso, quasi non
lo fossi già abbastanza di mio.
«Dai, allora, parla,» la incitai incrociando le braccia. Lei mi guardò quasi
mortificata e mi fece segno di accostarmi al suo viso. Quando fui abbastanza
vicino, inspirò profondamente e si mise anche una mano davanti, come quando
devi confidare un segreto al tuo migliore amico.
«So…il vero motivo per cui April
ti ha lasciato,» mi sussurrò incerta, e io strabuzzai gli occhi.
«E’ perché non andavamo d’accordo,» dissi a voce malferma, ormai non più tanto
sicuro che fosse quello il motivo.
«Ma no,» fece lei scuotendo la testa e guardando altrove, e sembrava fin troppo
titubante di andare avanti, quasi fosse una questione di suo interesse, e non
mio. Picchiettai le dita sul mio stesso braccio, poi sospirai rumorosamente.
«Che aspetti a dirmelo?» feci, le dita che fremevano inspiegabilmente. Gaia
mosse i capelli quando si girò di scatto verso di me, con lo sguardo da “E va
bene, facciamola finita con questa pantomima”.
«Era incinta. Non di te, di un altro, non so chi sia,» asserì, quasi con
cattiveria, come fosse lei la vittima, e non io. Non io. Io non ero niente.
Il mondo sembrò vacillare su di me, il castello di carte perdeva pezzi e
sarebbe crollato di lì a poco. No, scusa… che cosa?
Guardai nel vuoto per un po’, poi mi schiacciai il palmo della mano sugli occhi
e scoppiai in una risata fragorosa, di quelle a cui ti lasci andare quando
rasenti la disperazione, il naso che tirava su quasi avessi il raffreddore.
«Quindi avrei una…specie di figlio illegittimo? Se
non ci fossimo lasciati, io avrei avuto la possibilità di avere un figlio?» e
continuavo a ridere come un decerebrato, perché dentro piangevo e non riuscivo
a reagire diversamente. Non mi importava che April mi
avesse tradito; quel che contava era il figlio. Cazzo, per quanto io non
sopportassi le scocciature, e le grida, e qualunque cosa avesse a che fare con
i bambini, io con un figlio sarei stato a posto. Io e un figlio, e basta.
Sarebbe stata l’unica persona di cui mi sarei preso sinceramente cura, sarebbe
stata l’unica ragione di vita, sarebbe stato motivo di orgoglio vederlo
crescere secondo i miei insegnamenti. Forse mi vergognavo a dirlo, ma avere un
figlio mi avrebbe reso completo.
O magari ero io a fraintendere tutto. Quello che volevo, forse, non era proprio
un individuo che avesse il mio stesso sangue, ma qualcuno da proteggere, da
accarezzare quando mi sentivo solo, con cui parlare se avevo bisogno di
sfogarmi, qualcuno di cui fidarmi. Magari confondevo le due cose, e non andava
bene, no, per niente, dovevo iniziare a pensare a cosa diavolo volevo per
buttare giù quel dannato castello di carte e costruirne sulle sue fondamenta
uno più forte, più solido, più bello.
Che seghe mentali di merda mi facevo, adesso stavo male e basta, che ci fosse
un motivo logico o meno.
«Non deprimerti, per favore!» mi implorò Gaia quando s’accorse che la risata si
stava spegnendo piano e tramutando in quelli che sembravano leggeri singhiozzi.
«Vieni qui,» disse poi e, con un cenno della mano, si offrì come spalla su cui
piangere. Se non fossi stato appena informato di un fatto così triste, probabilmente
non avrei lasciato che mi stringesse così forte e che mi dicesse parole di
conforto, a cui credevo ben poco, conoscendo il suo carattere poco dolce e
sincero.
«Ascolta…Lasciati indietro questa storia. Non sarebbe
meglio ricominciare daccapo?» mi sussurrò all’orecchio mentre tenevo lo sguardo
ancora asciutto fisso sull’asfalto, il mento sulla sua spalla.
In quel momento, dall’edificio che avevamo di fronte uscì la ragazza cieca
seguita da Valerio che la richiamava senza che venisse ascoltato. Quest’ultimo
vide me e Gaia stretti, mi riconobbe, fece una smorfia e finse di non
conoscermi per poi tornare a inseguire l’amica, che camminava lungo il
marciapiede sfiorando di tanto in tanto il muro alla sua destra con la punta
delle dita.
Schioccai la lingua per poi sollevare il mento dalla spalla di Gaia e
sciogliermi dal suo abbraccio, mentre quella ancora mi carezzava i capelli
sulla nuca.
«Allora? Non ti va di ricominciare?» chiese, nuovamente. Io la guardai negli
occhi adesso verde scuro, poi lanciai uno sguardo oltre la sua spalla
intercettando la figura di Castelli che si allontanava.
«Sì,» dissi con voce ferma. «Ma non con te». Le tolsi con calma le braccia
avviluppate attorno al mio collo e mi infilai in macchina con la mia solita
espressione accigliata, anche se adesso lo era un po’ di più.
«Ci vediamo,» salutai e, senza neanche offrirle un passaggio, partii nella
stessa direzione in cui si dirigevano Castelli e l’amica, per poi accostarmi
quando li ebbi raggiunti.
«Dove stai andando?» chiesi con fare sgarbato dopo aver abbassato il
finestrino.
«Da Fabio,» mi disse quello freddamente, quasi ce l’avesse con me. Non anche
lui, ti prego.
«Beh, sali. Anche la tua amica. La accompagno a casa, se vuole». Sì, aveva
ragione Castelli, ero fin troppo disposto ad aiutare la gente, quando tutto
quello che dovevo fare era pensare un po’ alla vita che conducevo. Che orribile
difetto.
«No, grazie, non si preoccupi, vado a piedi,» rispose lei con cortesia.
«Tranquilla, Laura, non è uno sconosciuto, è un mio insegnante. Puoi fidarti,»
fece Castelli per risparmiarmi il fiato, e la ragazza, dopo qualche secondo di
ripensamento, guardò verso la direzione dell’amico e decise di fidarsi. Salì in
macchina, nonostante continuasse a tenere uno sguardo diffidente, e fu seguita
a ruota da Valerio.
La accompagnai a casa dopo che quest’ultimo mi ebbe indicato la strada,
aspettai che facesse ingresso nel suo portone, poi feci un’inversione a U e
tornai verso il mio condominio.
«Ho detto che devo andare da Fabio,»protestò
Valerio una volta che si rese conto di dov’è che ci trovavamo.
«Non importa. Tu vieni a casa con me».
«Ma perché?» chiese ancora dopo essere sceso dalla macchina e avermi raggiunto
al cancelletto.
«Perché non mi piace quel tipo di gente,» rispondevo mentre aprivo con le
chiavi e senza girarmi per guardarlo.
«Non deve piacere a te!» esclamò mentre mi seguiva per le scale e poi dentro
casa. Gli feci segno con lo sguardo di entrare una volta per tutte, poi gli
chiusi la porta alle spalle sbattendola.
«Ho detto che tu resti qui. Ora finiscila e lasciami in pace,» dissi duramente,
e andai a sedermi sul divano con la testa che cadde pesantemente tra le mani,
gli occhi socchiusi che vedevano il pavimento distorto. Oltre a pensare al
fatto che se non avessi fatto l’egoista e l’orgoglioso a quell’ora starei
aspettando l’arrivo di un figlio, pensavo alle bugie di April,
che diceva di detestare chiunque non riuscisse a tirare fuori le palle e a dire
la verità, quella nuda e cruda, a descrivere i fatti così come stavano. Anche
quello mi dava fastidio. Inutile dire che ormai la lista delle cose che mi
procuravano fastidio s’era triplicata.
«Che è successo?» Non m’ero proprio accorto del divano che s’era leggermente
abbassato accanto a me, premuto dal peso di Castelli. Io mi limitai a scuotere
piano la testa. «C’entra quella donna con cui ti ho visto poco fa?» chiese
ancora. Alzai il capo e guardai in aria per evitare che gli occhi lasciassero
cadere le lacrime: piangere mi procurava solo un forte mal di testa, ed ero convinto
non servisse a nulla.
«Un figlio…» mormorai, senza neanche sapere se avessi
davvero parlato o meno. Sembrava tutto nella mia testa, parlavo da solo, e mi
sentivo solo. Poi un tocco tiepido prese possesso del mio corpo, e m’accorsi
che Castelli aveva appoggiato le sue mani sulle mie spalle e tentava di
guardarmi in faccia, con serietà, i lineamenti per nulla turbati.
«Hai messo incinta quella ragazza?»
Pensavo che se ne uscisse con qualcosa di più furbo. Tornai un attimo in me,
ché dovevo sembrare assolutamente patetico con quella smorfia triste sul volto.
«No…no! Ma perché non mi lasci perdere? Che ti
importa? Non sei un mio parente, né tantomeno un mio amico. Sei fastidioso,»
sibilai, in maniera tanto odiosa da pensare di non essermi mai detestato così
tanto. Lui guardò in basso, annuì e sospirò, quasi avesse capito dell’altro,
poi si rizzò in piedi e andò a rifugiarsi nella stanza accanto. Strinsi il
pugno fino a graffiarmi il palmo con le unghie, e mi maledissi dieci volte di
seguito, mettendo uno “Scusa” dietro l’altro rivolto a Valerio, senza riuscirlo
a dire ad alta voce. Poi l’emicrania dovuta al mio trattenere le lacrime mi si
insinuò nelle tempie, mi fece distendere sul divano e mi costrinse a dormire,
per tentare di pensare un po’ di meno. Volevo pensare, e poi smettere di farlo
subito dopo. Mi sentivo un incapace.
---
Capitolo leggermente angst, a volte ci sta (in realtà ci sta sempre, ahh, l’angst! <3). Badate, sto
riuscendo ad aggiornare così in fretta perché non ho ancora iniziato
l’università (DOMANI) e perché mi state deliziando con le vostre recensioni, io…IOVI ADORO *piange
Comunque, ehm. Basta smancerie <3
Nel prossimo capitolo introdurrò due personaggi che mi piacciono molto e che
spero apprezzerete anche voi <3 Gaia la odio, ma spero si sia capito. Andrea
è confuso, sta male, ma non sa neanche lui perché: non propriamente per il
fatto che la sua ex moglie era incinta di qualcun altro, quanto per il fatto
che s’è perso l’occasione di avere un figlio, o comunque, qualcuno di molto
caro e di cui fidarsi, al suo fianco [MESSAGGI SUBLIMINALI]. Quindi facciamo
che lui stesso non sa perché sta male, pace.
Ah, e poi…“Non avevo neanche il suo numero di
cellulare per poterlo rintracciare, e sarebbe dovuta essere la prima cosa che avrebbe
dovuto darmi.” La prima
cosa [MESSAGGI SUBLIMINALI].
Ah, un’ultimissima cosa: nello scorso capitolo ho letto un paio di errori.
Volevo solo dirvi che spesso non è colpa mia, ma del correttore automatico, o
quello che è. A volte mi combina brutti scherzi. E poi, quando vado a rileggere
prima di postare, magari sono di fretta e non faccio attenzione e mi perdo per
strada questi errori/orrori di battitura. Per dire, invece di “Ieri sera”, è
venuto fuori “Ieri s’era”. Non vorrei che pensaste che non so come si scrive
“sera”, hahaha, sarebbe terribile, in effetti.
E quindi niente, tenterò di fare più attenzione d’ora in poi ^^’
Quando mi svegliai, erano già le otto di sera e avevo la testa che mi girava
leggermente. Mi misi a sedere e aspettai di fare uno sbadiglio che non arrivò,
poi mi accorsi di avere il corpo tiepido: ero coperto dal mio pleid colorato. Era opera di Valerio il Premuroso, senza
dubbio. Mi chiesi dov’era andato a scovare quel pleid,
non lo vedevo da tempo.
«Come stai?» mi chiese gentilmente quando entrai in cucina trascinando con me
il pleid. Valerio era seduto al tavolo a guardare con
interesse un quiz sul primo canale.
«Insomma…» borbottai, efinalmente uno sbadiglio arrivò e forzò la
mia mano davanti alle labbra. Guardai con le lacrime agli occhi dovute allo
sbadiglio il mio alunno e i suoi occhi chiari tempestati dalle luci blu della
televisione. Mi chiesi se fosse arrabbiato, e il fatto che me ne stessi
preoccupando non prometteva nulla di buono. Avevo appena aperto la bocca per
chiedergli scusa, quando lui parlò anticipandomi.
«Non vorrei darti altre preoccupazioni, ma ha telefonato tua sorella». Mi misi
una mano sulla fronte sudata. Ci mancava solo lei.
«E che voleva?»
«Mi ha detto che verso le nove avrebbe portato qui un certo Michele perché
domani tu hai la giornata libera, mentre lei e il suo compagno devono lavorare
fino a tardi. Mi ha chiesto di riferirti questo,» concluse con garbo, e io feci
uno strano lamento. Com’è che non aveva messo su il broncio? L’avevo trattato a
merda un paio d’ore prima, e aveva ancora la voglia di parlarmi con quel tono
calmo e gentile? Era un alieno e basta, caso chiuso.
«Non si può mai stare tranquilli,» borbottai col fare del vecchio rompipalle.
«Questo Michele è…un bambino?» fece quello con gli
occhi puntati alla televisione.
«Sì, è mio nipote».
«Allora puoi stare tranquillo, posso pensarci io. Ci so fare con i bambini,» mi
rassicurò. Ah, certo, non era solo bravo a cucinare, a ballare e a spremere
cioccolato sulle torte; sapeva fare anche il baby sitter.
Mi chiedevo se potesse occuparsi anche di un cane, nel caso un giorno ne avessi
comprato uno.
«Ma figurati, non posso lasciare che tu…» provai
adire, ma fui interrotto.
«Invece sì. Non sono così inaffidabile come sembro,» disse lui, questa volta un
po’ infastidito. «Prova a fidarti un po’,» aggiunse, lo sguardo luminoso adesso
puntato nel mio. Ma che aveva quel ragazzo? Non poteva essere perfetto, che
Cristo! Inclinai la testa di lato, nessuna ruga di espressione sulla mia
fronte, le sopracciglia rilassate, poi annuii con un sorriso accennato e tornai
sul divano.
Non mangiai molto quella sera, ma Valerio non disse nulla al riguardo e mi
lasciò mangiucchiare quello che mi andava, mentre lui sgranocchiava
dell’insalata. Inoltre, non tirò più fuori il discorso di quel pomeriggio, e
per questo lo ringraziai mentalmente. Parlò solo una volta quando disse:
«Ti invidio, sai?»
«Per quale motivo?» O meglio, perché lui, individuo a quanto pareva perfetto,
doveva invidiare un inetto come me?
«Perché quando sei triste ti incazzi. Fossi anche io così, avrei superato un
bel po’ di traumi,» disse con fare imbarazzato, quasi si stesse confidando a
cuore aperto, e intanto tirava su i piatti e li metteva nel lavandino.
«Perché, tu che fai?»
«Piango come una femmina,» rise lui, ma sembrava una di quelle risate pesanti,
per niente sincere, un po’ malinconiche. Volevo davvero chiedergli altro, ma
non desideravo essere invadente, e quello era uno dei momenti in cui il
silenzio era la cosa migliore.
---
Mia sorella arrivò alle otto e un quarto e teneva in braccio il piccolo
Michele, che come al solito si guardava intorno, nonostante conoscesse già bene
casa mia. Fu Valerio ad accoglierli, e il suo sorriso si spense
inspiegabilmente quando vide mia sorella Simona sulla porta. Spostò lo sguardo
da lei a me al rallentatore, più di una volta, la bocca spalancata e la pupilla
allargata, e ci mise un po’ prima di spiccicare parola.
«Ma…siete…identici,» fece a poco a poco, e Simona
alzò gli occhi al cielo per poi entrare e chiudere la porta da sé.
«E’ ovvio, piccolo sconosciuto. Siamo gemelli,» lo informò Simona, col tono di
una a cui non va più di ripetere sempre la solita solfa e io, in tutta
risposta, sprofondai sul divano alzando a mia volta gli occhi al cielo. «Che ci
fa questo tizio in casa tua? E’ il baby sitter per
Michele? O il tuo badante?» fece ancora, con tono antipatico. Era di famiglia,
nient’altro da dire.
«Non sono affari tuoi,» risposi in fretta, e quella si mise una mano davanti
alla bocca dopo aver adagiato il bambino a terra.
«Uhh, oggi è un giorno no, eh? Ma d’altronde, i tuoi
sono sempre giorni no. Prendi esempio dal ragazzo qui presente,» disse, e
indicò Valerio, che s’era già inginocchiato davanti al bambino per poter
socializzare con lui. Niente di nuovo, era un alieno, dopotutto.
«Ci proverò,» acconsentii, tanto per farla stare zitta.
«Bene, allora io scappo. Buona serata». Andò a baciare il bambino sul capo, poi
venne verso di me e mi mollò uno schiaffetto sulla guancia. «E su con la vita,»
concluse, e se ne andò lasciando in casa l’eco della sua voce e il tintinnio
della sua cintura contro la cerniera della giacca.
«Ciao, Michi,» salutai mio nipote muovendo la mano,
un sorriso sulle labbra, senza alzarmi dal divano.
«Ciao zio,» fece lui, coi riccioli rossi sempre più folti e le lentiggini sul
naso che sembravano più scure e evidenti.
«Per la miseria. Questo bambino sembra un bambolotto! Ha gli occhi verde
acqua!» esclamò Valerio osservandolo da vicino.
«Sì, ma non è altrettanto tranquillo. Ha una parlantina…»
lo avvisai. Infatti, subito dopo, Michele aprì la piccola bocca per parlare.
«Ma tu chi sei? Mica ti conosco,» chiese al mio alunno, che mi guardò con una
mano premuta davanti alle labbra. Sarà stata già la quarta volta in una
settimana che gli ponevano la stessa domanda.
«Lo so, lo so. Io mi chiamo Valerio, piacere,» e gli strinse la mano, almeno
quattro volte più piccola della sua. «Adesso ci conosciamo».
Il piccolo lo guardò diffidente, quindi voltò il capo nella mia direzione.
«E’ amico tuo?» mi chiese.
«No no, io sono…»
«Sì, è mio amico,» confermai con un mezzo sorriso, e Castelli mi guardò
piuttosto stupito. E ne aveva tutto il diritto, visto che qualche ora prima gli
avevo sibilato che non era mio parente, né tantomeno mio amico, e quindi non
aveva da impicciarsi degli affari miei.
«Allora possiamo giocare. Quanti anni hai?» domandò Michele ora rivolto al suo
nuovo amico, e già aveva cambiato espressione facciale.
«Venti. E tu?»
«Mio zio è molto più grande di te,» a quell’affermazione, Castelli abbassò repentino
lo sguardo e lo vidi arrossire violentemente. Era paonazzo a dir poco e, non seppi
neanche perché, ma mi vennero in mente Giulio e i suoi discorsi contorti. «Io
ne ho sei. Ci guardiamo un cartone?» aggiunse poi mio nipote, cavando
d’imbarazzo l’altro.
«Agli ordini! Zietto, ci serve un dvd,» disse quello
allegramente col capo voltato nella mia direzione, la vocetta
piccola a imitare quella del bambino. Sorrisi beffardo e indicai con un cenno
il mobile in legno antico sotto la televisione.
«Vedi, nel mobiletto dovrebbero esserci la Sirenetta e Robin Hood».
Valerio si mise a gattoni –la marca delle mutande in bella vista- e prese a
rovistare nel mobile, sempre come se fosse a casa sua. Magari già lo sapeva che
là dentro tenevo i dvd.
«Cosa preferisci, Michele?» chiese mentre cercava tra i dvd di azione e gli
horror.
«Robin Hood! La Sirenetta è per femmine,» rispose, giustamente, mio nipote. Era
piccolo, ma già ben spigliato.
«Giusto! Vada per la volpe fuorilegge!» esclamò il ragazzo, e tirò fuori il cd
dalla custodia, per poi inserirlo nel lettore dvd: aveva già imparato ad usarlo
e l’aveva acceso una sola volta, quando io ci avevo messo una settimana buona
per capire anche solo da dove diavolo s’accendeva. La presentazione iniziale
della Walt Disney illuminò la stanza di azzurro, e Castelli andò a spegnere le
luci del salotto per creare un’atmosfera migliore. Portò per mano Michele sino
al divano, poi si sedette accanto a me e lo fece accomodare sulle sue
ginocchia. Osservai Michele e la sua espressione attenta con una sensazione
simile alla tenerezza, e mi chiesi per l’ennesima volta in quel giorno come
sarebbe stata la mia vita con un figlio tra le braccia. Poi spostai
l’attenzione su Valerio e pensai che aveva davvero un bel profilo, un paio
d’occhi che sembravano lo specchio del cielo e sapevano trasmetterti del sereno
anche quando ti sembrava tutto nuvoloso. C'era qualcosa in lui che ancora non
riuscivo ad afferrare e che ti costringeva a volergli bene, anche se non ne
avevi voglia. In qualche modo, te la faceva venire. Erano solo sei giorni che
soggiornava in casa mia, e dovetti ammettere che sarebbe stata dura non
avercelo più intorno. Almeno mi faceva innervosire di tanto in tanto, così non
sarei diventato un’ameba.
Mentre ci pensavo, in un tempismo perfetto, mi squillò il cellulare, e mi
rifugiai in corridoio per poter rispondere senza disturbare i due che
guardavano la tv. Quando risposi, riconobbi la voce di Bruno, il padre di
Castelli.
«Professore, mi scusi per l’orario!» si affrettò a dire prima che potessi
salutarlo come si deve.
«Ma no, si figuri, ho appena finito di mangiare,» mentii, ché tanto non avevo
praticamente mangiato.
«Ho telefonato per Valerio. Come sta andando?» chiese la voce trafelata
dall’altra parte..
«Bene, suo figlio non crea alcun disturbo,» ammisi, tendendo l’orecchio
sinistro nel caso mio nipote mi stesse richiamando. Ma sembrava tutto
tranquillo, anzi, c’era fin troppo silenzio per avere due chiacchieroni in
casa.
Un attimo, avevo davvero detto “Nessun disturbo?” Stavo realizzando solo in
quel momento che Valerio non disturbava per davvero, anzi. Ero stato io che,
fermo nella mia cocciutaggine, avevo continuato a pensare a lui come a una
seccatura di cui mi sarei sbarazzato volentieri. Ma ripensandoci, non riuscivo
a trovare un motivo plausibile per cui avrei dovuto sbarazzarmi di lui. Mi
faceva pure uscire la schiuma nel caffè, e m’ero accorto di essere un fan della
schiuma. Sì, doveva per forza restare.
«Ne è sicuro? Quindi non è un problema se rimane ancora per un po’ e io
continuo a pagarla?» chiese Bruno col tono piagnucoloso.
«Assolutamente no, può rimanere quanto vuole e non c’è bisogno che lei mi
paghi, davvero. Mi sento un approfittatore».
«Ma che dice? Lei è troppo gentile!» esclamò quello riempiendomi di elogi.
«No, dico davvero. Ospito con piacere suo figlio, non lo faccio per i soldi.
Quindi non c’è n’è bisogno». Mi parve di sentire l’uomo dall’altra parte tirare
su col naso, la voce commossa.
«Non so come ringraziarla…Mi sdebiterò!» disse, e io
alzai gli occhi al cielo: mi sembrava di sentire Valerio dire le stesse
identiche parole. Sarebbero diventate la mia rovina.
«Ma si figuri, non ci sono problemi. Alla prossima, signor Castelli,» dissi
pazientemente.
«Grazie ancora, a presto!» ringraziò e mise giù, lasciandomi incredibilmente
più sollevato, non sapevo se per il fatto di aver concluso quella conversazione
snervante o se fosse dovuto ad altro. Ed arrivò anche una sorta di turbamento
che si tramutò in brividi dietro il collo e in torcersi di stomaco. Forse avevo
solo fame. Lo sperai per davvero.
«Era mio padre?» mi chiese Castelli quando tornai in salotto con ancora il
cellulare rosso stretto in mano.
«Sì. Mi ha chiesto se puoi restare ancora,» dissi senza alzare lo sguardo, e
tornai a sedermi accanto a loro.
«E che gli hai detto?»
«Che puoi restare quanto vuoi. Per te va bene?» feci, una gentilezza strana che
s’era presa possesso di me. Sveglia, Andrea, che diavolo ti prende, non sei più
tu, digli una parola sgarbata, guardalo male, incazzati, incazza-
«Assolutamente! Grazie,» e si allungò per darmi frettolosamente un bacio sulla
guancia.
«Shh! State zitti, ché Robin Hood sta lanciando la
freccia!» strillò Michele e solo in quel momento mi ricordai che c’era pure lui
lì con noi. Tornammo a guardare tutti e tre la televisione, in silenzio, e mi
sentivo la guancia stranamente intorpidita.
---
Quando Fabio Martone venne a sapere che il suo caro
Valerio sarebbe rimasto da me ancora per un po’, non si fece attendere. Prima
di tutto tempestò l’amico di domande fastidiose –come “preferisci lui a me,
vero?”-, poi iniziò a minacciarmi puntandomi un dito addosso, fino a toccarmi
il petto col polpastrello. E fu ancora peggio quando, all’ennesima minaccia,
gli risposi che se provava a rivolgersi un’altra volta a me con quel tono,
avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per bocciarlo all’esame di
letteratura italiana e latina. Volevo solo spaventarlo e scrollarmelo di dosso,
santo cielo. E invece le mie parole non fecero che fomentare la sua voglia di
spezzare qualche gamba.
Me lo ritrovai sotto casa una di quelle sere, quando ancora doveva fare buio.
Lui e altri due ragazzi che s’era portato dietro mi bloccarono davanti al parco
giochi dietro casa mia, ché a quell’ora, avranno pensato, di lì non ci passava
un’anima. Ero solo io l’idiota che prendevo quella scorciatoia per arrivare prima
a casa, e quelli sicuro mi avevano pedinato. Ohi ohiohi, pensai quando mi ritrovai la bella faccia di Fabio
Martone venirmi incontro. Feci per girare i tacchi e
tornare indietro, ma alle mie spalle avevo uno smilzo e un tarchiato che
sembravano avercela proprio con me. Ma che avevo fatto di male per meritare
tutto questo? Vivere per inerzia non avrebbe dovuto causarmi di questi
problemi. Sempre se il mio castello di carte fosse effettivamente ancora in
piedi o si fosse perso qualche grosso pezzo per strada.
«Adesso chiama il padre di Vale e digli che non vuoi più suo figlio,» mi disse
quella faccia tosta, le braccia incrociate. Lo smilzo e il tarchiato formavano
con Martone un semicerchio che mi chiudeva contro il
cancello posteriore del mio stesso condominio.
«Senti, non posso rovinare un rapporto di fiducia solo per i capricci di un
adolescente in preda agli scompensi ormonali,» dissi io dimostrando dopotutto
una certa freddezza, ma vidi lo smilzo tirare fuori dalla tasca quello che
sembrava un coltellino a serramanico, seppur chiuso.
«Chiamalo adesso. E senza storie,» ripeté Martone, e
io non poteri fare altro che ubbidire, ché quel coltellino lì mi faceva paura,
e non poca. Mi chiesi che diavolo saltasse in testa ai giovani. Pensavo che
fossero interessati alle macchine, alle pasticche e alla discoteca, non a
minacciare un povero insegnante che tenta di farsi gli affaracci
suoi. Per cosa, poi?
Alzai gli occhi al cielo e frugai nella tasca della giacca per poi tirare fuori
il solito cellulare rosso. Cercai il numero di Bruno, con tutta la calma del
mondo, quasi stessi aspettando che un miracolo accadesse e apparisse qualcuno
in tutina da Superman a salvarmi.
«Che sta succedendo qui?» chiese una voce tremendamente familiare. Mi sarei
messo a piangere di gioia. Certo, non aveva la tutina azzurra e rossa, ma ci
poteva stare. Valerio disse di essersi affacciato alla finestra perché stavo
tardando e di aver riconosciuto le nostre figure che discutevano davanti al
parco giochi, quindi era sceso di corsa. Carino da parte sua.
«Non ti intromettere, eh,» sbottò Martone, e non
m’era mai capitato di assistere a una risposta sgarbata da parte sua rivolta
all’amico.
«Certo che mi intrometto. Perché hai portato qui Paolo e Marco?» chiese il
biondo e io, intanto, ne approfittai per far scivolare nuovamente il cellulare
nella giacca.
«Non devo dare conto a nessuno di quello che faccio. E adesso spostati, ché
sono furioso,» disse Martone quando si rese conto che
Valerio aveva intenzione di frapporsi fra me e i suoi due amici teppisti.
«Io non mi muovo da qui finché non te ne sarai andato e ci avrai lasciato in
pace,» rispose Valerio, che a quanto pare era pure coraggioso. Ce l’aveva un
dannatissimo difetto?
«Ci avrai lasciato in pace? Ma come
parli? Come se foste marito e moglie?» fece il moro ancora più adirato, e io
picchiettai sulla spalla del mio coinquilino senza farmi notare.
«Non sarebbe meglio se li tranquillizzassimo e cercassimo di entrare in casa?»
e il premio per la proposta più idiota andava ad Andrea Ruggeri.
«No. Ora sono arrabbiato anche io,» replicò l’altro facendo un passo avanti, i
denti che strisciavano tra loro in un rumore insopportabile.
Oh, perfetto, favoloso.
«La vogliamo piantare con questa sceneggiata?» iniziò allora Castelli, io che
restavo in disparte a fare l’inutile come sempre. «Piantala di essere geloso
per finta. So bene perché fai tutto questo. Piantala di dirmi che lo fai per il
mio bene, che vuoi solo proteggermi, o addirittura che mi ami. Sai almeno che
valore hanno per me quelle parole?» gli chiese retoricamente, ma non gli diede
il tempo di rispondere che riprese a parlargli a cuore aperto. «Conosco le
ultime volontà di Alessio e in tutto questo tempo hai cercato di esaudirle con
intenzioni nobili, nonostante le tue maniere non lo fossero poi tanto. Ma
adesso basta. Non credo proprio che fossero questi i suoi desideri».
«Scusa, che hai detto? Tu lo sapevi?» ribatté Martone,
lo sguardo minaccioso che s’era spento di colpo. E adesso chi era questo
Alessio? Da dove spuntava, dannazione, perché ero l’ultimo a capire come
stavano le cose? Non che mi importasse, ma adesso volevo saperlo e basta.
«Sì, l’ho saputo anche prima di te, ma ho evitato di dirtelo. So bene che era
lui quello da cui eri preso, non io. Quindi finisci questa messinscena e torna
a casa. Fammi quest’ultimo favore,» concluse Valerio, i pugni prima serrati che
adesso si rilassavano gradualmente.
«Non posso tradirlo,» fece in tutta risposta l’altro, il mento ancora alto, ma
tuttavia indeciso sul da farsi, i due suoi amichetti che guardavano in cagnesco
il mio studente. Così decisi che era tempo per me di avere voce in capitolo.
«Valerio,» gli sussurrai dietro la schiena, e il suo nome sembrò strano nella
mia bocca: in effetti era la prima volta che lo chiamavo per nome. «Adesso ce
ne torniamo a casa,» lo avvisai, poi mi rivolsi direttamente ai tre davanti a
noi. «C’è un’auto dei carabinieri che continua a fare avanti e indietro. Se non
ve ne andrete con le mani in tasca, passerete dei problemi. Quindi arrivederci,»
dissi mettendomi accanto a Castelli e prendendolo leggermente dal gomito, per
costringerlo a venire via con me. I teppisti si guardarono tra loro e, anche se
diffidenti, preferirono non rischiare, e s’allontanarono a passo svelto, con Martone che non distolse lo sguardo da Valerio finché non
ebbe girato l’angolo.
«Io non ho visto nessuna volante,» ammise quest’ultimo quando fummo soli.
«Lo so. Ma lo scherzo dei carabinieri funziona sempre. L’ho usato anche con te,»
gli dissi facendogli l’occhiolino, e lui mi rivolse uno sguardo confuso. Gli
feci un cenno con la testa e, in silenzio, continuammo a percorrere la
scorciatoia fino ad arrivare al cancelletto di casa.
«Scommetto che adesso vuoi che ti racconti di Alessio,» provò a indovinare una
volta sedutosi sul divano più piccolo. Io alzai le spalle, fingendomi
disinteressato, ma tanto lui lo sapeva che volevo che me ne parlasse. Non so
come, ma lo sapeva.
«Alessio era…la persona che più contava nella mia
vita. Lo amavo più di me stesso,» iniziò quando mi sedetti accanto a lui. A
quell’affermazione mi trovò impreparato: un brivido di fastidio si fece spazio
dietro la nuca fino a scendere sulla schiena, tanto da farmi portare una mano
dietro al collo per grattarmelo. Sensazione fastidiosa a cui ancora non
riuscivo ad associare un perché valido. Chi era, una sua vecchia fiamma, o
qualcosa del genere?
«Era mio fratello,» disse alzando le spalle, e a quanto pare gli era sfuggita
la mia espressione infastidita. Naturalmente mi sentii in colpa quando mi disse
che si trattava del fratello, perché sapevo solo saltare a conclusioni
affrettate, guardavo sempre il lato negativo di ogni aspetto. E perché poi
sarebbe dovuto essere negativo, il fatto che potesse avere un ex fidanzato?
«E’…morto?» chiesi con tutta la delicatezza
possibile, anche se mi rendevo conto di non averne poi molta. Lui scosse la
testa, ma abbassò comunque lo sguardo sui propri pantaloni.
«Si buttò dal balcone. Stava male per la morte di mamma e per le continue
delusioni che portava al padre. Non si sentiva capito da nessuno, bensì
tagliato fuori dal mondo. Io lo so perché con me ci parlava. Con me e con
Fabio,» spiegò, le mani che si torturavano e iniziavano a tremare.
«Ma…è…?» stavo per fare la stessa domanda di un
momento prima, pensando che non l’avesse sentita, ma quello scosse la testa
ancor prima che potessi finire di parlare.
«No, ha subìto un forte trauma. Adesso dorme in ospedale da un bel po’ di
tempo. Dicono che se si sveglierà, non sarà comunque in grado di vivere
normalmente, sarà come un vegetale, anche se non del tutto. Mio padre dice che
non si sveglierà, ha perso le speranze, ma io praticamente vivo solo per
vedergli aprire gli occhi,» la voce iniziava ad affievolirsi e ad essere rotta
dai singulti che gli partivano dalla gola in suoni gutturali e poco piacevoli.
Dopodiché chiuse gli occhi, come a ricordare quei momenti, o probabilmente per
trattenere le lacrime. Io lo guardai sinceramente mortificato e gli misi
istintivamente una mano sulla spalla. Forse non serviva a molto, probabilmente
a niente, ma volevo fargli capire in qualche modo che io c’ero, ero lì e lo
stavo ascoltando. «Scrisse un messaggio sul cellulare che ritrovai io per primo
sul balcone. Un messaggio che voleva inviare a Fabio, ma che non aveva più
inviato. Così glielo mandai io credendo che fosse importante, poi finalmente mi
chiesi che ci faceva il cellulare di Alessio là fuori. Allora guardai giù,
sulla strada,» si interruppe perché bloccato da un singhiozzo. Il viso iniziò a
bagnarsi improvvisamente, le lacrime scivolavano veloci fino a raggrupparsi sul
mento, ma quello non emetteva suoni che non fossero leggeri singhiozzi
gutturali, quasi fosse abituato a piangere a quel modo. Quasi non fosse una
novità. La mia mano scivolò sulla sua schiena e lo attirò verso il mio petto,
lasciando che si sfogasse un po’ lì, silenziosamente, le guance che
s’imporporavano piano, gli occhi che iniziavano a gonfiarsi e arrossarsi per lo
sforzo. «Il messaggio diceva: “Prenditi cura del mio tesoro”, e quel tesoro sarei
io. Per questo Fabio mi sta addosso, perché gliel’ha chiesto Alessio. E Fabio
stravedeva per lui, non ne hai idea,» tirò su col naso parlando a scatti, poi
affondò ulteriormente la fronte nel mio maglioncino, le dita che ne stringevano
debolmente un lembo. «Adesso sai dov’è che me ne andavo quando tornavo tardi a
casa. Da Alessio.» un'altra pausa, poi si mise d’impegno per tentare di
trattenere al meglio i respiri affannosi. «Sembra che le persone a me care
siano destinate a sparire».
Lo strinsi più forte, lasciando che alzasse la fronte per respirare, e intanto
pensai che i miei problemi non erano neanche paragonabili a quello che aveva
passato lui. Eppure lo vedevi sempre sorridente, ottimista, attivo, genuino,
altruista, beneducato. E non avevo idea di dove prendesse tutta quella forza.
«Manchi solo tu, adesso,» mormorò ad un certo punto.
«Cosa?» allentai la presa e gli permisi di alzare gli occhi rossi e gonfi nei
miei.
«Sparirai anche tu, da un momento all’altro,» si spiegò, il labbro inferiore che
tremava. Non avrei mai pensato di vederlo piangere in quel modo. Eppure mi
ritrovai a pensare che avesse un bell’aspetto anche ad occhi venati di rosso e
con le labbra piegate all’ingiù.
«Non ti devi preoccupare di questo,» mormorai, e pure la mia voce era gutturale
adesso.
«Non puoi immaginare quanto mi preoccupa, invece,» fece lui, le dita che
presero a stringere di più sulle mie braccia. Lo guardai col capo inclinato di
lato, cercando di pensare a quand’è che ero stato così importante per qualcuno.
E quand’è che qualcuno lo era stato così tanto per me.
Mi piegai su di lui, adesso che aveva lo sguardo stanco che guardava oltre la
mia spalla, poi avvertii il sapore delle sue lacrime quando gli toccai la
guancia con le labbra e successivamente la bocca umida di pianto.
Il tempo sembrò fermarsi lì, e non era solo un modo di dire. Forse ero io che
m’ero bloccato sulla sua bocca, incapace di allontanarmi, una mano che cercava
la sua e la stringeva, avvertendo il palmo sudato e i polpastrelli delle dita
freddi come il ghiaccio. Solo in quel momento sollevai il capo, e aprii gli
occhi che avevo chiuso d’istinto, per poi ritrovarmi davanti la sua espressione
del tutto imbarazzata, gli occhi lucidissimi che evitavano in tutti i modi i
miei. Le labbra gli tremavano facendo quasi battere i denti, e le gote erano
ormai rosso pastello. A quei segnali ebbi un cattivo, cattivissimo
presentimento. I
dettagli più frequenti sono la lucidità degli occhi, perché le palpebre
sbattono più velocemente, i palmi delle mani sudano leggermente e le punte
delle dita diventano gelide. Le labbra tremano quasi impercettibilmente e, per
i più sensibili, vi è il tipico rossore delle guance. Deglutii e, quasi con timore, feci pressione col pollice sul polso del
ragazzo, sentendo distintamente il cuore mancare di un battito. Merda. Questo ragazzo s’è appena innamorato
di me. Poi feci attenzione al mio respiro del tutto irregolare e al mio viso: lo
sentivo caldo, bollente, quasi fosse sferzato dalle fiamme, e mi dissi che,
merda, ci ero cascato in pieno anche io.
---
Il mio primo giorno di università è stato
un trauma. Perché la sede è lontana da casa mia, e ho una lezione al mattino e
una al pomeriggio, e devo fare avanti e indietro col pullman, e, e…sono distrutta. Intanto però, al test di piazzamento di
inglese, ho fatto 96 su 100. Il che allevialeggermente le mie sofferenze fisiche.
Ma tanto ho aggiornato lo stesso perché mi dite che volete leggere il seguito,
e, e, mi sento in dovere di ringraziarvi per le vostre gentilissime e apprezzatissime recensioni **
Nel capitolo ho introdotto tre personaggi nuovi: Simona, Michele e Alessio.
Simona è Andrea al femminile, solo meno boriosa e pigra, ma credo si fosse
capito XD Michele è un bimbo bello ma con la lingua lunga, e ce ne sono fin
troppi, di bimbi così, haha! Alessio volevo farlo
morire, ma è brutto che muoiano tutti, quindi ho cercato una soluzione
alternativa ma non meno triste. Povero Cristo. Ah, Alessio me lo sono
immaginato coi capelli biondi corti e pettinati all’insù, gli occhi castani e
il pizzetto a mo di capretta sul mento lol Tanto per
dargli un volto XD
E poi sì, il momento bacio è arrivato *fa festa
lanciando coriandoli*, anche se non si è sicuri che
Valerio l’apprezzerà come si deve. Si vedrà.
Grazie ancora se recensirete, vi abbraccio forte!
Ricordo che dopo quel bacio, il mondo sembrò tornare a girare, e io mi portai
la mano aperta alla bocca lasciando vagare gli occhi oltre la spalla di
Valerio, il cuore che sembrava sprofondarmi sui piedi, mentre sentivo il suo
sguardo che andava e veniva, quasi mi guardasse e poi evitasse di farlo alla velocità
della luce. Non pensai a niente, in quel momento. Ero solito passare tutto il
giorno in elucubrazioni mentali, ma in quei secondi, davvero, avevo il vuoto
cosmico in testa, un battito frenetico che mi rimbombava nelle orecchie, lo
sguardo perso in chissà quali mondi sconosciuti.
Tornai in me solo nel momento in cui Valerio si alzò tremando e, a passo svelto
e testa bassa, andò a chiudersi in quella che era diventata camera sua, senza
più dirmi una parola. Mi chiesi che mi era saltato in testa, che diavolo
credevo di fare, se per caso fossi impazzito; e lo stesso non riuscii a
nascondere la preoccupazione di quella sua reazione, perché, seppur
inconsciamente, avevo creduto che sarebbe andata in modo diverso. Mi ero in
qualche modo convinto –o più propriamente, era stato lui più volte a cercare di
farmelo capire- che una sorta di sentimento strano e sconosciuto ci fosse, da
parte sua. Per quello, quando si alzò e se ne andò senza neanche guardarmi, mi
venne spontaneo rimanerci un po’ male. Forse avevo invaso la sua privacy o,
ancora più probabile, avevo frainteso tutto quanto e da parte sua non c’era
alcun tipo di sentimento che si avvicinasse all’affetto amoroso. Ah, ma a cosa
diavolo pensavo?! Sembrava stessi analizzando e commentando un carme catulliano. Sed fieri sentioetexcrucior. Ahh, no, basta, basta! Dovevo prendere una boccata
d’aria fresca, per forza, o sarei soffocato, in quell’aria pregna di sensazioni
strane che sembrava premere su di me come un macigno e allo stesso tempo mi
dava l’impressione di galleggiare, sospeso tra mille bollicine.
Che cazzo avevo bevuto? Che Valerio m’avesse corretto il caffè? E di nuovo
c’era sempre quel ragazzino a insinuarsi nei miei pensieri.
Sfregai più volte le mani sui pantaloni e mi decisi ad alzarmi, sentendo la
testa girare leggermente. Ma possibile che fossi sobrio? Ubriaco d’amor-
UBRIACO D’AMORE?! Ma mi rendevo conto delle cazzate che mi passavano per la
testa? Basta, sarei uscito. Avevo già la giacca sotto il braccio quando
percorsi il corridoio fino ad arrivare all’ultima stanza, quella in cui Valerio
sembrava essersi chiuso.
«Sto uscendo un’oretta. Per caso vuoi venire?» chiesi, le labbra accostate al
vetro giallognolo della porta. Certo che ero furbo: uscivo per tentare di
riordinare le idee –e intendevo farlo da solo- e poi chiedevo al mio studente
se voleva venire. Magari a complicare le cose, visto che in quel momento filava
tutto liscio come l’olio. Quello comunque non mi rispose e io, automaticamente,
tirai fuori il portafoglio che tenevo nella tasca della giacca e da lì presi il
mio biglietto da visita –che, per altro, non davo mai ad anima viva- per poi
farlo passare sotto alla porta.
«Qui c’è il mio numero. Chiamami, se hai bisogno,» dissi a voce sostenuta, ma
non ricevetti nuovamente risposta. Magari voleva solo stare un po’ solo,
esattamente come me. Abbassai il capo, infilai la giacca e me ne uscii, notando
come fosse già buio, lì fuori. Ficcai le mani in tasca e nascosi il viso dal
naso in giù nel colletto della giacca, lo sguardo fisso sulla strada, col
rischio di inciampare e cadere su qualche passante. Pensai che in quel modo
avrei causato dei problemi alle persone, e che chi vive per inerzia non causa
alcun tipo di disturbo o problema a coloro con cui entra in contatto. Ma in
quel caso l’avrei fatto, avrei urtato qualcuno, perché non mi guardavo attorno,
ero totalmente sovrappensiero, e questo portava a domandarmi se non stessi
iniziando ad abbandonare la vita che avevo sempre condotto.
Camminai fino alla scuola media del mio quartiere e mi appoggiai al suo
cancello accendendomi una sigaretta, frustrato. Qualcosa stava cambiando, me lo
sentivo dentro. La mia vita non era più piatta, stava iniziando ad avere degli
alti e bassi. Mi strinsi una mano all’altezza del petto quasi a voler far
rallentare il battito cardiaco con quella stretta, e mi chiesi che diamine mi
stava succedendo e, soprattutto, se ne valesse la pena dare una svolta alla
vita, cambiare abitudini, cambiare visione del mondo. Cambiare e basta,
insomma.
Presi una lunga boccata e chiusi gli occhi, recitandomi in testa Pablo Neruda,
le parole che sembravano illuminarsi sulle mie palpebre: “Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che
un insieme di emozioni,proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.” Quelli erano sentimenti, lo erano
per forza, e quello era anche un errore. E inoltre, il cuore batteva. Batteva
ed era particolarmente fastidioso.
Ero così sovrappensiero che neanche mi accorsi di una figura ben piazzata che
mi passò davanti per poi fermarsi, forse avendo riconosciuto il mio volto. «Andrea?» mi chiese,
quasi non ne fosse poi tanto sicuro. Eppure ci eravamo visti giusto un paio di
settimane prima, santo cielo. Lo guardai passando lentamente gli occhi sui suoi
lineamenti appena illuminati dal lampione sulla strada, poi salutai con un
cenno del capo non troppo entusiasta.
«Ah…Guido,» dissi riconoscendo la pancia da birra
tipica del mio amico.
«Che ci fai qui fuori tutto solo?» mi chiese coprendo con la sua schiena
immensa l’unica fonte di luce a me disponibile.
«Niente, sto pensando,» risposi semplicemente, la sigaretta che si stava
consumando da sola col passare del tempo, lo sguardo fisso nel vuoto, per non
guardare il mio amico, che quella sera mi sembrava ancora più rotondo.
«Sigaretta? Che c’è, pene d’amore?» Le sue domande erano sempre piuttosto
invadenti e fastidiose.
«Forse,» risposi lasciando la questione in sospeso.
«Okay, vuoi fare il misterioso… Ascolta, ci sarai
anche tu domani sera?»
«Dove?» chiesi, tanto per chiedere. In realtà avevo altro a cui pensare. Ben
altro.
«Ci eravamo organizzati per andare al cinema tutti insieme. Gaia non te l’ha
detto?» fece Giudo, gli occhi che seguivano la punta
bruciata della sigaretta, quasi ne fosse attratto terribilmente.
«Le sarà sfuggito». Lui si mise a pensare con una mano sul mento, anche se
sapevo benissimo che al massimo stava pensando a un criceto che gira sulla sua
ruota.
«Forse non te l’ha voluto dire perché ci sarà anche April,»
mi rivelò quindi.
«Allora non contare sulla mia presenza,» dissi in fretta per poi buttare fuori
l’ultima nuvola di fumo, lasciar cadere la sigaretta e schiacciarla con la
punta del piede, per poi calciarla lontano.
«Ma dai, che ti importa? Almeno ti sfoghi un po’, ti vedo molto stanco».
«Lo sono, Guido, lo sono,» ammisi, forse più a me stesso, ed ero quasi tentato
di tirare fuori un’altra sigaretta. Dovevo tenermi impegnato con qualcosa, ché
parlare con Guido non mi soddisfaceva più di tanto.
«E allora! Andiamo a vederci un film e dopo ci facciamo una birretta.
Non è mica detto che devi parlarci, con April,»
esclamò regalandomi una pesante pacca sulla spalla. Ma era proprio quello il
problema: se l’avessi vista, mi sarebbe venuta voglia di chiederle se era vera
la storia del bambino e, se la risposta fosse stata affermativa, perché mi
aveva mentito, e poi tante altre cose. Ma non volevo far trasparire ancora la
mia preoccupazione per lei, perciò alzai le spalle, quasi non facesse poi tanta
differenza per me.
«Ci penserò. A che ora inizierebbe il film?» chiesi infine.
«Alle venti, ma ci vediamo lì una mezz’oretta prima, sennò i biglietti li
vediamo col binocolo».
«Okay. Dove, al The Space?» chiesi grattandomi la
nuca. Nemmeno mi ricordavo se si chiamava Medusa o The Space.
Forse erano la stessa cosa? Non andavo al cinema da secoli, era roba da
giovani. I film facevo che scaricarmeli illegalmente. Complimenti, professore,
continui pure così a infrangere le regole, proprio lei che è un docente.
«Esatto. Allora ci conto, eh? E porta tu le sigarette, ché mia moglie mi ha
vietato categoricamente di fumare,» fece Guido sospirando. Allora feci che
allungargliene una delle mie consigliandogli di fumarsela mentre tornava a
casa.
«Ma come farò con la puzza?» si chiese allarmato rigirandosi tra le dita quello
che per lui era un gioiello.
«Senti, mi sembri un adolescente problematico che ha paura della mamma.
Fumatela e basta!» esclamai, e nel mentre gli infilavo nella tasca della
camicia il mio accendino giallo. «Tieni, ti regalo anche l’accendino. Io sto
tentando di smettere,» aggiunsi, poi girai i tacchi, e iniziai ad allontanarmi
quasi a fargli capire che non ammettevo repliche.
«Ehi, cafone, saluta almeno!» mi urlò dietro lui, e sicuramente lo sentì almeno
mezzo quartiere. Alzai gli occhi al cielo.
«Cosa vuoi, che ti baci?» chiesi senza neanche girarmi, e a un tono di voce
decisamente più basso del suo.
«’Fanculo, Andre, sei
simpatico come un ombrello aperto nel culo,» borbottò lui, e sentii il rumore
dell’accendino che scattava, segno che s’era finalmente deciso ad accendersi la
sigaretta. Mi venne da ridere a quell’immagine dell’ombrello nel culo, e voltai
il capo di profilo.
«Ci vediamo domani,» dissi trattenendo la risata, e lo intravidi mentre mi
mandava a quel paese col braccio e si poggiava a sua volta al cancello per
fumare tranquillo. Scossi la testa con un sorriso e mi incamminai per tornare a
casa. Ero a metà strada quando mi squillò il cellulare rompendo quella quiete
bellissima che s’era venuta a creare. Controllai il numero sul display, ma non
lo conoscevo.
«Pronto».
«Un’ora è passata da un pezzo,» riconobbi quella voce spazientita come quella
di Valerio. Il cuore mi sprofondò nel petto e allo stesso tempo il lato destro
della bocca si sollevò in un mezzo sorriso.
«Che fai, mi controlli?» chiesi ironico, ma dall’altra parte non ci fu cenno di
risata. «Comunque, non preoccuparti, sono quasi a casa,» dissi quindi, per
colmare quell’attimo di disagio.
«Okay. Non passare dalla scorciatoia dietro casa,» mi raccomandò prima di
chiudere la comunicazione, senza la possibilità quindi di ascoltare il mio “Non
lo farò”. Ma che aveva quel ragazzo? Ah, è vero. Anche lui era uno di quegli
adolescenti problematici di cui avevo parlato prima, solo che lui non aveva una
madre di cui aver paura.
---
Quando entrai in casa, Valerio era rannicchiato sul divano –quasi fosse a casa
sua- a guardare la televisione sintonizzata su Zelig, ma sul suo viso non c’era
ombra di risate. Forse le battute erano peggiorate? Ricordavo fosse un
programma che almeno un sorriso sincero te lo strappava. Notai che evitava di
guardarmi, e il cuore non poté che stringermisi.
«Come stai?» gli chiesi mentre mi spogliavo della giacca.
«Abbastanza male,» rispose quello senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Vuoi parlarne un po’ con me?» gli proposi, leggermente spaventato dalla
risposta che potevo ricevere.
«Perché ti faccio pena?» chiese lui di rimando con le labbra che tremavano, e
io scossi la testa con un sorriso sghembo. Ecco che cos’era, allora. Credeva
che quella mia iniziativa fosse dovuta alla grande pena che provavo per lui e
per la sua triste storia. Forse dovevo fargli capire che, quando la gente mi fa
pena, di solito la compatisco e basta, non mi metto a baciarla sulla bocca.
«No. Perché ti vorrei conoscere un po’ meglio,» dissi sinceramente alzando le
spalle, adesso più tranquillo, poi mi permisi di accomodarmi accanto a lui che,
fortunatamente, restò fermo lì dov’era.
«Hai già visto come sono: piagnucolone, depresso, insistente, sfigato,
disadattato. Cosa vuoi sapere altro?» sembrava dov’esse avere un altro attacco
di pianto. E a me fece solo tanta tenerezza. Di solito non ero sensibile a
sceneggiate del genere, mi provocavano solo l’ennesimo fastidio.
«Io non vedo solo questo. Vedo anche un ragazzo studioso, bravo in cucina,
capace a relazionarsi coi bambini, eccezionale nel ballo, ordinato,
intelligente e di bell’aspetto,» sorrisi un po’ di più, cosa che, in effetti,
non facevo quasi mai. Ma questa volta le guance sembravano tirare verso
l’esterno in modo spontaneo, per nulla forzato. Lui si accorse della mia
espressione così diversa, e incrociò le gambe sul divano.
«Come sai che ballo?» mi chiese quindi, non con tono diffidente, semplicemente
curioso.
«L’altro giorno, in quella palestra… mi è capitato di
sbirciare nella sala in cui ti eserciti.» dissi e gli feci quello che doveva
sembrare un occhiolino. Lui cambiò espressione, il volto sembrò illuminarsi, e
mi dissi che ci metteva poco a cambiare umore: era tutto così repentino, se
aveva a che fare con lui.
«Davvero? E che ne pensi della coreografia?» chiese con un cipiglio nuovo.
«Ne ho vista solo una parte ma, per quello che ho visto, non è male. E tu sei
molto bravo, nessun dubbio in merito,» dissi dopo aver appoggiato il gomito
allo schienale del divano e mi fui girato per bene verso di lui, che a quelle
parole mi guardò di sottecchi.
«Mi sta lecchinando, professore?»
Scoppiai improvvisamente in una fragorosa risata, e dovetti portare la mano
davanti alla bocca aperta per non fare troppo rumore.
«Direi di no. Non ne sono in grado, davvero…»
«Allora cos’era quel bacio?»
La sua domanda improvvisa mi spiazzò, e pensai di essere diventato viola per la
vergogna. Inoltre, la mia risata fragorosa era diminuita d’intensità tutto d’un
colpo e adesso s’era trasformata in una risatina imbarazzata, una di quelle che
vogliono cavarti d’impiccio ma che alla fine non fanno che lasciar affondare
ancora di più il piede nella fossa.
«Beh, quello…era…» mi
grattai la testa guardando in basso a destra, mentre Valerio si affrettava ad
agitare le mani davanti a me.
«Non importa, scusa, sono io che sono insistente come al solito,» disse, pure
lui con la risata imbarazzata. Mi sentii sollevato per non dover dare una spiegazione
a quel gesto avventato. Un gesto che però, mi accorsi, forse non era stato poi
così avventato, dato che avevo ancora voglia di farlo, mentre guardavo i suoi
occhi chiari che sembravano supplicarmi un altro bacio. Mi dissi: “Al diavolo,”
e in quell’attimo di silenzio che seguì, mi allungai su di lui e gli lasciai un
mezzo bacio sul lato della bocca, breve e veloce, per poi alzarmi in piedi,
troppo imbarazzato per guardare la sua espressione con possibile reazione.
«Vado a letto, buonanotte,» dissi frettolosamente spacciando quello come un
bacio della buonanotte.
«Sono le nove…» fece Valerio in un soffio prima che
potessi allontanarmi ulteriormente.
«C’è qualcosa in tv?» chiesi, il momento di imbarazzo che sembrava svanire man
mano.
«Inception
tra poco,» fece quello prendendo in mano il telecomando, il tono nuovamente
allegro, quasi quella sera non fosse successo assolutamente nulla. Quasi non
avesse mai discusso con Martone, non si fosse mai
confidato con me piangendo come un dannato, quasi non lo avessi baciato, quasi
il nostro rapporto non fosse cambiato. In qualche modo mi sentii di doverlo
ringraziare mentalmente: stava riuscendo a non farmi sentire a disagio.
«Non so cosa sia».
«Non conosci Inception?!» fece il ragazzo a bocca
spalancata, il telecomando che per poco non gli cadeva di mano.
«Dovrei?» chiesi sorridendo con le braccia conserte.
«Non capisci niente, vai a dormire,» ne concluse lui mentre si sistemava meglio
sul divano e cambiava canale.
«Ah, tu ordini a me di andare a dormire?» domandai con un sopracciglio alzato,
sinceramente divertito dalla situazione. Poi mi lasciai andare di peso sul
divano –facendo quasi saltare l’altro- e appoggiai le mani sulle gambe aperte. «E
adesso, per ripicca, resto qui a guardare questo fantomatico film,» dissi
quindi, mentre sentivo la sua risata riservata propagarsi nell’aria.
«Non te ne pentirai,» fece, più contento, poi si alzò per andare a spegnere la
luce.
Dalla metà alla fine del film, fatta eccezione per la pubblicità, Valerio tenne
il capo appoggiato sulla mia spalla e io non ebbi neanche il coraggio discrollarmelo di dosso. Mi chiesi se mi
rendevo conto della confidenza che si stava prendendo quel ragazzo e del fatto
che io gliela permettevo, gliela concedevo. Mi dissi che quella confidenza mi
muoveva qualcosa nel petto e nello stomaco, mi scuoteva l’anima e lasciava che
le membra formicolassero. Come quella sensazione di quando ti si addormenta
qualcosa e tenti di svegliarla.
Mi stavo svegliando anche io. Non esistevo più, iniziavo a vivere.
---
Non sapevo se far finire qui il capitolo
o mandarlo avanti, ma alla fine ho deciso di spezzare, anche perché il quaderno
in cui ho scritto la storia, termina qui XD Poi va avanti in un altro quaderno,
ma va beh.
Nello scorso capitolo ho dimenticato di fare un paio di appunti, uno dei quali
l’ho illustrato nella risposta a una recensione. Il primo riguarda una metafora
che nessuno avrà colto, perché l’ho voluta vedere solo io, e comunque non ho
fatto granché per metterla in risalto XD Si tratta di Robin Hood. Valerio bacia
sulla guancia Andrea, e in quel momento Michele interviene per dire loro che
Robin Hood sta per scoccare la freccia. Questo perché, in contemporanea, anche
un altro tizio stava per scoccare una freccia (Cupido) HAHAHAHAH Sono ridicola,
Cristoddio.
Poi, secondo punto. Nello scorso capitolo, Andrea s’è addormentato sul divano e
al risveglio s’è trovato addosso una coperta, opera di Valerio il Premuroso.
Ora, “Ormai vivevo solo, e avevo
ancora l’abitudine di suonare al citofono, quasi aspettandomi che qualcuno mi
facesse la cortesia di aprirmi e magari di salutarmi con un bacio e magari di
chiedermi della giornata e magari di farmi sedere a tavola e mangiare e magari
di mettermi su una coperta nel caso mi fossi addormentato sul divano.” (Capitolo
Primo). Coincidence? I THINK NOT.
Su questo capitolo invece non ho molto da dire; Guido è comparso nel secondo
capitolo, mi pare. E’ uno degli ex compagni di liceo, si trovava a casa di Sara
insieme a Gaia e Francesco. Inception è un film a cui sono affezionata e che, mi
vergogno di dirlo, non conoscevo. Ne sentivo parlare in continuazione, ma non
mi ero mai decisa a vederlo. Poi alcune sere fa l’hanno mandato in televisione
e mi ci sono messa d’impegno XD Mi ha presa tantissimo, l’ho trovato
eccezionale *_*
Grazie ancora per le recensioni, faccio il possibile per poter rispondere a
tutti, perché mi riempitedi gioia e ci
tengo a farvelo sapere. Un bacio!
La mattina dopo mi svegliai prima del previsto, ma in un certo senso ero stato
sempre sveglio. Ero riuscito a dormire sì e no due ore, mentre il resto della
notte l’avevo passato a far lavorare il cervello come poche volte aveva
lavorato, anche se sapevo che la parte razionale di esso stava andando
lentamente a farsi fottere. Le seghe mentali che m’ero fatto quella notte erano
state spaventose, allucinanti, pensai che durante tutto il corso della mia vita
non mi ero mai fatto un terzo di quelle pare mentali. Nemmeno quando dovevo
decidermi se sposare o no April. Lì m’era bastato
farmi due conti in testa e dirmi che mi sarebbe convenuto accasarmi. E poi mio
padre ci teneva particolarmente a vedermi sull’altare prima di lasciare le
penne. Probabilmente l’avevo fatto solo ed esclusivamente per vederlo sorridere
fiero di me e spegnersi con l’espressione serena e il sorriso sulle labbra.
Forse non sarebbe più stato così fiero di me se mi avesse visto in quel
momento, con una mano che premeva in mezzo alle gambe sopra la stoffa dei
pantaloni del pigiama, il respiro corto che tentavo di mozzare ulteriormente
per il terrore che quello che dormiva nella stanza accanto alla mia potesse
sentirmi, gli occhi chiusi e i polpacci che si contraevano lasciando le gambe
doloranti, mentre le dita dei piedi si allungavano verso la base del letto. Le
seghe mentali di quella notte non avevano fatto altro che mettermi addosso la
voglia di farmene una vera e propria, quasi per esorcizzare quei pensieri
insistenti che non avevano nessuna intenzione di lasciarmi in pace. Li avrei
cacciati via, quei pensieri, insieme col mio sperma, una volta travolto
dall’orgasmo. Cercai a lungo, tra i ricordi, qualcuno su cui fantasticare,
qualcuno da poter spogliare col pensiero e con cui potevo far cigolare un letto
immaginario. Mi venne da piangere dalla vergogna quando mi resi conto che
l’unico che non faceva che comparirmi dinanzi agli occhi era Valerio Castelli.
Avrei voluto fustigarmi e sbattere la testa contro il muro fino a perdere la
capacità di pensare.
Alla fine ci rinunciai, pensando di non essere nelle condizioni migliori per
masturbarmi. Quando mi misi in piedi, mi resi conto dal modo in cui mi
brontolava lo stomaco che la sera prima non avevo cenato, e avevo lasciato a
digiuno anche Valerio. Ma pure lui non s’era preoccupato di farsi un panino al
volo o di sgranocchiare due grissini. Si vede che entrambi avevamo ben altro
per la testa.
Feci un’abbondante colazione e trovai il tempo di fumare una sigaretta in
balcone, poi andai a vestirmi in silenzio assoluto. Valerio non aveva lezione
quel giorno, mentre io avevo da gestire un laboratorio di analisi, commento e
approfondimento di un testo letterario; quindi non mi azzardai a svegliarlo
come a volte mi capitava di fare. Prima di andarmene aprii comunque cauto la
porta della camera in cui dormiva, poi mi venne spontaneo sorridere e mi
appoggiai allo stipite della porta con le braccia conserte mentre tenevo gli
occhi sulla sua strana posizione: se ne stava spaparanzato a pancia in su, con
le braccia sopra la testa e i polsi che si sovrapponevano, la coperta che gli
arrivava all’ombelico scoperto. Mi allontanai dallo stipite con le braccia
ancora conserte e mi chinai sul suo letto per coprirlo meglio, giusto per
evitare che prendesse freddo. Gambe e braccia sembravano muoversi da sole, non
ero io a governarle, facevano tutto loro. Portai la coperta sino al suo petto,
poi lui, in un gesto incondizionato durante il sonno, fece schioccare la
lingua, si leccò i lati della bocca e abbassò le braccia per poi stringere tra
le mani la coperta che gli avevo praticamente porto. Dopodiché, si voltò su un
fianco riprendendo a respirare profondamente, una gamba che s’era piegata fino
a sfiorare il gomito del braccio destro. Era quasi in posizione fetale, adesso.
Mi incantai sulla sua espressione beata e mi venne voglia di mollare tutto e
distendermi lì al suo fianco, a riposare con lui. Ma dovevo anche smetterla di
farmi venire certe voglie, che sicuramente non s’addicevano a me. Mi ero già
dimenticato di April e di quell’affaruccio
da niente riguardante il possibile bambino che portava nell’addome? E avevo
scartato del tutto la proposta di quella gatta morta di Gaia di ricominciare
tutto daccapo? Ma soprattutto, mi ero forse scordato di essere il suo
insegnante, di avere quindici anni in più di lui e di essere un uomo? Eh? Mi
stava sfuggendo un po’ tutto di mano, a quanto pareva. Mi venne in mente Giulio
e il fatto che aveva più o meno previsto come sarebbero andate le cose. Se in
futuro avessi avuto bisogno di un cartomante, lo avrei chiamato di sicuro.
Scossi la testa per mandar via i pensieri molesti, poi inforcai gli occhiali da
vista che avevo infilato nel taschino della giacca e me li misi sul naso,
sempre per non dimenticarmeli, ché già l’ultima volta li avevo scordati sul
comò accanto alle sigarette.
---
Il laboratorio fu in grado di farmi pensare solo a forme retoriche e parafrasi
per un paio di ore, e fu un piacere vedere i ragazzi partecipare attivamente
alla lezione: sembravano litigare per chi doveva alzare per primo la mano e
quindi ricevere da me il permesso di parlare. Riuscii quasi a divertirmi. Il
che ammortizzò la mia esasperazione quando, una volta tornato a casa, trovai
mia sorella e mio nipote girare allegramente per le stanze.
«Non ti avevo detto di venire il meno possibile?» chiesi retoricamente mentre
lanciavo la cartella sulla sedia in salotto e mi sfilavo pacatamente la giacca.
«Era quello che avevo intenzione di fare. Ma Michele voleva assolutamente
vedere il tuo amico qui,» replicò Simona, e indicò Valerio, che la fissava fin
troppo intensamente mentre Michele se ne stava appeso alla sua gamba e gli
strattonava i jeans.
«Che hai da guardare?» fece allora mia sorella con faccia arcigna.
«No, è solo che… Non ho mai visto una cosa simile…» disse l’altro, e faceva davvero fatica a parlare,
quasi avesse la salivazione azzerata.
«Che cosa? Ho del tacchino tra i denti?»
La guardai di sottecchi: certo che ne sparava, di cazzate.
«No, no, il fatto è che…insomma, lei e suo fratello
siete praticamente la stessa persona,» disse il ragazzo spostando più volte lo
sguardo da me a Simona.
«Si chiamano gemelli, caro. E poi cos’è, una presa in giro? Sono io quella
mascolina o è lui l’effeminato?» fece quella, e io mi sedetti sul divano
cacciando la testa all’indietro e buttando fuori un sospiro sconsolato.
«Ha ragione Valerio. Infatti a volte mi sbaglio e chiamo “Mamma” lo zio,»
intervenne il piccolo Michele togliendo d’impiccio Valerio, che trattenne una
risata. «Che facciamo oggi, Valerio?» riprese poi mio nipote, adesso che aveva
l’attenzione del suo nuovo amico. Quello sorrise stringendo gli occhi e si
accucciò sul bambino poggiando le braccia sulle gambe piegate.
«Vedi, oggi non potremo giocare perché io ho le prove di ballo. Tu sai ballare?»
disse fintamente dispiaciuto, e io intanto ascoltavo la loro conversazione con
un cipiglio divertito: guardare interagire mio nipote e Valerio mi metteva
addosso un’inquietante serenità.
«Certo, sono il migliore della scuola,» rispose Michele tutto pompato.
«Allora perché non vieni a ballare con me?» propose il biondo, gli occhi che
sorridevano tanto da sembrare chiusi.
«Sì, sì, dai, andiamo in fretta».
«Ci andremo dopo pranzo. Dai, ché ho preparato un po’ di pesce, dei piselli e
dei finocchi di contorno. E come frutta, le banane!»
Inutile dire che quel pranzo mi sembrò fin troppo ambiguo. Non pensare male, ti prego, è una coincidenza, non saltare a
conclusioni affrettate, mi ripetevo mentre chiudevo gli occhi e mi passavo
una mano sulla fronte. E poi, magari, non era una coincidenza, ma il subconscio
del ragazzo che mi lanciava chiari messaggi. Cosa avrei dovuto fare, in
situazioni simili? Cosa?
