I Will Never Regret

di Ronnie02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue - Starting a new adventure ***
Capitolo 2: *** The Girl On Fire ***
Capitolo 3: *** Andrea, Rea... It's just me ***
Capitolo 4: *** I Will Stay ***
Capitolo 5: *** Mothers ***
Capitolo 6: *** Daddy? Daddy? Daddy! ***
Capitolo 7: *** The Link ***
Capitolo 8: *** When I was 17... ***
Capitolo 9: *** You said it was easy! ***
Capitolo 10: *** I Know Who I Am ***
Capitolo 11: *** Babies grow up some babies ***
Capitolo 12: *** Epilogue. We Have A Family ***



Capitolo 1
*** Prologue - Starting a new adventure ***


SALVE GENTE!!! Ok, prima di tutto bentornati, ovviamente visto che questo è un sequel. Per chi non avesse letto la storia principale si chiama "One Day Maybe We'll Meet Again" ed è meglio che prima passiate a leggere quella a capirete ben poco :)
Ronnie è tornata, io con lei, e si è portata dietro delle foto da raccontare. Ora capirete bene come funziona questa storia, spero vi piaccia quanto la prima e mi farebbe tanto piacere sapere cosa ne pensate :)
Ora però vi lascio leggere, belli miei.

 
 


Prologue

 



Era una storia così bella che certe volte raccontarla mi emoziona, lasciandomi brillare.
E che fosse la mia storia non cambia le cose, perché è così piena di amore, odio, passioni, amicizia e sentimenti, che tutti l’ amerebbero. Ho passato la mia vita trasmettendo i miei ricordi a mio figlio, che a sua volta l’ha raccontato ai suoi.
Perché insegna che bisogna aspettare e non si può avere tutto dalla vita in men che non si dica. Oppure che la felicità ha un prezzo e a volte molto alto. Per raggiungerla ci vuole fatica e impegno, anni di esperienza e emozioni a non finire.
Però, quando finalmente la vedi arrivare, la sensazione che provi ti appaga così tanto da dimenticare tutti i dolori passati.
Sono sempre io, non sono cambiata dall’ultima volta, tranne per il fatto che sono diventata nonna di due splendidi bambini.
Sono sempre la solita canterina dai capelli rosso sangue e i boccoli pazzerelli.
Sono sempre io: l’innamorata persa di Jared Leto, che ora è seduto sulla sedia a dondolo davanti alla nostra piscina, con la sua vecchia chitarra intagliata, She, cantando le note di Closer To The Edge.
“No, no, no, no…. I will never forget… no, no, no, no…”, canta.
Sono sempre io: Veronica McLogan… in Leto.





Chapter 1. Starting a new adventure




 
“Jeremy, ancora guardi quell’album?”, mi chiese mia madre mentre ero seduto sul divano di casa nostra. Oh, bè… non esattamente seduto.  
“E’ da un po’ che non ci davo un’occhiata e tanto non ho nulla da fare”, risposi sfogliando le pagine e guardando di rado le foto. Era più un passatempo apatico che vera curiosità.
“Non devi suonare?”, mi domandò venendo vicino a me con in braccio Sandy, coccolando il suo pelo rossiccio e vecchio. Quel gatto c’era da prima di me e in un certo senso avevo la sensazione che mi odiasse.
“Liam è in giro con Denise stasera. Astrid è al saggio di danza moderna e Leslie non ho idea di dove sia, anche se tanto non sarebbe d’aiuto”, la informai facendole alzare gli occhi al cielo.
“Ma se vi fa dei photoshoot da urlo, quella piccolina”, mi riprese lei, difendendola.
Mi staccai dall’album e mi sedetti in modo decente, mentre Sandy saltava dalle braccia di mia madre per finire di fianco a me e fare le fusa. Bè, forse non mi odiava più così tanto…
“Sì lo so, ed è un genio. Ma se sono solo io non ha senso”, la chiusi lì cercando di farle capire che non avevo proprio voglia di prendere una chitarra e mettermi a suonare, per quanto mi piacesse farlo.
Era uno di quei giorni… vuoti. Che se anche tutti ti danno consigli su cosa fare o come scacciare la noia, non ce ne sarà uno che ti convincerà e rimarrai sul divano. A fare che? Magari a sfogliare vecchi album.
“Quando torna papà?”, chiesi guardando l’orologio. Erano le undici e mezza di sabato sera. Non sarebbe arrivato prima delle due, se andava bene.
“Tardi, tesoro. Oggi ha un concerto, lo sai. Pensavo che anche tu e gli altri vi foste messi d’accordo per suonare in qualche bar”, commentò curiosa.
“Lo so, ma poi abbiamo rimandato. E uscire non mi sembra una grande idea, oggi mi sa che vado a dormire presto”, chiusi l’album e sbadigliai, mettendo una mano davanti alla bocca.
“Oddio! Che ne hai fatto di mio figlio, chi sei tu?”, mi prese in giro con il suo solito ottimo umorismo, e scoppiai a ridere.
“Se l’è mangiato Shanimal”, scherzai.
“Ah, adesso vedrà tuo zio. Oh, come lo concerò per le feste, stavolta”, continuò la recita per poi sedersi di fianco a me e abbracciarmi le spalle.
Mi voltai a guardarla: quel volto sui quaranta e passa aveva pochissime rughe, gli occhi smeraldo come i miei e i capelli rossi erano ancora vivaci come nelle foto che stavo guardando e la sua voce era ancora corallina.
Come mio padre… non sarebbe invecchiata mai! E forse, avendo il loro stesso dna, io li avrei imitati.
“Ho trovato un modo per passare questa serata”, disse convinta mentre prendeva l’album e lo sfogliava. Poi scosse la testa e lo richiuse, passandolo a me. “Aprilo, scegli una foto e io ti racconterò tutto quello che so, senza segreti”.
“Davvero tutti? Senza segreti o censure?”, la sfidai. Lei scosse la testa, convincendomi. “Di tutte quelle che voglio?”.
“Se non ti muovi però mi rimangio la parola”, mi fece l’occhiolino e scoppiai a ridere. Ora capivo perché papà era tanto innamorato… persone come mia madre erano rare e sperai un giorno di trovarne una anche io.
“Vediamo…”, sussurrai mentre aprivo l’album e lo guardavo con molta più attenzione di prima.
Eccola. Una foto particolare, chiara, con colori limpidi e stampata su carta plastificata. Era una foto fatta sul set di un film che aveva visto come protagonisti entrambi i miei genitori.
C’era mamma che ballava con delle ragazze, sull’età di trent’anni e le telecamere riprendevano ogni loro movimento.
Erano vestite con body tutti colorati e con pettinature divertenti ma non eccessive.
“Questa”, decretai e lei sorrise.
“Questo momento lo ricordo bene! Fu tanto tempo fa, avevo ventinove anni e la mia carriera stava andando molto bene…”, cominciò a raccontare.
 
