Vitotal

di Brin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Foglietto illustrativo del farmaco ***
Capitolo 2: *** la vita e la morte al tempo del Vitotal ***
Capitolo 3: *** Hannibal ***



Capitolo 1
*** Foglietto illustrativo del farmaco ***


vitotal
ATTENZIONE!
Vitotal NON È una storia per stomaci delicati. E' violenta, non so bene ancora fino a che punto (cioè quanto saranno descrittive le scene), ma metto già da subito le mani avanti anche soltanto per gli argomenti che ricorreranno nella trama. Se siete impressionabili, allora probabilmente questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona lettura.






CAPITOLO 1
Foglietto illustrativo del farmaco


*


L’avevano presentata all’umanità gridando al miracolo, acclamandola come la scoperta più importante del millennio. Una chimera divenuta realtà. Un sogno bramato troppo a lungo, inseguito da infinite generazioni di uomini.
Poeti, scienziati, filosofi: era stata per tutti un mito da coltivare lungo i secoli, così splendente e irresistibile da non poter essere dimenticata. Una promessa capace di scatenare contemporaneamente le migliori virtù dell’uomo e le sue peggiori voglie.
Una fantasia diventata reale, condensata in una pillola piccola e immacolata capace di contenere in pochi milligrammi le più grandi speranze di tutta l’umanità; un grumo di sostanze chimiche pesante come una piuma, così importante da valere il premio Nobel per la medicina.


*


VITOTAL
Foglietto illustrativo del farmaco


CHE COS’È
Vitotal pastiglie da 10 mg è un agente farmaceutico appartenente all’ordine delle panacee.

PERCHÈ SI USA
Per il trattamento di sintomi di ogni tipo e di qualunque gravità. Vitotal pastiglie è il farmaco dell’immortalità, studiato per aiutare il fisico a rimettersi da qualunque malattia, lesione o ferita.

EFFETTI INDESIDERATI
Durante la sperimentazione non sono stati riscontrati effetti indesiderati.


*


Dopo millenni trascorsi a inseguire le sue tracce mistiche, l’immortalità era diventata improvvisamente un dato di fatto costoso e discusso; un lusso entrato a pieno titolo tra i diritti inalienabili dell’uomo e, soprattutto, del malato.
Grazie all’esistenza del Vitotal sconfiggere la morte era diventata una possibilità concessa dalla mutua a chi ne avesse effettivamente bisogno; una scelta comprata attraverso i soldi da chi, invece, era affetto da un’ingordigia che non conosceva fine.
Vitotal significava vita eterna: una promessa d’oro, splendente e bellissima come il più fulgido specchietto per le allodole. Una rosa rara, meravigliosa, impossibile da non desiderare.
Un paradiso irresistibile capace di cancellare in un istante la più profonda di tutte le paure dell’animo umano. Un desiderio che celava sotto la sua perfetta superficie un inferno senza fine.
Perché rinunciare alla morte aveva un prezzo tremendo, uno scotto che doveva essere pagato in eterno e, una volta comperata l’immortalità, non c’era più possibilità di scelta. Non era concesso tornare indietro.
E soltanto in quel momento, con quel contrappasso soffocante a cui non si poteva sfuggire fisso sopra la testa, la morte diventava un miraggio agognato che non poteva più essere raggiunto.
Perché c’era una condanna peggiore della morte, ed era vivere in eterno.


*


Profumavano di pulito, di cura, di prodotto confezionato e inscatolato per apparire almeno un po' appetibile. Schiave in riga.
Tutte con lo sguardo basso, le mani legate dietro la schiena; merce in attesa di un destino che sarebbe piombato sulle loro teste da un momento all'altro.
Avevano imposto a tutte loro di non guardare ciò che si stava consumando di sotto: dovevano aspettare senza fare rumore, zitte e calate in pieno nel ruolo che era arrivato assieme alla prigionia – quello di oggetti - mentre quelli, attorno a loro, lasciavano che quello spettacolo osceno li consumasse fino all'osso.
Non importava quante grida avrebbero sentito, sovrastate dalla voce folle del pubblico: l'ordine ere essere invisibili, e lì dentro quasi tutte non desideravano altro che sparire agli occhi di chiunque avrebbe posato lo sguardo su di loro. Tutte tranne lei, che cercava di strappare quanta più libertà possibile all'ordine che le aveva costrette all'ignoranza.
Con la testa appena un po' più alta - una manciata di millimetri che le permettevano di spingere lo sguardo fino alla balaustra oltre la quale si apriva il vuoto dell'arena, il cuore che batteva imbizzarrito e il terrore di essere beccata che ne accelerava il ritmo -, faceva finta di restare perfettamente nei ranghi. In realtà guardava la folla gridare elettrizzata, spiava gli uomini massacrarsi ai piedi di quell'arena come fossero bestie; e poi il sangue che bagnava le loro mani, la morte che li abbracciarva senza però mai riuscire a prenderli, l'agonia che gli mangiava gli occhi e rendeva il loro volto una maschera di grottesco orrore.
Guardava, troppo irrequieta per riuscire ad accettare a occhi chiusi l'idea di essere reclamata come trofeo da chissà chi; troppo annichilita per riuscire a distogliere lo sguardo da quello spettacolo che, Dio, non poteva in alcun modo essere umano. Guardava, perché l'idea di non poter vedere in faccia il destino che le si sarebbe presentato davanti la faceva impazzire.
Guardava, Gemma, perché era la sola cosa che potesse fare.


*


NOTE DELL'AUTRICE


Lo so, vi starete chiedendo perché sono ancora qui, con il terzo prologo di una nuova storia in due mesi. L'ho detto altrove che il mio rapporto con l'ispirazione ultimamente è un po' problematico, e lo dico anche qua. Il fatto è che Vitotal è sempre stata una storia che in un modo o nell'altro mi ha tormentata a momenti alterni, e ora grazie anche alle ragazze del gruppo mi è proprio esplosa nel cuore.
E credo che lo sappiate meglio di me, quando una cosa vi esplode nel cuore è impossibile contenerla.
Non so bene quale sarà il ritmo di aggiornamento, per ora diciamo un capitolo ogni due settimane: oggi ho iniziato a scrivere il terzo e spero in questo periodo di metterne da parte altri, se l'ispirazione vorrà.
Io sono seriamente emozionata per il debutto di Vitotal: è una storia estremamente particolare, molto cruda e decisamente angst, e non lo so, credo che vi ripeterò questa cosa fino allo sfinimento onde evitare di traumatizzarvi all'improvviso XD

Se vorrete farmi sapere cosa pensate di Vitotal, qui oppure nel mio gruppo facebook o nel mio account facebook, sarete sempre le benvenute: io lo dico sempre, scrivo per me ma scrivo anche per voi, e voi siete fondamentali per la mia scrittura.

