Vitotal di Brin (/viewuser.php?uid=543)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Foglietto illustrativo del farmaco ***
Capitolo 2: *** la vita e la morte al tempo del Vitotal ***
Capitolo 3: *** Hannibal ***
Capitolo 1 *** Foglietto illustrativo del farmaco ***
vitotal
ATTENZIONE!
Vitotal NON È
una storia per stomaci delicati.
E' violenta, non so bene ancora fino a che punto (cioè quanto
saranno descrittive le scene), ma metto già da subito le mani avanti
anche soltanto per gli argomenti che ricorreranno nella trama. Se
siete impressionabili, allora probabilmente questa storia non fa per
voi. Per tutti gli altri invece, buona lettura.
CAPITOLO
1
Foglietto
illustrativo del farmaco
*
L’avevano presentata all’umanità gridando al
miracolo, acclamandola come la scoperta più importante del
millennio. Una chimera divenuta realtà. Un sogno bramato troppo a
lungo, inseguito da infinite generazioni di uomini.
Poeti, scienziati, filosofi: era stata per tutti un mito
da coltivare lungo i secoli, così splendente e irresistibile da non
poter essere dimenticata. Una promessa capace di scatenare
contemporaneamente le migliori virtù dell’uomo e le sue peggiori
voglie.
Una fantasia diventata reale, condensata in una pillola
piccola e immacolata capace di contenere in pochi milligrammi le più
grandi speranze di tutta l’umanità; un grumo di sostanze chimiche
pesante come una piuma, così importante da valere il premio Nobel
per la medicina.
*
VITOTAL
Foglietto illustrativo del farmaco
CHE COS’È
Vitotal pastiglie da 10 mg è un agente farmaceutico
appartenente all’ordine delle panacee.
PERCHÈ SI USA
Per il trattamento di sintomi di ogni tipo e di
qualunque gravità. Vitotal pastiglie è il farmaco dell’immortalità,
studiato per aiutare il fisico a rimettersi da qualunque malattia,
lesione o ferita.
EFFETTI INDESIDERATI
Durante la sperimentazione non sono stati riscontrati
effetti indesiderati.
*
Dopo millenni trascorsi a inseguire le sue tracce
mistiche, l’immortalità era diventata improvvisamente un dato di
fatto costoso e discusso; un lusso entrato a pieno titolo tra i
diritti inalienabili dell’uomo e, soprattutto, del malato.
Grazie all’esistenza del Vitotal sconfiggere la morte
era diventata una possibilità concessa dalla mutua a chi ne avesse
effettivamente bisogno; una scelta comprata attraverso i soldi da
chi, invece, era affetto da un’ingordigia che non conosceva fine.
Vitotal significava vita eterna: una promessa d’oro,
splendente e bellissima come il più fulgido specchietto per le
allodole. Una rosa rara, meravigliosa, impossibile da non desiderare.
Un paradiso irresistibile capace di cancellare in un
istante la più profonda di tutte le paure dell’animo umano. Un
desiderio che celava sotto la sua perfetta superficie un inferno
senza fine.
Perché rinunciare alla morte aveva un prezzo tremendo,
uno scotto che doveva essere pagato in eterno e, una volta comperata
l’immortalità, non c’era più possibilità di scelta. Non era
concesso tornare indietro.
E soltanto in quel momento, con quel contrappasso
soffocante a cui non si poteva sfuggire fisso sopra la testa, la
morte diventava un miraggio agognato che non poteva più essere
raggiunto.
Perché c’era una condanna peggiore della morte, ed
era vivere in eterno.
*
Profumavano di pulito,
di cura, di prodotto confezionato e inscatolato per apparire almeno
un po' appetibile. Schiave
in riga.
Tutte con lo sguardo
basso, le mani legate dietro la schiena; merce in attesa di un
destino che sarebbe piombato sulle loro teste da un momento
all'altro.
Avevano imposto a
tutte loro di non guardare ciò che si stava consumando di sotto:
dovevano aspettare senza fare rumore, zitte
e calate in pieno nel ruolo che era arrivato assieme alla prigionia –
quello di oggetti -
mentre
quelli,
attorno a loro, lasciavano che quello spettacolo osceno li consumasse
fino all'osso.
Non
importava quante grida avrebbero sentito, sovrastate dalla voce folle
del pubblico: l'ordine ere essere
invisibili,
e lì dentro quasi tutte non desideravano altro che sparire agli
occhi di chiunque avrebbe posato lo sguardo su di loro. Tutte tranne
lei, che cercava di strappare quanta più libertà possibile
all'ordine che le aveva costrette all'ignoranza.
Con
la testa appena un po' più alta - una manciata di millimetri che le
permettevano di spingere lo sguardo fino alla balaustra oltre la
quale si apriva il vuoto dell'arena, il cuore che batteva
imbizzarrito e il terrore di essere beccata che ne accelerava il
ritmo -, faceva finta di restare perfettamente nei ranghi. In realtà
guardava la folla gridare elettrizzata,
spiava
gli uomini massacrarsi ai piedi di quell'arena come fossero bestie; e
poi il sangue che bagnava le loro mani, la morte che li abbracciarva
senza però mai riuscire a prenderli, l'agonia che gli mangiava gli
occhi e rendeva il loro volto una maschera di grottesco orrore.
Guardava,
troppo irrequieta per riuscire ad accettare a occhi chiusi l'idea di
essere reclamata come trofeo da chissà chi; troppo annichilita per
riuscire a distogliere lo sguardo da quello spettacolo che, Dio, non
poteva in alcun modo essere umano. Guardava, perché l'idea di non
poter vedere in faccia il destino che le si sarebbe presentato
davanti la faceva impazzire.
Guardava,
Gemma, perché era la sola cosa che potesse fare.
*
NOTE
DELL'AUTRICE
Lo
so, vi starete chiedendo perché sono ancora qui, con il terzo
prologo di una nuova storia in due mesi. L'ho detto altrove che il
mio rapporto con l'ispirazione ultimamente è un po' problematico, e
lo dico anche qua. Il fatto è che Vitotal è sempre stata una storia
che in un modo o nell'altro mi ha tormentata a momenti alterni, e ora
grazie anche alle ragazze del gruppo mi è proprio esplosa nel cuore.
E
credo che lo sappiate meglio di me, quando una cosa vi esplode nel
cuore è impossibile contenerla.
Non
so bene quale sarà il ritmo di aggiornamento, per ora diciamo un
capitolo ogni due settimane: oggi ho iniziato a scrivere il terzo e
spero in questo periodo di metterne da parte altri, se l'ispirazione
vorrà.