Solon mi aveva costretta, non era giusto.
Questa sarà un opportunità da non perdere, continuava a dire, ma la cosa, chissà perché mi lasciava sospetta. C’era qualcosa che non mi convinceva in quel sorriso, dovevo aspettarmi qualcosa.
L’unica nota positiva era che stavo di nuovo nella mia vecchia, dolce e trafficata città: New York. E così starei stata pure con Andy.
Infatti ora ero in giro con lei, tanto perché sul set nessuno stava combinando niente e me l’ero svignata. Solon mi avrebbe fatto la paternale al mio ritorno, ne ero certa, ma non mi importava.
“Ronnie!”, urlò la pazza appena la scorsi nel centro di Central Park. Ero seduta su una panchina, sentendo la musica nel mio iPhone rosso fuoco  e il vento mi scompigliava i miei capelli, lisci come il grano. Che stano averli così, ci dovevo ancora fare l’abitudine.
“Ciao Andy! Come stai?”, mi tolsi le cuffie, misi tutto nella tasca della giacca di pelle e mi alzai per abbracciarla.
Sentire il suo calore era una bella cosa, mi mancava ormai da troppo tempo. Mi stritolò il collo ma forse anche io stavo facendo la stessa cosa con lei.
“Bene, sono così felice di riaverti di nuovo qui!”, disse lei staccandosi da me e guardandomi confusa. “I boccoli?”.
“Spariti… ma solo per il film”, corressi vedendo il suo viso farsi sempre più scioccato. “Tra qualche mese torneranno normali, calmati”.
“Oh meno male! Sarebbe stato un trauma”, disse mentre io alzavo le sopracciglia. “Voglio dire, stai benissimo anche così, ma ovviamente una Ronnie senza ricci non è una Ronnie”.
“Già…”, sussurrai mentre lei rideva e, prendendomi a braccetto, mi portava in giro per il parco.
Ronnie… non era stata lei a darmi questo nomignolo. In realtà non capivo nemmeno perché avevo fatto scrivere Ronnie sul disco, invece di Veronica McLogan. Quel soprannome sarebbe dovuto sparire, finire nel fondo dell’oceano, come la persona che l’aveva inventato, ma invece avevo chiesto di tenerlo sempre con me.
Prima dicevo che era per via di Solon: lui era abituato a questo nome, mi aveva conosciuta così. Ma alla fine capii che stavo solo fingendo, per l’ennesima volta.
Non era Solon il motivo. Era lui e lo sarebbe sempre stato.
Perché per quanto potessi odiarlo, e lo odiavo davvero, qualcosa di lui mi era restato dentro e non riuscivo a buttarlo via. Come se fosse marchiato a fuoco sulla mia pelle, sul mio cuore, e non riuscissi a grattare via le cicatrici per far guarire la ferita.
Quel nome era l’unica cosa che mi rimaneva di lui. O meglio, l’unica cosa che mi faceva credere che c’era stato realmente senza che mi facesse male.
Perché qualcos’altro mi aveva lasciato, ma li avevo rinchiusi in una scatola nel profondo del mio armadio a Los Angeles, e non avevo la minima intenzione di riesumarli da lì.
“Ronnie? Ronnie sei viva?”, mi chiese Andy. Mi ritrovai la sua mano davanti alla faccia e capii che mi aveva chiesto qualcosa che non avevo sentito, persa com’ero nei miei ricordi.
“Sì, scusami. È che sono un po’ stanca”, lasciai perdere mentre lei cominciava a ridere. “Senti, è vero! Fino a pochi giorni fa io ero nella mia bella casetta al caldo della California a godermi beata la mia pausa dalla musica, finchè non è arrivato Solon e mi ha trascinata qui”.
“Ma se due mesi fa sei venuta a fare il provino! Era ovvio che ti prendessero”, ribatté ridendo mentre io le facevo la linguaccia.
“Sempre colpa di Solon. Scherzi? Al posto che gelare qui sarei potuta essere in spiaggia e farmi una bella tintarella”, la presi in giro, mentre lei faceva il broncio.
“Preferisci una tintarella a me? Bè grazie ragazza-che-prima-consideravo-come-sorella!”, disse accelerando il passo e lasciandomi indietro.
“Oh Andy, mi dispiace, chiedo venia!”, dissi raggiungendola e piantandomi davanti a lei, con il miglior sorriso alla faccia da cucciolo abbandonato.
Lei socchiuse gli occhi, mi guardò per qualche secondo e poi mi si aggrappò di nuovo al collo. “Oh Ronnie! Non hai idea di quanto tu mi sia mancata, sul serio! E’ stupendo che tu sia qui e non vedo l’ora di venirti a trovare sul set! Finalmente anche tu attrice”.
“Ho già fatto un film, Andy, e tu sei già venuta a trovarmi”, la presi in giro mentre lei non mi mollava. Le carezzai i capelli castano chiaro, quasi biondiccio, e mi sentii a casa.
“Era diverso, lì non eri la vera e sola protagonista”, disse mentre sentivo il suo respiro sul mio collo. Lo mossi, come per dire che mi dava fastidio, e lei per ripicca soffiò.
“Mi fai il solletico, idiota!”, la spintonai via ridendo mentre lei mi faceva la linguaccia. “E in ogni caso non solo la unica protagonista. C’è anche il personaggio maschile”.
“Sai già chi lo interpreterà?”, chiese Andy curiosa mentre uscivamo finalmente dal parco e cominciavano a farci un giro per la vera città. Qualche flash ci diede un po’ fastidio, ma lasciammo passare e continuammo a discutere.
“No, ma spero in bene. Solon dice che Will ha dei nomi importanti su cui ripone molta fiducia, ma gli è stato proibito di rivelarmelo”, ripetei le stesse parole del mio manager.
“Gli è stato proibito di rivelartelo?”, chiese ridacchiando sotto i baffi.
“Lo so, lo so: è la scusa più assurda e stupida che esista su questo pianeta, davvero! Solon è negato nel dire bugie”, scoppiai a ridere con lei. “Ma mi fido di lui, e forse anche un po’ di Will, quindi spero in bene”.
“Oh ne sono certa. Ci sono un sacco di persone che potrebbe scegliere, di certo non assumerà uno sfigatello che non sa nemmeno dove si parte a recitare”, disse sicura.
“Anche perché voglio finire presto: ho altro da fare”, continuai indicandole il telefono.
“Ancora Vicky? Che ha fatto quella donna, ora?”, scoppiò subito a ridere, capendo a chi, a cosa mi riferissi e anche il perché. “Il matrimonio sarà a luglio, e già impazzisce? Non voglio essere presente quando mancheranno pochi giorni!”.
“Ah ah ah, sbagliato cara mia Andy. È esattamente qui l’errore”, dissi facendola preoccupare. Risi malefica e continuai. “Li farò sposare niente popò di meno che sulla spiaggia cristallina di Candia, in Grecia”.
“Il che significa che…”, cominciò terrorizzata.
“Significa che noi due, essendo testimoni, dobbiamo partire con gli sposini almeno il giorno prima… se non due o tre”, finii la sua frase.
“No! Ti prego, Ronnie, no! Non puoi farmi questo, sono la tua migliore amica! Lo sai com’è Vicky quando è nervosa!”, mi chiese pietà, anche se sapevo che faceva finta. Era tutta un recita, ma era bravissima e mi piaceva darle corda. “Non puoi portarmi in quella gabbia di matti! Non con quella dannata pazza, non con il suo orsetto porta fortuna! No, Ronnie, non io!”.
“Hai finito?”, domandai dopo qualche minuto che ebbe fatto la sua sceneggiata.
“No… Ronnie, ti prego!”, gracchiò ancora una volta, per poi scoppiare a ridere. “Ok, ora ho finito”. 
“Tu non sei normale, dolcezza… e lo dico con affetto”, dissi scuotendo la testa e vedere lei che mi guardava malissimo per poi ammettere che avevo fermamente ragione.
Non parlammo per un po’, o almeno limitammo i nostri discorsi alle bellezze della città e a tutto ciò che Andy aveva imparato e che ora mi stava appioppando senza pietà.
Per i primi trenta minuti le diedi retta, partecipando attivamente al giro turistico, ma poi cominciai a divagare come sempre nei miei pensieri, ma soprattutto tanto ricordi, che quella città portava con sé. Lì avevo passato tre o più anni della mia vita e a volte era assurdo pensare alla facilità con cui l’avevo tradita con Los Angeles.
Insomma questi edifici, queste strade, questi parchi e perfino l’aria erano ripieni di ricordi del mio passato. Quante volte avevo camminato per di qui, guardando distrattamente tutto quello che avevo intorno, di fretta, senza pensare che un giorno non gli avrei più rivisti?
Mi mancava la vita qui a New York, era così diversa da quella che facevo ora a Los Angeles. Qui ero piena di creatività e ispirazione, con i sensi all’erta, contando i minuti che mancavano alla consegna dell’ultima foto. Come sempre, ero di corsa; e la fretta si vedeva anche nei miei prodotti, cosa che mi faceva parecchio innervosire.
A Los Angeles, invece, mi ero presa la liberà di fare con calma e Solon mi aveva seguita in tutto e per tutto. Facevo le cose nel giusto tempo, dando ad ogni lettera e ad ogni nota lo spazio che meritava: ricontrollavamo i testi dieci volte, creavamo la musica in giorni e giorni, registravamo il tutto in ore infinite.
Ma alla fine il risultato finale era stato sorprendente ed ero fiera del mio primo disco.
“Ronnie, ti va di fare un po’ di foto? Così, come per tornare ai vecchi tempi!”, mi propose Andy, facendomi tornare in un attimo alla realtà, dove quella città mi stava di nuovo aprendo le sue braccia per accogliermi.
“Pronta a metterti in posa? Io scatto, eh?!”, l’avvisa, prendendo veloce la mia macchina fotografica digitale e accendendola in fretta. No, stavolta con calma.
Andy si mise a sorridere, mettendosi ad angelo sopra un murettino, ai lati del marciapiede. “Guarda che se non ti muovi cado per terra”, scherzò ridendo. “Qui non siamo sul ghiaccio: non scivolo!”.
“Arrivo arrivo!”, la calmai scoppiando a ridere. Guardai nell’obiettivo della fotocamera, misi bene a fuoco e, con un simpatico click, scattai la foto.
“Passamela, mi tocca immortalare il ritorno di fiamma di Ronnie nella città delle meraviglie”, disse lei saltando giù dal muretto e chiedendomi la macchina. Scossi la testa e gliela passai.
Si mise a fare foto a raffica, prendendomi in ogni angolazione e in ogni movimento che compivo. Lei era specializzata in questo: foto a sequenza.
Poi sceglieva la migliore, quella in cui magari si vedono i tuo capelli muoversi con il vento, o il nascere di un sorriso, le foglie che si staccano dal ramo.
“Sei peggio di un paparazzo a volte, sai?”, dissi indicandole un flash che non veniva dalla mia macchina fotografica. Proveniva da un uomo, in ginocchio, dalla parte opposta alla nostra, che cliccava un pulsante sulla sua fotocamera professionale. “Secondo me pensano che ora avranno della concorrenza”.
“Sì, certo!”, scoppiò a ridere lei mentre tornò da me, mi mise la macchina fotografica in borsa e cominciò a camminare. La seguii. “Ora è meglio che torniamo a casa… se casa si può definire, per te. Solon sarà arrabbiato: hai marinato la scuola, bambina cattiva”.
“Oh, quale disgrazia ho commesso! La prego di perdonarmi immensamente con la sua infinta bontà, signorina Mercia”, scherzai facendole un inchino, per poi scoppiare a ridere, darle ragione e avviarci verso il set.
Arrivate alla macchina ci salutammo e lei tornò a casa, mentre io mi mossi verso il luogo di lavoro… che strano definirlo così!
 