Un bacio e a presto,

Brin



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Capitolo 2
*** la vita e la morte al tempo del Vitotal ***


2
ATTENZIONE!
Vitotal NON È una storia per stomaci delicati. E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno, diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona lettura.








CAPITOLO 2


La vita e la morte al tempo del Vitotal



*


I sobbalzi del furgone non sembravano abbastanza forti per spezzare l’apatia che chiudeva quelle donne nel loro stesso mutismo: erano leggeri, appena molesti, e costringevano i passeggeri a seguirne il ritmo mollemente, inermi nel corpo allo stesso modo in cui lo erano nello spirito.
Era una di loro, Gemma. Lo era per scelta del destino, di quegli eventi disperati che l’avevano portata a scegliere l’unica strada che nessuna persona sana di mente avrebbe mai deciso di percorrere. Si trovava tra quelle donne spente nello sguardo, silenziose, morte dentro, eppure era profondamente diversa da loro.
Non condivideva la muta rassegnazione con cui si chiudevano nel buio di quel furgone, tanto per cominciare. Nei loro occhi rivolti al terreno non c’era riflessa alcuna speranza, nessun tormento per cui lottare, nessuna vita a cui aggrapparsi. Erano una cupa, disperata rinuncia che in Gemma non esisteva: lei era andata in cerca di quelli laddove sapeva che li avrebbe trovati, ovunque fosse il buio. In qualunque angolo di Londra in cui il coprifuoco non arrivasse a spargere la propria, insignificante protezione.
Lo sentiva cantare la propria beffa persino in quel momento, mentre studiava i volti delle donne con la schiena appoggiata contro la lamiera del furgone e le mani ammanettate. Lo sentiva perfino lì, nella fredda pancia di un camion che trasportava il suo carico notturno di vite umane: il lamento prolungato e altalenante della sirena era un canto inquietante che prometteva incubi e morte a chi non avesse rispettato l’avvertimento che portava con sé, un boato straziante che segnava l’inizio di un coprifuoco necessario. Un boato che aveva costellato le giornate di Gemma da tanto, troppo tempo.
Lacerava il silenzio della sera con la forza di un pugnale conficcato nella carne, uno strazio che squarciava l’anima e scatenava brividi fastidiosi nello stomaco.
Era l’agonia di una città morente costretta a metter sotto chiave la propria vita, un suono che suscitava in Gemma le stesse sensazioni di sempre - inquietudine, ansia, attesa - e che ora, al centro esatto dell’incubo che quei lamenti portavano con sé, sentiva rinnovate.
Ricordava quando ogni notte, alla stessa ora, quel boato rimbombava in ogni fibra del suo corpo. Ogni volta le lasciava addosso un viscido senso di impotenza che non riusciva a cancellare perché, sera dopo sera, la consapevolezza che quelle persone penetrassero in città era una certezza che non lasciava scampo, nemmeno ai malcapitati che si trovavano a incrociarli durante il coprifuoco. E lei non poteva fare altro che rimanere chiusa tra le mura di casa, l’unica precaria barriera che la riparava dai crimini invisibili di una sporca guerra civile in cui ogni cosa era concessa.
Rintanata in una città rimasta orfana della propria umanità, almeno fino a quando la guerra non era penetrata con i propri significati tra le mura del suo piccolo mondo, lasciandola innamorata, disperata e pronta a vendere l’anima.
La gente spariva, inghiottita dal buio delle strade di Londra. Rapita da loro, portata chissà dove. Dio solo sapeva per quale scopo.
Nessuno riusciva a spiegarlo, nessuno intendeva scoprirlo: meno ci si mischiava con quelli, più si guadagnava sotto ogni punto di vista.
Prima della Cura la situazione non era stata così esasperata, Gemma lo ricordava perfettamente: non c’era motivo per il coprifuoco, non c’erano rapimenti, non esisteva paura. Erano solamente ricordi di bambina, sfuocati e idealizzati, eppure ne era così certa che avrebbe potuto scommettere sulla loro veridicità in qualunque momento, a cuor leggero. Era stato il Vitotal a rovinare ogni cosa.
A togliere l’umanità alle persone.
Poche pillole bianche assunte con regolarità erano bastate a trasformare Londra e il mondo, a scoperchiare l’avidità senza fine degli uomini, brulicante come un ammasso di vermi nascosto in una carcassa marcia. E da allora tutto era cambiato.
La città, le persone… Loro… Erano stati consumati dalla stessa cupidigia che lacerava la loro anima e che li aveva portati ad affidare la loro vita a una promessa di immortalità, segnati per l’eternità nel corpo senza possibilità di ritorno. Un cancro che aveva diviso la città, che l’aveva smembrata e sporcata di marcio, di invidia, di paura, di ribrezzo. Persino di morte, nonostante loro non potessero smettere di vivere. Perché Londra aveva allontanato quelli, relegandoli ai suoi piedi immacolati per proteggersi dalla loro disperazione e da quell’odio rancoroso che li aveva portati ad alzare le mani contro i fratelli che non si erano fidati del Vitotal, contro coloro che avevano rifiutato la Cura.
Il risultato era stato una rappresaglia violenta; incursioni affamate, disperate. Persone morte, persone scomparse, persone trucidate con l’accusa di aver rifiutato l’immortalità e i suoi devastanti effetti collaterali. Fenomeni straordinari consumatisi all’ordine del giorno, per anni. In breve tempo, per Londra il caos e la guerra civile erano diventati la normalità.
Per Gemma, invece, le cose stavano diversamente: crescendo aveva capito che il Vitotal era stato la tomba dell’umanità. Un vaso di Pandora che aveva legittimato ogni più cupa ossessione delle persone, una miccia che aveva rotto gli argini e aveva fatto uscire i demoni peggiori nascosti nel fondo inaccessibile dell’animo umano.
Non era rimasto più nulla, dopo la Cura: l’amore, l’empatia, il sacrificio… Ogni cosa era stata seppellita dal Vitotal in un cumulo dimenticato, calpestato e lasciato a marcire nell’odio reciproco e nella paura.
E, come ogni altro libero cittadino di Londra, anche lei era stata educata a odiare loro: persone corrotte nell’anima e nel corpo, persone che non potevano morire. Persone lacerate dall’invidia e dalla rabbia, consumate dal desiderio di tornare indietro e di disfare i propri sbagli. Era stato relativamente semplice lasciarsi plagiare dalla collera per ciò che quelli stavano facendo alla sua gente: abbandonarsi alle voci che abbaiavano la propria indignazione ai telegiornali per la notizia dell’ennesima scomparsa in Trafalgar Square era facile e fin troppo veloce.
Un’istigazione ammaliante che non lasciava scampo.
Probabilmente si era crogiolata troppo a lungo in quello stato di coscienza passiva, quello era il suo peccato, perché non riusciva a pensare a nessun’altra colpa sufficiente a giustificare il contrappasso che si era abbattuto sulla sua testa.
Per un tremendo scherzo del destino, infatti, Gemma si era ritrovata gettata nello sconforto più nero da un giorno all’altro, disperata all’idea di perdere una delle persone più care che avesse. All’improvviso, il Vitotal – quelle pastigliette piccole e bianche, che segnavano in maniera irrimediabile l’esistenza di una persona - le erano sembrate l’unica via di uscita da quell’incubo che non aveva il coraggio di affrontare.
Lasciare andare il suo ragazzo nel letto di morte non era un’opzione.
Lui che era vittima del male che lo stava consumando, lui che si stava spegnendo sotto l’avanzata inarrestabile del tumore… Lui che era stanco, malato, divorato nel corpo e nello spirito da un nemico troppo grande… Gemma era troppo codarda, per lasciarlo andare.
Troppo egoista.
Troppo ignorante.
Troppo innamorata.
Non aveva visto abbastanza. Il Vitotal, i suoi effetti irreversibili, l’inferno perpetuo a cui il farmaco condannava… Gemma non aveva visto niente di tutto questo, e quando si era trovata davanti a quegli uomini incappucciati, tutto quello che aveva provato era stato sollievo.
Mentre la circondavano, mentre le premevano le mani protette dai guanti sulla bocca, mentre la immobilizzavano e le strappavano ogni forma di libertà… Avrebbe dovuto farsi travolgere dall’orrore per quello che le stava succedendo. Avrebbe dovuto agitarsi e gridare, avrebbe dovuto lottare per riconquistare il diritto a difendere la propria vita perché, Dio, quelli facevano sparire per sempre le persone.
Eppure, mentre le mettevano le mani addosso e la caricavano sul furgone che le aveva precluso la strada, tutto quello che aveva provato era stato un sollievo profondo che non conosceva logica, una condanna al massacro che lei aveva accolto con gioia.
Era stata la morte dell’istinto di sopravvivenza.
Era stata la perdita di ogni coerenza, di ogni logica, di tutto quello che ruotava attorno all’umanità, e lei l’aveva abbracciata con una gioia disperata.
Tutto, pur di salvare il suo ragazzo.
Così eccola lì, in quel furgone, diretta verso luoghi da cui Dio aveva distolto lo sguardo.
Non parlò mai, per tutta la durata del viaggio. Nessuno lo fece, a dire la verità: tutte le persone che viaggiavano assieme a lei su quel furgone restavano chiuse nel loro mutismo, un silenzio affollato da pensieri fin troppo pesanti per riuscire a vincerlo.
Gemma ascoltò ogni singolo sobbalzo. Restò con la mente protesa verso i rumori del motore, verso quel ritmo dinamico che descriveva un percorso che lei poteva solamente immaginare. Eppure, per quanto tentasse di capire dove fossero diretti, tutto quello che riuscì a raffigurare nella propria mente erano un mucchio di punti senza capo né coda, vie che avevano inizio ma che si disperdevano dopo i primi metri di tragitto.
Era smarrita, Gemma, e quella stessa dispersione che l’attanagliava alla gola al suo primo fallimento era la stessa che riconosceva negli sguardi delle persone che condividevano con lei l’abitacolo e la sorte.
Perché forse, dopo tutto, quelle donne non erano poi così diverse da lei.