«Immagino che dovrò accompagnarli io per badare a Michi,
giusto?» azzardai per poi lasciarmi andare a un lungo sbadiglio.
«Mi sembra ovvio. Infatti, io sto per andarmene,» e un attimo dopo, Simona era
già fuori casa, veloce come il vento, e stava pure per impigliarsi la giacca
nella porta, per quanto andava di fretta.
---
Passammo il resto del pomeriggio sulla porta della sala da ballo a guardare
Valerio che si esercitava. Dopo l’imbarazzo iniziale –me ne stavo lì dritto
come uno stoccafisso, col timore incombente che qualcuno mi riprendesse e mi
dicesse di levarmi dalle scatole, ché non potevo stare lì- la mia attenzione fu
del tutto rapita dai movimenti fluidi del mio studente, che quasi sembrava
soffrire a ogni nuovo passo, non capivo se per la canzone o per il
coinvolgimento nella coreografia. Era uno dei più motivati lì in mezzo: era
talmente serio e concentrato e trasportato dalla musica, che sembrava stesse
già ballando su un palco degno di essere chiamato tale davanti a centinaia di
persone.
Ero talmente preso, che neanche m’accorsi di mio nipote che ad un certo punto
prese la rincorsa e sfrecciò tra i ballerini iniziando a urlare per imitare il
ritornello della canzone. I ragazzi si videro costretti a interrompere il
balletto per non schiacciare mio nipote, mentre l’istruttrice trovò la scena
troppo divertente per non ridere. Poi andò a spegnere la musica dicendo che per
quel giorno sarebbe bastato così, e fece un applauso ai ragazzi, che pure si
congratularono gli uni con gli altri. E io ero ancora mezzo incantato per
rendermi conto di tutto questo ambaradam. Mi diedi
quindi dell’idiota per essermi lasciato sfuggire il bambino, e andai a
recuperarlo mormorando uno “Mi scusi” vergognato all’istruttrice, che intanto
si asciugava il collo con un piccolo panno e si slegava i capelli. Lei disse,
“Si figuri, è un bambino,” e si piegò sul borsone aperto vicino allo specchio.
«Allora? Ti è piaciuto?» chiese Valerio rivolto a Michele, le mani poggiate
sulle cosce e un asciugamano appeso al collo.
«Molto,» risposi io al posto di mio nipote, che mi guardò incrociando le
braccia e poi si ritrovò attratto terribilmente dalla radio; neanche me ne
accorsi quando la sua mano scivolò dalla mia e andò a toccare tasti a caso
della radio.
Valerio intanto era arrossito visibilmente a quella mia risposta, e di nuovo
tentava in tutti i modi di guardare altrove, e sembrava essersi dimenticato
anche lui di Michele. Solo l’istruttrice faceva caso a lui: gli si era piegata
accanto raccomandandogli di non toccare troppo la radio. Laura se ne andò in
quel momento salutando Valerio e muovendo la mano in alto, segno che in qualche
modo i due avevano fatto pace.
Io tossii piano, imbarazzato, e approfittai della conversazione avviata per
avvisare il ragazzo che quella sera sarei andato al cinema con qualche amico.
Tanto per non lasciarlo impreparato.
«Ah, anche io vado a vedere un film. Fabio vuole scusarsi con me, così usciamo
un po’ stasera,» disse lui asciugandosi maggiormente il collo.
«Allora è possibile che ci incontreremo. Chissà, magari ti farò conoscere anche
la mia ex moglie,» dissi, particolarmente curioso della sua reazione. Quello
infatti sgranò gli occhi, ma fece di tutto per non sembrare sorpreso.
«Ci sarà anche lei?»
«Sì, ma cercherò di trattenere la voglia di parlarle,» feci alzando leggermente
le spalle.
«Perché, cosa devi dirle?» mi chiese lui senza neanche far caso ai compagni che
uscivano come un fiume in piena dalla sala salutando anche lui. Sembrava non ci
fosse nessun altro attorno a noi.
«Non ti sembra di stare esagerando con le domande?» feci con un sopracciglio
alzato e il finto tono di rimprovero, le braccia conserte.
«S-sì, scusa, hai ragione, non sono affari miei,» si
affrettò l’altro abbassando il capo, e intanto Michele salutava urlando
l’ultima ragazza appena uscita dalla porta. Io alzai un lato della bocca in un
sorriso brutto e sghembo e scompigliai i capelli di Valerio già disordinati di
loro, e lui strinse gli occhi quasi si aspettasse che lo colpissi.
«Te ne parlerò quando saremo soli,» dissi, con una gentilezza che, seriamente,
mi spaventava. «Perché sei…così gentile con me?»
chiese lui infatti, e io mi limitai ad alzare nuovamente le spalle.
«Non lo so,» risposi sinceramente. «Ma tu cerca di approfittartene, perché non
sono sempre così di buonumore,» aggiunsi riportando le braccia conserte, e lui
annuì sorridendo, poi parlò un’altra volta.
«Andrea… vorrei che sapessi una cosa».
«Dimmi». Quel suo tono serio non mi piaceva per niente.
«Quella sera…quella volta in cui mi hai portato nel
locale della tua amica…ricordi?» fece quello
titubante, lo sguardo che schizzava a destra e a sinistra.
«B-beh, certo…» Avevo uno
dei miei brutti e sempre fondati presentimenti.
«Ecco…Non ero ubriaco. Ricordo perfettamente tutto
ciò che ti ho detto, e lo confermo,» disse, seppur con qualche difficoltà:
sembrava che gli stessero tremando le gambe, ma probabilmente era dovuto allo
sforzo appena compiuto nel balletto. Sentii girare la testa. Avevo la
sensazione che si stesse gonfiando e tirando verso l’altro, e che di lì a poco
sarebbe esplosa. E, mentre Valerio tentava di far stare ferme le gambe che
tremavano, io tentavo senza successo di bloccare la mia mano che si allungava
per tastare il viso del mio coinquilino, quasi volesse fargli una carezza. Ma,
con mia sorpresa, fu lui ad accelerare il mio movimento prendendomi la mano e
incollandosela alla guancia, che scottava in maniera impressionante ed era
leggermente umida di sudore. E poi si strusciò con movimenti impercettibili
contro il palmo della mia mano, gli occhi chiusi e le punte delle orecchie
rosso pastello.
Mi sentivo male. Ma seriamente. Dentro di me c’era il casino più totale, lo
stomaco faceva a guerra col cuore, che a sua volta discuteva col cervello.
Inoltre, da qualche parte sotto la pelle era scoppiato un incendio, perché non
era possibile che avessi certe vampate di caldo tanto improvvise. Tutto, tutto
stava cambiando, ma non riuscivo a capire se in bene o in male. Dove diavolo
era finita la mia serietà? Adesso sospiravo come un ragazzino alla sua prima
cotta. Ed ero tutt’altro che un ragazzino: avevo ben trentacinque anni, e
quell’appena ventenne mi faceva sobbalzare solo sfiorandomi una mano. Stavo
impazzendo. E’ sbagliato. Basta, devo smetterla, mi
sto comportando in modo pessimo, mi ripetevo come un automa e, quando notai
che l’istruttrice s’era fermata a guardarci sospettosa, finalmente trovai la
forza per allontanarmi da Valerio, prendere dal polso Michele –che non faceva
altro che protestare- e portarlo nel parco del quartiere, per far giocare lui e
per permettere a me di pensare in santa pace.
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Avevo pensato sin troppo quel pomeriggio, persino mentre spingevo Michele
sull’altalena, ma non ne avevo ricavato granché. Prima di tutto, dovevo
chiarire se la mia fosse effettivamente omosessualità o una sbandata passeggera
e di poco conto che nel giro di qualche settimana si sarebbe esaurita. Se fosse
una roba di passaggio, insomma. Peccato che le fasi di passaggio si riscontrano
negli adolescenti, non negli uomini che vanno verso i quaranta.
Mentre guidavo verso il cinema mi dissi che forse avrei dovuto evitare che la
cosa andasse avanti, che avrei dovuto reprimere il tutto stringendo i denti.
Magari ne sarei uscito incolume.
Arrivai alle otto meno qualche minuto, ma notai con sollievo che i ragazzi
avevano già provveduto a prendere un biglietto anche per me. Ringraziai, e loro
–Guido soprattutto- mi misero le mani nei capelli accusandomi di essere sempre
in ritardo. Non avevano ancora capito che detestavo quando mi si toccava i
capelli, a quanto pare. Francesco, Guido e Sara iniziarono a parlarmi –Gaia se
ne stava in disparte-, ma io non davo davvero ascolto a nessuno: ero
concentrato sulla figura della mia ex moglie, che ebbe anche il coraggio
spudorato di salutarmi allegramente con la mano. Io feci finta di non vederla,
anche se le mie doti recitative erano pressoché inesistenti. Lo stesso feci
quando adocchiai Valerio, che se ne stava giusto dietro di me insieme al suo
pessimo amico, con cui scherzava tranquillamente, senza dare l’impressione di
avermi visto in coda per entrare.
La mia fila era la seconda a partire dal basso, e mi scocciò tremendamente il
fatto che fossi così vicino allo schermo. Ma pare che non ci fossero altri
posti disponibili: quello era un film uscito giusto il giorno prima e,
francamente, non avevo neanche idea di quale fosse il titolo. Come mi
aspettavo, capitai niente popo di meno che accanto ad
April. Dopo aver fatto roteare gli occhi, li buttai
velocemente sul suo addome, ma mi sembrava lo stesso, piatto addome di sempre.
«Ciao, Andrea. Come stai?» fece quando si accorse di essere accanto a me, anche
se giurai l’avesse fatto apposta a sedersi lì. Non era cambiata di una virgola:
capelli castani della stessa lunghezza, frangetta leggera che le terminava
appena sotto le sopracciglia, occhi azzurro opaco che mi incutevano una certa
malinconia. Ma in quel momento non riuscii a farmi tornare in mente il motivo
esatto per cui avevo deciso di stare con lei: sembrava già tutto così lontano.
In ogni caso, mi ero ripromesso che con lei non ci avrei parlato.
«Fra, faresti cambio di posto con me?» decisi quindi di proporre all’amico alla
mia destra. Quello alzò le spalle dicendo che per lui era lo stesso e sollevò
il sedere per poi farlo sprofondare nuovamente sul mio posto. Sospirai, ora più
contento, e solo quando iniziò il film mi resi conto di chi avevo di fianco.
«Ciao,» mi salutò Valerio senza troppa enfasi. Pensai al mio proposito di
ignorarlo, ma lo ignorai invece il proposito, ché proprio non ce la facevo a
non rivolgergli la parola.
«Hai visto che alla fine ci siamo incontrati?» feci retoricamente, e lui annuì
con gli occhi sorridenti. Martone non si accorse di
me, il che fu un bene.
Non avevo davvero idea di che film fosse, ma di certo non dava i propositi di
essere comico. I vicoli bui di New York e le luci blu della polizia suggerivano
un film d’azione, o qualcosa di drammatico. Quando comparve quello che doveva
essere il protagonista, mi dissi che l’avevo già visto da qualche parte nei
panni di un vampiro con la pelle luccicante. Dio, che film terribile era stato,
quello, se ci ripensavo.
Comunque, azzeccai in pieno: il film era drammatico, a quanto pareva. Già a
metà, sentii qualche ragazza dietro di me tirare su con il naso, quasi avessero
il raffreddore. Guardai alla mia destra e vidi che anche Valerio aveva in volto
un’espressione coinvolta e i lati della bocca piegati all’ingiù. Notai che Martone aveva appena appoggiato la testa sulla sua spalla,
e a quel gesto m’irrigidii leggermente, non sapendo di che farmene di quella
sensazione di fastidio dietro il collo. Non ci volle molto perché, come mi
aspettavo in realtà dall’inizio del film, il protagonista tirasse le cuoia.
Qualcuno in sala singhiozzava, altri tiravano fuori fazzoletti e salviettine,
c’era chi piangeva con le lacrime, e io non potei fare altro che compatirli;
Valerio invece cercò la mia mano lì sul bracciolo mentre fissava rigidamente la
scena, tentando di non lasciarsi andare ai sentimenti -quel tipo li mostrava
sempre con troppa facilità. Quando la trovò, lasciai che me la stringesse
leggermente, poi, senza che riuscissi a fare in tempo ad accorgermene,
intrecciò le sue dita alle mie, ed io ebbi come un mancamento d’aria. Neanche
avevamo il coraggio di guardarci per pochi istanti: ce ne stavamo col collo
dritto a fissare le scene, senza più fare davvero attenzione al film.
‘Fanculo, il mio cuore non esisteva più. Non
ricordavo neanche più qual era stata l’ultima volta che avevo tenuto la mano a
qualcuno. Lo trovavo un contatto così intimo che mi stava mandando in pappa il
cervello.
Poi però il film finì, anche piuttosto bruscamente, e io fui costretto a
malincuore a mollare la mano di Valerio. Le luci si accesero e la gente, scossa
per il finale, iniziava a fluire fuori dalla sala con in mano fazzolettini di
ogni genere.
«Bel film, eh?» fece Guido per primo quando fu in piedi, mentre dietro di lui
scorrevano i titoli di coda. «Ora, birrettatime!»
«Dobbiamo proprio, Guido?» chiese Francesco sbadigliando sommessamente.
«Ma sì, dai. Perché non andiamo nel nuovo locale di Giusy? Oggi non è venuta
perché aveva da lavorare,» propose l’altro. Io gettai un’occhiata al mio
coinquilino per poi scuotere la testa e agitare le mani.
«No, non se ne parla proprio,» e, vedendo i loro sguardi interrogativi, mi
affrettai ad aggiungere: «E’ un locale gay».
«Ah, allora io non vengo, mi spiace,» fece subito Francesco con aria annoiata.
«Non me l’aspettavo da Giusy…» borbottava intanto
Guido con una mano sul mento e lo sguardo al pavimento.
«Mi rincresce, ma vale lo stesso per me,» intervenne Gaia e, forse era una mia
impressione, ma sembrava volesse fuggire il più in fretta possibile.
«Io vorrei rivedere Giusy, quindi per me va bene,» disse April
alzando una mano aperta, come quando a scuola un alunno alza la mano per
ottenere la parola.
«Okay, allora siamo solo noi tre?» fece Guido una volta tornato in sé dalla sua
riflessione su Giusy.
«Potrei…venire anche io?»
Una voce nuova si fece largo nel nostro gruppetto, e tutti i miei amici
puntarono lo sguardo sul ragazzo che ora s’era messo accanto a me,
l’atteggiamento e lo sguardo riservato. Stettero tutti in silenzio, quasi
fossero sicuri che Valerio non avesse parlato con loro, poi mi resi conto che
forse ero io quello che doveva dare delle spiegazioni.
«Ah, er…luiè…ilmio… coinquilino, sì. Scusate se non ve l’ho presentato
prima,» mi affrettai a dire, i peli sulle braccia dritti dall’imbarazzo. Martone adesso mi guardava con una faccia da “Che ci fai tu
qui?!” e a me venne la risata nervosa, ché con quel tipo non c’era da
scherzare, lo avevo imparato a mie spese.
«Ma…non è un po’ piccolo per venire con noi?» chiese
Guido guardando il ragazzo dall’alto in basso.
«Ma no, ha vent’anni. D’altra parte, non posso lasciarlo andare a casa da solo,»
dissi, ignorando del tutto la presenza di Martone. E
così non facevo altro che attirare ulteriormente la sua antipatia, eccellente. April spostò lo sguardo dalla mia faccia allarmata ma che
tentava di tenere i lineamenti composti a quella spontanea di Valerio, che se
ne stava premuto al mio fianco quasi fosse mio figlio. Mi stavo deprimendo.
«Va beh. Andiamo,» decise alla fine April alzando le
spalle.
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Il film in questione è Remember Me. Quando lo vidi, piansi con le lacrime, lol. E, ovviamente, l’attore luccicante è Robert Pattinson XD
Piccola nota: scrissi questa storia all’inizio del 2010, ma adesso,
ricopiandola sul computer, naturalmente la allungo e aggiungo cose, anche se i
dialoghi sono gli stessi. Questo spiega alcune discrepanze. Per esempio, il
fatto del nome del cinema. Prima il mio cinema era Medusa, adesso è The Space. Ah, per chi se lo stesse chiedendo, ma credo lo
specificherò in seguito, la storia è ambientata a Torino, la mia città. E i
parenti di Valerio –così come anche lui- sono pugliesi perché anche io sono
nata a Lecce. Prendo spunto da cose personali, così riesco a gestirle meglio XD
Ultima cosa: trovo che l’accarezzarsi e il tenersi per mano sia qualcosa di
intimo e dolcissimo. Passo e chiudo! :)
All’entrata dell’Olsen fu Giulio ad accoglierci,
quasi stesse facendo gli onori di casa. Ma era sempre e costantemente lì quel
tizio?
«Andrea, Valerio! Che piacere! Entrate, vi faccio subito avere un tavolo per…quanti siete?» Giulio ci salutò con un entusiasmo
enfatizzato che non mi piaceva per niente, poi fece per contarci, lì nel buio
del locale.
«Siamo in cinque,» dissi per tagliare corto, e intanto aprivo i primi bottoni
della camicia, ché già mi stavo agitando.
«Perfetto. Seguitemi, da questa parte,» e ci portò in fondo alla sala, dove
erano stipati i tavoli più lunghi. Ci sedemmo, io abbandonandomi a peso morto
sulla sedia pieghevole e instabile, Valerio prendendo posto accanto a me, Guido
che poggiava il sedere con cautela, quasi sulla sedia ci fosse un esplosivo
pronto a fargli a pezzi il deretano. Seguì con lo sguardo Giulio finché non se
ne fu andato dopo averci lasciato i menu, poi girò di scatto il capo verso di
noi.
«Com’è che vi conosce?» chiese sospettoso.
«Siamo venuti qui già una volta,» risposi, e a quel “siamo”, la mia ex moglie,
così come Sara, che di solito non badava agli affari altrui, alzò un
sopracciglio sorpresa.
«Ma è gay?» fece Guido, insistente. Io e Valerio annuimmo solennemente, e
quello prese ad allarmarsi.
«Oh no, e adesso?»
«Tranquillo, ché a te non filano nemmeno i gay,» lo zittì Sara, e io,
trattenendo una sghignazzata epica, non potei far altro che darle ragione.
Giulio tornò poco dopo con in mano un taccuino chiedendoci se avessimo già
deciso cosa ordinare. Ma non avevo capito, Giulio che stava a fare? Il
cameriere? Non me lo chiesi più di una volta e ordinai il mio solito Angelo
Azzurro, mentre gli altri tre ordinarono una birra, ognuno di una marca
diversa.Castelli mi chiese di poter
bere almeno un Bacardi, quasi volesse ottenere il permesso dal padre, e io
acconsentii, a patto che fosse stato solo uno.
Giusy comparve all’improvviso dalla nuvola di fumo –colpa delle sigarette
elettroniche che ci fumavano in faccia- facendomi prendere un coccolone, e si
buttò a baciare contenta April, Sara e Guido, che per
prima cosa le chiese se fosse lesbica o bisessuale. Lei neanche rispose e alzò
gli occhi al cielo, ché Guido era in grado di far salire i cinque minuti anche
a lei.
«Allora, hai intenzione di non parlarmi per tutta la sera?» se ne uscì dal
nulla April una volta che Giusy fu tornata a servire
i clienti e che Guido l’ebbe piantata di guardarsi intorno circospetto. In
effetti, mi ricordava qualcuno di molto familiare.
«Sono troppo irritato per farlo,» risposi quando vidi che i suoi occhi s’erano
posati su di me.
«Che novità,» fece quella, che aveva dovuto sopportare parecchi miei giorni no.
«Ancora scosso per il divorzio?» me lo chiese quasi con sfida e,
dall’espressione che aveva adottato il mio coinquilino, capii che aveva
inquadrato per bene la mia ex moglie. Non era cattiva: semplicemente se la
credeva un po’.
«Per niente. Mi dà solo un po’ fastidio quando mi si dicono le bugie,» dissi
senza neanche rendermene conto. Quando ero nervoso, o arrabbiato, o ubriaco,
spesso non riuscivo a trattenermi dal parlare.
«Bugie? Ce l’hai con me?» fece April con una mano sul
petto, i lineamenti del viso che iniziavano a corrucciarsi.
«Proprio con te, che fai la faccia incazzata davanti alle bugie degli altri e
poi non ti fai scrupoli a dirne a tua volta,» buttai fuori, particolarmente
incazzato, senza neanche accorgermi di aver mandato giù più di metà drink.
«Mi vuoi spiegare per bene che stai farneticando?»
«Dimmi un po’ la ragione per cui mi hai rispedito a casa, mollandomi,» dissi
muovendo le dita verso di lei e poi verso uno dei colleghi di Giusy, che mi
portasse qualcosa da bere.
«Perché non andavamo più d’accordo? Perché avevamo sviluppato interessi diversi
che non avevano un punto d’incontro? Perché le nostre strade erano destinate a
separarsi? Quale ti va bene tra queste?» domandò lei a braccia ora conserte, e
lo avvertivo dal tono di voce che gli stava dando parecchio fastidio il mio
atteggiamento.
«Eh. Lo pensavo anche io. Poi però m’è arrivata una certa voce riguardo a un
certo bambino che potresti star aspettando,» ecco, l’avevo detto. Lingua
sciolta dall’alcol e dalla rabbia. E avevo anche adottato un terribile tono da so-tutto-io. E io detestavo a morte i so-tutto-io.
Ergo, ero arrivato a detestarmi. Come se fosse una novità, in effetti.
«…Come come? Io starei aspettando un bambino? Ma stai
scherzando? Te l’avrei detto senz’altro! Da chi hai saputo questa bella
stronzata?» a quella mia uscita, April quasi gridò
incredula sbattendo la sua birra sul tavolo, e io dovevo anche aspettarmelo,
visto che era sempre stata una dal carattere forte e dall’intemperanza
impossibile da marginare. Io mi morsi l’interno della guancia e stetti zitto,
convinto a non voler fare il nome di Gaia, ma,
«Da quella ragazza bionda che era con voi al cinema,» la informò Valerio, e io
gli indirizzai uno sguardo di rimprovero appena prima di finire il mio secondo
bicchiere.
«Ah. Sì, dovevo immaginare fosse opera di quell’infame. Un’infame che ha
passato la vita a trovare un modo per farti entrare nel suo letto. Te ne rendi
conto sì o no? Ti giuro, pensavo fossi più furbo,» mi disse lei incrociando le
braccia e lasciandosi andare sullo schienale della sedia, mentre io, in tutta
risposta, mugugnai qualcosa di incomprensibile e mandai giù una parte della
birra di Guido, che stava fissando languido due donne che si baciavano sedute
accanto a lui. Pure Sara le stava guardando con interesse, ma nessuno dei due
sembrava far caso al nostro litigio, quasi fosse una roba scontata ormai.
«Quindi, se ancora non hai capito, non sono incinta,» concluse quindi April con tono che non ammetteva repliche.
«Bene, meglio!» esclamai io con gli occhi che si incrociavano e la mano destra
che s’alzava quasi a mandare a fanculo il mondo. Non
solo mia moglie, tutti quanti. Presi un altro sorso di birra senza che il mio
amico se ne accorgesse, poi sentii un morbido calore appropriarsi della mia
mano, e fu tanto improvviso che per poco non sobbalzai: per rassicurarmi,
Valerio aveva fatto strisciare la sua mano lungo il mio braccio e mi aveva
stretto le dita sotto il tavolo, per poi rivolgermi un sorriso. E va bene,
avrei mandato a fanculo tutti a parte lui.
In quel momento, vedemmo sbucare Giulio che si frappose fra me e Valerio
abbracciandoci e stringendoci alla sua faccia.
«Allora, come andiamo? Se i miei occhi non mi ingannano, ultimamente voi due
state “socializzando” molto intensamente, vero?» ci fece, tutto contento, e in
quel momento pure Guido e Sara si girarono a guardarci. Proprio quando non
avrebbero dovuto, dannazione.
«Zitto o ti ammazzo,» sibilai con gli occhi ridotti a fessura e intanto il
sudore freddo sulla fronte.
«Quindi loro non lo sanno?»
«Non c’è niente da sapere,» dissi sbrigativo dopo aver mollato la mano di
Valerio. Mi stavo scaldando e non andava bene. «Anzi, mi sono stancato. Ora ce
ne andiamo,» annunciai, e svettai in piedi prendendo Valerio dal gomito. Non
l’avessi mai fatto: adesso mi girava tutto, e vedevo due Guido davanti a me, ed
erano anche più in carne del normale.
«Aspetta, perché tanta fretta? Gli ormoni non resistono?» fece Giulio
sinceramente divertito, e pensai che anche lui avesse bevuto qualcosa di forte.
«Andrea, non ti conviene guidare!» mi avvisò April,
ché secondo lei avevo bevuto troppo. Sapeva bene lei qual era il mio limite, e
a quanto pare l’avevo superato, anche se non poi di molto. Neanche la ascoltai,
infilai la giacca e poi la porta, con Valerio agganciato con le dita alla mia
cintura.
«Sei sicuro di poter guidare?» mi chiese quest’ultimo una volta che ci fummo
infilati in macchina.
«Sì, sì, sono solo nervoso perché non so a chi credere,» risposi mentre
scuotevo la testa, come se non potesse girarmi ulteriormente, e mettevo in
moto.
«Tua moglie mi sembrava credibile, perché aveva tutti i motivi per alterarsi,
mentre non mi fiderei dell’altra,» Valerio disse la sua, e io stetti a
respirare forte col naso prima di immettermi in carreggiata e fare di sì col
capo.
«Okay, mi fido di te. Quindi ha ragione April. E ha
ragione anche quando dice che dovrei essere più furbo. Cristo, quanto mi
vergogno,» iniziai a sminuirmi, gli occhi lucidi e la birra che mi tornava su
per la gola. L’alcol iniziava a lavorare nel mio cervello ed eravamo appena
usciti dal centro quando la macchina iniziò a procedere a zig-zag.
«Oh, che hai?» chiese subito quello accanto a me, turbato.
«Un colpo di sonno, ma adesso va meglio,» e, in perfetta coerenza, quasi andai
a finire nella corsia di senso opposto.
«Accosta,» mi ordinò Valerio, rigido sul sedile.
«Ma ti dico che…»
«Accosta subito!» e utilizzò un tono tanto spaventato, che mi sentii costretto
a mettere la freccia a destra e ad accostare in una strada secondaria, le
braccia che muovevano da sole il volante. «Scusa, ma…
non voglio ancora morire,» si giustificò una volta spenta la macchina.
«Neanche io,» concordai lasciandomi andare con un sospiro sul sedile dopo aver
tirato con fatica il freno a mano. Seguirono dieci minuti, o forse un quarto
d’ora, di pesante silenzio, dovuto probabilmente al fatto che eravamo di nuovo
soli dopo il famoso bacio della sera prima. Già, la sera prima. Erano passate
solo ventiquattr’ore e già mi sembrava di avere
l’indice collegato a quello del mio alunno da un filo rosso, di quelli che
sembrano instabili ma che poi non si spezzano. Mi dissi che dovevo smetterla
con le mie pare mentali, non giovavano per nulla alla mia salute, e così evitai
di andare avanti col filo dei miei pensieri –altro che filo rosso- e lasciai
parlare la bocca odorosa d’alcol senza che prima si consultasse col cervello.
«Senti, io…» iniziai, gli occhi chiusi per potermi
riprendere più in fretta. Valerio mi guardò interrogativo spronandomi con lo
sguardo ad andare avanti. «Forse sto fraintendendo le mie stesse…
sensazioni, ma credo di potermi ancora accorgere, nonostante l’età, quand’è che… mi innamoro…» mugugnai, e
intanto aprii gli occhi per poter intercettare la sua espressione: era
incredula, forse shockata, ma i suoi lineamenti si rilassarono subito dopo e le
spalle gli si sollevarono.
«Sei ubriaco,» mi disse, la faccia rassegnata. Strinsi le labbra e buttai la
nuca sul poggiatesta per poi fare una risatina cupa.
«Cos’è, i ruoli si sono rovesciati? Mi sembra di rivivere una scena già vista.
Ma ero io ad accusarti di essere ubriaco e tu a dichiararti. E a quanto pare
adesso sei tu a non credermi,» dopo quelle parole dette, con mia grande
sorpresa, con calma e consapevolezza, Valerio prese a spalancare gli occhi e si
portò poi una mano sul petto respirando quasi affannosamente. Probabilmente
s’era reso conto che no, non erano parole
dette con leggerezza da ragazzini ancora ingenui. «Credi che un ubriaco
possa farti discorsi del genere?» aggiunsi quindi. Lui scosse la testa senza
togliermi gli occhi di dosso, e a quel punto decisi di voltare il capo per
agganciare il suo sguardo. Gli Angeli Azzurri m’avevano messo le ali, sembravo
aver acquistato un minimo di sicurezza che ogni uomo come si deve dovrebbe
avere. Senza neanche darmi il tempo di pensarci una seconda volta, mi allungai
sul sedile del passeggero tanto quanto bastava perché potessi passare una mano
sul braccio di Valerio, quasi volessi scaldarlo dal freddo.
«Scusa l’impertinenza, ma sei…adorabile,» gli
sussurrai, tentando di mantenere il tono composto e di non sembrare un qualche
maniaco pedofilo con pessime intenzioni. Pensai a quando avevo dato del
pedofilo a Giulio, e volli mordermi la lingua. «Mi…piaci.
Davvero tanto. E’ da un…un bel po’ che non provo
sensazioni del genere. Anzi…non ricordo di averle mai
provate». La mia mano scese sul suo braccio avvolto dal maglioncino fino ad
incontrare la sua mano, fredda come il marmo. Tirai su lo sguardo nel suo, e lo
vidi turbato, le labbra ora pallide socchiuse ma che non lasciavano uscire
aria. Sembrava come pietrificato.
«Ti sto…facendo paura?» chiesi, sicuro fosse quello
il problema. Lui aggrottò le sopracciglia e fece subito di no con la testa. «Sei
agitato?» riprovai, e a quella domanda annuì con vergogna.
«Scusa, hai ragione. Non volevo metterti alle strette. E’ che credo di aver
perso il senno,» dissi quasi ridendo per poi allontanarmi e tornare al posto
del guidatore. Perdere il senno. Quando l’amore diventa “dementia” e il saggio perde il
controllo di se stesso. Mi sentii uno dei personaggi boccacciani delle novelle
del Decameron, e mi dissi che pensare alla letteratura in momenti tanto critici
era da pazzi, davvero.
Misi nuovamente la macchina in moto per vedere se avevo smaltito un attimo
l’alcol e se sarei riuscito ad arrivare a casa senza attentare alla vita mia e
del mio studente, ma mi resi conto che non ce l’avrei fatta, ché la testa mi
girava ancora, forse più per la stanchezza che per altro. Mi fermai a qualche
isolato da casa mia e spensi nuovamente la macchina per poi picchiettare le
dita sul volante.
«Pensi che finiremo per passare la notte in macchina?» fece Valerio quando mi
vide accoccolarmi sul sedile.
«Temo di sì. Usa pure i sedili posteriori per distenderti un minimo, se qui sei
scomodo».
«Okay,» assentì quello, ma non si mosse dalla sua posizione, quasi si stesse
aspettando qualcosa. Da me, magari. Feci un mezzo sorriso ai suoi occhi che
lampeggiavano come fulmini, poi mi tirai su e ottenni da un suo cenno del capo
il permesso per toccarlo. Gli presi allora il viso tra le mani carezzandogli le
guance coi pollici.
«Tu mi ami?» gli chiesi, a così poca distanza dalla sua bocca.
«Sì,» rispose lui, gli occhi che si scioglievano in dolcezza pura, le labbra
che si allungavano in un sorriso rassicurante. Era sempre lui a rassicurare me,
quando avrebbe dovuto essere il contrario.
Quando mi permisi di spingere la bocca sulle sue labbra, quello rilassò i
lineamenti del viso e chiuse gli occhi all’istante, per poi abbandonarsi nel
mio abbraccio in segno di resa.
Adorabile. Era l’unica parola che aleggiava nei miei pensieri in quel momento.
Tutto di lui era adorabile: il viso, le mani, la bocca, i gesti, la voce. Sì,
adorabile era l’aggettivo più appropriato.
E io mi comportavo in modo sempre più illogico e irrazionale. Avevo sempre
pensato di saper tenere tutto sotto controllo, di poter reggere il mio castello
di carte come avevo sempre fatto. Eppure quella volta la situazione mi sfuggiva
di mano, le carte cadevano una ad una e stavano facendo un casino irreparabile.
Erano già alcuni secondi che ce ne stavamo con le labbra incollate, e fu l’ennesimo
colpo al cuore quando m’accorsi che Valerio stava schiudendo le labbra e
sistemandosi meglio per incastrare la sua bocca alla mia in una sorta di
puzzle. Poi andò a mettermi una mano nei capelli, e mi resi conto con orrore
che non mi dava fastidio. Ero solito infuriarmi quando mi si scompigliava i
capelli o anche solo me li si toccava, ma in quel momento sapeva solo aumentare
quella che sembrava essere la mia smania di sentirlo a contatto con me, contro
la mia pelle, sulla mia pelle, sotto la mia pelle.
Il suono degli schiocchi dei nostri baci in quell’angusto abitacolo era ciò che
di più sensuale avessi mai avuto la fortuna di udire. Valerio stava facendo
girare in tondo la lingua in quel momento, e io la inseguivo fino a lasciarla
indolenzita.
Dio, se ero nella merda. Nella merda fino al collo.
Fortunatamente, fu lui a staccarsi per primo, ché io, me ne resi conto,
probabilmente non ne sarei stato capace.
«Vado…vado a dormire,» disse, mi lasciò un bacio
sulla guancia e si trasferì sui sedili posteriori. Certo…lui andava a dormire. Io invece
non avrei mai e poi mai preso sonno in quelle condizioni. Volevo che fosse un
sogno, anzi, credevo fosse un incubo. Quello non ero io. Pensai che qualcuno
dovesse tirarmi fuori dal baratro in cui stavo cadendo.
Usai buona parte della notte per disperarmi.
---
Nel mio sonno tutto azzurro distinguevo lineamenti familiari, una bocca che si
muoveva senza proferir suono, e che invece quando stava ferma sembrava dire
“Svegliati, svegliati…”, gli occhi tanto trasparenti
che ci riuscivi a vedere attraverso, fino ad intercettare le venature appena
più scure e i riflessi accecanti. I suoi occhi avevano il colore del sole che
filtra attraverso le nuvole, quell’azzurro abbagliante che sa colorarti
l’anima. “Svegliati, svegliati…”
Mi destai di colpo quasi fossi salito a galla dalle profondità del mare e, dopo
aver messo per bene a fuoco la figura che mi chiamava scuotendomi il braccio,
pensai di essere tornato indietro nel mio sogno, per quanto era bello e
luminoso.
«Oggi abbiamo lezione alle nove,» disse la voce di Valerio, e ammisi che la
trasparenza dei suoi occhi era riuscita a stordirmi. Mi tirai su con la testa
che mi martellava, poi guardai l’orologio da polso: le sette e mezza.
«Sì, è vero,» mi resi conto, ciuffi di capelli che mi cadevano a caso davanti
agli occhi. «Torniamo a casa a toglierci questi stracci,» affermai, e misi in
moto ancor prima che quello potesse allacciarsi la cintura.
Quando arrivammo a casa mi venne solo voglia di stendermi da qualche parte e
riprendere a dormire, magari cercando di continuare lo stesso sogno di poco
prima. Ma vidi Valerio schizzare in camera a cambiarsi, e mi dissi che se lui
era più o meno entusiasmato dal pensiero di far lezione, io avrei dovuto
esserlo almeno il doppio.
Me ne andai in camera da letto senza dire niente, e per prima cosa mi tolsi la
maglia, che era ormai diventata come una seconda pelle. Ma neanche feci in
tempo a sfilarmela del tutto, che Valerio aprì la porta senza bussare o
avvisare.
«S-scusa! Pensavo ti dovessi ancora svestire…» si discolpò immediatamente, ma ebbi la netta
sensazione che l’avesse fatto apposta. Non era poi così bravo a recitare. Avevo
trovato qualcosa che non era in grado di fare, dovevo segnarmelo da qualche
parte.
«Figurati, ormai sei entrato. Dimmi,» ero troppo gentile e non andava bene. Avesse
fatto qualcun altro quello che aveva appena fatto lui, l’avrei defenestrato.
«Hai una maglia con la zip da prestarmi? Anche della tuta,» mi chiese
guardandomi senza pudore dall’alto in basso, e io cercai di coprirmi come
potevo con la maglia che m’ero appena tolto. Mi vergognavo come un ladro del
mio fisico così poco atletico.
«Sì, aspetta,» mi accovacciai sui miei cassetti per cercare una giacca delle
mie, e intanto sentivo gli occhi del mio alunno che mi facevano la radiografia
del didietro. Avevo la pelle d’oca, santo cielo.
«Ecco,» feci dopo essermi alzato e avergli porto l’indumento. Quello stava per
ringraziarmi, ma ancor prima che riuscisse a farlo, gli chiusi rudemente la
porta in faccia, ché se ce l’avessi avuto ancora davanti, con quegli occhi che
ti ci specchiavi dentro, sarei potuto tranquillamente saltargli addosso.
Mi appoggiai con la schiena alla porta, incurante che Valerio lì fuori potesse
intuire qualcosa, e sospirai, la mano sulla fronte e poi nei capelli. Andava
sempre peggio. I vagoncini delle montagne russe salivano sempre più in alto, ed
erano tanto veloci da procurarmi la nausea. Un giro della morte pensavo di
averlo passato quella notte, mentre tenevo la bocca di Valerio affondata nella
mia; ma ne vedevo così tanti in lontananza da farmi venir voglia di saltar giù
dalle giostre, non importa da quanti metri di altezza. Almeno l’avrei fatta
finita con la mia vita vissuta per inerzia e con quel diavolo di sentimento
parassita che mi mangiava da dentro. Mi consumava.
Ma perché? Mi consumava e mi faceva male perché non volevo accettarlo, lo amavo
e non volevo farlo, eppure sentivo che allo stesso tempo, lui era il solo che
potesse tenermi vivo. Placitoneetiampugnabis amori?Ti
opporrai forse a un gradevole amore?
Pensai che avrei dovuto rileggermi la favola della Matrona di Efeso contenuta
nel Satyricon per potermi sentire meno in colpa.
Non pensai di poter essere in grado di oppormi. E questo mi spaventava, ma allo
stesso tempo mi faceva euforico, perché avvertivo distintamente il modo in cui
il percorso della mia vita proseguisse, migliore del precedente, dopo una
brusca e pericolosa svolta.
---
Eccoci :)
Allora, spero di poter scrivere di meno nelle note questa volta.
Sara è un personaggio che non ho sviluppato di mia spontanea volontà perché è
decisamente secondario, se non terziario, ma ci sono affezionata perché l’ho
pensata come una donna che ascolta tutto e osserva tutto, ma che non trova
nulla di interessante in ciò che vede o sente. Fondamentalmente si fa gli
affari suoi e non racconta la sua vita privata in giro perché trova che non sia
così piatta e noiosa come pensano gli altri. Mi piace semplicemente perché si
fa gli affari suoi e trova il mondo attorno a sé poco interessante.
Giulio è un tappetto, comunque! Non mi ricordo se
l’ho detto nei capitoli precedenti, ma volevo metterlo in evidenza XD
Visto che sto studiando letteratura italiana, di tanto in tanto salta fuori
qualcosa in merito. E poi l’altro giorno ho comprato il Satyricon
di Petronio e lo sto divorando, ho già voglia di rileggerlo senza neanche
averlo finito. Lo consiglio a tutti coloro che amano leggere di fatti reali e
tangibili, e pure un pochetto crudi. E, naturalmente,
che amano le storielle tra omosessuali, lì c’è da sbizzarrirsi <3 Bueno, ho fatto anche pubblicità, chi meglio di me
(?)
Ringrazio per le recensioni che continuo a ricevere, youmakemyheart
smile :)
A lezione quel giorno avevo da presentare Petrarca e collegarlo con Boccaccio,
ma feci davvero fatica, sia perché m’era completamente passato di mente di
rileggermi le carte relative alla lezione, sia per lo sguardo inevitabile del
mio studente che sentivo premere insistentemente su di me. E il tutto era
amplificato dal ricordo vivido di quella notte. Sapevo di aver bevuto più del
normale ma, per volere del cielo, ricordavo perfettamente ogni singolo secondo
in quella macchina, anche quando ce n’eravamo stati zitti o quando ero riuscito
a trovare una posizione comoda e la momentanea pace dei sensi per approfittarne
e prendere sonno. E ricordavo anche come la mattina, appena prima di uscire di
casa, Valerio m’aveva picchiettato sulla spalla per poi lasciarmi un bacio
prolungato sulla guancia, la mia giacca della tuta già sulle spalle. Ci mancava
solo il bacio del “Buona giornata”.
Riuscii comunque a sopravvivere, anche se i ragazzi erano confusi dalla maniera
in cui argomentavo, quella mattina: se scrivevo parole alla lavagna scambiavo
l’ordine delle lettere, quando parlavo dicevo una parola per un’altra, e ogni
qualvolta sfioravo l’argomento amoroso del Petrarca mi partiva un colpo di
tosse.
Tornai a casa all’ora di pranzo, ma Valerio mi aveva già detto –con un
messaggino sul cellulare pieno di faccine sorridenti- che non avrebbe mangiato
a casa perché doveva scappare da Laura e poi, insieme a lei, sarebbe andato in
palestra. Sperai che si fosse portato dietro il doppione delle chiavi di casa,
nel caso fossi dovuto uscire.
Il mio pranzo fu frugale, niente a che vedere con la roba che mi preparava
Valerio, e alla fine mangiai una banana senza riuscire a non pensare male e mi
feci il caffè che, puntualmente, venne fuori senza schiuma, maledizione.
---
Il pomeriggio tardi ricevetti una visita da parte di Rosaria, la signora del
secondo piano, quella fissata con le torte alla frutta, quella che fa fatica a
parlare e camminare e che pensa che io sia l’uomo più affascinante del mondo.
Certo che ne aveva, di coraggio.
Scese un’altra volta le scale da sola, e disse di essere venuta a chiedermi se,
per favore, avevo una Bibbia da prestarle, perché quella sera sarebbe dovuta
andare ad un incontro in chiesa, e la sua ce l’aveva la sua amica Adele. Mi
grattai la nuca e feci una faccia pensierosa, per poi dire:
«Er… In questo momento non ricordo dove l’ho messa,»
o dove l’aveva messa mia moglie, più che altro. Era come il fatto della
Nutella, che non ero riuscito a trovarla finché non ci aveva pensato Valerio.
Solo che questa volta non avrei potuto aspettare il suo ritorno per poi
ordinargli di cercare per la casa un libro.
«Non ti preoccupare, tanto la messa è alle sei. Puoi portarmela quando la
trovi,» mi fece lei rassicurante strabuzzando un occhio.
«Sì, tanto credo che sia nella libreria. Vado subito a cercarla»
«Fai con calma, bellissimo. Ché ti vedo un tantino nervoso e caotico,» disse
regalandomi piccole pacche affettuose sulla spalla. Annuii dicendole che aveva
ragione, che dovevo acquistare un attimo di serenità, lei sorrise coi lati
della bocca tremolanti e allungò una mano ad accarezzarmi la guancia
leggermente ispida e il mento. Mi salutò con un cenno del capo e tornò su con
una signora che stava prendendo l’ascensore in quel momento.
Come le avevo promesso, appena chiusi la porta andai a vedere dov’è che poteva
essere andata a finire la Bibbia. In realtà non mi ci volle molto per scovarla:
se ne stava lì sull’ultimo piano dello scaffale in corridoio, insieme a tutti i
libri di grosse dimensioni, come i dizionari. Feci un sonoro starnuto quando la
tirai giù e mi cadde della spessa polvere davanti al naso.
Ero sempre stato un fermo credente, e anche praticante, almeno fino a qualche
anno prima. Da giovane avevo frequentato il catechismo e l’oratorio del
quartiere con un entusiasmo strano, quello che prende possesso di te quando sei
ancora piccolo e pieno di voglia di fare, voglia di vivere. Poi avevo iniziato
a non trovarmi bene coi ragazzi dell’oratorio –uno di loro, una volta che
c’eravamo trovati insieme in bagno, m’aveva chiesto di masturbarlo, perché Don
Mariano gli aveva detto che era cosa buona e giusta, e io ne ero rimasto
provato-, quindi avevo smesso di frequentare le riunioni per diventare un
animatore e avevo pensato solo a studiare. La domenica però ci andavo ancora,
in chiesa, e ovviamente durante tutte le feste sacre o le occasioni importanti
come matrimoni, battesimi e comunioni. Avevo sempre evitato i funerali, perché
rischiavo di sentirmi male durante la celebrazione. A quello di mio padre m’ero
vomitato sui piedi per la troppa tensione e mia sorella mi aveva portato
all’aria aperta facendomi bere dell’acqua e bagnandomi il viso, con Michele che
ci aveva raggiunto subito dopo in braccio al padre perché s’era messo a
strillare per la mancanza della mamma. Erano comunque alcuni anni che saltavo
il mio appuntamento domenicale con la chiesa, forse perché amavo dormire a
lungo la mattina, o perché avevo perso la voglia, o perché improvvisamente
avevo avuto paura dello sguardo che mi rivolgeva Don Mariano, ormai anziano.
Sospirai e, curioso di rispolverare letteralmente il passato, camminai verso il
letto di Valerio mentre sfogliavo la Bibbia. Mi stesi sul materasso e mi accesi
la lampadina sul muro e lessi velocemente le prime pagine quasi stessi leggendo
un fumetto, le gambe accavallate.
La creazione del mondo. Pensai che fosse rilassante leggere di come Dio creò
cielo e terra, uccelli e pesci, notte e giorno, buio e luce. Feci scorrere gli
occhi anche sulla parte in cui modellò l’uomo dal fango e gli introdusse nelle
narici il soffio vitale per poi dargli il nome di Adamo. E quando creò Eva dopo
aver estratto una costola dal corpo dell’uomo. Sorrisi tra me e me: un mucchio
di sciocchezze. Eppure in quel momento mi immaginai il mio vecchio professore
di religione al liceo che non voleva ammettere a se stesso che quella storia di
Adamo ed Eva e del serpente e della mela e del Paradiso Terrestre fosse tutta
una leggenda. Un insegnamento morale sottoforma di metafora. Ricordai come
fosse convinto delle sue affermazioni, come riveriva il crocefisso appeso in
classe ogni volta che varcava la soglia e come baciava la Bibbia quando finiva
di leggerne le pagine. Una sua frase frequente tornò a rimbombarmi in testa, e
anche allora sembrava infastidirmi in qualche modo, perché era una lettura che
avevamo affrontato nello stesso periodo in cui il mio compagno in oratorio mi
chiedeva di toccarlo o mi diceva: “Succhiamelo,
per favore. Dimmi che per te non sarebbe un problema. Dimmi che è normale se te
lo ordina uno più grande”, perché lui aveva tre anni in più di me. Una
frase che diceva: “Il Signore li creò
diversi perché si completassero stando insieme, così come il bene e il male, la
luce e il buio. E’ impossibile poter concepire un uomo unirsi a un altro uomo o
una donna a un’altra donna. E’ peccato.”
Mi rizzai a sedere con le pagine tra le mani che sembravano scottare, poi presi
a stropicciarmi nervosamente gli occhi. Un peccato.
Merda, mi mancava proprio questo tipo di preoccupazione: adesso le fiamme
dell’inferno mi sembravano maledettamente vicine. Chiusi la Bibbia con un tonfo
spargendo altra polvere nell’aria per evitare che mi suggestionasse ancora,
anche se ormai le parole del mio insegnante erano tornate a galla infondendomi
quella sottile sensazione di paura che per un periodo s’era presa possesso di
me, durante i miei diciassette anni.
Tentando di scacciare dalla testa i fantasmi del passato, un passato fin troppo
remoto e che non avrei dovuto ricordare così bene, salii velocemente al secondo
piano per portare il libro alla signora Rosaria. Quella mi aprì, poi disse con
il volto scavato “Hai fatto in fretta, tesoro”, e mi invitò a entrare, ché, a
pensarci bene, aveva pensato di volermi far assaggiare un pezzo della sua torta
al limone. Accettai a testa bassa e andai a sedermi al suo tavolo rotondo in
legno chiaro e lucido. Lei sparì in cucina e io le chiesi se desiderasse una
mano, visto che né la ragazza che s’occupava di lei, né la figlia sembravano
esserci, ma quella disse “Sciocchezze, ce la faccio benissimo”, e tornò poco
dopo con un largo piatto pieno di una torta marroncina
con dei tagli gialli dal profumo invitante e già privata di un paio di fette.
Ringraziai abbassando nuovamente il capo quando me ne porse un pezzo su un
fazzoletto, anche se non la mangiai subito: vide che portavo la torta alla
bocca senza decidermi ad aprirla per mordere il dolce, quasi ci fosse qualcosa
che mi preoccupava. Ma lei evitò di chiedere cosa ci fosse che non andava,
finché non fui io a parlare per primo.
«Posso farti una domanda?»
«Dimmi, bello,» fece lei, contenta che avessi voluto parlargliene. Io andai a
allargarmi con un dito il colletto della camicia, quasi dovessi venir
condannato a morte nel caso avessi continuato a parlare.
«La Bibbia cita alcuni peccati. Tu credi che proprio tutti possano essere considerati
tali?» temetti di non essermi spiegato a dovere, ma quella mi guardò di
sottecchi.
«Hai commesso un peccato?» mi aveva inquadrato subito.
«Er…non so, voglio dire, è un po’ contradditorio con
la parola di Dio, e quindi…» balbettai, elei quasi articolava le parole in modo più
spedito di me.
«Insomma, quanti giri di parole. Mi vuoi dire o no quale sarebbe questo
peccato?» e mi guardò con una faccia da “Non hai ucciso nessuno, vero?”
«E dopo penserai male di me?» ero dannatamente timoroso di come avrebbe reagito
la cattolicissima Rosaria, ma allo stesso tempo avevo una grande voglia di confidarmi
con qualcuno, di farmi dare un consiglio da qualcuno che non fosse Giulio.
Giulio e la sua sfera di cristallo.
«Certo che no. Non cambio quasi mai idea sulle persone. Quella che mi sono
fatta all’inizio di solito vale fino alla fine. E poi, ti confido una mia
convinzione: spesso si odia il peccato,
ma si ama il peccatore,» mi disse facendo un occhiolino, ma era più
probabile fosse un tic. La sua ultima frase aleggiò per un po’ nell’aria e mi
piacque parecchio. Tanto che me l’annotai da qualche parte nel mio cervello,
ringraziando mentalmente la donna per avermela confidata. Presi un respiro
profondo.
«Hai presente il capitolo della creazione? Quando sono stati creati l’uomo e la
donna…»
«Certo che ho presente,» fece lei annuendo più volte e incitandomi a continuare
con la mano che vibrava.
«Ecco. Secondo la fede, i sessi opposti devono procreare, e…»
«Freeena il cavallo. Mi stai dicendo che potresti
essere dell’altra sponda?»
Colpito e affondato. Arrossii –o almeno, pensai di essere arrossito- incassando
la testa nelle spalle, e lei si mise a ridere a scatti, quasi come un robot. «E
io che pensavo avessi ucciso qualcuno!» esclamò con una mano davanti alle labbra
e la risata incontrollata. «Invece, il tuo fantomatico peccato è quello di
amare!». Io alzai il capo.
«Amare?» ripetei, come un bambino a cui devono spiegare la lezione.
«Ma sì, caro. E Dio dice di amare il prossimo, di distribuire amore in giro,
eccetera, quindi è bene che non rompa le scatole,» concluse con energia, e a me
venne da ridere, tanto che non riuscii più a trattenermi. Quella donna era
fantastica, basta, sentivo di volerle un bene profondo. «E dimmi…
è quel bel ragazzo che vedo entrare e uscire da casa tua, vero?» mi chiese poi,
quando mi vide più rilassato. Io annuii, decisamente più sereno e con le
lacrime che m’uscivano da un occhio a causa della forte risata. «Bene, te lo
sei trovato pure bellissimo. E’ degno della tua, di bellezza! Fammi un favore…» e si accostò a me, mentre io, curioso, tendevo
l’orecchio. «Non fartelo scappare. Vai a dargli un bacio, senza pensare a certe
letture da vecchie bacucche,» e sollevò la Bibbia trionfante. Mi alzai, la
ringraziai con un profondo inchino –tanto che per poco non toccavo le ginocchia
con la fronte- e tornai a casa mia col cuore più leggero, quasi quel temuto
“peccato” si fosse trasformato in un’opera di bene.
---
Quando aprii la porta di casa, la prima cosa che notai fu la luce che proveniva
dalla cucina. Dopodiché allargai lo sguardo e trovai sul divano la giacca della
tuta che avevo prestato a Valerio, segno evidente che aveva fatto ritorno a
casa. Senza dire niente, ma con un sorriso inquietante sul volto, andai a
mettere la giacca nell’armadio, non senza aver dato un’occhiata al mio
coinquilino, che sembrava piegato sul piano della cucina, forse a farsi un
panino.
Quando appesi l’indumento a una delle poche grucce libere, cadde volteggiando
da una delle due tasche un pezzo di carta piegato. Pensai di non ricordare di
aver messo una roba del genere nella tasca, e neanche mi passò per la testa che
potesse essere proprietà di Valerio, così la raccolsi e la aprii. Ebbi un tuffo
violento al cuore quando mi accorsi di aver riconosciuto la calligrafia: “Caro Andrea,
so che dovrei prestare attenzione alla tua lezione su Petrarca, ma il profumo
insistente della tua giacca mi ricorda che avrei voluto scriverti due righe.
Sai, sto attraversando un periodo piuttosto strano: da quando ti ho
incontrato/scontrato, diciamo, mi sembra di vivere un’altra vita, una vita non
mia, e di cui non avrei mai potuto pensare di fare esperienza. Insomma, ti
cucino il pranzo, ti lavo i panni, poi tu mi svegli la mattina e mi porti a
scuola, e la sera ci guardiamo un film insieme. Sembra quasi che io e te ci
siamo uniti in una sorta di… famiglia? Mi vergogno
anche solo a scriverlo, scusa… E comunque, volevo
dire che io ne sono felice, lo sai bene, ma posso capire come puoi sentirti tu.
Ti vergogneresti a far sapere in giro che vivi con un tuo studente, ed avresti
perfettamente ragione. Quindi, se preferisci, posso tornare a vivere a casa mia
e tentare di dialogare con mio padre e di rivolgere la parola alla sua nuova
fiamma, di cui non ricordo neanche il nome. Dimmi senza problemi se per te è
meglio che me ne vada. Non ci sarà alcun tipo di rancore, te l’assicuro :) E
scusa se te l’ho chiesto per iscritto ma, non so perché, con te non riesco mai
a parlare… la lingua mi si annoda. Si vede che mi
stai fin troppo antipatico :P
Valerio”
La lessi tutta d’un fiato, senza mai fermare gli occhi o fare una pausa, e il
primo sentimento che mi colse fu la paura. Se ne vuole andare?
Il secondo, forte da stringermi il cuore, fu la tenerezza. Gli si annoda la lingua?
Il terzo fu molto simile all’amore, che mi travolse come una gigantesca onda,
un’onda calda, bollente. Gli piace il mio profumo?
In un primo tempo pensai di rispondergli anche io per iscritto, ma era qualcosa
di banale, infantile, e troppo complicato. Mi ci voleva troppo tempo a scrivere
tutto quello che avrei voluto dirgli, e perché farlo, quando un gesto parla
molto più di mille parole? Sì, sarebbe stato meglio qualcosa di più diretto. Mi
diressi a passo pacato in cucina, ché tanto lo sapevo che s’era accorto che ero
tornato a casa, e vidi che era ancora lì a tagliare quella che sembrava verza:
a quanto pare preparava delle verdure bollite per quella sera. Sorrisi
beffardo, mi avvicinai da dietro e gli sventolai quella pseudo-lettera
davanti agli occhi.
«E questa?»
Lui deglutì e rise del tutto imbarazzato. Fosse stato per lui, avrebbe pianto
dalla vergogna.
«Ahah, l’hai letta?»
«Sì, e ho concluso che sei un idiota,» dissi per poi ripiegare il foglietto e
lasciarlo sul piano della cucina accanto alla verza.
«Eh, lo immaginavo,» fece lui rammaricato, sempre con quel sorriso sforzato,
vergognatosi di aver fatto una cosa tanto infantile.
«Sei un idiota se pensi che ti permetterò di andare via,» mi corressi, adesso
non più con tono irrisorio, ma melenso come quello che trovavi solo nei film
romantici. Per sottolineare la mia intenzione di non volermelo lasciar
scappare, lo sovrastai avvolgendo le braccia attorno alle sue spalle, sempre da
dietro, e poggiando il capo sul suo collo immacolato. Il profumo dello shampoo
al cocco mi stava facendo girare la testa. Chiusi gli occhi e mi beai di
quell’attimo di silenzio e di quel buon profumo, mischiato a quello del
detersivo per piatti. «Credevo di avertelo già detto, o forse non sono stato
abbastanza chiaro: io ti…ti amo. Tu non fuggi via da
me,» aggiunsi, ancora incapace di pronunciare come si deve quelle due,
imbarazzanti, parole. Le avevo mai dette? Avevo mai sentito quel calore
espandersi all’altezza del petto? Avevo mai stretto a me qualcuno come
stringevo quel ragazzo in quel momento? Avevo mai affondato il naso nei capelli
di qualcuno con così tanta smania?
Nascosi le labbra sotto i capelli che gli coprivano la nuca e carezzai piano
quella porzione di pelle con la bocca, notando come avesse un neo particolarmente
grande proprio lì dietro al collo, al centro. Era bellissimo anche quello.
Valerio aveva preso a respirare a fatica, e tentava in tutti i modi di non
farmelo notare, ma ormai avevo imparato ad accorgermi di ogni sua minima
reazione. E a sospirare a mia volta quando glielo sentivo fare. Mi prese una
delle mani che tenevo agganciate attorno alle sue spalle e se la portò sul
petto a sinistra.
«Lo senti?» mi chiese lasciando scemare l’ultima parola. «Temo di star per
scoppiare,» ammise, il cuore che mi faceva vibrare le dita per quanto
palpitava.
«Lo stesso vale per me,» dissi a mia volta tentando di far aderire il più
possibile il mio petto alla sua schiena, sperando che sentisse almeno la metà
dei battiti che stavo avvertendo io. C’era così tanto silenzio, che potevano
addirittura essere uditi, se ci facevi attenzione. Feci scorrere la bocca
vicino al suo orecchio e lo strinsi ancora più forte, quasi a volergli lasciare
i segni delle dita sulle braccia, per poi dondolarlo leggermente a destra e
sinistra. Lo sentii sorridere, travolto dall’onda di tenerezza che pensavo non
sarei mai riuscito a dimostrare. ‘Fanculo, facevo
davvero venire la nausea. «Ti amo,» gli sussurrai all’orecchio, perché potevo
diventare ancora più nauseante, se volevo. Ma il fatto era che non volevo,
eppure mi veniva da farlo, e mi veniva pure da lasciargli una scia di baci sul
collo adesso, notando con piacere come i brividi prendessero possesso della sua
pelle sensibile.
«Sì?» chiese sorridendo allegro.
«Sì…» confermai, e subito dopo spostai una mia mano
sul suo volto, tastando coi polpastrelli la linea del suo naso e quella delle
labbra, e lui mi prese a baciare le dita, e io giurai che non riuscivo a
respirare a causa del nodo alla gola. Non ci volle molto perché Valerio
iniziasse a percorrere con la bocca la lunghezza del mio dito indice, per poi
tirare fuori la lingua e lasciarla passare sulla base del dito e piano salire
fino alla punta. Tirai fuori la lingua pure io, istintivamente, quando avvertii
quello che aveva deciso di fare col mio dito. Mi sentivo girare la testa. La
sua saliva sulla mia mano non mi dava fastidio, Cristo, anzi, mi faceva
gonfiare i pantaloni in modo spropositato.
Spostai la mano che non era impegnata ad essere leccata sul suo fianco, per poi
spingere impercettibilmente il bacino contro di lui. Dio santo, sembravo uno di
quegli sporchi pervertiti che ne approfitta del pullman affollato per strusciartisi addosso senza che tu possa reagire perché sei
bloccato tra la gente.
«Scusa…» dissi, pateticamente, quasi quella parola
potesse alleviare la gravità del movimento perverso che compivo contro il suo
fondoschiena. Ma quello non sembrò dispiacersene e, dopo aver lasciato perdere
la mia mano, scostò la verza facendola finire nel lavandino, e si piegò
lentamente sul piano della cucina, muovendo allo stesso tempo il fondoschiena in
modo circolare, roba da farti perdere il senno. Arrivò a poggiare la guancia
sul piano grigio e freddo rabbrividendo un poco, le mani aperte accanto al
viso, il respiro affannoso, gli occhi socchiusi, le belle e sottili labbra che
si separavano e si riunivano, quasi stessero soffiando.
La mia mano umida della sua saliva si mosse sul suo ventre e fece una sorta di
massaggio, mentre anche io mi piegavo piano su di lui.
«Siamo peccatori, lo sai?» feci ad un certo punto, snervato dal silenzio
pressante e imbarazzante, proprio nel momento in cui lo baciavo dietro
l’orecchio.
«Andrò all’inferno?» mi chiese lui, schiacciato contro il piano della cucina.
«Probabilmente,» risposi, e intanto gli soffiavo sul collo facendolo
rabbrividire.
«Anche tu, allora,» mi disse quello, mentre gli marcavo il retro dell’orecchio
con una scia di saliva.
«Ovviamente».
«E tu lo chiami inferno? A me sembra il Paradiso,» commentò Valerio, e io la
trovai una frase così perfetta da poter essere benissimo inserita nei Baci
Perugina al posto di quelle cazzate senza senso che ero solito trovare. Il tono
con cui l’aveva detto, morbido ed emozionato, mi diede un incipit a cui forse
non avrei dovuto affidarmi così in fretta. Ero sopra di lui, ormai, e il suo
corpo era piegato ad angolo retto sotto il mio. La protuberanza nei pantaloni
si vedeva e si sentiva, l’erezione strisciava contro i boxer e faceva male. Mi
permisi di fare qualcosa, allora: scesi coi baci sino ad appena sotto il collo,
poi portai le mani a sollevargli la polo verde chiaro e andai, adesso
improvvisamente svelto, a carezzargli il petto e lo stomaco nudi, sentendo come
la sensazione sui polpastrelli fosse piacevole. Allo stesso tempo lasciavo scie
di baci e saliva lungo tutta la schiena scoperta, ed arrivai a circondargli la
pelle dei fianchi con la bocca e quindi con i denti, mordendo piano, poi più
forte, e prendendo a succhiare di tanto in tanto, come una belva affamata.
«Aspetta,» tentò di fermarmi Valerio, la voce soffocata contro il finto marmo. «Stiamo
correndo troppo…aspetta…»
ripeté, ma la sua voce mi arrivava ovattata alle orecchie, come un sogno
lontano e che andava dissolvendosi, e io dovevo correre, inseguirlo, o mi
sarebbe sfuggito dalle mani come sabbia tra le dita. E quindi andavo avanti
come un automa, una mano che aveva raggiunto uno dei suoi capezzoli, che
sembrava tanto strano quanto piacevole tra le mie dita. «F-fermati!»
quasi strillato, questa volta. Mi bloccai di colpo, quasi fossi stato svegliato
di soprassalto da una secchiata d’acqua fredda. Mi tirai su stordito, e quando
allontanai delicatamente anche il mio bacino dal suo corpo, mi ritrovai il mio studente
disteso sul piano della cucina, con la polo alzata sino alle spalle e un
succhiotto evidente su un fianco. Per non parlare dei segni dei morsi lì in
corrispondenza delle due fossette sovrastanti il fondoschiena. Ma che ero
diventato, una bestia, forse?
Lui si sollevò a sua volta sistemandosi la maglietta e massaggiandosi
istintivamente il fianco, non sapendo che in quel modo avrebbe aumentato il
rossore, probabilmente.
«Scusa se ti ho fermato, ma per me è importante,» disse quando si fu voltato
verso di me e riuscii a guardarlo negli occhi per la prima volta dopo quella
mattina. Il pensiero di non averlo guardato in faccia mentre gli facevo quelle
cose mi fece vergognare come un ladro, tanto che avevo voglia di buttare la
faccia nelle mani a coppia e piangere come un poppante. E non piangevo dal
funerale di mio padre. Lui però era calmo, e io pensavo che mi avesse bloccato
perché aveva paura di cosa avrei potuto fargli, io uomo trentacinquenne che non
fa sesso da un po’, ma non sembrava spaventato. E, quando stavo per chiedergli
nuovamente scusa per tutta quella situazione, lui mi precedette. «Non so cosa
significhi per te un “Ti amo”, ma…» si stropicciò i
lembi della polo e puntò il suo sguardo dritto nel mio. «per me equivale a una promessa. Quindi, se
hai intenzione di dirmi ancora una volta quelle due parole, dovrai poi
prenderti la responsabilità di tenermi con te fino alla fine dei tuoi giorni,»
aggiunse, prendendomi un po’ alla sprovvista, e non si decise ad abbassare gli
occhi dai miei. Come? Esisteva davvero qualcuno che ancora credeva nell’amore
eterno? E dovevo proprio andarmi a innamorare di un tipo del genere? Pensavo
che la nuova generazione fosse disillusa, o che perlomeno pensasse alle
macchine, alla discoteca e alle pasticche, non all’amore eterno. Oh per carità,
come l’avrei gestita quella gatta da pelare? «Data questa premessa, adesso sei
ancora convinto di potermi dire quelle parole?» insistette Valerio, le braccia
ora incrociate contro il petto, gli occhi che richiedevano una risposta
immediata e convinta, senza troppi ripensamenti o dubbi. Io invece i miei
pensieri ce li avevo eccome. Non è che non fossi sicuro di amarlo, ma per come
sapevo di essere fatto, poteva anche essere che il sentimento se ne sarebbe
andato col passare del tempo. Non potevo prendermi l’onere di tenermi il
ragazzo fino alla fine dei miei giorni, come lui stesso aveva detto. Sperai che
non fosse serio, ma quello teneva lo sguardo duro ancora puntato su di me, e il
piede che picchiettava sul pavimento, anche se non insistentemente, le braccia
conserte e le mani che stringevano la pelle delle braccia. Dedicai un attimo un
pensiero a quel che era rimasto della mia famiglia, ai miei amici, ai miei
colleghi e conoscenti, al padre di Valerio. Mi chiesi che cosa ne sarebbe stato
di loro se mai avessi deciso di tenere accanto a me quel ragazzo, di cosa
avrebbero pensato, se mi avrebbero mai più rivolto la parola, se sarei rimasto
ancora più solo di quanto già non mi sentissi. E, durante quel flusso di
pensieri, abbassai il capo e finii per guardare i piedi di Valerio che si
muovevano nervosi. E non risposi.
«Come pensavo,» disse Valerio, il tono rassegnato e deluso, mentre, ne ero
sicuro, si dava mentalmente dello stupido. Poi i suoi piedi si spostarono e lo
portarono nella stanza accanto. Qualche minuto dopo sentii chiudere la porta
d’ingresso, e io ancora dovevo tirare su il capo. Lo sguardo mi cadde sulla
verza nel lavandino, poi mi misi due dita sugli occhi e strinsi tanto da avere
la sensazione di sanguinare dalle orbite.
Figuriamoci se riuscivo a farne mai una giusta, io. Frugai nella tasca dei
pantaloni e ne tirai fuori il pacchetto di sigarette ormai ridotto a un pezzo
di carta stropicciato e schiacciato. Fortunatamente, l’unica sigaretta
all’interno s’era salvata. La portai alle labbra ancora pregne del sapore dei
fianchi morbidi di Valerio, quindi me le leccai prima di accendere il
bastoncino bianco e aspirare. Mi accorsi solo in quel momento di non essere in
balcone e che stavo fumando forse per la prima volta dentro casa. Non mi
importava. Non mi importava più di nulla. Nulla che non riguardasse Valerio,
perlomeno.