“Non ci posso credere. Ma sei impazzita?!”, urlò il mio manager. Ovvio.
“Ma dai Solon, era una giornata buca, non stavamo facendo nulla, lo sai anche tu”, dissi annoiata, nella mia roulotte, mentre sceglievo i vestiti da mettere dopo che lui se ne fosse andato e io mi sarei prestata alla mia solita doccia.
“Non ti è stato permesso di uscire, non importa quanto ti annoi stare qui”, mi rimproverò manco avessi due anni.
“Non vedevo Andy da una vita e se permetti avevo voglia di rivedere la mia migliore amica, visto che siamo nella stessa città! È ridicola questa discussione”, commentai sbattendo l’anta dell’armadio e guardandolo negli occhi, sapendo di aver ragione.
Si alzò e mi venne vicino, troppo vicino. “Avevo solo paura per te perché non hai avvisato nessuno! Bel ringraziamento, dolcezza!”.
“Sapevi che sarei stata bene, so badare a me stessa”, commentai calmandolo. Dopo quello che mi ha fatto lui e i miei genitori stare da sola, abbandonata dal mondo, è ciò che so fare meglio, volevo dirgli, ma non era il caso di portare avanti quel discorso.
“Ti prego… avvisami la prossima volta”, chiese supplicandomi e guardandomi negli occhi. Era solo un po’ spaventato e nel suo mare scuro delle iridi vedevo solo paura di perdermi. Era un buon amico, lo era davvero.
“Lo farò, sta tranquillo”, lo abbracciai poggiando la mia testa sulle sue spalle, stringendomi al suo collo. Sentii le sue braccia stringermi la vita e sapevo che aveva chiuso gli occhi. Lo faceva sempre. “Ti voglio bene, Solon, e te lo chiederò prima di scappare via. Lo giuro”.
“Mi dispiace metterti in gabbia, piccola libertina, ma non posso fare altro”, mi disse dolce.
Non risposi, lasciai quel momento cadere così. Non era lui a mettermi in gabbia. Erano i ricordi, era il passato.
Quelle cose che più cercavo di posare nel fondo dell’oceano, più risalivano a galla. Facendomi male… molto male.

...
Note dell'autrice:
Tutto più chiaro ora? Vi piace?
Spero di sì cavolo xD
Allora, qualche PS che mi sono dimenticata di mettere la volta scorsa. Nel capitolo 39 (sono sbadata sì lo so xD) se avete voglia di rileggervelo sentitevi 
http://www.youtube.com/watch?v=j4y-RzVGrHg (Far Away dei Nickelback) e immaginatevi una specie di trailer con tutte le avventure di Ronnie e Jared. Secondo me questa canzone è perfetta.
Secondo, questo sequel sarà cortino, saranno 11 capitoli più il mini epilogo. Lo so, è indecente visto che si potrebbe raccontare un sacco di cose, ma non posso fare la cronaca di ogni giorno di questi personaggi, sono però gli eventi che hanno caratterizzato maggiormente la loro vita. E altro PS, i ricordi non saranno solo di Ronnie o Jared, ma ci sarà anche spazio per protagonisti come Andy, oppure persino Lucy. 
Spero di avervi incuriosita e che mi seguiate ancora.
VI AMO! :)
Ronnie02

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Capitolo 2
*** The Girl On Fire ***


Salve Echelon! Bentornati a tutti, sono qui con il nuovo capitolo del sequel di "One Day Maybe We'll Meet Again"! *ma dai?!*
Ok, vado avanti :D
Questa volta si salta prospettiva e andiamo nella mente del nostro bel Tomino, tanto caro e tenero (il quale, brutto stronzone ha fatto un mini VyRT di notte senza avvisare.. ma bravo!) *è pazza*
Vediamo se riuscite a capire in che periodo siamo (non è per niente difficile), e spero che vi piaccia. 
Buona lettura




Chapter 2. The Girl On Fire

 



“Tomo!”, urlò Jared nel mio orecchio, facendo seguire quell’orribile suono con un’allegra risata delle sue. Mi piaceva sentirlo ridere, visto che la notte precedente era entrato per tutta la durata delle tenebre in un coma remunerativo in cui apriva la bocca solo per dire Ronnie.
Mi aveva parlato di questa ragazza da tanto tempo ormai, ma solo nelle fasi in cui si deprimeva e entrava in quello stato che qualcuno chiamerebbe impasse, se lo osservasse da fuori. Ma lui in quei momenti non era impassibile: dentro soffriva tantissimo e, dopo aver imparato a conoscerlo, vedevo la sua sofferenza nei suoi occhi.
Ronnie… la sua unica vera fiamma, che si era spenta per uno stupido errore.
“Jared, a volte vorrei buttarti in un falò, tanto per vedere se la tua stupidità è un buon combustibile”, dissi mentre mi alzavo dal letto, senza maglietta e con solo i pantaloni della tuta. Mi sistemai un po’ i capelli, che avevo tagliato, e mi stropicciai gli occhi.
“Forza, Tomo! Oggi sarà una grande, grande, grande giornata!”, esclamò facendomi alzare gli occhi al cielo.
“Cosa succede oggi di importante, sentiamo?”, chiesi io, dimenticandomi completamente.
“Tomo… siamo a New Orleans in vacanza, potremmo anche andare un giro, sai?”, disse come se fosse ovvio. “Shannon e Matt gli ho già svegliati, quindi muoviti… cazzone!”.
“Come siamo gentili, stronzetto!”, replicai facendogli la linguaccia. Chissà perché proprio New Orleans, mi ero chiesto così tante volte… in fondo Jared e Shannon non erano di qui, e come loro nemmeno Matt. Io avevo abitato al Nord, dopo essermi trasferito da Sarajevo, quindi il Sud non aveva nulla a che fare con me.
Ma i Leto avevano detto ‘volevamo fare una gita, abbiamo preso una cartina e la fortuna ha indicato New Orleans’. Conoscendoli, credevo in ciò che dicevano.
Li immaginavo mentre rubavano a Constance, come dei bambini di dieci anni, una cartina degli Stati Uniti e avevano giocato a freccette per trovare una giusta meta.
New Orleans… cosa mi avrebbe riservato New Orleans?
Scossi la testa ed evitai di farmi incenerire da Jared per il ritardo cominciandomi a lavare e poi cambiare. Pantaloni di jeans, maglietta nera e giacca di pelle. Ovviamente occhiali da sole: il marchio Thirty Seconds To Mars.
Quando fui pronto presi il telefono e uscii dalla mia stanza, scendendo nella hall dell’hotel in cui alloggiavamo. Lì Shannon stava muovendo la testa a scatti, a destra e a sinistra: poteva sembrare un pazzo a prima vista ma notando le sue cuffie sapevo che stava creando.
Matt, che era il meno stravagante del gruppo, stava guardando il telefono, forse mandando messaggi a Debby, la ragazza con cui si sentiva in questo momento.
Jared… Jared era Jared e stava al telefono con Emma per decidere sulle tattiche per il prossimo album, che avremmo inciso tra qualche mese. Il primo album dove compariva il mio nome.
“Sì, credo che lui sarà molto contento. Emma, fai il possibile”, disse avvicinandosi a me. “Oh, Tomo, Tomo, Tomo… i prossimi mesi di registrazione saranno…”.
“Un inferno se dovremmo sopportarti”, gli rispose Shannon togliendo le cuffie e prendendo il giro suo fratello minore.
“Grazie bro… grazie davvero per la considerazione”, fece l’offeso per poi tornare a guardare me con un sorriso.
“Jared, mi fai paura”, dissi sorridendo mentre Matt metteva via il telefono e richiamava tutti all’ordine.
“Allora, vogliamo andare o restiamo in hotel per tutto il resto della vacanza? Io vorrei vederla, New Orleans!”.
“Sì… giusto, bravo Matt!”, si svegliò Jared lasciandomi in pace e andando davanti a tutti. Matt andò dietro a lui e, in coda come se fossimo una scolaresca, io e Shannon li seguimmo.
“La tua prima gita di gruppo”, commentò il batterista quando cominciammo a camminare al sole cocente del Sud, in una bella nuova giornata.
“Già… il mio sogno”, sussurrai sorridendo nel vedere Jared indicare cose a caso, come anche cassonetti o lampioni, ma tutti con la stessa meraviglia.
“Sono contento di aver scelto te. Jared ha grandi progetti sul tuo conto: fa bella figura come sempre alle registrazioni e entrerai nel cuore di tutti i marziani”, mi confessò.
“Lo farò, Shannon. Promesso”, dissi io. Ma non sapevo che qualcosa, o meglio qualcuno, mi avrebbe un po’ distratto da quel momento in poi.
Non tanto da farmi sbagliare le prove e farmi odiare da Jared, ma persi i miei pensieri nei suoi occhi scuri e l’immaginazione per le canzoni era fissa sul suo volto.
 