*


Arrivarono a destinazione dopo minuti interminabili, una tortura che avrebbe condotto facilmente all’isteria chiunque non avesse avuto un obiettivo abbastanza saldo a cui aggrapparsi per non affondare.
Quando aprirono le porte del furgone – quando si spalancarono le porte della prova più difficile che avesse mai affrontato -, Gemma era aggrappata nel cuore all’uomo che l’aspettava a casa, in quel capezzale di morte e condanna che non gli avrebbe lasciato scampo alcuno, a meno che
«Scendere!» un omaccione dai modi bruschi la trascinò fuori, una spinta poco paziente che la fece caracollare al contatto con il terreno. «Veloci, scendere!»
Non riservarono loro buone maniere naturalmente, né Gemma le concesse: strappò il braccio dalla presa dell'uomo, un bisonte nella stazza e un cinghiale nello sguardo, con quegli occhietti cisposi che la guardavano come se fosse l'ennesimo pezzo di carne destinato al macello.
«Faccio da sola!» si difese da quei modi racimolando ogni spicchio di autonomia che ancora le era consentita, ma dal modo in cui lui la guardò... Beh, da quello non ci fu difesa: le entrò dentro strisciando, come un presentimento disgustoso e tremendo, e rimase lì, sotto la pelle, a pungolarla con il suo respiro viscido. Non riuscì a scrollarselo di dosso quando si unì alla fila di donne e uomini scesi dai furgoni - uno, due, cinque furgoni, che vomitavano un carico di vite esagerato -; non riuscì a disfarsene neppure quando alzò lo sguardo sull'immenso edificio che le svettava davanti, un albergo di mille e mille piani proteso ad arrampicarsi verso il cielo. La sensazione di essere un numero era lì, in pieno petto, tra il cuore e lo stomaco.
Pensa a Curtis. Pensa disperatamente a lui, finché non avrai neppure il tempo per provare paura.
E lo fece, Gemma. Pensò a lui, alla luce che aveva portato nel periodo più buio della sua vita; alla dolcezza che le aveva asciugato le lacrime, al vuoto che aveva colmato. Le aveva ricordato come fare per sorridere, Curtis, e da quando l'aveva conosciuto tra i banchi di scuola molti anni prima, quei sorrisi sul volto di Gemma erano diventati sempre più frequenti.
Le aveva fatto dimenticare. L'aveva indotta ad andare avanti, a non pensare a ciò che aveva riempito la sua vita fino a quel momento - fino alla notizia che aveva fatto precipitare il suo sorriso nel buio più denso.
Lasciarlo andare non era un'opzione possibile. A costo di scendere a patti con quelli che avrebbe dovuto odiare - Dio, era pronta a stringere qualunque genere di patti, senza riuscire a mettere a tacere la disperazione abbastanza da provare ribrezzo -, avrebbe portato Curtis indietro. Da lei.
Alla vita.