---
Spero di aver fatto contento qualcuno con
questo capitolo ^^ Amo la tensione sessuale **
Purtroppo Valerio, essendo il passivone, deve anche
fare la parte della femminuccia che ancorasogna il principe azzurro e l’amore eterno. E deve avere le
mestruazioni, di tanto in tanto, altrimenti non è un passivone
di quelli che si rispettano.
Andrea, dal canto suo, a volte si lascia andare, ma non lo fa apposta, la carne
è debole. Noi lo amiamo lo stesso. Almeno, io lo amo <3
In questo capitolo ho accennato al passato di Andrea, giusto alcuni flash più
vividi, e mi sono soffermata sulla questione religiosa, fin troppo spinosa e
impossibile da trattare in metà capitolo. Ma io l’ho voluta lasciare sul
“leggero”, e Rosaria ha pensato al resto. Ha sdrammatizzato il tutto e ha
cambiato l’umore di Andrea da nero a bianco.
Ah, ecco, c’era una curiosità –sempre se vi interessa XD- che ho scritto nella
risposta a una recensione e che copio e incollo qui. Riguarda la scelta dei
nomi dei personaggi: Il mio intento è proprio quello di
comunicare una certa... normalità, con questa storia. Non sopporto le
esagerazioni in un racconto, o le descrizioni di personaggi che non possono
esistere, perché troppo perfetti. Faccio una scelta precisa anche dei nomi: ho
scelto un nome americano per la ex moglie di Andrea perché volevo che spiccasse
subito, dato che è su un livello d'importanza leggermente più alto rispetto
alle altre donne presenti nella storia. Andrea è il nome più comune del mondo,
e volevo dare al personaggio proprio l'idea del "normale",
"ordinario", anche se poi ho notato che è utilizzato per indicare il
protagonista in innumerevoli storie originali, e mi sono detta che forse è
davvero troppo ordinario. Ma non avrei mai potuto cambiarlo, quel nome
designerà il mio personaggio, che mi è così caro, e per sempre sarà così <3 Valerio è un nome che mi sa di leggerezza e
serenità e di azzurro, ed è già meno usato, per quello l'ho scelto. Per quanto
riguarda gli altri nomi, li considero quasi tutti bruttini, e l'ho fatto
apposta a sceglierli, perché mi infastidiscono le storie in cui i personaggi
hanno nomi bellissimi e perfetti -come, ad esempio, coloro che ambientano la
storia in America e usano come nomi "Erik", "Mark",
"Stephen", "Alice", "Harmony",
"Steve", "Edward", eccetera, nomi perfetti e belli,
insomma-. Per dirti, il nome Edward è affascinante e misterioso, ma se lo
traduciamo in italiano? Viene fuori un nome che a me piace davvero pochissimo
-chiedo scusa se hai parenti o amici con questo nome-: Edoardo. Eppure, l'ho
usato per designare il protagonista di una storia che ho scritto su un quaderno
XD
Okay, credo di aver scritto fin troppo XD
Ah, volevo dirvi che, grazie soprattutto a coloro che leggono questa storia,
sono stata inserita tra gli autori preferiti da 100 persone! *piange di felicità* Ho raggiunto
un traguardo, GRAZIE!
E, già che ci sono, metto qui di seguito il link della mia pagina autrice su Facebook, nel caso qualcuno volesse leggere gli aggiornamenti
sul social network: http://www.facebook.com/mirokiaEFP
Vi abbraccio tutti! E vi ringrazio di cuore!
Dopo quel pomeriggio, mi sentii tremendamente in colpa per come mi ero permesso
di trattare Valerio. Gli ero quasi saltato addosso quando con lui non avevo
avuto un contatto più intimo di un bacio. Anche se non dovevo dimenticare le
volte in cui mi aveva preso per mano o quando s’era lasciato carezzare o quando
m’aveva mollato un bacio sulla guancia. A pensarci bene…
la colpa era più sua che mia. Se non avesse voluto che gli facessi quelle cose,
si sarebbe tirato indietro sin dall’inizio, e invece era stato lui il primo a
piegarsi a novanta, a sospirare e a fare quei versetti da donna di facili
costumi. Era lui che mi seduceva! …No, così non andava. Stavo davvero parlando come un
vecchio maniaco che tenta di discolparsi dopo aver molestato un minorenne. Ma Valerio
non era affatto un minorenne, dannazione, ed era stato consenziente, e non era
illegale quello che m’ero permesso di fare. Non avevo motivo di sentirmi in
colpa sotto quell’aspetto.
Mentre mi facevo l’ennesimo caffè senza schiuma, pensavo a in che modo potevo
porre fine a quel silenzio straziante. Sintonizzare la televisione su MTV non
bastava. Come non bastava mettere su il solito cd di Jason Mraz,
che in condizioni normali m’avrebbe rilassato e regalato un qualcosa di simile
al buonumore. Ma quelle non erano condizioni normali: quello era già il secondo
giorno che tra me e il mio coinquilino regnava il silenzio assoluto. Non è che
stavamo spalla a spalla senza rivolgerci la parola, era che non riuscivamo
proprio a beccarci nella stessa stanza. Questo perché lui, nelle poche ore in
cui si ritrovava a casa, se ne stava chiuso nella camera che una volta era il
mio ufficio a studiare letteratura latina, senza mai alzare il capo. In realtà
non potevo sapere se alzasse o meno il capo, ma quando passavo davanti alla sua
porta, che magari a volte finiva per essere socchiusa, lo vedevo con la testa
pendente in avanti, quasi stesse dormendo seduto; ma il fatto che girasse le
pagine mi suggeriva che era bello sveglio e che si stava impegnando
particolarmente, senza chiedermi chiarimenti come gli capitava di fare a volte.
Sembrava voler diventare autosufficiente, fare tutto ciò che era in suo potere
per guadagnarsi una certa autonomia. Era lui ad uscire a fare la spesa, senza
dirmi nulla, e quando io tornavo dal lavoro trovavo già il frigorifero e la
dispensa pieni, e non mi mancava nulla. E il fatto che comperasse la roba coi
soldi del padre senza neanche guardare i miei mi disturbava, e non poco. Quindi
mi innervosivo, diventavo irascibile, poi però trovavo nel mobiletto in salotto
una decina di confezioni di Twix, un vasetto nuovo di
Nutella e i biscotti con le gocce di cioccolato che mi facevano impazzire e mi
veniva da piangere, perché non sapevo se fossi io quello che si faceva leggere
come un libro aperto o fosse Valerio che passava il tempo –se riusciva a
ritagliarsene un po’- a segnarsi su un foglio il cibo che mi vedeva consumare
più spesso. E l’ultima ipotesi era piuttosto inquietante.
Qualcos’altro di curioso era il fatto che, comunque e in qualunque caso, se lui
era a casa, a pranzo e a cena mi ritrovavo la tavola imbandita, senza però il
suo piatto. Non sapevo se mangiasse prima o se non mangiasse affatto. E io non
avevo neanche avuto le palle di prenderlo da parte e chiedergli cos’è che
esattamente voleva, e per quale motivo mi stava evitando e tornava a casa
piùtardi del solito. Forse non l’avevo
fatto perché avevo paura –come un mocciosetto
dell’asilo- che quello in qualche modo si fosse disinnamorato di me, se mai lo
era stato davvero, o si fosse stancato della mia compagnia. Possibile che ce
l’avesse ancora con me per il “ti amo” non ripetuto?
Dovevo svagarmi un po’, non ce l’avrei fatta ad andare avanti in quelle
condizioni, mi sentivo contorcere lo stomaco e avevo la nausea a ogni ora del
giorno a causa della tensione. Decisi di uscire, magari sarei andato all’Olsen. Lasciai andare la tazzina nel lavandino col rischio
di romperla e spensi la tv nonostante la bella canzone di Lionel Richie, poi mi diressi senza darmi il tempo di pensare
verso la camera in cui s’era nuovamente chiuso Valerio una mezz’oretta prima.
Bussai alla porta, ma non ci fu risposta dall’altra parte: magari dormiva, o
aveva le cuffie. Allora mi permisi di socchiudere la porta e buttare uno
sguardo nella stanza, per poi intercettare immediatamente la figura di Valerio
piegata su un libro, la luce sulla scrivania che gli illuminava i capelli
facendoli sembrare ancora più chiari. Non appena mi vide sbucare, il ragazzo si
asciugò velocemente dal viso quelle che sembravano essere lacrime.
«Sto andando a salutare Giusy. Vuoi venire con me?» provai a chiedergli cauto.
«No, grazie. Devo rivedermi questo capitolo,» rispose lui senza alzare il capo
dal libro.
«Sicuro? Potrai studiare domani.»
Lui mi guardò con gli occhi venati di rosso e respirò quasi strozzandosi con la
sua stessa saliva. Fece due o tre colpi di tosse, poi parlò, ostinandosi a non
alzare gli occhi dalla pagina.
«Per quanto mi riguarda, non so se domani sarò ancora qui». Fu una risposta che
sinceramente non mi aspettavo. Il cuore fece un balzo e prese a dolere, lo
stomaco a contorcersi e a provocarmi i soliti sensi di nausea, mentre la mano
sulla maniglia tremava, come anche la mia voce quando si decise a parlare.
«Vuoi andartene?»
«E’ la migliore cosa da fare,» rispose lui piuttosto composto, la schiena e il
collo dritti, ma io lo sapevo che erano tesi, la bocca che si muoveva
pronunciando le parole come quando si recita una parte in uno spettacolo
teatrale scadente. Come se si fosse studiato quel copione da un po’ e adesso
fosse arrivato il momento del debutto. Sì, era teso e nervoso proprio come un
attore alle prime armi. Quello che non aveva ancora imparato era che, quando si
parla al pubblico, bisogna fronteggiarlo, con le spalle e il busto rivolti ad
esso. Era davvero un principiante.
Mentre me lo ripetevo per evitare di deprimermi, chiusi nuovamente la porta e
uscii si casa in fretta, quasi per permettere all’aria fredda di congelare le
lacrime che pizzicavano ai lati degli occhi.
---
Arrivai al bancone del locale di Giusy trascinando i piedi quasi fossi stremato
da giorni di sonno che per qualche misterioso motivo mi era stato negato. Quel
misterioso motivo aveva due dannatissimi occhi che sembravano riflettere il
cielo sereno e un profumo che ti entrava nelle vene alla stregua della droga, e
come tale ti rendeva dipendente.
Quando mi poggiai con entrambe le braccia al bancone quasi fosse l’unico
appiglio presente al mondo e io stessi per cadere da un momento all’altro,
pensai di essere talmente depresso da emanare un alone viola e nero.
«Andre! Buonasera!» salutò Giusy nonostante avesse
ben notato che avevo le braccia incrociate sul bancone e la testa affondata tra
di esse, come un vecchio che si addormenta sul tavolo dopo pranzo, o un bambino
che è costretto dalla maestra a mettersi in quella posizione per punizione, o
un liceale che prende sonno durante matematica. Alzai lentamente la testa, con
lo sguardo spossato e, molto probabilmente, alquanto spaventoso. «Ma…che brutta cera che hai,» fece quando s’accorse del mio
colorito molto vicino al grigio zombie.
«Dov’è Giulio?» chiesi senza ribattere alle sue costatazioni alquanto ovvie, la
voce piagnucolosa.
«L’ho visto uscire sul retro poco fa. Dev’essere
andato a fumare,» fece lei perplessa e col capo inclinato di lato.
«Ah…Grazie,» ringraziai flebilmente, poi mi alzai
senza aggiungere altro e mi trascinai di nuovo fuori, ma sul retro, non lontano
dai bagni. Avevo sempre timore di avventurarmi nel retro dei locali, perché era
sempre lì che succedevano le cose più spiacevoli –scippi, risse, stupri,
uccisioni, sesso all’aperto, droghe consumate illegalmente, ubriachi che si
minacciano con bottiglie rotte e che fanno pipì contro il muro-, almeno nei
film. E io forse sprecavo troppo tempo della mia vita a vedere film del genere.
Mi preparai ad assistere a qualche scena di cui, in qualunque caso, non avrei
dovuto essere testimone, ma lì fuoriera
ben illuminato da un neon bianco sopra la mia testa e non c’era poi tanta
gente, solo un ragazzone dallo sguardo dolce e un paio di jeans larghi e
sbiaditi che parlava imbarazzato a due damerini tutti in tiro, uno bassino coi capelli ricci e la birra in mano, l’altro con
la chioma castana laccata, gli occhi chiari e in mano un drink fosforescente. E
poi contro il muro nella penombra si riconosceva Giulio che fumava e intanto parlocchiava animatamente con un tizio dai capelli lunghi.
Mi avvicinai schiarendomi la gola e sentendomi tremendamente fuori posto, ma
fortunatamente, quando Giulio si girò e mi riconobbe, mi salutò con un sorriso.
«Ehi, latin lover. Che ci fai qui?» mi chiese, una punta di curiosità nella sua
voce. Notai che i capelli gli erano ricresciuti in fretta, era quasi
impressionante che il ciuffo nero fosse già arrivato a metà della sua fronte.
Inoltre, non aveva gli occhiali sul naso: probabilmente portava le lenti a
contatto, o magari ci si era seduto sopra e adesso era costretto a girare senza
vedere un tubo.
«Vorrei parlarti,» gli dissi, mani in tasca, occhi che fuggivano timorosi dal
tizio alto coi capelli lunghi. Giulio si voltò verso quest’ultimo e,
«Ti dispiace?» gli chiese. Quello scosse il capo e intanto buttò fuori una
nuvola di fumo, e dall’odore mi accorsi che non era una sigaretta normale. «Dimmi
pure. Problemi col tuo coinquilino?» domandò Giulio arrivando subito al punto,
una volta che ci fummo spostati un po’ più in là. Lo guardai sempre più
sorpreso.
«Come fai a…?»
«Respiro corto e affannoso, tipico delle ansie amorose,» si affrettò a dirmi,
interrompendomi. M’ero scordato di quanto riusciva a leggermi dentro
semplicemente guardandomi in faccia o ascoltando il modo in cui respiravo. Mi
arresi da subito, ché sapevo di non potergli nascondere nulla.
«Beh, hai indovinato. Vedi, è successo che…» e gli
raccontai ogni cosa senza scendere troppo nei particolari: gli parlai
velocemente della situazione familiare di Valerio, di come mi faceva trovare sempre
il pranzo e la cena pronti, di come facesse la spesa e si occupasse di tutto
ancor prima che io riuscissi ad accorgermi che la dispensa si stava svuotando o
che il latte era quasi finito. Poi gli raccontai del primo bacio, della presa
di coscienza, del mio tentativo di stupro –al che lui commentò: “Non ti
biasimo”- e al repentino cambiamento del suo atteggiamento. Gli chiesi allora,
seppur con voce inesistente e una vergogna che mi faceva formicolare la base
del collo –perché mi ero ripromesso che non sarei mai andato a parlare dei miei
fatti personali con quello lì- consigli su come comportarmi, dato che quella
situazione sembrava ferirmi da dentro.
«Lui vuole solo una conferma. Dopo tutto quello che ha passato, è normale che
non voglia soffrire ancora, anche se questo significa rinunciare alla persona a
cui tiene di più.» iniziò quello, per poi prendere un tiro dalla sigaretta
quasi completamente consumata. «Probabilmente, pensa che proverebbe meno dolore
ad allontanarsi da te adesso che non avete ancora un legame stabile. Quindi ti
ha posto questa condizione: o stiamo insieme per sempre felici e contenti,
oppure faccio che andarmene, così tagliamo i ponti in modo netto e ti dimentico
da subito. In poche parole, la scelta sta a te. Ma stai sicuro che non se ne
andrà così facilmente: se l’hai visto piangere, vuol dire che è troppo
affezionato per farlo. Non crucciarti più di tanto, perché vedrai che domani
sarà ancora a casa e che sfrutterà qualsiasi occasione per rimanere,» concluse
regalandomi una pacca sulla spalla, e nello stesso momento lasciò cadere il
mozzicone con nonchalance per poi pestarlo con la punta del piede. Io seguii il
suo discorso senza fare una piega, e dovetti dare per buona ogni sua parola,
visto che sinceramente non sapevo che altro fare. A questo punto io, piuttosto
che lasciarlo andare e tornare a vivere senza la sua presenza intossicante e
allo stesso tempo quasi benefica, gli avrei promesso di tenerlo con me per
sempre. Anche se sapevo che il per sempre non esiste. Ma sapevo anche che senza
di lui non avrei vissuto, perché quando pensavo di “vivere” per inerzia, in
realtà esistevo e basta, nessuna forte emozione che riuscisse a colpirmi, nessun
sentimento particolare che mi si radicasse nel cervello e nell’anima, nessun
buon motivo per alzarmi la mattina con entusiasmo. Invece a volte capitava che
aprivo gli occhi sedotto dall’odore del caffè, e quando arrivavo in cucina
ciabattando e trovavo Valerio già al lavoro con tazzine, cucchiaini, fette
biscottate e bustine da tè, sorridevo e pensavo valesse la pena vivere. Talvolta
credevo di star ancora sognando, e mi pareva un sogno bellissimo, e ridevo tra
me, e decisi che per niente al mondo mi sarei negato quella serenità che non
provavo da anni.
Il mio flusso di pensieri fu interrotto dallo squillo antiquato del mio
cellulare. Mi venne male al cuore quando vidi scritto “Valerio Castelli” sul
display.
«E’ lui?» sillabò Giulio, quasi avessi già risposto e non volesse farsi
sentire. Annuii, gli diedi la schiena e mi allontanai di qualche passo prima di
rispondere.
«P-pronto?»
«Andrea…»
La sua voce era terribile. Debole, sconsolata, rauca, coi singhiozzi che
facevano da sottofondo.
«E’…è successo qualcosa?» chiesi già allarmato, ché
sentirlo star male mi procurava sempre una stretta al cuore. Il suo pianto era
anche il mio.
«Sì… ma non so come dirtelo,» disse con un tono di
voce orribile, quasi facesse fatica a respirare.
«Cosa? Cosa è successo?»
Già stavo pensando agli avvenimenti più disparati: magari Valerio aveva deciso
di uscire e s’era dimenticato di chiudere la porta ed era entrato un ladro e
aveva fatto piazza pulita. Dio, no. O magari era successo qualcosa a lui,
magari l’avevano derubato mentre era per strada o, peggio, molestato, o peggio!
Magari il fratello di Laura l’aveva preso a botte. O magari Fabio Martone, per vendicarsi della serata al cinema in cui gli
avevo sottratto Valerio, era venuto a spaccarmi le finestre con le pietre. O
magari Bruno Castelli s’era accorto che tra me e suo figlio c’era stato
qualcosa e tentava di trascinarlo via a forza da casa mia. Avevo i brividi,
maledizione.
«Forse non tocca a me dirtelo…» fece Valerio a
fatica, perché si interrompeva ogni due parole.
«Dimmelo e basta,» dissi sbrigativo, i denti che martoriavano il pollice.
«Ecco… è appena passato il capo condominio, e…» si interruppe nuovamente, e io picchiettai il piede
sull’asfalto. «Ti cercava, pensava di dovertelo dire prima che lo scoprissi da solo…»
«Vuoi sbrigarti a dirmelo, santo cielo?» sbottai, la mano sudata già nei
capelli. Valerio si schiarì la voce e disse “Va bene” prima di parlare.
«Qualche ora fa la signora del secondo piano…»
«Rosaria?»
«Sì. E’ morta».
---
Lì per lì pensai che Valerio mi stesse giocando un brutto scherzo per
vendicarsi di me e di come l’avevo fatto star male o qualcosa del genere. Così
gli chiesi più volte se stesse dicendo sul serio, se non mi stesse prendendo in
giro, ma l’altro quasi strillò arrabbiato “Ti sembra che potrei scherzare su
una questione del genere?!”, perché pensava non mi fidassi di lui. E quello che
desideravo era, invece, aver capito male e quindi aver frainteso tutto. Non
poteva essere successo, non in quel momento, ci avevo parlato giusto due giorni
prima, avevo mangiato la sua torta, le avevo prestato la Bibbia, le avevo
parlato di Valerio. Le avevo parlato, Dio santo. Le avevo…
le avevo detto “Ci vediamo”.
Ero rimasto lì in silenzio a non voler credere a quel mucchio di stronzate, con
Valerio che mi richiamava e che decise poi di stare in silenzio con me, quasi a
rispettare il mio sgomento. Sapeva che non avevo ancora messo giù, perché il
mio respiro era particolarmente pesante quando trattenevo il pianto. Non avevo
da piangere, perché non era niente vero. Era una combutta contro di me,
qualcuno mi voleva male e mi stava facendo soffrire a quel modo. Adesso sarei
tornato a casa e l’avrei trovata sulla soglia, Rosaria, con la Bibbia in mano,
a dirmi che di sera ero ancora più affascinante, poi mi avrebbe ridato il libro
con un grosso sorriso tremolante e avrebbe deciso di salire le scale a piedi,
perché l’ascensore è per i vecchi. Quel che diceva Valerio non aveva senso.
Chiusi la comunicazione quando mi resi consapevole di essere in torto, e mi
sentii come mordere le membra.
«E’ morto qualcuno?» chiese Giulio preoccupato, ma con la totale mancanza di
tatto. E, ovviamente, colse nel segno. Annuii e neanche mi girai a guardarlo,
figuriamoci se l’avrei salutato. Mi sentivo a pezzi. Non avrei neanche avuto la
forza di premere a fondo la frizione.
Giulio non disse niente quando tornai a testa bassa dentro il locale, e Giusy
fortunatamente non sembrò vedermi nel momento in cui dovetti passarle davanti
per poter uscire dall’altra parte.
Tornai a casa che stavo dieci volte peggio di come ero uscito. Salii le scale e
intercettai la figura di Valerio sulla porta, stretto nelle spalle, le braccia
conserte quasi avesse un gran freddo, lo sguardo fissato su un punto impreciso
davanti a sé. Quando vide che stavo salendo direttamente al secondo piano, si
affrettò a seguirmi chiudendosi la porta alle spalle.
Sul pianerottolo vi era un gran caos e un viavai di condomini: la vicina di
casa di Rosaria sembrava essere lì da più di un’ora, e per quello s’era messa a
parlare con una donna del quarto piano spiegandogli l’intera faccenda seppur
con riguardo, e da poco s’era aggiunta alla conversazione per niente felice
anche la mia vicina di casa. Per il resto regnava un silenzio luttuoso, tutti
guardavano a terra, a un uomo tremava la bocca perché piangeva senza volere che
gli altri se ne accorgessero: si teneva la mano nodosa davanti agli occhi e di
tanto in tanto sussultava. Mi venne voglia di consolarlo, se non fosse per il
fatto che adesso stavo piangendo più vistosamente di lui e magari ero io quello
ad aver bisogno di una consolazione. Avevo appena perso una seconda madre.
«L’hanno già portata via». Il capo condominio era comparso accanto a me e
adesso mi poggiava la mano sulla spalla in segno di conforto, ché lui sapeva in
che rapporto eravamo io e Rosaria: per quello era sceso personalmente ad
avvisarmi, per evitare che venissi a saperlo da me in modo troppo brusco. Mi
sforzai di reprimere i singhiozzi gutturali, perché facevo già abbastanza
compassione con il viso rosso per il pianto. Sentivo le vene sulla fronte
pulsare per lo sforzo.
«Come?» riuscii a chiedere, poi mi resi conto della domanda senza senso e
riprovai. «Come…Com’è morta?»
«Infarto. L’ha colta mentre era al telefono con la figlia che, preoccupata, è
venuta qui di corsa,» disse lui passandosi la mano sulla testa rasata.
«Quindi… l’ha trovata lei?»
«Sì, aveva con sé le chiavi di casa. Ha aperto e l’ha trovata a terra, già
morta,» raccontò molto francamente, e a quella verità mi venne solo da piangere
più forte. Se io stavo così male, non avrei immaginato la figlia. Guardai in
alto per cacciare indietro le lacrime, come ogni volta che mi capitava di dover
piangere, chiedendomi se avessero riservato a Rosaria un posto d’onore in
Paradiso. Incrociai le braccia contro il petto, e solo in quel momento mi
voltai a guardare Valerio, che se n’era stato fino a quel momento accanto a me:
aveva il volto inspiegabilmente coperto di lacrime.
«Perché?» chiesi riferendomi al pianto che s’era fatto insieme a me. «Non la
conoscevi,» e mi soffiai il naso con un fazzoletto che avevo stropicciato nella
giacca.
«E’ per te,» disse lui semplicemente alzando le spalle. Si aggrappò alla manica
della mia giacca e mi costrinse a sciogliere le braccia allacciate tra loro per
poi abbracciarmi, forse sperando di consolarmi. Io lo strinsi ancora più forte
lì sul penultimo scalino e gli passai la mano nei capelli: quel gesto aiutò a
rilassarmi un minimo, e ne fui tanto lieto da sospirare piano sulla sua spalla.
«Tu hai passato momenti peggiori e adesso stai cercando di consolare me.
Stupido,» gli mormorai senza mai smettere di passargli la mano sui capelli. Ma
almeno avevo smesso di tirare su col naso e di parlare a tratti. Senza quel
ragazzo lì con me, probabilmente sarei già andato fuori di testa. Stetti
aggrappato a lui ancora un po’ a sentirlo respirare a fatica prima di parlare
ancora.
«Hai ancora intenzione di andartene e di farmi stare più male di quanto già non
stia?»
Lo sentii mentre smetteva del tutto di respirare prima di rispondere.
«Io…non voglio che tu soffra. Ma non voglio soffrire
nemmeno io,» disse piano, quasi fosse un segreto da confidare a me e a me
soltanto, e dopotutto lo era. Nessuno dei due aveva voglia di soffrire e di far
soffrire l’altro, a quanto pareva. La pensavamo allo stesso modo.
«Se resti… ti prometto che non soffrirai,» dissi
quindi, tenendolo ancora tra le braccia, tanto che la gente iniziava a pensare
che Valerio fosse un parente di Rosaria. Il ragazzo mi diede pacche sulle
spalle per farmi smettere di stringere a quel modo.
«V-va bene, però smettila di piangere. Andiamo a
casa, è peggio se restiamo qui,» propose, e io non potei fare altro che dargli
ragione. Lo seguii giù per le scale dopo aver chiesto al capo condominio di
farmi sapere il giorno del funerale non appena ne fosse venuto a conoscenza.
Avevo il mal di testa che mi torturava le tempie, il che mi ricordò quanto
fosse terribile la sensazione post-pianto. Avevo sicuramente gli occhi rossi e
gonfi con due profonde occhiaie che li marcavano. Dovevo essere il peggiore dei
mostri.
«Vai a riposare, devi essere distrutto,» Valerio, premuroso fino al midollo, mi
carezzò un ciuffo di capelli e mi passò la mano sulla guancia, e sperai non la
trovasse umida di lacrime. Annuii ma, prima di ritirarmi in camera, tornai
indietro da lui e lo presi un’ultima volta tra le braccia: non avevo pensato ad
altro che alla morte quella sera, e in quel momento sentivo la voglia di vivere
scorrermi nelle vene. Come linfa vitale.
«Sicuro che domani non sarai sparito?»
Lo sentii sorridere.
«Sì. Non credo che avrei il coraggio di allontanarmi da te,» ammise
stringendosi con le mani alla mia schiena. «Penso di averti amato sin dal
giorno in cui mi hai salvato la vita. Io ti devo tutto. Non faccio che pensare
al fatto che, se non ci fossi stato tu e il tuo istinto da buon samaritano, io
quel giorno sarei morto. Non sarei qui a parlarti,» al solo pensiero mi girò la
testa. Ne ho già abbastanza di parlare di morti, pensai amaramente. «Ma non è
stato così, tu l’hai evitato. E adesso io appartengo a te, completamente. E
sento che se provassi a separarmi da te, potrei morirne,» concluse, con
particolare verve e coraggio. Ah, sì? Lui mi faceva quei discorsi? Si rendeva
conto di essermi entrato dentro e di essersi stanziato dappertutto nel mio
corpo? Sentivo battere l’amore ovunque, Cristo santo, ero pazzo d’amore. Lo
lasciai andare e lo guardai in faccia dopo avergli spostato un ciuffo di
capelli dalla fronte.
«Ascoltami bene: ti amo,» gli ripetei, questa volta con convinzione e fermezza,
senza permettermi di tentennare.
«Ma quelle premesse…?»
«Ne tengo conto, e ho detto che ti amo,» dissi ancora una volta per
sottolineare il concetto, e sul suo bel volto s’allargò finalmente un sorriso
felice. Lo sentii sussurrare tra sé e sé un “Evviva,” prima di allacciare le
braccia al mio collo e stamparmi una ventina di brevi baci sulle labbra, che
solo a causa sua sorrisero un po’. Pensai che se fossi nato ai tempi dello Stil Novo e avessi conosciuto questo ragazzo, gli avrei
scritto una poesia pensando a lui come a un angelo. «Buonanotte, angelo,» mi scappò
quando venne il momento di andare a letto. Lui sembrò apprezzare il soprannome
e si allungò a baciarmi la punta del naso.
«Dormi bene. Se non riesci a prendere sonno, chiamami. Verrò a farti qualche
carezza,» mi disse quello con una dolcezza del tutto disarmante.
«Per chi mi hai preso? Per un vecchio a cui badare?» gli chiesi con il
sopracciglio alzato. Lui scosse la testa con le dita che mi grattavano dietro
le orecchie.
«Per il mio uomo,» disse semplicemente, dando per scontato il fatto di doversi
prendere cura del suo uomo. Questa volta fui io ad arrossire in modo vergognoso.
Gli diedi un ultimo bacio e mi ritirai in camera, mentre lui, a sua detta,
restava ancora mezz’oretta a guardare la tv.
Alla fine, quella notte non presi sonno per davvero, ma non mi azzardai a
chiamare Valerio, che di certo era già sprofondato in uno dei suoi sonni per
niente leggeri. Il peso di aver perso una persona fondamentale come Rosaria era
grande, ma in qualche modo sapevo di poter superare quel lutto. Vedevo in tutto
quel buio uno spiraglio, una luce che s’allargava di minuto in minuto, e quella
luce aveva il nome di Valerio.
---
Bene, non so davvero cosa scrivere. Sto
ascoltando Tiziano Ferro da ore e credo di avere il cervello un po’
intirizzito. Inoltre, sono le tre e mezza di notte, forse non l’orario adatto a
scrivere. Potrei aver fatto degli errori, ma ho letto più volte, spero non ci
sia nulla di terribile XD
Ho fatto morire Rosaria perché anche nel 2010 ero amante delle morti e delle
lacrime nelle storie, anche se devo dire di essere peggiorata. C’è chi “Mirokia” la definisce con “Ahh,
quella che non sa cosa sia un genere che si allontani dall’angst
o dal malinconico”, oppure “Ahh, quella che fa morire
i protagonisti”, o ancora “Ahh, quella che trasforma
i protagonisti delle sue storie in assassini che ammazzano i propri amanti a
sangue freddo”. Ecco, no, nel 2010 non ero ancora così drastica, quindi
sappiate che Valerio e Andrea NON moriranno. Manderei a quel paese un sacco di
capitoli XD Fosse stata una one-shot ci avrei pensato
eccome #SadisticTime.
Okay, non ho più niente da dire, se non un grande GRAZIE, come sempre, a tutti
coloro che continuano seguirmi. Grazie per le 49 recensioni, per le 10 persone
che hanno messo la storia nei preferiti, le 5 che l’hanno messa nelle ricordate
e le 41 nelle seguite. Fenchiu :)
Due giorni dopo mi comunicarono la data del funerale di Rosaria, che si sarebbe
tenuto quella domenica. Per quella volta mi presi un giorno di permesso, e fino
alla data prestabilita Valerio le provò tutte per tirarmi su di morale, o per
lo meno per distrarmi. Non cenammo una sola sera di quelle a casa. Mi disse che
“Ti sarai stufato ormai della roba che ti preparo io” e, quando stavo per
ribattere che non era affatto vero, che la sua cucina sarebbe sempre stata una
novità per me, mi anticipò dicendo con decisione che saremmo andati a mangiare
da qualche parte fuori.
La prima volta ero titubante: insomma, non ero mai uscito con lui in una
cenetta romantica, e avevo davvero il timore di quello che avrebbe potuto
pensare la gente, vedendoci seduti uno di fronte all’altro in modo così
complice. Ma lui sembrò aver già previsto un mio possibile disagio o imbarazzo
e, quando entrammo nel locale che aveva scelto per primo, lo guardai con un
misto di ammirazione e rimprovero. Sì, rimprovero, perché non avevo idea di
dove fossimo finiti.
«Ok… Dove mi trovo?» chiesi non appena oltrepassammo
le porte del locale, ma l’altro non fece in tempo a rispondermi che una tizia
dai tratti decisamente orientali e dal tipico abito giapponese mi si piazzò
davanti iniziando a fare brevi e riverenti inchini.
«…Perché questa si sta inchinando?» bisbigliai al mio
coinquilino, e quello rideva sotto i baffi.
«Plego, qui sedeleattolno a lullo,» ci fece la
donna indicandoci due dei tanti posti ancora disponibili attorno a un grosso
rullo su cui non facevano che passare piccoli piattini colorati contenenti cibi
strani.
«Che diavolo ha detto?!» sbottai quando presi posto e Valerio s’accomodò
accanto a me trattenendo le risate.
«Di sederci attorno al rullo,» disse quello, con la faccia di uno che la sapeva
lunga e stava parlando con un ritardato. «E’ un locale giapponese, nel caso tu
non l’avessi capito,» aggiunse congiungendo le mani. Mi doveva aver portato lì
proprio perché in quel modo non saremmo stati seduti l’uno di fronte all’altro
in un tavolo a parte come le coppiette appena sposate.
«Non sono ancora così stupido,» ribattei guardandolo di sottecchi, e neanche
riuscii a finire di dire la frase, che tra di noi comparve una seconda tizia
giapponese, questa volta più piccolina e con un vestito lucido bianco coi fiori
rossi.
«Calne alla piastla?»
chiese con un sorriso fin troppo largo. Lanciai uno sguardo interrogativo a
Valerio, ché avevo capito di nuovo poco e niente, e quello sospirò per poi
prendere la parola.
«Sì grazie».
«Pollo, maiale o mista?»
Ehi, questo l’avevo capito.
«Mista, la ringrazio,» fece Valerio tutto composto, e regalò un sorriso bellissimo
alla tizia bianca e rossa che quasi mi fece ingelosire. Se ne andò la ragazza e
al suo posto comparve un ragazzino dell’età di Valerio che si piegò su di noi
con due tubetti in mano, uno rosso e uno verde.
«Salsa dolce o piccante?» chiese veloce come un fulmine.
«Per me dolce,» disse Valerio, e mi diede la parola con un cenno del capo. Lo
guardai con tanti di occhi: sì, era dolce per davvero.
«…Dolce anche per me,» e mentre lo dicevo guardavo il
mio studente e sorridevo e lo facevo arrossire e poche volte m’ero sentito così
soddisfatto di me stesso. Il ragazzo orientale guardò prima me e poi Valerio,
si chiese sicuramente cosa ci fosse di sbagliato in noi, ci spremette la salsa
in due piccoli contenitori e se ne andò con lo sguardo perplesso.
«Ma cos’è questa roba?» chiesi dando finalmente un’occhiata a quella
sottospecie di cibo che mi passava davanti al naso.
«Prendi quello che ti ispira di più,» mi disse Valerio mentre tirava fuori
dall’involucro di carta le bacchette cinesi.
«E se non mi ispirasse nulla?»
Lui mi guardò di sottecchi e, sospirando, prese due piattini, uno contenente
degli strani spaghetti, e l’altro due cosi allungati che sembravano fritti.
«Tieni: spaghetti di riso e involtini primavera. Inzuppa l’involtino nella
salsa dolce,» mi fece, quasi con sufficienza. Lo guardai storto mentre mi
porgeva i piatti.
«Scusami se sono un po’ diffidente, eh,» mi lamentai mentre scartavo le mie
bacchette.
«Non è che sei diffidente, è che hai troppa paura del cambiamento! Quando ti si
presenta una situazione che deraglia dal binario della tua vita, fuggi e ti
copri occhi e orecchie. Sii pronto al cambiamento!» esclamò mentre prendeva una
specie di frittatina e anche una chela di granchio.
Mi ripetei quelle parole in testa prima di ribattere, perché sapevo che non ne
potessero esistere di più veritiere: nessuno m’aveva inquadrato così bene come
Valerio. A parte Giulio, forse, ma lui non contava.
«Ne sono già cambiate un po’ di cose, nella mia vita,» dissi quindi mentre
tentavo di prendere l’involtino sporco di salsa tra le bacchette. Forse avrei
anche avuto una risposta, se il ragazzo di prima non si fosse di nuovo
frapposto tra noi con uno scatto che quasi mi fece volare giù dalla sedia.
«Ho dimenticato! Cosa volete da bele?»
«Er… acqua,» fece Valerio, palesemente frastornato
dall’ennesima apparizione improvvisa.
«Natulale?»
«Sì».
«Due?»
«Sì, sì!» sbottai a quel punto, innervosito, e quello si allontanò con la coda
tra le gambe, spaventato dal mio gesto improvviso. Sospirai, e mi resi conto
che quel tipo nel giro di due secondi sarebbe tornato per darci le bottiglie. E
io che contavo di avere qualche minuto di conversazione privata con Valerio.
Macché, il locale s’era già riempito, e accanto a me s’era piazzata una
nonnetta davvero grossa, mentre dalla parte di Valerio s’era seduto un bambino
che faceva un casino indescrivibile.
Ma dovetti ammettere che non fu male. Mi feci risate grosse e sincere,
nonostante avessi perso Rosaria qualche giorno prima. Si vedeva che Valerio
stava facendo del suo meglio per strapparmi un sorriso –tra cui farsi sporcare
il naso di salsa dolce e imboccarmi con le sue stesse bacchette- e pensai che
la sua terapia non fosse affatto male, mi sentivo per davvero più leggero.
Allo stesso modo si comportò le due serate seguenti: prima mi portò in un fast food dicendomi che dovevo provare tutti i tipi di cibi che
usavano consumare i giovani –ancora devo capire cosa sono esattamente delle
patatine “Vertigo”-, poi mi mostrò un luogo non
dissimile dallo Starbucks americano, e mi lasciò
provare il caffè freddo, mentre lui si prendeva una cioccolata ghiacciata alla
menta e un dolcetto che, mi disse, mi avrebbe portato in paradiso. Non gli
dissi che era lui quello che mi ci portava, in paradiso. Anche solo con quella
faccia sorridente e le labbra macchiate di cioccolato. Il dolcetto faceva
abbastanza schifo, ma lui era buono come sempre. Dovetti chiedergli di venire
in bagno con me, perché avevo davvero tanta voglia di leccargli via il
cioccolato dalle labbra. Era arrossito e mi aveva seguito a testa bassa.
Quella stessa sera, dato che era il giorno prima del funerale di Rosaria,
Valerio mi chiese se volessi andare a ballare, per sfogarmi un po’. Gli dissi
che no, grazie, ma questo era davvero troppo. Va bene mangiare la roba che si
ingurgitano i “giovani”, va bene uscire dai locali puzzolenti di fritto, va
bene sopportare il cinese, o giapponese, o quello che era, che ti si presenta
alle spalle facendoti venire un coccolone, ma in discoteca non mi piaceva
andare manco da giovane. E il pensiero di entrare in una di quelle scatole buie
piene di ragazzini e ragazzine dagli ormoni in subbuglio mi metteva su un’ansia
non trascurabile.
«Va bene, allora. Non andremo a ballare. Però lascia che ti porti in un posto,»
mi disse quindi Valerio tutto sorridente, le mani nelle tasche della giacca e
il vapore che gli usciva dalla bocca mentre camminava verso piazza Vittorio. Torino
di sera era qualcosa che toglieva il fiato già di suo, figuriamoci se ci
passeggiavi con una creatura quale era Valerio. Tanto dolce da non sembrare
vera.
«A quest’ora? Sono le undici,» gli feci notare mentre fumavo la mia prima
sigaretta della serata.
«E tu vai a dormire alle undici, giusto? Mmh, che noia…» fece quello, e sapeva che con quelle parole mi
avrebbe fatto innervosire.
«Ascolta, avevi solo da non sceglierti un vecchio come compagno di giochi,»
ribattei scorbutico e quello, in un momento in cui ci ritrovammo soli sulla
strada, si allungò e mi diede un morso all’orecchio, facendomi quasi strillare
come una femminuccia.
«Ba baba, sempre a
borbottare. Vecchio caprone,» mi prese in giro, e io arrossii dalla vergogna.
Che diavolo di insulto era “vecchio caprone”? «Ma mi piaci comunque, anche se
vai a dormire alle undici,» e si accostò nuovamente a me per strofinarmi il
naso sulla guancia. Mi guardai intorno imbarazzato, visto che non eravamo poi
lontani dalla facoltà di lingue e, chissà per quale motivo, pensavo che potesse
esserci della gente che conoscevo lì nei dintorni. O che conosceva me.
Fortunatamente, però, il ragazzo non azzardò più un altro dei suoi gesti
avventati: semplicemente se ne stava un po’ più avanti di me, quasi a volermi
guidare –e in effetti lo stava facendo-, le mani nelle tasche della giacca,
l’andatura da ubriaco, se ne andava un po’ a destra e un po’ a sinistra
ciondolando, e mi chiesi se lo stesse facendo apposta. Poi però mi ricordai di
come Giulio, una di quelle volte in cui avevamo fatto conversazione, mi avesse
detto che quando qualcuno è felice cammina in modo strambo. Notai solo in quel
momento che pure io procedevo a zigzag senza rendermene conto.
Attraversammo la piazza in questo modo, lui che sembrava saltellare davanti a
me, io che, nonostante il lutto ancora fermo nel cuore, non riuscivo a non
sorridere tra me e me. Poi arrivammo davanti al ponte che porta alla Gran
Madre, e lui si fermò per girarsi e farmi un cenno col capo: con la mano mi
fece segno di seguirlo a destra, e già c’era troppa gente strana per i miei
gusti. Stranamente, però, nessuno sembrava fare caso a me: erano tutti immersi
nelle loro birre o nelle loro grosse sigarette o nelle loro conversazioni o nei
loro scleri, e io passavo del tutto inosservato,
nonostante fossi, probabilmente, il più grande lì in mezzo.
«Dove stiamo andando?» chiesi a Valerio quando iniziammo a percorrere una
strada in discesa che costeggiava il fiume. Ragazze che, non so come facessero,
se ne andavano in giro con pantaloncini e collant o calze a rete, altri tizi
avevano dei rasta su tutti i capelli e ridevano gutturalmente a causa del
troppo alcol ingerito, gente già più normale se ne stava in mezzo alla strada a
distribuire volantini con un sorriso. «Dove siamo?» chiesi nuovamente dopo
essermi fatto più vicino al ragazzo, visto che ancora non m’aveva risposto.
«Ai Murazzi,» rispose quello con leggerezza e mi fece
segno di affiancarlo. Presi distrattamente due volantini che mi porgeva una
ragazza dai capelli rosso fuoco, poi evitai un ragazzo pieno di piercing e il
cane che portava al guinzaglio.
«Sono questi i Murazzi?!» domandai esterrefatto
passando poi lo sguardo sui molteplici locali e stand che occupavano i lati
della strada. Le luci colorate e psichedeliche delle mini discoteche spesso si
riflettevano sull’asfalto e sopra la gente che ci passava davanti, e la musica
diventava quasi assordante quando ti ritrovavi davanti all’entrata.
«Davvero non ci sei mai stato?» chiese Valerio, e voleva sembrare incredulo, ma
non lo era, perché ormai m’aveva inquadrato per bene, e sapeva che in un posto
del genere non ci avrei mai messo piede. Evitai infatti di rispondere, e lui
sorrise, perché si aspettava di certo una reazione simile.
«Non ti piace?» chiese quindi, in mezzo al frastuono.
«Secondo te?» gli feci retoricamente, preso in faccia dalle luci multicolore
provenienti dai locali e stordito dalla musica e dall’odore forte di fritto che
emanavano gli stand di cibo.
«Almeno hai provato qualcosa di nuovo,» disse Valerio alzando le spalle, e si
addentrò ulteriormente nella calca, mentre io gli stavo dietro a fatica.
«Ma scusa, tu frequenti di questi posti assiduamente?» gli domandai quando
trovammo tempo per respirare.
«No, quasi mai. Però quando vengo qui non penso più a niente. Mi rilassa quasi».
«E io che pensavo che per rilassarsi bastasse silenzio e tranquillità,» feci
ironico, e quello scosse la testa due volte, poi,
«Entriamo qui,» mi ordinò e, afferratomi la mano, mi trascinò subito a destra,
tanto velocemente da farmi socchiudere gli occhi. Quando li riaprii per bene,
mi ritrovai al buio quasi completo: la stanza piccola e rettangolare era
illuminata ai quattro angoli da lampade a luce soffusa, e qualche faretto
indicava la presenza di un piccolo bancone bar, alle cui spalle se ne stava un
ragazzo tatuato, magro e con un paio di occhiali da vista enormi, e un
mini-frigo contenente vari tipi di birra. Nella parete di fronte vi era
un’apertura attraverso cui si accedeva a quella che sembrava la pista da ballo:
gruppi di ragazzini sembravano scatenarsi a ritmo di musica da discoteca,
quella un po’ scadente che ascoltano i giovani, e un dj portava avanti la
serata intervenendo di tanto in tanto durante le sessioni musicali. Il fatto
che nella stanza adiacente alla pista da ballo si potesse fumare sembrava
l’unica cosa buona del locale.
«Vieni,» e quel Valerio prese a tirarmi le dita verso la pista tutta colorata e
piena di gente. Lo guardai sinceramente terrorizzato.
«Non vorrai portarmi lì in mezzo,» gli feci minaccioso.
«Da qui sembra tanta gente, ma vedrai che ci sarà un sacco di spazio,» ribatté
l’altro senza perdere tempo a guardarmi mentre mi parlava. Tirò ancora finché
non fui costretto a piantarla di puntellare i piedi sul pavimento, ché se
andavamo avanti in quel modo mi avrebbe spezzato qualche dito.
«Dimmi che non sono l’unico anziano, qui,» piagnucolai quando raggiungemmo la
massa di ragazzi –avevamo trovato giusto un grosso buco nell’angolo della
stanza.
«Non direi proprio,» disse Valerio divertito indicando con un cenno del capo un
vecchio non lontano da noi che si muoveva in modo strambo e completamente fuori
ritmo, un paio di occhiali da sole ultramoderni posati sul naso. Mi venne da
ridere e quasi sputacchiai in faccia al mio studente.
Solo in quel momento mi accorsi che s’era messo a ballare. La musica non era
sensuale, solo assordante e fastidiosa e ripetitiva e senza alcuna melodia, ma
Valerio era sexy in maniera preoccupante. Andava a ritmo, sì, ma i suoi
movimenti non erano rigidi e sgraziati come quelli di tutti gli altri tamarri
presenti in pista: le movenze erano morbide e fluide, gli occhi socchiusi
suggerivano quasi la sua maniera di concentrarsi, e per un attimo pensai che
stesse dando più attenzione al movimento del proprio corpo che a me. Ma non era
così. Quando meno me l’aspettavo, in un momento in cui avevo deciso anche io di
ondeggiare in maniera patetica per simulare una sorta di ballo, lui portò una
mano dietro alla mia nuca e in quel modo mi trascinò sulla sua bocca. Ed era
serio, deciso, adulto, anche dal modo in cui aveva preso a baciarmi:
lentamente, in modo snervante, completamente fuori ritmo, la lingua morbida e
umida che carezzava sensualmente la mia.
Nessuno ci aveva fatto caso. Nessuno sembrava accorgersi di noi che facevamo sesso
con la bocca lì in un angolo più buio della stanza, sotto la musica spacca
timpani, le mie mani smaniose che si trattenevano dallo spogliarlo lì davanti a
tutti, e nelle membra un senso di libertà che non m’era mai appartenuto, un
senso di dinamismo e cambiamento, che tentava in tutti i modi di estinguere
quelle fiammelle d’inerzia che ancora mi bruciavano alla base dello stomaco. Appoggiammo
le nostre fronti l’una contro l’altra, sorridemmo, lui si azzardò a muovere le
labbra secondo le parole della canzone, poi si incollò nuovamente sulla mia
bocca già aperta per accoglierlo, e riprendemmo a baciarci come non ci fosse un
domani.
E nessuno faceva caso a noi.
Sarei cambiato. Perché ne avevo voglia. Avrei iniziato a vivere, e tutto
sembrava avere origine da quel bacio privo di vergogna.
---
Credo che sia corto come capitolo, e chiedo scusa :( Ma dato che subito dopo ci
sarebbe stato il funerale, mi sembrava un po’ di rovinare l’atmosfera di
serenità del capitolo :(
Okay, finalmente sono riuscita a scrivere che tutto si svolge a Torino XD Se vi
piace la storia e non siete mai venuti a Torino, fateci un salto e vi farò
vedere i luoghi in cui ho ambientato Inerzia lol
Il locale giapponese all’inizio del capitolo si chiama MishiMishi, e non penso proprio che esista solo qui HAHA,
e io ci vado spesso perché adoro la cultura e il cibo giapponese (anche se lì
dentro di giapponese c’è solo il sushi, lol). Ho
preso facoltà di lingue, e sto studiando inglese e giapponese <3 Il che non
fregherà a nessuno, ma piscia.
Il fast food è il Mc Donald, credo si fosse capito
dalle patate Vertigo, che sono quelle arancioni e
attorcigliate (cacchio, che lessico poco curato stanotte).
Il bar simile allo Starbucks si chiama “Busters coffee” e ci vendono praticamente le stesse cose,
solo che nello Starbucks sono tre volte più buone :)
I Murazzi del Po in teoria è il posto più mal
frequentato (si dice? Mi sa di no, ma ciccia) di Torino insieme a Porta
Palazzo, ma mi piace andarci, sembra di stare in una grande fiera in cui al
posto di bancarelle che vendono braccialetti ci sono piccole discoteche e localetti. E gente strana. E stranieri. Va beh.
Il locale in cui entrano Andrea e Valerio è lo stesso in cui sono entrata io un
paio di volte. Gli altri mi sa che non li ho ancora visti. D’altra parte, non
ci vado quasi mai ai Murazzi, non è che sono amante
della confusione e degli ubriachi <3
Okay, mi dileguo e penso bene a come costruire il prossimo capitolo XD Sayounara!
«Voglio venire con te,» mi disse
Valerio con già la giacca sotto il braccio e la voce ferma e decisa. Io lo
guardai dopo essermi messo la mia, di giacca, e andai a dargli un buffetto
sulla guancia rivolgendogli uno sguardo dolce. Fosse stato per me, non avrei
avuto problemi a portarmelo dietro, anzi, sarebbe stato motivo di conforto in
una giornata per me tanto funesta: detestavo a morte i funerali, davvero. Ero
ben cosciente dell’effetto che facevano su di me, e non avevo intenzione di coinvolgere
Valerio nei miei dolori e farlo stare male a sua volta. Così gli consigliai di
astenersi e magari di approfittarne per studiacchiare qualcosa.
«Voglio venire,» ripeté con il broncio, e sembrava quasi insistente come quella
lontana volta in cui mi chiedeva se volessi che mi facesse qualche favore per
sdebitarsi.
«No, tu resti a casa,» gli dissi, ma senza riuscire ad usare un tono duro.
Andai in cucina intenzionato a prepararmi un caffè forte prima di uscire, con
la speranza che mi aiutasse a tenermi su, ma Valerio mi raggiunse in fretta e
mi schiaffeggiò le mani quando vide che le stavo mettendo sulla macchinetta.
«Faccio io,» borbottò senza troppi giri di parole, e abbandonò la giacca sul
tavolo per poi farmi il caffè mentre io finivo di abbottonarmi il cappotto e di
avvolgermi al collo la sciarpa. Faceva un freddo bestia.
«Grazie…» ringraziai quando il ragazzo mi consegnò la
tazzina bollente e la portai alla bocca notando come fosse notevolmente più
amara del solito. Sorrisi alla sua espressione arrabbiata a metà. «…amore mio,» conclusi il ringraziamento di poco prima,
nonostante il caffè lasciato amaro apposta; i lineamenti del suo volto si
raddolcirono all’istante e, se non fosse stato per il fatto che m’ero già
buttato in gola in caffè dato che ero di fretta, sono sicuro che me l’avrebbe
strappato dalle mani per aggiungerci lo zucchero. Come i bambini. Lo amavo, lo
amavo da morire. Ma non mi azzardai a dirlo ad alta voce, ché con quell’”Amore
mio” mi ero già esposto troppo. Senza contare che adesso mi vergognavo
tantissimo di averlo detto: per la miseria, non avevo mica quindici anni, e non
dovevo mica dare il nomignolo sdolcinato al mio amante.
Il mio…amante? Ma in che termini la stavo pensando?!
Lui si accorse della mia espressione che imbarazzata era dir poco e, quando
fece per prendermila tazzina dalle mani
per lasciarla nel lavandino, si soffermò con le sue dita calde sulle mie, e
restò a guardarle mentre si carezzavano piano. Poi si decise ad alzare il capo
e rifletté i suoi occhi nei miei. Non avrei mai più incrociato degli occhi del
genere. Lui sapeva dare luce alle giornate uggiose. Lui era il mio cielo.
Si alzò sulle punte e, mentre sfregava il pollice sulle mie dita leggermente
più grosse delle sue, mi lasciò un bacio sul naso.
«Vai, o farai tardi. Io scendo giù al mercato. Abbiamo bisogno di qualcosa?»
chiese, così vicino al mio viso che avevo paura di respirargli troppo addosso.
Il fatto che sembrassimo marito e moglie, stranamente, non mi dava alcun tipo
di fastidio. Perché non mi dava fastidio? Io ero un fastidio unico, nessuno
aveva mai avuto il coraggio di metterlo in dubbio.
«Credo che sia finito il pane,» dissi e, automaticamente, l’altro allargò le
labbra in un sorriso.
«Rosette?»
Annuii soddisfatto e mi allungai a lasciargli un bacio sulla bocca mentre
teneva il capo basso e mi sistemava la sciarpa, la faccia rosa pastello.
«Posso chiederti una cosa?» fece quindi il ragazzo, adesso paonazzo. Lo spronai
a parlare con un cenno del capo. «Il tappeto che abbiamo in cucina ti piace?»
Rimasi stupito dalla domanda, ma non lo diedi a vedere e alzai le spalle.
«Mi è indifferente. E’ un acquisto di April».
«Possiamo cambiarlo?Non riesco ad
aspirare via le briciole, e quel colore mi fa passare la voglia di vivere,»
disse lanciando uno sguardo di pietà al lungo e stretto tappeto verde muschio.
Scoppiai a ridere, e il che fu un bene, perché m’ero alzato col piede sbagliato
al pensiero di dover assistere a un funerale.
«Vuoi fare la donna di casa? Mi sta bene. Al mercato ne vendono parecchi,»
dissi, e questa volta fui io a baciarlo sul naso, e quello si scostò, forse
resosi conto pure lui che eravamo tanto sdolcinati da far venire la nausea. Ci
schiarimmo entrambi la gola, poi lui scappò a prendere la giacca e uscì di
tutta fretta, mentre io avevo ancora la tazzina vuota in mano.
---
Non presi la macchina per andare in chiesa, ché tanto distava dieci minuti a
piedi da casa mia. Mi feci tutta la strada con gli occhi incollati all’asfalto
e le mani nelle tasche del cappotto, la bocca nascosta nella sciarpa, nei piedi
la voglia di girare i tacchi e tornare indietro. Davvero, l’ultimo funerale era
stato per me un trauma, e sicuramente avrei avuto qualche dejà vu una volta
attraversata la soglia della chiesa.
E pensavo così intensamente ai miei probabili dejà vu che neanche mi accorsi di
essere arrivato a destinazione: metà della gente sembrava essere già entrata,
ma qualcuno era ancora fuori a cercare di convincere una donna sulla quarantina
ad entrare, mentre quella si divincolava come una disperata.
Accanto a me comparve dal nulla mia sorella, che mi cinse le spalle senza
parlare e mi guidò, anche lei a testa bassa, verso l’entrata della chiesa,
quasi fossi un malato bisognoso di supporto.
La messa fu un disastro: me ne ero stato tre quarti d’ora con la mano davanti
alla faccia per evitare che tutti mi vedessero col viso rosso e gonfio, e ci
mancò poco che mi incazzassi per il fatto che non riuscivo a trattenere le
lacrime. Uscii anche dieci minuti prima della fine, perché il dejà vu di me che
mi vomitavo sui piedi era talmente vivido che m’aveva fatto venir voglia di
farlo nuovamente. Simona mi aveva seguito e aveva preso a farmi vento con la
mano senza mai parlare, come se potesse servire a qualcosa. E quando la gente
iniziò ad uscire appresso alla bara, fu ancora peggio: si buttarono tutti
addosso alla figlia per esprimere il loro dispiacere e per dare le
condoglianze, mentre quella, che riconobbi come la donna che fuori dalla chiesa
si agitava e diceva di non voler entrare, non rispondeva a nessuno e piangeva
silenziosamente, il volto completamente bagnato. Io non mi permisi ad
avvicinarmi, e mi dissi che, davvero, avrei dovuto smetterla di piangere, ma
non feci altro che aumentare l’intensità del pianto e il pulsare sulle mie
tempie. Diedi un bacio da lontano alla bara marrone chiaro, poi io per primo
dissi a Simona di portarmi a casa, ché lì non ci volevo più stare.
«Dai, asciugati la faccia,» mi incitò quella non appena entrammo in casa e ci
fummo chiusi la porta alle spalle. Andai a prendere un pezzo di scottex e mi asciugai gli occhi quasi con stizza, le tempie
che sembravano voler esplodere.
«E Michele?» chiesi, per rivolgere l’attenzione a qualcosa che non fosse il
fatto che avessi pianto come un poppante.
«L’ho lasciato a Lorenzo. Oggi non aveva niente da fare,» rispose quella
sospirando e alzando le spalle.
«Okay, ma io non ti voglio in casa mia,» le dissi, come sempre molto gentile
nei suoi confronti.
«Invece dovresti volermi. Questa casa è un disastro,» e indicò con un gesto
ampio del braccio il salotto, che a me sembrava perfettamente in ordine. Ma
sapevo che maniaca dell’ordine sapeva essere mia sorella, e per lei il
“disastro” poteva equivalere anche a un centrotavola con l’angolo spiegazzato o
un quadro inclinato o un soprammobile fuori posto. «Adesso ti aiuto a metterla
in ordine, così magari mi dai la paghetta».
«Ma te la scordi proprio,» dissi senza troppa enfasi, lo scottex
ancora ficcato in un occhio che tentava di assorbire i residui di lacrime.
Simona sbuffò infastidita, poi notò qualcosa gettato a caso sul divano.
«E questa cosa sarebbe?» prese l’oggetto con le mani a mo di pinza e lo guardò
schifata: era una maglietta stropicciata di Valerio. Mi vergognai tremendamente
quando mi resi conto che ero stato io a sfilargliela deliberatamente la sera
prima, dopo essere tornati dai Murazzi, mentre lo
baciavo su tutta la faccia e il collo credendo di non potermi fermare. Non so
con quale incredibile forza di volontà ero riuscito a darmi una regolata.
«E’…mia! Dammi, la metto in lavatrice,» feci tentando
di salvare la situazione in extremis, e le strattonai dalle mani l’indumento.
«Mi sembrava un po’ piccola, comunque…» facendo
spallucce, l’altra se ne andò in cucina a preparare qualcosa per pranzo.
Quando Valerio tornò, fu sorpreso di trovare Simona a casa, ma una delusione
non vedere neanche l’ombra di Michele.
«Scusa, ma non potevo certo portarmelo al funerale,» si giustificò Simona
quando quello gli chiese notizie del bambino. Continuava a tenere un
atteggiamento piuttosto brusco nei suoi confronti, forse perché ancora non
aveva capito da dove diavolo era saltato fuori. E dire che erano già passati
quasi due mesi. Ma Simona non s’era mai messa in testa di scoprire da dov’è che
venisse il ragazzo e per quale motivo soggiornasse in casa mia,
fondamentalmente perché non le importava molto di quello che facevo nella mia
vita. A malapena parlava con April, e a me diceva che
non lo faceva perché i loro caratteri erano del tutto incompatibili, ma io ho
sempre saputo che di me e di April non le era mai
importato un fico secco. Eravamo identici, io e lei, a parte il fatto che lei
era sempre in giro a fare commissioni e non se ne stava un attimo ferma, mentre
io amavo fare il sedentario e appiattirmi il culo da qualche parte. Ma
sembravamo avere la stessa mentalità, e la cosa era inquietante. O forse non
più di tanto: se due fratelli si tolgono pochi anni –o, in questo caso, sono
gemelli- e stanno sempre a stretto contatto, uno dei due, talvolta, rimane
influenzato dai modi di fare dell’altro. E mi venne spontaneo pensare che era
stata lei ad influenzare me: io ero troppo debole per farlo con lei.
Me ne stetti seduto e salutai Valerio con un sorriso tirato, che lui ricambiò
non appena si fu assicurato del ritorno in cucina da parte di mia sorella.
«Che te ne pare?» fece tutto contento srotolando il suo acquisto principale e
mollando la busta del pane sul tavolo. Guardai il tappeto nuovo con una mano
sul mento, ma tanto non lo stavo davvero guardando, perché i miei occhi
continuavano a salire sul volto di Valerio che spuntava da sopra il tappeto
rosso scuro.
«Bellissimo,» dissi, e ovviamente non mi riferivo al tappeto. Quello poteva
essere di qualunque forma o colore: se lo teneva in mano Valerio sarebbe
risultato sempre perfetto ai miei occhi.
«Non lo stai neanche guardando,» sospirò lui, che s’era accorto del mio sguardo
fisso nel suo che fuggiva. E mi diede le spalle quando poggiò il tappeto sullo
schienale di una sedia e si tastò le tasche di giacca e pantaloni per
rispondere al cellulare che stava squillando.
«Ah, papà». Suo padre lo chiamava regolarmente ogni due giorni e, a differenza
dei primi giorni in cui Valerio gli sbatteva il telefono in faccia o gli
chiedeva di lasciarlo in pace o se ne stava zitto o mugugnava “sì” o “no”
scocciati, adesso rispondeva in modo garbato, e a volte si degnava anche di
raccontargli di quello che faceva durante il giorno, senza mai toccare
ovviamente i momenti un po’ meno ordinari passati con me.
«Eh? Oh, sì, va tutto a gonfie vele,» disse mentre guardava la porta della
cucina e teneva una mano sul fianco. Ultimamente gli ripeteva a ruota quella
frase, e il padre dall’altra parte gongolava contento. «Sì, con gli studi tutto
bene. Sì, l’ho imparata, la coreografia. Dobbiamo farne un’altra. No, il saggio
è a fine maggio, sta’ tranquillo,» continuò con tono cantilenante, ma per
niente nervoso o alterato, poi si fermò ad ascoltare l’ennesima domanda del
padre e si voltò verso di me.
«Come vanno i rapporti col mio prof?» ripeté la domanda apposta per farmi
sentire, poi disse: «Migliorano di giorno in giorno,» e mi fece un occhiolino,
che, normalmente, mi avrebbe dovuto far sprofondare dalla vergogna, ma che non
fece altro che provocarmi un leggero sorriso –forse anche perché la testa mi
scoppiava troppo per poter anche solo provare a fare altro-. Sentirlo così
sereno mi metteva di buon umore e mi aiutava a non pensare alla mancanza di
Rosaria, l’unica che riuscisse a farmi sentire a mio agio e a tirare fuori il
meglio di me. Sinceramente, mi piaceva il nuovo me. Non provavo più disprezzo
per lui: adesso riuscivo a guardarmi allo specchio con dignità e il fatto che
non mi sentissi più sporco o amoraleper
quello che provavo o che facevo, mi spaventava un po’. E se stessi diventando
pazzo senza accorgermene? Mi chiedevo a volte. I pazzi, i maniaci, sono
convinti di fare sempre la cosa giusta, e non fanno che sentirsi sempre meglio,
quando normalmente ciò che fanno è considerato il risultato di una mente
deviata, malata. Io stesso non sapevo dire se fossi sano o malato, o più l’uno
che l’altro, o tutti e due allo stesso modo. Non sapevo neanche se fino a quel
momento, fino al momento in cui m’ero accorto di provare qualcosa di strano per
il ragazzo, fossi stato sano, o se avessi vissuto una vita del tutto malata,
ristagnante, inattiva, per niente produttiva, senza scopo. O forse quella
svolta improvvisa era da considerare follia e quindi qualcosa che si discostava
dalla normalità, o meglio, dalla sanità.
Non ci stavo capendo più niente e, sinceramente, preferivo non pensarci e
vivere come veniva, che, d’altronde, era quello che avevo sempre fatto e che
sapevo fare meglio. E poi, mi sentivo Svevo a pensarla in quel modo, il che mi
metteva ansia.
Andai a prendermi le gocce per il mal di testa dopo aver mangiato qualche
grissino giusto per riempirmi un minimo lo stomaco, mentre Valerio finiva di
parlare col padre e poi se ne andava in cucina ad apparecchiare e a sistemare
il nuovo tappeto lì dove Simona trafficava con pentole e pentolini.
Mangiammo il nostro pasto, io in religioso silenzio, Valerio che rispettava la
mia voglia di stare zitto standosene muto a sua volta, Simona che sbuffando
faceva zapping, premendo ripetutamente i tasti del telecomando, incapace di
trovare un canale che le garbasse. Poi ad una certa si alzò di scatto, col
sopracciglio destro che pulsava come era solito fare il mio.
«Questo silenzio è snervante, Gesù. Vado a fumare,» e mollò la forchetta nel
piatto vuoto, poi tornò all’entrata per prendere le sigarette dal cappotto e
uscì in balcone chiudendosi fuori. A quel punto Valerio allungò il braccio e
prese il telecomando: sembrava non stesse aspettando altro. Senza guardarmi e
con la faccia seria seria sintonizzò la tv su un
canale musicale, e alzai subito il capo quando riconobbi la musica dei Coldplay.
«Sapevo che su Mtv a quest’ora avrebbero fatto la
replica di un loro concerto. Stavo solo aspettando l’occasione giusta per
cambiare canale,» disse, adesso sorridendo a disagio, non sapendo se gradissi o
meno della musica in quel momento, qualunque fosse il cantante, o il gruppo.
Non gli dissi che mi diede fastidio, anche perché non era vero. Ma non gli
dissi neanche che m’aveva fatto piacere, quel suo gesto. Mi limitai a spingere
il suo capo verso le mie labbra e a dargli un bacio sulla fronte. Poi mi misi a
canticchiare Viva la vida.
---
Il pomeriggio tardi suonò il citofono, e quando dall’altra parte sentii: “Postaaa!” detto
da una vocetta piccola e femminile, feci un lamento
con la gola e alzai gli occhi al cielo. Aprii e mi andai a buttare sul divano
come al solito, mentre Valerio uscì dalla cucina asciugando un bicchiere e si
appostò in piedi accanto al divano, come una sottospecie di maggiordomo. Mi
venne da ridere.
«Sorpresa!» esclamò la stessa vocetta una volta che
Lorenzo, il compagno di mia sorella, fece il suo ingresso con Michele
appollaiato su una spalla. Dopo di lui entrarono pure Guido, Sara ed April, e io davvero non avevo idea del motivo per cui
stavano oltrepassando la soglia della porta in quel momento. Il mio primo
pensiero era stato Simona: li avrà chiamati per non rimanere sola con noi due
anime in pena. Invece,
«Sembra che siano venuti a tirarti su di morale,» mi sussurrò in un orecchio
Valerio, con ancora il bicchiere in mano e l’altra che copriva la sua bocca e
il mio orecchio. «Non sei così solo, dopotutto,» aggiunse, e io mi resi conto
di non avergli mai confidato qualcosa del genere. E’ vero, mi sentivo solo,
pensavo di esserlo completamente, ma mai l’avevo ammesso a me stesso, quasi mi
costasse una fatica incredibile. E se non l’avevo ammesso a me stesso, era
ovvio che non potessi averlo ammesso a lui. Ma quello m’aveva capito, mi aveva
letto negli occhi, era stato in grado di decifrare i pensieri di cui io avevo
paura e che tenevo quindi nascosti in un anfratto buio del cervello. Come
facesse, non lo sapevo.
Valerio poggiò il bicchiere e lo straccio sul tavolo, e spalancò le braccia per
permettere a Michele di prendere la rincorsa e di buttarsi su di lui.
«Ciao, peste,» lo salutò una volta in piedi, il bambino stretto tra le braccia.