“Non cambierai mai, Vicky Bosanko. Mai”, sentii dire da una ragazza dai lunghi boccoli rossi, seduta davanti al bancone, mentre parlava con la cameriera. Una piccola ragazza sui vent’anni dagli occhi e capelli scuri. Piccola… doveva avere circa la mia età, ma la sua statura la tradiva di qualche anno.
“Senti, piccola impertinente, non mi rompere!”, rispose la ragazza, Vicky a quanto pare. “Quanto mai ti ho invitata a trovarmi…”.
“Vedo che la gentilezza ti caratterizza sempre come un tempo!”, disse la rossa, muovendo i suoi capelli, come se avesse caldo, e legandoli in una treccia laterale. Alcuni boccoli sfuggirono alla presa e ne rimase una bella acconciatura spettinata. “Insomma, ti ho lasciata cameriera e ti ritrovo cameriera!”.
“Mi serviva un lavoro e questo è il meglio che ho trovato, ok?”, si difese mettendo il broncio la mora. “A proposito, tu e Andy che state facendo?”.
“Quello che facevamo l’ultima volta che ci sei venuta a trovare a New York qualche mese fa”, sorrise la rossa, chiedendole un’altra Cola, che la mora le preparò subito con aria felice. “Lo studio fotografico va bene, clienti ce ne sono. Devo ringraziare Andy, in fondo è merito suo se dopo la sua università mi ha trovato un lavoro”.
“Almeno siete insieme”.
“Potresti venire anche tu. Insomma a settembre dovresti fare l'ultimo anno, no? Basta che dai via la casa qui e vieni a vivere con noi: lo spazio c’è e per me sei come una sorella. Andy non si fa problemi… le stai simpatica, lo sai”, propose lei.
La mora si voltò verso di me, sentendosi ovviamente osservata, così presi in mano il telefono e feci finta di giocherellare e bere la mia Cola, mentre aspettavo che i ragazzi tornassero dalla loro gita.
Non ero andato stavolta. Volevo farmi un giro per i fatti miei di qualche minuto e poi tornare in albergo per riposarmi: ne avevo bisogno dopo giorni e giorni di camminate per scoprire le meraviglie di New Orleans.
Ma non smisi di ascoltare.
“Veronica, lo sai…”.
“No, Vicky, non lo so!”, sbottò la rossa, Veronica. “Parli sempre di cambiare vita… insomma ti conosco, da quanto ti sei trasferita da Bossier City hai cambiato casa ogni sei mesi tipo e non ti ci vedo a restare qui per il resto della tua vita”.
Bossier City? Ma non era la città natale dei Leto?
“Lo so, Veronica. Ma lo sai che il mio sogno era tornare qui a New Orleans e…”, cercò di spiegare, ma poi non la sentii più parlare. Sì, ero un fottuto spione ma per una volta non ci feci caso e sperai che non si fosse interrotta per me.
“Esatto, il tuo progetto era tornare qui. E basta”, caricò la rossa. “Non mi hai parlato di famiglia, successo, carriera qui. Ti prego, Vicky! Ti prego!”.
“Non fare quella faccia…”.
“Quale faccia?”, ridacchiò l’altra.
“La faccia da cucciolo abbandonato a cui non posso dire di no!”, scoppiò a ridere la cameriera. Era una risata cristallina, quasi dolce.
“Io per lui ho cambiato vita…”, disse la rossa con un tono non più triste ma completamente sconfitto. “Mi sono obbligata ad andarmene, a non ripensarci più. Certo, mi capita di rivederlo nei ricordi, ma è… passato. Quindi muovi il culo e fai come me: torna a New York!”.
“Ci penserò… davvero Veronica ci penserò! Non mi guardare così, te lo prometto”, ridacchiò, forse perché l’altra non le credeva.
“Bene, ora vado… ci sentiamo stasera? Devo fare delle foto”, chiese la rossa.
“Certo, da me alle otto: cucini tu però, italiana! E voglio vedere le foto”, le gracchiò, come se fosse lontana.
“Con molto piacere, Southern girl!”, sentii piano la risposta della rossa, che probabilmente se ne era andata.
I campanellini sulla porta d’entrata scandirono la sua uscita e così io chiamai Jared. Era ancora in giro con Shannon e Matt e non sarebbero tornati prima di due ore.
“Ok, allora torno a casa e vedrò di inventarmi qualcosa da fare”, risposi al telefono.
“Sicuro che non ci vuoi raggiungere?”, chiese Shannon strappando l’aggeggio dalle mani di suo fratello.
“No, tranquillo batterista. Sono stanco, ho voglia di starmene tranquillo e in silenzio”.
“Ok, capito. Ci vediamo stasera allora”, mi salutò per poi riattaccare. Sorrisi e misi via il telefono, notando che davanti a me c’era il conto del bar per quello che avevo mangiato.
Lo presi in mano e lo guardai.
“No, mi dispiace, non ho scritto il mio numero”, sorrise la cameriera, che prima era al bancone, venendo verso di me e sedendosi nella sedia davanti a me.
“Cosa?”, chiesi senza nemmeno rendermene conto.
“Ho detto: non ho scritto il mio numero, mi dispiace”, ripeté di nuovo indicandomi il conto e ticchettando con le unghie sul tavolo. Rise ancora e poi continuò. “Quindi è inutile che controlli”.
“Non stavo cercando il tuo numero, ero sovrappensiero…”.
“Oh già, come lo eri prima mentre guardavi il telefono e nello stesso tempo origliavi la mia conversazione”. Merda. Beccato in pieno.
Scoppiò a ridere e poi mi fissò per un po’. Sorrideva, quindi non era così tanto arrabbiata…
“Che c’è?”, chiesi disturbato da tutto quel fissare.
“Niente… è che ti ho già visto da qualche parte”, mi studiò. “Boh… ma dimmi, perché ci stavi spiando? Conosci Veronica?”.
“Chi? La ragazza rossa? No, non credo di averla mai vita”, risposi cercando di capire dove volesse andare a parare.
“Oh.. allora mi spieghi perché diavolo ci stavi ascoltando? Non avevi di meglio da fare?”, chiese ancora.
“Sinceramente?”, domandai e lei annuì curiosa. “Non ne ho idea. Si vede che non avevo esattamente di meglio da fare”.
E lei scoppiò a ridere, come se avessi fatto la battuta migliore del mondo. “Sei simpatico…”.
“Tomo. Tomo Milicevic”, mi presentai mentre la vedevo sgranare gli occhi, come tutti gli americani a cui dicevo il mio nome.
“Vicky. Vicky Bosanko”, mi rispose offrendomi la mano. “Da dove vieni… Tomo?”.
“Sarajevo. Mi sono trasferito quando ero piccolo con la mia famiglia e prima vivevo nel Michigan”, le risposi creando sul suo viso un’espressione molto interessata.
“Wow… mai vista Sarajevo, deve essere stupenda!”, immaginò mentre vedevo i suoi occhi perdersi in una città creata dal suo cervello.
“Lo è”, commentai semplicemente.
“Hai detto che prima vivevi nel Michigan. Ora dove abiti? Qui a New Orleans?”, chiese curiosa.
“Los Angeles… faccio parte di una band”, diedi piccole informazioni, ma oltre a questo non le avrei detto nient’altro, e  neppure dovevo se volevamo ancora uscire di casa per il resto della vacanza.
“Wow… voglio dire: forte!”, ridacchiò guardandosi poi l’orologio sul polso, dove un po’ più in basso, in penna, c’era scritto Casa Veronica, cena. Forse era un promemoria sulla pelle per quello che aveva promesso alla rossa. “Merda devo andare!”.
“Bè, non ti voglio far licenziare in tronco, quindi… ci vediamo”, dissi prendendo il portafoglio e passandole i soldi della consumazione.
“Chiamami”, disse soltanto mentre si alzava e lasciava la sedia vuota. Mi alzai per andarmene fuori ma qualcosa mi colpì, esattamente nel punto in cui era venuta a parlarmi. Sulla sedia c’era appoggiato un foglio con il nome del bar e la scritta Nice to meet you con un numero di telefono sotto di esso.
Sorrisi, presi il foglio e uscii dal bar. Chiamo o non chiamo?, mi chiesi.
 