Io
sono seriamente emozionata per il debutto di Vitotal: è una storia
estremamente particolare, molto cruda e decisamente angst, e non lo
so, credo che vi ripeterò questa cosa fino allo sfinimento onde
evitare di traumatizzarvi all'improvviso XD
Se
vorrete farmi sapere cosa pensate di Vitotal, qui oppure nel mio
gruppo facebook o nel mio account facebook, sarete sempre le
benvenute: io lo dico sempre, scrivo per me ma scrivo anche per voi,
e voi siete fondamentali per la mia scrittura.
Un
bacio e a presto,
Brin
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Capitolo 2 *** la vita e la morte al tempo del Vitotal ***
2
ATTENZIONE!
Vitotal
NON È
una storia per stomaci delicati.
E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno,
diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente
questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona
lettura.
CAPITOLO
2
La
vita e la morte al tempo del Vitotal
*
I
sobbalzi del furgone non sembravano abbastanza forti per spezzare
l’apatia che chiudeva quelle donne nel loro stesso mutismo: erano
leggeri, appena molesti, e costringevano i passeggeri a seguirne il
ritmo mollemente, inermi nel corpo allo stesso modo in cui lo erano
nello spirito.
Era
una di loro, Gemma. Lo era per scelta del destino, di quegli eventi
disperati che l’avevano portata a scegliere l’unica strada che
nessuna persona sana di mente avrebbe mai deciso di percorrere. Si
trovava tra quelle donne spente nello sguardo, silenziose, morte
dentro, eppure era profondamente diversa da loro.
Non condivideva la muta rassegnazione con cui si
chiudevano nel buio di quel furgone, tanto per cominciare. Nei loro
occhi rivolti al terreno non c’era riflessa alcuna speranza, nessun
tormento per cui lottare, nessuna vita a cui aggrapparsi. Erano una
cupa, disperata rinuncia che in Gemma non esisteva: lei era andata in
cerca di quelli
laddove sapeva che li avrebbe trovati, ovunque fosse il buio. In
qualunque angolo di Londra in cui il coprifuoco non arrivasse a
spargere la propria, insignificante protezione.
Lo
sentiva cantare la propria beffa persino in quel momento, mentre
studiava i volti delle donne con la schiena appoggiata contro la
lamiera del furgone e le mani ammanettate. Lo sentiva perfino lì,
nella fredda pancia di un camion che trasportava il suo carico
notturno di vite umane: il lamento prolungato e altalenante della
sirena era un canto inquietante che prometteva incubi e morte a chi
non avesse rispettato l’avvertimento che portava con sé, un boato
straziante che segnava l’inizio di un coprifuoco necessario. Un
boato che aveva costellato le giornate di Gemma da tanto, troppo
tempo.
Lacerava
il silenzio della sera con la forza di un pugnale conficcato nella
carne, uno strazio che squarciava l’anima e scatenava brividi
fastidiosi nello stomaco.
Era
l’agonia di una città morente costretta a metter sotto chiave la
propria vita, un suono che suscitava in Gemma le stesse sensazioni di
sempre - inquietudine, ansia, attesa - e che ora, al centro esatto
dell’incubo che quei lamenti portavano con sé, sentiva rinnovate.
Ricordava
quando ogni notte, alla stessa ora, quel boato rimbombava in ogni
fibra del suo corpo. Ogni volta le lasciava addosso un viscido senso
di impotenza che non riusciva a cancellare perché, sera dopo sera,
la consapevolezza che quelle persone
penetrassero in città era una certezza che non lasciava scampo,
nemmeno ai malcapitati che si trovavano a incrociarli durante il
coprifuoco. E lei non poteva fare altro che rimanere chiusa tra le
mura di casa, l’unica precaria barriera che la riparava dai crimini
invisibili di una sporca guerra civile in cui ogni cosa era concessa.
Rintanata
in una città rimasta orfana della propria umanità, almeno fino a
quando la guerra non era penetrata con i propri significati tra le
mura del suo piccolo mondo, lasciandola innamorata, disperata e
pronta a vendere l’anima.
La
gente spariva, inghiottita dal buio delle strade di Londra. Rapita da
loro, portata chissà
dove. Dio solo sapeva per quale scopo.
Nessuno
riusciva a spiegarlo, nessuno intendeva scoprirlo: meno ci si
mischiava con quelli,
più si guadagnava sotto ogni punto di vista.
Prima
della Cura la situazione non era stata così esasperata, Gemma lo
ricordava perfettamente: non c’era motivo per il coprifuoco, non
c’erano rapimenti, non esisteva paura. Erano solamente ricordi di
bambina, sfuocati e idealizzati, eppure ne era così certa che
avrebbe potuto scommettere sulla loro veridicità in qualunque
momento, a cuor leggero. Era stato il Vitotal a rovinare ogni cosa.
A
togliere l’umanità alle persone.
Poche
pillole bianche assunte con regolarità erano bastate a trasformare
Londra e il mondo, a scoperchiare l’avidità senza fine degli
uomini, brulicante come un ammasso di vermi nascosto in una carcassa
marcia. E da allora tutto era cambiato.
La
città, le persone… Loro…
Erano stati consumati dalla stessa cupidigia che lacerava la loro
anima e che li aveva portati ad affidare la loro vita a una promessa
di immortalità, segnati per l’eternità nel corpo senza
possibilità di ritorno. Un cancro che aveva diviso la città, che
l’aveva smembrata e sporcata di marcio, di invidia, di paura, di
ribrezzo. Persino di morte, nonostante loro
non potessero smettere di vivere. Perché Londra aveva allontanato
quelli, relegandoli ai
suoi piedi immacolati per proteggersi dalla loro disperazione e da
quell’odio rancoroso che li aveva portati ad alzare le mani contro
i fratelli che non si erano fidati del Vitotal, contro coloro che
avevano rifiutato la Cura.
Il
risultato era stato una rappresaglia violenta; incursioni affamate,
disperate. Persone morte, persone scomparse, persone trucidate con
l’accusa di aver rifiutato l’immortalità e i suoi devastanti
effetti collaterali. Fenomeni straordinari consumatisi all’ordine
del giorno, per anni. In breve tempo, per Londra il caos e la guerra
civile erano diventati la normalità.
Per
Gemma, invece, le cose stavano diversamente: crescendo aveva capito
che il Vitotal era stato la tomba dell’umanità. Un vaso di Pandora
che aveva legittimato ogni più cupa ossessione delle persone, una
miccia che aveva rotto gli argini e aveva fatto uscire i demoni
peggiori nascosti nel fondo inaccessibile dell’animo umano.