April si premurò di non sedersi accanto a me: sapeva
che la sua presenza mi infastidiva, e forse era venuta giusto per non sembrare
del tutto menefreghista.
«Desiderate un caffè?» chiese Valerio mentre Michele gli si accoccolava sul
petto. Non l’avevo mai visto tanto affettuoso, di solito era un bambinetto
antipatico e con la parlantina impossibile da smorzare. E invece adesso se ne
stava con gli occhi e i pugnetti chiusi e il sorriso
sulle labbra, e pure Lorenzo lo guardava col capo inclinato, sicuramente
chiedendosi che ne era stato di suo figlio.
«Preparamene tre,» disse Sara con nonchalance, e Valerio rise per finta
pensando che scherzasse, ma quella, «Dico sul serio,» fece, e il ragazzo tornò
serio di colpo, mentre Guido rideva sotto i baffi e diceva che anche a lui
sarebbe andato un caffè.
«Andiamo, ti insegno a prepararlo,» disse Valerio al bambino che adesso aveva lasciato
a terra, e lo prese per mano portandolo in cucina. Stavo per alzarmi per prendere
per lo meno qualche biscotto per tutta quella gente, quando il citofono squillò
di nuovo. Andò ad aprire Simona, come fosse casa sua.
«Ah, ma ci sono già tutti!» fu il primo commento di Giusy quando entrò
trascinandosi dietro la massa di capelli gonfi e ricci. Ma non solo quella:
dalla nuvola di capelli castani fece capolino quel nano di Giulio, che salutò
con la mano e poi provvide a spostarsi il ciuffo non ancora ricresciuto del
tutto.
«Posso capire gli altri, ma tu che ci fai qui?» non mi trattenni dal fare
quella domanda a Giulio, che si tolse gli occhiali appannati per poterci
guardare in faccia.
«L’altra sera te ne sei andato con quella faccia da funerale, è semplicemente
umano preoccuparsi, no?» chiese retoricamente, quasi a volermi dire che io non
sapevo cosa volesse dire essere umano, e si venne a piazzare proprio accanto a
me mentre io, scocciato, guardavo altrove.
Pensai un’altra volta di alzarmi per prendere i biscotti, ma neanche m’ero
messo in piedi che Valerio arrivò con i caffè e due tipi di biscotti su un
vassoio, quelli bianchi con lo zucchero e quelli neri ripieni di cioccolato.
Quando posò il tutto sul tavolino in vetro di fronte al divano, trovai Giulio
che lo guardava colmo di ammirazione, le mani congiunte sotto il mento e gli
occhi che brillavano. Gli tirai una gomitata piuttosto violenta, e quello prese
a tossire, ma tanto avevano tutti gli occhi incollati a Valerio. Che per altro
era solo mio, e forse avrei dovuto
dirlo a tutti, se volevo che smettessero di guardarlo a quel modo. Pure Michele
era ai suoi piedi con la venerazione negli occhi. Ma che avevano tutti?
«Chiudi la bocca, bello,» mi bisbigliò Giulio dopo la gomitata, e solo in quel
momento mi accorsi che m’ero fissato anche io su Valerio, per altro con le
fauci spalancate. Le serrai facendomi persino male ai denti e tirai un’altra
gomitata a Giulio, facendolo ridere dal dolore.
Feci cenno a Valerio di avvicinarsi a me, mentre i miei amici ammiravano il ben
di Dio sul vassoio. Solo Sara sembrava disinteressata, e aveva già in mano due
dei suoi tre caffè.
«Ci sono anche quelli con le gocce di cioccolato, mi pare…»
gli dissi all’orecchio.
«In realtà ne sono rimasti pochi e so che a volte la sera ti fai del latte e ce
li inzuppi. Non vorrei che stasera rimanessi a secco,» fece lui in tutta
risposta, e Giulio era lì con l’orecchio teso, e di nuovo era nella posizione
adorante di prima, tanto commosso che si sarebbe messo a piangere.
«Oh, Valerio, sei perfetto,» mugolò come un emerito cretino. I casi umani,
sempre i casi umani. Quello, più che uno psicologo, sembrava un critico di
opere d’arte.
«In cosa? Non ho fatto niente,» disse subito quello, e a me veniva voglia di
coprire gli occhi di tutti con dello scotch per pacchi. E nel caso di Giulio
pure la bocca, che rischiava di sbavare da un momento all’altro. «E’ mio!» esclamò Michele adesso appeso
alla gamba di Valerio, e a Lorenzo venne da ridere. “Lasciatelo tutti stare, per la miseria”, stavo per mettermi ad
urlare, ma forse non era poi il caso: mi avrebbero preso per pazzo. Già. Per
pazzo.
Sara sospirò e si prese il terzo caffè, ma prima fece per accendersi una
sigaretta interamente bianca.
«Sà, se vuoi fumare fammi il piacere di farlo in
balcone,» feci con tono che sembrò sgarbato. Per quanto fossi distratto dalla
conversazione tra Giulio e Valerio, con la coda dell’occhio controllavo gli
altri presenti. Lei alzò le spalle, poi si mise in piedi e andò verso il
balcone con la tazzina in mano.
«Aspetta, vengo con te,» fece April, che sinceramente
si sentiva un pesce fuor d’acqua, quasi non ci fosse proprio più spazio per lei
nella mia vita. Pure Guido le seguì, ché s’era finalmente comprato un pacchetto
di sigarette tutto suo. Simona e Lorenzo chiusero il gruppetto e si chiusero
alle spalle pure la porta del balcone, lasciando in salotto pochi superstiti.
«Non fumavi anche tu? Perché non fai il bravo e raggiungi gli altri?» chiesi a
Giulio col sopracciglio che mi pulsava, ma il mal di testa che per fortuna
avevaavuto la buona idea di lasciarmi
in pace.
«E tu come ti chiami?» fece quello in tutta risposta rivolto a mio nipote,
ancora appeso come un koala alla gamba di Valerio. Michele lo guardò male, non
rispose, ma alzò gli occhi in direzione del biondo, e quello gli sorrise
dicendoche andava tutto bene, era loro
amico, poteva stare tranquillo. Allora il volto di Michele, incredibilmente, si
illuminò.
«Lascia stare mio nipote,» tentai di dire, ma quello stava già rispondendo.
«Mi chiamo Michele,» disse con le guanciotte rosse, e
sembrò tenero persino a me.
«Ehi, Michele, lo sai cosa fanno tuo zio e il tuo amico Valerio di notte?»
Valerio diventò di un colore simile al viola e a me andò di traverso la saliva:
che andava dicendo, quell’infame? Non avevamo ancora fatto nulla, al massimo
qualche pomiciata sul divano o distesi sul letto. Che aveva intenzione di dire?
Giusy si fece più vicina, estremamente curiosa.
«Cosa? Diventano supereroi e vanno a salvare il mondo?» optò il piccolo, e fui
lì lì per ridere. Doveva vedere Valerio come il suo
eroe.
«Proprio così! Sono Batman e Robin,» disse Giulio, e fece un sorriso
decisamente inquietante. «Solo che loro non salvano il mondo. Più che altro
Batman passa la notte a mettere la Batmobile in
garage,» ghignò Giulio, e Valerio tornò viola di colpo, io mi strozzai
nuovamente, e Giusy e Michele si misero d’impegno a tentare di decodificare le
parole di Giulio.
«Giulio, non dire cazzate, non è ancora successo!» esclamai senza controllarmi,
e Valerio fece un singhiozzo.
«Ancora? Questo vuol dire che hai intenzione di farlo succedere, quindi,» mi
disse in modo eloquente, e io mi portai due dita agli occhi, mentre Valerio
scappava nella stanza accanto, probabilmente per l’imbarazzo. Sembrava dover
evaporare da un momento all’altro.
Sospirai e dissi a Michele di dimenticare tutto, ché non era niente vero.
«Beh, vai a casa, dai, è tardi,» dissi a Giulio alzandomi in piedi e facendogli
segno con la mano di smammare, ché mi stava dando seriamente fastidio.
«Stavo scherzando. Ve la prendete per nulla,» disse quello adesso serio.
«Sì, io me la sono presa. Lui è solo morto d’imbarazzo,» gli spiegai, e già ero
vicino alla porta scorrevole del corridoio per vedere dov’è che s’era andato a
nascondere Valerio. Giulio rise e tirò fuori una sigaretta. Parlò mentre rideva
e teneva il bastoncino penzolante tra le labbra.
«E’ davvero un tesoro di ragazzo,» disse, poi alzò la mano aperta e con un “Con
permesso”, andò a fumare anche lui. Giusy chiamò a sé Michele e provò a parlarci,
forse per togliermi l’impiccio del bambino, adesso che volevo andare a cercare
Valerio. Probabilmente aveva capito pure lei. E dire che avevo fatto tante
storie quando avevo scoperto che il suo locale era gay. Adesso sì, mi veniva
voglia di sotterrarmi.
Mi fiondai in corridoio, ma Valerio non era andato per nulla lontano: se ne
stava lì, giusto accanto alla porta, al buio e con le spalle al muro.
«Fammi il favore di non ascoltare cosa dice quel tizio,» iniziai dopo essermi
posizionato di fronte a lui. Ma quello, incredibilmente, stava sorridendo
dietro alla mano racchiusa a pugno davanti alla bocca.
«Scusa, ma l’idea di me e te che facciamo certe cose rischiava di farmi
esplodere. Credo che il livello di calore nel mio corpo si sia alzato di almeno
il doppio. E non è l’unica cosa che s’è alzata».
Probabilmente ero io quello viola adesso. Abbassai istintivamente lo sguardo
sui suoi pantaloni, e quello ridacchiò schiaffeggiandomi piano sulla guancia. «Mi
sono nascosto per quel motivo,» rivelò, ed era troppo buio perché potessi
vedere la sua espressione: che fosse imbarazzata, divertita, o maliziosa? «Ma
tu vai pure. Tornerò quando mi sarà passata,» mi rassicurò poi poggiandomi una
mano sulla spalla.
«E quanto tempo pensi di metterci?»
«Non lo so… vado in bagno, tu torna pure di là,» mi
disse ridendo a disagio, e adesso che m’abituavo al buio lo vedevo mentre se ne
stava con le gambe leggermente piegate all’interno e la mano che s’agitava in
aria.
«Quelli si saranno fermati a parlare in balcone,» feci io sbuffando e
mettendomi le mani nelle tasche dei jeans.
«Beh, va’ da loro,» Valerio agitò nuovamente la mano, e sembrava quasi se la
stesse facendo addosso, per come stringeva le gambe. Ma io persistevo nella mia
immobilità: me ne stavo lì fermo a guardare per terra, quasi stessi
metabolizzando la mia prossima mossa. Sentii calore su tutta la fronte quando
mi venne da dire:
«O potrei aiutarti col tuo…problema… così poi
torniamo di là insieme, e Michele evita di strillare,» dissi, tanto velocemente
da mangiarmi la metà delle parole. Sentii l’altro trattenere il respiro, e
probabilmente i suoi occhi s’allargarono.
«Me l’hai chiesto per…per davvero?» fece incredulo, e
di là in salotto mi parve di sentire Michele già piagnucolare l’assenza di Valerio.
«Ma se pensi di poter fare da solo, okay, voglio dire…»
«Facciamo in fretta, vieni,»
E poi lo fece. Mi afferrò dalla manica della maglia rossa e, tutto nervoso, mi
trascinò quasi di peso in bagno, quello più piccolo, in fondo al corridoio.
«Oh, Dio. Oh, Dio,» lo sentivo ripetere tra sé mentre mi faceva entrare e
chiudeva la porta a chiave dietro di sé. Me ne stetti lì dritto in piedi e
aspettai che si voltasse prima di farlo finire con delicatezza contro il
termosifone bollente. Probabilmente sarebbe davvero evaporato di lì a poco. Ma
era ancora buio, e io proposi di accendere la luce, ma quello diceva che si
vergognava e che era meglio stare così, al buio.
«Ma io voglio vederti…» dicevo io, quasi
supplichevole. Quello sembrò pensarci, e intanto si sbottonava con lentezza
snervante i pantaloni. Pensavo avesse fretta, ma se la prendeva comoda. Iniziai
ad agitarmi pure io, non pensavo che l’avrei davvero fatto, che avrei permesso
alla mia mano di scendere e posarsi sul rigonfiamento fastidioso tra le sue
gambe.
«Non faccio facce molto carine…» mi avvisò lui
trattenendo il respiro quando oltrepassai con la mano i pantaloni. Che stavo
facendo, Dio. Sperai che mi fermasse, perché io non ero in grado di farlo. Ero
troppo debole, non avevo tutto questo autocontrollo.
«Fammi accendere solo quelle dello specchio… non
fanno molta luce,» gli assicurai mentre gli respiravo sul viso, e quello fece
scorrere una mano dietro al mio collo per poi tirarmi sulle sue labbra e
baciarmi alla velocità della luce.
«Okay,» acconsentì, e annuì anche. «Ma spostiamoci dal termosifone, sto andando
a fuoco,» disse quindi, ed ero sicuro che avesse il volto completamente coperto
di chiazze rosse dovute al caldo, e magari anche a qualcos’altro. Allungai il braccio
non impegnato e feci scattare le due lucine sopra lo specchio, così che
finalmente potessi guardarlo in faccia. Come pensavo: era rosso come un
peperone, e bollente da far preoccupare un medico. Entrambi sobbalzammo quando
sentimmo Michele strillare in salotto.
«Esige la tua presenza,» dissi mentre lo aiutavo a spostarsi in un angolo un
attimo più fresco: finì con le spalle contro il mio accappatoio blu, e mi parve
che lì stesse piuttosto bene.
«E io esigo la tua,» ribatté Valerio, facendomi capire che quel problemino lì
si stava ingrandendo, e noi eravamo sempre più di fretta. “Datti una mossa,” intendeva dirmi, anche se non l’avrebbe fatto per
nulla al mondo, lo sapevo bene.
«Stai fermo sotto la luce,» dissi quando lo vidi spostarsi col volto in una
zona d’ombra creata dalla mia testa. «Ecco, così… sì,
così,» mi assicurai di averlo sott’occhio per bene, poi mi convinsi a lasciar
scivolare la mano sotto il suo intimo. Un’esplosione di sensazioni forti e
travolgenti avvolsero la mia mano e poi il mio braccio e poi il resto del mio
corpo in pochi istanti, facendomi rabbrividire quasi avessi freddo. Ma, al
contrario, sudavo da quanto caldo avvertivo. Era come quando metti la mano
sotto l’acqua bollente e senti i brividi pizzicarti la schiena, molto simili a
quelli che ti compaiono sulle braccia quando avverti uno spiffero di vento.
«Oh Dio, oh Dio,» tornò a dire quello nel momento in cui glielo toccai. Glielo
stavo carezzando. Ed eravamo anche di fretta, quindi i miei movimenti erano
piuttosto frettolosi e insicuri. Non sapevo che stavo facendo. Ma l’espressione
sul volto ben illuminato di Valerio non poteva far altro che dare un senso a tutto
quello. E giurai che se l’avessi guardata troppo a lungo sarei potuto venire
nei pantaloni. Era… non sapevo come descriverlo. Mozzava il fiato.
«Ho detto che non fa…faccio delle belle espressioni,
non mi fissare,» mi riprese quello, ma senza durezza nella voce e nello
sguardo. La durezza era altrove. Ma che diavolo di battute mi facevo?
«Scusa,» mi limitai a dire, e abbassai lo sguardo sul suo collo scoperto,
intenzionato a morderglielo un po’, ma appena quello chiuse gli occhi nella sua
estasi personale, tornai a fissare la sua espressione particolarmente erotica:
aveva gli occhi stretti e i lati della bocca rivolti all’ingiù, i denti
leggermente scoperti, quasi stesse soffrendo. Sembrava essere già vicino.
«Ci sei?» provai a domandargli, e mi sentii un idiota.
«Ancora un attimo… fai più forte…»
mi disse lui, e aveva la voce arrochita, e io pensai di poter svenire dal
capogiro che m’era venuto tutto d’un colpo. Gli lasciai un attimo il sesso, e
andai ad abbassargli maggiormente i pantaloni in modo che potessi muovermi più
velocemente. Valerio li fermò a metà coscia tenendoseli con una mano, e io
ripresi quello che stavo facendo con più foga, mentre con l’altra mano mi
permettevo di tastargli il fondoschiena, stranamente più fresco rispetto al
resto del corpo, così bollente da scottare e far male. Poi mi spinsi col capo
sul suo collo ancora immacolato e succhiai piano in più punti, facendolo
sospirare forte. Aspettai di sentirlo mugolare, ma fui accontentato solo quando
mi venne nella mano, e a quel punto si lasciò sfuggire un suono piuttosto
rumoroso dalla bocca che entrambi tememmo potesse essere stato sentito persino
dal salotto. Per quel motivo ci zittimmo subito dopo, nonostante avessimo il
respiro affannoso che lottava per uscire rumorosamente dalla nostra gola. Ma
tutto era in ordine, tutto silenzioso, persino il pianto di Michele era
cessato. Giusto un lontano brusìo ci suggeriva che il salotto si era ripopolato,
ma sperai che Giulio o Giusy si fossero inventati qualcosa riguardo la nostra
assenza. Sperai inoltre di non fare alcuna brutta figura tornando in quel
momento col mio coinquilino al seguito.
«G-grazie…» riuscì a dire lui, e adesso gli era
venuto pure il singhiozzo a causa del respiro trattenuto a lungo. Arrossii, o
almeno, sentii il calore invadermi le guance e la fronte. Feci un sorriso, poi
mi premurai di lavarmi le mani, e lui prese un pezzo di carta igienica per
pulirsi. Imbarazzante. Lo era per davvero. Ed era successo tutto a causa di
quell’incosciente di Giulio.
… Forse avrei dovuto ringraziarlo, una volta tornato in salotto.
---
E’ più lungo questo capitolo, vero? Vero.
Viva le seghe ;__;
Valerio mogliettina perfettina e che incanta tutti mi
piace, non so a voi XD
Grazie ancora a coloro che seguono la storia e la commentalo, love ya :3
Piccola
curiosità: la casa di Andrea è casa mia. Cioè, le stanze in cui immagino
succedano tutte queste cose sono le stanze di casa mia XD Di solito immagino
altre case in cui sono stata, ma per questa volta è andata così XD
Tenuto in
scacco da un ragazzino.
Scossi la testa e poi la poggiai sul palmo della mano, chiedendomi per
l’ennesima volta se davvero valesse la pena giocarmi la reputazione, il lavoro
e la famiglia –quella che avevo sparsa un po’ in tutta Italia-
per un moccioso di appena vent’anni che era entrato nella mia vita con
violenza, portandosi dietro il suo mondo e travolgendo il mio. Pensai che
probabilmente ai superstiti della mia famiglia non importava niente di quello
che facevo io a Torino: molti di loro, a mio parere, neanche si ricordavano la
mia faccia o come mi chiamavo. Mi dissi che quando uno vive per inerzia, è
ovvio che resta invisibile e silenzioso agli occhi degli altri, ed è normale
dimenticarsi in fretta il suo volto o il suono della sua voce. Ma la cosa non
mi preoccupava, non mi aveva mai toccato, e in quel momento mi sembrò un bene
non avere molti affetti familiari.
Mandai un pensiero anche a Rosaria, chiedendole mentalmente se ne valesse la
pena. Se non fosse il caso che Valerio si trovasse qualcuno di più giovane, con
meno responsabilità, di bell’aspetto e che si fa meno seghe mentali. Le
chiedevo se fosse il caso di lasciarlo andare, se avrei sentito la sua
mancanza, se davvero avevo intenzione di andare fino in fondo con lui. Se ne
valesse la pena.
«Ti vanno i biscotti insieme al tè?»
Alzai piano il capo e vidi che Valerio era appena spuntato dalla cucina, le
guance inspiegabilmente rosse e gli occhi lucidi.
«Credo che siano finiti…» dissi incerto.
«Ne ho comprati degli altri ieri. Quelli con le gocce al cioccolato. So che
sono i tuoi preferiti,» rispose prontamente quello, tanto premuroso da far
venire la nausea. Sollevai il lato destro della bocca in un sorriso e scossi la
testa, e mi dissi che sì, ne valeva decisamente la pena.
«Che ci fai con uno come me?» chiesi a mia volta, per niente pertinente alla
sua, di domanda. Lo vidi agitarsi improvvisamente, tanto che le dita sulla
porta scorrevole presero a tremare visibilmente.
«C-che domanda è, scusa?» fece balbettando all’inizio,
e io alzai le spalle, quasi trovassi la mia domanda perfettamente legittima.
«Non mi vedi come un povero vecchio incapace di gestire la propria vita?»
Lui sospirò rumorosamente, si grattò la nuca, poi tornò in cucina senza
chiudere la porta e parlò mentre trafficava con tazze e cucchiaini.
«Non saprai gestire la tua, ma la mia di certo. Oltre ad avermi salvato la
pelle più volte, mi hai accolto in casa e hai lasciato che invadessi i tuoi
spazi, anche se più che altro non avevi alternative. Ma, da come ti comportavi
all’inizio, non credevo che mi avresti fatto rimanere così a lungo,» concluse,
ed entrò in salotto con un vassoio rotondo con su stampata un’immagine di New
York notturna che reggeva due tazze di tè fumante, un piattino con i biscotti e
un contenitore con lo zucchero di canna.
«Non avevo intenzione di farlo, infatti,» dissi quando posò il tutto sul
tavolino in vetro davanti al divano. La tv era sintonizzata, come al solito, su
un canale musicale, e adesso mandavano una canzone di Tiziano Ferro. Della
serie che io, non guardando mai i telegiornali, non avevo idea di quello che
succedeva nel mondo. Come se me ne importasse, in effetti. «Non amo le
seccature, e probabilmente tu sei la seccatura più grande con cui abbia mai
avuto a che fare,» aggiunsi mentre mi allungavo per aggiungere lo zucchero al
tè. Valerio mi guardò rammaricato, ma senza troppi sensi di colpa, e si
aggiunse un cucchiaino scarso di zucchero al tè, mentre io ero già al terzo.
«Mi spiace,» disse lui alzando le spalle e guardando in basso. D’altro canto,
io sorrisi beffardo e gli lasciai un buffetto sulla guancia, poi mi allungai a
baciarlo sotto l’orecchio e mi dissi che dovevo smetterla di lasciarmi
trasportare della smania di baciarlo in qualunque momento. «Tuttavia, tu sei
l’unica seccatura che abbia mai amato,» gli dissi allora, proprio lì contro
l’orecchio, e quando m’allontanai lo vidi mentre si grattava il collo
dall’altra parte, forse imbarazzato.
«O-okay, beviamo il tè,» disse nervosamente. Fissò
gli occhi sulla bevanda mentre prendeva la tazza e se la portava alle labbra,
poi li spostò sullo schermo luminoso della televisione, e i suoi occhi
tempestati da luci colorate erano quasi ipnotizzanti. Mi chiesi come sarebbe
stato osservarli mentre guardavano dei fuochi d’artificio. O un falò ricco di
scintille. O il mare colpito dal sole. O i faretti di una discoteca. E quella
bocca che prendeva sorsi di tè, che si stringeva e allargava, si inumidiva e
tornava asciutta. Me la immaginai mentre beveva un drink con la cannuccia,
mentre dava un morso a un dolce e si sporcava di panna, o mentre se ne stava
racchiusa attorno a…
«Che… che c’è?» la sua voce che mi richiamava mi fece
rendere conto che lo stavo fissando e, soprattutto, che stavo davvero pensando a…quella cosa. Dio, no, ero un pervertito. Mi chiesi se
Rosaria mi avrebbe perdonato anche quel tipo di pensieri.
«Niente,» dissi allungandomi per prendere qualche biscotto e il mio tè. «Guardiamo
un film?» proposi poi, a bocca piena, e anche in fretta, quasi a voler coprire
con la voce i pensieri del tutto funesti. L’altro annuì e prese il telecomando
con un biscotto che gli pendeva dalla bocca. «C’era giusto un film su Premium Steel…» dissi lasciando la frase in sospeso.
«Non sarà un horror, spero!» fece Valerio tutto trafelato, e gli cadde pure il
biscotto dalla bocca.
«Ti spaventano? Sul serio?» chiesi ridacchiando.
«C-certo che no,» rispose quello, serio serio, la faccia immersa nella tazza. Io mi trattenni dallo
scoppiargli a ridere in faccia.
«Allora non ti dispiacerà se ne guardiamo uno,» gli presi il telecomando dalle
mani senza troppe cerimonie e sintonizzai sul canale che desideravo. «Oh, ma
guarda, è appena iniziato».
Valerio rientrò sul divano e si chiuse a riccio con le ginocchia contro il
petto e la tazza che gli copriva metà faccia. Certo che non aveva paura. Era
l’esatto stereotipo della ragazzina spaventata dall’ululare del vento. Lo
guardai sogghignando, poi finii di bere il mio tè e posai la tazza per potermi
mettere comodo sul divano, con le braccia distese sulla spalliera. Alla prima
scena di tensione, vidi Valerio coprirsi gli occhi con la tazza con su stampato
un cuore e la scritta “I love London” e sobbalzare leggermente dalle spalle
quando succedeva effettivamente qualcosa. Stava impiegando tutta la sua compostezza
per farmi credere di non essere terrorizzato, ma ovviamente tutti i suoi sforzi
risultavano inutili. Poi ad un certo punto si lasciò sfuggire un: «Ah! Che
cazzo era?!» che fece sobbalzare anche me riferito a una creatura pallida
apparsa all’improvviso, e il fatto che avesse detto una parolaccia tradiva in
pieno la sua -mascherata in modo pessimo- tranquillità. A quel punto sospirai,
poi lasciai scivolare il mio braccio sulle sue spalle –al che, sobbalzò
nuovamente- e lo trascinai sul mio petto, a stretto contatto col mio cuore.
Sembrò calmarsi all’istante quando sentì il calore sulla guancia, e mi avvolse
una mano attorno alla vita, così da tenermi più stretto. Non ci volle molto perché
presi ad accarezzargli i capelli con movimenti circolari delle dita. Allora lui
voltò il viso verso di me e aspettò che mi chinassi leggermente per baciarlo
sulla bocca, con passione particolarmente profonda. Di quel film più non ne vedemmo avante.
---
La sera dopo ci ritrovammo nella stessa esatta posizione, il suo capo
sprofondato nel mio maglione all’altezza dello stomaco, il mio braccio che gli
circondava le spalle, l’altra mia mano che carezzava il dorso della sua. Solo
che quella volta avevo lasciato che fosse lui a scegliere il film da vedere.
Avevamo iniziato col dare un’occhiata a ResidentEvil perché lui aveva detto di averci giocato al Nintendo,
ma la vista del sangue lo infastidiva, e io sperai che non volesse guardare uno
di quei film strappalacrime adatti al pubblico femminile e masochista. Ne era
capacissimo, quello lì. Ma, fortunatamente, si fermò su un canale in cui
trasmettevano un film storico, una roba tipo Troy che però non era Troy.
«Non ti faceva schifo la vista del sangue?» chiesi quando vidi un moro
sguainare la spada e tagliare la gola al nemico senza tante cerimonie.
«Qui non schizza dappertutto. E si vede poco,» rispose quello, che tanto era
contraddittorio lo stesso, mordicchiandosi l’unghia del pollice.
«Bah, contento tu».
Poi arrivò la scena di sesso. Sesso spinto, si intende. Sentivo il suo corpo
tutto rigido tra le mie braccia, la bocca che non si apriva manco per
respirare, e mi immaginai le sue guance tinte di rosso per l’imbarazzo e lo
sguardo che puntava a terra, ma che di tanto in tanto schizzava sulla tv,
incapace di distoglierlo del tutto. Io riuscivo a tenere gli occhi fermi sul
film solo perché mi consolava il fatto che esistesse qualcuno che si
imbarazzasse più di me nel vedere una scena spinta passare in televisione,
specialmente quando si è in compagnia. Gli diedi una leggera pacca sulla spalla
e mi schiarii la voce.
«Hai già… avuto esperienze del…del
genere?» chiesi a bruciapelo, riferendomi ovviamente al sesso. Lui fece un
suono a bocca chiusa, quasi a volermi dire che si rifiutava di dirmelo. Ma alla
fine pure lui si schiarì la voce e mormorò un flebile “Sì”. Che mi aspettavo?
D’altronde aveva sempre vent’anni. Io avevo iniziato a fare cose sporche alla
tenera età di quattordici anni. Non mi azzardai a chiedergli i particolari
–quando l’aveva fatto, con chi, dove, se era un uomo o una donna, in quale
contesto, a che velocità e in quanto tempo-, il che lo spinse, in qualche modo,
a continuare a parlare di sua spontanea volontà. «Qualche anno fa mi ritenevo… brutto,» si mise a sedere in modo che potesse
guardarmi in faccia mentre parlava, e sentivo che stavo per sorbirmi la storia
della sua vita. Non che mi dispiacesse, ma il suo tono era piuttosto serio,
sembrava che non ne parlasse mai con nessuno. «Pure adesso in realtà, ma prima
era qualcosa che non mi faceva dormire la notte. Ero un po’ diverso da adesso,
sia caratterialmente che fisicamente: i ragazzi mi prendevano in giro perché
dicevano avessi il “fisico di un neonato”, e poi perché portavo i capelli lunghi
fino alle spalle e quindi sembravo una femmina,» si toccò inconsapevolmente i
capelli e io gli feci capire con un cenno del capo che stavo seguendo il suo
racconto. «Inoltre il mio carattere non m’aiutava: ero talmente chiuso e timido
che non riuscivo neanche a salutare qualcuno di conosciuto o a rispondere
quando la professoressa mi chiedeva se stessi male o meno, visto che spesso ero
pallido,» e adesso si tastò la guancia, come non riuscisse a tenere le mani a
posto. Segno di nervosismo, mi dissi. «Mi
sentivo a disagio in qualunque situazione, mi vergognavo per tutto, tranne… quando facevo i pompini. Cioè, scusa…»
si tappò la bocca con la mano, perché accortosi di essersi lasciato prendere
dal racconto e aver pronunciato una parola non proprio adatta alla casa di un
insegnante di letteratura. Io storsi la bocca, non tanto per il termine volgaruccio, quanto per il fatto che…Valerio
aveva avuto un passato da risucchia-tutto? Ma che diavolo…?
«Non importa,» scossi la testa e sorvolai sulla parola ‘pompino’, ché tanto
sarebbe sempre stata la più comoda da usare anche per me.
«Ti sta dando fastidio questo discorso? Me ne vergogno molto e non ne ho mai
parlato con nessuno,» disse con una mano sul petto. Io gli dissi che ciò che
pensavo di lui non sarebbe mai cambiato, e quello fece un sospiro sollevato
prima di continuare.
«Più che altro, lo facevo per sentirmi accettato. In qualche modo, pensare che
alla gente piaceva farmi fare quelle cose, mi faceva sentire più carino, quasi
bello. A volte mi sporcavano la faccia e mi dicevano “Sei bellissimo così”,
anche se non mi baciavano mai sulla bocca, ma a me andava bene così, perché mi
dicevano che ero bello, e mi bastava. Penso di aver dato il mio primo bacio ben
dopo i pom… i rapporti orali, insomma,» si torse le mani perché stava per
ripetere quella parola poco carina e io, pur essendo rimasto parecchio basito
dalla rivelazione, tentai di non darlo a vedere e mi grattai il mento.
«A chi l’hai dato?» chiesi quindi, l’inspiegabile gelosia che pungeva dietro il
collo.
«Me ne vergogno, ma… a Fabio. E’ stato l’unico che
dopo il servizio mi ha bacia-»
«Hai fatto un pomp… servizio orale anche a Martone?!» esclamai, adesso incapace di trattenermi.
Immaginare il mezzo teppista in atteggiamenti intimi con Valerio mi faceva
ringhiare come un animale.
«Era amico stretto di mio fratello, lo vedevo sempre, e lui voleva assicurarsi
che la voce che girava su di me fosse vera. Ma avevo quindici anni. Poi ho
cambiato scuola e ho smesso,» si affrettò a dire quando mi vide leggermente
agitato.
«Hai smesso perché hai cambiato scuola?»
Scosse la testa, e per rassicurarmi mi poggiò la mano sul ginocchio.
«No, perché ho trovato il fidanzato. E’ stata con lui la prima volta, ma non
andò bene. Ci lasciammo dopo un paio di mesi perché secondo lui c’era “troppa
differenza d’età”, quando in realtà io avevo sedici anni e lui venti. Ma non mi
opposi, perché tanto non lo amavo, volevo solo essere amato. E non ci ero
riuscito più di tanto. Ma comunque, dopo il primo fidanzato, iniziai ad avere
non pochi corteggiatori, soprattutto l’estate al mare. Effettivamente, solo
l’estate riuscivo ad avere delle storie. D’inverno ero impegnato a studiare e
non avevo voglia di avere ulteriori pensieri per la testa. Poi è morta mia
madre e li ho dovuti avere per forza, i pensieri,» spostò lo sguardo adesso
malinconico dal mio e si mise a farlo girovagare per la stanza, poi guardò in
basso. «Non molto tempo dopo c’è stata la storia di mio fratello, che mi ha
tenuto chiuso in casa e in ospedale per oltre due settimane. A malapena
mangiavo e dormivo, ero magro che si vedevano le costole, pallido e con due
occhiaie da far invidia agli zombie. Ormai non mi preoccupavo neanche più di
apparire brutto o carino,» alzò le spalle e iniziò a fare piccoli cerchi con
l’indice sul mio ginocchio, mentre prendeva un respiro e continuava. «Poi mio
padre, dopo essersi ripreso dal trauma, ha tentato di ricominciare con altre
due donne, ma non penso possa esistere un’altra donna al mondo bella come lo
era lei. Dopo la morte di mamma, comunque, l’ho fatta finita con le relazioni:
non avevo più l’umore, e poi Fabio mi si era appiccicato, e non lasciava che
vedessi neanche Laura, a momenti. Come ti ho già detto, per altro. Quindi, a
differenza di tutti i ragazzi della mia età, io non sto in una relazione sentimentale
da parecchio tempo,» si interruppe e, dopo avermi rivolto gli occhi
trasparenti, si schiaffeggiò in fronte, come se si fosse ricordato
improvvisamente qualcosa, ma sapevo che lo stava facendo apposta. Non era bravo
a recitare, non lo era per niente. «Ah, ma poi sei arrivato tu a tirarmi via
dai binari di un tram! Il destino s’è deciso a farmi un regalo, finalmente,» e
si buttò nuovamente col capo sul mio petto, così pesantemente da farmi quasi
male. Gli accarezzai i capelli sospirando: adesso che m’aveva rivelato il suo
passato, mi sentivo di conoscerlo sin da bambino, e la cosa mi fece sentire
legato a lui da un laccio ancora più solido, da un nodo ancora più stretto, e
il fatto che si fosse messo a nudo solo con me mi inorgogliva come un bambino
che riceve elogi dal padre. Restammo un po’ in silenzio, la sua mano che ancora
mi massaggiava il ginocchio, poi dissi qualcosa, come una sorta di conferma.
«Ti senti brutto anche con me?»
«Tu mi trovi bello?» chiese quello divertito, lo sguardo che cercava il mio. Io
ridacchiai per quella domanda così diretta e dalla risposta tanto ovvia.
«Vai a chiedere a Giulio cosa ne penso del tuo aspetto,» dissi, visto che m’era
capitato più volte di parlare con quel tizio, l’unico con cui potessi sfogare
la mia smania amorosa. Lui arrossì mandando giù il groppo in gola e rise
nervoso quando mi disse:
«Veramente, mi riferisce già ogni parola che esce dalla tua bocca». Adesso
toccò a me arrossire.
«Quell’infame,» borbottai, quasi tra me e me.
«E’ il mio agente segreto. Fa finta di esserti amico, ma in realtà lavora per
me,» disse quello ridendo sotto i baffi, e io mi passai una mano sulla faccia.
«Spero non ti abbia detto tutto tutto…» feci allora,
le speranze già pronte a sgretolarsi.
«Beh…» iniziò l’altro, e intanto si sollevò dal mio
petto e prese un respiro profondo. «Mi ha detto che a volte…ecco…
fai pensieri un po’ strani,» disse senza neancheguardarmi in faccia, e io mi dissi “Lo
sapevo!”, con gli occhi che volevano piangere dall’imbarazzo. Intanto mi
appuntai in testa di non aprire mai più bocca con quel pettegolo di Giulio. «Oppure
sogni strani…» continuò Valerio mentre io deglutivo
in modo imbarazzante e rumoroso. «In uno di questi c’ero io che facevo… così,» la mano del ragazzo si spostò lentamente dal
ginocchio al cavallo dei miei pantaloni, sostò lì sopra e strinse appena,
mentre io spalancavo gli occhi sorpreso, o forse agitato, più che altro.
«Aspetta, non devi…» cercai di dire, la saliva
completamente azzerata.
«Lascia fare a me,» disse con tono più fermo, quasi a non voler ammettere
repliche. Nella mia testa la voce del buonsenso mi urlava di non lasciarglielo
fare, di fermarlo santo cielo, di allontanarlo con la mano quasi stessi
scacciando una mosca, perché no, quello era davvero qualcosa di immorale. Va
bene che qualche sera prima lo avevo accontentato in bagno, ma era stata una
cosa veloce e frettolosa, anche se…beh… incredibilmente eccit-, no
dovevo smetterla.
Gli misi una mano sul polso per fermarlo ma, a quel tocco, tornai automaticamente
a qualche giorno prima, quando Valerio mi aveva chiesto se poteva tenermi per
mano, visto che stavamo tornando a casa dalla scorciatoia buia dietro casa,
costeggiando il parco giochi mai frequentato. Glielo avevo lasciato fare e,
dopo attimi di silenzio, quello mi aveva chiesto retoricamente:
«Non siamo più semplice studente e insegnante, giusto?»
Io avevo sorriso tra me e me e avevo stretto un po’ di più le sue dita,
facendole quindi intrecciare alle mie e dicendomi che tenersi per mano faceva
tanto da adolescenti innamorati: era una sensazione che non provavo da anni.
Anzi, forse mi era addirittura nuova.
«Sembra di no,» avevo detto con consapevolezza.
«Cosa siamo allora?» aveva domandato ancora, l’altra mano che si scaldava nella
tasca della giacca.
«Vuoi dare un nome alla relazione?» avevo chiesto di rimando, e quello aveva
annuito, col vaporeleggero che gli
fuoriusciva dalla bocca socchiusa.
«Posso considerarmi il tuo… fidanzato?» aveva detto
con voce quasi inesistente, l’imbarazzo evidente che traspariva dal volto
arrossato non solo a causa del freddo.
«Se ti fa piacere,» avevo risposto, euforico e spaventato come un bambino che
sale per la prima volta su una nuova giostra. Una giostra che porta sempre più
in alto, incurante delle forti vertigini che procura.
E adesso pensavo al fatto che, beh, i fidanzati, normalmente, fanno di quelle
cose. Ma mi sembrava comunque così sbagliato e prematuro, che ero già pronto a
bloccare la mano che stava tentando di slacciare cintura e pantaloni. E poi mi
sentivo in colpa. Perché lui aveva la faccia da bambino, l’innocenza che,
nonostante i vent’anni e il passato da risucchia-tutto,
si riusciva ancora a leggere nelle iridi acquose, nei capelli sempre
scompigliati, nel contorno delle labbra, sui muscoli ben poco delineati delle
braccia, sul petto spoglio, sulle fossette sulle guance e quella piccola sul
mento, e sulla pelle ancora morbida, non segnata dal tempo. E sentivo che, se
lo stava facendo, era perché voleva dimostrarmi di essere alla mia altezza, di
essere abbastanza grande da essere considerato mio pari.
«Valerio,» lo chiamai, e quello alzò il capo verso di me. «Non devi dimostrarmi
niente, non farlo,» gli dissi con la mano che adesso gli toccava i capelli,
quelle ciocche ormai troppo lunghe che gli ricadevano sugli occhi e davanti al
naso e a volte lo facevano starnutire. Quello, contro le mie aspettative, fece
un sorriso divertito e scosse la testa.
«Non prendermi per uno sprovveduto. So come funzionano queste cose. Come hai
avuto modo di sperimentare, sono un tipo sincero, e se non avessi avuto una
voglia spropositata di farlo, non l’avrei mai fatto. Non sono uno che fa le
cose per rendersi adulto agli occhi degli altri,» e mentre parlava con una
mentalità decisamente da adulto, scivolò giù dal divano e sentii il momento in
cui le sue ginocchia urtarono il pavimento. Lo ritrovai quindi inginocchiato
accanto alle gambe, mentre tornava ad armeggiare con la cerniera dei miei
pantaloni, lo sguardo comunque fisso nel mio. «Ma se sei tu a non volerlo, allora
è un altro discorso,» disse poi improvvisamente, quasi il tarlo del dubbio si
fosse insinuato nel suo cervello in quel preciso istante.
«N-no, non è quello, cioè…»
Non potevo mentire con la voce che tremolava e i boxer tesi sotto la sua mano
grande. Aveva delle mani gigantesche, mi ritrovai a pensare. E calde, bollenti.
«Dipende da quanto te la senti tu. Io lo desidero…tantissimo,»
disse quindi, la mano che indugiava sulla patta aperta dei pantaloni, gli occhi
quasi supplichevoli che minacciavano di scandagliarmi l’anima. Pensai a quante
sfaccettature del suo carattere avrei dovuto portare alla luce prima di poter
dire di conoscerlo davvero. Io invece ero così piatto, un personaggio che in
uno spettacolo teatrale avrebbe fatto parte della scenografia, mentre lui
brillava sotto un riflettore, nel ruolo del protagonista. E in quel frangente
avevo anche il coraggio di compatirmi.
«Forse è che… mi vergogno un po’,» snocciolai, e in
effetti la vergogna era tanta.
«Di cosa?» sorrise Valerio bonario.
«Insomma… il mio corpo non è più aitante come una
volta, potrebbe non soddisfare le tue aspettative da…
da giovane, ecco…» ma che diavolo stavo dicendo, mi
incartavo da solo. Lui mi guardò con una faccia da “La pianti di dire
cazzate?”, poi mi sollevò un lembo della camicia blu e mi posò un leggero bacio
sotto l’ombelico.
«Guarda che hai trentacinque anni, non novanta,» quindi avvolse le braccia
attorno ai fianchi e mi abbracciò in quella posizione, strusciando la guancia
contro il mio povero, poverissimo membro, che se ne stava lì a tentare di
resistere ancora un po’. «Mi piaci un sacco!» esclamò poi con quel suo fare
genuino, e pensai di essermi acceso come una candelina. Si allontanò dalle mie
gambe e tornò un attimo su, mi carezzò il viso e stette a fissarmi per secondi
che sembrarono interminabili. Io gli passai una mano dietro al collo e lo
guardai a mia volta, sorridendo come una ragazzina che si emoziona per un
complimento ricevuto dal ragazzo più figo della
scuola.
«Tu devi essere pazzo,» dissi scuotendo leggermente la testa.
«Sì, di te!»
«No, ti prego, risparmiami queste frasi da giornaletti per ragazze!» esclamai,
e quello mi rise sulla bocca quando si allungò per baciarmi. E fu allora che lo
fece senza preavviso: mentre mi distraeva con un bacio particolarmente audace,
fece scivolare la mano dritta dritta nei miei boxer,
quasi avesse già calcolato nei minimi particolari il percorso da fare in
precedenza. Sobbalzai leggermente, ma non ebbi il coraggio di interrompere il
bacio, e avvertii distintamente come quelle dita lunghe e bollenti si
chiudevano su di me; il respiro mi si mozzò in quell’istante, mentre la lingua
sembrò intorpidita, tanto che per qualche secondo non fui in grado di
ricambiare il bacio. Socchiusi gli occhi e mi accorsi che anche i suoi erano
mezzi aperti, intenti ad osservare ogni mia piccola reazione. Mosse la mano
sulla mia lunghezza nonostante avesse l’impedimento di mutande e pantaloni, e
quelle mani erano tanto calde che sarei volentieri entrato in iperventilazione.
«Ti… scandalizzi se ti dico una cosa?» mi chiese
quando si separò dalla mia bocca per respirare, il pollice che torturava la
punta del mio membro facendomi emettere dei suoni simili a quelli di un uomo
agonizzante.
«Di-dipende,» soffiai, rischiando di soffocare con la
mia stessa saliva. Ma pensavo che, dopo quello che m’aveva già rivelato,
avrebbe potuto dirmi qualunque cosa.
«Io…» iniziò, e si spostò sul mio orecchio, poi, «Desidero
succhiartelo tanto da far indolenzire la mascella, far addormentare la lingua e
avere la sensazione di soffocare,» mi disse, apparentemente senza pudore, la
mano che non si fermava, anzi, aumentava il ritmo. Pensai di essere diventato
di un colore simile al viola. Non… che diavolo
accadeva alla nuova generazione? Non… non me l’aveva
detto davvero, no, non potevo crederci. Ma volevo. Volevo, perché adesso ero
eccitato da fare schifo, e se Valerio mi avesse lasciato in quelle condizioni,
mi sarei strusciato senza ritegno contro una gamba del tavolo. Come minimo.
«S-s-sei pazzo, Dio mio,» balbettai col sudore che
già mi imperlava le tempie. Il mio mondo costruito per inerzia veniva spazzato
via da una bomba atomica.
«Scusa, ho esagerato,» mormorò Valerio subito dopo, lo sguardo pentito ma non
troppo, la bocca sottile che richiedeva baci a non finire.
«Non sai quello che dici,» feci ad occhi socchiusi, il respiro affannato.
Perché aveva da essere così schietto? Perché i giovani non se ne stanno mai al
loro posto? Ora non facevo che immaginare il mio studente che me lo succhiava
fino allo sfinimento. Non andava bene, oh no. «Lo desidero anche io, Dio,» mi
scappò poi, senza neanche rendermene conto. Come se fosse stato il mio corpo e
i miei istinti a parlare per me. O i miei pensieri perversi. Lo sguardo
piacevolmente sorpreso di Valerio stranamente non mi fece voglia di rimangiarmi
le parole appena pronunciate.
Scivolò giù dal divano una seconda volta, questa volta più velocemente, senza
mai lasciare che la sua mano si dividesse dal mio sesso che pulsava
spaventosamente.
«Aspetta,» fece lui, quando si accorse di avere l’impedimento dei pantaloni.
Sollevai con fatica il fondoschiena dal divano quanto bastava perché Valerio
potesse sfilarmi i jeans chiari e accartocciarli sulle caviglie insieme ai
boxer. Poi scavalcò il tutto e riuscì a posizionarsi davanti alle mie gambe ora
spalancate, ché sentivo l’inguine in fiamme e avevo bisogno d’aria. Ma il
ragazzo non mi diede tregua, si fiondò su di me come un leone che si fionda
sulla sua preda.
Calda. Morbida. Bagnata. Avida. Rumorosa. Quella bocca mi faceva avere le
vertigini. Ero sulle montagne russe ancora una volta, sul giro della morte, a
testa in giù.
L’atteggiamento di Valerio era quello di uno che sta morendo di fame e gli
viene offerto per la prima volta dopo giorni un tozzo di pane. Succhiava con
passione, come non ci fosse un domani, quasi fosse la ragione della sua vita.
Affondai le dita nella finta pelle del divano, perché no, non volevo venire
dopo appena cinque secondi che faceva su e giù con la testa. Non volevo perché
era imbarazzante, o molto più probabilmente perché volevo godermi il più a
lungo possibile l’espressione estasiata di Valerio, come quella di un
inguaribile goloso che ha appena addentato il suo dolce preferito. Se ne stava
con gli occhi chiusi e la bocca piena, la mano alla base del mio membro che di
tanto in tanto scendeva giù a stringere i testicoli e poi tornava al suo posto,
più calda di prima.
Il rumore del risucchio si fece più forte, e Valerio si spinse tanto in avanti
che pensai dovesse soffocare da un momento all’altro. Era riuscito a prenderlo
tutto in bocca. Interamente. Sfiorava i peli pubici con la punta del naso.
Stavo per venire e svenire allo stesso tempo. Probabilmente dopo essere venuto
sarei svenuto. Volevo chiamarlo, avvisarlo, perché sentivo che mancava poco,
ero già al culmine, in così poco tempo; ma non riuscivo a pronunciare una sola
parola, figuriamoci un’intera frase. Non facevo altro che mugolare come un
animale in calore e tentare, senza successo, di tenere lo sguardo fisso
sull’espressione particolarmente eccitante di Valerio. Dovevo fermarlo: stavo
per venire e l’avrei soffocato di certo. Quella non era mica acqua, era
materiale viscoso che ti si incolla alla gola, santo cielo! Ma tutto ciò che
riuscii a fare fu alzare una mano e piantargliela nei capelli, per poi tentare
di allontanargli il capo tirandogli debolmente le ciocche chiare. Non riuscivo
a spiccicare parola, e volevo dirgli che, per l’amor del cielo, stavo per
svuotarmi nella sua bocca. Ma lui sembrò capire, e tornò su col capo, fino a
produrre rumori osceni sulla punta del mio membro, riempita di saliva e
solleticata dalla lingua morbida e umida. Poi, il colpo di grazia: tirò su gli
occhi luminosi e li puntò nei miei, e lessi in loro il desiderio incontenibile.
Non lussuria, non sensualità sporca, solo… desiderio
bruciante. Lo vedevo, lo leggevo, lo capivo, lo sentivo scottare sulla pelle.
Riportò lo sguardo sul mio sesso, tirò fuori la lingua e prese a leccare la
punta come fosse un gelato. Non aveva intenzione di allontanarsi, stava lì ad aspettare
che gli venissi in faccia, e intanto mi torturava dando brevi lappate, ma era
bastato quel suo sguardo pieno di tutto il desiderio del mondo a farmi
oltrepassare il limite. Emisi un orrendo suono gutturale quando mi travolse
l’orgasmo, ma fu un piacere ancora più grande quando vidi il modo in cui
travolgeva il volto del mio studente. Quello teneva gli occhi e la bocca
socchiusi, l’espressione estasiata, quasi avesse vissuto per anni nella siccità
e adesso sentisse sul viso la pioggia dopo tanto tempo. Dello sperma riuscì a
colargli lungo il collo, e Valerio lo seguì con un dito, gli occhi ancora
socchiusi e il volto sollevato, per poi raccoglierlo e percorrere la strada a
ritroso fino al mento, per poi finire sulle labbra. Si tracciò il contorno
delle labbra con l’indice sporco, e io non feci altro che fissarlo e deglutire,
a occhi e bocca spalancati. Sembrava galleggiare nella sua estasi personale
mentre si ripuliva le labbra con la lingua, minuziosamente, per poi fare lo
stesso col dito, adesso ad occhi chiusi.
Fu il completo silenzio a farlo tornare alla realtà. Aprì gli occhi acquosi e
si ritrovò davanti la mia espressione imbambolata e le mie gambe ancora aperte.
«Ti giuro che è la prima volta,» furono le sue prime parole, dette velocemente,
a voce leggermente rauca.
«Che…che cosa?» gli domandai, chiedendomi se davvero
quello non fosse un sogno particolarmente realistico. Dio, era successo
davvero. Avevo assistito davvero a scene tanto spinte.
«E’ la prima volta che faccio di queste cose… cioè,
non sono mai stato così volgare in vita mia, te lo giuro, io…»
cercò di dire, e si inceppava nelle parole, e la scena era surreale, visto che
aveva la faccia bianca e appiccicosa.
«Sei davvero volgare,» confermai, questa volta quasi a volerlo prendere in giro.
«Dovresti guardarti allo specchio,» gli suggerii quindi, e intanto mi coprivo
con le mani la mia zona intima, visto che l’euforia del momento stava svanendo
a poco a poco e veniva rimpiazzata dalla vergogna.
«Scusa, davvero, io non sono così, non faccio di queste cose, ma con te m’è
venuto spontaneo. Io… ti ho desiderato da subito, e
ho frenato tante volte il mio istinto di entrare in camera tua e pregarti di
farmi tuo per tutta la notte e anche quella successiva e anche quella dopo
ancora. Davvero, l’ho desiderato tantissimo, l’ho agognato. Questa è l’unica
spiegazione che posso dare al mio comportamento. Perdonami,» parlò in modo
veloce e appena comprensibile, piegando il capo in segno di scusa, e credetti di aver visto brillare delle lacrime ai lati dei
suoi occhi. Gli ormoni giovanili erano una forza della natura. Un tornado. Un
tornado che investiva il mio castello di carte. Gli sollevai il viso dal mento
scivoloso, e infatti vidi una lacrima rotolargli sulla guancia sporca
dall’occhio destro.
«Fammi ricapitolare: sei giovane, bello, ordinato, bravo in cucina, ottimo
babysitter, ottimo ballerino, studente diligente, educato, maturo, una forza
d’animo che fa invidia, sai usare il coso per spremere sulle torte e… mi fai avere l’orgasmo migliore della mia vita. Sei
perfetto. Hai tutto ciò che uno come me possa desiderare,» dissi, senza neanche
pensare, e mi stupii delle mie stesse parole, del mio tono di voce dolce da far
venire il voltastomaco. Della marea di complimenti che non m’ero mai sprecato
di fare a nessun altro. Lui sorrise, gli zigomi si sollevarono, due buchi
andarono a scavare le guance. Poi però sembrò tornare triste,
«Anche fin troppo,» disse guardandosi volontariamente in mezzo alle gambe. «Sono
un ragazzo. E anche tu lo sei. Continuerai a volermi bene nonostante questo
piccolo particolare?» domandò dopo aver risollevato il volto. Gli sorrisi, una
tenerezza infinita che mi riempiva il cuore, il pollice che andò ad asciugargli
l’unica lacrima che gli aveva rigato il volto.
«No, non ti vorrò bene. A Michele voglio bene, a Giusy voglio bene, a Guido
voglio bene –o forse non più di tanto. A te ti amo,» e me ne fregai della frase
italiana grammaticalmente scorretta. Dovevo sottolineare che lui era diverso da
tutti gli altri, che lui si distingueva dalla massa, che lui spiccava nella
nebbia che aveva sempre composto la mia vita vissuta per inerzia. Lui l’amavo,
e questo era tutto. Strofinai il mio naso contro il suo, lo baciai sulle
labbra, lo feci ridere.
---
Credo dovrei cambiare il rating. Mi sa
che adesso è rosso D: Eeee quindi, visto che sono buona e cara, ho scritto
un capitolo in cui ci sono loro due e basta, nessun ospite indesiderato, e
niente angst. Solo fluff e p0rn <3 Mi stupisco di
me stessa D:
Bene, guys - anche se credo che solo girls abbiano il coraggio di leggere questa roba XD -, vado
a dormire, ché domani ho un bel mini-test di giapponese che m’attende :D Come
se fossi pronta :D
Pagina facebookMirokia: http://www.facebook.com/mirokiaEFP
Dopo l’evento del secolo –almeno per me, visto che non mi ero mai fatto fare un
lavoretto tanto coi fiocchi, per altro da parte di un giovanotto-, ricordo che
Valerio non riusciva a guardarmi in faccia per la vergogna. In realtà pure io
evitavo il più possibile il suo sguardo, ma non lo facevo intenzionalmente:
proprio non ero in grado di guardarlo negli occhi senza provare un misto di
imbarazzo e vergogna, e quindi gli parlavo osservando la tovaglia o il
pavimento o l’orologio a cucù.
Temetti che stesse pensando che volessi ignorarlo per come s’era comportato, e
dalle sue espressioni un po’ addolorate capivo che, sì, probabilmente lo stava
davvero pensando. Stavo diventando sempre più bravo a decifrare le sue
emozioni.
S’era fatto la doccia da poco, e adesso si stava asciugando i capelli col phon,
l’accappatoio verde acqua ancora stretto addosso.
«Perché non togli quella cosa bagnata che hai addosso?» gli chiesi quando
passai dal bagno e lo vidi farsi aria sui capelli con la testa tra le nuvole.
Lui si voltò piano a guardarmi, poi lanciò un’occhiata al proprio accappatoio e
divenne rosso come un peperone. «No, cioè… Non
adesso, non qui… voglio dire, non in quel senso! Non
ti asciugherai mai con quel coso impregnato di acqua!» mi affrettai a dire
quando lo vidi arrossire in quel modo, e misi pure le mani sulla difensiva,
come se davvero avessi pensato a qualcosa di sconcio. Lui fece come se non
avessi detto niente, e tornò con lo sguardo fisso sullo specchio di fronte a
lui.
«Ma fa freddo,» ribatté, e si strinse ancora di più nell’accappatoio, e si
buttò aria bollente in faccia. In effetti non era poi così caldo in casa,
stranamente. Io stesso, seppur in maglioncino, di tanto in tanto mi sfregavo le
mani sulle braccia, vittime dei brividi di freddo. Accigliato, andai a
controllare la temperatura dei termosifoni e, quando li trovai spenti, mi venne
da bestemmiare.
«Possibile che in questo condominio non vada mai bene né l’acqua calda né il
riscaldamento?» mi lamentai ad alta voce, e mi diedi dello stupido quando
mandai il pensiero a Rosaria che, poverina, doveva sentire freddo. In occasioni
come quella –mancanza di riscaldamento o black out
temporaneo- salivo su a stare con lei, talvolta portandole una coperta pesante
da aggiungere alla sua. Ma Rosaria non c’era, e io dovevo smetterla di pensare
il contrario.
Sospirai, e mi costrinsi a smetterla di imprecare al vuoto, perché tanto non
sarebbe servito a nulla. E poi, in un’oretta il problema si sarebbe risolto,
visto che gli altri condomini, ancora più polemici di me, si sarebbero fiondati
all’istante dal capo condominio. Andai in camera di Valerio e presi da sotto il
cuscino il suo pigiama, poi mi infilai un attimo in camera mia per tirare fuori
una delle mie felpe pesanti: ero intenzionato a darglieli in modo che si vestisse
in bagno e non sentisse freddo. Ma quando tornai sulla porta del bagno, Valerio
stava già uscendo: aveva appeso l’accappatoio umido e adesso se ne stava sulla
soglia in mutande. Lui era… in mutande. Mi resi conto
che era la prima volta che lo vedevo tanto scoperto. C’era solo un pezzo di
stoffa che non lo rendeva completamente nudo. Ed era, Dio, dolorosamente bell-
«Non avevi detto di avere freddo?!» esclamai troncando bruscamente i miei
pensieri poco carini.
«E tu non mi avevi detto di togliere l’accappatoio? Avevo intenzione di fare
una corsetta sino in camera, ma mi sei comparso davanti all’improvviso!»
ribatté quello, e in effetti aveva i brividi su tutto il corpo, e per poco i
denti non gli battevano. Sbuffai senza aggiungere altro e gli misi in mano la
roba che gli avevo portato.
«Cambiati e poi vieni a letto,» dissi esortandolo a rientrare in bagno, senza
neanche pensarci.
«Vieni…a
letto?» ripeté incredulo, ma sicuramente lo ero più io di lui.
«Vai, volevo dire…Vai,» mi corressi, e sembrai patetico
in modo imbarazzante. Che mi passava per la testa? O per la lingua? Neppure a April avevo mai detto “Cambiati e poi vieni a letto”. Al
massimo un “Andiamo a dormire”.
Valerio si richiuse perplesso in bagno e, mentre anche io mi sistemavo per la notte,
lo sentii canticchiare mentre si rivestiva: probabilmente l’imbarazzo non gli
impediva di essere il solito Valerio. Quando quello uscì, io mi stavo già
infilando sotto le coperte con solo la luce sul comodino accesa, ché il giorno
dopo dovevo alzarmi presto, e pure lui, visto che avevamo lezione insieme. Ma
non feci in tempo a coricarmi, che sentii il materasso deformarsi dalla parte
opposta alla mia e quasi mi prese un colpo: Valerio s’era seduto lì dove soleva
sedersi April, e mi dava le spalle, e probabilmente
si torceva le mani come faceva spesso.
«Er, che… che cosa desideri?» chiesi timoroso, il
capo vicino al cuscino.
«Mi hai detto tu di venire a letto,» fece quello senza voltarsi o anche solo
muoversi di un millimetro.
«Ma poi mi sono corretto,» gli feci notare, e forse avevo la voce che tremava
un po’. Detto da lui, il verbo “venire” mi comunicava altro. E il pensiero di
lui che veniva effettivamente nel mio
letto mi offuscava la mente come un gas velenoso.
«Ho i piedi congelati,» se ne uscì lui in tutta risposta stringendosi nelle
spalle.
«Beh, metti un paio di calze,» ribattei tentando di sembrare freddo, ma il tono
fin troppo acuto della mia voce tradiva il mio nervosismo.
«Non dormo mai con le calze, mi danno fastidio,» disse quello, e adesso faceva
dondolare le gambe e teneva le braccia appoggiate al materasso. Non sapevo
cos’altro inventarmi ma, ancora prima che potessi pensare a qualcosa, lui se ne
uscì con un flebile: «Dormiamo insieme…?»
Una botta al cuore, forte, fortissima. Dannato ragazzino, mi stava rovinando la
vita. Mi avrebbe fatto venire un infarto prima o poi.
«Non lo so, voglio dire… domani dobbiamo alzarci
presto, e io non riesco a dormire con te nel letto,» ammisi, per fargli capire
che il problema era proprio lui, la sua presenza, il calore del suo corpo che
s’avvertiva seppur distante, il suo respiro pacato, il profilo perfetto mentre
se ne stava assopito.
«Giuro che non darò fastidio, me ne starò per conto mio,» promise lui, e solo a
quel punto si voltò a guardarmi, una mano schiacciata sul petto.
«Non è per quello…» Non mi preoccupava il fatto che
lui potesse tenermi sveglio coi suoi movimenti, mi preoccupava proprio lui.
Possibile che non lo capisse? Neanche un’ora prima eravamo in salotto, io
seduto sul divano con le dita piantate nei capelli di Valerio, che teneva il
capo affondato tra le mie gambe. Brividi andarono a stuzzicare l’inguine, e me
ne vergognai. «Tu lo sai qual è l’effetto che mi fai ormai…
poi, dopo quello che mi hai fatto prima, voglio dire…»
«Ho capito, vado di là,» tagliò corto Valerio, assecondando i miei discorsi
instabili, e si alzò permettendo al materasso di distendersi nuovamente. Ma
quando fece per andarsene, io, come un povero idiota, come una marionetta i cui
fili erano in mano a un ragazzino, mi schiarii la voce per esortarlo a fermarsi
per ascoltarmi.
«Se sarai discreto come un fantasma, puoi restare. Ma fammi dormire, per
favore,» dissi inciampando nelle mie stesse parole, e mi fiondai sotto le
lenzuola, coprendomi fin sull’orecchio e allungando il braccio per spegnere la
luce sul comodino. Lo sentii sorridere, e non avevo idea di come riuscissi a
sentirlo sorridere. Forse me lo immaginavo, o percepivo il suo sguardo
divertito che puntava sulla mia schiena. Si risedette sul mio letto, poi
lentamente infilò le gambe sotto le coperte e ringraziai Dio e tutti i santi
che stessi morendo di sonno e che, soprattutto, quello avesse addosso il
pigiama. Si fosse presentato come appena poco prima, quando l’avevo trovato
semi nudo sulla porta del bagno, probabilmente non avrei risposto delle mie
azioni. Dio, che vecchio pervertito. Vecchio caprone pervertito.
Ero così impegnato a darmi del vecchio caprone, che mi accorsi solo dopo
qualche minuto che il lenzuolo sopra di me tremava impercettibilmente e,
allungando l’orecchio, mi resi conto che era Valerio a farlo muovere, mentre
batteva furiosamente i denti. Doveva morir di freddo.
«Credo che ti darò ascolto… Ho troppo freddo ai
piedi, vado a prendere dei calzini…» disse quando mi
voltai nella sua direzione, preoccupato dal movimento delle coperte. Strisciò
verso la fine del materasso e io, da bravo coglione che non sa dire di no ai
propri istinti, mi allungai ad afferrargli il braccio, anche se tutto quello
che riuscii a fare fu lasciargli un pizzicotto.
«Non ce n’è bisogno. Ti ho chiesto di farmi dormire e stai facendo un mucchio
di storie! Vieni e stai zitto,» gli feci segno con la mano di tornare verso il
centro del letto. Quello non se lo fece ripetere due volte, convinto di avermi
fatto arrabbiare, e quando fu abbastanza vicino a me, gli tirai giù il capo
nell’incavo della mia spalla, e lo esortai a intrecciare le sue gambe con le
mie picchiettandogli coi piedi coperti dai calzini le dita fredde e
intirizzite. Come volevasi dimostrare. Non potevo stare lontano da lui, mi
risultava impossibile anche solo allontanarlo per un attimo dai miei pensieri.
E ogni fibra del mio corpo desiderava il calore della sua pelle, o il gelo che
si impossessava dei suoi piedi quando si ostinava a voler dormire senza i
calzini. Il mio istinto lo voleva imprigionato tra le mie braccia, e la
razionalità gliela stava dando vinta sempre più spesso, sempre più velocemente.
E non mi dispiaceva. Ero felice come un bambino mentre sentivo il suo respiro
sconnesso contro il mio collo e avvertivo le sue dita fremere contro la mia
schiena. Le nostre gambe erano incastrate, aggrovigliate come un gomitolo di
lana, il suo naso da signorina strofinava contro la mia mandibola ruvida, le
sue dita lunghe stringevano la maglia del pigiama, e io intanto non riuscivo a
non lasciargli dei baci sulla fronte e sui capelli profumati di shampoo. Avrei
voluto sinceramente rimanere in quella posizione per sempre. Anche se sapevo
che il per sempre non esiste.
---
Il parcheggio nella piazza accanto all’università era strapieno come sempre,
nonostante fosse mattina presto, ma il posteggio in cui solevo parcheggiare,
stranamente, era sempre libero. Andavo a mettere la macchina lì ogni giorno,
automaticamente, parcheggiando in maniera maniacale, perfettamente nelle
strisce, a qualche centimetro dal marciapiede.
Scendemmo ridendo dalla macchina, perché ci stavamo raccontando delle
barzellette e le sue, stranamente, le trovavo divertenti.
«Vado avanti da solo come al solito,» disse lui una volta che ebbi tirato fuori
la ventiquattrore. Quando veniva a lezione in macchina con me, infatti, si
assicurava di non farmi fare la figura di quello che si porta in giro in
macchina i propri alunni, e correva davanti a me in modo che non ci vedessero
arrivare insieme.
Tutte quelle nostre precauzioni, tuttavia, sembrarono non bastare.
La avvertii subito una strana e pesante atmosfera quando varcai la soglia
dell’aula. Valerio se ne stava tranquillamente seduto in fondo all’aula nel suo
solito posto, a scherzare con Martone, mentre io
avvertivo una tangibile inquietudine nell’aria. Non sapevo se fosse per il
tempo atmosferico –sembrava che dovesse piovere di lì a poco- o per il fatto
che un paio di miei studenti seduti nelle prime file mi guardavano come se
avessero pronta una bomba da scoppiarmi in faccia. Per tutta la lezione sentii
tale macigno pesarmi sul cuore, quasi impedirmi di respirare come si deve, e le
mie sensazioni non erano poi così infondate, dopotutto. Mancava un quarto d’ora
alla fine della lezione e, come ogni volta, avevo intenzione di dedicarlo alle
nuove informazioni che sarebbero state caricate sul mio sito personale o alle
mail che avevo letto ma a cui non avevo potuto rispondere. Poi dissi:
«Mi dispiace, ma oggi non potrò ricevervi, perché…»
«Ha un appuntamento romantico?»
Era stato un ragazzo in seconda fila a parlare. Aveva la guancia appoggiata al
palmo della mano e il sorrisetto schernitore, quasi mi stesse prendendo in
giro. No, non quasi. Lo stava facendo davvero. Tentava di mettermi in
imbarazzo. E ci stava riuscendo, senza dubbio.
«…Come?» chiesi infatti, stralunato, preso alla
sprovvista.
«Non so, dato che l’altra sera l’ho vista cenare al giapponese con una persona
speciale, ho pensato che dovesse averci un appuntamento romantico,» disse
quello, in modo arrogante, il sorriso ancora ben disegnato in faccia e le
braccia ora conserte. Il mio cervello entrò in panico, e non seppi reagire sul
momento. Quello che mi venne da fare fu soltanto gettare un’occhiata negli
ultimi banchi in alto, e trovai un Valerio pallido e sconvolto, quasi avesse
visto un fantasma. Martone guardava prima lui e poi
me, sorpreso quanto noi. E sperai davvero che non ne sapesse niente, o gli
avrei fatto passare dei guai.