*


La costrinsero a restare nel gruppo ormai avviato verso l'entrata, e quando oltrepassò le porte - occhi degni di quell'albergo opulento e bocca di un inferno di cui non si potevano ancora distinguere i contorni -, Gemma si ritrovò catapultata in una hall che richiamava a sé tutto il lusso del mondo, come se quella ricchezza di qualità dovesse coprire il marcio che brulicava oltre le apparenze.
E scommetto che di marcio qui ce n'è eccome.
Di persone, invece, quasi non ce n'erano: erano poche quelle sedute sui divani, intente a parlottare; vestite di tutto punto come uomini d'affari con le mani sporcate dalla stessa sporcizia che imbrattava la loro vita. E la musica... Il suo rimbombo nasceva nel piano inferiore e risaliva attraverso il pavimento, su quel marmo che sembrava tremare sotto i piedi di Gemma.
Riuscì a sbirciare poco della hall, un paio di occhiate lanciate senza attenzione. Nulla più di questo, prima che l'ascensore si aprisse sul piano: ne uscì una donna giovane e bella, i capelli rossi - certamente tinti - che le cadevano sulle spalle lasciate scoperte, il corpo fasciato in un tubino nero che le disegnava le curve alla perfezione.
Era sbucata assieme all'odore di tabacco che scivolava dalla sua pelle, in mano un calice vuoto, usato; sul volto un sorriso calibrato con attenzione nel giusto mix di femminilità e seduzione.
«Che avete portato?»
«Quello che vedi, Agatha» uno degli uomini che li avevano fatti scendere dai furgoni si fece avanti, indicandoli con un cenno della mano. Era piuttosto giovane, non più ragazzo ma neppure uomo fatto e finito, ma nonostante questo i suoi occhi contenevano una maturità strappata con i denti al futuro. «Maschi, femmine... Il solito.»
Il solito? Dio, è come se questa gente vivesse d'orrore.
Lei si prese il suo tempo per studiare i prigionieri, le mani che giocavano con il bicchiere, le unghie ingellate che battevano sul vetro. Camminò davanti a loro lentamente, valutando chissà cosa sui loro volti. Sui loro corpi.
Gemma la guardò avvicinarsi con l'ansia che le divorava lo stomaco, il pensiero di Curtis che tentennava davanti a quell'esame, a quelle parole, alla familiarità che quelli dimostravano davanti a una simile situazione. Poi la donna le fu davanti: la squadrò partendo dai piedi e salì, salì, salì fino all'altezza del seno. E lì si fermò.
«Che cos'è quello?» domandò indicando la collana che campeggiava sopra il maglione. Gemma non ebbe neppure bisogno di calare lo sguardo, per capire: si riferiva al pendente infilato in un semplice cavo di caucciù, l'unico pezzo che rendesse quella collana effettivamente tale. Un medaglione che era stemma del suo passato, e che uno stemma in fin dei conti lo portava per davvero. Non se ne separava mai.
Fece spallucce. «... Una collana?»
«Geniale. Pensavo fosse una sciarpa» la donna la guardò annoiata, il sarcasmo che filtrava goccia dopo goccia dalle sue parole. «Intendevo la medaglietta. Da dove arriva?»
«Mi è stata regalata molto tempo fa.»
«Capisco.» Il suo sguardo si fece meno ostile, quasi premuroso mentre prendeva la collana tra le mani e gliela faceva scivolare sotto il maglione. «Questa però è meglio se la tieni nascosta. Il marchio che porta non è molto apprezzato da queste parti.»
Poi riprese il suo esame, superando Gemma e continuando a soppesare il resto dell'umanità che aveva davanti. Quando fu abbastanza soddisfatta di ciò che aveva potuto vedere, si voltò verso il ragazzo.
«Va bene, Allen. Le donne vengono con me. Degli uomini invece sai cosa farne.»