Non
era rimasto più nulla, dopo la Cura: l’amore, l’empatia, il
sacrificio… Ogni cosa era stata seppellita dal Vitotal in un cumulo
dimenticato, calpestato e lasciato a marcire nell’odio reciproco e
nella paura.
E,
come ogni altro libero cittadino di Londra, anche lei era stata
educata a odiare loro:
persone corrotte nell’anima e nel corpo, persone che non potevano
morire. Persone lacerate dall’invidia e dalla rabbia, consumate dal
desiderio di tornare indietro e di disfare i propri sbagli. Era stato
relativamente semplice lasciarsi plagiare dalla collera per ciò che
quelli stavano facendo
alla sua gente: abbandonarsi alle voci che abbaiavano la propria
indignazione ai telegiornali per la notizia dell’ennesima scomparsa
in Trafalgar Square era facile e fin troppo veloce.
Un’istigazione
ammaliante che non lasciava scampo.
Probabilmente
si era crogiolata troppo a lungo in quello stato di coscienza
passiva, quello era il suo peccato, perché non riusciva a pensare a
nessun’altra colpa sufficiente a giustificare il contrappasso che
si era abbattuto sulla sua testa.
Per
un tremendo scherzo del destino, infatti, Gemma si era ritrovata
gettata nello sconforto più nero da un giorno all’altro, disperata
all’idea di perdere una delle persone più care che avesse.
All’improvviso, il Vitotal – quelle pastigliette piccole e
bianche, che segnavano in maniera irrimediabile l’esistenza di una
persona - le erano sembrate l’unica via di uscita da quell’incubo
che non aveva il coraggio di affrontare.
Lasciare andare il suo
ragazzo nel letto di morte non era un’opzione.
Lui che era
vittima del male che lo stava consumando, lui che si stava spegnendo
sotto l’avanzata inarrestabile del tumore… Lui che era stanco,
malato, divorato nel corpo e nello spirito da un nemico troppo
grande… Gemma era troppo codarda, per lasciarlo andare.
Troppo
egoista.
Troppo
ignorante.
Troppo
innamorata.
Non
aveva visto abbastanza. Il Vitotal, i suoi effetti irreversibili,
l’inferno perpetuo a cui il farmaco condannava… Gemma non aveva
visto niente di tutto questo, e quando si era trovata davanti a
quegli uomini incappucciati, tutto quello che aveva provato era stato
sollievo.
Mentre
la circondavano, mentre le premevano le mani protette dai guanti
sulla bocca, mentre la immobilizzavano e le strappavano ogni forma di
libertà… Avrebbe dovuto farsi travolgere dall’orrore per quello
che le stava succedendo. Avrebbe dovuto agitarsi e gridare, avrebbe
dovuto lottare per riconquistare il diritto a difendere la propria
vita perché, Dio, quelli
facevano sparire per sempre le persone.
Eppure,
mentre le mettevano le mani addosso e la caricavano sul furgone che
le aveva precluso la strada, tutto quello che aveva provato era stato
un sollievo profondo che non conosceva logica, una condanna al
massacro che lei aveva accolto con gioia.
Era
stata la morte dell’istinto di sopravvivenza.
Era
stata la perdita di ogni coerenza, di ogni logica, di tutto quello
che ruotava attorno all’umanità, e lei l’aveva abbracciata con
una gioia disperata.
Tutto,
pur di salvare il suo ragazzo.
Così
eccola lì, in quel furgone, diretta verso luoghi da cui Dio aveva
distolto lo sguardo.
Non
parlò mai, per tutta la durata del viaggio. Nessuno lo fece, a dire
la verità: tutte le persone che viaggiavano assieme a lei su quel
furgone restavano chiuse nel loro mutismo, un silenzio affollato da
pensieri fin troppo pesanti per riuscire a vincerlo.
Gemma
ascoltò ogni singolo sobbalzo. Restò con la mente protesa verso i
rumori del motore, verso quel ritmo dinamico che descriveva un
percorso che lei poteva solamente immaginare. Eppure, per quanto
tentasse di capire dove fossero diretti, tutto quello che riuscì a
raffigurare nella propria mente erano un mucchio di punti senza capo
né coda, vie che avevano inizio ma che si disperdevano dopo i primi
metri di tragitto.
Era
smarrita, Gemma, e quella stessa dispersione che l’attanagliava
alla gola al suo primo fallimento era la stessa che riconosceva negli
sguardi delle persone che condividevano con lei l’abitacolo e la
sorte.
Perché
forse, dopo tutto, quelle donne non erano poi così diverse da lei.
*
Arrivarono
a destinazione dopo minuti interminabili, una tortura che avrebbe
condotto facilmente all’isteria chiunque non avesse avuto un
obiettivo abbastanza saldo a cui aggrapparsi per non affondare.
Quando
aprirono le porte del furgone – quando si spalancarono le porte
della prova più difficile che avesse mai affrontato -, Gemma era
aggrappata nel cuore all’uomo che l’aspettava a casa, in quel
capezzale di morte e condanna che non gli avrebbe lasciato scampo
alcuno, a meno che…
«Scendere!»
un omaccione dai modi bruschi la trascinò fuori, una spinta poco
paziente che la fece caracollare al contatto con il terreno. «Veloci,
scendere!»
Non
riservarono loro buone maniere naturalmente, né Gemma le concesse:
strappò il braccio dalla presa dell'uomo, un bisonte nella stazza e
un cinghiale nello sguardo, con quegli occhietti cisposi che la
guardavano come se fosse l'ennesimo pezzo di carne destinato al
macello.
«Faccio
da sola!» si difese da quei modi racimolando ogni spicchio di
autonomia che ancora le era consentita, ma dal modo in cui lui la
guardò... Beh, da quello non ci fu difesa: le entrò dentro
strisciando, come un presentimento disgustoso e tremendo, e rimase
lì, sotto la pelle, a pungolarla con il suo respiro viscido. Non
riuscì a scrollarselo di dosso quando si unì alla fila di donne e
uomini scesi dai furgoni - uno, due, cinque furgoni, che vomitavano
un carico di vite esagerato -; non riuscì a disfarsene neppure
quando alzò lo sguardo sull'immenso edificio che le svettava
davanti, un albergo di mille e mille piani proteso ad arrampicarsi
verso il cielo. La sensazione di essere un
numero era
lì, in pieno petto, tra il cuore e lo stomaco.
Pensa
a Curtis. Pensa disperatamente a lui, finché non avrai neppure il
tempo per provare paura.