«Pensavo fosse suo parente, ma quando gliel’ho chiesto mi ha detto di no. Certo
che, intelligente com’è, avrebbe potuto chiedersi per quale motivo gli stavo
facendo una domanda del genere,» continuò il ragazzo nelle prime file, e quando
tirai su nuovamente lo sguardo, vidi Valerio mettersi una mano in fronte e poi
nei capelli, sicuramente incolpandosi furiosamente. «E poi, sinceramente, non
ho mai visto due parenti giocare con la salsa di soia come due piccioncini,»
disse ancora quel tizio di cui neanche avevo mai visto la faccia, e io mi
portai una mano a grattarmi la corta barba sulle guance. Non sapevo cosa fare,
che dire, come comportarmi, se negare, ammettere, fare finta di niente, arrabbiarmi… ero come paralizzato. Ma la mia espressione
doveva essere impassibile. Non come quella di Valerio, che sembrava aver visto
passargli davanti altri dieci fantasmi.
Ingoiai il groppo in gola e mi schiarii la voce: dovevo dire qualcosa,
qualunque cosa. Forse avrei fatto finta di niente.
«Dicevo che non potrò ricevervi perché ho una riunione di consiglio, e…»
«Sta sviando la conversazione?» mi interruppe il ragazzo, e io scossi la testa
spazientito.
«Non vi ho detto sin dalla prima lezione di alzare la mano se volete che vi dia
la parola?»
«Sì, ma ci ha anche detto che avrebbe risposto ad ogni nostra domanda. Quindi
io le chiedo, professore: ha una relazione gay con uno dei ragazzi qui
presenti?» chiese, impertinente, la lingua biforcuta come quella di un
serpente, mentre insinuava in me il sottile desiderio di commettere un
omicidio. Nessuno aveva mai osato trattarmi a quel modo, e adesso che qualcuno
aveva trovato una crepa nella mia vita apparentemente perfetta, ne stava
approfittando per umiliarmi. Sperai che si rendesse conto dell’affronto che mi
stava facendo: mettersi contro un insegnante al primo anno è un suicidio.
«Che le costa ammetterlo? Non le rovinerà mica la carriera,» osò continuare il
bastardo, senza pudore, e intanto i due compagni accanto ridacchiavano, e anche
metà della classe, mentre l’altra metà si guardava intorno incredula. Un rumore
in fondo all’aula distrasse i ragazzi e poi anche me:Valerio s’era appena alzato e messo in spalla
la borsa, e adesso fuggiva a passo svelto dall’aula, incapace di stare a sentire
altro. La porta rimase socchiusa, e i ragazzi che attendevano fuori che finisse
la lezione, iniziarono ad entrare pensando che avessi terminato.
«…Ci vediamo giovedì,» mi limitai a dire nel
microfono, e i ragazzi misero via in fretta quaderni e libri per poi
apprestarsi a spintonare per poter uscire, senza evitare ovviamente di parlocchiare riguardo quanto eraappena successo.
«E io che non avevo intenzione di dire il nome. S’è scavato la fossa da solo,
quel Valerio,» sentii il ragazzo di poco prima parlare, e lo aveva fatto a voce
tanto alta che ero sicuro volesse farmi sentire. Non avevo davvero mai avuto
una voglia così sconsiderata di spaccare la faccia a qualcuno. L’umiliazione e
la vergogna mi bruciavano alla base dello stomaco. Mi infilai in fretta la
giacca, presi la ventiquattrore e mi feci un varco tra gli studenti per poter
uscire più in fretta: Valerio era fuggito veloce come la luce, e fuori adesso
pioveva, e sicuramente quello s’era messo a correre sotto la pioggia come un
disperato tipico dei film di serie B. E il fatto che pensassi a Valerio con la
mia carriera in bilico, pronta a cadere e sgretolarsi, era preoccupante.
Possibile che non riuscissi a pensare a nient’altro?
Uscii dall’edificio col piccolo ombrello blu alla mano: la pioggia era
scrosciante. Immaginavo che avrebbe piovuto in modo tanto violento: le nuvole
di quella mattina non avevano promesso niente di meglio. Provai a chiamare
Valerio al cellulare, ma sembrava avercelo spento. Borbottai tra me e me quanto
quelle svolte improvvise mi dessero fastidio –e dire che all’inizio non
desideravo altro che un cambiamento repentino nella mia vita-. Svoltai sotto il
porticato e mi permisi di chiudere l’ombrello durante il tratto che conduceva
alla piazza dove la mia macchina si stava subendo la pioggia. E lo trovai lì,
appoggiato contro il muro accanto al nuovo negozio di fumetti, bagnato come un
pulcino, la borsa abbandonata ai piedi, lo sguardo gonfio rivolto a terra.
Restai voltato verso la piazza quando gli parlai.
«Andiamo a casa,» mi limitai a dire. Quello alzò le spalle ma non lo sguardo, e
lasciò che il capo piegato in avanti permettesse alle gocce d’acqua sui suoi
capelli di bagnargli ulteriormente i pantaloni e le scarpe, come se non fossero
già zuppi.
«Vai. Io vengo via in pullman,» mormorò con voce rotta dal pianto, e mi si
strinse il petto a vederlo stare così.
«Non dire sciocchezze, non hai l’ombrello»
«Io ce l’ho»
Accanto a Valerio fece la sua comparsa Martone, un
ombrello rosso che gli pendeva dal polso, lo sguardo duro e severo che cercava
il mio. Poi rivolse l’attenzione all’amico adottando un tono di voce morbido e
un’espressione apprensiva, la mano che andava a dargli pacche sulla spalla.
«Vale, vieni, torna a casa con me,» gli propose vicino all’orecchio. Quello tirò
su col naso e, senza mai distogliere lo sguardo da un punto impreciso del
pavimento lucido del porticato, annuì stancamente. Allora Martone
lo prese dalle spalle e lo trascinò con sé verso la fermata del pullman, pronto
ad aprire l’ombrello. Gli stavo per urlare che non doveva neanche provarci a
portarselo a casa sua e che doveva lasciarlo tornare da me, ma c’era troppa
gente tra cui alcuni ragazzi del mio corso, e in un nanosecondo quei due
sembravano essere spariti sotto la pioggia e la nebbia.
Pessima, pessima giornata. Era davvero una giornata fottutamente pessima. E non
mi importava se la suddetta frase non esistesse in italiano: era fottutamente
pessima e basta.
---
L’università mi toglie tempo e
ispirazione, quindi è normale che a volte mi ritrovi a fare ritardo con gli
aggiornamenti XD Ma è anche vero che non vi ho mai dato un giorno preciso della
settimana in cui dico di aggiornare, perciò ho ragione io, BUHAHAHAHAH Anyway, vi posso dire con certezza equivalente al 70
per cento che i capitoli saranno 22. Quindi in teoria la storia dovrebbe
terminare –con mia profonda tristezza- tra quattro capitoli…
sempre se non tiro fuori un avvenimento non presente nel quaderno che mi sembra
geniale a tal punto da dover per forza allungare la storia. Non si sa mai. Neversaynever!
Intanto, vi lascio per l’ennesima volta la pagina facebookMirokia che ho modificato un pochetto
(ci ho messo il mio tocco angst <3): http://www.facebook.com/mirokiaEFP
Valerio non ci tornò più a casa.
Stetti ad aspettarlo tutto il giorno, con la pioggia fuori che imperversava,
dicendomi che forse tardava ad arrivare perché, dopo l’umiliazione subìta in
aula, aveva bisogno di stare un po’ da solo coi propri pensieri. Ma era ormai
sera, fuori la pioggia s’era fatta sottile, e di Valerio nessuna traccia. Avevo
provato a chiamarlo più volte al telefono, almeno una decina, ma l’avevo
trovato sempre spento ed ero stato preoccupato a morte che gli fosse successo qualcosa.
Se n’era andato via con Martone, e sapevo bene che
cosa era in grado di fare quello lì: non c’era mica da fidarsi. Avrebbe potuto
costringerlo a tagliare i ponti con me o a rimanere a casa sua puntandogli un
coltello alla gola e gettandogli il cellulare nel cesso. Avrebbe potuto
forzarlo a fargli un servizietto orale come ai vecchi
tempi e magari gli avrebbe mollato dei ceffoni perché aveva osato smettere di
frequentare casa sua.
Mi ero fatto tante di quelle ipotesi che non fecero altro che aumentare la mia
ansia. C’era anche da dire che il ragazzo era sotto la mia responsabilità, e in
quel momento non avevo idea di dove potesse essersi cacciato, di con chi fosse
e cosa stesse facendo. La paura mi inglobò, e il fatto che non fossi mai stato
così in ansia per qualcuno mi ricordò quanto effettivamente non potessi fare a
meno di Valerio, quanto fossi dipendente da lui, quanto sentissi di non poter
respirare se non sapevo di avercelo al sicuro tra le mie braccia. Quanto fossi
incontrovertibilmente fottuto. Provai a chiamare un’altra volta all’una di
notte, e sarà stata la mia quindicesima chiamata: contai una decina di squilli,
poi mi decisi a riattaccare all’undicesimo, quando sentii aprire dall’altra
parte e mi misi a sedere dalla mia posizione supina.
Sentii un rumore simile al guaito di un cane, qualcosa come un singhiozzo e un
naso che tirava su, e una voce di sottofondo che sussurrava, e diceva:
«Non dirgli così. Fidati, me ne occupo io, non ti devi preoccupare, Vale. Farei
qualunque cosa per te, lo sai,» un accento marcato del sud mi indicò quella
voce come appartenente a Martone. Sembrava quasi che
la conversazione fosse stata aperta per sbaglio, e io me ne stavo in silenzio a
captare qualsiasi rumore, ma a quel punto il suono del pianto si fece più
vicino, e la voce rotta di Valerio fece la sua comparsa.
«Mi dispiace…» riuscì a dire tra i singhiozzi. Martone gli disse qualcosa come “Me ne occupo io”
ripetendolo più volte, quasi a volerlo convincere a chiudere la comunicazione.
«Dove sei?» chiesi allarmato adesso che finalmente avevo avuto modo di sentire
la voce di Valerio.
«Da Fabio,» fece quello, e sembrò trafficare con dei fazzoletti.
«Vengo a prenderti?» domandai, e m’ero messo in piedi così in fretta che la
testa aveva preso a girarmi vorticosamente. Mi appoggiai al comò come un
anziano che fatica a reggersi in piedi.
«No,» rispose lui all’istante, piagnucolando un po’. Pensai che fosse rimasto
scosso da quello che era successo quella mattina, e che magari non avesse così
voglia di vedere colui che aveva lasciato che l’umiliassero. Mi si strinse il
cuore al pensiero.
«Domani mattina allora passo a prenderti,» provai a chiedere indirettamente,
speranzoso. Ma quello tirò su col naso e di nuovo disse:
«No»
E allora tornò su il timore che Martone lo stesse
costringendo a rimanere a casa sua, con qualche minaccia di cattivo gusto.
«Che ti sta facendo?» chiesi, a bassa voce, col timore che l’oggetto della
conversazione stesse ascoltando la telefonata.
«Chi?»
«Il tuo… amico,» e badai bene a pronunciare l’ultima
parola ironicamente.
«Mi sta ospitando a casa sua! Che cosa credi che possa farmi? Ti ho già detto
che era in fissa con mio fratello, non con me!» esclamò, avendo colto
perfettamente l’ironia nella mia voce, e quasi sobbalzai per come il suo tono
m’aveva trafitto le orecchie e il cuore.
«Ma…»
«E quel pompino gliel’ho fatto cinque anni fa, non essere così asfissiante!»
mise in chiaro, con delle tracce di singhiozzo ancora udibili. Questa volta non
aveva evitato di pronunciare la parola incriminata, sembrava averlo fatto
apposta. Inoltre, era la prima volta che mi accusava in quel modo, quasi
davvero fossi un peso impossibile da reggere. Probabilmente avevo esagerato a
fargli una ventina di chiamate e avrei dovuto aspettare che fosse lui a darmi
dei segni, quando ne aveva voglia. Ma ero così preoccupato, maledizione…
e glielo dissi, quasi volessi lasciar parlare i miei pensieri.
«Ero così… preoccupato,» e il mio tono era
sconsolato, forse anche sollevato. Sollevato che non gli fosse successo
assolutamente nulla, che stesse bene, che stesse chiuso al caldo in una casa,
per quanto il suo accompagnatore non mi andasse a genio.
Ci fu un attimo di silenzio, e per poco non pensai che fosse caduta la linea.
Ma poi sentii tirar su col naso e la voce ora morbida di Valerio dirmi:
«…Davvero?»
Annuii contro il telefono come se mi potesse vedere, e adesso veniva da
piangere a me al pensiero del magone che avevo sino a qualche minuto prima
all’altezza del cuore.
«Ho avuto una paura folle,» ammisi tastandomi il petto sopra la canottiera.
«Pensavo non volessi più vedermi»
«Perché?»
«Ti ho rovinato la vita!»
«Quale vita? Non avevo nessuna vita prima di te,» mi venne da dire,
spontaneamente, e non pensai al fatto che potesse scoppiarein una crisi isterica solo per quelle mie due
frasi. Sembrava infatti che avessi aperto il rubinetto delle lacrime: riprese a
piangere e a singhiozzare il doppio di prima, con Martone
in sottofondo che gli diceva “Dai, basta,”, il rumore dei capelli contro il
cellulare che sembrava quasi un disturbo di linea.
«Valerio? …Valerio?» chiamai per assicurarmi che
fosse ancora in ascolto, e quando lo sentii trattenere i singhiozzi per
riuscire ad ascoltare ciò che avevo da dire, feci: «Torna a casa,» e a quel
punto il cellulare sembrò rimbalzare su un materasso, sentii qualcuno
ridacchiare e la comunicazione si interruppe.
Di nuovo, non avevo idea di cosa potesse essere successo, e un po’ ero tornato
a preoccuparmi, visto che avevo tentato di richiamare ma il telefono squillava
senza ottenere risposta. Tornai in salotto, feci per un po’ avanti e indietro
picchiettandomi il cellulare sul mento, quasi fossi perfettamente cosciente di
essere in attesa di qualcosa. Uscii in balcone e mi accesi una sigaretta, e
solo quando arrivai a metà mi resi conto che fuori pioveva ancora, anche se
solo leggermente. E le strade erano deserte, ovviamente, a quell’ora della
notte. Persino i ragazzini idioti che si divertivano a spingere le loro
amichette sotto la pioggia fumando come dei fighi le
sigarette elettroniche se n’erano rimasti a casa.
Avevo appena spento la sigaretta quando mi suonò il citofono e sobbalzai dalla
paura, col cuore che prese a battere freneticamente. Poi sorrisi,
inconsciamente, perché già ben sapevo chi c’era lì sotto, a pregare di farsi
aprire il più presto possibile. Premetti il pulsante di apertura del cancello
senza neanche chiedere chi fosse, e aprii la porta lasciando che dell’aria
fredda entrasse in casa. Lo sentii correre su per le scale, col rischio di
scivolare, e una volta che mi si piantò davanti, completamente bagnato, con gli
occhi gonfi e il fiatone, mi saltarono in mente tanti di quei rimproveri.
Perché diavolo correvi per le scale? Avresti potuto farti male! Perché non hai
fatto più piano? C’è gente che dorme a quest’ora! Perché non ti sei fatto
prestare un ombrello? Sei fradicio! Perché sei tornato da solo a quest’ora
della notte? Sei pazzo!
Ma tutto quello che riuscii a dire fu:
«Perché ci hai messo tanto?» e gli feci segno di entrare, pazienza se
gocciolava per tutta la casa, non me ne poteva importare di meno.
«Scusa se ti ho fatto… arrabbiare. O preoccupare,»
mormorò lui, la voce ancora mezza impastata dal pianto. Gli chiusi la porta
alle spalle e lui se ne stette fermo all’entrata, come fosse la prima volta che
metteva piedi in casa mia e avesse bisogno del permesso per poter camminare
liberamente. Me ne stetti pure io lì impalato, davanti a lui, le braccia lungo
i fianchi, in attesa che alzasse il capo che teneva ostinatamente rivolto al
pavimento. E quando lo fece non ci pensai due volte a prendere ciò che ormai
era di mia proprietà e spingermelo sulla bocca, come se fossero mesi che non
riuscivamo a vederci. Era passata solo una giornata, una maledettissima
giornata, che io avevo trascorso col magone sul petto, e avevo sentito tale
mancanza d’aria, di vita. Tutto sembrò tornare ad avere senso quando lui
s’abbandonò alla mia stretta e affondò le sue labbra nella mia bocca, coi suoi
capelli bagnati che mi strisciavano sulle guance e i vestiti freddi e zuppi che
mi si appiccicavano sulle braccia scoperte. Sembrava un bacio sotto la pioggia
ma senza la pioggia.
Si appese con le mani al mio collo, e si staccò solo per poter percepire il mio
respiro sulla sua pelle, come se col mio soffio potessi purificarlo.
«L’odore del tabacco…» si limitò a sussurrare, gli
occhi chiusi mentre respirava sulla mia bocca e mi costringeva piano contro il
muro. Si buttò ancora tra le mie labbra aperte e mi baciò caoticamente, facendo
scontrare la sua lingua con la mia in modo poco elegante, e in poco tempo si
ritrovò a mordermi forte il labbro inferiore, come una belva a digiuno da
giorni. In altre situazioni, credo che l’avrei scostato, o l’avrei rimproverato
con lo sguardo, o l’avrei tirato via dalla maglietta per avermi fatto quasi
sanguinare il labbro, ma quella volta non sentii dolore, solo il piacere
sottile che si insinuava nel cervello e gli impediva di ragionare, per poi
spingersi in tutto il resto del corpo e gonfiarsi fino a far scottare la pelle
nonostante fosse adesso umida di pioggia.
Mi spinsi con la bocca sul suo collo bagnato e non potei fare altro che leccare
via le gocce d’acqua e poi passare un’altra volta con solo le labbra per
tentare di asciugare le scie che m’ero lasciato dietro. Lui se ne stette col
capo alzato e il collo bello dritto e con la mano tra i capelli mi guidava
perché non mi perdessi neanche un millimetro della sua pelle ancora fresca di
pioggia.
«Scaldami… scaldami professore,»
Probabilmente il vecchio Andrea si sarebbe sentito turbato da
quell’appellativo, si sarebbe ricordato che Valerio era un suo studente molto
più piccolo di lui e l’avrebbe allontanato con una scusa. Ma il vecchio Andrea
stava morendo lentamente e il che, sinceramente, non mi spiaceva. La sua
apostrofe mi fece invece sospirare quasi rabbiosamente mentre gli torturavo coi
denti il collo privo dei segni della barba, e gliene lasciavo altri, più
visibili e di un rosso scuro, che adesso gli tempestavano la pelle sotto la
gola.
Non m’ero accorto di avergli tirato giù la maglietta da un braccio mentre lo
mordevo, e adesso mi ritrovavo altra sua pelle bagnata e da asciugare, da
scaldare, davanti agli occhi. Quindi passai subito a baciargli la spalla appena
scoperta, lì nel buio dell’entrata, mentre quello rabbrividiva con quel suo
fare adorabile e allo stesso tempo inspiegabilmente provocante, e si permetteva
di insinuare una mano sotto alla maglia a maniche corte che indossavo in casa,
sfiorandomi la pelle al di sotto e facendomi rabbrividire a mia volta.
«Di’… vuoi farmi impazzire?» gli chiesi col corpo che ansimava tutto, la smania
tangibile nell’aria, la mia bocca che cercava altri pezzi di pelle, la mano che
gli tirava giù quella dannata manica finché poteva, mentre le sue dita avevano
già raggiunto la mia schiena bollente e la marchiavano coi polpastrelli ancora
freddi.
«Possiamo farlo,» disse lui, la voce altrettanto rotta dagli ansimi, una delle
due mani che scendeva impaziente sul cavallo dei miei inguardabili pantaloni
della tuta, pantaloni che rendevano inevitabilmente più diretto il contatto.
«E io… che volevo aspettare…»
riuscii a dire, la mano che invece di andare a scostare la sua, gli costrinse
il polso ad accarezzarmi la lunghezza al di sopra della stoffa scivolosa.
«Aspettare cosa?» mi chiese lui, giustamente, le labbra che continuavano a
scontrarsi alle mie, così come aveva preso a fare il bacino, che spingeva
contro la mano che strofinava in mezzo alle mie gambe. Negai impercettibilmente
con la testa mentre mi mordeva un’altra volta le labbra.
«Non lo so,» ammisi, in evidente stato confusionale. Sollevò la mano dai miei
pantaloni e permise alle due erezioni già rilevanti di strusciare l’una
sull’altra, e il fatto che anche lui portasse i pantaloni della tuta –che non
erano suoi, doveva averglieli prestati Martone- non
aiutò affatto l’autocontrollo che già sembrava aver fatto le valigie. «Possiamo
farlo,» affermai quindi, i vapori dell’eccitazione che m’annebbiavano la mente.
Valerio emise un suono d’assenso, una specie di risolino acuto proveniente
dalla gola, e mi aiutò a togliergli la maglia che aveva appiccicata alla pelle
quando tentai nell’impresa. «Possiamo farlo,» ripetei, e forse lo dissi ancora
una volta prima di buttarmi sul suo petto ormai nudo, spoglio e chiaro, e
sembrò come se la mia bocca stesse facendo l’amore col suo corpo. Mi assicurai
di scaldargli la pelle infreddolita con la lingua che cercava smaniosamente i
punti più sensibili, trovandoli nei capezzoli già duri a causa dell’umidità e
nei fianchi carnosi e intorno all’ombelico. Stavamo stretti lì all’entrata, a
malapena c’era lo spazio per inginocchiarsi, ma lo stesso sembravamo convinti a
non volerci ancora spostare. Non poggiai le ginocchia per terra ma restai
leggermente sollevato quando arrivai a leccargli la zona comprendente
l’ombelico, mentre con un pollice sfregavo velocemente un suo capezzolo e con
l’altra mano tentavo di abbassargli i pantaloni. Ma anche in quell’occasione
lui m’aiutò, ché sembrava impossibile riuscire a spogliarlo con solo una mano.
Allora mi prese la mano che gli strattonava i pantaloni della tuta e se la
portò sul fianco morbido, mentre lui provvedeva ad abbassarsi l’indumento con
entrambe le mani e sospirava quando il suo membro sotto le mutande mi sfiorava
la faccia. Lo baciai appena sopra l’elastico dei boxer chiari e mi venne da
sorridere quando notai la fantasia infantile del suo intimo: sembravano dei
pois colorati. Mi eccitarono da morire.
Mentre percorrevo con la lingua che quella sera non ne voleva sapere di starsene
ferma la sagoma del membro di Valerio sopra i boxer facendolo gemere a scatti
quasi avesse la tosse, pensai al fatto che la sera prima eravamo nella
situazione opposta e io mi facevo tanti di quei problemi che la metà bastava.
Adesso invece ero stato io ad inginocchiarmi per primo. Nonostante la paura
della notte prima di far dormire Valerio nel mio letto, nonostante quello che
era accaduto quella mattina, nonostante il rischio di perdere il lavoro a causa
della mancanza di autocontrollo.
Un altro paio di rumori da parte del ragazzo, e lo persi davvero,
l’autocontrollo.
Salii su dopo avergli macchiato di saliva l’intimo colorato, e lo trovaiansimante, con la faccia sofferente e il
labbro inferiore che di tanto in tanto finiva intrappolato tra i denti. Lo
costrinsi ad aprire la bocca col pollice sul mento, e quello tirò subito fuori
la lingua in cerca della mia, quasi fosse questione di vita o di morte. Lo
accontentai e lasciai che la mia lingua si scontrasse alla sua all’esterno
delle bocche e poi finissero a inseguirsi tra le sue labbra, mentre col
ginocchio picchiettavo la sua erezione umida e la coscia, per sospingerlo verso
il salotto, ché lì mi muovevo a fatica. Intendevo farlo camminare ancora un
po’, seppur all’indietro e mentre ce ne stavamo con le bocche incollate, ma lui
inciampò sui propri pantaloni accartocciati sulle caviglie e finì per rovinare
a terra, lì davanti alla televisione, ma la nostra smania era tanta da costringerci
ad andare avanti con quello che stavamo facendo. Valerio si liberò dei propri
pantaloni della tuta dimenando i piedi, così da poter aprire le gambe e
permettermi di finirgli addosso, a stretto contatto col suo corpo ormai coperto
solo dall’intimo. Mi sospinsi su di lui divorandogli il collo e simulando
l’atto sessuale col bacino, incapace di darmi un freno, mentre lui socchiudeva
gli occhi e strisciava con le mani sulla mia maglia nella disperata ricerca
dell’orlo per potermela finalmente sfilare. Quando m’allontanai leggermente per
potermela togliere secondo il suo desiderio, lessi su di lui i brividi di
freddo, visto che se ne stava con la pelle ancora umida a contatto col
pavimento che bollente di certo non era. Fortunatamente, il riscaldamento era
tornato a funzionare, ma i brividi su quelle braccia pallide erano ben
evidenti, e i capezzoli erano duri e dritti. Stavo per proporgli di andare di
là in camera, o di salire almeno sul divano, per quanto la finta pelle fosse
fredda, ma quello non mi permetteva di sollevarmi, mi teneva ora imprigionato
tra le gambe e con una mano grande e pesante sul collo tentava di spingermi in
basso, dove il bacino vibrava e sembrava colpito da spasmi. Con l’indice gli
abbassai l’intimo dal fianco, e ogni volta che scoprivo un nuovo pezzo di pelle
lo marchiavo con la saliva e coi segni dei morsi, finché non riuscii ad
accartocciargli anche i boxer alle caviglie e lui fu costretto a disfarsene
scuotendo i piedi. Avvertii l’odore acre del sesso e, guardando con più
discrezione possibile il membro pericolosamente eretto del mio alunno,
m’accorsi che era già ricoperto del liquido pre-spermatico.
Feci finta di ignorare l’evidente bisogno di Valerio e mi piegai a saggiare con
labbra e lingua la pelle dell’inguine, tenendo ben aperta la gamba destra con
la mano. Tremava sotto di me, e le bollicine della pelle d’oca erano ben
evidenti, e i peli erano rientrati.
«Hai freddo?» chiesi con la bocca impegnata, convinto a volerlo portare in una
stanza più calda.
«Freddo? Muoio di caldo,» mormorò quello lasciando che la bocca espellesse
respiro bollente. «Cazzo,» gli scappò, respirando a scatti, quasi non ci fosse
ossigeno a sufficienza.
«Non dire le parolacce in casa mia,» lo ammonii tra una lappata e l’altra,
incapace di smettere di assaggiarlo, lì dove il sapore era più forte. Badai
bene a non sfiorargli mai direttamente il membro con la bocca, e mi concentrai
lì sull’inguine e sul pube e poi più in basso, lasciando che solo i capelli
solleticassero la pelle tesa e lucida. Pensai che da un momento all’altro
Valerio sarebbe impazzito. Aveva preso a sbattere un pugno a terra, mentre
l’altra mano mi tirava i capelli sulla nuca, senza rendersi conto che non fa
male la cute tirata sulla nuca. Quindi io non lo sentivo, la sua mano che mi
tirava i capelli era come una carezza, e il pugno sbattuto a terra non faceva
rumore, e io ero perso nel suono della mia stessa saliva su di lui e dei suoi
respiri sconnessi alternati al piagnucolare supplichevole. Sentii la lingua
dolorante quando la piegai per scendere sotto e poi svoltare di lato, a destra.
Valerio seguì i miei movimenti rotolando leggermente di lato, e quando sentì
che staccai la bocca e la riattaccai sulla sua natica, si convinse a girarsi
quasi completamente di schiena, il membro dolorante che strisciava sul
pavimento freddo.
«Oh Dio, oh Dio…» lo sentii bofonchiare mentre se ne
stava a faccia in giù, la guancia schiacciata sul pavimento, il bacino che
s’alzava il più possibile per incontrare la mia bocca, che non si faceva
problemi a rimanere incollata al fondoschiena morbido e carnoso. Aveva un
sedere da donna, sporgente e rotondo, era stupefacente. E la mia voglia di
esplorarlo tutto mi spaventò, ma non fu in grado di farmi desistere. La sua
mano che si sospingeva sul proprio fondoschiena e arrivò sino alla piccola
apertura per poi allargarmela davanti alla faccia con due dita fu la mia
condanna a morte. M’avvicinai con la bocca a quelle dita, e solo quando ebbi
coperto l’entrata con le labbra Valerio ritirò la mano e prese a muovere piano
il fondoschiena, incapace di stare fermo. La mano che aveva appena usato andò a
toccarsi il membro che, immaginavo, doveva bruciargli e pulsare parecchio.
«Ohh, Dio,» prese a ripetere tra gli spasmi, e non
capivo per quale motivo dovesse invocare sempre Dio, che non era la persona più
adatta da chiamare in situazioni del genere.
Valerio alzava ancora il bacino, con fatica, e tentava di puntare le ginocchia
sul pavimento rischiando di scivolare. Eravamo scomodi, ma da lì non riuscivamo
a spostarci.
Emisi un rumore di risucchio osceno che mi diede fastidio alle orecchie, ma che
fu seguito da un gemito prolungato da parte del ragazzo che non fece che
aiutarmi a dimenticare il fatto che gli stessi leccando avidamente il didietro.
Una mia mano strisciò sulla sua schiena inarcata, l’altra andò a cercare la sua
che si muoveva in modo sconnesso e tremolante sul suo bisogno e gliela scostò
delicatamente, per poi prendere il suo posto e strofinare con foga doppia,
facendolo ringhiare contro il pavimento. Suoni che non sembravano umani
abbandonavano le sue labbra, e io non sapevo se prenderli come un apprezzamento
o meno.
«P-professore…» esordì quindi, e solo in quel momento
mi accorsi che si stava succhiando un dito, forse per evitare di urlare.
«Mi… piace quando mi chiami così,» ammisi dopo
essermi tirato su dal suo fondoschiena, e avevo tanto caldo che probabilmente
la mia faccia era di un bel rosso acceso. Allontanai anche la mano dal suo
sesso –con suo disappunto- e mi presi un attimo per guardare il mio studente
sotto di me. Era qualcosa di allucinante: sussultava piano, come se il battito
del cuore si fosse propagato in tutto il corpo e lo stesse facendo pulsare
vistosamente; le braccia tremavano perché non riuscivano più a reggere il peso
del corpo, e le gambe erano poco stabili; la pelle risultava lucida e tesa,
lungo la coscia scendeva del sudore. Era bellissimo, e io sentivo di stare
impazzendo. Qualche mese prima non avrei mai, mai pensato che un ragazzino
completamente nudo in posizioni compromettenti e lucido di sudore fosse bello. Eppure
il pensiero che quello che stavamo facendo fosse sbagliato o volgare non mi
oltrepassò i pensieri neanche per sbaglio.
«Lo so…» disse lui mentre spostava con fatica un
braccio reggendo tutto il proprio peso su quello sinistro. «Me l’ha detto
Giulio,» aggiunse, e intanto si portò il dito tutto mordicchiato e lucido di
saliva sulla propria entrata iniziando a stuzzicarla e ad allargarla da sé,
sotto ai miei occhi. Avevo pensato di fare una battuta su quanto fosse
pettegolo Giulio, ma dalla bocca non mi uscì niente, se non un brevissimo suono
strozzato che lasciava intendere il mio piacevole sgomento. Mi tastai in mezzo
alle gambe: riuscivo a malapena a muovermi, a causa dell’enorme problema lì
sotto, dolorante già da un po’. Mi abbassai allora i pantaloni, senza mai
distogliere lo sguardo da quello che Valerio stava facendo con estrema enfasi,
ma sentii di non avere il tempo di sfilarmeli come si deve, mi sentivo
esplodere le mutande. Dio, che vergogna.
Abbassai gli occhi solo un attimo su di me quando mi premurai di calare
l’intimo e lasciarlo sulle cosce, ma quando rialzai lo sguardo vidi Valerio
armeggiare già con due dita, che sforbiciavano nell’entrata e gli facevano
avere scosse lungo tutto il corpo. Giurai di non aver visto mai niente del
genere, neanche nei film porno, neanche nelle mie fantasie, neanche nei
racconti dei miei amici. C’era davvero da star male. Mi avvicinai strisciando
sulle ginocchia, e quando gli fui addosso gli sfilai le dita dall’entrata
prendendolo dal polso –al che si lasciò andare a un sospiro- e mi posizionai su
di lui, seguendo la linea della sua schiena, badando a non schiacciarlo sotto
il mio peso. Alzò più che poteva il bacino, e mentre mi ancoravo al suo fianco
con una mano, gli poggiai le labbra tra il collo e la spalla, sentendo l’odore
forte di capelli umidi di pioggia entrarmi nelle narici. Con la mano libera mi
presi il membro, poi chiusi gli occhi e cercai l’entrata di Valerio, trovandola
al secondo tentativo. Il mio alunno piegò la parte anteriore del corpo sui
gomiti, fino a far aderire la fronte al pavimento, poi iniziò a prendere
respiri profondi, nonostante per la maggior parte fossero spezzati.
«Avanti,» disse, ormai quasi giunto al limite, con quel tono supplichevole e
che aveva allo stesso tempo il sapore di un ordine che mi faceva girare la
testa. Mi sistemai tra le sue natiche, gli strinsi il fianco fino a graffiarlo,
ed entrai prepotentemente, ché pure io ero stremato dall’orgasmo contro cui
lottavo per tentare di farlo tardare ancora un po’.
Era tanto stretto da farmi male. Mi facevo largo a fatica, e quello se ne stava
con la faccia sul pavimento e la gola che emetteva suoni di animali feriti.
Uscii dopo neanche la prima spinta e mi sputai sulla mano, un gesto che mai
avevo fatto, e con quella andai a cospargermi il membro ingrossato, con Valerio
che mi supplicava di rientrare, perché c’era quasi, e voleva venire solo nel
momento in cui sarei stato completamente dentro di lui. Entrai nuovamente, e questa
volta riuscii a farlo scivolare tutto, alla prima spinta. Tirai indietro il
bacino e di nuovo spinsi forte, col pube che cozzava rumorosamente contro il
suo fondoschiena, la mia bocca che voleva invocare tutti i santi del paradiso.
Valerio aveva nuovamente un dito in bocca per impedirsi di strillare come una
donna di facili costumi, ma non mi poté ingannare quando l’orgasmo lo travolse
dopo solo la quinta spinta. Era al limite, lo era per davvero, e appena ero
entrato completamente in lui, s’era lasciato andare. E anche le braccia, e
anche le gambe, volevano lasciarsi andare, e crollare sul pavimento, se non
fosse che io dovevo ancora oltrepassarlo, il mio limite.
«Sei…sei scomodo?» chiesi ansimando rumorosamente, ma
quello non mi rispose: si limitò a sospirare contro il pavimento dopo aver
abbandonato il dito mordicchiato. «Puoi voltarti?» gli domandai, sperando che
mi desse segni di vita. Ancora non rispose, ma mi accontentò e rotolò su un
fianco fino a finire disteso supino, dominato dal suo insegnante che era pronto
a rientrare e terminare quello che aveva iniziato. Osservai la faccia estatica
di Valerio mentre spingevo in lui in quella nuova posizione, e sorrisi anche io
quando lo vidi aprire gli occhi quasi svegliato dal proprio sonno e dedicarmi un
sorriso soddisfatto. Si lasciò andare a gemiti poco rumorosi, e pensai che
dovesse avere un altro orgasmo di lì a poco. Ma non avrebbe fatto in tempo,
perché io ero già lì a dare l’ultima spinta, precisa e prolungata, per poi
uscire e venire all’esterno: non sarebbe stata l’idea migliore venirgli dentro.
Il mio sperma andò a mischiarsi alle tracce del suo sopra l’ombelico, e il mio
sospiro fu tanto liberatorio che probabilmente fu sentito da metà condominio.
Le braccia mi tremarono mentre tentai di appoggiarmi sui gomiti: non ero mai
stato in grado di fare le flessioni normalmente, figuriamoci in situazioni del
genere. Appoggiai la fronte sulla sua spalla, e lui respirò forte col naso
mentre mi cingeva la nuca con una mano. Forse non mi rendevo ancora conto di
quello che avevo fatto, o magari non volevo pensarci, ma quel silenzio era più
eloquente che mai,e lentamente mi
faceva tornare la ragione, insieme alla forza nelle braccia stanche e
doloranti. Dopo aver aspettato che Valerio finisse la sua serie di baci sul
collo, mi sollevai e mi misi in piedi coprendomi l’intimità col primo indumento
che avevo trovato per terra: probabilmente erano anche i pantaloni di Martone, e la cosa mi piacque poco.
«Vieni, andiamo a fare un bagno,» dissi, con la voce che voleva sembrare dura
ma che era tutt’altro, dolce da far venire il mal di stomaco. Allungai la mano
a Valerio, e quello mi sorrise prima di tentare di alzarsi. Ma fece una smorfia
di dolore e tornò con la schiena a terra, col rischio di prendersi una bronco polmonite.
«Che succede?» chiesi piegandomi su di lui.
«Non sei stato esattamente…delicato,» rise quello
insieme alle smorfiette di dolore, e io provai tenerezza mista a felicità che
mi costrinse a rispondere con un: «Ti ci porto in braccio»
«Come le novelle spose?»
«Come le novelle spose».
---
E’ arrivato
il grande giorno! Il giorno della bombata! <3
Volevo dirvi che non avevo mai scritto cinque pagine word di p0rn, giusto per
XD E se volevo cambiare nuovamente il rating in arancione, ora non posso
proprio più farlo D:
Non sapevo se farli rumorosi o silenziosi durante il sesso, e alla fine ho
optato per una roba a metà (?) che spero vi sia piaciuta ugualmente XD
Un bacio a coloro che ancora mi seguono e che hanno voglia di recensire e farmi
sapere che ne pensano della storia! :)
Alla fine l’avevo davvero preso in braccio, ma gli avevo raccomandato di
rimanere un attimo steso sul divano mentre andavo a preparare l’acqua per la
vasca. Gli chiesi se volesse qualcosa per coprirsi, ma lui negò dicendo che non
dovevo preoccuparmi e se ne stette sul divano in finta pelle disteso supino
mentre io riempivo la vasca d’acqua e mi assicuravo di tanto in tanto della sua
temperatura. Mi misi su un paio di boxer giusto per non sentirmi del tutto
indifeso, poi andai a prendere Valerio. Gli chiesi se riusciva a mettersi in
piedi, e lui disse di sì, che davvero non dovevo preoccuparmi di nulla, ma le
notai le smorfie di dolore sul suo volto anche solo quando si mise a sedere,
perciò mi preoccupai di fargli scorrere un braccio sulla mia spalla e di
tirarlo su in quel modo, come quando si accompagna a casa un ubriaco.
«Ti ho fatto davvero così male?» gli chiesi quando lo sentii saltellare su una
gamba.
«Vorrei vedere… Non sei esattamente piccolo. E ci hai
messo foga…»
«Scusa,» dissi imbarazzato e a testa bassa.
«Zitto, è stato meraviglioso,» ribatté lui all’istante, con quella voce che
aveva un non so che di malinconico. Quando arrivammo in bagno, lui saltellando
e io trascinandomelo sul fianco, lo aiutai ad adagiarsi in vasca. Rabbrividì
per la temperatura dell’acqua e respirò forte sperando di abituarsi in fretta
al calore. Io feci un salto in camera da letto a prendere le sigarette e poi
nel secondo bagno, quello più piccolo, per recuperare il mio accappatoio.
Tornai nel bagno grande e lasciai l’accappatoio sul lavandino, buttai il
pacchetto di sigarette a terra e cercai un asciugamano piccolo da stendere
davanti vasca, nel caso avessimo fatto acqua. Valerio attendeva tenendosi
strette le gambe e guardandomi dall’alto in basso con tanto di occhi. Dedicai imbarazzato
un pensiero ai miei boxer, e mi chiesi se fosse il caso di entrare con l’intimo
nella vasca; ma poi mi dissi “Sei scemo, per caso? Te lo sei bombato pochi
minuti fa, il Valerio, che rilevanza può avere se ti vede nudo un’altra volta?
Hai dei problemi seri” e la voce nella mia testa fu abbastanza convincente. Mi
spogliai del tutto e mi affrettai ad immergermi nell’acqua, la schiena
appoggiata contro la vasca sul lato opposto a Valerio. Sospirai di sollievo
quando l’acqua mi toccò tutto, e buttai la testa all’indietro, con le gambe di
Valerio che se ne stavano chiuse al centro, mentre io le tenevo aperte ai lati.
«Era da un po’ che non facevo un bagno. Sempre e solo la doccia…»
mormorai ad occhi chiusi, le braccia appoggiate ai bordi della vasca. «Mi sento
come se stessi scaricando tutto lo stress della settimana scorsa,» confessai
sospirando, ma quello se ne stava immobile, chiuso a riccio, le braccia che si
tenevano le gambe e lo sguardo fermo sull’acqua, quasi stesse pensando
intensamente a qualcosa. Veramente all’inizio pensai fosse squagliato dal
caldo. Tirai su la testa e la inclinai per guardarlo in faccia, sapendo
benissimo a cosa stava pensando. Era la stessa cosa a cui io tentavo di non
pensare commentando su quanto fosse rilassante fare il bagno caldo.
«Valerio… quello che è successo stamattina…»
«E’ colpa mia,» mi interruppe quello senza guardarmi in faccia. «Avrei dovuto fare più attenzione. E adesso
guarda cosa ho combinato,» aggiunse, e avvicinò il mento alle ginocchia
sollevate. Feci schioccare la lingua e sospirai, non sapendo davvero come avrei
dovuto reagire a quello che era successo.
«Anche io sono stato sprovveduto, abbiamo sbagliato entrambi a esporci così tanto,»
dissi con una mano che passava tra i capelli e che si fermava a grattare la
nuca.
«No, io ti ho costretto a cenare con me, io ti ho portato a ballare, io ti ho
baciato sulla pista da ballo, davanti a persone che avrebbero potuto benissimo
riconoscerti. Ma non me ne importava, perché pensavo solo a quanto fosse bello
averti, senza rendermi conto che avrei potuto danneggiarti. E così è stato. Mi
sento una merda e credevo che non avrei più avuto il coraggio di guardarti in
faccia,» disse,veloce come un treno, il vapore che iniziava ad accumularsi
attorno a noi.
«…In effetti non ci siamo guardati in faccia più di
tanto,» feci ironico, e avevo anche voglia di fare battute penose, a quanto
pareva. Ma lui almeno sorrise, forse più per pena che per altro. Allungai il
braccio e andai ad accarezzarlo con l’indice sotto al mento, notando come
cercasse di tenere gli occhi giù, rivolti all’acqua. «Mi vuoi guardare, adesso?»
lo spronai, continuando a far strisciare il dito sotto il mento. Non resistette
a lungo: qualche secondo dopo fece guizzare gli occhi trasparenti su di me, e
io subito mi sentii invadere dalla serenità. Quei suoi occhi erano la mia vita,
la mia vita vera, e sarebbero stati anche la mia morte. Sorrisi come un ebete e
lui non poté fare altro che sorridermi a sua volta, sospirando come una
ragazzina. Gli feci segno con la mano di avvicinarsi, e quello si staccò piano
dalla sua posizione.
«Appoggiati,» gli dissi indicandomi il petto, e lui, muovendosi con cautela per
non lasciare che dell’acqua strabordasse, si girò di
schiena e si adagiò su di me, il capo appoggiato sulla mia spalla sinistra. Lo
avvolsi con le braccia sperando che non gli desse fastidio e gli posai un bacio
sul collo ancora asciutto, facendolo rabbrividire.
«Che intendi fare?» mi chiese dopo un po’ che me ne stavo con la bocca
appoggiato alla sua spalla e lo sguardo fisso nel vuoto, pensieroso. Allontanai
il capo e allungai una mano all’esterno della vasca asciugandomela sul panno
che avevo messo a terra, poi presi una sigaretta che spuntava dal pacchetto e
feci per accendermela.
«Ti dà fastidio?» chiesi con la sigaretta che penzolava dalle labbra. Lui
scosse la testa.
«Al contrario,» disse, e si accoccolò sul mio petto socchiudendo gli occhi.
Adoravo fumare in vasca, ed era davvero troppo tempo che non lo facevo, troppo
per poter evitare di farlo. Ma se avesse infastidito anche solo leggermente il
mio Valerio avrei lasciato perdere sigarette e tutto. Avrei smesso di fumare
definitivamente per lui. Avrei modificato gli orari in cui mi addormentavo e in
cui mi svegliavo per lui. Avrei ribaltato completamente la mia vita per lui.
Lui, che era così affamato d’amore, e che adesso mi stringeva inconsciamente le
dita della mano sotto l’acqua, in attesa di una risposta.
«Che intendo fare? Non lo so… spero solo che
quell’idiota non vada a spargere in giro la voce. Non sono riuscito neanche a
fare in tempo a negare tutto, che tu già t’eri alzato per poi scappare via,
lasciando intendere che le accuse derisorie di quel ragazzo non fossero del
tutto false».
«Lo dicevo che è stata colpa mia,» disse l’altro facendomi finire a malapena la
frase, e girò il capo verso il muro, senza però mollarela presa sulla mia mano, anzi, rafforzandola.
Alzai le spalle e buttai fuori una nuvola di fumo.
«Hai reagito d’istinto. Vorrei essere capace di farlo anche io. La razionalità
non è sempre una buona cosa, spesso sa solo confonderti. Ammiro la tua
spontaneità,» gli dissi, sincero comepoche volte lo ero stato, e avvertii il suo corpo irrigidirsi appena.
«Come fai a farmi ancora dei complimenti dopo la cazzata che ho fatto? Ti
cacceranno dalla facoltà!» esclamò, la voce un po’ stridula, e io gli strofinai
il capo sui capelli come un gatto in cerca di coccole per farlo calmare.
«No, non è così che funziona. Finché non hanno prove concrete, non possono
sbattermi fuori. Le parole di un ragazzetto arrogante non contano niente, là
dentro. E in ogni caso, in teoria, possiamo fare quello che vogliamo. Non hai
mica dodici anni, sei maggiorenne e vaccinato e consenziente. Non verrò
sbattuto fuori,» il mio discorso era perfettamente razionale, ma quella
razionalità era nettamente diversa da quella che ero solito tirare fuori nella
mia vita precedente, quella che puntava all’equilibrio, al rafforzamento delle
basi del mio castello di carta, alla costruzione della mia esistenza mediocre,
silenziosa e disinteressata. Adesso invece la mia razionalità snocciolava
discorsi che miravano a rendere lecito quel mio squarcio di cielo, quel pezzo
di felicità che avevo trovato, e che dovevo proteggere, a tutti i costi. E
avevo bisogno di sapere che quella felicità non mi avrebbe lasciato di sua
spontanea volontà, che sarebbe rimasta sulle mie spalle, leggera come una
piuma, calda come un raggio di sole, ancora per un po’ di tempo.
«Ma avrai problemi, di sicuro. Inizieranno a circolare le voci. Due uomini che
escono insieme sono già uno scandalo nella nostra società, ma addirittura
alunno e insegnante…»
«Se mai le cose dovessero peggiorare, mi vedrò costretto a fare domanda
altrove,» lo interruppi continuando a fumare con un braccio fuori dalla vasca,
curioso della sua reazione, o forse più speranzoso.
«Dici che ti trasferiresti?» mi chiese, la voce che tremava e lasciava
intendere il timore che aveva preso ad agitarglisi
nello stomaco.
«Se la situazione diventa ingestibile sì, ma non credo che…»
«Io verrò con te,» mi interruppe subito, risoluto, il capo adesso rivolto verso
di me, anche se riuscivo a vederne perfettamente solo il profilo.
«Non ho detto che mi trasferisco,» gli feci notare, la cenere che cadeva sul
pavimento blu e di cui non poteva importarmene di meno.
«Se dovessi farlo, sappi con un largo anticipo che io ti seguirò ovunque
andrai,» mi disse, seriamente, tanto che mi fece scoppiare a ridere tossendo
fumo a destra e a sinistra.
«Devo avere paura?» chiesi divertito, mentre quello se ne stava lì a guardarmi,
terribilmente serio.
«Sarò la tua ombra,» annunciò, e quel suo tono mi fece nuovamente sorridere
divertito perché, davvero, non c’era motivo di essere seri. E adesso che mi ero
assicurato che la mia felicità mi avrebbe seguita anche se avessi dovuto
lasciarla andare, mi mise addosso un’inquietante serenità. Pensai di non
essermi mai sentito così a posto nel mondo, nonostante gli avvenimenti di
quella mattina, nonostante la ferita ancora fresca dovuta alla morte di
Rosaria, nonostante fossi stato praticamente dimenticato da ciò che rimaneva
della mia famiglia, nonostante il divorzio risalente solo a qualche mese prima.
Nonostante tutto, stavo una meraviglia.
Tirai fuori la mano che tenevo sotto l’acqua e attirai il capo di Valerio su di
me, per poi baciarla la tempia. Mi sta
bene, non lasciarmi mai, stavo per dirgli, ma non ero tanto sentimentale da
poterlo fare. La sigaretta era quasi finita, la bruciatura era ormai arrivata
al filtro, ma Valerio si aggrappò al mio braccio per poi trascinarselo vicino
alla bocca e fare l’ultimo tiro della sigaretta. Glielo lasciai fare, poi
allontanai subito il mozzicone dalla vasca per evitare che la cenere cadesse
nell’acqua, e lasciai andare il filtro ormai vuoto sul pavimento. Allora
Valerio si voltò verso di me più che poté e buttò fuori il fumo sulle mie
labbra socchiuse, che raccolsero quello che riuscivano a raccogliere, lo
mandarono giù nei polmoni e lasciarono andare ciò che rimaneva. Mi sorrise e
allo stesso tempo mi attirò con gli occhi, quindi io non potei fare altro che
avvicinarmi ulteriormente e posargli un bacio sul lato della bocca. Lui mi
appese una mano dietro la nuca e mi spostò sulla sua bocca, prendendo subito a
baciarmi con trasporto e sospirando ogni qualvolta ne trovava l’occasione. Il
collo era ben teso, e ne approfittai per accarezzarlo, facendolo sorridere
sulla mia bocca.
«Fai il solletico,» mi disse, i denti bianchi a contatto con le mie labbra, e
io giurai di volerlo mangiare. Gli mordevo le labbra adesso, e sentii davvero
la fame che avevo di lui, la avvertii all’altezza dello stomaco e nel basso
ventre, che avevo iniziato a muovere circolarmente sotto di lui. Portai la mano
che prima reggeva la sigaretta sotto l’acqua, per poi percorrere con i
polpastrelli la linea del suo fianco e finire sul fondoschiena morbido.
«Fa ancora male?» gli chiesi mentre mi avvicinavo con una lentezza snervante
alla sua entrata.
«No. Hai ragione, un bel bagno caldo allevia tutte le sofferenze,» disse lui,
completamente a sua agio, la testa ben appoggiata al mio petto.
«Sicuro che non fa male?»
«Sicuro… perché? Vuoi farlo ancora?» mi chiese, un
misto tra serietà e divertimento, e io gli risposi con un paio di baci tra i
capelli.
«Se solo avessimo qualcosa per…» mi interruppi
guardando fisso davanti a me, oltre la spalla di Valerio. «Passami quel
flacone,» gli chiesi poi, indicandogli col dito l’unico che si trovava sul
bordo vasca sul lato opposto. Valerio s’allungò, lo prese e tornò al posto per
poi leggere l’etichetta.
«Cosa…Johnson’s baby? Usi
l’olio per il corpo Johnson’s baby?!» esclamò
divertito, con la mano davanti alla bocca. Sbuffai e gli tolsi il flacone dalle
mani.
«Non giudicarmi, ha un buon profumo. E idrata la pelle,» dissi col broncio
mentre lo stappavo e subito dopo andavo a togliere il tappo alla vasca da bagno
così che l’acqua potesse fluire via. Lui non obiettò su quello che stavo
facendo, e parlò mentre il rumore del risucchio era più forte.
«Magari oggi scoprirai che è più utile a qualcos’altro,» e per quanto la frase
fosse maliziosa, il suo tono era spontaneo e innocente come sempre, come un
bambino che gioca con le costruzioni eche ti dice tutto contento qual è il modo migliore per incastrare due
pezzi.
«Hai freddo?» gli domandai quando ci ritrovammo stretti nella vasca vuota.
«No, sei caldo, contro di te sto bene,» mi disse, e si sistemò meglio su di me
facendo scontrare inevitabilmente il fondoschiena con la mia erezione neonata. Dissi
“Meno male”, e mi spremetti dell’olio sulle dita, pensando a quanto fosse
imbarazzante quel rumore nel silenzio più totale. Tornai ad essere nervoso,
come il bambino di prima che sta completando la torre e trema tutto mentre
cerca di posare in cima l’ultimo pezzo senza lasciar crollare tutta la
costruzione. Spostai quindi la mano insicura sotto di lui, che alzò leggermente
l’anca per facilitarmi il movimento.
«Sei sicuro che…?»
«Vai,» mi rassicurò lui ancor prima che finissi di parlare. Poggiai le dita oliose e profumate contro la sua entrata, e lo vidi
rabbrividire vistosamente, ebbe quasi uno scatto della gamba.
«E’ fredda?» chiesi, come un povero idiota, credendo che l’olio sulle mie dita
bollenti potesse in qualche modo diventare freddo. Lo sentii sorridere tra sé,
disse “No”, poi sembrò voler continuare la frase e la concluse con “…professore”, sicuro che in quel modo sarebbe riuscito a
farmi perdere il controllo. E non aveva proprio tutti i torti.Un mio dito gli scivolò dentro e gli mozzò il
respiro. Si aggrappò al lato della vasca senza riuscire a reggersi
decentemente, e restò a bocca aperta per un po’, mentre gli occhi li teneva
stretti. Altro che freddo, il mio olio sulle dita adesso era bollente, bruciava
quasi. Curvai il dito a uncino,e
Valerio sussultò trattenendo qualunque suono tentasse di uscirgli dalle labbra,
poi prese a muoversi anche lui su di me.
«Due…» mormorò quindi, la voce che graffiava.
«Cosa?» chiesi, decisamente a fatica, quasi avessi fatto una lunga ed
estenuante corsa.
«Due dita…mettile…» si interruppe quando si accorse
che mi stavo già accingendo ad aggiungere il dito medio. Pensai che dovesse
bruciargli un po’ a causa di quello che avevamo fatto prima di entrare in
vasca, ma scese imperterrito sopra le mie due dita, quasi non avesse bisogno di
altro nella vita. Portai l’altra mia mano sulla sua spalla, poi mi feci vicino
al suo orecchio e,
«Fermo,» sussurrai, stringendogli piano il braccio, e quello smise di muoversi
su e giù sulle mie dita, permettendomi così di lasciar fare a me. Si vedeva che
era stanco e dolorante, non volevo farlo affaticare ulteriormente. Come se in
quel modo non si sarebbe stancato. Era proprio vero che non ero più in grado di
ragionare in quelle condizioni.
Tentai di alzarmi sulle ginocchia senza scivolare, poi presi nuovamente il
flacone dell’olio e glielo aprii lì dove tenevo ferme le dita, facendolo
rabbrividire per l’ennesima volta. Dopodiché mi impegnai a sbattergli le due
dita in profondità, sforbiciando più che potevo, e intanto massaggiandogli
l’anello muscolare all’esterno col pollice. Finalmente un suono abbandonò la
sua bocca, ed era molto simile a quello di un animale in agonia. Gli chiesi per
l’ennesima volta se gli faceva male, continuando comunque a lavorare con le
dita senza ritegno, ma quello disse solo:
«Mi piace,» con la voce che si sforzava per non sembrare particolarmente
lasciva. Scesi a baciargli il collo e, mentre cercavamo entrambi una posizione
comoda –sembravamo essere fissati coi luoghi scomodi, a dirla tutta-, mi
accorsi di essergli sopra, adesso. Lui stava fermo come gli avevo detto,
rannicchiato contro la ceramica della vasca, la mano che aveva iniziato a
muoversi sopra la propria erezione, la solita espressione sofferente che
adottava quando era particolarmente eccitato.
Mentre tentavo di infilargli l’anulare, pensai che avrei dovuto fargli quello
che non avevo fatto prima, lì in salotto. Gli infilai la mano libera tra le
cosce, che mi premurai di separare, per poi spingere con il palmo la gamba
sinistra verso l’esterno e riuscire finalmente a posizionarmi tra le sue gambe.
Piegai tutte le falangi a uncino, e intanto mi buttai a succhiargli la base del
membro eretto. Un suono strozzato e poco piacevole all’udito abbandonò la sua
gola.
«Non trattenerti,» mormorai mentre gli soffiavo sulla punta del sesso. Non
l’avevo mai preso in bocca, Dio, era qualcosa del tutto nuova per me, non avevo
avuto un passato da risucchia-tutto, e di certo non
mi ero mai esercitato coi cetrioli che comprava mia madre. Quindi trovai
difficoltà a fare un lavoro come si deve. Scesi giù con la bocca, ma arrivai a
prenderne solo poco più di metà, perché ancora non ero abituato a riempirmi la
bocca in quel modo.
Ancora abituato? Perché, avevo forse intenzione di abituarmi?
Negai con la testa quasi a voler dire di no alla mia domanda retorica, ma quel
gesto sembrò far impazzire Valerio, che ancora tentava di non urlare mordendosi
a sangue le labbra.
«Non trattenerti,» dissi nuovamente dopo essermelo sfilato dalla bocca.
«E’ tardi, ci sentiranno,» disse lui, tra i sospiri trattenuti e i grossi
brividi su tutto il corpo.
«Che ti importa?» chiesi tra una lappata e l’altra, tentando di essere il più
preciso possibile mentre seguivo le vene in evidenza sulla sua lunghezza.
«Importa… a te…» fece
quello a fatica, il capo gettato all’indietro col rischio di sbattere la nuca
contro il bordo della vasca.
«Non mi importa,» asserii mentre avvertivo il suo cuore battermi sulla lingua.
«No?»
«No».
Valerio si mise a urlare all’improvviso, tanto forte da spaccarmi i timpani e
farmi venire un coccolone. Per poco non gli morsi il pene.
«Che…che succede?» chiesi, un attimo scosso.
«Sono rumoroso, mi dispiace… so che dà fastidio e quindi…»
«Ti fai troppi problemi,» dissi divertito prima di sfilare le dita e
strappargli un gemito. Salii verso la sua bocca lasciandogli una scia di baci
su tutto il corpo e poi incastrai le mie labbra alle sue facendogli assaggiare
il suo stesso sapore. Mi mugolò in bocca, e continuò a farlo anche quando mi
staccai per ravvivargli i succhiotti sul collo, quasi non riuscisse più a stare
zitto. Gli presi i polpacci e li sollevai: mi posai quindi la gamba sinistra
sulla spalla, mentre la destra la lasciai andare sul bordo della vasca, a
penzoloni.
«Urla quanto ti pare, a me non dà fastidio,» gli mormorai contro la bocca
mentre cercavo la sua entrata per la seconda volta in quella sera. «La tua voce
è l’unico suono che non mi infastidisce,» ammisi, e lui mi sorrise e annuì
prima di baciarmi. E per la seconda volta in quella sera, mi spinsi dentro di
lui come non ci fosse un domani, con troppa foga, rischiando di lacerarlo. Ed
era per me la cosa più preziosa, il mio squarcio di felicità, e tanto l’amavo
da non riuscire a controllarmi. Lui pianse dal dolore e urlò di piacere, e io
non sapevo se essere preoccupato per la forza che ci stavo mettendo o felice
per il piacere che gli stavo provocando. Una serie di “Aah” prolungati si propagarono per la stanza, finché non sentii
Valerio gridarmi un “Più forte!”
gracchiante che mi fece capire che, sì, gli stava piacendo, e io non potevo che
esserne felice. Come un bambino che completa la sua torre di Lego e qualcuno
gli dice che è la cosa più bella che abbia mai visto.
«Ancora…»
Era stremato, ormai immobile sotto di me, e io ero al culmine, ma continuava a
chiedermene ancora, e ancora.
«Dentro… stai dentro,» mi supplicò, e non aveva
neanche più la forza di gemere. Gli dissi che non avevo intenzione di sporcarlo
all’interno, quindi venni fuori, sulla sua coscia destra e lui sembrò cadere in
trance, a occhi socchiusi, come qualcuno che ha appenaassunto delle droghe e non riesce più a
muovere un muscolo.
«Dio santo…» invocai con una mano davanti alla bocca.
Mi piegai su di lui con le braccia che non mi reggevano più e gli posai un
bacio sulla fronte di nuovo coperta di sudore. «Scusami, maledizione. Giuro che
non alzerò più un dito su di te, te lo giuro, io…»
«Mi hai… scopato maledettamente bene. Io… sono il ragazzo più felice del pianeta…»
disse, gli occhi che ora guardavano tutto tranne me e la testa che ciondolava.
Sembrava davvero aver assunto allucinogeni. «Ti amo tanto,» aggiunse poi, il
tono cantilenante, quindi sospirò e chiuse gli occhi, quasi volesse dormire lì,
accartocciato nella vasca.
Aspettai che tornasse un po’ in sé, che si rendesse conto che non poteva
mettersi a dormire là dentro, poi lo baciai sulle guance tese in un sorriso e
gli dissi che avrei riempito nuovamente la vasca di acqua, visto che eravamo
tornati ad essere sporchi. Lo aiutai a lavarsi, e lui aiutò me a strofinare la
schiena; gli lavai i capelli ancora umidi di pioggia grattandolo per bene sotto
le orecchie con lo shampoo alle more, e lui per tutto il tempo fece un rumore
con la bocca simile alle fusa dei gatti, e tenne gli occhi socchiusi e
sbadigliò sommessamente. Quella situazione aveva tutte le caratteristiche di un
sogno soffuso e odoroso e silenzioso.
Dopo il nostro secondo bagno, lo aiutai a uscire dalla vasca, ché rideva e
barcollava come un ubriaco, e gli avvolsi l’accappatoio sulle spalle, mentre
lui continuava a fare le fusa. Gli frizionai poi i capelli con un asciugamano
più piccolo e mi sembrò di star accudendo un figlio, o un malato, visto che
ridacchiava come uno poco sano di mente. Dopo avergli dato il phon e
raccomandato di asciugarsi per bene i capelli che, notai, non erano poi così
corti, andai in camera da letto a cambiarmi per la notte. Valerio accese il
phon dando il via al fastidioso rumore di quest’ultimo e del cavo che sbatteva
sul lavandino, e solo in quel momento mi resi conto che, diavolo, erano le tre
di notte passate. Dovevo davvero darmi una regolata e smetterla di andare a
dormire così tardi. Ma come facevo a dormire, come? Probabilmente non avrei
chiuso occhio, quella notte.
«Tutto bene?» chiesi al vuoto quando il rumore del phon s’interruppe. Non
ricevetti risposta, ma subito dopo Valerio entrò in camera mia zoppicando, in
canottiera e mutande, e si lasciò andare sul materasso coi capelli finalmente
asciutti e disordinati. Feci per alzarmi per andare ad asciugare i miei, di
capelli, ma quello svettò a sedere a dispetto dei dolori che provava un po’ in
tutto il corpo e mi riportò dov’ero tirandomi dal braccio. Mi girai a
chiedergli spiegazioni con lo sguardo, e lui mi sorrise raggiante appoggiandosi
col braccio sul materasso.
«Ti amo tantissimo,» mi disse senza alcun pudore, e io sentii di essermi
acceso, come più di una volta era successo, come una candelina. Si distese
supino senza smettere di sorridere ed allargò le braccia, aspettando che lo
abbracciassi e, probabilmente, lo riempissi di baci. Non potevo non
accontentarlo, non riuscivo ad ignorarlo, non ce la facevo. Così mi dimenticai
dei capelli ancora umidi, e finii per rotolarmi sul letto con Valerio, a
coccolarci come due quindicenni travolti dall’amore.
Restammo a parlare una mezz’ora del più e del meno, e stavo quasi per prendere
sonno quando quello, inaspettatamente, mi sussurrò sulle labbra che voleva
ancora fare l’amore. E quella era la terza volta in una sola notte. Pensai che,
davvero, non m’ero mai sentito tanto spossato in vita mia.
Spossato e incredibilmente soddisfatto. E nella mia vita mai m’ero sentito
soddisfatto. C’era sempre qualcosa che mancava, che rovinava il tutto, che mi
lasciava l’amaro in bocca. Ma stavo tentando di accantonare la mia vita
condotta per inerzia. E Valerio mi stava dando una mano, no, un braccio, no,
tutto il corpo.
Respirava forte nel sonno, e la spalla nuda contro la guancia gli spingeva le
labbra in fuori. Le ciglia chiare tremavano appena e i capelli andavano per
conto loro. Restai sveglio un paio d’ore a guardarlo dormire.
---
Forse sono un po’ inutili i capitoli in
cui ci sono loro due e basta, no? XD Poi mi è sembrato poco scorrevole come
capitolo, ma lascio a voi il giudizio, che siete davvero in gamba <3 Grazie
di leggermi <3
Come avete notato, ho deciso di fare Valerio rumoroso. Perché tanto era
destinato ad esserlo sin dall’inizio XD
Spero che si senta l’amore forte che c’è tra i due…
vorrei farlo trasparire il più possibile. :)
Grazie ancora a chi recensisce, e un abbraccio speciale a Ceci, una cara amica
che ha voluto cimentarsi nella lettura di questa storia e che sembra le sia
piaciuta parecchio! <3
Fui in piedi
soltanto a mezzogiorno e mezza, e mi morsi le nocche per non essermi ricordato
di mettere la sveglia. Ma come avrei potuto anche solo buttare un pensiero alla
sveglia dopo il trambusto di quella notte. La luce forte che filtrava dalla
serranda si fermò proprio sui miei occhi, e non fece altro che illuminare tutti
i ricordi legati a circa otto ore prima. Quasi riuscivo a vedermelo, Valerio a
cavalcioni su di me che faceva su e giù col bacino, le gambe che tremavano e
che quando non riuscivano a reggerlo, lo lasciavano cadere sul mio sesso, che
gli si piantava in profondità facendolo urlare come un ossesso. Con premura,
gli avevo detto “Piano, fa’ piano”, poi avevo ribaltato le posizioni e mi ero
assicurato di poterlo far venire con spinte decisamente più controllate e
morbide. Non ci era voluto molto, e lui non s’era lamentato affatto della mia
decisione di dare un ritmo più pacato alle spinte, anzi; mi aveva confessato di
essersi sentito vicino a me più che mai, di aver proprio avuto la sensazione
che i nostri corpi si fossero incastrati e non potessero mai più separarsi, di
aver potuto guardarmi negli occhi nel momento in cui raggiungevo il limite e
implorarmi di venirgli dentro. Mi passai una mano sulla faccia quando mi ricordai
di aver ceduto alle sue preghiere. E mi sorrisi nella mano quando mi ritrovai
ad ammettere che era stato comunque meraviglioso. Mi girai a guardarlo,
lentamente, quasi avessi paura di non trovarlo più lì: e invece c’era, la
faccia quasi completamente immersa nel cuscino, la schiena scoperta a metà e
una gamba piegata verso il gomito, mentre l’altra stava stesa e diritta. Le
braccia erano avviluppate al cuscino, e i capelli erano una massa indefinita
che gli copriva quel poco di profilo che emergeva dal cuscino. Pensai che
avrebbe dovuto avere lezione di storia alle due, e probabilmente ero lì lì per svegliarlo, ma subito cambiai idea e andai a darmi
una sciacquata lasciandolo riposare. Ero un pessimo, pessimo insegnante. Non
avrei dovuto fargli saltare le lezioni. Ma allo stesso tempo non potevo
lasciare che se ne andasse in giro in quelle condizioni: se si riusciva a
mettere a sedere era già un miracolo.
Io avevo lezione alle sei di sera con i ragazzi del secondo anno, perciò non
sarei stato costretto a spiegare con la sensazione di avere puntati sulla
schiena gli occhi di quella faccia di bronzo che m’aveva sputtanato davanti a
tutti. Pensai che era successa la stessa cosa a un altro mio collega, solo
senza sputtanamento: lui frequentava una ragazza sua studentessa, e si era
venuto a sapere. I due si erano poi lasciati perdere, e la faccenda era
diventata una storiella a cui pochi ancora credevano. Mi chiesi cosa sarebbe
successo se invece i due amanti non si fossero lasciati. Trascorsi quelle ore
lì a pensare in silenzio a quella possibilità, anche se di tanto in tanto
tornavano flash di quella notte e arrossivo convulsamente oppure mi mangiavo le
mani perché m’ero reso conto che non ero riuscito a resistere, e avevo lasciato
che le passioni travolgessero la ragione.