*


Stiparsi dentro quell'ascensore fu come ammassarsi in un carro bestiame destinato all'inferno. Scese senza fare rumore, soltanto un leggero salto prima di muoversi: le porte si chiusero davanti a loro portando via qualunque possibilità di fuga, incastrandole sempre più a fondo nella pancia dell'Overlook Hotel e di quell'incubo che ancora non aveva una faccia. Via, oltre il piano terra, ad affogare lentamente e senza possibilità di ritorno. Quando arrivarono, il display sopra le loro teste indicava -1.
«Vi faccio fare il giro lungo» Agatha annunciò non appena le porte si aprirono, e in quell'istante furono due le cose che colpirono i sensi di Gemma: il corridoio sul quale l'ascensore si era aperto – quasi del tutto buio, ad eccezione di una fila di piccoli led posti come punti luce sul pavimento – e la musica che proveniva dal fondo del corridoio, laddove due porte antipanico si aprivano su un salone avvolto da luci soffuse.
«Che cosa avete? La discoteca?» le venne quasi naturale fare dell'ironia su quella cosa che le si prospettava davanti, quasi fosse una piccola, ignobile vendetta di cui accontentarsi per qualunque merda le avrebbero tirato addosso da lì a breve tempo, ma Agatha si voltò a guardarla proprio davanti all'imboccatura della sala. Lì, ferma davanti alle luci che stavano per inghiottirle – e attraverso cui Gemma poteva distinguere contorni di tavoli, divani, banconi, pali e palchi da vetrina – aveva il sorriso sbilenco di chi sta per venderti salvezza e dannazione in una comoda formula tutto incluso.
«Non fare la spavalda. Non qui, non con me. Se vuoi durare devi imparare a farti degli amici, e che siano giusti, o non uscirai viva da questo posto. Nessuna di voi lo farà.»
Farsi degli amici. Era indubbio che gli amici, lì, avrebbero dovuto essere persone di una certa importanza, con tutte le agghiaccianti implicazioni del caso.
Cioè dovremmo essere accomodanti, e possibilmente offrirci a novanta gradi?
Le venne un moto di nausea soltanto a pensarci. Il disgusto le si appiccicò alla gola, il pensiero di Curtis che lo rendeva appena un po' più liquido, un po' più facile da spingere giù, laddove era in qualche modo controllabile. Le parole però le si inchiodarono sulla lingua e non ne vollero sapere di scollarsi da lì neppure quando Gemma entrò nel locale.
L'aria era irrespirabile.
Fumo, musica, sballo, carne in abiti succinti mostrata senza ritegno, sbattuta in faccia a chiunque passasse come se fosse una merce senza importanza. Era tutto lì, nello spazio di quella sala enorme adibita a night club, sospeso sopra le teste di donne e clienti come monito e promessa: questo è il vostro posto, diceva alle prime; qui è dove passerete le serate migliori della vostra vita, assicurava ai secondi.
E Gemma capì con un moto di orrore.
«Rapite le donne per farle prostituire!»
«Che ti aspettavi, che le portassero qui per cucinare il pranzo?» Agatha ribatté sarcastica, un'indelicatezza che in quel frangente, con quella realtà tremenda davanti agli occhi, urtò Gemma più di ogni altra cosa. Fu sul punto di ribattere, ma quell'altra la precedette.
«E comunque non finirete tutte a lavorare in questo piano dell'Overlook. Tra gli affari del Benedict Group non c'è soltanto la prostituzione.»
Questo sì che è confortante.
Nessuna di loro parlò mentre attraversavano il locale. Nessuna osò guardarsi troppo in giro, perché se l'avessero fatto probabilmente avrebbero perso persino la speranza più disperata, l'ultima, quella in grado di salvare molto più che la vita nei momenti d'impotenza. Nessuna osò respirare mentre passavano lì, sotto ai palchi, sotto ai pali a cui erano agganciate donne uguali a loro; madri, sorelle, amiche, amanti che si erano viste rubare l'esistenza. Nessuna riuscì a guardare quelle puttane in faccia, perché il timore di scorgere nei loro occhi qualunque forma di pietoso benvenuto le avrebbe certamente uccise. Nessuna, tranne Gemma.
Lei rubò momenti di miseria a quelle donne che le guardavano dall'alto del loro tacco dodici, pochi attimi soltanto, quanto bastava per non farsi travolgere completamente dalle circostanze. Guardare in faccia il nemico – che in quel frangente era impersonificato da una situazione ostile e ignota – era tutto ciò che poteva avere: un magro contentino naturalmente, ma, Dio, Gemma aveva disperatamente bisogno di avere qualcosa tra le mani che potesse impegnarle la mente e i pensieri.
«In questo piano riceviamo le visite dei clienti, che provengono dalle estrazioni sociali più diverse: alcuni cercano semplicemente due chiacchiere per ingannare il tempo, ma molti vogliono un altro tipo di compagnia. Andare con persone vive, che non hanno mai preso il Vitotal, è un feticismo molto diffuso tra quelli come loro.» Agatha spiegò con naturalezza inquietante, come se fosse una cosa normale.
Come se l'avesse ripetuto tante, troppe volte.
«Loro? Perché, tu non sei una di loro?» Gemma la guardò diffidente, lo squallore di quella situazione che le si stringeva sempre di più alla gola. Il sorriso spezzato che Agatha le restituì - come se volesse dirle povera stupida, tu che non sai cosa succede qua dentro a quelle come noi -, fece il resto.
«No, gioia, e non sono la persona più conveniente con cui fare amicizia. Perciò risparmia il fiato per quello che arriva adesso, perché scendiamo al secondo piano sotto terra.»
Parole inquietanti.
Parole che lasciavano aperti significati infiniti e tremendi.
Parole che rendevano chiaro quanto ciò che accadeva lì dentro andasse ben oltre i novanta gradi di un corpo costretto ad offrirsi.
La domanda le scappò di bocca prima che Gemma potesse fermarla, la voce spezzata da un'emozione angosciosa che avrebbe desiderato sussurrarle che no, non era il caso di saperlo davvero. «Se qui c'è una discoteca, lì cosa c'è?»
Perché, Cristo, era fin troppo chiaro.
Era scritto ovunque.
Lì dentro si andava verso il sangue.
«Un'arena.»



*


Scesero di un piano ancora, il frastuono che si spargeva ovunque attorno a loro per ogni passo che le portava sempre più vicine alla meta. Agatha le fermò davanti all'entrata.
«Quello che state per vedere è un altro business del Benedict Group. I combattimenti tra gladiatori fruttano un bel giro di scommesse, il che a sua volta frutta collaborazioni importanti con le persone giuste» poi guardò Gemma, il riferimento agli amici di cui le aveva parlato che brillava nei suoi occhi furbi. «Tra l'altro sono uno spettacolo molto seguito dalla gente.»
«Gladiatori?»
«Ovviamente non si ammazzano l'uno con l'altro, ma non si fanno nemmeno le carezze.»
Entrarono una dietro l'altra, in fila, come schiave obbligate a leccare il pavimento; i pensieri lasciati muti, senza voce che potesse dare colore alla paura.
Quando Agatha aveva nominato l'arena, Gemma aveva pensato subito a un sotterraneo umido e ammuffito, qualcosa in stile Fight Club che con un po' di fantasia – molta fantasia, in effetti – si trasformasse all'occorrenza in un raffazzonato contorno per duelli e violenza. La realtà però era ben lontana da ciò che lei si era immaginata: non c'era umidità né muffa lì dentro, non c'erano neppure i contorni di un locale destinato a ben altro uso. Ogni cosa sembrava costruita apposta per rendere l'arena un luogo nascosto, introvabile, seppellito sottoterra e oltre la coscienza; per farlo diventare un luogo in cui consumare fino all'osso le peggiori brutture che le persone si portavano dietro.
Oh mio Dio.
Stare lì dentro le faceva venire la nausea.
Affacciare lo sguardo sugli spalti che correvano giù, verso il centro, nel cuore pulsante dell'arena... Farsi riempire la testa dalle grida concitate degli spettatori che si spingevano a vicenda pur di conquistarsi un centimetro di spazio da cui poter vedere... E, per l'amor del cielo, quello che due uomini, lì al centro, si facevano l'un l'altro, accerchiati dalle facce di quella gente che chiedeva le loro teste...
Come se non poter morire sia una scusante per tutta questa violenza.
Sopprimere un conato non fu semplice. Prima di riuscire a parlare, Gemma fu costretta a deglutire più di una volta per riempire lo stomaco di qualcosa che fosse diverso dallo squallore che le si stava attorcigliando in pancia.
«Perché siamo qua? Cosa centriamo con questo posto?»
L'occhiata che Agatha le lanciò non le piacque affatto: aveva il sentore dell'amarezza derisoria di chi nell'orrore c'è già sguazzato da tempo, talmente a lungo da esserselo fatto amico. «Come sarebbe a dire? Gioia, non dirmi che ancora non l'hai capito!»
Non è che non l'abbia capito, è che ho paura di capirlo.
«Il vincitore di ogni combattimento ha diritto a un premio. Di solito ha due opzioni: o può scegliere la morfina, che è un bene fin troppo desiderato da queste parti, oppure...»
Il senso di quella frase era lì, sospeso nell'aria, come un testamento ingombrante e indesiderato. E Gemma capì, raggelata, l'orrore stampato nella voce che gli diede forma.
«Oppure donne.»
«Brava, gioia. Donne. Voi siete il trofeo.»