E
lo fece, Gemma. Pensò a lui, alla luce che aveva portato nel periodo
più buio della sua vita; alla dolcezza che le aveva asciugato le
lacrime, al vuoto che aveva colmato. Le aveva ricordato come fare per
sorridere, Curtis, e da quando l'aveva conosciuto tra i banchi di
scuola molti anni prima, quei sorrisi sul volto di Gemma erano
diventati sempre più frequenti.
Le
aveva fatto dimenticare. L'aveva indotta ad andare avanti, a non
pensare a ciò che aveva riempito la sua vita fino a quel momento -
fino alla notizia che aveva fatto precipitare il suo sorriso nel buio
più denso.
Lasciarlo
andare non era un'opzione possibile. A costo di scendere a patti con
quelli che avrebbe dovuto odiare - Dio, era pronta a stringere
qualunque genere di
patti, senza riuscire a mettere a tacere la disperazione abbastanza
da provare ribrezzo -, avrebbe portato Curtis indietro. Da lei.
Alla
vita.
*
La
costrinsero a restare nel gruppo ormai avviato verso l'entrata, e
quando
oltrepassò le porte - occhi degni di quell'albergo opulento e bocca
di un inferno di cui non si potevano ancora distinguere i contorni -,
Gemma si ritrovò catapultata in una hall che richiamava a sé tutto
il lusso del mondo, come se quella ricchezza
di qualità
dovesse coprire il marcio che brulicava oltre le apparenze.
E
scommetto che di marcio qui ce n'è eccome.
Di
persone, invece, quasi non ce n'erano: erano poche quelle sedute sui
divani, intente a parlottare; vestite di tutto punto come uomini
d'affari con le mani sporcate dalla stessa sporcizia che imbrattava
la loro vita. E la musica... Il suo rimbombo nasceva nel piano
inferiore e risaliva attraverso il pavimento, su quel marmo che
sembrava tremare sotto i piedi di Gemma.
Riuscì
a sbirciare poco della hall, un paio di occhiate lanciate senza
attenzione. Nulla più di questo, prima che l'ascensore si aprisse
sul piano: ne uscì una donna giovane e bella, i capelli rossi -
certamente tinti - che le cadevano sulle spalle lasciate scoperte, il
corpo fasciato in un tubino nero che le disegnava le curve alla
perfezione.
Era
sbucata assieme all'odore di tabacco che scivolava dalla sua pelle,
in mano un calice vuoto, usato; sul volto un sorriso calibrato con
attenzione nel giusto mix di femminilità e seduzione.
«Che
avete portato?»
«Quello
che vedi, Agatha» uno degli uomini che li avevano fatti scendere dai
furgoni si fece avanti, indicandoli con un cenno della mano. Era
piuttosto giovane, non più ragazzo ma neppure uomo fatto e finito,
ma nonostante questo i suoi occhi contenevano una maturità strappata
con i denti al futuro. «Maschi, femmine... Il solito.»
Il solito?
Dio, è come se questa gente vivesse
d'orrore.
Lei
si prese il suo tempo per studiare i prigionieri, le mani che
giocavano con il bicchiere, le unghie ingellate che battevano sul
vetro. Camminò davanti a loro lentamente, valutando chissà cosa sui
loro volti. Sui loro corpi.
Gemma
la guardò avvicinarsi con l'ansia che le divorava lo stomaco, il
pensiero di Curtis che tentennava davanti a quell'esame, a quelle
parole, alla familiarità che quelli
dimostravano
davanti a una simile situazione. Poi la donna le fu davanti: la
squadrò partendo dai piedi e salì, salì, salì fino all'altezza
del seno. E lì si fermò.
«Che
cos'è quello?» domandò indicando la collana che campeggiava sopra
il maglione. Gemma non ebbe neppure bisogno di calare lo sguardo, per
capire: si riferiva al pendente infilato in un semplice cavo di
caucciù, l'unico pezzo che rendesse quella collana effettivamente
tale. Un medaglione che era stemma del suo passato, e che uno stemma
in fin dei conti lo portava per davvero. Non se ne separava mai.
Fece
spallucce. «... Una collana?»
«Geniale.
Pensavo fosse una sciarpa» la donna la guardò annoiata, il sarcasmo
che filtrava goccia dopo goccia dalle sue parole. «Intendevo la
medaglietta. Da dove arriva?»
«Mi
è stata regalata molto tempo fa.»
«Capisco.»
Il suo sguardo si fece meno ostile, quasi premuroso
mentre
prendeva la collana tra le mani e gliela faceva scivolare sotto il
maglione. «Questa però è meglio se la tieni nascosta. Il marchio
che porta non è molto apprezzato da queste parti.»
Poi
riprese il suo esame, superando Gemma e continuando a soppesare il
resto dell'umanità che aveva davanti. Quando fu abbastanza
soddisfatta di ciò che aveva potuto vedere, si voltò verso il
ragazzo.
«Va
bene, Allen. Le donne vengono con me. Degli uomini invece sai cosa
farne.»
*
Stiparsi
dentro quell'ascensore fu come ammassarsi in un carro bestiame
destinato all'inferno. Scese senza fare rumore, soltanto un leggero
salto prima di muoversi: le porte si chiusero davanti a loro portando
via qualunque possibilità di fuga, incastrandole sempre più a fondo
nella pancia dell'Overlook Hotel e di quell'incubo che ancora non
aveva una faccia. Via, oltre il piano terra, ad affogare lentamente e
senza possibilità di ritorno.
Quando
arrivarono, il display sopra le loro teste indicava -1.
«Vi faccio fare il giro lungo» Agatha annunciò non appena le
porte si aprirono, e in quell'istante furono due le cose che
colpirono i sensi di Gemma: il corridoio sul quale l'ascensore si era
aperto – quasi del tutto buio, ad eccezione di una fila di piccoli
led posti come punti luce sul pavimento – e la musica che proveniva
dal fondo del corridoio, laddove due porte antipanico si aprivano su
un salone avvolto da luci soffuse.
«Che cosa avete? La
discoteca?»
le venne quasi naturale fare dell'ironia su quella cosa
che
le si prospettava davanti, quasi fosse una piccola, ignobile vendetta
di cui accontentarsi per qualunque merda le avrebbero tirato addosso
da lì a breve tempo, ma Agatha si voltò a guardarla proprio davanti
all'imboccatura della sala. Lì, ferma davanti alle luci che stavano
per inghiottirle – e attraverso cui Gemma poteva distinguere
contorni di tavoli, divani, banconi, pali
e palchi da vetrina
– aveva il sorriso sbilenco di chi sta per venderti salvezza e
dannazione in una comoda formula tutto
incluso.