“Ci divertiremo dai!”, cercarono di convincermi i ragazzi quella sera mentre io pensavo a come avrei potuto spedirli a quella festa senza di me.
“Ragazzi…”, cercai di giustificarmi, ma la mano di Jared fu sul mio braccio e, con una forza che non avrei mai immaginato, cominciò a tirarmi su di peso.
“Ragazzi un cazzo, muovi il tuo fottuto culo e vieni con noi!”, mi ordinò facendo ridere Matt e Shannon. Mi guardò in attesa di una risposta e, alzandomi da solo, sbuffai.
“Ok, ok, verrò con voi!”, annuii facendoli esultare. Che idioti…
“Bene, ora fila a cambiarti”, mi rimproverò Jared ridendo.
“Sì, come desideri… mamma”, lo presi in giro mentre lui mi faceva il medio, con un sorriso sul volto.
Spostandomi da loro andai in bagno, prendendo dei vestiti decenti. Mi feci una doccia veloce, sistemai i capelli e poi cominciai a vestirmi. Niente di eccezionale: pantaloni, maglietta e giacca di pelle.
Il mio stile era più o meno basato su quegli indumenti.
“Ok, ora siamo tutti pronti”, disse Matt con i suoi jeans e la sua camicia nero cenere. I corti capelli biondi erano tutti spettinati come sempre.
“Già, direi che possiamo andare. La domanda è: dove?”, sorrise Shannon, anche lui in jeans ma con una maglietta bianca e rossa.
“Calmi, fidatevi del vostro Jared, è tutto sotto controllo. Seguitemi”, disse il fratello piccolo mentre Shannon alzava gli occhi al cielo, pregando. Jared aveva dei pantaloni neri con una camicia bianca, fintamente sporcata di nero, e poi aveva anche i suoi occhiali scuri. Cosa gli servissero in piena notte era un mistero, ma ormai sapevo che ben presto avrebbe passato quel vizio a tutti quanti.
Uscimmo dall’hotel e prendemmo un taxi. Jared disse l’indirizzo e poi si mise comodo, parlando con suo fratello di qualche vecchio ricordo.
Matt stava giocherellando con il suo telefono come al solito, facendo un po’ l’associale, così mi misi a parlare con lui.
“Allora Matt, come va?”.
“Oh… bene, Tomo, perché?”, chiese lui mettendo di fretta il cellulare in tasca. Qualcosa non quadrava…
“Niente, sei lì tutto muto, mi sembra solo un po’ strano”, mi giustificai.
Lui alzò le spalle e non disse più nulla, toccando con la mano il telefono in tasca, che aveva preso a vibrare. Lasciai perdere e mi rimisi al mio posto, mentre lui controllava il messaggio.
Dopo qualche minuto Jared fermò l’autista e gli indicò una discoteca sulla destra. L’uomo annuì, cercò di parcheggiare e ci lasciò scendere davanti all’entrata.
“Amici miei… via al divertimento!”, disse sorridendo ed entrando nella discoteca, inghiottito dal buio e dalla musica che dava alla testa.
Guardai Shannon e lui alzò le spalle, così entrammo entrambi, seguiti da Matt.
Tutti si stavano divertendo, bevendo, chiacchierando ai tavoli intorno alla pista da ballo. Al centro di quella c’erano tantissimi ragazzi e ragazze  ballavano anche con bicchieri in mano e la faccia sull’ubriaco andante.
Ma una persona mi colpì in pieno petto.
I capelli corti e marroni legati in un piccolo raccolto ad opera d’arte, il collo, le scapole e le spalle intrise di brillantini rossi e arancioni, orecchini da cui pendevano fili leggeri azzurri, cremisi e gialli.
Il vestito, a vederlo da dietro, era una cascata di stoffa a balze: la prima azzurra, la seconda giallastra, la terza arancione, la quarta rossastra e la quinta, che poi copriva anche il busto e definiva il vestito, rosso sangue.
Si voltò, facevano una piroetta, e fu come se il fuoco del suo vestito prendesse vita. Era tutto così, anche davanti, tranne la fascia del seno, che teneva su la stoffa, tutta rossa.
“Oh… Tomo! Tomo, giusto?”, mi notò venendo verso di me con i suoi alti tacchi rossi.
“Ehm… sì sì, Tomo”, balbettai vedendo il suo viso truccato a meraviglia. “Vicky, giusto?”.
“Giustissimo”, ridacchiò per poi incupirsi di un poco. “Come mai qui?”.
“I ragazzi hanno deciso di uscire”, dissi senza rivelare chi fossero i ragazzi.
“Non mi hai chiamata”, commentò alzando le sopracciglia. Questo voleva dire che le importava?
“Forse sapevo che ti avrei trovato qui… ragazza in fiamme”, continuai indicandole il suo vestito.
Scoppiò a ridere. “Tacchi e vestito… non è il mio genere, fidati. Ma l’ho fatto per la mia migliore amica: mi è venuta a trovare dopo tanto tempo e quindi ho dovuto stare alle sue regole”.
“Mi sembra giusto”, sorrisi io, vedendo una ragazza dai capelli rossi, raccolti in una treccia lunga fin sotto il seno, con un abito corto blu elettrico e dei tacchi dello stesso colore, avvicinarsi a noi.
“Parli del diavolo…”, cominciò Vicky.
“E spunta Veronica”, sorrise la nuova arrivata. “Lui è il tuo nuovo amico?”.
“Sì, lui è Tomo Milicevic”, arrossì Vicky mentre stringevo la mano alla sua amica, sorridente e con due occhi verdi da farti sognare.
Ogni volta che vedevo quegli occhi non ero più capace di ragionare, e i suoi capelli erano una cascata di sangue che ti entrava nel cuore. E’ come se la vedessi ancora accanto a me…
“Di dove sei Veronica?”, chiesi io, preso dai discorsi del solito Jared depresso.
“Italia… ma mi sono trasferita qualche anno da a Bossier City, dove ho incontrato questa pazza. Ora vivo a New York, con l’altra mia migliore amica”, mi rispose lei sorridendo.
E quel suo accento italiano… mi faceva così ridere a volte! Mamma con lei faceva le sfide a chi cucinava la pizza migliore…
“Che bello…”, commentai io, preso da due desideri contrastanti: nascondere a Jared la presenza di una sua ex così importante o lasciar perdere.
“Ora devo andare, Vic. Ci vediamo appena finisci qui, ok?”, disse Veronica ammiccando all’amica, che diventò rossa quanto il suo vestito.
“Lasciala perdere: ha il cervello fuso per un amore finito male”, ridacchiò.
Non avrei mai voluto che finisse. Cristo, Tomo, perché l’ho fatto? Perché?!...
“Tomo!”, sentii la voce di Jared che mi chiamava dal bancone. Merda…
“Quello è Jared Leto?”, chiese sottovoce Vicky.
“Sì…”, cercai di dire valutando la sua espressione. Si voltò verso l’amica e poi riprese il discorso con me.
“Portalo più lontano possibile da qui. La nostra uscita finisce ora, Tomo”, dichiarò alzandosi ancora un po’ sui tacchi e dandomi un baco sulla guancia. “Ma spero che mi chiamerai la prossima volta”.
“Stanne certa, ragazza in fiamme”, sorrisi lasciando che andasse dalla sua amica, per poi dirigermi verso Jared.
Ci misi un po’, ma poi lo convinsi ad uscire da quella discoteca. Non capiva cosa andasse storto, ma dopo qualche meglio girare un po’, non credi? o non mi piace la musica qui oppure anche credo di aver visto un posto migliore decise di farmi contento e andare via.
Però ebbi sfortuna.
“Tomo… mi sa che ho le visioni”, commentò mettendosi una mano sulla fronte, come se la testa pesasse di più a causa dell’alcool. “Ho visto Ronnie”.
 