*


NOTE DELL'AUTRICE



Non so come ringraziarvi! Avete accolto Vitotal con un entusiasmo che non mi aspettavo! *__* Spero davvero di riuscire a rendere la storia com'è nelle mie intenzioni, anche perché mi pare di capire che le vostre aspettative per Vitotal non sono niente male :P
Venendo al capitolo, spero non sia risultato troppo noioso o troppo lento: purtroppo siamo all'inizio della storia, bisogna introdurre il mondo in cui la vicenda è ambientata, e questo basta già per scatenare le mie paturnie XD Nel prossimo capitolo le cose si faranno più interessanti, ve lo prometto: anche perché arriverà Hannibal, un personaggio che personalmente adoro e che credo sarà quello più difficile di sempre da gestire. Che volete farci, mi piacciono le sfide! :P
L'Overlook Hotel ovviamente è un omaggio a Shining, di Kubrik.

Vi ricordo che potete trovarmi su facebook o nel gruppo facebook dedicato alle mie storie: per le mie lettrici le mie porte sono sempre aperte, quindi non fatevi problemi! Vi chiedo solamente di dirmi che mi leggete se mi chiedete l'amicizia perché altrimenti rischio di non accettarvi :P
A presto con il prossimo capitolo,

Brin

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Capitolo 3
*** Hannibal ***


3
ATTENZIONE!
Vitotal NON È una storia per stomaci delicati. E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno, diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona lettura.


COLONNA SONORA!
Si riprende questa usanza a me tanto cara. Per chi vuole, questo capitolo avrebbe una sua colonna sonora. Si tratta di “Numb” di Alanis Morisette.