«Non
fare la spavalda. Non qui, non con me. Se vuoi durare devi imparare a
farti degli amici, e che siano giusti, o non uscirai viva da questo
posto. Nessuna di voi lo farà.»
Farsi
degli amici. Era indubbio che gli amici, lì, avrebbero dovuto essere
persone di una certa importanza, con tutte le agghiaccianti
implicazioni del caso.
Cioè
dovremmo essere accomodanti, e possibilmente offrirci a novanta
gradi?
Le
venne un moto di nausea soltanto a pensarci. Il disgusto le si
appiccicò alla gola, il pensiero di Curtis che lo rendeva appena un
po' più liquido, un po' più facile da spingere giù, laddove era in
qualche modo controllabile. Le parole però le si inchiodarono sulla
lingua e non ne vollero sapere di scollarsi da lì neppure quando
Gemma entrò nel locale.
L'aria
era irrespirabile.
Fumo,
musica, sballo, carne in abiti succinti mostrata senza ritegno,
sbattuta in faccia a chiunque passasse come se fosse una merce senza
importanza. Era tutto lì, nello spazio di quella sala enorme adibita
a night club, sospeso sopra le teste di donne e clienti come monito e
promessa: questo
è il vostro posto, diceva
alle prime; qui
è dove passerete le serate migliori della vostra vita,
assicurava ai secondi.
E
Gemma capì con un moto di orrore.
«Rapite
le donne per farle prostituire!»
«Che
ti aspettavi, che le portassero qui per cucinare il pranzo?» Agatha
ribatté sarcastica, un'indelicatezza che in quel frangente, con
quella realtà tremenda davanti agli occhi, urtò Gemma più di ogni
altra cosa. Fu sul punto di ribattere, ma quell'altra la precedette.
«E
comunque non finirete tutte a lavorare in questo piano dell'Overlook.
Tra gli affari del Benedict Group non c'è soltanto la
prostituzione.»
Questo
sì che è confortante.
Nessuna
di loro parlò mentre attraversavano il locale. Nessuna osò
guardarsi troppo in giro, perché se l'avessero fatto probabilmente
avrebbero perso persino la speranza più disperata, l'ultima, quella
in grado di salvare molto più che la vita nei momenti d'impotenza.
Nessuna osò respirare mentre passavano lì, sotto ai palchi, sotto
ai pali a cui erano agganciate donne uguali a loro; madri, sorelle,
amiche, amanti che si erano viste rubare l'esistenza. Nessuna riuscì
a guardare quelle puttane in faccia, perché il timore di scorgere
nei loro occhi qualunque forma di pietoso benvenuto
le
avrebbe certamente uccise. Nessuna, tranne Gemma.
Lei
rubò momenti di miseria a quelle donne che le guardavano dall'alto
del loro tacco dodici, pochi attimi soltanto, quanto bastava per non
farsi travolgere completamente dalle circostanze. Guardare in faccia
il nemico – che in quel frangente era impersonificato da una
situazione ostile e ignota – era tutto ciò che poteva avere: un
magro contentino naturalmente, ma, Dio,
Gemma aveva disperatamente bisogno di avere qualcosa tra le mani che
potesse impegnarle la mente e i pensieri.
«In
questo piano riceviamo le visite dei clienti, che provengono dalle
estrazioni sociali più diverse: alcuni cercano semplicemente due
chiacchiere per ingannare il tempo, ma molti vogliono un altro tipo
di compagnia. Andare con persone vive, che non hanno mai preso il
Vitotal, è un feticismo molto diffuso tra quelli come loro.»
Agatha spiegò con naturalezza inquietante, come se fosse una cosa
normale.
Come
se l'avesse ripetuto tante, troppe volte.
«Loro?
Perché, tu
non sei una di loro?»
Gemma la guardò diffidente, lo squallore di quella situazione che le
si stringeva sempre di più alla gola. Il sorriso spezzato che Agatha
le restituì - come se volesse dirle povera
stupida, tu che non sai cosa succede qua dentro a quelle come noi -,
fece il resto.
«No, gioia, e non sono
la persona più conveniente con cui fare amicizia. Perciò risparmia
il fiato per quello che arriva adesso, perché scendiamo al secondo
piano sotto terra.»
Parole inquietanti.
Parole che lasciavano
aperti significati infiniti e tremendi.
Parole che rendevano
chiaro quanto ciò che accadeva lì dentro andasse ben oltre i
novanta gradi di un corpo costretto ad offrirsi.
La domanda le scappò
di bocca prima che Gemma potesse fermarla, la voce spezzata da
un'emozione angosciosa che avrebbe desiderato sussurrarle che no, non
era il caso di saperlo davvero. «Se qui c'è una discoteca, lì cosa
c'è?»
Perché, Cristo, era
fin troppo chiaro.
Era scritto ovunque.
Lì dentro si andava
verso il sangue.
«Un'arena.»
*
Scesero
di un piano ancora, il frastuono che si spargeva ovunque attorno a
loro per ogni passo che le portava sempre più vicine alla meta.
Agatha le fermò davanti all'entrata.
«Quello
che state per vedere è un altro business del Benedict Group. I
combattimenti tra gladiatori fruttano un bel giro di scommesse, il
che a sua volta frutta collaborazioni importanti con le persone
giuste» poi guardò Gemma, il riferimento agli amici
di
cui le aveva parlato che brillava nei suoi occhi furbi. «Tra l'altro
sono uno spettacolo molto seguito dalla gente.»
«Gladiatori?»
«Ovviamente
non si ammazzano l'uno con l'altro, ma non si fanno nemmeno le
carezze.»
Entrarono
una dietro l'altra, in fila, come schiave obbligate a leccare il
pavimento; i pensieri lasciati muti, senza voce che potesse dare
colore alla paura.
Quando
Agatha aveva nominato l'arena, Gemma aveva pensato subito a un
sotterraneo umido e ammuffito, qualcosa in stile Fight
Club
che con un po' di fantasia – molta
fantasia, in effetti – si trasformasse all'occorrenza in un
raffazzonato contorno per duelli e violenza. La realtà però era ben
lontana da ciò che lei si era immaginata: non c'era umidità né
muffa lì dentro, non c'erano neppure i contorni di un locale
destinato a ben altro uso. Ogni cosa sembrava costruita apposta per
rendere l'arena un luogo nascosto, introvabile, seppellito sottoterra
e oltre la coscienza; per farlo diventare un luogo in cui consumare
fino all'osso le peggiori brutture che le persone si portavano
dietro.
Oh
mio Dio.