“E così vi siete conosciuti a New Orleans”, dissi guardando i miei zii.
“Già, piccolo frutto di una pazza coppia”, commentò zia Vicky mentre vedeva la foto che avevo scelto, continuando l’interessante gioco che aveva inventato mia madre.
“Ehi!”, urlarono i miei entrando in casa con Sandy in braccio. Erano andati dal veterinario per farla vedere ma a quanto pare stava benissimo. Quella vecchia gattaccia aveva la pelle dura!
“Scusatemi dolcezze, non volevamo offendere nessuno”, si scusò Tomo ridendo mentre Sandy si strusciava contro i suoi polpacci.
“Parla per te!”, rise zia Vicky , beccandosi una cuscinata da mia madre, con un piccolo cuscino del divano che avevamo in salotto. “Ok, ok, chiedo venia!”.
Sorridemmo tutti, mentre mia madre riguardò la foto che avevo deciso. “New Orleans… che ricordi”.
“Già... ti avevo vista ma ancora non ti potevo parlare”, disse tristemente mio padre.
“L’importante è che alla fine ci siamo ritrovati”, sorrise mia madre girandosi e dando un bacio a mio padre. Non sarebbero mai cambiati quei due.
 

...
Note dell'autrice:
Bè... il titolo è ovviamente preso da  "The Hunger Games"... Cinna ha fatto da stilista pure a Vicky a quanto pare :D
Mi sono sempre piaciuti quei due e mi è piaciuto un sacco scrivere di quando si sono  conosciuti. Bè, spero che sia piaciuto anche a voi (ho usato troppe volte il verbo 'piacere' questa cosa non va bene). 
Bè, se ci sono errori scusatemi ma sono malata ed è già tanto che ho aggiornato. "I'll do it for the kids... for the fans!" (The Rev insegna *-*) 
Anyway, ci vediamo la prossima settimana con il terzo, fatemi sapere cosa ne pensate, anche se vi fa schifo :D
Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 3
*** Andrea, Rea... It's just me ***


Ciao genteeeeeeeeeeeeeeee! Sono tornata, sono già stufa della scuola... voi?
Va be, dai. Rilassiamoci un attimo con un nuovo ricordo.
Anche stavolta non è difficile trovare la sua collocazione nella storia originale, ma è un bel POV che mi piaceva scrivere da quella volta.
Spero piaccia anche a voi :)

 




Chapter 3. Andrea, Rea…it’s just me






 
Andrea era seduta sulla sabbia, nel solito pezzo di terra nella spiaggia di Los Angeles. Mamma e la zia  ci andavano sempre molto spesso perché ricordava loro tante cose.
In più il mare, la spiaggia e l’orizzonte sono sempre stati la loro passione e non passava un fine settimana senza aver programmato qualche uscita tutti insieme verso quelle onde.
Aveva gli occhi chiusi, mentre io mandavo un messaggio Mandy, la mia ragazza, mentre lei stava zitta.
“Da quando zia Andy è così taciturna?”, ridacchiai quando inviai il messaggio.
“Da quando mio nipote si fissa sullo schermo del suo telefono per aspettare il messaggio della sua dolce metà e non fa caso a sua zia”, mi prese in giro come facevamo sempre. Noi non somigliavamo per niente ad una famiglia, con adulti da rispettare e adolescenti arrabbiati. Eravamo tutti amici, veri amici.
“Questo non è vero!”, mi difesi ridendo, ma quando mi fece notare che la mia mano era stretta a pugno sul mio telefono ci rinunciai e abbassai lo sguardo.
“E’ importante?”, chiese avvicinandosi a me, con i suoi occhi che stavano invecchiando ma ancora pienissimi di energia e il suo sorriso comunque luminoso.
“Credo… voglio dire non lo so, penso di sì”, dissi guardando il nuovo messaggio. Ehy Jem, domani devo uscire con Denise ma keep calm baby, la sera se vuoi sono tutta tua… giocatina alla play?
Ecco cosa mi piaceva di Mandy. Prima di tutto era amica di Denise, la nuova ragazza di Liam, il che voleva dire nessun dramma esistenziale da ‘i tuoi amici sono più importanti di me’ o viceversa. In secondo luogo era una fanatica di videogiochi peggio di un maschiaccio e passava ora a battere zio Shannon. Ovviamente la adoravano tutti e c’era poco da dire se non che era un bene.
“E’ un brava ragazza… soprattutto quando mette al tappeto tuo zio!”, lo prese in giro come al solito.
“Oh, tanto poi ci sei tu che finisci il lavoro…”, buttai lì facendole sgranare gli occhi e facendola scoppiare a ridere. Dopo un secondo capii la mia stessa battuta di doppio senso e mi misi una mano in faccia.
“Sei uguale a tuo padre”, mi disse sorridendo.
“Già… ma che fortuna!”, ridacchiai.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui ricominciammo a farci gli affaracci nostri: io messaggiavo e lei stava a sentire il vento.
“Senza di tuoi genitori penso che Leslie non sarebbe mai nata…”, commentò ad un tratto, ottenendo il mio interesse.
“Addirittura?”, chiesi.
“Oh sì… sia io che tuo zio eravamo molto testardi e non ci piaceva mettere in mostra i nostri sentimenti”, mi raccontò.
“Zia?”.
“Sì?”, chiese stupita.
“Togli l’imperfetto. Lo fate anche ora!”, l’ammonii. Lei scoppiò a ridere e mi chiese se volevo sentire la storia. Accettai, tanto non avevo di meglio da fare.
“Era una serata importante, Jeremy. Perché tutto cominciò la sera in cui tuo padre compì trent’anni”, disse mentre io immaginavo mio padre a quell’età. Non doveva essere tanto diverso dal presente, visto che non accennava ad invecchiare, anche se sapevo che usava qualcosa.
Sarebbe stato davvero innaturale se fosse rimasto così per sempre… lui, mamma e gli zii dovevano avere qualcosa che li facesse ringiovanire. Per forza.
“Ma non fu quella la notte che cambiò il nostro rapporto. No, quello fu la scintilla”, mi disse, con gli occhi persi nei ricordi. “Il fuoco si accese la notte degli Mtv Movie Awards di dieci anni dopo…”.
 
Avevo perso. Ma alla fine che importava?
Sapevo che lei avrebbe vinto: era più brava di me, aveva fatto molti più film, era sulla cresta dell’onda. Era giusto così e non mi lamentavo.
Avevo altri problemi per la testa. Così tanti che mi ero alzata e senza dire nulla a nessuno mi ero alzata ed ero scappata via.
Ma qualcuno mi aveva seguita.
E quel qualcuno era la persona con cui avrei preferito non parlare mai in questo momento.
Shannon.
“Rea! Rea fermati ti prego!”, mi chiamò appena usciti entrambi dalla sala. Accelerai il passo, non stava chiamando me.
“Rea! Ti prego fermati: non credi che dovremmo parlare? Andy!”, mi urlò e mi fermai di scatto.
“Con chi vuoi parlare: con Andy o con… Rea?”, chiesi vedendomelo a due millimetri di distanza.
“Cosa intendi dire…?”.
“Non sai nemmeno come chiamarmi”, dissi sprezzante  riprendendo la marcia. Non sapevo dove andare così cercai la prima uscita, evitando il red carpet. Dovevo sentire il vento, dovevo  capire che stava succedendo.
“Ti prego! No, senti… Rea!”, mi prese il braccio appena  uscimmo e il vento estivo ma notturno mi colpì in pieno in una ventata di fresco. La mia mente si fece un po’ più lucida.
“Shannon, lasciami!”, urlai mentre lui mi teneva stretta, evitando di scappare. Ma mi tremavano le gambe, nascoste dal rosso vestito, e non sarei mai riuscita a seminarlo.
“Dimmi perché l’hai fatto. Perché mentirmi? Perché darmi un nome falso quella notte?... perché scappare?”, mi chiese guardandomi negli occhi. Quegli occhi che da parte mia si stavano riempiendo di acqua salata. I suoi, invece, erano quasi disperati, bisognosi di una risposta attesa da tempo.
La meritava, quella risposta, ma io non ero in grado di dargliela.
“Non lo so, Shannon, non lo so! Ero in crisi, credevo di non rivederti più…”.
“Ma sapevi che ero io! Tu mi avevi riconosciuto, eri a conoscenza che il giorno dopo ti avrei rivisto, o quello dopo ancora. Perché non dirmi la verità?”, mi disse.
“Perché era uno stupido bacio in una stupida festa a chilometri e chilometri da casa mia! Che potevo dirti: o sì, mi piaci davvero tanto, ma sai com’è, io abito a Francoforte… che ne dici di una relazione a distanza?. No, Shannon, non potevo”, mi giustificai.
“Avremmo risolto in un altro modo… o tanto meno non darmi l’idea incoerente di aver visto un angelo che nessuno aveva notato. Sai quante volte mi sono scervellato per capire chi eri? Quanto mi sono informato per capire se tu esistevi davvero?”, mi disse mollandomi di colpo e stringendo le mani a pugno.
“No…”.
“No, esatto. Mi hai lasciato con la tua idea stampata in testa, senza che potessi evitarlo, Rea!”, mi accusò.
“Io non sono Rea, Shannon! Smettila di chiamarmi così!”, scoppiai mentre le lacrime scendevano giù.
Lo continuai a fissare, cercando di trovare qualcosa di cui non ero nemmeno sicura io stessa.
Che cosa volevo da Shannon?
No, la domanda che mi frullava per la testa era solo una: che cosa vuole lui da me?!
“Tu… io ho passato notti a sognare quel bacio… io… tu…”, balbettò lasciandomi confusa.
“Chi sono io, Shannon?”, lo esortai mentre si avvicinava sempre di più. Le sue mani si aprirono e vidi il suo volto finire sempre più vicino al mio, sempre di più.
“Tu… tu.. tu sei…”, balbettò. Mi guardò confuso, mentre io ero già ovviamente abbastanza scocciata, e poi sorrise. “Non mi importa con che nome vuoi che ti chiami, io voglio te”.
Detto questo, senza lasciarmi parlare, mi occupò le labbra, come la sera di dieci anni prima. Calde, morbide, piene labbra sulle mie, che dicevano solo rispondi.
Alzai le mani, rispondendo al bacio d’istinto, e toccai per pochi secondi i suoi capelli scuri. Ma poi arrivò quel sussurro.
“Rea…”, disse per poi cercando di baciarmi di nuovo.
Riprendendo tutte le mie facoltà mentali, più o meno, cercai di spintonarlo via. Ci riuscii, magicamente, ma solo perché lui era abbastanza scioccato.
“Io non sono Rea, smettila!”, cominciai ad urlare. Provò ad avvicinarsi, ma gli tirai uno schiaffo sulla guancia, per poi scappare via. Che mi era successo?!
“Ti prego…”, cercò di dire.
“Non toccarmi! Cazzo, non toccarmi”, urlai aprendo la porta e rientrando nel palazzo, non notando Ronnie e Jared sugli scalini della scala di fronte a me o le urla degli invitati che festeggiavano gli ultimi premi della serata, prima di dedicarsi all’afterparty.
 