CAPITOLO 3

Hannibal



*




Siete il trofeo.
Una manciata di semplici parole; un mare sconfinato di nausea, di pugni nello stomaco, di immagini che neppure la mente aveva il fegato di affrontare.
Gemma se ne restò lì, immobile, a fare i conti con ciò che quelle tre parole avevano aperto in lei, le mani legate dietro la schiena e il cuore che avrebbe voluto gridare per il disgusto. E poi... poi c'era l'altro cuore, quello innamorato; quello costretto a vivere nella disperata sete di un'opportunità. Quel cuore che non era disposto a cedere.
La dignità in cambio della vita di Curtis.
Fu imposto loro il silenzio.
Mentre Agatha si intratteneva in compagnia di alcuni uomini in giacca e cravatta, con un occhio sempre e comunque puntato su di loro – perché non poteva mai accadere che quella donna le lasciasse da sole, naturalmente -, Gemma trovò il coraggio di alzare lo sguardo.
Guardò quell'umana desolazione che le si apriva davanti, le facce di quelle persone attorno a lei; volti di uomini e di donne comuni, in apparenza proprio come lei, corrosi talmente a fondo dal Vitotal da essere lì, in quell'albergo di facciata in cui si vendeva ogni tipo di piacere. Persino quello del sangue. E poi...
Poi guardò di sotto.
Mentre tutte le donne del suo gruppo restavano con lo sguardo basso, proprio come era stato detto loro da Agatha, Gemma allungò il collo quanto più possibile per guardare oltre la balaustra. Non vide molto, naturalmente: ogni tanto qualche braccio, una porzione di schiena, la luce argentata di un'arma bianca.
Hannibal, Hannibal!, chiamava a gran voce la folla, questo sì che Gemma riusciva a vederlo. Più a fondo, Hannibal! Più violento! Più sangue, più carne, più rabbia, e smembra e spezza e massacra come se non dovesse morire! E in qualche modo, forse, quella gente s'era dimenticata che quel povero diavolo davvero non poteva farlo.
Quel pensiero fu letteralmente agghiacciante.
E noi dovremmo essere il trofeo di queste bestie?
Fu un attimo, un istante breve e tremendo in cui la disperazione per se stessa ebbe la meglio su quella per Curtis, e ricordarsi di lui fu un po' meno semplice. Probabilmente si sarebbe vergognata di quella debolezza, se non ci fossero state quelle grida. Quegli urli terrificanti che provenivano dal centro dell'arena, il campo del massacro.
Erano grida disumane, grida che non potevano in alcun modo appartenere a una persona normale, non in normali condizioni. Erano grida strappate da morsi di bestia; il rumore di un'anima che veniva lacerata dal corpo assieme alla carne.
«Buon Dio, che cosa sta succedendo lì sotto?»
Perfino la folla era rimasta ammutolita. C'era ancora un lieve chiacchiericcio, per lo più di qualcuno incredulo e sgomento, ma gli altri... Le altre persone erano senza parole, sui loro volti un'espressione sgomenta che probabilmente era la stessa che aveva anche lei.
«Che cosa succede?» questa volta Gemma si rivolse alla donna che le stava accanto, anche lei prigioniera strappata al calore della sua casa, una ragazza trentenne che la guardò torva.
«Cosa vuoi che ne sappia, io? Si staranno ammazzando, o almeno mi piacerebbe tanto.»
Gemma fu sul punto di ribattere qualcosa di altrettanto inacidito, quando il movimento repentino di Agatha attirò la sua attenzione. A insospettire Gemma non fu semplicemente la velocità con cui si congedò dall'uomo con cui stava parlando fino a poco prima, tutta sorrisi calibrati e tocchi leggeri, ma anche – e soprattutto – la luce preoccupata che le aveva acceso lo sguardo nel momento in cui le era cascato l'occhio sull'arena. Aveva visto qualcosa, lì dentro. Aveva visto ciò che aveva scatenato le grida atroci di quel gladiatore, e tanto era bastato per farla sbiancare.
Seguirono momenti confusi, attimi in cui quelle grida s'intrecciarono al chiacchiericcio della folla. Minuti in cui le persone andarono avanti e indietro, cercando posizioni migliori da cui poter guardare di sotto; istanti in cui le guardie appostate vicino alle porte si fiondarono giù per le scale, verso la pancia dell'arena ingravidata di sangue.
Gemma non perse mai di vista Agatha, neppure per un attimo. Nemmeno quando andò a parlare con il ragazzo che le aveva fatte scendere dai camion soltanto poche ore prima, quando erano arrivate all'Overlook. Allen, se non sbagliava a ricordare il suo nome.
Quando le raggiunsero, quel cruccio preoccupato non era ancora sparito dal viso di Agatha e soltanto allora, guardandola così pensierosa, Gemma si accorse che la vita lì dentro le aveva procurato più di qualche ruga.
«L'incontro è finito. Ha vinto Hannibal, com'era prevedibile.»
«Ha vinto per forza, non c'era rimasto molto altro contro cui lottare» commentò Allen con un'alzata di spalle.
«Chi è Hannibal?» domandò Gemma, incapace di tacere. Quel nome era rimbalzato continuamente sulla bocca del pubblico, l'aveva fomentato come se fosse una bestia, per lasciarlo quindi ammutolito e disorientato. Una reazione affatto normale.
«E questa?» Allen la avvicinò, salvo poi voltarsi verso Agatha. «Cos'è, adesso fai la guida alle puttane?»
Lei gli rivolse un sorriso largo, tirato agli estremi della minaccia velata, trentadue denti esposti tanto quanto le sue intenzioni. «Non parlare a una puttana di altre puttane con quel tono, Allen. Puzzi ancora da latte, ma fai già certe porcate che ti varrebbero di certo una punizione, se il signor Benedict lo venisse a sapere.»
Una frase ben assestata che bastò per metterlo a tacere, anche se Gemma poté giurare di scorgere una certa irruenza, una fame di rivalsa in quel ragazzo così giovane e già così irrimediabilmente incastrato dal Vitotal. Aveva degli occhi grandi e luminosi, bellissimi, pieni di una tempesta d'orgoglio che non si sarebbe accontentata di restare soppressa nel silenzio. Il suo era uno sguardo di chi avrebbe facilmente portato guai.
Ma quelli veri – quelli impellenti, quei problemi affilati e pericolosi, quei guai inevitabili che si sarebbero frapposti tra lei e l'obiettivo che Gemma inseguiva -, beh, quelli li chiamò Agatha.
«Sono entrati a pulire l'arena. Tra poco Hannibal sarà qui.»