Stare
lì dentro le faceva venire la nausea.
Affacciare
lo sguardo sugli spalti che correvano giù, verso il centro, nel
cuore pulsante dell'arena... Farsi riempire la testa dalle grida
concitate degli spettatori che si spingevano a vicenda pur di
conquistarsi un centimetro di spazio da cui poter
vedere...
E, per l'amor del cielo, quello che due uomini, lì al centro, si
facevano l'un l'altro, accerchiati dalle facce di quella gente che
chiedeva le loro teste...
Come
se non poter morire sia una scusante per tutta questa violenza.
Sopprimere
un conato non fu semplice. Prima di riuscire a parlare, Gemma fu
costretta a deglutire più di una volta per riempire lo stomaco di
qualcosa che fosse diverso dallo squallore che le si stava
attorcigliando in pancia.
«Perché
siamo qua? Cosa centriamo con questo posto?»
L'occhiata
che Agatha le lanciò non le piacque affatto: aveva il sentore
dell'amarezza derisoria di chi nell'orrore c'è già sguazzato da
tempo, talmente a lungo da esserselo fatto amico. «Come sarebbe a
dire? Gioia, non dirmi che ancora non l'hai capito!»
Non
è che non l'abbia capito, è che ho paura
di
capirlo.
«Il
vincitore di ogni combattimento ha diritto a un premio. Di solito ha
due opzioni: o può scegliere la morfina, che è un bene fin troppo
desiderato da queste parti, oppure...»
Il senso di quella
frase era lì, sospeso nell'aria, come un testamento ingombrante e
indesiderato. E Gemma capì, raggelata, l'orrore stampato nella voce
che gli diede forma.
«Oppure
donne.»
«Brava,
gioia. Donne.
Voi siete il trofeo.»
*
NOTE
DELL'AUTRICE
Non
so come ringraziarvi! Avete accolto Vitotal con un entusiasmo che non
mi aspettavo! *__* Spero davvero di riuscire a rendere la storia
com'è nelle mie intenzioni, anche perché mi pare di capire che le
vostre aspettative per Vitotal non sono niente male :P
Venendo
al capitolo, spero non sia risultato troppo noioso o troppo lento:
purtroppo siamo all'inizio della storia, bisogna introdurre il mondo
in cui la vicenda è ambientata, e questo basta già per scatenare le
mie paturnie XD Nel prossimo capitolo le cose si faranno più
interessanti, ve lo prometto: anche perché arriverà Hannibal, un
personaggio che personalmente adoro e che credo sarà quello più
difficile di sempre da gestire. Che volete farci, mi piacciono le
sfide! :P
L'Overlook
Hotel ovviamente è un omaggio a Shining, di Kubrik.
Vi
ricordo che potete trovarmi su facebook o nel gruppo facebook
dedicato alle mie storie: per le mie lettrici le mie porte sono
sempre aperte, quindi non fatevi problemi! Vi chiedo solamente di
dirmi che mi leggete se mi chiedete l'amicizia perché altrimenti
rischio di non accettarvi :P
A
presto con il prossimo capitolo,
Brin
|
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Capitolo 3 *** Hannibal ***
3
ATTENZIONE!
Vitotal
NON È
una storia per stomaci delicati.
E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno,
diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente
questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona
lettura.
COLONNA
SONORA!
Si
riprende questa usanza a me tanto cara. Per chi vuole, questo
capitolo avrebbe una sua colonna sonora. Si tratta di “Numb” di
Alanis Morisette.
CAPITOLO
3
Hannibal
*
Siete
il trofeo.
Una manciata di semplici parole; un mare sconfinato di
nausea, di pugni nello stomaco, di immagini che neppure la mente
aveva il fegato di affrontare.
Gemma se ne restò lì, immobile, a fare i conti con ciò
che quelle tre parole avevano aperto in lei, le mani legate dietro la
schiena e il cuore che avrebbe voluto gridare per il disgusto. E
poi... poi c'era l'altro cuore, quello innamorato; quello costretto a
vivere nella disperata sete di un'opportunità. Quel cuore che non
era disposto a cedere.
La
dignità in cambio della vita di Curtis.
Fu imposto loro il silenzio.
Mentre Agatha si intratteneva in compagnia di alcuni
uomini in giacca e cravatta, con un occhio sempre e comunque puntato
su di loro – perché non poteva mai accadere che quella donna le
lasciasse da sole, naturalmente -, Gemma trovò il coraggio di alzare
lo sguardo.
Guardò quell'umana desolazione che le si apriva
davanti, le facce di quelle persone attorno a lei; volti di uomini e
di donne comuni, in apparenza proprio come lei, corrosi talmente a
fondo dal Vitotal da essere lì, in quell'albergo di facciata in cui
si vendeva ogni tipo di piacere. Persino quello del sangue. E poi...
Poi guardò di sotto.
Mentre tutte le donne del suo gruppo restavano con lo
sguardo basso, proprio come era stato detto loro da Agatha, Gemma
allungò il collo quanto più possibile per guardare oltre la
balaustra. Non vide molto, naturalmente: ogni tanto qualche braccio,
una porzione di schiena, la luce argentata di un'arma bianca.
Hannibal,
Hannibal!, chiamava
a gran voce la folla, questo sì che Gemma riusciva a vederlo. Più
a fondo, Hannibal! Più violento! Più sangue, più carne, più
rabbia, e smembra e spezza e massacra come se non dovesse morire!
E in qualche modo, forse, quella gente s'era dimenticata che quel
povero diavolo davvero non poteva farlo.
Quel pensiero fu letteralmente agghiacciante.
E
noi dovremmo essere il trofeo di queste bestie?
Fu un attimo, un istante breve e tremendo in cui la
disperazione per se stessa ebbe la meglio su quella per Curtis, e
ricordarsi di lui fu un po' meno semplice. Probabilmente si sarebbe
vergognata di quella debolezza, se non ci fossero state quelle grida.
Quegli urli terrificanti che provenivano dal centro dell'arena, il
campo del massacro.
Erano grida disumane, grida che non potevano in alcun
modo appartenere a una persona normale, non in normali condizioni.
Erano grida strappate da morsi di bestia; il rumore di un'anima che
veniva lacerata dal corpo assieme alla carne.
«Buon Dio, che cosa
sta succedendo lì sotto?»
Perfino la folla era
rimasta ammutolita. C'era ancora un lieve chiacchiericcio, per lo più
di qualcuno incredulo e sgomento, ma gli altri... Le altre persone
erano senza parole, sui loro volti un'espressione sgomenta che
probabilmente era la stessa che aveva anche lei.