“Che bambina!”, disse mia madre che era arrivata e aveva sentito la storia.
“Oh, ciao Ronnie!”, disse zia Andy senza il minimo entusiasmo mentre mamma scuoteva la testa. “La tua mancanza si è sentita così tanto oggi che non vedevamo l’ora che tu arrivassi!”.
“Grazie tesoro!”, stette al gioco mentre la zia sospirava.
“Quindi che successe poi?”, le esortai a raccontare io, dopo che si furono abbracciate e rimasero un po’ sulla spiaggia come loro solito.
“Hai creato una pettegola, non un ragazzo”, mi insultò Andy guardandomi male.
“E’ pur sempre figlio di suo padre”, commentò mia madre ridacchiando.
“Che DivaH!”, ridettero insieme senza che ne capissi il motivo. Molte volte mio padre veniva soprannominato con quell’aggettivo ma non aveva capito il perché. Certo, a volte aveva degli atteggiamenti leggermente egocentrici, ma l’età avanzava e di certo non era più così ossessionato da sé come prima.
Non avrei mai voluto conoscerlo a quei tempi, allora!
“Continuiamo o no?”, chiesi facendo ricadere l’attenzione su di me e sul presente. Bene, si voltarono entrambe.
“Okay, diciamo che dopo io e tuo padre siamo riusciti a calmare le acque tra i due”, cominciò mia madre. “Però poi abbandonai Andy davanti alla sala, andando alla ricerca di tuo padre che aveva abbandonato Shannon non so dove. Li ritrovai all’afterparty…”.
“Era arrivato in sala qualche minuto, o forse meno, dopo di me. In realtà non volevo vederlo: dopo una sfuriata del genere non sapevo cosa aspettarmi. Sapevo solo che volevo Shannon in una maniera che non avevo mai creduto possibile…”.
 
“Andy!”, mi chiamò finalmente con il mio nome, trascinandomi ai confini della sala, al buio, in modo da non disturbare. “Mi dispiace… è solo che era troppo presto… voglio dire ho capito tutto così in fretta che alla fine non ho capito niente”.
Lo guardai strano. “Cosa?”.
“Hai capito cosa voglio dire, dai!”, sorrise impacciato. “Ti ho chiamata Andy, giusto?”.
“E’ il mio nome”, lo corressi come la solita maestrina che ero.
“No, il tuo nome è Andrea”, ribatté lui, convinto delle sue teorie. “Tu non sei né Andy né Rea… sei entrambe. Andy è solo la realtà del sogno che era per me Rea”.
“Quindi cosa sono io? Come Andrea, intendo?”, chiesi un po’ confusa ma affascinata dai suoi ragionamenti.
“Tu sei il mio sogno diventato realtà”, sussurrò avvicinandosi per la seconda volta in mezz’ora. “E il tuo sogno qual è?”.
“In questo preciso momento?”.
“Mm-mm”, mugugnò come per annuire.
“Credo che il mio sogno sia capire cosa sto provando in questo esatto istante… e perché”, confessai, alzando però la mano nella sua direzione, trovando il suo braccio da afferrare. “Ma penso che si avvererà presto”.
“Lo penso anche io”, disse eliminando qualunque distanza presente sul pianeta e baciandomi di nuovo.
 
“Il problema è che la qui presente mascalzona ha proibito a me di stare con tuo padre per quasi un mese o più, mentre lei…”, l’accusò mia madre arrabbiata. Stava facendo finta, ma sapevo che in verità un po’ c’era rimasta male. In fondo sì, ma molto molto molto molto moltissimo in fondo.
“E’ stata un’idea di Jared, quella! E poi scusa, Shannon non mi aveva fatto mica del male. Jared se l’era cercata”, si difese Andy cercando di non sembrare così perversa. Ma la storia non era ancora finita…
“Sì, certo… tutte scuse, bella!”, si lamentò ancora mia madre.
“Mi lasci finire la storia? Stavamo davvero bene senza di te”, le rinfacciò senza sembrare credibile mia zia.
“Vai avanti, va!”, sbuffò la rossa. “Ma pensa te questa…”.
 
Baciare Shannon non era qualcosa di normale.
Per niente.
Era come se il tuo cervello decidesse di punto in bianco di farsi una vacanza alle Maldive e lasciarti sola nel bel mezzo di una tempesta ormonale che ti vuole obbligare a prenderlo e trascinarlo nel letto.
Ok, forse detta così sembra da pervertiti, ma  lui aveva quello strano potere di darti alla testa e non ragionare più.
Le sue labbra erano ambrosia sulla mia bocca e sembrava davvero dolce come i grechi la credevano. Il cibo degli dei… Shannon era un dio.
La prima volta che l’avevo baciato, dieci anni prima all’incirca, alla festa di suo fratello, era stato un bacio diverso. Era confuso, forse preso da qualche strana voglia di fare pazzie, ma pur sempre… sconosciuto.
Sebbene io sapessi perfettamente chi lui fosse, lui non aveva la ben che minima idea di chi fossi io e questo l’aveva frenato.
Non sentiva quello che sentiva ora.
Non sentivo quello che sentivo ora.
Prima ero totalmente spaventata, confusa, con una voglia di staccarmi e scappare, credendo tutto uno sbaglio.
Ora ero decisa, sapevo ciò che volevo e sapevo che non ero l’unica.
“Dobbiamo andare”, sussurrò a fatica staccandosi un attimo da me, per poi sorridere e sciogliermi definitivamente ciò che era rimasto del mio cervello.
“Cosa?”.
“Sta finendo la serata, si stanno alzando dalle sedie”, mi disse indicando le varie celebrità muoversi per alzarsi e uscire dalla sala.
Mi allontanai da lui di scatto, cercando Solon tra quelle ombre scure, che man mano si facevano più lineari grazie alle luci soffuse che cominciavano a svanire.
In un attimo la sala s’illuminò completamente e a quel punto Solon era tra me e Shannon, salvandoci da qualunque dubbio.
“Si va a festeggiare?”, chiese Solon, facendoci segno di seguirlo. Uscimmo dalla sala e, insieme a tutti gli altri, ci dirigemmo verso l’afterparty tanto atteso da tutti.
In lontananza notai Kristen Stewart, che dava il suo premio alla sua guardia del corpo e si avvicinava a quello che tutti immaginavano fosse il suo ragazzo. Lui le cinse i fianchi e seguirono la folla.
I giornali qualche volta fanno centro, allora.
Tornai a fissare Shannon, che si guardava in giro e di tanto in tanto salutava qualche musicista venuto lì per passare una serata, o per accompagnare qualche attore.
Alla fine, quando fummo vicini alla sala della festa, Solon si girò verso di noi e fece passare tutti gli altri avanti. Ci guardava impassibile, mentre noi cercavamo di capire cosa volesse combinare.
Ci lasciò lì finchè tutti non furono entrati e dietro di noi rimase solo il silenzio.
“Solon, ora ci dici cos’hai?”, chiese Shannon, prendendo l’occasione di stare soli per afferrarmi la mano e stringendola. Le mie guancie, sebbene truccate, diventarono più rosine del solito.
“Per questo”, indicò proprio le mani. “Sono contento che vi siate messi insieme e qui dentro potrete anche dirlo a tutti. Ma superato quella linea”, disse puntando il dito indice verso quello che, al di là del muro, doveva essere il red carpet, pieno zeppo ancora di fotografi, “E’ meglio se per ora rimaniate Shannon Leto e Andy Mercia, musicista e attrice, amici conosciuti per mezzo di amici. Ok?”.
“Per me sta bene”, cominciai io, capendo cosa voleva dire il manager della mia migliore amica.
“Anche per me; penso che è meglio prolungare la cosa”, confermò anche Shannon. Poi mi guardò un attimo, cercando forse una conferma, così annuii. Lui sorrise e si voltò ancora verso Solon.
“Bene… allora direi che è tempo di festeggiare davvero!”, disse facendoci entrare.
Tomo ci si piantò davanti all’improvviso, ricordandomi che esisteva anche lui, e ci abbracciò come se già sapesse tutto. Ehm… giusto, avevamo ancora le mani intrecciate.
“Venite, lì c’è un tavolo vuoto e ho voglia di bere un po’”, disse mentre Shannon lo seguiva a ruota, eccitato, e io e Solon facemmo lo stesso, tanto per non rimanere soli.
“Sono contento che tutto vada bene”, mi sorrise Solon abbracciandomi le spalle.
“Anche io”, risi poggiando un attimo la testa sul suo bracco che mi circondava, come segno di ringraziamento.
Arrivati al tavolo, però, mi staccai da lui e mi sedetti vicino a Shannon, che mi prese la mano e mi abbracciò nello stesso modo di Solon, solo con più tenerezza.
 