*


Lo fecero salire in ascensore, scortato da due agenti che impugnavano pistole elettriche in grado di tramortire un bestione tre volte più grande di lui. Entrò nel piano più alto dell'arena, nel trionfo della folla perduta in un delirio malato; zuppo di sangue dalla testa ai piedi, il volto ridotto a un'alternanza disgustosa di chiazze e schizzi, la bocca sporca dalle labbra agli zigomi, in rivoli che gocciolavano corposi lungo il mento.
Gemma restò raggelata quando lo vide attraversare la porta: aveva ancora il suo nome nelle orecchie, gridato al vuoto come se fosse quello di un eroe, ma vedere quale fosse il viso che portava quel nome...
E questo dovrebbe essere un uomo?
Non riusciva a distinguere le fattezze del volto di Hannibal: tutto il sangue che portava addosso gli cancellava i lineamenti, rendendoli spaventosamente vicini a quelli di un demone fatto di fiamme e oscurità. A turbarla più di qualunque altra cosa avesse visto in lui, però, era la luce che gli accendeva gli occhi.
Più del sangue concentrato sulla sua bocca – Dio, non voleva neppure pensare a come avesse fatto a finire proprio -, più di quello che gli imbrattava il petto nudo e i pantaloni bianchi, più dei suoi capelli biondi rappresi in ciocche grumose e sanguinolente, erano i suoi occhi castani a sconvolgerla. Sembravano guardare ciò che gli stava attorno senza vederlo davvero, quasi che il mondo circostante non fosse altro che una sequenza di immagini senza senso; perduti in un mondo che apparteneva a lui e a nessun altro, a un mondo che gli stava dentro e che non avrebbe mai potuto espandersi al di fuori dei confini del suo corpo. In quel mondo in cui ribolliva la violenza, la stessa che aveva sfogato nell'arena; quella che annegava la sua bocca nel sangue e che, persino in quel momento di trionfo, spingeva il suo sguardo verso orizzonti che nessuno di loro avrebbe mai potuto raggiungere.
Erano occhi di chi aveva venduto l'anima al diavolo.
«Dante, complimenti per la tua vittoria. Il signor Benedict è stato trattenuto da affari di lavoro e mi ha mandata a fare le sue veci. Vieni» Agatha gli fece cenno di raggiungerla, sfoggiando tra le mani una boccetta di vetro che conteneva chissà quale liquido. «Le opzioni sono quelle di sempre: o la morfina, oppure una donna viva da usare a tuo piacimento.»
Usare. Era una parola che, in quel contesto, a Gemma faceva letteralmente ribrezzo.
Probabilmente Agatha aveva un'idea ben precisa di quale sarebbe stata la risposta di quel tizio – ma non si chiamava Hannibal? -, almeno a giudicare dalla sicurezza con cui andò verso di lui, quasi a porgergli la morfina che reggeva in mano. Ma poi... Poi quell'uomo si scostò.
Si allontanò da Agatha, lo sguardo che puntava verso di loro - donne in fila davanti al plotone di esecuzione. Le avvicinò nel silenzio generale, quasi fosse una novità; quasi la scelta della morfina fosse una certezza assodata come parte integrante dell'universo. Un passo dopo l'altro, lento, attento a tutto quello che poteva raccogliere con gli occhi.
Passò davanti a loro in un esame scrupoloso dei loro volti, degli sguardi intimoriti, dei tremiti che squassavano le gambe; chiuso in un silenzio rigoroso, l'olezzo disgustoso del sangue che lo seguiva come una compagnia fidata e immancabile, neanche fosse stato l'angelo della morte. Nulla sembrò accendere i suoi occhi, fino a quando non arrivò davanti a Gemma.
Fu in quel momento, che qualcosa in quel volto coperto dal sangue cambiò. E lo vide, Gemma, oh se lo vide: l'istante in cui si accorse di qualcosa in lei, quel lampo di consapevolezza, una curiosità che arrivava da chissà dove. Era qualcosa che l'aveva bloccato lì, davanti a lei, mentre l'intenzione di proseguire oltre l'aveva costretto a voltare soltanto la testa nella sua direzione.
Cristo santo, tutto ma non questo tizio!
Le si avvicinò senza mai distogliere lo sguardo da lei. Da qualcosa che dal suo collo spariva sotto la maglia che indossava.
Gemma mantenne la testa alta, lo sguardo sempre puntato su di lui, mentre il cuore batteva furioso in petto la propria fame di libertà. Avrebbe voluto sottrarsi al suo interesse, alla sua vista, a qualunque cosa le fosse costata quell'attenzione per la quale avrebbe davvero barattato il proprio corpo con altri uomini, pur di sottrarsi a lui.
Farei volentieri la puttana di centinaia di uomini, piuttosto che diventare la proprietà di uno con tutto questo sangue addosso.
Ma poi rivide il volto di Curtis, consumato dal cancro.
Rivide i segni neri che gli circondavano gli occhi, rivide il suo pallore, quei chili che il tumore si era mangiato allo stesso modo in cui gli aveva mangiato il corpo.
Non poteva permettersi certi pensieri.
I cedimenti non erano concessi.
Non aveva tempo per essere debole.
«Quanti anni hai?» Dante - o Hannibal, o qualunque nome avesse – sfilò la collana che le scendeva lungo la clavicola, lasciando una scia di sangue sulla sua pelle.
Aveva le mani calde, esattamente come il liquido vermiglio che le insozzava.
«Venticinque» Gemma si costrinse a non cedere all'agitazione, a non scoprirsi debole e vulnerabile; a fronteggiare qualunque cosa fosse arrivata con la voce ferma e lo sguardo che mai avrebbe potuto vacillare. Così lo guardò negli occhi.
Guardò quel gladiatore, quello scherzo della natura, quel mostro ricoperto di sangue rubato ad altri con la forza. Lo guardò negli occhi e capì che lei, nella discoteca dove le puttane raccoglievano i clienti, non ci sarebbe mai andata a lavorare, perché sarebbe appartenuta a lui.
«Bene.»
Poi Dante abbassò lo sguardo sul medaglione di Gemma che reggeva tra le mani, e qualcosa che lei non riuscì a decifrare gli riempì gli occhi. Non era una luce particolare, nemmeno la consapevolezza di un pensiero ben formato. Si trattava di qualcosa di informe, qualcosa che emergeva sul suo volto anche attraverso il colore del sangue. Qualcosa che accompagnava il suo verdetto.
«Scelgo lei.»
«Lei? Sei sicuro? Non preferisci la morfina?» Agatha sembrò stranita, quasi lui l'avesse spiazzata con quella decisione. Gli si avvicinò, i tacchi che scandivano i suoi passi, ma Dante afferrò Gemma per un braccio e la costrinse a uscire dalla fila.
«La morfina posso procurarmela comunque. Voglio lei.»
«Per favore...» Gemma non sapeva neppure che cosa volesse dirgli, ma a lui non sembrò interessare: il modo in cui le rispose aveva un che di irritato, spazientito quasi. La guardò come se gli avesse appena fatto un torto.
«Per favore cosa? Tu sei un premio, io ti ho vinta. Non c'è nessun favore da fare.»
Poi la portò verso la balaustra, la mano impiastricciata di sangue che scivolava sul suo braccio in una stretta che cercava di mantenere il possesso della situazione.
La esibì come il trofeo che Gemma era in realtà e lì, mentre dichiarava a quel mondo folle e malato che da quel momento lei gli apparteneva, finalmente lo vide per ciò che Hannibal era oltre il sangue che gli schizzava il petto e gli copriva il viso: una di quelle stesse persone che stavano distruggendo il mondo dopo la Cura, una di quelle persone che si erano fatte consumare dal Vitotal e che ne portavano le tracce addosso e sotto la pelle. Vide l'avidità, la pazzia, la violenza che faceva girare il suo mondo e che regolava la vita di quell'uomo.
La stessa che da quel momento avrebbe piegato anche la sua.



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NOTE DELL'AUTRICE



Questo capitolo è decisamente breve, lo so. E' che mi sembrava perfetto così.
Finalmente facciamo la conoscenza di Dante, detto Hannibal per gli amici, che – posso anticiparvi – sarà un personaggio estremamente complesso.
Che dire? Con questa long si profila all'orizzonte un'altra storia che tratta di un amore corrosivo e doloroso, e in qualche maniera decisamente inevitabile e chi ha già letto Obsession sa che quando accosto l'aggettivo corrosivo ad amore non è mai una buona cosa :P
Dal prossimo capitolo comunque conosceremo meglio Hannibal, o meglio, inizieremo a intravedere qualcuna delle sue numerose sfumature. Prima tra tutte – suppongo, devo farmi due conti – del perché del suo soprannome. Però se voi avete supposizioni fatevi pure avanti! :P
Spero ad ogni modo che la storia non vi stia annoiando: se è così fatemelo pure sapere, io sono aperta a qualunque tipo di osservazione e di critica!

Per chi volesse lascio i miei soliti contatti:
contatto facebook
gruppo facebook delle mie storie
A me fa sempre molto piacere poter parlare con voi, quindi fatevi pure avanti ;)

A presto,

Brin




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