Mentre mi cucinavo un po’ di pasta col tonno, decisi di accendere la
televisione per dare un po’ di rumore ai pensieri. Rinunciai a svegliare
Valerio per la seconda volta e mi decisi a mettergli da parte un bel piatto di
pasta per quando si sarebbe alzato. E, se proprio non riusciva ad alzarsi,
gliel’avrei portata in camera, raccomandandogli di non sporcare il letto.
Sentii il rumore leggermente cigolante delle molle del letto verso le tre del
pomeriggio. Dalla cucina lo intravidi mentre sgusciava in bagno dondolando a
destra e a sinistra, come un robot mal funzionante, sbadigliando e con una mano
incastrata nei capelli improponibili, ancora tutto nudo. Distolsi
immediatamente lo sguardo e continuai a fare quello che stavo facendo – pulire
la cucina, cosa che da quando era arrivato Valerio facevo con più voglia -. Con
la coda dell’occhio lo vidi attraversare nuovamente il corridoio camminando
come un menomato e andare verso la camera che occupava lui di solito. Di solito, perché sembrava essersi
trasferito nella mia ormai. Gli mollai il piatto sul tavolo insieme a posate e
bicchiere e mi rifugiai in balcone, nonostante il freddo bestiale. Che diavolo
facevo, mi nascondevo? Come un bambino intimidito dalla bambina che gli piace?
Aprii l’armadietto in ferro e ficcai la testa all’interno, magari avrei fatto
finta di cercare un vasetto di sottaceti. Ma poi sentii aprire la porta e,
«Buongiorno,» disse quello piuttosto allegramente facendo capolino sul balcone.
«Grazie per la pasta, la mangio subito,» e richiuse la porta, facendomi sentire
come un cretino. Ero rimasto immobilizzato ad ascoltarlo, ma non a causa del
freddo. Dovevo reagire a quel modo ancora per molto? Alla fine mi decisi ad
entrare con un vasetto vuoto in mano che non mi sarebbe servito assolutamente a
nulla, e lui era accanto al forno, in piedi, vestito con una tuta larga, a
mangiare la pasta col piatto in equilibrio su una mano, e io avevo idea del
perché non si stesse sedendo. Guardandolo mentre si sporcava le labbra con gli
spaghetti, mi venne solo da dirgli:
«Dormito bene?»
Ero patetico, lo ero davvero.
Lui alzò lo sguardo e annuì mentre risucchiava uno spaghetto e si sporcava
ulteriormente.
«Sono solo un po’ acciaccato,» fece poi senza un filo di vergogna, e s’appoggiò
con la schiena al forno continuando a mangiare. Feci un risolino imbarazzato e
che mi faceva sembrare del tutto scemo e mi sedetti a mangiare un mandarino,
sperando che l’imbarazzo del “giorno dopo il misfatto” sparisse in fretta. Ed
ero quasi riuscito a rilassarmi, quando suonò il campanello, distraendomi da
Valerio che mangiava la banana. Forse fu un bene che suonarono alla porta.
Quando andai ad aprire, trovai sulla soglia la mia vicina di casa, quella del
prezzemolo, e io subito misi le mani avanti.
«Mi dispiace molto, ma al momento sono a secco di prezzemolo. Dovrei andare a
comprarlo,» dissi, contutta la
gentilezza possibile, anche se pure un bambino si sarebbe accorto del mio finto
dispiacere. Ma lei disse “No, no!”, e mi allungò una confezione di tortellini.
«Volevo ringraziarla per tutte le volte che mi ha prestato il basilico. Tenga,
me li ha inviati mia sorella dalla Calabria,» disse, con un tono fin troppo
morbido, e mi allungò i tortellini con un sorriso furbo. Un attimo a disagio,
accettai i tortellini dopo un paio di “Ma non ce n’era bisogno” falsissimi, e
solo a quel punto mi resi conto che Valerio mi aveva raggiunto e agitava la
mano verso la signora in segno di saluto. Aveva ancora quella dannata banana in
mano, ma quanto ci metteva a finirla?
«La vedo meglio, sa?» mi chiese retoricamente la donna, le mani unite sul
grembiule vecchio, e io la ringraziai goffamente. «Sarà merito di sua moglie,»
aggiunse poi, il tono di una che la sapeva lunga. Corrucciai le sopracciglia in
un’espressione confusa.
«Mia… moglie?»
«Sì… Non siete tornati insieme?» mi chiese, la mano
sotto il mento, quasi si fosse accorta di essere nel posto sbagliato al momento
sbagliato.
«Chi le ha detto questa stupidaggine?» domandai tentando di non sbottare.
Valerio accanto a me ma a debita distanza ingoiò un pezzo di frutta,
particolarmente preso dalla nostra conversazione.
«No, è che… l’ho dedotto dai, insomma…
dai rumori di stanotte…» guardò altrove, imbarazzata
ma poi non così tanto. «Tutto quel baccano mi ha svegliata,» e rise come
un’idiota, mentre io ero diventato un pezzo di ghiaccio e Valerio s’era
bloccato pietrificato con la bocca semiaperta sulla banana. «Ma magari avevi la
televisione accesa, voglio dire, non sono sicura che…»
si stritolava le mani, convinta di aver fatto una pessima figura, e lo stesso continuava
a ridacchiare, pensando forse che in quel modo sarebbe riuscita a
sdrammatizzare. Io me ne stavo ancora con la mano sulla porta e l’altra a
reggere i tortellini, la bocca spalancata, lo sguardo fisso, senza la più
pallida idea di cosa dire o cosa fare. Che vergogna allucinante. Forse per
evitare qualunque tipo di conversazione, le avrei sbattuto la porta in faccia
facendo finta di nulla. Non era una cattiva idea. Ma proprio nel momento in cui
stavo per prendere una decisione, Valerio mi si affiancò nascondendosi la
banana dietro la schiena, quasi potesse essere un indizio che riconduceva al
tipo di relazione che vigevatra noi
due.
«Ha ragione lei, signora,» disse zompettandomi
accanto, cercando di sembrare naturale. «E’ colpa mia, mi scusi. Mi sono
addormentato con la tv ad alto volume stanotte, e effettivamente, quando mi
sono svegliato, stava andando in onda un film non adatto ai minori. E come
temevo, l’ho svegliata. Mi dispiace,» disse, con tono umile e pentito, e
abbassò il capo davanti alla vicina, che si mise una mano sul cuore, colpita da
tanta cortesia e umiltà. Tirai un sospiro di sollievo senza farmi notare, e
Valerio mi guardò con la coda dell’occhio in modo furbo, ben conscio di avermi
salvato in extremis. La vicina si scusò a sua volta di essere stata indiscreta
e disse che da quel momento in poi avrebbe imparato a farsi gli affari suoi,
anche se lo trovavo praticamente impossibile.
Quando richiusi la porta, feci un grande e rumoroso sospiro di sollievo, mentre
quello scoppiò a ridere e non fu più in grado di finire la sua banana a causa
delle troppe risate.
«C’è mancato poco,» disse, poi mi mise una mano sulla spalla – al che,
probabilmente sobbalzai – e si fece vicino al mio orecchio. «Anche se sarei
stato curioso di vedere la sua faccia se le avessimo detto che gli artefici di
quel baccano siamo stati io e te,» e mi puntò sul petto l’indice della mano che
reggeva la banana. Mi vennero i sudori freddi, perché non era possibile che
quello, sfondato com’era, stesse ancora tentando di stuzzicarmi a dovere. Ma
poi non fece altro che abbracciarmi e schiacciare la guancia contro il mio
petto, ringraziandomi per quanto era successo quella notte. Io mi limitai ad
accarezzargli il capo, e quello lo sollevò riflettendo così la luce dei suoi
occhi nei miei.
«Te ne sei pentito?» mi chiese, quell’espressione speranzosa di una risposta
negativa. Mi sciolsi davanti a quegli occhi, e mi resi conto di essere diventato
un vero e proprio pappamolle. Ormai sembrava che vivessi in funzione di
Valerio. Infatti,
«No,» gli dissi baciandolo sulla fronte. «Lo rifarei,» aggiunsi, sottolineando
il fatto che non mi fossi pentito, anzi, che m’era andato parecchio a genio.
«Adesso?» fece lui, quasi implorante, e sembrava un cagnolino scodinzolante. Lo
guardai sorpreso e in parte divertito.
«Ma non ti reggi in piedi,» gli dissi con calma, quella mia voce ormai
diventata come miele, le mani che lo cercavano sempre e che adesso gli
carezzavano il viso.
«Mica dobbiamo farlo in piedi…» mi fece notare per
poi strusciare il naso contro il mio collo, e solo in quel momento mi resi
conto che eravamo nell’entrata, proprio come la sera prima. Come se tutto
stesse per ripetersi.
«No, amore, devo andare a lavoro, lo sai,» dissi molto sapientemente e,
stranamente, riuscii a liberarmi senza difficoltà dal suo abbraccio. Forse
perché era rimasto imbambolato a guardarmi, come se avesse la testa tra le
nuvole o avesse assunto allucinogeni.
«Come mi hai chiamato?» chiese mentre mi guardava allontanarmi.
«Come… come ti ho chiamato?» ripetei, io stesso
dimentico di ciò che avevo appena detto. Lui mi guardò come si guarda una
magnifica opera d’arte e sorrise sospirando.
«Vai a prepararti. Ti faccio il caffè,» disse alla fine, poi si strinse nelle
spalle e se ne andò in cucina col suo largo sorriso sulle labbra. Bah, i
giovani d’oggi.
---
Arrivai in facoltà con largo anticipo come spesso mi capitava di fare, e lì
all’entrata trovai il mio collega di glottologia a fumare accanto al
posacenere. Era il famoso docente che si diceva avesse avuto una scappatella
con una sua studentessa. Non potevo incontrarlo in momenti migliori. E io
volevo davvero entrare in facoltà fingendo di non averlo visto, così da non
doverci parlare e dare spiegazioni riguardo certe voci che erano iniziate a
circolare, ma quello mi diede una pacca sul braccio e,
«Non salutare mai, mi raccomando. Asociale del cazzo,» mi disse il buon Carlo Bonatti, papale papale, e senza
una parola in più mi allungò il proprio pacchetto di Merit
facendomi cenno di prendere una sigaretta e fumare con lui.
«Ho le mie,» dissi distrattamente, ma lui fece un altro cenno col capo.
«Prendila, te la offro,» mi esortò nuovamente, e quello sguardo non ammetteva
rifiuti. Sbuffai e sfilai una di quelle sigarette che avevano pure un brutto
sapore e lasciai che il mio collega me l’accendesse.
«Che hai oggi?» gli chiesi, visto il suo particolare scazzo nei miei confronti,
ma anche in quelli della sigaretta, visto che era arrivato a morderne il
filtro.
«Che cazzo dici? Io sono sempre così,» ribatté lui spostando il peso da un
piede all’altro, il capo sempre più privo di capelli che quasi rifletteva la
luce dei lampioni.
«E’ successo qualcosa?» domandai ancora, perché tanto non me la dava a bere. Ed
ero sicuro che avrebbe tirato fuori la storia della mattina del giorno prima,
quando un insegnante a caso era stato sputtanato da un allievo e accusato di
avere un rapporto omosessuale con uno dei suoi studenti, per altro presente in
quella stessa aula. Ma quello si grattò la testa, sputò il fumo, dondolò sui
talloni e,
«Le solite perdite di tempo. Han fatto una piccola rissa qui davanti una
mezz’oretta fa, e io sono stato l’unico stronzo che è andato lì a dividerli. Mi
è arrivato un cazzotto sullo zigomo,» disse, e mi indicò lo zigomo in questione
facendomi notare quanto fosse gonfio rispetto all’altro.
«E non si per cosa si siano messi a litigare?» chiesi, la sigaretta a metà,
fumata controvoglia.
«Sapessi che cosa passa per la testa di certi coglioncelli!»
si grattò di nuovo la testa e si mise la mano nella tasca del cappotto beige
simile a un impermeabile da investigatore. Buttò il mozzicone di sigaretta,
rabbrividì leggermente nella sciarpa, poi tirò fuori un secondo bastoncino e se
lo accese. «Ne fumo un’altra, tanto ho lezione alle sei e mezza. Tu vai pure,
ti ho importunato abbastanza,» mi disse agitando la mano con la sigaretta. Io
feci la mia solita faccia perplessa – perché sì, Bonatti
era un altro di quei casi umani di cui tanto mi lamentavo – e schiacciai la
sigaretta ancora da finire nel posacenere, poi mi accinsi ad entrare, quando,
«E comunque benvenuto nel club, amico. Sempre che sia vera la storia che te la
fai con un ragazzino,» mi disse Bonatti nel momento
in cui oltrepassai la soglia, congelandomi sul posto. Tutti, lo sapevano già
tutti. Feci per rispondere ma, conoscendolo, quello non avrebbe creduto alle
mie parole, né a quelle di chiunque altro: si fidava solo di ciò che vedeva, e
non avrebbe dato alcun peso alle mie giustificazioni. Perciò evitai di
ribattere ed entrai nell’edificio allentandomi la sciarpa.
Percorsi la strada verso l’aula 34 con la netta sensazione di essere osservato
e deriso da studenti e bidelli, quando probabilmente era solo la mia fervida
immaginazione o le mie manie di persecuzione. Tentai di ignorare quella
bruttissima sensazione e, quando vidi appoggiata accanto alla porta dell’aula
immediatamente precedente una faccia che proprio non avrei voluto vedere in
quel momento, pensai che fosse un’allucinazione: Fabio Martone,
le braccia conserte e l’atteggiamento da duro, il giubbotto in pelle da
motociclista e un orecchino che non avevo mai notato brillargli all’orecchio.
Ma non era il solo particolare a decorargli la faccia: un livido violaceo
metteva in evidenza uno dei due zigomi, di loro per niente pronunciati, sul
labbro aveva del sangue incrostato e sulla guancia un paio di graffi. Guardava
altrove con aria concentrata, e quando s’accorse della mia presenza, seguì con
gli occhi la mia figura che gli passava davanti, poi disse:
«Può dire a Valerio che quel coglione non darà più problemi. Benché meno i suoi
amici idioti,» non slegò le braccia conserte e non si spostò dalla sua
posizione, ben conscio del fatto che mi sarei fermato una volta sentito il nome
di Valerio. Guardai il ragazzo in faccia, quel bel faccino adesso ridotto male.
«L’hai picchiato?» chiesi, la risposta che se ne stava davanti ai miei occhi.
Lui mi guardò con un’espressione da “Ma
che domanda è?”, e io mi sentii un povero cretino. «Non risolverai niente
con la viol-»
«Senta, stia buono, ok? E’ solo con la violenza che ho convinto quel buono a
nulla a farsi i cazzi suoi. Conosco solo questo modo per far rigare dritto le
persone,» mi interruppe alzando leggermente il mento e lasciandomi intravedere
un altro piccolo livido rosso lì sotto. «Ho provato a far rigare dritto anche
lei, professore, ma credo che Valerio l’abbia preferito a me.» slegò le braccia
e se le infilò nelle tasche della giacca in pelle nera. «Ha vinto lei, e non so
come abbia potuto fare. E’ un normalissimo, mediocre trentacinquenne col mal di
vivere, uno stipendio nella media e l’incapacità di tenersi una donna. Insomma,
il solito, patetico individuo che ti passa accanto e neanche te ne accorgi, per
quanto si uniforma alla massa. Così grigio, triste, senza personalità, senza
ambizione, pigro sino al midollo, con la disgustosa abitudine di dare una mano
a chi è in difficoltà, forse perché si sente in dovere di prendersi cura di
qualcuno, visto che di se stesso non lo fa. Zero forza di volontà, né troppo
alto né troppo basso, né troppo bello né troppo brutto, noiosa giacca, noiosa
cravatta, noiosa montatura di occhiali.» alzò le spalle, chiuse gli occhi e
sospirò scuotendo la testa. «Eppure Valerio è pazzo di lei, professore. Mi sono
preso una cura maniacale di lui in questi anni, e certo non mi fido a passare
questo compito a lei. Ma qualcosa mi dice che devo sforzarmi ed iniziare ad
accettare l’idea che Valerio possa preferire le sue braccia come rifugio,
rispetto alle mie. Mi converrà accettarlo, se non voglio che inizi ad odiarmi
per davvero,» mi puntò con lo sguardo severo, sicuramente non il tipo di
sguardo che uno studente rivolge al suo insegnante. «Ma sappia che la osservo
da lontano. E che non ho fatto tutto questo per favorire il vostro amore, ma
solo perché Vale era preoccupato, e non voglio che stia in pena per qualcosa,»
concluse, mi guardò per istanti che sembrarono interminabili, poi staccò la
schiena dal muro e prese a camminare nella direzione opposta alla mia, il volto
basso e gli occhi quasi chiusi, il livido che gli deformava la faccia e che da
quella prospettiva sembrava ancora più gonfio. Per tutto il suo discorso non
m’ero azzardato a intervenire, e nemmeno in quel momento mi permisi di dire
qualcosa, perché sapevo che aveva ragione. Avevo ancora i brividi dovuti alla
perfetta descrizione che il ragazzo aveva fatto di me, perché era riuscito a
descrivermi come neanche io era mai riuscito a fare. Mi chiesi se fossi davvero
così uguale alla gente. Mi chiesi per l’ennesima volta cosa Valerio avesse
trovato in me. Mi dissi che una persona patetica e inutile e spenta come me
avrebbe fatto meglio a uccidersi. Ma non avevo la voglia neanche di pensare a
un modo per farmi fuori. E ormai vivevo in funzione di Valerio, e finché quello
era vivo e mi amava, potevo pensare di avere qualcosa di importante nella mia
vita.
Ma le parole di Martone mi angosciarono ugualmente. E
sentii l’anima singhiozzare nel momento in cui oltrepassai la soglia dell’aula
34, per niente pronto a condurre una nuova lezione.
---
«Ti amo».
«Perché?»
«Come perché?»
«Che c’è da capire? Per quale motivo mi ami?»
Valerio si alzò sui gomiti e mi guardò come esasperato da quelle mie seghe
mentali. Si sollevò nonostante avesse ormai perso completamentele forze e mi baciò sul mento, poi strisciò
con la bocca sulle mie labbra e si fermò lì socchiudendo gli occhi.
«Beh, perché mi hai salvato da…»
«Andiamo, inventatene un’altra. Non esistono i colpi di fulmine,» lo interruppi
quando mi accorsi che stava tirando nuovamente fuori la storia della sua quasi-morte sotto il tram. Lui si appoggiò nuovamente sui
gomiti e mi guardò col sopracciglio alzato.
«Ma io credo nel destino,» disse, fermamente, come se potesse dimostrarne
l’esistenza in qualunque momento. Mi passò la mano sul braccio teso accanto
alla sua spalla e me l’accarezzò a lungo, mentre, probabilmente pensava a come
formulare la frase successiva. «Ero perso, e volevo essere salvato. Sei
arrivato tu, un tizio comune, con nessuna particolarità, uno che ne incontri a
bizzeffe per la strada, e mi hai salvato da morte certa. Ho voluto ringraziarti
come potevo, poi il destino ha fatto il suo corso. Ti ho conosciuto meglio, e ho
capito quanto tu fossi più perso di me. Allora ho pensato che fosse bene che ci
salvassimo insieme. Tu mi hai salvato la vita, letteralmente e non, e io spero
di aver risollevato un po’ la tua,» allungò la mano ad accarezzarmi la fronte
scostando allo stesso tempo un ciuffo di capelli. Lui aveva la faccia sudata,
lucida sotto di me, gli occhi che brillavano nella penombra come spilli, le
clavicole ben in evidenza, il petto che faceva su e giù velocemente adesso che
lo stavo contemplando, in tutta la sua scompostezza. «E poi…
posso dire una cosa?» chiese distogliendo un po’ lo sguardo, forse sentendosi
messo in soggezione dal mio, di sguardo, sin troppo insistente.
«Ormai, con tutto quello che m’hai detto…» dissi
tenendo la frase in sospeso, come per dirgli che poteva dirmi tutto quello che
voleva. Lui deglutì e buttò uno sguardo in basso, tra le mie gambe, per poi
risalire sino alla punta dei capelli.
«Potrai anche essere un uomo pigrissimo e senza forza di volontà, ma…» sorrise leggermente beffardo. «quando si tratta di
fare sesso ci dai dentro. Per quanto tu possa essere comune, fai un sesso fuori
dal comune, ecco».
Mi venne da sorridere, spontaneamente, perché era impossibile che quello
riuscisse a dire cose tanto spinte e sembrare impacciato allo stesso tempo.
«Voleva essere un complimento?» chiesi retoricamente.
«Certo che sì. Ti amerei solo per questo,» ammise con la risatina imbarazzata,
e io gli rivolsi uno sguardo eloquente, quasi di rimprovero. «Ma ovviamente ti
amo per tante altre cose,»
«Per esempio?»
«Taaante altre cose,» ripeté, e sapevo che evitava di
rispondermi perché non aveva idea di cosa dire. Mi amava e basta, e non capivo
come potesse farlo. Mi amava senza motivo. E’ come quando odi qualcuno senza
motivo. E’ impossibile, deve per forza averti fatto un torto.
Mi appese le mani al collo e mi trascinò con lui sul cuscino, accarezzandomi
piano la nuca e sorridendo tra sé. Poi lasciò che scivolassi al suo fianco e
lui si alzò su un gomito passandomi una mano sul pettorale e arricciando con un
dito i peli del petto. Mi coccolò per un tempo indeterminato, facendomi tornare
ragazzino, sussurrandomi di tanto in tanto ciò che gli piaceva di me.
«Sei gentile,» disse per prima cosa respirandomi sulla guancia. «Anche se non
con tutti,» sorrise, e il rumore del suo ghigno divertito rimaneva uno dei miei
suoni preferiti. Uno dei pochi che non mi infastidivano. «Sei buono,» continuò
con la faccia da ebete. «Anche di sapore!» mi diede un veloce bacio sulla
guancia e sospirò, seguito immediatamente da me. «Ti piace la stessa musica che
piace a me, svolgi il tuo lavoro egregiamente, sei colto, sei bello-»
«Non esageriamo,» lo interruppi subito, e quello mi poggiò la mano aperta sul
petto per calmarmi.
«Per me sei bello e questo è tutto».
«Smettila,» e arrossii seriamente come una femminuccia timida che riceve un
complimento dal più figo della città. Ero ridicolo e
patetico.
«E poi hai il cazzo gros-»
«VALERIO!» esclamai quasi avessi visto il diavolo. E in effetti un diavolo per
capello ce l’avevo. «Cerca di controllare quella tua spontaneità!» gli
raccomandai severamente mentre quello si tappava la bocca e mi chiedeva scusa
con gli occhi. Mi allontanai leggermente da lui accusandolo con lo sguardo, e
più quello si riavvicinava, più io mi scostavo per tenerlo lontano.
«Scusami! Ma pensavo che potessi permettermi le parolacce, adesso che lo
facciamo come cricet-»
«Basta, vado a dormire di là,» decisi a quel punto. Presi i boxer da terra e me
li infilai svelto, per poi scappare nella stanza accanto, con Valerio che si
sbracciava per cercare di trattenermi.
«Dai, per favore, non riesco più ad addormentarmi senza di te!» esclamò
rischiando di svegliare l’intero condominio, e sentii i suoi piedi picchiettare
sul pavimento dietro di me, che mi rifugiavo nella camera che occupava Valerio.
Mi buttai su quel letto rifatto in modo maniacale, e neanche riuscii a
nascondermi sotto le coperte, che Valerio era già lì in piedi accanto a me ad
aspettare che gli facessi spazio.
«Mettiti qualcosa addosso, maledizione!» sbottai quando notai la sua nudità nonostante
il buio.
«Mi stai meglio tu addosso di qualsiasi altro vestito».
«Ma che risposta è? Da dove l’hai presa, da facebook?»
sbuffai come un vecchio inviperito, e andai a schiacciarmi contro il muro, ovviamente
colpito al cuore dalla risposta impertinente del ragazzo. Glielo feci, il
posto, perché non potevo fare altrimenti. E probabilmente saremmo potuti
tornare nel letto grande, ma questo era più fresco, e ci teneva più stretti. Si
infilò sotto le lenzuola e si aggrappò alla mia schiena come un koala,
riempiendomi le spalle di bacetti. Morivo di felicità.
---
Ho
ricevuto la recensione più lunga della mia vita privatamente. Bellissima,
commovente, e contenente anche qualche perplessità. Desideravo davvero
rispondere, ma non sapevo in che modo spiegarmi…
Forse perché io stessa non ho capito i miei personaggi, si sono formati da soli
XD Spero comunque di aver chiarito leggermente le idee con questo nuovo
capitolo, con le parole di Fabio e di Valerio ;)
Il personaggio di Bonatti mi piace da morire! Sa dire
solo parolacce, è un figo e lo amo anche se non
comparirà più <3
Grazie a chi followa ancora questa storia, ovviamente
<3
La mia pagina facebook è nei capitoli precedenti XD
In facoltà continuarono a girare voci che di bocca in bocca diventavano sempre
più false e poco credibili – avevo sentito che qualcuno andava a dire in giro
che io avevo preso un mio alunno e l’avevo baciato davanti a tutti durante la lezione
-, ma col passare delle settimane la cosa scemò lentamente, e solo i più
pettegoli continuavano a parlarne. Inoltre, Valerio si premurò di precisare,
con una freddezza che non credevo potesse appartenergli, che quella mattina era
fuggito dall’aula perché aveva avuto un attacco improvviso di nausea dovuto
alle schifezze che aveva mangiato la sera prima, e non poteva mica vomitare sul
banco, quindi era scappato verso il bagno. Con borsa e cappotto, sì. Il tono
era comunque così serio che arrivò a convincere persino me, l’unico insieme a Martone che sapeva com’erano andate davvero le cose. Quel
ragazzo esercitava sulle persone un potere di persuasione allucinante senza
neanche sforzarsi più di tanto. Era un talento naturale. Come io avevo un
talento naturale per dare una mano ai poveri sfigati in difficoltà, lui ce
l’aveva per abbindolare la gente con scuse poco credibili. Magari era riuscito
a farmi cadere nella sua rete allo stesso modo. Sperai soltanto che lo facesse
inconsapevolmente.
Perché quel moccioso m’aveva catturato sul serio. E io non facevo neanche lo
sforzo di dimenarmi come un pesce in trappola. Anzi, ormai sembravo essere al
suo servizio, nonostante lui mi raccomandasse di starmene tranquillo a casa
dopo il lavoro: oltre a fargli da taxi ogni qualvolta avesse lezione con me – e
anche quando non era con me, a dirla tutta; m’alzavo a orari indicibili apposta
per non fargli prendere freddo -, adesso lo portavo anche in palestra a giorni
alterni, e andavo pure a prenderlo. Ovviamente lo accompagnavo anche in
ospedale, ma non mi azzardavo ad entrare nell’edificio, anche se Valerio
m’aveva detto che a lui stava più che bene se riusciva a condividere anche il
dolore per la sorte di suo fratello con me. Ma aveva capito a sue spese che gli
ospedali non mi piacevano tanto quanto i funerali, perciò finiva sempre per
entrare da solo. Stava dentro mezz’ora, poi si rinfilava in macchina, talvolta
lacrimando, talvolta sollevato dal fatto che Alessio non si fosse ancora del
tutto spento, anche se sapeva di non dover coltivare ancora delle speranze.
Ormai lo faceva solo più a dispetto del padre, che invece le aveva perse sin
dal primo mese di coma.
Bruno Castelli invece, nonostante continuasse a chiamare il figlio e a ricevere
risposte entusiaste, ebbe la brillante idea di venire a farmi una visita a
sorpresa, in un orario in cui era sicuro di aver trovato me da solo a casa.
Sapeva a memoria i giorni e gli orari in cui suo figlio andava a ballare, e
proprio una di quelle volte venne a premere il pulsante sul mio citofono con
fare incerto. Ma il destino – dannato destino in cui stavo iniziando a credere
a causa dei discorsi convinti di Valerio – volle che proprio quel pomeriggio il
mio coinquilino avesse deciso di saltare l’allenamento e “saltare” piuttosto
nel mio letto, col solito chiasso annesso. Gli avevo raccomandato in tutti i
modi di non saltare né lezioni né allenamenti, o non si sarebbe raccapezzato al
saggio di maggio, ma quello s’era discolpato dicendo che erano tre giorni che
non lo facevamo, causa stanchezza che riusciva a spegnere persino un fuoco come
lui, e quindi doveva approfittarne adesso che si sentiva bello in forma. E non
s’azzardava mai di chiedere a me se ne avessi voglia o meno? No, si limitava ad
impormelo con l’aiuto della sua potente persuasione e delle sue dolci carezze.
Andò a finire che misi da parte il mio istinto da paparino e mandai a quel
paese l’allenamento, e il saggio, e tutto il resto. Dopo averlo spogliato sul
divano, me l’ero trascinato in camera da letto e avevo portato a termine
l’opera. Il citofono squillò solo quando Valerio sgusciò dal letto rotolando a
terra, perché riteneva che facesse più fresco e che quindi fosse un toccasana
dopo quel tipo di sudata. Io pensavo solo che si sarebbe preso un accidente.
Convinto non si sa per quale motivo che fosse un qualche testimone di geova a quell’ora, risposi al citofono mentre mi infilavo
tranquillamente le mutande.
«Professor Ruggeri? Sono Bruno Castelli, mi dispiace disturbarla, io volevo solo…»
Tappai all’istante il ricevitore e feci un suono strozzato con la gola, poi
alzai gli occhi al cielo e sbattei un piede a terra, domandando al Santo Padre
se fosse possibile che quel tizio – non un tizio qualunque, ma il padre del mio
amante ventenne e che poteva avere pochi anni in più di me – dovesse venire a
farmi visita proprio in quel momento. Cercai di riacquistare la calma,
nonostante quell’altro mi stesse urlando dal pavimento della camera da letto un
insistente: “Chi era?”
«Salve, cosa desidera?» chiesi al citofono, i nervi a mille, quello in camera
che non aveva intenzione di stare zitto.
«Volevo scambiare due parole con lei, se possibil-»
«No, non è possibile. Voglio dire, è qualcosa riguardo suo figlio? Perché non
mi dà alcun tipo di fastidio, anzi… Voglio dire, non è affatto molesto, è educato e silenzioso… anche se non
sempre…
voglio dire,» e per quante volte avevo ripetuto “voglio dire”, ero sicuro che
non avesse inteso quello che volevo dire.
«Beh, sì, è riguardo mio figlio. Mi sono ormai convinto del fatto che non le
stia dando fastidio, ma avrei un favore enorme da chiederle…»
“Un altro?!” mi ritrovai a pensare, visto che alla fine mi ritrovavo in quella
situazione a causa delle sue stupide richieste. «…la
prego,» concluse con tono di voce lamentoso, e il solito buon samaritano che
era in me mi costrinse ad alzare il dito e dire:
«Se… le dispiace attendere un momento fuori dalla porta… Sa, sono appena uscito dalla doc-»
«Nessun problema, aspetterò!» mi anticipò, e a quel punto non potei fare altro
che schiacciare il dito sul pulsante per l’apertura del cancello. Sfrecciai in
camera da letto e trovai Valerio disteso a panciain giù sul pavimento mentre si reggeva sui
gomiti, le gambe sollevate e che si muovevano in modo alternato, come le
ragazzine dei film di serie B.
«C’è tuo padre,» dissi col fiato corto, come se quella mia conversazione al
citofono richiedesse ulteriori spiegazioni.
«Rompipalle. Rovina sempre i momenti migliori,» rispose quello, che non era
agitato nemmeno un’unghia di quanto lo ero io.
«Senti, fai… fai finta di non esserci. Ascolto cosa
ha da dirmi e tento di non portarla per le lunghe,» gli raccomandai a tono di
voce già basso, ché avevo paura che Bruno fosse già in piedi dietro la mia
porta. Valerio fece un cenno di assenso un po’ annoiato, senza però spostarsi
dalla sua posizione.
«Mio padre sa che sono gay, comunque,» disse tranquillamente mentre guardava
con aria annoiata i graffi sul parquet.
«Ah, sì?» domandai poco interessato mentre mi infilavo di fretta il primo paio
di pantaloni trovati sul bordo del letto e una maglia che possibilmente non
fosse girata al contrario.
«Quando s’è sposato per la terza volta, gliel’ho urlato in faccia, quasi mi
aspettassi che mi avrebbe cacciato di casa a calci. Ma in realtà ha fatto
l’opposto. Mi ha detto addirittura che avrei potuto invitare a casa i miei
fidanzati! Tutto pur di non farmi scappare».
«Non lo biasimo,» dissi velocemente mentre mi passavo una mano tra i capelli in
disordine. «Anche io farei di tutto pur di non farti scappare».
Lo sentii mentre tratteneva il respiro, probabilmente preso alla sprovvista
dalle mie parole, e vidi la sua ombra contro l’armadio cambiare forma e
dimensione nel momento in cui si sollevò dalla sua posizione e si sedette sui
propri polpacci. Nascose le mani in mezzo alle cosce e prese a guardarmi mentre
mi sistemavo i capelli davanti allo specchio, con una luce particolare negli
occhi, imbambolato sul mio profilo. Mi sentii chiaramente osservato, e allora
inclinai leggermente il capo ridacchiando nervosamente.
«Ci si affeziona facilmente a te,» dissi con una mano dietro la nuca, usando
quella frase come scusa per le parole sdolcinate di poco prima. Quindi feci per
uscire dalla stanza, più o meno pronto a incontrare il padre di Valerio, quando
quest’ultimo,
«An,» mi chiamò, ed era una settimana che andava avanti con quel soprannome,
dicendo che lo trovava più intimo e anche personale, perché mai nessuno si
sarebbe sognato di abbreviare il nome “Andrea” in quel modo. E quando mi
chiamava con quel nomignolo, mi sentivo roba sua, quasi fossi di sua proprietà
e nessun altro fosse autorizzato ad entrare nella mia bolla. Mi fermai sulla
soglia e voltai capo e spalle nella sua direzione, segno che ero lì, lo stavo
ascoltando. «Sai cosa ha intenzione di chiederti mio padre, vero?»
Distolsi lo sguardo e lo puntai altrove, un po’ sul pavimento, un po’
sull’armadio di fronte, un po’ al soffitto, poi annuii con un sospiro. Valerio
si aggrappò al comò accanto a lui e si mise in piedi con non poca fatica,
negando con la testa quando feci per aiutarlo. Arrivò sino a me e mi poggiò le
mani sulle spalle, l’espressione sofferente del cane che sta per essere
abbandonato in autostrada.
«Non gli permetterai di portarmi via, vero?» mi chiese supplichevole, mentre il
mio sguardo non riusciva a reggere il suo.
«Come faccio…» lasciai la frase in sospeso, e lui
capì bene che era un “Come faccio a non
permetterglielo?”
«Digli… digli che lo odio. Che qui sto molto meglio,
che non ho bisogno di lui,» mi intimò soffiandomi sul collo, in cerca di
contatto fisico. Gli avvolsi un braccio attorno alle spalle e negai deciso.
«Non dirò mai qualcosa che possa compromettere il rapporto che hai con la tua
famiglia. Soprattutto bugie,» gli dissi, tono di voce particolarmente
controllato, e una sua mano mi strinse la maglietta all’altezza del petto.
«E’ vero che qui sto molto meglio»
«Ma non è affatto vero che lo odi. O che non hai bisogno di lui. Se non ci
fosse lui a spedirti soldi ogni settimana, a quest’ora sarei a secco anche io.
Dovresti ringraziarlo per i sacrifici che fa per accontentarti»
«Vuoi dire che dovrei tornare a casa e farlo contento?» mi chiese allora, a
voce decisamente alta, le sopracciglia aggrottate e il viso alzato verso il
mio.
«Voglio dire…» e andai a premergli forte il pollice
sulle labbra socchiuse, pronte a parlare nuovamente. «Che dovrai parlarci tu
per convincerlo a farti restare. Lui vede che stai meglio adesso, al telefono
siete arrivati persino a scherzare, ti sente ridere e bene o male andate
d’accordo. Pensa che tu ti sia ripreso da quella…
chiamiamola “crisi adolescenziale”, e naturalmente crede che tu ormai non abbia
problemi a tornare a casa. Non ci sarebbe motivo di rimanere qui, non credi?»
cercai di farlo ragionare, e il modo in cui la razionalità prendeva nuovamente
il sopravvento una volta che scendevo dal letto, sapeva spingere ormai come un
macigno sul petto. Perché diavolo dovevo sempre usare la testa? Perché il
Signore m’aveva dotato di un cervello pensante? Perché continuavo a pensare a
ciò che era meglio per lui e mai a ciò che era meglio per me?
«Certo che c’è,» mi fece notare lui strattonandomi la maglietta, quasi stesse
convincendo il mio istinto a venire fuori e a parlare al posto del cervello.
«Sì, ovvio che c’è, ma per me e per te. Lui non immagina che-»
«Sarà bene dirglielo, allora,» e lo vidi aprire ulteriormente la porta con un
braccio e tentare di superarmi per raggiungere il salotto, così, in quelle
condizioni, nudo e sudato e sporco e che altro? Pensai stesse dando di matto,
quindi lo afferrai dal gomito e lo riportai dov’era.
«Non dire sciocchezze. Non la prenderà bene,» gli dissi con tono serio una
volta avutolo nuovamente davanti agli occhi.
«Ha preso bene la mia omosessualità»
«Non prenderà bene la notizia della tua relazione intima con un insegnante più
grande di quindici anni. Ti prego, è ancora faticoso per me prendere coscienza
di una situazione tanto surreale. Non complichiamo le cose trascinando in
questa follia anche tuo padre. D’accordo?» Avevo le mani sulle sue spalle
adesso, e mi piegavo per riagganciare il suo sguardo, visto che l’aveva fissato
al pavimento. Bruno Castelli suonò il campanello, segno che forse era anche
troppo che lo facevo aspettare. Ma era tutto inutile, con Valerio perdevo la
cognizione del tempo, la cognizione di me stesso. Allora il mio coinquilino fu
come riscosso, alzò il viso e mi rivolse un sorriso rassicurante. Come se fossi
sempre e solo io quello da rassicurare.
«Sì, va bene. Scusa l’egoismo» e si buttò ad occhi chiusi sul mio petto,
abbracciandomi. «Ma è frustrante essere felici e non poterlo urlare al mondo,»
aggiunse sospirando, e io gli posai un bacio sul capo.
«Se ti consola, lo urli di notte al condominio. Te ne saranno grati, immagino.
Soprattutto la nostra discreta vicina,» gli dissi, più scherzoso, e gli feci
l’occhiolino quando alzò il capo per guardarmi. Quel mio gesto sembrò calmarlo,
e quando andai ad aprire la porta per far entrare suo padre, tornò a
distendersi sul letto, con le orecchie tese ad ascoltare ogni nostra parola.
---
Non andò come avevo previsto.
Il timore che Valerio potesse davvero abbandonare la mia casa, la casa che
ormai consideravo nostra, mi spinse a parlare. Non volevo farlo, avrei mandato
a monte qualunque cosa: la fiducia dell’uomo che mi sedeva davanti, il suo
rapporto con il figlio, la possibilità che Bruno decidesse di lasciare Valerio
in casa mia ancora per un po’. Non so cosa mi prese, probabilmente non riuscivo
a pensare ad altro che al sorriso rassicurante e terribilmente forzato di
Valerio quando mi diceva che sì, avevo ragione, non potevamo mettere al
corrente suo padre di qualcosa di tanto… shockante.
Ma lui l’avrebbe voluto. E io l’avevo deluso dicendogli che no, non si poteva
fare, era forse impazzito?
Ero forse impazzito?
«Mi fa piacere che mio figlio non le abbia dato problemi»
«Perché avrebbe dovuto?»
«In realtà ero preoccupato che lui…insomma…» L’avevo spronato ad andare avanti, a sputare il
rospo, con un cenno del capo. «Portasse in casa sua qualcuno, insomma, con cui
intrattenersi,»
«Non sarebbe stato un problema,» avevo detto, le dita incrociate sul tavolo in
salotto, gli occhi fissi nei suoi quasi fossi completamente conscio dei miei
movimenti, delle mie parole, del mio tono di voce, quando in realtà ero guidato
da qualcos’altro, quell’istinto che Valerio poco prima aveva tentato di
strapparmi fuori stringendo con la mano la maglietta all’altezza del cuore.
Bruno mi aveva guardato sorpreso, quasi la mia gentilezza e disponibilità
adesso fossero esagerate. Chi altro avrebbe permesso che uno sconosciuto
portasse altri sconosciuti a casa propria?
«C’è… un’altra cosa che credo lei debba sapere,» mi
aveva detto allora, e sapevo già dove voleva arrivare. «Mio figlio è… dice di essere gay,» aveva buttato fuori con una certa
fatica, e io non mi ero sforzato di sembrare stupito. «Quindi non vorrei che…»
«Non sono preoccupato,» lo interruppi, le dita ben incastrate l’una nell’altra.
«Ma le ho appena detto che…»
«Suo figlio sta con me. Non c’è il pericolo che si porti qualcuno in casa»
buttai fuori, tutto d’un colpo, le mani unite a coprire metà della bocca, quasi
fossi cosciente della gravità della mia rivelazione, nonostante l’avessi
lasciata andare con tanta leggerezza. Gli occhi e le sopracciglia dell’uomo si
mossero in un’espressione confusa, poi concentrata nella formulazione di una
risposta che si potesse rifare alla mia precedente affermazione.
«Mi rendo conto che lei sappia come tutelare i propri studenti, e la ringrazio
e la stimo per questo, ma…»
«No, non mi sono spiegato bene,» lo interruppi subito, perché m’ero reso conto
che non stava seguendo il mio discorso, stava seguendo il suo binario senza
accorgersi che io l’avevo cambiatosin
dall’inizio della conversazione. Lui voleva arrivare a un punto, io a un altro.
Che poi era il suo esatto opposto. Quindi alzai la bottiglia marrone di Bicerin versandone un altro goccio nel suo e nel mio
bicchiere e sospirai. Odiavo ritrovarmi in situazioni del genere, ma in un
certo senso me l’ero voluta. Presi un sorso di liquore e poi mi misi ad
osservare le sfumature del liquido marroncino nel piccolo bicchiere decorato,
in religioso silenzio, improvvisamente indeciso sul da farsi, con Castelli che
mi guardava in attesa che mi spiegassi meglio. «Posso farle una richiesta io,
questa volta?» chiesi quindi, e lui ci mise un attimo ad annuire e a dire “Certo,
di cosa si tratta?”
«Vorrei che suo figlio rimanesse in casa mia,» dissi, quasi fossi a uno dei
miei ricevimenti dopo le lezioni.
«Ma non credo ci sia ancora bisogno della sua gentilezza, professore»
«Vorrei che convivesse con me,» insistetti a voce ferma, perché quell’uomo
sembrava cieco e sordo. Eravamo davvero su due binari diversi, lui non riusciva
a capire me e io non trovavo le parole giuste per esprimermi.
«Ma… è mio figlio, non il suo,» ribatté lui,
giustamente, ed ero pronto a formulare una frase più esplicita e che potesse
finalmente aprirgli gli occhi, quando lui quasi si affogò col Bicerin nel momento in cui vide qualcosa alle mie spalle. «Eri
qui?» domandò a voce rauca alla figura di Valerio, entrato nella stanza in quel
momento. Mi voltai di scatto, avevo una paura matta di ritrovarmelo nudo, ma
fortunatamente aveva avuto il buonsenso di mettersi addosso qualcosa, qualunque
cosa fosse. Gli puntai uno sguardo da “Che ci fai qui, ti avevo detto che avrei
risolto tutto io”, e lui mi rispose a voce alta alzando le spalle.
«Parlavate del mio destino, e così sono intervenuto,» disse semplicemente
appoggiandosi alla spalliera della mia sedia. Destino? Ma che problemi aveva
con quella parola, che la metteva sempre in mezzo a ogni discorso? «Mi
ricordate quanti anni ho?» ci chiese poi retoricamente, e io mi misi una mano
sulla fronte senza rispondere. Volevo rimanere con la faccia nascosta nella
mano finché non avesse detto tutta la verità, con quella lingua lunga e senza
peli che si ritrovava, con quei termini volgari e diretti che a volte si
lasciava scappare con me. Ma disse soltanto “Esatto, ne ho venti, quasi vent’uno”,
rispondendo in modo sbrigativo alla nostra domanda. «Quindi credo di essere in
grado di decidere dove stare». Sembrò aver concluso, braccia conserte e sguardo
risoluto, mentre io sbirciavo l’espressione di Bruno attraverso le dita sulla
mia faccia: aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani quasi si fosse reso
conto che, no, suo figlio non voleva neanche rivederlo, figuriamoci tornare a
casa. Poi però,
«Papà, io ti voglio bene. Te ne voglio davvero,» disse Valerio, e suo padre
tirò su il capo, preso alla sprovvista. «Ma voglio stare qui,» aggiunse, le
braccia ancora più strette al petto, i piedi nudi ben piantati sul pavimento,
quasi volessero mettere le radici.
«…Perché?» chiese Bruno, non riuscendo a darsi una
spiegazione, ed era così cieco e ingenuo che, davvero, mi faceva male il petto.
«Perché voglio stare con Andrea»
Ohi ohi, adesso avrebbe dovuto capirlo, visto che suo
figlio mi chiamava per nome e intanto appoggiava le sue mani enormi e bollenti
sulle mie spalle facendomi sussultare. Ma,
«Non capisco. Cosa ti dà lui che io non ti do?» disse invece, e io liberai la
faccia dalle mie dita, perché quella era una domanda a doppio taglio, e dovevo
tenermi pronto a fermare Valerio nel caso gli fosse saltato in testa di
rispondere a cuore aperto. Infatti,
«Beh, se vuoi che sia schietto, lui-»
«Non c’è bisogno che tu sia schietto!» lo fermai, in un attacco di energia
improvviso, quasi alzandomi per tappare la bocca del ragazzo. Bruno Castelli
guardava la scena con gli occhi che si incrociavano, e ancora non riusciva a
vedere, o più probabilmente non voleva.
Mentre Valerio tentava di non farsi colpire dalle mie braccia che si
divincolavano, provò ancora una volta ad essere più esplicito, ma non riuscì ad
arrivare neanche a metà frase che gli feci cenno dizittirsi. Presi un respiro profondo, con
Castelli che mi guardava con tanti di occhi, e pensai sul serio di avere a che
fare con un bambino. Poi dissi:
«Sono profondamente innamorato di suo figlio, signor Castelli,» la mia voce
sembrava strana persino alle mie orecchie, e gli occhi rimanevano quasi chiusi,
incapaci di guardare l’interlocutore. «Mi permetta di tenerlo con me. Non
potrei mai arrecargli alcun tipo di offesa, lo terrò come fosse fatto di vetro,
pagherò ogni sua spesa, soddisferò ogni sua richiesta. Mi rendo conto che è una
follia, e che io stesso devo ancora abituarmi a un pensiero che si scosta tanto
dalla vita di tutti i giorni, dalla normalità. Ma suo figlio è la sola persona
che sia mai riuscita a suscitare il mio interesse per la vita,» mi interruppi,
le mani adesso chiuse a pugno sulle gambe e lo sguardo basso, in attesa di
qualche pugno volante. Valerio stringeva piano le sue mani sulle mie spalle, e
pensai che quello non era proprio il momento di mostrare certi gesti affettuosi
al signor Castelli.
«…Ah,» si limitò a buttare fuori l’uomo, lasciando
intendere che in realtà aveva capito sin dall’inizio dov’è che volevo arrivare,
ma forse sperava di sbagliarsi. Portò una mano a grattarsi la nuca, e
giustamente non aveva voglia di guardarmi in faccia, né a me, né a suo figlio.
Semplicemente vagava con lo sguardo per il salotto, visibilmente a disagio, lo
sguardo sinceramente deluso. «Dovevo… aspettarmelo,»
disse dopo un po’, gli occhi fissi sulla bottiglia del Bicerin.
«Quel suo buon umore doveva avere per forza una causa. Adesso almeno so qual è».
Non s’azzardò a guardarci da quel momento in poi, e gli fui quasi grato. Perché
in ogni caso non sarei riuscito a sostenere il suo sguardo di padre ferito.
Dio, ero un mostro. C’era bisogno di dirglielo?
Sentii la presa di Valerio sulle mie spalle allentarsi e il suo respiro farsi
più sollevato e mi dissi che sì, c’era bisogno. Valerio desiderava che lo
facessi, e sentivo che avrei davvero fatto qualunque cosa per lui. Mi chiesi se
non fosse il primo passo verso il completo annullamento di sé. Rosaria mi aveva
detto una volta che quando uno s’innamora per davvero, mette nella relazione
tutto quello che ha, mette in gioco tutto se stesso pur di far star bene l’altro.
L’altro esiste e tu ti annulli, e sta bene così. Però se pure l’altro è
innamorato profondamente, anche lui preferisce annullarsi pur di far star bene
te. E così siete annullati entrambi, o state bene entrambi. Vivete tutt’e due
contando sull’esistenza dell’altro. Era un concetto difficile, adesso lo
capisco.
«Non posso contare sul tuo ritorno a casa, vero?» riprovò Bruno Castelli, gli
occhi puntati al pavimento, senza alcuna intenzione di alzarli verso suo
figlio. Quello scosse la testa lentamente, ma dato che il padre non lo stava
guardando, disse un “No” rauco, e Bruno sospirò, quasi si fosse sempre
aspettato una simile fine da parte del figlio minore. Aveva perso la moglie, il
figlio grande, e il piccolo aveva deciso di andarsene per le cattive strade,
per quanto lui avesse cercato di allontanarlo da altri tipi di pericoli, come
quel Fabio Martone. Probabilmente si sentì in colpa,
Bruno, per aver scelto proprio me come pseudo tutore di suo figlio. Era
riuscito a trovare proprio l’unico disadattato col male di vivere e facilmente
influenzabile. O forse doveva biasimare suo figlio, perché era sempre in grado
di affascinare chiunque, con quelle sue maniere tanto naturali ma dal grande
potere persuasivo. Sì, probabilmente era colpa di suo figlio. Ma non lo faceva
apposta ad essere tanto privo di difetti, non poteva mica prendersela con lui.
E poi era suo figlio. Lo amava più di sé stesso, e sempre l’avrebbe fatto. Si
portò una mano a stringere gli occhi, sembrava sul punto di piangere. Pensai
che si stesse sentendo terribilmente in colpa per quello che era successo, e
non ebbi il coraggio di dire nulla, perché Bruno era un adulto, aveva alcuni
anni in più di me, e io sapevo esattamente come potesse sentirsi, anche se non
avevo mai avuto un figlio. Il mondo degli adulti. Un adulto che ha passato la
vita a costruirsi le proprie condizioni e la propria normalità, vedrebbe la
relazione tra me e un adolescente come un abominio. Se poi questo adulto è il
padre dell’adolescente in questione…
«Mi perdoni,» mi venne da dire, e la stretta sulle mie spalle tornò a farsi più
salda. Lui continuò a grattarsi il collo e finalmente gettò una fugace occhiata
a suo figlio, ma fu talmente veloce che Valerio stesso non se ne accorse.
«Mio figlio vuole stare con lei, professore. Non posso fare nulla per
proibirglielo, anche se vorrei esserne in grado. L’unica mia speranza è che si
renda conto che una relazione del genere non può andare avanti per molto e che
torni di sua spontanea volontà. A dirmi che avevo ragione. Sarebbe un peccato
se però tornasse a casa ancora più a pezzi di prima. Non so se sa la storia
della nostra famiglia…»
Annuii consapevole, e lui si torse le mani senza mai guardarmi.
«Starà bene,» dissi, una mano che andò automaticamente sul cuore, in una sorta
di promessa. Bruno seguì con gli occhi quella mano, poi sospirò nuovamente e s’alzò
dalla sedia traballando, colpito dall’ennesima delusione.
«Sarai a casa almeno per le vacanze di Natale?» chiese prima di andarsene,
cappotto e sciarpa sotto il braccio, senza neanche voltarsi.
«Sì,» fece Valerio a voce alta e risoluta.
«Ti chiamo domani»
«Okay»
«Ogni giorno»
«Va bene»
Poi, nonostante mi fossi alzato per accompagnarlo alla porta, uscì prima che
potessi raggiungerlo, e lo sentii borbottare uno stanco “Ma cosa sto facendo? Lo lascio qui?”, dopodiché si chiuse la porta
alle spalle.
---
Ho cercato di rendere la reazione del padre di Valerio il più credibile
possibile. Non accetta una relazione per lui “anormale”, ma allo stesso tempo
non può fare nulla per impedirgli di frequentare Andrea. Mettendomi nei suoi
panni, mi sentirei impedita in questo modo, e non potrei fare altro che andarmene
sperando che mio figlio continui a stare bene.
Ho ricevuto un’altra recensione bellissima – la più lunga e dettagliata della
mia vita, di certo – ed ero a lezione mentre la leggevo: ero talmente felice
che mi sarei messa volentieri a piangere, ma ero proprio davanti al professore
e non mi sembrava il caso. Volevo dire a questa persona che ha tratteggiato i
miei personaggi in maniera impeccabile e che, anzi, li conosce molto meglio lei
di me. Volevo dire a questa persona che, come ha già capito, è stata una scelta
volontaria quella di non descrivere fisicamente Andrea. Il motivo “primordiale”,
diciamo, è perché la storia, essendo scritta in prima persona, non può
presentare un Andrea che si descrive da solo. O meglio, potrebbe, ma a me piace
poco. “Eccomi qui, un ordinario trentacinquenne, fortunatamente non ancora
stempiato, rughe d’espressione accanto alla bocca e vicino agli occhi, fisico
asciutto ma per niente tonico, ombra della barba sempre accennata…”,
è brutto. Mi sa di fan fiction di serie B XD
E poi, il secondo motivo, se non il più importante, è che volevo che ognuno si
facesse la propria immagine di Andrea. Volevo che il mio Andrea avesse un certo
volto, che l’Andrea della mia amica somigliasse a un certo attore, che l’Andrea
dell’altro mio lettore fosse l’opposto di come me l’immagino io, eccetera. Perché,
tanto, anche nel mio immaginario i due protagonisti hanno un volto un po’
confuso. Il resto dei personaggi ce li ho ben stampati in testa, ma Andrea e
Valerio sono così ricchi di sfumature che spesso cambiano anche aspetto. Andrea
per me è quello che tutti considerano un “normalissimo uomo, forse anche troppo
mediocre, chi proverebbe mai interesse per uno così?”, ma che a me attrarrebbe
come le mosche col miele. Sarebbe indifferente a tutti tranne che a me. Perché
la vita va così (?) e io per inerzia mi innamoro della gente random, ma di solito dura un paio di giorni <3
Quindi niente, spero di non avervi annoiato, that’sall, folks! E buon Natale!!!!!!!
«Seriamente?»
Giulio mi parlava da dietro il bancone, ché tanto ormai l’Olsen
sembrava roba sua. Serviva i drink al posto di Giusy, che s’era presa una
piccola pausa e adesso era seduta al tavolino e scherzava con Valerio, che
s’accontentava del suo solito Bacardi.
«L’hai fatta franca anche col padre?»
«Mmh,» gli risposi, spossato come sempre –anche di
più, visto che Valerio mi sottoponeva a sforzi fisici non indifferenti –, le
braccia incrociate sul bancone, la testa che ciondolava.
«E non sei contento?» mi chiese quello retoricamente mentre sorrideva a un
cliente appena entrato. O una cliente. Non capivo se era più uomo o donna.
«Dovrei essere contento di aver strappato via un figlio a suo padre?» feci io
col tono del vecchio caprone, e in effetti quello sbuffò sistemandosi gli
occhiali sul naso. Il ciuffo era tornato a pendergli da un lato, coprendogli sopracciglia
e metà occhio.
«Non gliel’hai mica sequestrato. E non te lo sei trascinato in Siberia. Col
tempo ci farà l’abitudine, vedrai,» mi assicurò quasi spazientito di quel mio
brontolare come una pentola di fagioli.
«L’abitudine del pensiero di suo figlio che va a letto col suo insegnante? Non
credo proprio».
«Ehi, quand’è che inizierai a viverti la tua, di vita? Sii egoista, una volta
tanto, e pensa a cos’è che vuoi tu,» mise nel lavandino due bicchieri, poi si
fermò con le mani sotto l’acqua corrente, quasi avesse avuto un’ illuminazione.
Chiuse di botto il rubinetto e alzò il capo con una luce sfavillante negli
occhi. «Aspetta, siete andati a letto?!» urlò eccitato, e Valerio e Giusy
dietro di noi alzarono lo sguardo nella nostra direzione.
«Abbassa la voce, Cristo!» gli intimai allarmato, ma quello non fece altro che
assumere un’espressione da fangirl assatanata.
«E com’è stato?! E’ lui il passivo, vero? Ovviamente. Quante volte l’avete
fatto? Solo sul letto o anche in posti strani? Fa rumori molesti o è
silenzioso? Usate il lubrificante, vero? Dovreste. Ve ne compro un po’? Ho dei
preservativi dietro, li volete? Non mi servono! Vado a prendertel-»
«La pianti?! Mi sembri una donnicciola in calore, sta’ buono!» gli intimai a denti
stretti afferrandolo dal colletto della maglia quando si girò per andare a
prendere i suoi dannati preservativi. «E comunque, non ti racconterei niente in
qualunque caso, mi sono ripromesso di tenere la bocca cucita con te,» aggiunsi
mentre quello si divincolava dalla mia presa.
«E perché mai?»
«Ah, perché, mi chiedi? Non sei stato tu a riferire al ragazzo tutto quello che
mi capitava di confidarti? Certo che sì, visto che mi sono permesso di dirlo
solo a te. Ero convinto che gli psicologi fossero costretti al segreto
professionale,»
«Non sei mica un mio cliente, belloccio. E poi l’ho fatto per il tuo bene.
Vedevo il ragazzo molto propenso a fare cose sporche con te, quindi ho voluto
solo spingerlo un po’, facendogli sapere che, in effetti, pure tu non aspettavi
altro. E sono così felice che di aver ottenuto l’effetto sperato!» esclamò con
le mani chiuse a pugno sotto il viso, dimostrandosi molto più checca di quello
che dava a vedere di solito. E io avrei voluto mollargli un pugno al volo.
«Quindi, se non fosse stato per te, a quest’ora non mi troverei in questa
situazione impossibile».
«Se non fosse stato per me, a quest’ora saresti a segarti nel sonno,» mi
rispose quello prontamente, con un ghigno divertito, e io pensavo che quella
non era proprio la faccia di uno psicologo, ma di uno psicopatico. Come gli
passava per la testa di dire certe cose a voce tanto alta?
Infatti ero tanto imbarazzato da non avere la forza di ribattere, e mi
schiacciai una mano sulla fronte mentre quello se la rideva. Quindi decisi che
non avrei più parlato con quell’infame e mi alzai per poi raggiungere Valerio e
Giusy, che avevano preso a ridere di gusto, quasi si stessero raccontando
aneddoti divertenti risalenti all’infanzia. Magari Giusy stava raccontando
aneddoti appartenenti alla mia infanzia, dato che eravamo cresciuti insieme.
Avevo sempre la coda di paglia.
«Di che parlate?» mi intromisi sedendomi sulla panca accanto a Valerio.
«Mi stava imitando i suoi professori del liceo,» mi spiegò Giusy in
quell’attimo di respiro tra una risata e l’altra, poi scoppiò di nuovo. «Non ce
n’è uno che fosse a posto! Ricordi i nostri?» mi chiese poi, e io mi accorsi
che, nonostante mi stessi sforzando di ricordare, non mi veniva in mente
neanche un nome. Lo trovai frustrante. Valerio, ovviamente, li ricordava alla
perfezione, le loro parole, le movenze, gli accenti, mentre io neanche una
faccia o un nome. Ci toglievamo parecchi anni, io e lui, maledizione.
«Non ricordi la Sangriolo? Quella grinzosa di
matematica. Dio, che vecchia cialtrona!»
Lei mi disse il nome, ma non riuscii a collegarci un volto. Ed ero talmente
frustrato che quasi stavo per colpirmi ripetutamente la testa con le nocche. In
quel momento Giulio chiamò a gran voce Giusy, che alzò il capo asciugandosi una
lacrima e continuando a ridacchiare.
«Come si fa la Capoeira?» le domandò da lontano, e
quella fece una faccia stranita.
«Cosa sarebbe la Capoeira?»
«Un drink, mi hanno chiesto-» poi però il cliente davanti a lui lo richiamò con
un gesto della mano e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. «Ah, no. Caipiroska,» si corresse grattandosi dietro l’orecchio.
Giusy si trascinò a malincuore al bancone, ché si stava divertendo davvero
troppo a chiacchierare. E io ebbi la netta sensazione che Giulio l’avesse fatto
apposta per lasciare me e Valerio soli. Come si può confondere la Caipiroska con la Capoeira? Un
occhiolino da parte di quell’infame confermò il mio sospetto.
«E voi di cosa parlavate?» mi chiese Valerio non appena Giusy si fu allontanata
di qualche metro.
«Bah. Di donne,» dissi la prima cazzata che mi passò per la testa, e lui fece
un singhiozzo a causa della risata improvvisa e trattenuta. A quanto pare il
pensiero di me e Giulio che parlavamo di donne era piuttosto buffo. E lo era,
in effetti.
«Aha,» disse, dandomela vinta per finta.
«E di calcio».
«Anche di sesso, magari».
«Esatto, come tutti gli uomini che si rispettino».
Lui scosse la testa e sorrise, poi finì di bere la seconda bottiglia di
Bacardi. Si guardò intorno col sorriso sulle labbra finché non intercettò una coppia
di ragazzi poco più grandi di lui che se ne stavano tranquillamente seduti
sulla panca a scambiarsi effusioni, senza portarle all’esagerazione. E lo
sguardo di Valerio si fece un po’ invidioso. Si lasciò anche andare a un
sospiro senza che se ne potesse accorgere. Sapevo che desiderava che lo
baciassi in pubblico, anche se come pubblico si considera un bar gay, glielo
leggevo in faccia. Era chiaro come il giorno che volesse con tutta l’anima che
gli afferrassi la mano quando ci ritrovavamo a camminare vicini, o che lo
baciassi prima di lasciarlo davanti alla palestra o che addirittura mi
avvicinassi a dargli un buffetto quando ci ritrovavamo fuori dall’università.
Sapeva bene che non potevamo spingerci a tanto, che già se in casa ci
comportavamo come una coppietta sposata era tanto, e quindi non ne proferiva
parola con me. Era un po’ invidioso delle coppie che potevano uscire allo
scoperto, e gli dispiaceva un po’ non condividere questa nostra cosa con il
resto della città. Già eravamo abbastanza sgamabili, visto che pure Giusy
adesso ne era a conoscenza. Quindi in teoria lì dentro non c’era nessuno da cui
nascondersi.
Feci scivolare la mia mano su quella sempre calda di Valerio che, preso alla
sprovvista, ebbe uno scatto leggero del braccio. Era troppo impegnato a
invidiare i due ragazzi nel tavolo accanto al nostro. Mi rivolse nuovamente
l’attenzione e mi sorrise rassicurante, muovendo leggermente le dita sotto la
mia mano, per farmi capire che c’era, ed era tutto per me. Gli passai più volte
il pollice sul dorso della mano, e non riuscii a darmi un freno quando mi
piegai su di lui a baciarlo dietro l’orecchio. Lo feci sorridere, probabilmente
per il solletico. Poi tornai su con le labbra, percorsi la sua guancia e
finalmente trovai la bocca. Ci stavamo davvero baciando in un luogo pubblico. Era
la seconda volta dopo quella sera in discoteca, ma questa volta avevo davvero
la sensazione che la gente ci stesse guardando. Non aprii gli occhi, non volevo
vederla, quella gente. Mi bastava sentire le labbra di Valerio tirate in un
sorriso premere piano sulle mie. Gli portai la mano libera sul collo e
approfondii il contatto, ben conscio del fatto che probabilmente Giulio stava
tirando urletti di gioia e Giusy ci guardava col capo
inclinato di lato, intenerita.
Uscimmo dall’Olsen all’una, salutammo Giusy e Giulio
muovendo una mano, mentre quelle libere erano strette in una morsa, che non si
sciolse neanche fuori dal locale. Andavamo verso i parcheggi con le mani
intrecciate, in silenzio, lui con un sorriso che partiva da un orecchio e
arrivava all’altro, io col cuore che non me lo sentivo per quanto andava di
fretta. Poi, una volta arrivati, aprii la macchina con un sonoro “bip”, ma prima di lasciarlo entrare, lo spinsi piano contro
la portiera e lui mi avvolse le braccia al collo con entusiasmo.
«Cos’hai oggi? Sei intraprendente,» mi fece notare mentre evitava apposta di
baciarmi e lasciava che strusciassi il naso contro il suo collo.
«Non sono io. Sei tu che mi spingi ad essere così,» non mi feci problemi a
dargli la colpa del mio comportamento, e lui sorrise ad occhi chiusi, con una
mano ferma sulla mia che era scesa sul suo fianco, quasi temesse che lo
spogliassi lì nel mezzo del parcheggio.
«Allora sono fiero di me, perché mi piaci un sacco quando prendi di queste
iniziative. Ti confesso che era da un po’ che volevo essere preso per mano o
baciato in pubbl-»
«Lo so, lo so. Non hai più segreti con me, ho imparato a leggerti come si fa
con un libro. E io amo leggere libri,» lo interruppi baciandogli piano il
collo, le mani che s’erano arrese al primo tentativo di infilarsi sotto la sua
maglietta e s’erano quindi arrestate sulla sua cintura, strattonando
leggermente ma senza andare oltre.
«Li leggi con passione,» notò lui, sempre più divertito dalla metafora del
libro.
«Diciamo che mi immergo completamente nella lettura»
«Che topo di biblioteca,» e me lo disse quasi fosse un complimento, ed ero
convinto che lo fosse. Lo baciai ancora un po’ dietro l’orecchio, beandomi del
suo profumo dolciastro, poi strisciai piano con le labbra sulla sua guancia e
finalmente lui mi permise di baciarlo. Fu un bacio semplice e asciutto, breve,
poi lui appoggiò la bocca sulla mia spalla e mi spinse ad abbracciarlo, il
calore che s’impossessava velocemente delle mie membra. Sospirò piano, forse
sperando che non lo sentissi, e a me venne da sospirare a mia volta, e
sembravamo una coppia di fottuti quattordicenni innamorati.
Poi un gruppo di cinque ragazze in gonna corta e tacchi alti e borsette
minuscole passarono accanto a noi prendendo a ridacchiare, sicuramente ubriache
a metà. Pensavano di essere silenziose, e invece facevano un casino assurdo.
“Ma sono due uomini?”, “Uno di sicuro, lo vedo bene ed è carinissimo”, “Sì,
sono due uomini!”, “E prima si stavano baciando?”, “Oddio, non ho mai visto due
uomini baciarsi!”, “Sono bellissimi!”
Io grugnii contro la spalla di Valerio, sperando che quelle cinque oche
alzassero il passo, mentre lui mi strinse più forte e,
«Dicono che siamo bellissimi,» mi sussurrò, il tono di voce appena udibile.
«Tu lo sei. Vedevano solo te da quella posizione. E magari con questo mio giubbottino sono sembrato quasi giovane» dissi subito, e
Valerio sbuffò leggermente, si allontanò senza sciogliersi dall’abbraccio e mi
rivolse uno sguardo di rimprovero.
«Ti ho già detto che sei bello» ribadì, quasi spazientito. Quante volte aveva
intenzione di dirmelo per farmelo finalmente credere?
«Lo sono per te. Tu lo sei per me e per tutto il mondo,» gli dissi passandogli il
pollice sotto le labbra. Lui ghignò.
«Cos’è, invidia?»
Io non risposi alla sua domanda, perché era ovvio che no, non era invidia.
Forse qualcosa che ci si avvicinava. No, di solito veniva spontaneo accostare i
due sentimenti, ma erano del tutto differenti. Stavo già iniziando a provare
gelosia nei confronti di tutto il mondo. Non gli dissi niente di tutto ciò,
ovviamente, delle mie idee da pazzo. Mi limitai a negare leggermente col capo e
a cingergli le spalle con un braccio.
«Non mi va l’idea che ti mettano tutti gli occhi addosso,» dissi alla fine,
guardando oltre la sua spalla, come se qualcuno in qualsiasi momento potesse
arrivare e portarmelo via. «Tutto qui»
«Vuoi dire che dovrei cercare di farmi schifare dalla gente?» chiese lui
divertito, ovviamente senza prendermi sul serio. Essere particolarmente
possessivo non faceva proprio parte del mio carattere.