«Che cosa succede?»
questa volta Gemma si rivolse alla donna che le stava accanto, anche
lei prigioniera strappata al calore della sua casa, una ragazza
trentenne che la guardò torva.
«Cosa vuoi che ne
sappia, io? Si staranno ammazzando, o almeno mi piacerebbe tanto.»
Gemma fu sul punto
di ribattere qualcosa di altrettanto inacidito, quando il movimento
repentino di Agatha attirò la sua attenzione. A insospettire Gemma
non fu semplicemente la velocità con cui si congedò dall'uomo con
cui stava parlando fino a poco prima, tutta sorrisi calibrati e
tocchi leggeri, ma anche – e soprattutto – la luce preoccupata
che le aveva acceso lo sguardo nel momento in cui le era cascato
l'occhio sull'arena. Aveva visto qualcosa, lì dentro. Aveva visto
ciò che aveva scatenato le grida atroci di quel gladiatore, e tanto
era bastato per farla sbiancare.
Seguirono momenti
confusi, attimi in cui quelle grida s'intrecciarono al
chiacchiericcio della folla. Minuti in cui le persone andarono avanti
e indietro, cercando posizioni migliori da cui poter guardare di
sotto; istanti in cui le guardie appostate vicino alle porte si
fiondarono giù per le scale, verso la pancia dell'arena ingravidata
di sangue.
Gemma non perse mai
di vista Agatha, neppure per un attimo. Nemmeno quando andò a
parlare con il ragazzo che le aveva fatte scendere dai camion
soltanto poche ore prima, quando erano arrivate all'Overlook. Allen,
se non sbagliava a ricordare il suo nome.
Quando le
raggiunsero, quel cruccio preoccupato non era ancora sparito dal viso
di Agatha e soltanto allora, guardandola così pensierosa, Gemma si
accorse che la vita lì dentro le aveva procurato più di qualche
ruga.
«L'incontro è
finito. Ha vinto Hannibal, com'era prevedibile.»
«Ha vinto per
forza, non c'era rimasto molto altro contro cui lottare» commentò
Allen con un'alzata di spalle.
«Chi è Hannibal?»
domandò Gemma, incapace di tacere. Quel nome era rimbalzato
continuamente sulla bocca del pubblico, l'aveva fomentato come se
fosse una bestia, per lasciarlo quindi ammutolito e disorientato. Una
reazione affatto normale.
«E questa?» Allen
la avvicinò, salvo poi voltarsi verso Agatha. «Cos'è, adesso fai
la guida alle puttane?»
Lei gli rivolse un
sorriso largo, tirato agli estremi della minaccia velata, trentadue
denti esposti tanto quanto le sue intenzioni. «Non parlare a una
puttana di altre puttane con quel tono, Allen. Puzzi ancora da latte,
ma fai già certe porcate che ti varrebbero di certo una punizione,
se il signor Benedict lo venisse a sapere.»
Una frase ben
assestata che bastò per metterlo a tacere, anche se Gemma poté
giurare di scorgere una certa irruenza, una fame di rivalsa in quel
ragazzo così giovane e già così irrimediabilmente incastrato dal
Vitotal. Aveva degli occhi grandi e luminosi, bellissimi, pieni di
una tempesta d'orgoglio che non si sarebbe accontentata di restare
soppressa nel silenzio. Il suo era uno sguardo di chi avrebbe
facilmente portato guai.
Ma quelli veri –
quelli impellenti, quei problemi affilati e pericolosi, quei guai
inevitabili che si sarebbero frapposti tra lei e l'obiettivo che
Gemma inseguiva -, beh, quelli li chiamò Agatha.
«Sono entrati a
pulire l'arena. Tra poco Hannibal sarà qui.»
*
Lo fecero salire in ascensore, scortato da due agenti
che impugnavano pistole elettriche in grado di tramortire un bestione
tre volte più grande di lui. Entrò nel piano più alto dell'arena,
nel trionfo della folla perduta in un delirio malato; zuppo di sangue
dalla testa ai piedi, il volto ridotto a un'alternanza disgustosa di
chiazze e schizzi, la bocca sporca dalle labbra agli zigomi, in
rivoli che gocciolavano corposi lungo il mento.
Gemma restò raggelata quando lo vide attraversare la
porta: aveva ancora il suo nome nelle orecchie, gridato al vuoto come
se fosse quello di un eroe, ma vedere quale fosse il viso che portava
quel nome...
E
questo dovrebbe essere un uomo?
Non riusciva a distinguere le fattezze del volto di
Hannibal: tutto il sangue che portava addosso gli cancellava i
lineamenti, rendendoli spaventosamente vicini a quelli di un demone
fatto di fiamme e oscurità. A turbarla più di qualunque altra cosa
avesse visto in lui, però, era la luce che gli accendeva gli occhi.
Più
del sangue concentrato sulla sua bocca – Dio, non voleva neppure
pensare a come avesse fatto a finire proprio lì
-, più di quello che gli imbrattava il petto nudo e i pantaloni
bianchi, più dei suoi capelli biondi rappresi in ciocche grumose e
sanguinolente, erano i suoi occhi castani a sconvolgerla. Sembravano
guardare ciò che gli stava attorno senza vederlo davvero, quasi che
il mondo circostante non fosse altro che una sequenza di immagini
senza senso; perduti in un mondo che apparteneva a lui e a nessun
altro, a un mondo che gli stava dentro e che non avrebbe mai potuto
espandersi al di fuori dei confini del suo corpo. In quel mondo in
cui ribolliva la violenza, la stessa che aveva sfogato nell'arena;
quella che annegava la sua bocca nel sangue e che, persino in quel
momento di trionfo, spingeva il suo sguardo verso orizzonti che
nessuno di loro avrebbe mai potuto raggiungere.
Erano occhi di chi aveva venduto l'anima al diavolo.
«Dante, complimenti
per la tua vittoria. Il signor Benedict è stato trattenuto da affari
di lavoro e mi ha mandata a fare le sue veci. Vieni» Agatha gli fece
cenno di raggiungerla, sfoggiando tra le mani una boccetta di vetro
che conteneva chissà quale liquido. «Le opzioni sono quelle di
sempre: o la morfina, oppure una donna viva da usare a tuo
piacimento.»
Usare.
Era una parola che, in quel contesto, a Gemma faceva letteralmente
ribrezzo.
Probabilmente Agatha
aveva un'idea ben precisa di quale sarebbe stata la risposta di quel
tizio – ma non si chiamava Hannibal? -, almeno a giudicare dalla
sicurezza con cui andò verso di lui, quasi a porgergli la morfina
che reggeva in mano. Ma poi... Poi quell'uomo si scostò.