«Come potresti riuscirci? Staresti bene anche con addosso un sacco di iuta,»
sdrammatizzai, e lui fece una smorfia. La mia gelosia non tardò a manifestarsi,
e il fatto che lui non le desse peso, o che non la notasse affatto, non mi
aiutava.
---
Adesso che andavo quasi sempre a prendere Valerio dalla palestra, notai che
quello si fermava sempre più spesso fuori dall’edificio a parlare con un tizio
dai capelli scuri e ricci fermati sulla testa da una vistosa fascia da tennis,
ogni volta di colore diverso. Si sorridevano in modo fin troppo affabile, e
vederli parlare così spigliatamente mi diede un senso di fastidio proprio
dietro la nuca, che mi spinse per due volte a suonare il clacson e a fare ai
due il segno con le dita di “Tagliate corto, ché ho ben altro da fare e non ho
voglia di stare tutto il giorno a vedervi scambiare battute affettuose mentre
io muoio di caldo e gelosia tanto da fumarmi tre sigarette in un quarto d’ora.
E datevi una cazzo di mossa!”, altro suono di clacson e Valerio finalmente si
ricordava che esistevo e mi raggiungeva in macchina dopo aver salutato il tizio
con un sorriso.
«Ma chi è quel tipo?» gli chiesi finalmente quando li vidi parlare per la
quinta volta. Prima non m’ero azzardato, perché non volevo fargli intendere di
essere geloso del primo essere vivente che gli rivolgeva la parola. Non volevo
mica diventare la brutta copia di Martone. No?
«Sì, scusa se ti ho fatto aspettare. E’ Massimo, un vecchio amico di mio
fratello. Ha iniziato a frequentare la palestra, così ci siamo incontrati dopo
tanto tempo. Io neanche l’avevo riconosciuto,» disse sorridendo di se stesso, e
tirò giù il piccolo pannello per ripararsi dal sole, piuttosto forte di quel
pomeriggio.
«E perché?» chiesi curioso, pronto a fumare la quarta sigaretta in venti
minuti.
«Ma perché… Me lo ricordavo diverso. Piuttosto in
carne e con la testa sempre rasata, invece adesso…»
«Adesso mi sembra piuttosto in forma,» lo precedetti, quasi frettoloso.
«Sì, e poi i capelli…»
«Diciamo che è un bel figo,» lo interruppi di nuovo,
i nervi a fior di pelle. Lui inclinò la testa di lato, adesso non più divertito
dal discorso.
«Ma che ti prende?»
«Niente, scusami,» risposi con gli occhi sulla strada, frettoloso più di prima.
Mi accesi quella sigaretta e lui tenne d’occhio i miei movimenti, forse
preoccupato dal fatto che stessi fumando così tanto. Si allungò e mi lasciò un
bacio sulla guancia ruvida di barba.
«Dimmelo, se c’è qualcosa che non va,» disse quindi, e io rilassai un attimo i
nervi, perché, davvero, me la stavo prendendo troppo. Diedi un buffetto a
Valerio e lo carezzai dietro il collo prima di mettere in moto.
---
Una di quelle sere fece capolino in cucina, il giubbotto blu abbottonato e la
borsa maschile che portava sempre con sé già a tracolla.
«An, io sto uscendo un paio d’ore,» mi avvisò con tono allegro.
«Dove vai di bello? Hai bisogno di un passaggio?» chiesi mentre mettevo i
piatti in lavastoviglie, che finalmente adesso funzionava.
«No, figurati, tre fermate di pullman e arrivo. Vado al bowling, mi ci ha
invitato Massimo»
Inutile dire che un bicchiere quasi mi scivolò dalle mani.
«Chi?!» domandai, il tono di voce stridulo.
«Massimo, l’amico di mio fratello. Non ho mai giocato a bowling, però,» disse
senza troppi problemi. Allungò la mano sul tavolo della cucina e prese un biscotto
alle gocce di cioccolato dalla biscottiera. «Oggi cerco di imparare, così
quando mi ci porterai tu, sarò in grado di batterti. Perché mi ci porterai,»
disse col suo solito tono persuasivo, e mi fece pure l’occhiolino. Come potevo
non lasciargli fare quello che voleva? E che diritto avevo io di non lasciarlo
uscire con chi gli pareva?
«Ah… certo. Okay, ma non tornare tardi,» feci, alla
stregua di una mammina premurosa. Comunque sia, non fui in grado di starmene
con le mani in mano. Appena uscì di casa, mollai piatti e tutto e, come un
automa, andai a cercare nella rubrica del telefono qualcuno che sarebbe stato
subito disposto ad uscire con me, e la scelta ricadde inevitabilmente su Gaia.
Andai a prenderla di fretta e furia, quasi stessi perdendo un treno, e con lei
in macchina mi diressi verso il bowling.
«Come mai questa voglia improvvisa di vedermi?» chiese la bionda appena poggiò
il suo regal sedere sul sedile. Notai che aveva
cambiato nuovamente taglio di capelli: adesso erano tutti corti e ricci,
ovviamente biondo platino.
«Volevo fare un giro,» dissi, molto vago. «E dirti che farmi credere che April fosse incinta è stata una scelta patetica,» aggiunsi,
adesso che mi veniva in mente qualcosa riguardante quella donna senza amor
proprio. A quelle mie parole, si fece piccola piccola
contro lo sportello.
«Ma…io… posso spiegarti?»
fece, neanche ci trovassimo in un film.
«Sì, spiegami dentro,» dissi brusco, lasciando che scendesse dalla macchina e
poi sbattendo forte lo sportello. Lei s’impressionò, ma non era mica a causa
sua che mi ritrovavo ad essere così assurdamente nervoso. Prima di Valerio,
qualunque cosa mi scivolava addosso e io riuscivo sempre a non preoccuparmene,
rimanendo nel mio stato di semi-incoscienza, lì fermo come un ameba, senza
reagire o avere picchi di emozione. Sì, mi innervosivo, ma tendevo a non
esternare mai nulla, a lasciare che il sopracciglio destro mi pulsasse, a desiderare
di evitare le scocciature e i casi umani. Forse per quel motivo Gaia adesso mi
guardava tanto intimorita: perché avevo sbattuto lo sportello, la seconda
sigaretta della serata che mi pendeva dalle labbra, le sopracciglia aggrottate
e la voce che vibrava. Probabilmente neanche mi riconosceva.
Mi seguì in silenzio mentre camminavo svelto verso l’entrata dell’edificio
tanto vecchio fuori quanto ultra moderno all’interno. Ero tanto di fretta che
stavo entrando con la sigaretta accesa, e il tizio sulla porta mi disse che,
ovviamente, dentro era vietato fumare. Sbuffai e lanciai la sigaretta che
neanche era a metà, poi mi infilai all’interno.
Iniziai subito a cercare Valerio con lo sguardo, e non mi ci volle molto prima
di trovarlo sulla pista da bowling, ad infilarsi le calze e le scarpe fatte
apposta per giocare. Si alzò barcollando e poi accettò la palla che gli stava
porgendo quel Massimo, palesemente divertito dai movimenti goffi di Valerio.
Feci cenno a Gaia di seguirmi, perché avevo intenzione di sedermi in un tavolo
in posizione strategica, in modo che io potessi vedere lui ma che lui non
potesse fare altrettanto. A che punto ero arrivato.
Prendemmo due birre, lei una piccola, io una media, alla spina. Ma che bello,
c’era anche il servizio bar.
Gaia si grattò il collo e iniziò a elencarmi i motivi del suo bluff di cui
ormai non mi importava più niente, mentre io intravedevo che i due “amici”
adesso si battevano amichevolmente il cinque dopo uno strike fortunato di
Valerio. Picchiettai nervosamente le dita sul tavolo e li adocchiai mentre si
abbracciavano con pacche sulle spalle per complimentarsi dopo un secondo
strike.
“Eh, no, così non va bene.” Mi ripetevo in testa, e fui tentato più volte di
alzarmi ed andare a dividere quei due.
«…E poi, perché mi piaci da fin troppo tempo!» la
voce di Gaia raggiungeva a fatica il mio orecchio sordo a tutto tranne che alle
risate di Valerio. Ero con la testa altrove, del tutto. Buttai ancora una volta
l’occhio al di là della spalla di Gaia: adesso Valerio si lamentava perché non
sapeva maneggiare quella palla troppo pesante, allora Massimo si offrì per
insegnargli come tenerla e come muoverla. Si mise dietro di lui e gli prese le
mani trascinandole nelle sue. Eh no, un contatto di quel genere era troppo. E’
ormai risaputo come vanno a finire situazioni del genere. Mi alzai di scatto
senza più voglia di nascondermi, preso da chissà quale coraggio, e raggiunsi i
ragazzi. Adesso che li guardavo da vicino, notai che quel Massimo se ne stava
del tutto appiccicato alla schiena di Valerio, maledizione. Furioso, presi il
ragazzo e le sue ridicole fasce per capelli e lo tirai all’indietro per
allontanarlo da Valerio. Quello, preso alla sprovvista, si lasciò trascinare da
me e finì per sbilanciarsi e cadere all’indietro, con le natiche al suolo.
Valerio barcollò e per poco non cadde a sua volta, si girò, la palla ancora
stretta al petto e spostò lo sguardo dall’amico a terra a me, in piedi accanto
a lui. Ci mise un po’ per rendersi conto che sì, ero Andrea, e mi trovavo lì,
non ero a casa a fare i piatti.
«Che ci fai qui?» chiese, giustamente, e ancora non aveva del tutto realizzato
quello che era successo. Vedeva soltanto l’amico col sedere a terra e io che
evitavo di guardarlo, probabilmente già pentito della cazzata che avevo appena
fatto. Non gli risposi, ma strinsi leggermente il pugno, gli occhi al
pavimento.
«Chi diavolo è lei? Cosa vuole?!» sbottò quel Massimo guardando nella mia
direzione, e io ancora non risposi, e distolsi lo sguardo dal pavimento per
puntarlo sulla gente che adesso prestava attenzione a noi.
«Andrea,» Valerio disse il mio nome per intero, e non lo faceva da settimane,
se non da mesi, e io finalmente mi degnai di puntare gli occhi su di lui.
Rimise la palla da bowling al suo posto e fece qualche passo in avanti. «Mi
vuoi spiegare che t’è preso? Mi stava solo mostrando…»
«So io cosa ti avrebbe mostrato prima di stanotte se non lo avessi fermato,»
sputai fuori, il cervello che non connetteva, ed era probabilmente la prima
volta che mi succedeva. Attorno a noi si era formato un gruppetto di persone,
preoccupate che potessi essere uno squilibrato che si diverte a buttare a terra
il primo ragazzo che si trova davanti. Gaia era quasi in piedi, e aveva una
mano davanti alla bocca, del tutto spaesata.
«Ma di che parli? Sei un pazzo,» fece quel Massimo rimettendosi in piedi senza
troppa fatica. Non mi curai di lui, e non permisi a Valerio di andare a
soccorrerlo perché gli afferrai saldamente il braccio, e in quel momento lui mi
guardò con profondo disappunto.
«Andiamo a casa,» gli intimai, ma quello teneva i piedi puntati al pavimento e
non mi dava la possibilità di smuoverlo. Strattonò il braccio, poi se lo
massaggiò e continuò a puntarmi il suo sguardo accusatorio.
«Vado a casa. Casa mia,» sottolineò
con voce ferma. Poi si girò verso i presenti scusandosi con un mezzo inchino
del capo. Fece lo stesso con Massimo, gli disse che gli dispiaceva, poi si cambiò
le scarpe con tutta calma, tra il silenzio generale, e scappò da me a passo
svelto senza ulteriori saluti. Incapace di muovermi perché pietrificato da quel
suo sguardo gelido, lo lasciai andare, e tornai in me quando il brusio
concitato della gente riprese a scorrere secondo la sua regolarità.
---
Oookay,
volevo dire che molto probabilmente il prossimo sarà l’ultimo capitolo! Anche
se 24 è un brutto numero… Magari scelgo di finire a
25, che è più carino, fa più figo XD
Avevo una mezza intenzione di tagliare la scenata di gelosia, ma mi son detta
che Andrea geloso dovevo per forza inserircelo. Certo, da come l’ho descritto,
sembra che quando è geloso si trasforma in Hulk, ma
non è così (ma dai?). E poi volevo dare una vocetta
insignificante in capitolo a Gaia, che me la sono lasciata indietro. Certo, non
ha parlato mai, ma è perché la odio, fondamentalmente. E’ un personaggio
abbastanza inutile. Si può arrivare a detestare i propri personaggi? Altroché.
Se amo Andrea, posso detestare Gaia. Simplebuteffective (?)
Massimo è un tizio random. Me lo immagino ad andare
in giro sempre vestito da tennista. Interamente. Calzini annessi. A volte ha
anche la racchetta. E lo so che sembra antipatico, ma in realtà non lo è. Cioè,
nella mia testa non lo è, è affabile e gentile, di certo non un pervertito come
crede Andrea. Ma si sa che con gli occhi dell’amore si vede la realtà distorta;
come se indossassi un paio di occhiali rossi e rosa: se chiudi l’occhio
sinistro vedi rosso e detesti il mondo, se chiudi l’occhio destro vedi rosa e
unicorni e arcobaleni dappertutto. Quando l’uomo riuscirà finalmente a vedere
bene con entrambi gli occhi aperti, allora quello si chiamerà progresso.
Bene, è normale che a quest’ora dica boiate. E’ normale.
Lasciai la mia birra a metà,
mentre Gaia se la scolò tutta, turbata dalla scena a cui aveva appena
assistito. Pagai tutto io senza pensarci tanto: sembravo non esserne più in
grado, ormai. Andavo avanti seguendo l’istinto, ed era da quando avevo diciassette
anni che non seguivo l’istinto. Fortunatamente, dopo la dipartita non molto
allegra di Valerio, il mio istinto mi suggerì di calmare i bollenti spiriti.
Vidi che il Massimo, dopo essersi alzato da terra e spolverato borbottando
qualcosa di incomprensibile, cercò un numero in rubrica e si mise il cellulare
all’orecchio, aspettando che dall’altra parte qualcuno rispondesse. Non ci
volle molto per capire che stava tentando di mettersi in contatto con Valerio
per sapere che diavolo stava succedendo, visto che io sembravo uno poco
raccomandabile, piuttosto irascibile. Ma a quanto pareva, quello non rispondeva
o chiudeva la chiamata, e allora Massimo faceva una faccia spazientita e
stringeva il telefono in mano, pensando probabilmente a quanto fosse peggiorata
la sua giornata in pochi minuti. Stava andando tutto così bene, era persino
riuscito ad attaccarsi a mo di sanguisuga alla schiena di Valerio, gli avrebbe
fatto bere un paio di drink et voilà!, un bel
bocconcino da rivoltarsi a letto. Geniale. Bene, quel senso di civiltà che
ancora avevo nascosto in qualcheanfratto del cervello e che mi spingeva ad andare a chiedere scusa al
Massimo, mi abbandonò all’eco di quei miei pensieri. Quindi pagai le birre,
feci un cenno a Gaia, e quella mi seguì dal locale senza fiatare. Non si
azzardò a parlare neanche una volta in macchina, e riuscì ad essere così
silenziosa che quasi mi parve di essere da solo.
«Ho voluto cambiare, e guarda cosa sono diventato,» borbottai al nulla quando
mi fermai al semaforo, la fronte poggiata al volante, la voglia di farmi del
male. Sentii Gaia aprire la bocca per replicare, ma ebbe il buon senso di
richiuderla ed appoggiarsi sul sedile, lo sguardo perso fuori dal finestrino.
Pensai che avesse ormai capito che m’ero servito di lei, quella sera. Arrivammo
a casa sua, e lei mi chiese gentilmente se volessi salire. Il tono non era
malizioso come suo solito, piuttosto cauto, come si stesse offrendo
implicitamente di darmi una mano, di alleviare il mio malumore.
«No, non ce n’è bisogno,» le dissi con le mani strette sul volante, incazzato a
morte con me stesso e con le mie reazioni esagerate. «…Grazie
lo stesso,» mi sforzai di dire, ché un tantino in colpa mi sentivo, anche se
era di Gaia che stavamo parlando. La mollai davanti al suo condominio e, senza
aspettare che entrasse nel cancello, me ne andai di corsa a casa, sorpassando
un semaforo rosso e rischiando di mettere sotto un pedone. Ero davvero
pericoloso al volante con l’umore che mi ritrovavo.
Non chiamai Valerio una volta arrivato a casa. Sapevo che mi avrebbe chiuso la
chiamata o che avrebbe spento il telefono. E poi sarebbe stato meglio se fosse
stato lontano da me, se fosse tornato a casa e avesse detto al padre che aveva
ragione, la nostra cosa non sarebbe mai potuta durare. E in quel momento ero
tanto concentrato a darmi dello stupido, che avevo preso ad esagerare coi
pensieri negativi, a desiderare di non essere mai nato, a chiedermi perché un
essere inutile come me non si fosse fatto fuori ben prima. Era stata solo una
scenata di gelosia, nient’altro, ma il pensiero di aver messo le mani addosso a
qualcuno che non conoscevo per il sentimento infondato della gelosia non mi
dava pace. Mi sfilai la maglietta restando a petto nudo e mi sedetti sul letto
rifatto alla perfezione da Valerio quella mattina, poi mi accesi una sigaretta,
nonostante mi fossi ripromesso di non fumare in casa. Mi guardai le mani e mi
chiesi se sarei mai stato in grado di colpire Valerio in un attacco di gelosia.
No, assolutamente no, era impossibile che sarebbe mai successo. Mi stavo
preoccupando per niente. Non ero un tipo violento, non lo ero mai stato, non
avevo mai avuto scatti di rabbia, e la violenza mi faceva schifo, mi
disgustava. Tutto poteva essere risolto con le parole. Era quella la mia
filosofia, le parole hanno un potere enorme e sono un’arma a doppio taglio:
possono ferire più di coltelli e possono risanare più di cure mediche. Se vuoi
distruggere qualcuno, basta una manciata di parole, quelle giuste. La violenza
è inutile. Con un paio di parole dirette e dette senza riserbo puoi cancellare
completamente un rapporto costruito in anni di sacrifici. Così, come uno
schiocco di dita. E io ero ben cosciente del potere che esercitavano le parole:
ci avevo a che fare ogni giorno, le analizzavo, le comparavo, le ripetevo ad
alta voce, lentamente, sottolineando ai miei allievi il significato immenso che
poteva emanare un accostamento di lettere. C’erano i ‘Ti amo’
di Valerio, per esempio, che mi tenevano caldo per una giornata intera. Un Ti
amo che eguaglia cinquecento parole di Montale messe in poesia.
Il valore di una parola poi ti aiuta a comprendere quand’è che puoi ometterla.
Detto dai romantici, “quei momenti in cui le parole non servono”. Come quando
io e Valerio ce ne stavamo seduti nel parchetto dietro casa mia, con le mani
intrecciate, lui il capo sulla mia spalla e il silenzio più totale.
Ed ecco che di nuovo pensavo a lui. Sembrava che ogni momento poetico
riconducesse automaticamente a lui. Dio, ero senza speranze, ormai.
Mi schiacciai il palmo della mano sulla fronte, la rabbia e la paura di poter
diventare un mostro e quella di perdere per davvero Valerio che mi riempivano
gli occhi; ma non ero abbastanza forte per piangere. Mi alzai sentendo il corpo
dannatamente pesante e mi trascinai in salotto strascicando i piedi. Appesi la
sigaretta alle labbra e aprii il mobiletto degli alcolici, quello che aprivo
come minimo una volta alla settimana dopo cena o se avevo ospiti, quindi mai.
Mia sorella ne era ghiotta, era lei stessa a frugare in quel mobiletto quando
le capitava di rimanere appena più di due minuti in casa mia. Allungai il
braccio col rischio di far cadere le bottigliette in primo piano, ma me ne
incuriosiva una in fondo ancora chiusa. La tirai fuori e guardai senza troppo
interesse lo stampo di un albero in fiore, scorsi con lo sguardo la scritta
incomprensibile sotto lo stampo – era cinese, o giapponese, insomma, una di
quelle lingue coi disegni -, poi stappai la bottiglia e annusai. Prugna. Quella
roba era alla prugna. Mi facevano schifo le prugne. Mandai giù lo stesso,
percependo il liquido dal sapore non dissimile dal vino bianco lasciare una
scia calda al passaggio e depositarsi al sicuro nello stomaco. Non ne bevvi
molto, giusto il necessario per farmi smettere di pensare. Schiacciai la sigaretta
nel portacenere sul tavolo e rimisi la bottiglia dov’era. No, la lasciai sul
tavolo, perché la mano mi tremava. E non mi tremava perché avevo bevuto –
quella roba alla prugna non era così pesante -, ma perché avevo riconosciuto il
tintinnare del portachiavi di Valerio contro la porta. Mi dissi che era la mia
immaginazione e strascicai nuovamente i piedi in camera da letto per poi
sedermi sul materasso, nella stessa posizione di poco prima. Ignorai il rumore
della serratura che scattava, della porta che si apriva, della zip del
giubbotto e dei passi in corridoio, credendoli effetti dell’alcol. Come potessi
crederlo non lo so, dato che ero ancora ben sobrio. Valerio comparve in piedi
davanti a me, mentre si toglieva la tracolla e la appoggiava a terra, accanto
al comodino. Alzai gli occhi su di lui, e mi chiesi che cosa aspettasse a
parlare, a dire qualcosa, qualunque cosa, a insultarmi. Poteva schiaffeggiarmi,
comunicarmi in quel modo lo schifo che provava per me. Magari era tornato solo
per quello, per umiliarmi un po’. O magari non era tornato affatto e quella era
solo la proiezione delle mie speranze. Teneva lo sguardo leggermente indurito e
puntato al pavimento, e intanto si toglieva la polo a righe rimanendo in
canottiera. Si sedette sul materasso accanto a me, e la depressione che aveva
creato mi sembrava troppo vera perché potesse essere una mia immaginazione. Si
tolse con calma gli stivali e le calze, appallottolandole nelle scarpe. Si
sbottonò i jeans, se li sfilò piano e li abbandonò ai piedi del letto, poi si
strofinò il naso con un dito e disse:
«Vado a lavarmi,» prese dal cassetto un paio di mutande e fece per uscire.
«Perché sei qui?» riuscii a chiedergli, e la voce mi uscì terribilmente roca e
brutta e non sembrava neanche la mia.
«Perché ti amo?»
Un colpo al cuore, così forte che pensai di poter svenire da un momento
all’altro. Era una domanda, la sua, una domanda retorica, quasi a chiedermi
“Che domande mi fai?”. Quella sua spontaneità mi avrebbe ucciso, me lo sentivo.
Buttai la faccia nella mano e mi venne da singhiozzare, come se fossi ubriaco,
ma non lo ero. Probabilmente stavo già piangendo. E quando sentii il palmo
caldo di lacrime ebbi la mia conferma. Mi sentivo nudo, inerme, completamente
aperto a Valerio; non avevo mai pianto a quel modo davanti a qualcuno, e
sentivo che dovevo farlo in quel momento, di fronte a lui, nello stesso modo in
cui lui era scoppiato in lacrime quando parlava di sua madre e suo fratello. Io
lo avevo consolato, o almeno, avevo tentato di farlo. Adesso lui sembrava voler
consolare me. E di nuovo mi chiedevo per quale assurdo motivo non mi avesse
ancora lasciato andare. Io ero orrendo, fuori, dentro, facevo schifo. Lui era
perfetto. E adesso aveva posato la mano sulla mia testa piegata e scossa da
sussulti, quasi il più piccolo fossi io, quasi fossi io quello ad avere bisogno
di cure.
«Che ti avevo detto?» mi chiese poi affondando le dita nei miei capelli, in una
sorta di lenta e per niente rude carezza. «Che dovevi dirmelo, se c’era
qualcosa che non andava,» si rispose da solo, la voce morbida, e immaginai
anche il suo sguardo ammorbidito, le sopracciglia chiare arcuate dolcemente
sopra agli occhi, le pieghe sulla fronte che si distendevano, il respiro che
tornava regolare.
«Ero geloso,» mugugnai finalmente nella mano bagnata di lacrime, e lo immaginai
mentre annuiva leggermente.
«Lo so,» disse in un soffio, il tono più leggero. «Me n’ero accorto, ma non
volevo crederci. Era fin troppo bello che tu provassi gelosia per me,» ammise,
sbandierando nuovamente la sua umiltà ai quattro venti. «Ma non pensavo fino a
questo punto,» aggiunse poi, riportando l’attenzione su quello che avevo appena
fatto al bowling. «Avresti dovuto parlarmene»
«Lo so,» gli risposi consapevole, pentito come un bambino che aveva toccato il fuoco
e s’era bruciato nonostante gli fosse stato raccomandato di non farlo. «Faccio
schifo, mi dispiace. Non merito neanche di essere guardato da te,» continuai,
probabilmente peggiorando la situazione.
«Smettila, non fai schifo,» carezze più pesanti, tono adesso marcato.
«Sono patetico. La dignità che mi sono costruito in una vita è andata a farsi
fottere in una manciata di minuti,» dissi ancora, incapace di controllare il
fiume di parole che mi rivolgevo contro come stilettate, convinto di
meritarmele.
«Quale dignità? Vivere come tutti gli altri? Questa è la tua dignità?» mi
chiese, il tono decisamente più duro, ma con la voce che si rompeva ogni due
parole, quasi stesse per mettersi a piangere anche lui. «Non vivere affatto?»
racchiuse una ciocca di capelli in una sua mano e tirò leggermente, ma la mia
testa rimaneva bassa, rivolta al pavimento.
«Era così che vivevo la mia vita. Non facevo del male a nessuno, e di
conseguenza non stavo male neanche io,» borbottavo contro una mano, il polso
che tentava di asciugare al meglio le lacrime.
«Tu stavi male,» disse quello, sicuro di sé, e io, ancora preso da quella
vertigine provocata dal pianto improvviso e dal liquore alla prugna, scossi
piano la testa.
«Ero tranquillo,» mugugnai, senza neanche pensare a quello che dicevo.
«Piantala…»
«Ero chiuso nella mia quotidianità, e andava bene cos-»
«Piantala, ho detto!»
I miei occhi incollati dalle lacrime si spalancarono all’urlo rabbioso di
Valerio, e il capo si alzò di scatto quando lo sentii tirarmi i capelli verso
l’altro, in un tentativo di guardarmi negli occhi. Li trovai, quegli occhi, ed
erano lucidi, forse pronti a piangere, ma fissi nei miei, e non avevano
intenzione di scostarsi, di rivolgere gli occhi a qualunque altra parte del mio
corpo. Mi parlò dall’alto, tenendomi stretto dai capelli, costringendomi a
guardarlo in faccia, pronto ad urlare di nuovo nel caso avessi abbassato lo
sguardo. «Tu non vivevi affatto. Che cosa hai fatto per trentacinque anni, eh?
Cosa? Quando hai intenzione di riappropriarti della tua vita e di piantarla di
preoccuparti per quella degli altri? Hai vissuto nell’ombra della gente, nel
loro riflesso. Hai lasciato andare avanti la tua vita per inerzia badando a non
toccare le esistenze di coloro che ti stavano attorno, come se agli altri
davvero importasse di te, di come vivi tu! Da quant’è che non apri gli occhi?
Da quant’è che dormi? Non ti sei mai guardato intorno? Non hai mai fatto caso
al mondo egoista in cui viviamo? A ognuno importa di sé e sé soltanto. Perché
non dovresti farlo anche tu? Vivi per te stesso, vivi come vuoi tu, non come ti
è stato detto di fare,» prese fiato, continuò a fissarmi senza battere ciglio,
io che mi sentivo dentro a un film, e che avevo i brividi che mi correvano per
tutto il corpo. Soprattutto sul braccio destro, quello che Valerio mi aveva
inconsciamente afferrato mentre parlava. E allora diedi ascolto alle sue
parole. Le raccolsi tutte, una per una, dentro di me, e non erano le stilettate
che io stesso mi rivolgevo contro. Erano come tante piccole luci che andavano
ad illuminare il buio che avevo in me, ad illuminare la strada che dovevo, no,
volevo percorrere. Socchiusi gli occhi beandomi di quella sensazione
risanatrice, i segni appiccicosi delle lacrime che ancora s’avvertivano.
Riuscii a calmarmi, e così anche lui, e quando entrambi tornammo a respirare
regolarmente, lui si piegò davanti a me, sistemandomi i capelli scompigliati da
lui stesso dietro l’orecchio. «Andrea. Mi vuoi sì o no?» mi chiese quindi, le
dita che carezzavano il retro del padiglione auricolare.
«Sì».
«Allora qual è il problema? Non ce ne sono, problemi, sei tu che vuoi vederli,
o sono io, non lo so, so solo che in realtà è tutto molto più semplice di come
t’è sempre parso. Vuoi del caffè? Bevilo. Vuoi andare a ballare? Fallo. Vuoi
mangiare tailandese? Perché no, non ci metti nulla. Vuoi stare con me? Allora
stacci e basta. Metti da parte quel tuo male di vivere. Almeno quando stai con
me, o potrei pensare di esserne io la caus-»
«Non ci pensare neanche,» lo interruppi immediatamente, e lui alzò le
sopracciglia.
«Beh, meno male, almeno questo,» disse ironico, quasi pensasse di essere la
causa di qualche altro problema.
«Sei molto di più,» dissi per poi puntargli il petto con l’indice. «Qui dentro… qui dentro c’è la vita che io non ho mai avuto il
coraggio di vivere. Sei il tassello che mancava, quello che ha messo in moto la
mia esistenza. Non mi ero mai sentito tanto vivo, e questo mi ha spaventato,
perché sentimenti forti come la rabbia e la gelosia mi sono quasi sconosciuti.
Ma poi arrivi tu, con quei tuoi occhi trasparenti e spontanei, e mi sbatti in
faccia la realtà. Mi hai fatto sentire un idiota».
«Non era quella la mia intenzione, io-»
«Lo so,» gli accarezzai la guancia badando a far aderire bene la pelle del
palmo della mano alla sua, ancora fresca. Lo guardai languido, e lui si lasciò
andare alla mia carezza, ora rilassato, socchiudendo quei suoi occhi che non
erano mai stanchi di lottare, fino a chiuderli e a strusciare la guancia contro
la mia mano, come gli capitava di fare. «Ti amo,» gli dissi, senza neanche più
preoccuparmi di quanto sembrassi un dodicenne alla sua prima cotta o un’attrice
di qualche scadente telefilm argentino. Lui appoggiò la fronte contro la mia,
mi bisbigliò: “Abbiamo bisogno di altro?”, e io finalmente accennai un sorriso.
«No, va benissimo così,» asserii, e lui sorrise a sua volta per poi avvolgermi
in un abbraccio. Si mise seduto a cavalcioni su di me e prese a strusciare il
naso sul mio volto in silenzio, mentre io strisciavo la mano sulla sua coscia e
ascoltavo il suo respiro su di me. Gli accarezzai con calma il collo dietro
quei capelli sempre più lunghi quando iniziai a baciarlo, toccando più volte il
neo nascosto lì sotto. Sapevo che gli dava fastidio, ma non se ne lamentò
quella volta. Mi sentivo privato di un enorme peso, ero leggero come una piuma,
rinnovato, ma per davvero, convinto ancora una volta di come una manciata di
parole dirette e sincere possa dare una svolta a una vita ormai da buttare.
Quando Valerio avvertì la mia erezione spingergli sulla gamba e il mio respiro
farsi più affannoso nei baci, capì che avevo un bisogno impellente di
trascinarlo a letto con me e scaricare tutto il magone accumulatosi nello
stomaco stringendoci l’uno dentro l’altro. Allora lui si sollevò, disse “Aspetta,
vado a lavarmi e torno bello pulito”, ma io lo richiamai prima che potesse
uscire.
«Fa’ andare me,» mi alzai dal letto facendo scricchiolare qualche vertebra e lo
sorpassai, lasciandolo leggermente confuso. «Ne abbiamo ancora lubrificante?»
chiesi sulla soglia, e quello diventò paonazzo nel sentirmi parlare con tanta
leggerezza di un argomento simile.
«Sì, ce n’è ancora…»
«Va bene. Vuoi essere tu a condurre i giochi stanotte?»
Impallidì all’improvviso, assumendo un’espressione a dir poco terrorizzata.
«Co-co-co-co-co-» sembrò essere inceppato in una
parola, quasi avesse il singhiozzo, e in effetti la faccia era quella di
qualcuno che si stava affogando con la sua stessa saliva. «Co-come?»
riuscì finalmente a formulare. Mi chiesi se potesse esistere qualcosa di più
adorabile.
«Come si dice? I ruoli nel sesso. Attivo e passivo?» chiesi conferma, e quello
deglutì rumorosamente.
«Oh mio Dio,» mormorò incredulo.
«Ti andrebbe di fare l’at-»
«Non ne sono in grado, scusa,» si affrettò a dire, del tutto imbarazzato
dall’argomento, stringendo gli occhi e muovendo freneticamente le mani aperte
davanti alla faccia.
«Ti insegno. Tu insegni a me,» dissi, parlando come un ritardato o come un uomo
delle caverne.
«Lo dicevo che hai bevuto. L’ho sentito il sapore di alcol. Prugna, liquore di
prugna»
Gli feci segno di stare zitto e gli poggiai la mano sulla spalla parlandogli a
cuore aperto.
«Voglio concedermi a te. In tutto e per tutto. Voglio che tu capisca cosa sono
disposto a fare per ringraziarti»
«Ringraziarmi di cosa?» domandò nervosamente, e io alzai le spalle.
«Ti sembrerà banale e romantico, ma di avermi salvato la vita,» dissi, sincero
e schietto, e questa volta mi parve di vedere i brividi comparire sulle sue, di
braccia. Scosse la testa,
«Okay, adesso sei troppo diretto, dacci un taglio,» mi ordinò, e io non potei
fare altro che sorridere.
«Guarda che questa è la tua influenza. Sei contagioso,» ammisi passandogli il
pollice sulla guancia. Dopodiché mi decisi ad entrare in bagno e poi nella
doccia, così che potessi anche calmare un attimo il mio bisogno crescente sotto
l’acqua fresca.
«E’ per questo che vuoi fare il passivo?» mi gridò quello da fuori, e io pensai
al fatto che probabilmente la vicina stava sentendo ogni parola, e la cosa,
stranamente, mi divertiva.
«Ehi, non entrare nel panico, è solo per stanotte,» gli gridai di rimando, da
sotto la doccia.
Ma non ce la fece. Era nervoso, quasi stesse per entrare nell’aula per
sostenere l’esame di maturità. Solo che quella non era proprio un’aula, anche
se sempre di entrata si parlava. Gli tremavano le mani, le gambe, tremava
tutto, non riusciva a godersi l’atto, diceva di non esserne in grado, e che gli
dispiaceva. Non gliene feci una colpa, e gli dissi che tutto sarebbe venuto da
sé, col tempo. Ne avevamo un sacco, di tempo, davanti a noi. Gli promisi che un
giorno ce l’avrebbe fatta e che io ne sarei stato felicissimo. Lui mi credette e annuì, poi si rilassò, prese un lungo respiro,
disse: “Ora tocca un po’ a te”, e mi mollò il tubetto di lubrificante, buttandosi
a pancia in giù sul letto. Toccava a me, sì. E a dirla tutta, non vedevo l’ora
che toccasse a me.
---
«Mia mamma mi diceva: vivi per te stesso, vogliti
bene, pensa alla tua serenità. Poi troverai una persona che amerai con tutto il
tuo cuore, e allora deciderai di pensare alla sua, di serenità. E sarai felice
nel farlo,» mi raccontò Valerio nella stretta vasca da bagno, mentre giocava
con le mie dita e le osservava una per una.
«La sua persona speciale devi essere stato tu. Tu e tuo fratello,» gli dissi
con la bocca incollata ai suoi capelli.
«Immagino di sì. E’ normale per una madre,» mormorò, e io annuii piano contro
la sua nuca. «E tua madre?» mi chiese quindi, ed era una domanda legittima, e
che sinceramente mi aspettavo. Alzai le spalle e lo baciai sul collo e poi
dietro le orecchie.
«Non mi andava troppo a genio. Lei tradiva mio padre e non andava d’accordo con
nessuno dei due, figuriamoci con mia sorella, che era una di quelle
insopportabili adolescenti ribelli e menefreghiste. Quindi se n’è andata, ha
formato una nuova famiglia fuori. Non ci è mancata molto,» dissi
tranquillamente, e districai le dita da quelle di Valerio per poter prendere il
flacone di shampoo che avevo appoggiato poco prima accanto alla vasca.
«Mi spiace,» fece quello, rammaricato, e io scossi la testa nonostante mi desse
le spalle.
«Non devi. So che può suonarti strano, ma non mi importa molto di lei. Non la
vedo da anni. Ha fatto tutto mio padre, ci è bastato lui,» spremetti una noce
di shampoo al cocco – ormai compravo solo più quello perché era la fragranza
che più stava meglio addosso a Valerio – sul palmo della mano.
«Lui non c’è più»
«No, infatti, è morto qualche mese dopo il mio matrimonio con April,» confermai per poi trasferire lo shampoo sui capelli
per metà asciutti di Valerio. «Ma se n’è andato che era felice. Sua figlia le
aveva dato un nipote e io mi ero sposato con una donna di sani principi che lui
aveva approvato. Non nascondo che la mia voglia di sposarmi era stata scaturita
dal desiderio di vederlo felice, prima che passasse dall’altra parte,» ammisi,
ma non mi ci volle molto, perché era un’ammissione che avevo già fatto a me
stesso al funerale di mio padre. Vedevo mio padre felice ed ero felice anche
io, e neanche mi domandavo se la vita che stavo vivendo fosse la mia o quella
di qualcun altro, o se mi andasse a genio, almeno un po’.
«Era lui la tua persona speciale,» mi disse Valerio mentre gli massaggiavo i
capelli con la schiuma, e non era una domanda, sembrava essere certo della sua
affermazione.
«Beh, magari non nel senso in cui lo intendi tu, ma tenevo particolarmente alla
sua serenità. Con mia madre non stava bene, perciò, quando lei se ne andò, non
feci nulla per farla rimanere. Sapevo che mio padre sarebbe stato molto meglio
senza di lei,» lo massaggiai dietro le orecchie e sulla nuca, badando a
insaponare per bene ogni ciocca di capelli. «E infatti è andata così. Mia
sorella gli ha causato un po’ di problemi perché, come ti ho detto, era la
tipica adolescente ribelle e anticonformista. Stava fuori fino a tardi, si
vestiva come un’hippie, aveva un ragazzo diverso ogni due settimane, e mio
padre non riusciva a stargli dietro. Io invece ero un po’ il suo cocco: andavo
bene a scuola, frequentavo l’oratorio e andavo in chiesa ogni domenica. L’unico
mio vizio che non poteva sopportare era il fumo – iniziai a fumare a
quattordici anni -, ma non poteva farmi troppe prediche, perché lui fumava come
una ciminiera. E’ per questo motivo che sin da piccolo ho sempre saputo che a
mio padre sarebbe venuto un malore a causa del troppo fumo, o un cancro, o gli
si sarebbero sbriciolati i polmoni, o avrebbe dovuto farsi amputare una gamba a
causa dell’otturazione delle arterie. Dopo l’ennesimo tentativo di salvarlo
attraverso un’operazione chirurgica, ha deciso che non andava più bene vivere a
quel modo. Cadeva a pezzi. Poi i miei genitori ebbero me e mia sorella molto
tardi, quindi era già anziano,» spiegai, ormai abituato alla mancanza di mio
padre. Presi la cipolla della doccia e gliela azionai in testa, sciacquando per
bene ogni punto della testa.
«Quindi, dopotutto, non hai vissuto proprio tutta la vita per inerzia. C’era
qualcuno che desideravi rendere felice,» mi fece notare mentre si strofinava
gli occhi.
«Quello era il mio pensiero da adolescente. Poi il mio stile di vita è
diventato automatico, ed è quello che conosci tu. Certo, se c’era da prendere
una decisione, la prendevo tenendo conto dei desideri di mio padre. Patetico?»
«Per niente,» mi baciò la mano ancora insaponata e sputacchiò un po’ di schiuma
amara, provocandomi una risata spontanea. Allora torse il busto per potermi
baciare sulla bocca e farmi così smettere di ridacchiare. Si risistemò sotto
l’acqua e soffiò sulle poche bolle rimaste. «Com’era tuo padre?» chiese quindi,
affamato di notizie su di me.
«Pelato»
«Come il mio?» domandò divertito.
«No, era più ruvido, non rifletteva la luce come il tuo,» risi delle mie stesse
parole e quello mi seguì divertito. «E poi era bruttino. E’ stato sempre molto
magro e aveva le occhiaie – non perché gli mancasse il sonno, era proprio una
macchia della sua pelle, come una voglia. Mia sorella gli dava spesso del
becchino,» sorrisi, ed ebbi un leggero attacco di nostalgia.
«Quindi tu avrai preso da tua madre,» ne dedusse Valerio, e io mi piegai leggermente
a mordergli il lobo dell’orecchio.
«E’ bella, ma non ho preso da lei,» dissi ovviamente, e lui si aspettava una
risposta del genere, quindi non stette a ripetermi quanto io fossi bello e si
arrese subito muovendo in aria una mano e dicendo un paio di “Okay”.
«E tua madre?»
«Una massa di capelli ricci e biondi, lunghissimi, si faceva la treccia ed era
Raperonzolo. Non se li tagliava neanche per sistemare le doppie punte. Come se
in tutti quei ricci si potessero notare,» raccontò con naturalezza, e fui lieto
di non avvertire la voce incrinata dalla nostalgia. «Poi metteva un profumo
nauseabondo, ma almeno sapevi quand’è che ce l’avevi accanto. Aveva la brutta
abitudine di spiare nel cellulare mentre scrivevo messaggi. E metteva sempre un
rossetto quasi marrone,» disse passandosi lui stesso un dito sul labbro, quasi
a ricordare la consistenza della bocca di sua madre. «E mi raccontava di
continuo storielle inverosimili. Alcune terribili, su folletti malvagi che
rapivano bambini, e streghe che si tramutavano in serpenti o che diventavano
minuscole e ti si appoggiavano sul petto quando facevi brutti sogni. Non capivo
perché me le raccontasse! Me la facevo addosso, la notte!»
«Donna singolare,» commentai ridacchiando al pensiero di un mini Valerio che
allagava il letto.
«Poi ce n’erano altre più carine,» mi prese nuovamente la mano e fece un
cerchio immaginario attorno al mio dito mignolo. «Mi ha convinto sin da piccolo
che ognuno di noi ha un filo rosso ma invisibile appeso al mignolo, e che l’altro
capo appartiene alla tua anima gemella. Non per forza un amore, anche un’amicizia
indissolubile. Quella persona che porteresti con te dappertutto, che ti
comprende al volo e lo fa prima di tutti, quella che ti accetta e crede in te
in qualunque situazione,» avvicinò il mio mignolo al suo e poi segnò un nodo
immaginario anche al suo dito. «Patetico?»
«Per niente,» gli risposi, e strinsi con l’altra mano i nostri due mignoli fino
quasi a stritolarli. Pensai che quella storiella da quattro soldi mi aveva
riportato davanti agli occhi un flash, come un dejà vu, un ricordo lontano,
sbiadito, che non riuscivo a mettere a fuoco. Mi dissi che, se era davvero
importante, prima o poi me lo sarei ricordato, e mi concessi qualche altro
minuto di riposo contro il capo di Valerio. Almeno finché lui non mosse le
spalle risvegliandomi dal mio torpore.
«Usciamo? Ho le dita tutte raggrinzite»
Gli dissi che certo, avrei fatto scorrere l’acqua, e quello si alzò il piedi
per recuperare il proprio accappatoio. Da lì sotto avevo una perfetta visuale,
paradisiaca avrei osato dire, ma a malincuore mi alzai anche io e mi coprii con
un asciugamano blu. Valerio si strofinò i capelli con un asciugamano più
piccolo e intanto camminava verso il corridoio, dicendomi che mi avrebbe
aspettato a letto. Quelle sue parole, quelle frasi che solo una mogliettina
premurosa rivolgeva a suo marito, mi scuotevano tutto, mi tramutavano in un
brivido unico. Provai a immaginarmi Valerio in atteggiamenti da mogliettina, ma
non mi dovetti sforzare molto, visto che in realtà già l’avevo visto. Quando mi
faceva il caffè prima del lavoro, o quando mi aiutava a togliere la giacca dopo
il lavoro, o quando io tornavo da lavoro e lui era in palestra e mi mandava un
messaggio con scritto “Tutto bene a lavoro?”. O quando mi chiedeva se potessimo
cambiare il tappeto perché quello era un brutto colore, o quando ci
contendevamo il telecomando per vedere ognuno il nostro film preferito, o
quando lo trovavo a stirarmi le camicie, e ogni volta che se ne stava in cucina
davanti ai fornelli. Avrei sfidato chiunque a scovare un individuo perfetto
quanto lui.
Prima di tornare in camera, il sorriso che partiva da un orecchio e arrivava
all’altro, notai il mio riflesso nel grande specchio che avevo di lato e che si
stavalentamente spannando. Mi avvicinai
a contemplare il mio volto, quasi incredulo. Sembrava quasi fossi ringiovanito.
Probabilmente avevo solo sonno e mi apparivano immagini distorte, ma mi sembrò
di notare la pelle sulla fronte più distesa e la linea delle sopracciglia più
morbida. Mi passai un dito sulla radice del naso: quelle brutte rughe di
espressione dovute alle mie sopracciglia costantemente corrugate sembravano
svanite nel nulla. Sì, avevo decisamente sonno. O mi facevo suggestionare dalle
storielle di Valerio. O da Valerio stesso. Valerio ValerioValerio. Mi rimbombava nel cervello e nel petto.
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Scherzavo, non è l’ultimo capitolo! Mi è
stato proposto di allungare la storia perché ci sono parecchie faccende in
sospeso, ma io considererei questo capitolo come la svolta definitiva nella
vita di Andrea. Quindi dovrebbe concludersi tutto molto presto :) Che dite, vi
piace questo Andrea qui? Non è troppo rompiballe, va XD Transverberatio,
spero di aver inserito nel capitolo tutto quello che ti interessava sapere :)
Grazie a chi segue ancora questa storia e chi ha la forza di commentare XD Fencs!
Bonatti mi invitò a bere un goccio in un bar in
centro durante le vacanze di Natale, e il che mi stupì, visto che non è che io
e lui fossimo poi così amiconi. Lui non faceva che trattarmi a merda – si
comportava così con il mondo, in realtà – e io non facevo che ignorarlo o
dargli corda se proprio era in uno dei suoi giorni no. Quindi avevo accettato
titubante, e anche perché mi sentivo piuttosto solo, visto che Valerio, come
lui stesso aveva promesso al padre, era già partito per la Puglia, come faceva
ogni anno a Natale. Era solo il giorno prima della vigilia, e lui doveva
starsene lì sino al sei gennaio, perché a sua detta, suo padre ci teneva a
regalare le calze della befana piene di dolciumi ai suoi due nipotini. Io ero
solo in casa da tre giorni, e già mi stavo deprimendo. Mi guardai la mano prima
di entrare nel bar in cui mi aveva dato appuntamento il mio collega: sul
mignolo troneggiava un filo di lana rosso che Valerio aveva strappato dal suo
maglioncino poco prima di partire e che poi aveva legato stretto al dito, col
rischio di bloccarmi la circolazione. Poi aveva tagliato il suddetto filo e si
era legato l’altra metà al proprio mignolo. “Così ti ricordi che siamo connessi
anche se non ci sono. Guai a te se lo togli.” Mi aveva intimato, col cipiglio
divertito, ben conscio che una roba del genere non avrebbe fatto altro che
darmi fastidio, e che me la sarei tolta seduta stante. Ma a quanto pareva,
avevo davvero iniziato ad impazzire, visto che era tre giorni che mi lavavo le
mani senza la benché minima intenzione di tagliare via quel misero pezzo di
lana attorno al dito. E di nuovo, quel filo rosso mi ricordava qualcosa, ma non
riuscivo ancora a mettere bene a fuoco l’immagine stampata da qualche parte nel
mio cervello.
Sospirai ed entrai nel tiepido locale odoroso di cioccolata calda, e vidi Bonatti discutere col cameriere, anche in modo piuttosto
acceso. Mi dissi che avevo fatto malissimo ad andare incontro a una tale
scocciatura quale era Bonatti, e alzai gli occhi al
cielo, spinto a rimanere sul posto solo dalla vocetta
nella mia testa – che poi era quella di Valerio – che mi diceva di prendere in
mano la mia vita e di piantarla di vivere all’ombra degli altri. Bonatti si alzò dal tavolino tondo in cui era stravaccato,
disse “Va bene, va bene!” al giovane cameriere, poi mi prese dal braccio e mi
trascinò fuori con un “Sediamoci fuori, ché non mi fanno fumare dentro, ‘sti bastardi”. Neanche mise piede fuori che si accese la
sua benedetta sigaretta, e solo dopo si allacciò il cappotto e mi fece segno di
accomodarmi in un tavolino fuori. Ed eravamo gli unici seduti lì al gelo. Solo
per Bonatti e la sua dannata sigaretta. “Valerio,
dammi la forza”, mi ripetevo in testa, e mi sentivo anche piuttosto ritardato.
«A cosa devo questo invito?» chiesi dopo essermi rotto del silenzio disturbato
soltanto dagli sbuffi di fumo del mio collega.
«Ti vedevo strano e allora ti ho invitato,» rispose lui con nonchalance, le
gambe accavallate e la mano libera nascosta nelle cosce.
«Dove mi vedevi strano?» chiesi giustamente, visto che neanche mi ricordavo
l’ultima volta in cui l’avevo incrociato. Lui mi disse che gli ultimi giorni
prima delle vacanze natalizie entravo in facoltà che ero cupo e uscivo che ero
nero pece. Non arrabbiato, piuttosto depresso, triste, e disse che aveva deciso
che mi avrebbe invitato a bere qualcosa, visto che siamo colleghi e “sulla
stessa barca”. Quindi era sicuro che ci saremmo capiti come, insomma, membri
della “stessa squadra”. E ogni volta faceva in aria il segno delle virgolette.
Insopportabile.
«Il tuo malumore è dovuto a quello che è successo due settimane fa?» mi chiese,
la domanda in netto contrasto col suo solito tono menefreghista. Cos’era
successo due settimane prima?
«Ma… da quand’è che ti preoccupi per me?» gli chiesi
di rimando, e lui sbuffò rumorosamente e con scazzo una nuvola di fumo, facendo
poi segno a una cameriera di prendere le ordinazioni.
«Senti. Io non avevo un cazzo da fare stasera, tu nemmeno, ti ho invitato a
prendere un goccio per non passare la serata davanti a un film di serie B.
Faresti anche solo finta di apprezzare l’iniziativa?» mi chiese retoricamente,
con la cameriera lì in piedi al gelo, in attesa che quello si decidesse a
ordinare. Lo guardai con un occhio socchiuso e sollevai d’istinto il lato della
bocca in un sorriso, perché no, davanti a individui del genere proprio non
riesci ad incazzarti seriamente. Ti fanno un po’ pena, quasi tenerezza. Mi
voltai verso la povera cameriera infreddolita e le chiesi gentilmente se mi
potesse portare una cioccolata calda, mentre Bonatti
prima mi lanciò uno sguardo scandalizzato - molto probabilmente perché si
aspettava che prendessi qualcosa di alcolico – e poi ordinò con scazzo della
vodka liscia.
«Non capisco che tipo di problemi tu possa avere, comunque, se ci tieni, ti
darò corda. Cos’è che vuoi sapere?» gli domandai una volta che la ragazza fu
scappata dentro.
«Guarda che non sei costretto a parlare, eh, puoi anche andartene se vuoi,» mi
disse lui, a quanto pare infastidito da quel mio atteggiamento del tutto disinteressato.
«Vuoi sapere a cos’è dovuto il mio malumore? O se è vera la storia che me la
faccio con uno studente?» chiesi al posto suo, e a quel punto feci che
accendermi una sigaretta anche io, visto che a casa non lo facevo più per non
far respirare del fumo passivo al mio coinquilino.
«Non sono un pettegolo come credi, Ruggeri,» tentò di dire, ma lo bloccai con
un’espressione da “Ti prego, non portiamola per le lunghe, ché già ho poca
voglia di dare retta a qualsivoglia essere umano. Ascoltami e basta.”
«Entrambe le domande hanno un punto in comune: Valerio. Sì, me la faccio con
uno studente, si chiama Valerio Castelli, ha vent’anni, frequenta la facoltà di
lingue e letterature moderne e abita con me. Il mio malumore è dovuto a lui. Non
a causa sua, ma a causa della sua mancanza. E’ Natale e lui non può stare con
me. Fine». Accavallai le gambe e dedicai l’attenzione alla mia sigaretta e al
fumo che lasciavo uscire dalla bocca insieme al vapore acqueo, senza far caso
alla probabile espressione stupita ora dipinta sul volto del mio collega.
Durante il silenzio che seguì, mi preoccupai di finire la sigaretta e di
schiacciarla nel portacenere e di fare spazio alla cameriera in modo che
potesse lasciarci i nostri ordini.
«…Wow. Beh, Ruggeri, non credevo potesse piacerti il tordo,
ma questa tua confessione così spontanea ti rende onore, sai? Io ai miei tempi
non l’avrei fatto neanche morto. Devo dire che ti ho rivalutato. Mi piaci,
professore,» si decise quindi a dire, ma subito agitò le mani, certo di aver
detto qualcosa di fraintendibile. «Ovviamente non in quel senso, mi hai
capito,» e mandò giù la sua vodka liscia senza guardarmi in faccia neanche per
sbaglio. «Sei stato sempre così sicuro di te stesso?»
«Mai,» ammisi, le mani che formavano una coppa sopra la tazza di cioccolata
calda, nel tentativo di scaldarsi.
«Oh beh. Credo che il nuovo Andrea Ruggeri farà furore. Vuoi una sigaretta?» mi
aprì il pacchetto davanti al naso, quasi non avesse notato che avevo appena
spento la mia nel portacenere.
«Ti ringrazio, ma ho le mani congelate,» rifiutai col tono più gentile
possibile, ma quello sfilò una delle sue sigarette disgustose e me la ficcò in
bocca rischiando di farla cadere nella cioccolata.
«E prenditi ‘sta sigaretta senza fare la femminuccia! E non starmi depresso.
Quando torna il tuo cocco?»
«Il sei,» risposi infastidito dai gesti avventati di Bonatti.
Mi appoggiai la sigaretta maledetta sull’orecchio e portai la tazza fumante
alle labbra.
«Passa come un fulmine. Sei solo a Natale? Vieni a stare da me, semmai. So’
solo anch’io,» e il suo non era un tentativo di abbordaggio, solo la disperata
ricerca di una compagnia durante le feste. Doveva essere un uomo piuttosto
solo, col carattere che si ritrovava. Mi dissi che io dovevo stare zitto, visto
che non avevo un carattere migliore, e prima di Valerio ero anche più solo di
lui.
«Mi spiace, ma starò con mia sorella,» gli dissi alzando le spalle. Feci una
smorfia di dolore dovuta al calore della cioccolata quando s’abbatté sui miei
denti leggermente sensibili.
«Che immagino sapranno tutto della tua passione per le carni giovani».
Lo guardai scoraggiato e lui alzò immediatamente gli occhi al cielo e mi
rivolse un’espressione da: “Dai, sto solo scherzando un po’, che palle che
siete voi insegnanti di letteratura”.
«Sto pensando a come dirglielo. Temo che sarà il mio regalo di Natale per tutta
la famiglia».
«Che culo!» esclamò Bonatti, seconda sigaretta quasi
terminata. «Sennò, scusa, da quant’è che state insieme?»
«In realtà non so dirti neanche se stiamo ufficialmente insieme…
Voglio dire, come funziona oggi quando ci si fidanza? Ai miei tempi si faceva
un regalo alla ragazza, che fossero fiori o piccoli gioielli –di solito un
anello- e con quello si suggellava il fidanzamento. Voglio dire, i giovani
adesso come fanno?» chiesi particolarmente frettoloso, visto che, mi accorsi,
ero a corto di fiato.
«Firmano un contratto».
«Cosa?» domandai shockato, e quello spalancò gli occhi e appoggiò il pugno
chiuso sul tavolo.
«Dico, ma ti stai sentendo? Prima di tutto, appena hai pensato a un possibile
regalo di fidanzamento da fare al ragazzo, sei diventato tutto rosso e sei
partito come un treno a parlare a vanvera. E’ stata la tua frase più lunga da
quando ci siamo conosciuti, più o meno. Calmati, okay?» e mi fece notare con un
dito che stavo tentando di allargarmi il colletto della camicia sotto la
giacca, come avessi davvero bisogno di più ossigeno. «I ragazzi d’oggi non
usano anelli o cazzate simili. Mettono su facebook “Impegnato” oppure “Fidanzato ufficialmente con” se il partner ha facebook,
così possono far vedere a tutti con chi è che sono infognati. Tu hai facebook?»
«No».
«Allora, piscia, avrà messo “Impegnato”. Oppure, magari, se non è uno che segue
la moda, ti ha chiesto qualcosa tipo “Ma io e te cosa siamo?” oppure “Io per te
cosa sono?” oppure “Posso considerarmi il tuo fidanza-”»
«Sì, me l’ha chiesto! E io gli ho detto che se gli faceva piacere poteva
considerarmi tale,» esclamai quando riportai alla memoria i ricordi di me e
Valerio che passeggiavamo per mano accanto al piccolo parco giochi dietro casa
nostra. Casa… nostra? Nostra…
«Bene, quello è il giorno del vostro fidanzamento».
«…E che giorno era?!» realizzai di avere una pessima
memoria, e mi stampai in fronte le cinque dita.
«Lui se lo ricorderà».
«Ma con che faccia vado a chiederglielo? Pensa a quando lui verrà a farmi gli
auguri di buon anniversario e io cadrò dalle nuvole!» Bonatti si strozzò col fumo tirato dal filtro e
schiacciò la sigaretta nel portacenere mentre tossiva in un pugno e si dava
colpetti sul petto. Quando tornò a respirare, aveva gli occhi rossi e la faccia
sconvolta.
«…Tu sei messo davvero male, amico mio. Sei nella
merda, te lo dico io. Mi sembra di stare in una puntata del Mondo di Patty, che
cazzo».
Abbassai gli occhi imbarazzato, pur non avendo idea di che diavolo fosse questo
Mondo di Patty. Sperai non una telenovela argentina.
«Quindi, sai dirmi almeno da quant’è che scopate? Perché scopate, vero?»
domandò ancora Bonatti riprendendo il filo principale
del discorso.
«Euf,» mi scappò, mimando anche con la mano la
quantità abbondante dei nostri incontri a letto. Ma non solo aletto, anche sul divano, sul tavolo, per
terra, contro la cucina, in piedi contro il frigo e l’armadio, sul gabinetto.
Cristo, anche sul gabinetto?! «Voglio dire, solo a volte,» mi corressi,
probabilmente rosso come un peperone. «E comunque…
sono tre mesi circa».
«E tu hai già intenzione di dirlo a tutta la famiglia? Non è un po’ precoce la
cosa?» mi fece notare, e io mi diedi qualche secondo per pensarci, poi,
«Non lo so, ma non mi importa. Adesso sono dell’umore di dire tutto a tutti,»
dissi con una mano sotto il mento.
«Non ti importa di come reagirebbe tua sorella?»
«No. E comunque, già non andiamo troppo d’accordo, non mi mancherebbe molto se
decidesse di tenermi fuori dalla sua vita,» spiegai senza troppa voglia, e
tirai giù altra cioccolata, ché a furia di parlare l’avevo lasciata freddare.
«Preferisci lui a tua sorella?» mi chiese incredulo, le braccia incrociate sul
tavolo e gli occhi che tentavano di leggere la mia espressione rilassata e
risoluta.
«Preferisco lui a tutto, forse non mi sono spiegato,» gli risposi senza
pensarci su, e mi pulii le labbra col fazzoletto.
«Ma che cazzo ha ‘sto ragazzo? T’ha fulminato, t’ha fatto qualche maleficio,»
ne concluse lui tornando improvvisamente indietro con la schiena e aprendo le
braccia, quasi a dire che ci rinunciava a farmi ragionare. Io alzai le spalle,
sorrisi e finii la mia cioccolata senza replicare. Probabilmente sì, mi aveva
lanciato qualche incantesimo. E non avevo intenzione di cercare la
contro-maledizione.
---
Con Valerio mi sentivo ogni giorno, ma non eravamo riusciti a chiamarci nemmeno
per mezzo minuto, e ci limitavamo a scambiarci messaggini, cosa che io, da buon
vecchio caprone, sapevo fare con limitata dimestichezza. Non potevamo chiamarci
perché, in poche parole, suo padre gli stava col fiato sul collo. Sempre. 24
ore su 24. E io mi sentivo come quei carcerati che non possono fare una
chiamata ai familiari. Impossibilitato dietro una fila di sbarre. Non biasimavo
suo padre, anche io mi sarei comportato così, se non peggio. Quindi cercai di
farmi bastare gli sms, i suoi chilometrici, i miei stringati, spesso ridotti a
una frase, proprio perché non ero abituato a scrivere messaggi, e quel
telefonino touchscreen di
ultima generazione che mi avevano regalato Guido, Sara e Francesco al mio
compleanno non mi aiutava per niente. Spesso lui mi chiedeva se fossi
arrabbiato o triste, o se fosse successo qualcosa, e quando io gli chiedevo per
quale motivo lo pensava, mi scriveva che le mie frasi drastiche lo
preoccupavano. Gli chiedevo cosa intendeva per frasi drastiche, e lui diceva
che mettevo il punto dopo ogni frase, e che lui lo mette solo quando è
piuttosto arrabbiato o non ha voglia di parlare. In effetti, notavo che i suoi
sms erano pieni di punti esclamativi, punti di sospensione, e smiles di ogni tipo, alcuni dei quali erano un vero mistero
per me, ma mi vergognavo di chiedergli il significato. Tipo quell’ “XD” inquietantissimo, o quel “:3” altrettanto inquietante. Io
gli dicevo che doveva avere pazienza, ma io scrivevo in quel modo e già facevo
fatica, e che sarebbe stato meglio se potessi chiamarlo, anche solo per cinque
minuti. Ma lui mi negava questa possibilità, dicendo che già per scrivere
qualche sms si nascondeva il cellulare dietro la gamba o sotto le lenzuola o
fingeva di avere la vescica sensibile e scappava in bagno, e quando suo padre
lo vedeva scrivere, quello si inventava di star parlando con uno della facoltà.
Infatti sulla rubrica mi aveva salvato con il nome di “Angelo”, sostenendo di
avere davvero un compagno con quel nome, ma di non essersi mai preso la briga
di chiedergli il numero. Quando stavo già iniziando ad essere geloso di
quell’Angelo, lui mi disse che era un nerd allucinante, completo di faccia
piena di brufoli, coi suoi fumetti sempre dentro la borsa e che si divorava tra
una lezione e l’altra, seduto in corridoio, rigorosamente per terra, e con
cuffie enormi collegate a un cellulare più enorme delle cuffie.
Quindi eravamo di nuovo lì, a scambiarci messaggi mentre suo padre era nella
stanza accanto e io ero in macchina col riscaldamento acceso, pronto a
raggiungere casa di mia sorella.
“Vorrei sentire la tua voce…” mi scrisse, e io sospirai automaticamente.
“A chi lo dici.”
“Ma non mi importa niente, a mezzanotte
ti chiamo, dovesse cadere il mondo!”
Sorrisi tra me e me e mi impegnai a scrivere con due mani, la sigaretta spenta
appesa alle labbra.
“Puoi far finta di dare gli auguri a un
amico.”
“O posso chiamarti e fregarmene XD Tanto
cosa può fare più di rimproverarmi?”
Di nuovo quel misterioso “XD”. Mi ripromisi di chiederne il significato al più
presto.
“Proibirti di rivedermi al tuo ritorno?”
“Non può…”
Guardai l’orario lì accanto al contachilometri, e mi accorsi di essere in
leggero ritardo, cosa decisamente non da me. Ma mi dissi che se c’era di mezzo
Valerio potevo anche prendermi tutto il tempo del mondo, e tornai con gli occhi
sul luminosissimo display del cellulare.
“Certo che può. Prima di tutto può
portarmi in tribunale accusandomi di sequestro di persona e, dopo aver vinto la
causa, può affibbiarti un paio di poliziotti che ti riportano a casa ogni volta
che tenti di cambiare strada.”
“Non lo farebbe mai…
Oh Dio, che prospettiva terrificante… entrerei in
crisi depressiva.”
“Sì, perché ti sentiresti in gabbia.”
“No, perché non potrei più vederti!
Capra!”
Giusto, come avevo potuto non pensarci? Credevo che un giovinastro come lui
tenesse più alla libertà e all’indipendenza che a un vecchio caprone come me.
Mi dissi che, davvero, avevo 35 anni, non 90, dovevo piantarla di aggiungermene
altri trenta sulle spalle. Stetti a ponderare su cosa scrivere nel messaggio
successivo, ma me ne arrivò un altro prima che iniziassi a scrivere.
“Sono quattro giorni che non ci vediamo.
Quattro giorni che non dormiamo insieme, quattro giorni che non ti preparo la
colazione, che non mi scarrozzi in macchina, che non mi dici che dovrei
studiare di più, che non facciamo l’amore. Non credevo che il distacco potesse
pesarmi tanto. In alcuni momenti della giornata non riesco a sopportarlo.
L’altra mattina ero in piedi davanti al frigo a versarmi del latte, e m’è
venuto il dejà vu di quella volta che m’hai sbattuto contro il frigo, hahah! Tutta colpa del colore del frigo dei miei nonni, è
uguale al tuo!”
Mi cadde la sigaretta di bocca e probabilmente divenni di una tonalità simile
al viola. Mi schiacciai il cellulare sulla coscia e feci qualche lungo respiro
prima di continuare a leggere –perché sì, aveva scritto un messaggio
chilometrico in due minuti, quando io ce ne mettevo cinque a scrivere un paio
di frasi -.
“Mi manca addormentarmi spalmato su di
te. Mi manca l’odore che emaniamo dopo il sesso. E sono solo quattro giorni!
Pensa a quando dovrò tornare giù quest’estate per ben due mesi! Mi lego una
delle bocce di mio nonno al piede e mi affogo!”
Mi immaginai la scena e, sinceramente, mi venne da ridere. Forse più per non
pensare al fatto di dover stare senza Valerio per due lunghi, lunghissimi,
interminabili mesi. Avevo il magone al solo pensiero.
“Allora, prima di tutto non può davvero
mancarti il sesso! Prima che partissi l’abbiamo fatto, tipo, cinque volte di
seguito? Ero stremato, pensavo che il mio amico qui non potesse alzarsi mai
più, era rosso e bruciava da morire, e tu pure eri spaccato in due e, immagino,
soddisfatto. Abbiamo finito il pacco maxi di preservativi, usando la scusa del
“Facciamolo tanto, così ci basta per una settimana”, ma possibile che tu non ne
abbia abbastanza?”
Guardai l’orologio: ero in ritardo di già mezz’ora, e mia sorella iniziava a
chiamarmi sull’altro telefono, quello con la scheda wind,
vecchio ma sicuramente più semplice da utilizzare. Risposi velocemente mentre
leggevo il messaggio di Valerio e sogghignavo. Dissi a Simona che stavo
parlando con una persona e che avrei fatto un altro quarto d’ora di ritardo,
poi chiusi la comunicazione con un Michele che urlava di aver paura di Babbo
Natale. “…Cioè, dopo
tutte le carinerie che ti ho detto io, romantico sino al midollo, sino a
sembrare una ragazzina su un blog glitterato, tu mi
rispondi dicendo che sono un sessuomane?”
“Non credo che esista come parola.”
“Non fare il saputello!”
Risi nella mano chiusa a pugno, poi mi piegai a cercare la sigaretta che m’era
caduta mentre pensavo a cosa rispondere. Me l’accesi e abbassai il finestrino,
nonostante il freddo che entrava nelle ossa.
“Comunque, lo sai che io non sono molto
romantico. Non riesco a esserlo neanche se mi sforzo e, anzi, mi sono anche
raddolcito parecchio da quando sto con te.”
“Mi piace il suono…”
“Di cosa?”
“’Da quando sto con te’. Stiamo insieme, non mi sembra vero.”
“Anche se non mi è chiaro da quanto
tempo.”
Ammisi, sperando che non si arrabbiasse troppo.
“Neanche io…
Voglio dire, non abbiamo fatto nulla di ufficiale, e in realtà non credevo che
stessi già considerando la nostra relazione come qualcosa di impegnato, dopo
così poco tempo. Pensavo fossi più diffidente XD”
“Ma infatti lo sono. Non con te, però.
Sei troppo adorabile, e non sono riuscito a starti lontano. Sei stato qualcosa
di serio da subito, per me.”
Scrissi, di getto, e mi accorsi anche di essere diventato più veloce nella
composizione dei messaggi. Che stessi ringiovanendo a poco a poco?
“Vedi che sei in grado di essere
romantico? Sto squittendo come una ragazzina. E comunque, se non abbiamo ancora
una data ufficiale, possiamo crearcela :)”
“Quando torni?”
“Sì, quando torno ci fidanziamo
ufficialmente ;)”
“Non davanti al prete, vero?”
“Ti pare? Io neanche credo in Dio! Adesso
devo scappare, reclamano il mio aiuto per il cenone!”
Mi dispiacque dover terminare la nostra conversazione, che aveva preso
decisamenteuna piega piacevole, ma mi
dissi che dovevo anche staccarmi dal cellulare ogni tanto – ero sempre fisso su
quel dannato aggeggio aspettando un segno di vita daparte di Valerio.
“E hanno ragione. Vai a renderti utile.”
“Va bene, prof :) A mezzanotte ti chiamo,
tieni il cellulare a portata di mano! Ti amo.”
Mi uscì dalla gola un suono strozzato, come il guaito di un cane. Ero ridicolo.
“Ti amo anche io. Tantissimo.”
---
Quella sera non ci fu bisogno che io dichiarassi ad alta voce, al momento del
brindisi, davanti a mia sorella, mio nipote, il compagno di mia sorella e i
suoi genitori e i suoi fratelli con figli annessi che io stavo insieme a un
ragazzo a cui insegnavo la letteratura italiana. Questo perché, in realtà,
l’unica che volevo che sapesse, più che altro per non farmi domande
imbarazzanti ogni qualvolta trovava indumenti sparsi per casa, era mia sorella.
E lei lo venne a sapere da sé, scorrendo la conversazione tra me e Valerio sul
mio iphone. Sapevo bene che Simona aveva preso il
vizio di leggere i messaggi altrui da mia madre, e quindi, probabilmente, gli
mollai il cellulare sotto il naso per poi andare in bagno ben conscio del fatto
che si sarebbe fatta un giro tra le mie conversazioni in quel momento di pausa
tra una portata e l’altra. E comunque, l’arrivo di un messaggio di Valerio che
recava il testo “Ah, salutami tanto
Michele! :D” non aiutò a diminuire la visibilità del mio cellulare, che si
mise a fischiare e a tremare proprio accanto alla sua mano, che si mosse
automaticamente ed aprì con nonchalance il messaggio, nel caos generale.
Quando tornai dal bagno, la trovai con ancora il mio telefono in mano, mentre
leggeva velocemente i messaggi, con gli occhi che scattavano a destra e a
sinistra, l’espressione neutra, senza la benché minima preoccupazione di
mettere giù il cellulare al mio arrivo. Io stesso non feci niente per toglierle
dalle mani l’aggeggio. Anzi, aspettai pazientemente che finisse di leggere, la
guancia appoggiata alla mano e il gomito appoggiato sul tavolo, proprio secondo
il Galateo.
«Valerio è il tizio strano che gira per casa tua?» mi chiese ad un certo punto,
senza staccare gli occhi dal cellulare.
«Sì,» dissi con un sospiro, pensando che forse forse
non era stata proprio una brillante idea lasciare lì il telefono. Un terzo di
quella conversazione verteva sul sesso. E non avevo poi così voglia che mia
sorella leggesse i fatti miei, o almeno, non i fatti che riguardavano la mia
vita sessuale. Poi Valerio era schietto e sincero anche negli sms, e non si
tratteneva mai quando voleva dirmi qualcosa di particolarmente spinto.
«Non hai letto abbastanza?» le chiesi quindi, allungando la mano in attesa del
mio telefono. Lei sbuffò e me lo riconsegnò appoggiandosi nella mia stessa
posizione, ma rivolta verso gli ospiti che chiacchieravano allegramente tra di
loro, senza degnarmi di parola o sguardo. Alzai le spalle e presi un sorso di
vino, il mio sospiro coperto dalle urla dei bambini che giocavano attorno al
tavolo. Poi Simona, evidentemente esclusa dalla conversazione dei parenti di
Lorenzo, si voltò di scatto verso di me, che stavo finendo di mangiare gli
spaghetti alle cozze.
«Fai proprio schifo,» mi disse, dritto in faccia. Io la guardai con la bocca
piena e alzai le spalle, come a dire che non potevo farci niente. «Io non ci
metto più piede in casa tua,» continuò, e io alzai nuovamente le spalle
guardando nel piatto. «Non te ne frega niente?!» mi chiese dandomi un colpo
sulla spalla, anche piuttosto potente. Alzai lo sguardo e mi pulii la bocca col
fazzoletto rosso in tinta con la tovaglia.
«Mi basta lui,» ammisi, piuttosto lucido, nonostante avessi già tracannato un
po’ di alcol.
«Eh?»
«Come hai potuto leggere dai messaggi, sono particolarmente preso. Lo amo».
«Ah, lo ami?» ripeté con una smorfia di derisione. «Sei patetico, lo sai,
vero?» mi fece retoricamente. Non risposi e presi un altro sorso di vino.
«Vuoi che vada via?» domandai invece, con Lorenzo che adesso aveva smesso di
chiacchierare e ci guardava leggermente preoccupati.
Fischiò nuovamente il mio cellulare lì accanto al piatto, e Simona lo prese
prima di me e lesse il messaggio. “Salutami
anche tua sorella, ovviamente!” diceva il testo. Lei distolse lo sguardo,
forse infastidita, e mi restituì il cellulare.
«…Secondo me è troppo per te,» commentò guardando
altrove, e io sorrisi infilandomi il cellulare in tasca.
«Lo so, lo penso anche io,» confermaisgranocchiando un grissino.
«Voglio dire, questo tizio, oltre ad essere l’unico a far davvero divertire
Michele, sa cucinare, tiene in ordine la casa, ha sempre voglia di fare sesso e
si ricorda di me e ti chiede di salutarmi, nonostante io sia simpatica come un
granchio nelle mutande. Tu invece fai sostanzialmente schifo,» mi ricordò con
nonchalance, e io alzai le sopracciglia e strinsi le labbra.
«Sì, okay, grazie».
«Ed è anche nel fior fiore della gioventù, cosa pensa di fare infognandosi con
un uomo di mezz’età?» continuò a infierire, ad affondare il coltello nella
piaga.
«Ho 35 anni,» le feci notare.
«Anche io, ma ne sento addosso molti di più. Tu no?»
Non risposi, perché ovviamente me ne sentivo di più, e mi accorsi che io e mia
sorella eravamo più simili di quanto pensassi. In quegli anni passati in due
abitazioni diverse, mi ero dimenticato di quanto potessimo pensarla uguale.
Giocherellai con un grissino spezzato arricciando le labbra, poi sentii caldo
sulla spalla, e l’istante successivo mia sorella mi stava avvolgendo in un
abbraccio particolarmente sentito. Le guardai i capelli stranito, poi incrociai
lo sguardo di Lorenzo, interrogativo tanto quanto il mio, e portai
istintivamente il braccio sulle spalle di Simona dando timide pacche, come
facevo ogni qualvolta mi abbracciavano.
«Fai schifo,» ribadì, ma con la voce commossa, quasi stesse per piangere.
«E… è un bene?» domandai confuso, e quella mi annuì
sulla spalla.
«”Fai schifo”. Me lo diceva papà, quando tornavo a casa ubriaca o puzzolente di
fumo, o quando scopriva che m’ero fidanzata con un tizio strano,» mi disse,
così dal nulla, riportando alla memoria vecchi, vecchissimi episodi.
«E aveva ragione».
«E mi paragonava sempre a te, mi faceva notare quanto tu fossi perfetto e
quanto io facessi schifo. Invece adesso sei tu che fai schifo, fai più schifo
di me, ti scopi un ragazzino! Ho avuto un complesso di inferiorità per 35
lunghissimi anni. E adesso, finalmente…» Sembrò quasi
asciugarsi delle lacrime, e sicuramente tirò su col naso. Sciolse l’abbraccio e
mi diede un buffetto sulla guancia. «No, non voglio che tu vada via. Mi piace
stare in tua compagnia, adesso che so che fai schifo,» mi disse quindi, un
sorriso che raramente le avevo visto in faccia, gli occhiali appannati.
«Magari potresti anche non ricordarmelo ogni tre secondi,» le chiesi
indirettamente, e Lorenzo, giustamente, venne a vedere se fossimo pazzi o
quasi.
«E’ successo qualcosa?» si piegò tra di noi, e Simona rise quasi isterica
muovendo la mano.
«Niente. Andrea fa schifo. Non è fantastico?» fece euforica. Io e Lorenzo ci
guardammo shockati, poi tornammo con gli occhi su Simona e le demmo due pacche
sulla schiena.
«Aiutami a servire il pesce arrosto, va,» le disse quindi Lorenzo incitandola
ad alzarsi. Lei annuì entusiasta e lo seguì al piano di sopra, dato che
mangiavamo nel largo seminterrato. Mi rilassai sulla sedia e feci un lungo
respiro. Era andata. A quella pazza non importava nulla del fatto che me la
facevo con un ragazzo, quanto di sentirsi migliore di me. Come se non lo fosse mai
stata. Probabilmente, l’immagine che mio padre le aveva dato di me era ancora
troppo forte per essere sostituita dal me attuale.
---
Scattò la mezzanotte, e quasi saltai dallo spavento per il tempismo con cui il
mio cellulare si mise a vibrare furiosamente nella tasca dei pantaloni. Risposi
frettolosamente – il costoso iphone rischiò di
scivolarmi dalle mani -, mentre i bambinisi preparavano ad aprire, finalmente, i loro regali.
«Amore,» fece la voce di Valerio ancor prima che potessi dire il mio “Pronto”.
«Buon Natale!»
«Puntuale, per non dire svizzero,» risi, e mi spostai in un angolo più
silenzioso del seminterrato. «Buon Natale anche a te».
«Mi hai salutato Michele?»
«Sta aprendo i regali adesso,» dissi buttando un occhio ai tre bambini che
scartavano i pacchi come fossero posseduti dal demonio.
«Potevi salutarlo prima!»
«Prima stavo dicendo a mia sorella di me e te,» dissi girandomi nuovamente
verso il muro, le urla a ultrasuoni dei bambini che mi uccidevano l’orecchio
libero dal cellulare.
«Ah, beh, allora sei perdon- come, come? Oddio. E
come l’ha presa?» fece, improvvisamente nervoso, ché sicuramente non
s’aspettava per nulla al mondo una notizia del genere e tanto improvvisa.
«Mi ha detto che faccio schifo,» alzai le spalle e mi mordicchiai un’unghia.
«Cazzo. Cioè, scusa. Mi dispiace».
«No, è okay. E’ un complimento detto da lei. Ti spiegherò meglio quando
tornerai».
«Va bene,» disse, mesto mesto, e subito dopo, il mio
orecchio appoggiato al ricevitore fu trafitto da urla disumane. Anche casa di
Valerio doveva essere invasa dai bambini. Dio, che scocciatura. «Non hai idea
di quanto vorrei essere lì con te. Solo sentire la tua voce mi fa uscire il cuore
dal petto,» mi comunicò poi, la voce commossa.
«Pure io sono tutto emozionato,» confessai, e già lo si capiva dal mio tono di
voce e da come avevo preso a stringere la camicia più o meno elegante
all’altezza del petto.
«Ahahah! Vorrei vedere la tua faccia!» rise lui, e io
mi morsi l’interno della guancia: la sua risata era qualcosa di extraterrestre,
mi stimolava le cellule nervose.
«Ti manderei una foto, ma non sono fotogenico,» dissi fintamente rammaricato, e
me lo immaginai mentre scuoteva la testa scoraggiato.
«Ovviamente. Muoviti, mandami una foto, così mi sento un po’ più vicino a te.
Fanne una anche a Michele».
«Te ne fai una anche tu, quindi?» domandai tentando di non utilizzare un tono
malizioso. Come se ne fossi davvero in grado.
«Come la vuoi? Da nudo o da vestito?» fece lui di rimando, una risata
trattenuta, la domanda maliziosa, ma il tono da ingenuo, come sempre.
«In mutande?» proposi, e lui fece un suono con la bocca.
«Andata».
Sentii la voce di Bruno intimare al figlio di chiudere la comunicazione con un
“Metti via ‘sto cellulare del demonio”, e quindi Valerio parlare con un volume
decisamente più basso, tanto che feci fatica a sentire quello che diceva.
«Devo già lasciarti, mi dispiace. Ti giuro che la notte del sei gennaio stiamo
tutta la notte svegli a parlare,» mi disse sommessamente, le parole che si
intendevano appena.
«Dubito che tu voglia solo parlare,» feci divertito e lui ridacchiò.
«Guarda, evito di ricordarti tutte le volte che mi hai detto di “avere voglia”
solo perché devo chiudere. Ancora buon Natale, saluta tutti. Ti amo da
diventare matti! Ciao!»
«Ciao, amore».
Mi voltai, e avevo mia sorella in piedi a pochi centimetri da me, le mani sui
fianchi, la faccia da “Sto per prenderti in giro e lo farò per il resto dei
tuoi giorni senza mai stufarmi”.
«Ciao, amore,» mi fece il verso con la faccia deformata in modo orribile. «Ma
vedi te se devo sentire mio fratello dire “amore” a un ventenne, oltretutto
maschio. Ah, i drammi della vita, a cosa possono portare!» alzò la mano al
cielo con fare teatrale e mi diede la schiena, felice di avere qualcosa con cui
rompermi ulteriormente l’anima ogni giorno. Sospirando, cercai nell’iphone la fotocamera, poi raggiunsi il tavolo ormai
sparecchiato e su cui i bambini aprivano e provavano i regali e puntai la
fotocamera su Michele.
«Michi,» lo chiamai, e quello alzò la testa rossa
solo dopo il mio terzo richiamo. «Mi sorridi?»
Lui mi guardò storto, ché mai gli avevo fatto una richiesta del genere. Quindi
non si degnò di sorridermi e continuò a guardarmi in cagnesco, le mani
impigliate in un nastro rosso. «Valerio vuole una tua foto,» provai a dire, e
quello si illuminò all’istante, ridendo al solo nome del ragazzo. Ne approfittai
per scattare la foto e fortunatamente venne bene al primo colpo.
«Lo chiami al telefono? Me lo passi?» provò a chiedere Michele, ed era già
pronto a lasciar perdere i regali, saltar giù dalla sedia e urlarmi che voleva
per forza parlare con Valerio sennò non mi faceva più amico. Ma Lorenzo lo
precedette riportandolo sulla sedia e mostrandogli un regalo gigantesco ancora
da aprire. Inutile dire che quel regalo lo ipnotizzò e lo convinse a restarsene
in ginocchio sulla sedia. Lorenzo mi strizzò l’occhio con fare complice, e
quello voleva poter dire due cose: A,
mia sorella gli aveva raccontato già tutto ridendo istericamente e ripetendo
quanto fossi uno sporco pedofilo e quanto facessi schifo; B, probabilmente era il più furbo di tutti i protagonisti della mia
storia e aveva capito tutto ancor prima di me e Valerio. Ma non prima di
Giulio, quello no, ché lui era un pervertito, e certe cose le sapeva
addirittura prevedere.
Sospirai un’altra volta dopo aver sorriso grato a Lorenzo, poi mandai
velocemente la foto di Michele a Valerio. Dopo cinque minuti, mi arrivò una
foto in risposta di due bambini, il più grande coi capelli lisci e castani, due
occhioni neri e un paio di occhiali dai bordi
azzurri, la più piccola coi capelli ricci e biondo cenere, occhi altrettanto
neri e la mano in bocca, che guardava diffidente l’obiettivo. Sotto la foto il
testo diceva: “Questi sono i miei due
cuginetti :) Michi è bellissimo come sempre. Tutto
sua madre. Quindi tutto suo padre, visto che siete identici, hahaha! Ok, la pianto di rendermi ridicolo. Mandami una tua
foto, muoviti :D”
“Non se ne parla.” Gli scrissi
drastico. Perché col cavolo mi facevo una foto da solo o me la facevo fare da
qualcuno, o andavo in bagno o farmela allo specchio o che altro. Avevo i
brividi al solo pensiero.
“Se te la mando io?”
“Non te la mando in nessun caso.”
Per un attimo desiderai che il mio cellulare non fosse l’unico a prendere la
linea nel seminterrato. Ma poi dovetti rimangiarmi i pensieri, se mai potesse
esistere tale espressione. Mi fischiò di nuovo il cellulare segnalando l’arrivo
di un mms, e quando l’aprii trovai una foto di Valerio. Conoscendolo, mi
aspettavo una foto in chissà quale posizione provocante, ma in realtà se ne
stava seduto ai piedi di un letto, non sapevo se nudo o meno, visto che si
vedevano solo le spalle scoperte e le ginocchia – era seduto con le gambe al
petto – e aveva un cappello da Babbo Natale in testa. Un ciuffo particolarmente
lungo e biondo spuntava dal cappello e andava verso l’alto, non so secondo
quale legge fisica. Faceva un sorriso un po’ imbarazzato, e gli occhi
riflettevano il display del cellulare. Sentii una fitta al cuore che poi si
propagò sino all’inguine. Era sin troppo carino, e presto tutta quella
carineria mi avrebbe ucciso di certo. Salii quasi di corsa al piano di sopra
senza dare spiegazioni a nessuno e andai a chiudermi in bagno. Sì, c’era un
bagno anche sotto, ma probabilmente avrei emesso qualche rumore molesto mentre
mi masturbavo sulla foto del mio coinquilino. Me lo immaginai mentre gemeva
sotto di me con addosso solo quel cappello lì. E magari un nastro colorato,
quello per i pacchi regali, che gli circondava spalle, braccia, gambe e
fianchi. Non credevo che il Natale mi avrebbe fatto quest’effetto, un giorno.
Mi arrivò un messaggio sul più bello, ed ebbi pure il coraggio di aprirlo.
“Mi sto masturbando pensando a te.” Diceva
il testo. Mi si rizzarono le punte dei capelli, e venni l’istante dopo, nel
pezzo di carta igienica che tenevo pronto nell’altra mano. Feci una smorfia e
mi pulii per bene, sperando con tutta l’anima che mia sorella non mi avesse
seguito e avesse origliato tutti i miei possibili rumori. Lavai le mani nel
lavandino e mi sistemai i capelli, sorridendo al mio riflesso decisamente
ringiovanito nonostante quello che avevo appena fatto, e finalmente risposi al
messaggio.
“Anche io. E grazie al tuo messaggio sono
venuto.”
Uscii dal bagno e andai a sedermi sul divano nel salotto buio, sollevato dal
fatto che non ci fosse l’ombra di mia sorella.
“Quando torno scopiamo come animali :)”
Presi a tossire rumorosamente quasi mi fosse andato di traverso del fumo, e per
un momento pensai che mi stesse uscendo del sangue dal naso.
“Come puoi dire una cosa del genere e poi
metterci vicino il sorriso?!” scrissi alquanto scosso, e la risposta arrivò
qualche secondo dopo.
“Quando torno scopiamo come animali.
Meglio?”
Scossi la testa e digitai, più velocemente del solito,
“Non scrivermi più.”
“Perché???”
“Sei scurrile.”
“Ma va va. Dopo
tutto quello che mi hai fatto…”
“Basta.”
“Ti odio.”
“La cosa è reciproca.”
Non mi scrisse per un po’, e pensai che si fosse offeso per davvero. Stavo già
per chiedergli scusa, quando mi arrivò la sua terza foto della serata: era
vicinissimo all’obiettivo, tanto che si vedeva solo la sua faccia e un sorriso
a trentadue denti. Gli occhi erano strizzati, quasi completamente chiusi, e in
un angolo libero della foto si intravedeva quello che sembrava il muso di un
gatto.
“Questa è la mia faccia happy dopo essere
venuto :D”
Mi chiesi se esistesse un limite all’amore provato per una persona. Mi chiesi
se sarei mai stato in grado di smettere di amarlo. Mi chiesi cosa sarebbe
successo se fosse stato lui a smettere di amarmi.
Per il momento, pensai, mi salvo la foto e me la guardo quando mi sento solo.
Gli diedi un’altra occhiata: era bellissimo pure con la faccia deformatae i denti in primo piano. Sospirai, ancora
una volta. Poi mi dissi che anche io mi sarei fatto una foto. Il vecchio Andrea
non l’avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo, ma il nuovo Andrea si piaceva, e
anche parecchio. Attivai il flash sperando che non mi accecasse. E sperando che
anche Valerio guardasse quella foto quando sentiva di aver bisogno di me.
Passandomi il pollice sul filo rosso legato al mignolo, scesi nuovamente nel
seminterrato, e vidi mia sorella già pronta a prendermi nuovamente in giro.
Il Natale più bello dopo anni e anni di inerzia.
---
This chapter is HUGE. HUGE, I tell you. And
I write HUGE in capital letters just to make sure you understand that this
chapter is, like, super HUGE. Più
che altro scrivevo senza accorgermene. Vado a periodi, ovviamente, come tutti. Posso
rimanere inattiva una settimana e poi scrivere dieci pagine e oltre di word in
due sole nottate – sì, uso la notte per scrivere, sono molto più sveglia.
Simona è adorabile, no? Cioè, è totalmente una figa, dai, hahaha,
rido da sola perché ho fatto un personaggio piuttosto strambo e quindi mi vien
da ridere se ci penso. Me la immagino a ridacchiare come una poco sana di
mente, un po’ come… non so come spiegare l’immagine
che ho in mente… tipo Rossana in…
Rossana. Il cartone animato. Quando si prendeva gioco di Heric,
e poi rideva tutta soddisfatta, con la bocca a triangolo e gli occhi spiritati.
Ecco.
Oh, ho trovato un’immagine, è perfetta!!!
Quella è Simona da ragazzina. Ha pure lo stesso colore di capelli che m’immagino.
Spero che la roba dei messaggini non vi abbia annoiato. Io, personalmente, mi
sono divertita un mondo a farli comunicare via sms come una coppia di ragazzini
<3 Quelli che fissano il cellulare in attesa di quel magico messaggino che
possa migliorare loro la giornata.
Bonatti l’ho riportato sulla scena perché mi stava
troppo simpatico. E poi perché volevo che Andrea ammettesse davanti a un quasi
sconosciuto che ha una relazione con uno studente. Il mio Andrea sta crescendo.
Il mio bambino *si asciuga lacrimuccia*.
E comunque, il Natale che ho descritto è uguale a quello che passo io più o
meno ogni anno, solo che di solito io sono più partecipe. Non me ne sto in un
angolo a parlare col mio amante di quindici anni più piccolo, e poi comunque il
mio cellulare non prende lì sotto. I due bambini descritti (i cugini di
Valerio) sono i miei cugini. Federico e Francesca. Non interessava a nessuno, mmh.
Lorenzo non l’ho approfondito come personaggio perché non voglio farlo. E’ uno
molto paziente e gentile, comunque, e che capisce al volo le cose. Un po’ come
me, solo che io sono rompiballe. Avessi capito che Andrea se la faceva col
ragazzino, sarei andata lì a dire: “Eeeh, guarda che
lo so che te la fai…” eccetera. Come Giulio, stessa
roba irritante. Giusto perché l’ho già fatto.
E comunque, chi se ne importa di me! Vi saluto, un bacio a chi segue ancora! La
storia sta volgendo al termine, per vostra somma gioia XD
Pagina Facebook Mirokia: http://www.facebook.com/mirokiaEFP
Quando Valerio mi fece l’ennesima chiamata avvisandomi riguardo il suo arrivo
imminente, non mi sentivo tanto bene. Il giorno prima avevo avuto la febbre,
anche se non troppo alta, ma non ci avevo fatto troppo caso, ed ero comunque
uscito a fare la spesa, ché ci tenevo a fare una sorpresa a Valerio quando
sarebbe tornato – Bonatti aveva ragione: ero nella
merda. Quindi avevo ignorato la temperatura salita leggermente la sera, perché
la febbre la sentivo solo quando era piuttosto alta. Stranamente, avrei detto,
visto che mi consideravo uno dal fisico deboluccio. Probabilmente il giorno
dopo avevo avuto decimi di febbre sino al pomeriggio tardi e, impegnato com’ero
stato a preparare una cena coi fiocchi, non me n’ero neanche accorto. Ma adesso
che era già sera, la tavola apparecchiata con tanto di tovaglia e tovaglioli
rossi e dorati in perfetta atmosfera natalizia – e anche un paio di candele per
rendere la stanza più accogliente – sentivo la stanchezza della giornata
acquistare il doppio del peso e gravarmi sulle spalle come un macigno.
Quando suonò il citofono, controllai per l’ultima volta che tutto fosse in
ordine e, dopo aver aperto il portone, mi assicurai di aver già spento il forno
e di aver messo in frigo i dolci. Poi mi appostai all’entrata dopo aver aperto
la porta, addosso l’ansia del primo appuntamento. Sentii il suono frenetico dei
piedi diValerio che salivano le scale e
un “Mi scusi!” mortificato ma poi non così tanto quando superò la mia vicina
che pure stava salendo le scale per rientrare a casa. Quando mi vide lì
piantato sulla porta, il ragazzo non ci pensò due volte prima di saltarmi
addosso, le gambe avviluppate al mio busto, lo zaino da esploratore che
raddoppiava il suo peso.
«Ciao!» si limitò ad esclamare, mentre io ero lì lì
per stramazzare a terra. La vicina non era ancora entrata in casa, ovviamente
incuriosita dalla scena, e quando Valerio riappoggiò i piedi a terra, le
braccia ancora appese al mio collo, e si sollevò leggermente sulle punte per
lasciarmi un bacio sulle labbra, la vidi sbiancare.
«Entriamo, è meglio,» gli bisbigliai sulla bocca, mentre quello si allungava
per altri baci, completamente dimentico della vicina dietro di noi, gli occhi
sbarrati e la bocca semiaperta, la mano che minacciava di lasciar andare la
busta della spesa. Quando finalmente Valerio realizzò, si voltò verso la porta
accanto alla nostra, guardò la donna del tutto paralizzata - di certo non
respirava, non muoveva un muscolo, non battevale palpebre -, fece un suono con le labbra, poi mi picchiettò con la
mano aperta sul petto incitandomi così ad indietreggiare in casa, e lui mi
seguì in silenzio per poi chiudere piano la porta, quasi avesse paura che un
suono poco più forte potesse dare il colpo di grazia alla vicina.
Una volta dentro, Valerio mi rivolse uno sguardo da “Credo di averne combinata un’altra delle mie, scusa”, e io scossi
la testa, pensando al fatto che non avevo né voglia di arrabbiarmi, né voglia
di pensare alla vicina. E poi, che me ne fregava? A momenti neanche la
conoscevo. Il fatto che non ricordavo il nome non faceva che darmene la
conferma.
«Bentornato,» gli dissi semplicemente, con un sorriso che aveva già perdonato
il suo atto avventato. «Togli lo zaino. Non hai già mangiato, vero?» gli chiesi
mentre lo aiutavo a spogliarsi, chiedendomi come facesse ad essere così
energico dopo un viaggio in aereo. Io, per quelle poche volte che avevo
viaggiato in aereo, ero stato prossimo allo svenimento ogni volta.
«Veramente contavo di mangiare con te. Ti ho portato dei dolci,» e si mise a
frugare nello zaino poggiato sulla cassapanca lì all’entrata. Notai che aveva
dato un taglio drastico ai capelli, e adesso non andavano più per conto loro se
muoveva la testa. Stavano lì fermi, ma comunque tirati all’insù come al solito.
Sapevo che non usava né cera, né gel, né qualunque altro prodotto per capelli:
doveva essere l’elettricità nel suo corpo a spararglieli sempre in aria in quel
modo.
Finalmente trovò il pacchetto di dolci – bianco a cuoricini colorati – e me la
consegnò arrossendo leggermente.
«Sono tipici di giù,» mi informò, le mani intrecciate dietro la schiena.
«Oh, gra-»
«Ti vuoi mettere con me?»
Se ne uscì così, all’improvviso. Le braccia si muovevano, segno che le mani li
dietro si torturavano l’una con l’altra, mentre lo sguardo tentava alla bell’e
meglio di fuggire e nascondersi.
«…Eh?»
«Ci mettiamo insieme?»
Quando mi resi conto che la domanda non era stata solo una mia immaginazione,
mi saltò un colpo al cuore e portai istintivamente una mano sul petto.
«Noi stiamo già insieme,» gli feci notare, il respiro corto.
«Ma… quella cosa ufficiale…»
«Prima mangiamo, vuoi?» gli proposi, ché, davvero, in quell’angusta entrata
rischiavo di soffocare. Lui rilassò le braccia e, dopo aver assunto
un’espressione imbarazzata, allungò le mani sui miei fianchi e si alzò
leggermente sulle punte cercando la mia bocca. A malincuore, dovetti fermarlo
ponendogli la mano sulle labbra. «Non lo farei, se fossi in te. Ho un po’ di
febbre».
«Lo sapevo che eri pallido per un motivo!» esclamò quello tastandomi con un
indice la guancia libera dalla barba. Quel tastarmi non fece che trasformarsi
in una carezza e io, sul serio, alle sue carezze non riuscivo a resistere. Le
sue mani erano più fresche, visto che veniva da fuori, e fu un sollievo
sentirle sulla pelle che scottava.
Quindi alla fine lo baciai lo stesso, anche piuttosto insistentemente, le
bocche che si mangiavano a vicenda, l’aria che non riusciva a passare e non ci
permetteva di respirare, lo spazio ristretto che di certo non ci aiutava. Avevo
brividi di freddo spaventosi su tutto il corpo, eppure quello era il bacio più
bollente e famelico che, probabilmente, ci fossimo mai dati. E, sarà stata
l’intensità del bacio, o l’aria mancante, o molto più semplicemente la febbre,
non ci volle molto perché barcollassi, a un passo dallo svenire.
---
«Guarda che riesco a stare in piedi. E’ stato solo un leggero giramento di
test-»
«Tu non ti alzi da qui,» mi interruppe Valerio col tono severo delle mammine in
pensiero, e mi rimboccò per l’ennesima volta le coperte, come se nella camera
da letto ci fosse una bufera di neve in corso e lui dovesse proteggermi a tutti
i costi.
«Ho preparato tutta quella roba… Andiamo a mangiare e
dopo mi stendo di nuovo,» gli dissi quasi piagnucolando al pensiero del tempo
impiegato per fare il polpettone. Io che non cucinavo da mesi, e che
sinceramente non ero questo gran chef.
«Deciderò io cosa fare dopo che ti sarai misurato la febbre,» disse serio serio mentre apriva la scatoletta contenente il termometro.
Lo scaricò muovendo il braccio a scatti e me lo porse. «Sei stato dolcissimo a
prepararmi la cena, io, davvero, non mi sono mai sentito tanto amato, ma in
questo momento sono più preoccupato per la tua salute,» mi informò dopo essersi
assicurato che mi fossi infilato il termometro sotto l’ascella.
«Ma non sto per morire!» gli feci notare sollevando la parte superiore del
corpo per mettermi a sedere, ma lui mi spinse nuovamente sul cuscino.
«Vado a prenderti qualcosa di fresco da mettere sulla fronte e… che pillole prendi di solito?»
«No, non ci siamo capiti. Se devo starmene steso a letto, tu non ti devi
muovere da qui. Non ti vedo da più di due settimane, adesso non voglio perderti
di vista neanche per un istante,» gli dissi pizzicandogli la pelle del braccio,
e lui fece un mezzo broncio prima di sedersi sul materasso.
«Ti seccano le persone premurose, ho capito».
Non risposi alla sua domanda indiretta, perché era vero che sopportavo a fatica
i premurosi, e mi limitai a sorridere, le membra bollenti, gli occhi che
facevano male ogni volta che li sollevavo per guardare in faccia il ragazzo.
«Stai bene con questi capelli,» mi complimentai per la scelta del taglio mentre
gli carezzavo il braccio, e lui con un “Dici?” sembrò arrossire nuovamente,
anche se non ne avevo l’assoluta certezza, visto che con la febbre, seppur
leggera, avevo una visione distorta del mondo. Magari i capelli non se li era
neanche tagliati e mi stavo immaginando tutto, ne ero ben capace.
«Non ci credo, è ancora lì,» esclamò Valerio quando s’accorse del filo rosso
ancora legato al dito.
«Visto?»
«Mi stupisci,» confessò mentre ci passava sopra il pollice. «Adesso puoi
toglierlo, però. In effetti dà fastidio anche a me quando mi lavo le mani,» e
tentò di slegare il nodo del filo, ma io ritrassi la mano e mugulai
come annoiato.
«Stenditi, ché mi stanco a tenere il collo sollevato per guardarti in faccia.
Tanto probabilmente ti ho già regalato il virus e domani sarai anche tu
costretto a letto,» diedi una pacca al materasso accanto a me. «Così mi
racconti le tue vacanze natalizie».
«Va bene, mamma,» annuìe fece il giro
del letto per poi accoccolarsi tra le coperte, tirando subito dopo un sospiro
di sollievo, quasi aspettasse da tempo di riposare nuovamente su quel
materasso.
E ci raccontammo davvero le rispettive vacanze, in modo dettagliato, senza
omettere alcun particolare. Lui mi disse di aver avuto il fiato di suo padre
sul collo 24 ore su 24, che gli aveva permesso solo una volta di vedere i suoi
amici – aveva dovuto invitarli a casa a prendere il tè – e che a momenti non lo
accompagnava neanche dagli zii. Non era una forma di punizione però, mi disse
ancora, ma una sorta di perfettamente comprensibile possessività. Bruno amava
suo figlio, e voleva tenerselo ben stretto almeno per quei pochi giorni. E magari
evitare che parlasse di continuo con me, giustamente.
Poi mi raccontò di suo zio, o più precisamente, del marito di sua zia, e di
come fosse convinto da anni che Valerio avesse una ragazza e di come gli
regalasse sempremanciate di
preservativi perché “Non si sa mai che
n’estate rrii cu nupiccinnuanbrazze
e sinti ancora vagnunceddhu”.
Valerio gli diceva ogni volta “Zio, non
c’è pericolo, io sono…”, ma quello, ancor prima
che il nipote finisse di parlare, gli chiudeva la mano con dentro i preservativi
e poi gli dava pacche sulle spalle: “La sacciucasinti
prudente e giudizioso, ma credi a zio, usa questi e stai apposto, mh?”
«Vorrà dire che lo accontenteremo,» gli dissi carezzandogli la guancia col
dito. Lui fece un sorriso sghembo e nascose la faccia nell’incavo del mio
collo.
«Scotti come l’inferno,» commentò passando un orecchio fresco sulla parte più
calda del mio collo e lanciandomi un brivido su tutta la schiena.
«Hai già avuto un assaggio dell’inferno?» gli chiesi, e mi resi conto che quei
brividi erano tutt’altro che fastidiosi: mi instillava il piacere carnale che
soleva prendermi ogni qualvolta mi ritrovavo a contatto con Valerio. Ma quella
volta, la voglia di sentirlo contro di me, fresco come l’aria di gennaio, era
davvero troppa. Volevo starmene inerme sotto di lui, che passava una mano su
ogni mio centimetro di pelle marchiandolo col tocco freddo.
«Diciamo così,» fece lui, un retrogusto leggermente malinconico. Parlando
d’inferno gli venne in mente qualcosa, e si appoggiò sui gomiti parlandomi da
vicino. «Prima che rincomincino le lezioni andrò a trovare mio fratello.
Verresti con me?»
«Lo sai che gli ospedali non mi-»
«Voglio fartelo conoscere. E voglio che lui conosca te. Anche se ho paura che
mi tradirai con lui, è cento volte più attraente di me,» mi disse con una
smorfia infastidita, e io mi dissi che non andare a trovare suo fratello perché
non mi piacevano gli ospedali sembrava piuttosto una banalissima scusa.
«In effetti credo di aver bisogno di scambiare due parole con mio cognato,» dissi
quindi, accettando finalmente la sua proposta. Lui mi ringraziò abbassando
leggermente le palpebre, e si allungò a baciarmi sul mento. Restò fermo su quel
punto e poi iniziò a dare piccole lappate, sperando che io m’abbassassi e gli
lasciassi libero l’accesso alla bocca. Lo sentii emettere un sospiro frustrato
non glielo permisi, l’accesso, e invece di salire, scese sul collo appena
privato della barba, strusciandosi indecentemente contro la mia gamba tra le
sue. «Vuoi farlo, vero?»
Lui deglutì e annuì ripetutamente, gli occhi velati di lussuria e impazienza,
il respiro già affannoso.
«Ce la fai?» mi chiese, ancora così preoccupato per quella mia febbricciola da niente.
«Non credo,» mentii facendolo aderire ulteriormente alla mia gamba. «Ma tu sì. E
anche io voglio farlo, ho aspettato troppo a lungo».
«Che vuol dire “Ma tu sì”? Non vorrai che sia io a-»
«Solo quando l’avrai fatto staremo ufficialmente insieme,» inventai qualcosa
per convincerlo a prendere in mano le redini, almeno per una notte. Mi resi
conto che solo in quel modo mi sarei davvero sentito cosa sua, e ci avevo
pensato per tutte le vacanze. «Così potrai scriverlo anche su facebook,» risi, e quello era così immerso nel pensiero
della mia frase appena precedente, che si trovò un attimo spaesato.
«Io… cosa?»
«Perché ti fai tanti problemi? Non me ne sto facendo io!» gli feci notare, e
quello fece una faccia da “Lo sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo
momento”. Intrecciò una mano alla mia e prese un finto respiro profondo, perché
sì, se lo aspettava, glielo leggevo negli occhi socchiusi. E non ci mise molto
a convincersi che l’avrebbe fatto, questa volta.
«Er…Okay…» assentì, la
mano che già scorreva sul mio addome. Ma per quanto si fosse preparato
all’avvenimento, si dimostrò comunque un imbranato a metà. Un adorabile
imbranato. Mi chiese se poteva togliermi le coperte di dosso e se per caso
sentivo freddo. Io gli dissi che poteva fare quello che credeva, quindi lui,
premuroso sino al midollo, abbassò la coperta sino a sotto l’inguine, lasciando
ben coperte le gambe, che non fecero che sudare per tutto il tempo. Mi baciò
attorno all’ombelico mentre tastava con insistenza in mezzo alle gambe, bramoso
di potersi finalmente riempire la bocca, dopo settimane di frustrante attesa. O
almeno, questa era la mia sensazione mentre lo sentivo respirare forte sui
boxer che spuntavano appena dai pantaloni. Mi sbottonò i jeans con attenzione, poi me li
stropicciò sulle gambe e li lasciò lì sulle caviglie, mentre si contorceva
tutto su un solo punto del mio corpo, ci si chiudeva a riccio, le membra che
fremevano quasi più delle mie.
«Però dopo mi scopi tu, okay?» chiese a un certo punto con la lingua
indolenzita a causa del continuo leccare, rompendo inevitabilmente l’atmosfera.
«Dipende da quanta febbre ho. E ti ho detto che non mi piace quando usi quei
termini,» risposi secco, più che altro per gli ansiti che tentavo di
trattenere. Lui tornò col capo tra le mie gambe borbottando un “Vecchio
caprone” e solo in quel momento prese a succhiare forte, quasi a farmela pagare
per avergli risposto male. E, come se non fosse abbastanza, appena mi lasciavo
andare a sospiri più rumorosi e a movimenti del bacino che mi permettevano di
sistemarmi meglio nella sua bocca, quello sollevava il capo e smetteva di
lavorarmi, guardando compiaciuto come tendessi il bacino bisognoso in avanti,
frustrato di quelle interruzioni improvvise.
«Che carino,» e mi rise sul pene. Una risata che alle mie orecchie arrivò
erotica, ma parecchio, e il che non m’aiutò, perché quello era impegnato a
ridermi in faccia piuttosto che continuare quello che stava facendo. Ora capivo
come si sentiva lui ogni volta che mi comportavo allo stesso modo, che mi
fermavo a guardare le sue espressioni mentre la mano che lo masturbava rallentava
inevitabilmente.
Ma almeno adesso sembrava essere entrato nello spirito giusto.
«Te l’ho già detto che hai il cazzo più bello che abbia mai visto, o toccato, o
succhiato?» mi chiese retoricamente mentre mi guardava il membro dal basso,
quasi stesse osservando meravigliato chissà quale opera d’arte.
«Mi raccomando, continua a riportarmi alla mente il tuo passato da risucchia-tutto. Soprattutto adesso. Mi raccomando,» gli
dissi tutto dolorante, e andai inconsciamente a posargli la mano pesante sul
capo, facendo poi una leggera pressione in modo che continuasse quello che
aveva interrotto. Ma lui a quel punto si alzò e frugò nel cassetto del comò in
cerca del lubrificante. Prese anche un preservativoe lo sventolò come fosse una bustina di
zucchero. E io che me ne stavo lì disteso supino a soffrire.
«Con o senza?» chiese semplicemente, e sembrava tranquillo e compassato, ma la
guancia gli tremava, e il cavallo dei pantaloni era straordinariamente
rigonfio. Che è, gli era cresciuto durante le vacanze di Natale?
Non gli risposi, ma gli feci segno con la mano di avvicinarsi al letto, come i
malati terminali che vogliono dire l’ultima parola al proprio erede. Lui mi
raggiunse mettendo a fatica una gamba davanti all’altra e nel mentre si sfilò
la felpa pesante, lasciando che i primi brividi andassero ad occupargli le
braccia. Aprii la mano in attesa del preservativo, e lui me lo diede non senza
uno sguardo di disappunto. Ma parlò solo quando gli sbottonai i pantaloni e
aprii il quadrato di carta coi denti.
«Guarda che lo so mettere anche io,» disse allungando la mano per riprendersi
il preservativo.
«Lo so, ma non vorrei che facessi il furbetto,»
«In che modo, sentiamo,»
«Magari facevi finta di mettertelo e poi invece lo rifilavi a me,»
Lui stette zitto per qualche secondo col fiato sospeso – e io avevo l’erezione
lì sotto che non ce la faceva più -, poi si mosse e mi aiutò a tirargli giù
pantaloni e boxer.
«Ti pare che vado ad architettare certi stratagemmi?» chiese tutto serio, segno
che sì, ci aveva fatto un pensierino. Sorrisi tra me, poi scartai il
preservativo, e lui guardò altrove mentre glielo infilavo con cautela, entrambi
rossi in faccia per la posizione in cui eravamo. Non era ancora capitato che io
me ne stessi steso e lui in piedi accanto a me, la sua nudità a pochi
centimetri dalla mia faccia.
«Lo so mettere meglio io,» mi comunicò per poi scavalcarmi bellamente
rischiando di darmi una ginocchiata nei gioielli di famiglia. Emisi un gemito
di dolore.
«Ti ricordo che ho la febbre e che…» mi interruppi,
le mani chiuse a coppa sul mio povero membro che non ne voleva sapere di
rilassarsi.
«Che…?» mi incitò lui, sistematosi a cucchiaio dietro
di me, il preservativo viscido che lasciava tracce sulla pelle, in una
sensazione non del tutto piacevole, mai provata in vita. Forse ero davvero
destinato ad essere io l’attivo.
«L-lascia stare»
«Guarda che non me ne sono dimenticato,» disse poi, un soffio dietro il mio
orecchio, le mani che si posavano sulle mie a coppa e le allontanavano
lentamente, non facendo altro che aumentare la mia frustrazione. Quindi prese a
toccarmi lui, portandomi in breve tempo nuovamente a quel limite per il quale
riuscivo a emettere suoni che andavano dai guaiti di cani feriti, al piagnucolìo dei bambini, al miagolare dei gatti.
«Va bene…» dissi quando sentii di esserci quasi.
«Va bene cosa?» fece lui divertito, contento di potermi stuzzicare come io
facevo con lui.
«Va bene, puoi andare. Devi andare,
non ho voglia di venire in questo modo,» risposi, ché lo sentivo già vicino
alla mia entrata, che scivolava tra i glutei. Lo sentii soffiarmi nuovamente
sul collo, poi poggiò la fronte alla mia schiena, si aggrappò con un braccio
alle mie spalle e con l’altro si guidava, sperando che questa volta andasse
meglio della prima.
Fu quasi un disastro, in realtà. Sentii più dolore di quanto m’ero aspettato –
l’avevo detto che gli era cresciuto il pacco – e lui era stanco di spingere a
metà dell’opera. Non riuscì a toccare la prostata, quindi tutto ciò che
ricevetti fu dolore acuto, come se mi stessero strappando le membra. Ma venni
comunque, ché era impossibile non venire con quella voce rotta che ti ansima
nelle orecchie.
«Aspetta, aspe-» mi pregò dopo aver notato il mio
orgasmo, ché lui doveva ancora arrivarci. Stanco contro la mia schiena, la
bocca aperta che però non raccoglieva aria, si limitava a strusciare il membro
dolorante sulla gamba. Stavo per allungare la mano per aiutarlo, ma venne da
solo subito dopo, riprendendo finalmente a raccogliere aria nei polmoni, in
respiri lunghi ma spezzati. Giurai di poter sentire da quella distanza il
battito del suo cuore.
«…Non è andata troppo bene, vero?» fece lui dopo
minuti di silenzio, la fronte sudata contro la mia schiena e le braccia
avviluppate alla vita.
«A ripensarci, credo che mi piaccia più stare sopra,» ammisi, provocandogli una
risata sollevata.
«Come ti senti?»
«Non sono del tutto in forma. Ma mi dispiace non mangiare il polpettone,»
«Pensi ancora al polpettone tu?!»
«Ho fame!»
Mi tirò un pugnetto sulla schiena, disse “Va bene, ho
capito,” e rotolò giù dal letto preparandosi per una doccia calda. Mentre io
pensai al fatto che, per quanta fame avessi, non ero ancora in grado di
mettermi a sedere, figuriamoci di alzarmi in piedi.
---
Argh,
non sono in grado di descrivere rapporti sessuali inversi (?). Valerio è un passivone, non ce lo posso vedere così lol,
ma era necessario un tentativo da parte sua. Spero sia stato comunque di vostro
gradimento.
Le frasi in corsivo dette dallo zio sono in dialetto leccese (la mia terra
<3): “Non si sa mai che un’estate arrivi con un bambino in braccio, e sei
ancora ragazzino”. “Lo so che sei prudente e giudizioso, ma credi a me, usa
questi e stai a posto, mh?”
Chiedo perdono per il ritardo, ma avevo un calo d’ispirazione. Non solo per
Inerzia, ma per qualunque cosa. Ci sono periodi in cui scrivo a macchinetta,
una shot ogni due giorni, drabble,
olé, chi più ne ha più ne metta. E periodi in cui
vorrei solo guardare la tv. Che noia, eh? Sì, lo so.
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo, sperando di aver fatto bene i calcoli.
Alla prossima :)
Mi pettinai i capelli con una mano prima di entrare in ospedale, quasi stessi
per conoscere il papa.E fortunatamente,
Valerio non s’accorse del mio gesto: già me lo vedevo a prendermi in giro con
una mano schiacciata sulla bocca per evitare di ridere troppo rumorosamente.
Salimmo al secondo piano, e io avevo già le gambe che mi tremavano: era ormai
appurato il fatto che gli ospedali facessero uno strano effetto su di me. Non
amavo l’atmosfera, le persone sedute in sala d’aspetto, la gente con la mascherina
davanti alla bocca, le divise degli infermieri, l’odore nauseabondo nei
corridoi, le macchinette del caffè. Nulla era di mio gradimento lì dentro.
Valerio intercettò la mia espressione poco felice e mi lanciò uno sguardo da
“Falla finita, non staremo tutto il giorno”, poi mi fece segno di seguirlo, ché
un infermiere aveva appena spalancato una porta. La donna alla reception alzò
il capo e salutò Valerio con un “Ciao, tesoro, sei sempre il primo, eh?”. Al
che l’altro rispose con “Ormai sono qui più di voi”, e la donna non seppe se
prenderla per un’offesa o meno.
«Uno alla volta, mi raccomando,» aggiunse quando ci vide andare spediti verso
la stanza numero sette. Sentii Valerio sbuffare, poi si voltò verso di me e mi
fece segno di andare per primo.
«No, no, vai tu,» gli dissi frettoloso, anche perché non sapevo esattamente
cosa ci facevo in un ospedale. Non c’entravo niente, io. Valerio non fece
storie e andò per primo, forse rendendosi conto lui stesso che non aveva molto
senso farmi far visita a suo fratello in coma da anni. Quando entrò nella
stanza ero lì lì per seguirlo e fregarmene della
regola “Uno per volta”, ma la tizia alla reception aveva gli occhi puntati su
di me, probabilmente chiedendosi da dove spuntassi e perché non mi avesse mai
visto gironzolare con Valerio, e quindi non potei fare altro che sbirciare
nella stanza mentre me ne stavo appoggiato al muro a braccia conserte. Tanto
non vedevo un tubo, quindi era abbastanza inutile. Sapevo solo dire che Valerio
era in piedi davanti a un letto e sembrava stesse parlando. Mi accostai
maggiormente alla porta e mi sembrò di sentire qualcosa:
«Ti ho portato una persona. Te ne ho parlato la scorsa volta. E’ la mia persona
speciale, sono sicuro che andrebbe a genio anche a te, è davvero in gamba». Poi
si mise a bisbigliare per altri due minuti senza che potessi ricavarci granché
e uscì con l’espressione più serena, avrei detto sollevata. Non riuscii a
resisterle, e mi piegai per baciarlo sulla bocca socchiusa, nonostante avessi
gli occhi della tizia ancora puntati addosso. Lui rimase spiazzato e non riuscì
a spiccicare parola mentre mi lasciava passare.
Là dentro l’odore antipatico era ancora più forte: avevo quasi la tentazione di
tapparmi il naso. Ma non fui in grado di muovermi di un centimetro quando intercettai
la figura del fratello di Valerio distesa sul letto e circondata da macchine
che emettevano suoni e luci intermittenti e da fili di diverso spessore. Non mi
sentivo troppo bene: quell’immagine non faceva che portarmi alla memoria quella
di mio padre, sofferente per i polmoni ridotti in briciole e per la gamba che
non voleva funzionare. Forse era perquel motivo che non ne volevo sapere di ospedali: perché non facevo che
fare avanti e indietro da casa mia in ospedale sino a qualche anno prima.
Tuttavia, mi dissi che dovevo darmi un contegno e che non potevo continuare a
vivere con il terrore dei funerali e il disgusto degli ospedali. Mi avvicinai
rigido come un palo al letto avvolto dai fili e allungai gli occhi sul viso del
ragazzo. Non potevo vedere molto, visto che aveva metà della faccia coperta da
una mascherina. Ma da quello che potevo vedere, era differente in tutto e per
tutto da Valerio, se non, forse, per il colore dei capelli, quel biondiccio
vicino al castano. Aveva delle ciglia particolarmente folte, al contrario di
Valerio, e i lineamenti squadrati come quelli del cattivo di un telefilm. Poi,
a quanto mi aveva detto Valerio, aveva gli occhi scuri, tanto che facevi fatica
a distinguere l’iride dalla pupilla. L’ultimo particolare che notai fu la
cicatrice sulla fronte: in realtà erano tre piccole cicatrici che sembravano
formare un triangolo, ed erano quei tipici puntini che rimangono sulla pelle
dopo la varicella che hai fatto da bambino, soprattutto se in quel punto ti sei
grattato insistentemente. Quel triangolo formato da tre piccole cicatrici mi
ricordava qualcosa, o qualcuno, che si vergognava per lo stesso motivo: si
vergognava di quelle cicatrici così evidenti, perché gli amici lo prendevano in
giro…
Un’idea mi passò la testa veloce come un fulmine, mi dissi “Possibile?”, poi la
mano andò ad accarezzargli la fronte, inconsciamente, senza darmi il tempo di
chiedermi se potessi toccarlo o meno. Quel ragazzo lo conoscevo. Si chiamava
Alessio, Alessio Castelli. Certo che lo conoscevo.
«Sarai sempre tu la persona speciale di Valerio. Ma in attesa del tuo
risveglio, sarò io a prendermi cura di lui,» dissi ad alta voce mentre
continuavo a passargli la mano sulla fronte, avvertendola particolarmente
fresca rispetto alle mie dita. «Tuo fratello mi ha cambiato la vita. Vorrei che
potessi vederlo, adesso. Vorrei che potessi vedere me e quello che sono
diventato,» dissi ancora, senza un vero senso logico, le lacrime che
inspiegabilmente pizzicavano agli angoli degli occhi. Ma prima che potessi permettermi
di lasciar andare quelle lacrime, mi allontanai da Alessio e uscii velocemente
dalla stanza socchiudendomi la porta alle spalle. A quel punto fu Valerio ad
accogliermi con un bacio, come io avevo fatto con lui poco prima. La signora
alla reception non ci salutò quando uscimmo abbracciati, io con la mano nei
suoi capelli e lui col braccio stretto al mio fianco.
---
Il mio ricordo risaliva al quarto anno di liceo, quando stava lentamente
scemando la mia voglia di fare l’animatore in oratorio. Era ormai arrivata
l’estate, e io quell’anno avevo evitato per un soffio il debito in matematica –
era l’unica materia in cui non riuscivo a raccapezzarmi -, e solo per quello
ero felice come una Pasqua. Ma la mia occupazione giornaliera in oratorio non
faceva che buttarmi il morale a terra: i ragazzi con cui animavo non mi
andavano affatto a genio – come se ci fosse davvero qualcosa che mi andasse a
genio – e i bambini con cui avevo a che fare diventavano ogni anno più
impertinenti e ingestibili, e mi facevano tornare a casa ogni giorno con
l’emicrania e con la voglia di entrare in letargo estivo.
E quindi, il mio ricordo risaliva a uno di quei giorni lì. L’ennesima giornata
passata a controllare contro voglia i ragazzini che scorazzavano per il
cortile, con solo una brioche per merenda e un cappellino per ripararmi dal
sole cocente.
«Scusami,» una voce femminile sembrò chiamare me, anche se poteva benissimo
essere un miraggio, vista la mia visione distorta del mondo dovuta al picchiare
del sole sulla mia testa. Mi voltai, e vidi una donna sulla soglia del
cancelletto posteriore che, stranamente, era aperto. Maledii chiunque l’avesse
lasciato aperto, visto che se l’avesse scoperto il Don, avrebbe dato la colpa a
me, come sempre.
«Posso entrare?» chiese ancora la donna e io, braccia conserte e sguardo
antipatico,
«Faccia pure,» dissi, ché tanto ormai era più dentro che fuori. La donna aveva
lunghi e folti capelli ricci e biondi, e immaginai dovessero essere come una
cappa sulla testa. Che diavolo aspettava a legarseli? Sarebbe morta di caldo,
come minimo. Notai solo qualche secondo dopo che teneva per mano un bambino
minuscolo che indossava un cappellino colorato e si guardava intorno quasi
fosse nel paese delle meraviglie.
«Sono passata perché ho dimenticato di dare le chiavi di casa e un paio di
altre cosette a mio figlio,» mi disse la signora quando mi fu abbastanza
vicina.
«Chi è suo figlio?» le chiesi, e lei mi indicò con la mano libera uno dei due
ragazzi che giocavano a pallone davanti al murales principale nel cortile.
«Alessio Castelli,» mi disse il nome del ragazzo, e io feci “Ah, certo”,
riconoscendo in quel nome il mio animato più grande, quello che, probabilmente,
l’anno dopo avrebbe iniziato il corso da animatore.
«Le dispiace tenerlo un secondo? Vado e torno».
E mi mollò il bambino che teneva per mano per poi camminare svelta verso il
ragazzo biondiccio che giocava a pallone. Abbassai lo sguardo verso il piccolo,
e quello mi guardò a sua volta da sotto il cappellino con la visiera.
«Er… la tua mamma arriva subito,» feci impacciato
mentre stringevo la mano sudata del bimbo.
«Lo so!» esclamò quello, la voce minuscola quanto lui. «La mamma arriva sempre
subito. Oggi mi ha raccontato una storia. Te la dico?» fece poi, mangiandosi
tutte le parole, quasi ingozzandosi con la sua stessa saliva. Non mi capacitavo
di come potesse saltare da un argomento all’altro con così facilità, ma risolsi
tutto col fatto che era un bambino, per altro molto piccolo, e dai bambini
molto piccoli non puoi aspettarti coerenza. In realtà puoi aspettartene ancora
di meno dagli adulti.
«Certo. Dimmi tutto,» gli sorrisi, un po’ falso, e intanto cercavo con lo
sguardo la madre.
«Mi ha raccontato che io ho un filo rosso legato al dito, però è invisibile, e
è legato anche a un’altra persona nel mondo, e quando mi farò grande mi
incontrerò con quella persona del filo, e questo si chiama destino!» disse
tutto orgoglioso della sua storia e intanto muoveva l’indice della mano destra
in aria, davanti alla luce del sole. Sorrisi divertito, sinceramente questa
volta, gli dissi che era una storia molto carina, fantasiosa ma molto carina.
Poi la madre del bambino tornò indietro tutta trafelata – probabilmente doveva
essere piuttosto di fretta – e il marmocchio mi lasciò la mano per poterle
andare incontro.
«Aspet-» dissi d’istinto quando mi sentii tirare in
avanti nel momento in cui il bambino mi mollò la mano per allontanarsi:
sembrava infatti che il suo piccolo orologio colorato si fosse impigliato al
mio bracciale di stoffa rossa, uno di quelli che ogni animatore doveva avere al
polso insieme alla maglia dello stesso colore. Un filo sottile collegava adesso
quell’orologio e il mio bracciale, e in quel momento mi sembrò tanto ironico
che mi venne da ridere, e il bambino si fermò a guardarmi ridacchiare e poi
spostò lo sguardo confuso sui nostri polsi collegati, e gli si illuminarono gli
occhi azzurri.
«Il filo rosso…!» esclamò tutto eccitato, e io mi
avvicinai per slegarglielo dall’orologio, sorridendo per la reazione che sapevo
sarebbe arrivata in quel modo.
«Perdonami il disturbo, buona giornata,» mi disse la donna quando ci ebbe
raggiunto. Io scossi la testa come a dire che non aveva nulla di cui preoccuparsi
e salutai con la mano da cui pendeva il filo rosso, mentre quella tentava di
portare via il bambino, che non voleva schiodarsi dalla sua posizione.
«Andiamo, Valerio,» lo incitò, e a quel punto il bambino la seguì senza mai
distogliere lo sguardo dalla mia figura, a costo da farsi venire il torcicollo.
---
Tenni per me quel ricordo, perché non sapevo quanto potesse essere veritiero.
Per quanto potevo saperne, sarebbe potuta benissimo essere una mia convinzione
condizionata dai racconti strambi di Valerio. O sarebbe potuto essere tutto
vero a parte i nomi dei bambini: come facevo a ricordarmi che quella donna
aveva fatto i nomi di Alessio e Valerio? Ma il pensiero che almeno un quarto di
quel ricordo potesse essere vero, mi metteva addosso un inquietante senso di
appartenenza a qualcosa, a qualcuno, sin dai miei diciassette anni. Un calore
all’altezza del petto che mi teneva compagnia anche quando mi sentivo solo.
Cosa che capitava raramente ormai, non solo per la presenza costante di Valerio
anche quando non era fisicamente accanto a me, ma anche per quella di Giusy e
Giulio, o di mia sorella, che da quando aveva scoperto il mio oscuro segreto,
invece di scappare disgustata, aveva preso gusto a stare con me e mi proponeva
di vederci e di uscire a fare shopping con un entusiasmo di cui mai avevo fatto
esperienza. Soprattutto, era convinta che adesso mi fosse nata una passione
smisurata per lo shopping. Gli stereotipi nella sua testa erano ben radicati.
Non sapevo se Giulio e Giusy fossero più affezionati a me o a Valerio, ma non
la finivano più di fare avanti e indietro da casa mia, anche in orari in cui sapevano
benissimo di poter interrompere qualcosa. Ma stranamente non mi dava poi così
fastidio. Prima di Valerio, ero di cattivo umore sin dalla mattina; ma da
quando mi svegliavo e sentivo quel respiro profondo accanto a me, non riuscivo
a non sorridere come un completo idiota.
In realtà sapevo che prima o poi sarebbe finita. “Il Per Sempre non esiste”, me
l’ero sempre detto, e mai avrei cambiato idea, di certo non adesso che m’era
capitato qualcosa di tanto bello quanto fragile, così incredibile che me lo
vedevo sfuggire dalle mani in qualunque momento, negli incubi di notte o quando
lo vedevo divertirsi con qualcun altro. Mi dicevo che quel sorriso che adesso
rivolgeva a me, presto avrebbe illuminato qualcun altro, qualcuno di più
giovane e disponibile, qualcuno che avesse la mano ferma, che fosse in grado di
prendere decisioni e di badare a sé. Qualcuno di migliore. Ed erano tutti
migliori di me, là fuori.
Anche lui era della stessa idea. Una sera eravamo a letto a coccolarci come
ormai avevamo preso l’abitudine di fare ogni notte, e lui, dopo minuti di
silenzio, se ne uscì con un “Cosa succederà quando ti stancherai di me?”
«Volevo farti la stessa domanda,» feci di rimando, non poi così sorpreso. La
questione non era ancora saltata fuori, ma ce la si leggeva negli occhi quella
paura di perderci a vicenda.
«Pensi che un giorno potrei stancarmi di te?» mi chiese serio serio, e io annuii per poi smettere d’istinto di carezzarlo
sul braccio, quasi mi fossi realmente reso conto del pericolo che Valerio si
potesse stufare di me. Lui non parlò dopo il mio cenno col capo, ma si limitò
ad accoccolarsi ulteriormente contro il mio collo, quasi avesse bisogno di
protezione perché aveva paura di quello che c’era fuori da quel letto.
«Non dicevi sul serio quella volta, vero?» chiesi dopo aver ripreso ad
accarezzarlo, questa volta sulla nuca.
«Quando?»
«Quando hai detto che per te un “ti amo” equivale a una promessa di amore
eterno. Tu non credi all’amore eterno,» dissi senza intonare la domanda,
facendogli intendere che avevo ben capito il modo in cui ragionava, ormai. E
lui era troppo maturo per credere in certe scempiaggini. Lui strisciò il capo
nell’incavo del mio collo e rispose senza guardarmi.
«Le cose belle finiscono, e troppo in fretta,» mi avvolse maggiormente il
braccio attorno al fianco e strinse un po’.«Mi sono comportato in quel modo perché volevo ad ogni costo che il tuo
affetto fosse sincero e che non mi abbandonassi alla prima occasione».
«Avevi paura di stare solo,» ne dedussi, e quello strusciò il naso contro la
mia clavicola.
«No. Avevo paura che io e te non potessimo stare insieme,» mi corresse, e si
mosse un po’, quasi fosse nervoso: quel tipo di conversazione non doveva
piacergli particolarmente. «Però nel destino ci credo. Non so darmi una
spiegazione, ma credo sin da piccolo che tutto ciò che facciamo e ci capita sia
già scritto. Era destino che mia madre morisse, era destino che mio fratello
finisse incosciente su un letto d’ospedale. Così come era destino che
incontrassi te e che mi innamorassi davvero per la prima volta,» avvertii i
suoi nervi rilassarsi, probabilmente perché era passato a un argomento di cui
non gli dispiaceva parlare.
«Non hai paura che l’amore possa finire un giorno?» gli domandai allora,
tornando come un razzo al discorso di prima. Lo sentii mentre si irrigidiva di
nuovo e si scavava un posto comodo tra il mio collo e le mie spalle.
«Se partiamo entrambi col presupposto che niente dura per sempre, immagino che
finirà,» ammise, una smorfia in volto.
«Non potresti essere tu a stancarti per primo?» optai, e lui respirò forte dal
naso, quasi si stesse innervosendo. Si sollevò e mi lasciò un veloce bacio sul
mento, poi si posizionò a pochi centimetri dalla mia bocca e mi guardò
sollevandomi i ciuffi di capelli dalla fronte. Lessi in quegli occhi il terrore
e allo stesso tempo l’ostinazione.
«Possiamo pensarci quando verrà il momento?»
Lo fissai negli occhi decisi ma tremolanti e la mia espressione si raddolcì
come ogni volta che mi ritrovavo ad osservare la miriade di espressioni che il
suo volto riusciva a modellare. Lo attirai dal collo e me lo portai sulle
labbra, a finire quello che avevamo iniziato prima che ci perdessimo nelle
carezze.
Quella notte mi dissi che la nostra storia sarebbe potuta finire. Come la
maggior parte delle altre storie. Ma allo stesso tempo, mi dissi che nessuna
storia mi aveva saputo rigenerare a quel modo, nessuno era riuscito a farmi
sentire tanto vivo, tanto bello, nessuna esperienza mi aveva insegnato tanto
quanto quei pochi mesi in compagnia di Valerio. Comunque sarebbe andata, io
quel ragazzo l’avrei amato per sempre.
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Con oggi sono due anni che io e Valerio ci frequentiamo. Non abbiamo ancora
smesso di amarci, il che per me è un record, e per lui, a quanto mi ha detto, è
un miracolo. E’ davvero convinto che il destino abbia deciso di lasciarlo nelle
mie mani e si sia dimenticato di portarselo via. Io gli ho detto che sono
d’accordo con la decisione del destino e che lo terrei volentieri con me per
ancora un po’ di tempo.
Da qualche mese s’è trovato un lavoretto: bada a un paio di bambini, uno dei
quali è il figlio di un’amica di mia sorella. Ha avuto il permesso di portarlo
fuori oggi, e quindi ora se lo tiene seduto sulle gambe e gli sta insegnando a
fare un castello di carte, mentre mia sorella e Giusy giocano una partita a
scala 40, come le vecchie paesane. Io ho giocato il primo round, poi mi sono
stufato e ho lasciato fare a loro due, anche perché a malapena mi ricordo come
si gioca. Mi sono dedicato alla contemplazione di Valerio e al modo in cui dà
istruzioni al bambino per poter mettere una carta sopra l’altra tentando di
mantenere l’equilibrio dell’intero castello. Penso all’ironia della situazione
e a quanto possa benissimo essere una metafora della mia vita: Valerio sta
rimettendo in piedi quel castello di carta che lui stesso ha distrutto. Lo sta
ricostruendo a modo suo, e sta facendo in tutti i modi per tenerlo in piedi e
per renderlo più bello e colorato che mai. Mi lancia uno sguardo quando si
accorge di essere osservato, poi arrossisce e distoglie lo sguardo con in
faccia quel suo solito sorriso imbarazzato. Quello che non ha ancora perso. E
io, automaticamente, lo fisso ancora più intensamente, per metterlo in
difficoltà e costringerlo a lasciare il bambino per venire a darmi un bacio. E
i movimenti ci vengono ormai naturali, la sequenza è sempre la stessa, eppure
mi pare ogni volta nuova, e ancora non riesce a stancarmi. Non so quanto ancora
durerà, ma questa vita mi piace, e finalmente posso dire di poter vivere per
qualcosa. Di poter vivere e basta. Ho svoltato e imboccato una nuova strada e
ho scoperto che non è poi così male vivere per inerzia in questo modo.
Immagino che questa sia la mia nuova vita vissuta per inerzia.
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THE END.
Ce l’ho fatta *si bea degli applausi*
Vi confido che volevo farla finire male. Volevo farli mollare o volevo che
Valerio tradisse Andrea con un giovinetto, tanto perché la vita non è rose e
fiori e le storie finiscono. E gli esseri umani sono crudeli ed egoisti. La
maggior parte delle volte ^^ Non sto facendo una lezione di vita, sto solo
cercando di dirvi che volevo rendere la mia storia il più realistica possibile,
e spero di esserci riuscita comunque con quell’argomento dell’amore eterno
affrontato da Valerio e Andrea in questo capitolo. Sono entrambi coscienti che
l’amore potrebbe finire, ma preferiscono pensarci quando accadrà e se accadrà
davvero. Sarà un lieto fine vero e proprio? Chissà.
Grazie a coloro che mi hanno seguito in questo viaggio durato troppo tempo -.-
E’ perché ho allungato i capitoli, credevo di terminare molto prima. Anyway, spero che sia stata una buona lettura per tutti. Un
abbraccio!