Si allontanò da
Agatha, lo sguardo che puntava verso di loro - donne in fila davanti
al plotone di esecuzione. Le avvicinò nel silenzio generale, quasi
fosse una novità; quasi la scelta della morfina fosse una certezza
assodata come parte integrante dell'universo. Un passo dopo l'altro,
lento, attento a tutto quello che poteva raccogliere con gli occhi.
Passò davanti a
loro in un esame scrupoloso dei loro volti, degli sguardi intimoriti,
dei tremiti che squassavano le gambe; chiuso in un silenzio rigoroso,
l'olezzo disgustoso del sangue che lo seguiva come una compagnia
fidata e immancabile, neanche fosse stato l'angelo della morte. Nulla
sembrò accendere i suoi occhi, fino a quando non arrivò davanti a
Gemma.
Fu in quel momento,
che qualcosa in quel volto coperto dal sangue cambiò. E lo vide,
Gemma, oh se lo vide: l'istante in cui si accorse di qualcosa in lei,
quel lampo di consapevolezza, una curiosità che arrivava da chissà
dove. Era qualcosa che l'aveva bloccato lì, davanti a lei, mentre
l'intenzione di proseguire oltre l'aveva costretto a voltare soltanto
la testa nella sua direzione.
Cristo santo,
tutto ma non questo tizio!
Le si avvicinò
senza mai distogliere lo sguardo da lei. Da qualcosa che dal suo
collo spariva sotto la maglia che indossava.
Gemma mantenne la
testa alta, lo sguardo sempre puntato su di lui, mentre il cuore
batteva furioso in petto la propria fame di libertà. Avrebbe voluto
sottrarsi al suo interesse, alla sua vista, a qualunque cosa le fosse
costata quell'attenzione per la quale avrebbe davvero barattato il
proprio corpo con altri uomini, pur di sottrarsi a lui.
Farei volentieri
la puttana di centinaia di uomini, piuttosto che diventare la
proprietà di uno con tutto questo sangue addosso.
Ma poi rivide il
volto di Curtis, consumato dal cancro.
Rivide i segni neri
che gli circondavano gli occhi, rivide il suo pallore, quei chili che
il tumore si era mangiato allo stesso modo in cui gli aveva mangiato
il corpo.
Non poteva
permettersi certi pensieri.
I cedimenti non
erano concessi.
Non aveva tempo per
essere debole.
«Quanti anni hai?»
Dante - o Hannibal, o qualunque nome avesse – sfilò la collana che
le scendeva lungo la clavicola, lasciando una scia di sangue sulla
sua pelle.
Aveva le mani calde,
esattamente come il liquido vermiglio che le insozzava.
«Venticinque»
Gemma si costrinse a non cedere all'agitazione, a non scoprirsi
debole e vulnerabile; a fronteggiare qualunque cosa fosse arrivata
con la voce ferma e lo sguardo che mai avrebbe potuto vacillare. Così
lo guardò negli occhi.
Guardò
quel gladiatore, quello scherzo della natura, quel mostro ricoperto
di sangue rubato ad altri con la forza. Lo guardò negli occhi e capì
che lei, nella discoteca dove le puttane raccoglievano i clienti,
non ci sarebbe mai andata a lavorare, perché sarebbe appartenuta a
lui.
«Bene.»
Poi Dante abbassò
lo sguardo sul medaglione di Gemma che reggeva tra le mani, e
qualcosa che lei non riuscì a decifrare gli riempì gli occhi. Non
era una luce particolare, nemmeno la consapevolezza di un pensiero
ben formato. Si trattava di qualcosa di informe, qualcosa che
emergeva sul suo volto anche attraverso il colore del sangue.
Qualcosa che accompagnava il suo verdetto.
«Scelgo lei.»
«Lei? Sei sicuro?
Non preferisci la morfina?» Agatha sembrò stranita, quasi lui
l'avesse spiazzata con quella decisione. Gli si avvicinò, i tacchi
che scandivano i suoi passi, ma Dante afferrò Gemma per un braccio e
la costrinse a uscire dalla fila.
«La morfina posso
procurarmela comunque. Voglio lei.»
«Per favore...»
Gemma non sapeva neppure che cosa volesse dirgli, ma a lui non sembrò
interessare: il modo in cui le rispose aveva un che di irritato,
spazientito quasi. La guardò come se gli avesse appena fatto un
torto.
«Per
favore cosa? Tu sei un
premio, io ti ho vinta. Non c'è nessun favore da fare.»
Poi
la portò verso la balaustra, la mano impiastricciata di sangue che
scivolava sul suo braccio in una stretta che cercava di mantenere il
possesso della situazione.
La
esibì come il trofeo che Gemma era in realtà e lì, mentre
dichiarava a quel mondo folle e malato che da quel momento lei gli
apparteneva, finalmente lo vide per ciò che Hannibal era oltre il
sangue che gli schizzava il petto e gli copriva il viso: una di
quelle stesse persone che stavano distruggendo il mondo dopo la Cura,
una di quelle persone che si erano fatte consumare dal Vitotal e che
ne portavano le tracce addosso e sotto la pelle. Vide l'avidità, la
pazzia, la violenza che faceva girare il suo mondo e che regolava la
vita di quell'uomo.
La
stessa che da quel momento avrebbe piegato anche la sua.
*
NOTE
DELL'AUTRICE
Questo capitolo è decisamente breve, lo so. E' che mi
sembrava perfetto così.
Finalmente facciamo la conoscenza di Dante, detto
Hannibal per gli amici, che – posso anticiparvi – sarà un
personaggio estremamente complesso.
Che dire? Con questa long si profila all'orizzonte
un'altra storia che tratta di un amore corrosivo e doloroso, e in
qualche maniera decisamente inevitabile e chi ha già letto Obsession
sa che quando accosto l'aggettivo corrosivo ad amore non
è mai una buona cosa :P
Dal prossimo capitolo comunque conosceremo meglio
Hannibal, o meglio, inizieremo a intravedere qualcuna delle sue
numerose sfumature. Prima tra tutte – suppongo, devo farmi due
conti – del perché del suo soprannome. Però se voi avete
supposizioni fatevi pure avanti! :P
Spero ad ogni modo che la storia non vi stia annoiando:
se è così fatemelo pure sapere, io sono aperta a qualunque tipo di
osservazione e di critica!
Per chi volesse lascio i miei soliti contatti:
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A me fa sempre molto piacere poter parlare con voi,
quindi fatevi pure avanti ;)
A presto,
Brin
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