....
Note dell'Autrice:
Lo so che non è lunghissimo, ma perdonatemi.Scusatemi se sembro fredda e stronza ma ho appena litigato con i miei. Perchè? Perchè ora che ascolto rock e qualcosa di metal, mi voglio fare il labret e il nostril e ho in programma almeno 6 piccoli tatuaggi sono diventata la cattiva ragazza, rovinata da amiche cattive, che non è tutta  acqua e sapone e che non ha paura di esprimere la sua indipendenza e mandare a fanculo chi ostacola i suoi sogni.
Bè... questo è quanto, non sono dallo psicologo e voi non dovete sorbire me ma leggere il capitolo.
Spero quindi che vi sia piaciuto :)
Ronnie02 (scusatemi ancora)

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Capitolo 4
*** I Will Stay ***


Salve bella gente!! 
Sì, sono di nuovo qui a rompervi le balle perchè è martedì. Martedì sarà, per quest'anno il mio giorno di aggiornamento visto che ho appurato (??) che non ho mai tanti compiti da fare per il mercoledì. Happy?
Sì, va be, andiamo avanti che è meglio xD
Oggi... oggi vediamo una cosa che mi sta particolarmente a cuore. Nella storia originale è durata solo qualche capitolo, sebbene anche alla fine non fosse davvero terminata. Spero che vi piaccia leggere questo capitolo quanto è piaciuto a me scriverlo.
Ora mi dileguo, Buona lettura :)




Chapter 4.  I will stay

 



“Jeremy”, mi chiamò mio padre mentre sistemavo i bagagli. Come sempre, dovevamo ripartire, stavolta alla volta dell’Europa.
Oggi eravamo a New York, la città che mio padre amava più di tutte, forse anche più di Parigi, ma era tempo di partire verso Lisbona, in Portogallo.
“Arrivo”, gli risposi mettendo l’ultima felpa nella valigia e chiudendo la zip velocemente. Poi mi diressi verso di lui, fuori dalla mia porta. Odiavo quando faceva così!
Come al solito aveva preso una piccola suite dove ci stavamo tutti e tre comodi comodi con le proprie stanze e con una piccola saletta. In base ai guadagni famigliari il prezzo da pagare era stato una cavolata, però non mi piaceva fare la parte del divo riccone.
Ora lui stava davanti alla sua valigia, messa sul prezioso divano bianco che costava dieci volte il mio telefono supertecnologico, ma non si muoveva. Continuava a fissare chissà cosa.
“Papà? Papà?!”, lo chiamai avvicinandomi. Lui tirò su la mano e la portò ai capelli, che aveva fatto ricrescere. Se li sistemò e ritornò a fissare il vuoto.
Mi ricordava uno dei suoi film… ‘Mr. Nobody’, forse. Aveva la stessa capigliatura, solo un po’ più marrone evidentemente tinto, e lo stesso sguardo perso.
“Ehm?”, si voltò verso di me, un attimo spaesato dal vedermi lì, con un sopracciglio alzato molto probabilmente. “Oh, ciao tesoro…”.
“Mi hai chiamato, volevi qualcosa?”, chiesi facendo qualche passo verso di lui. Si passò una mano sul collo e poi la fermò sulla gola.
“No… no, in realtà non volevo chiamarti, stavo parlando tra me e me, scusa”, sorrise ancora guardando il suo bagaglio.
“Stai bene?”, chiesi facendolo sorridere ancora di più. Si voltò verso di me e allargò le braccia, muovendo la testa in avanti, come per chiamarmi.
Lo faceva sempre quando ero piccolo per farmi salire in braccio e finire sulle sue spalle. Sorrisi e, pian piano, alzai le spalle e andai da lui. Mi abbracciò stretto per qualche secondo, poi si spostò un attimo e mi fissò bene, come se dovesse analizzarmi. Sorrise ancora e mi scompigliò i capelli, che si erano fatti mossi, come se avessero mischiato il boccoloso di mia madre con il quasi liscio di mio padre.
“Che guardavi per aver avuto quest’attacco di tenerezza acuta?”, lo presi in giro. Lui alzò gli occhi al cielo e mi indicò una calzina minuscola che sbucava dalle sue magliette slargate, tipiche per i concerti.
Era una delle mie piccole calze che mi mettevano quando ero piccolo, molto piccolo. Ricordo quella perché provavo sempre e mordicchiare la stellina disegnata sul lato interno del piede, facendomi anche un gran male. Ma ero piccolo, potevo permettermi certe cavolate!
“La porti sempre dietro?”, chiesi io riprendendola in mano. Lui mosse le mani con me, pauroso quasi che la rompessi.
“Sempre. Tua madre me la regalò quando mi disse che… ecco che…”, si bloccò, rubandomela di mano e fissandola muto. “Quando mi disse che… che era in incinta…”.
“Incinta di me… o di lui?”, chiesi io, ricordando la storia disgraziata del mio fittizio fratello o sorella maggiore, che mia madre aveva sognato prima o dopo la sua morte.
Per i miei genitori era ancora un argomento difficile da affrontare senza piangere.
Quando l’avevo saputo e avevo visto in loro tutta quella tristezza mi era arrabbiato, infuriato, ero andato via da Liam e Astrid per bel paio di ore. Secondo ciò quello che sentivo in quel momento, i miei genitori dovevano dimenticare quel cadavere: c’ero io, quindi che importanza aveva ora? Perché io non potevo bastare a renderli felici?
Però poi, anche con l’aiuto di tutti i Milicevic, avevo capito.
Non ero io il problema. Era normale che i miei genitori soffrissero al suo ricordo. Avrebbero potuto avere due figli, invece c’ero solo io.
Non che non bastassi, non che non mi volessero bene, ma il tempo non era servito a curare quella ferita. O almeno non del tutto. Sarebbe rimasta un po’ di cicatrice per sempre e l’avevo capito.
“A volte vorrei non aver mai preso quella strada”, commentò mio padre, svegliandomi dai miei pensieri. Mi resi conto che non era passato molto, ma in quel lasso di tempo entrambi eravamo stati zitti.
“Vi sta guardando da lassù ed è fiero di voi”, dissi battendo sulla sua spalla la mia mano, cercando di dargli conforto.
Io. A mio padre.
“Sono sicuro che si sarebbe divertito molto con una peste di fratello minore come te, ragazzo mio”, disse guardandomi. I suoi occhi blu erano velati di trasparente, ma non cadde nessuna goccia.
“Almeno ho ancora mio padre che mi fa da fratello maggiore”, dissi sorridendo e facendolo scoppiare a ridere.
“Mi ricordo quando indossavi queste calzine… eri davvero una peste malefica!”, mi insultò scherzando.
“Oh, bè grazie!”, mi finsi offeso.
“Guarda che è un complimento”, mi informò fiero e sorridente. “Da quando tu sei diventato una peste, hai cominciato a far onore alla famiglia Leto. Un nuovo discendente con le giuste qualità”.
Scoppiai a ridere io stavolta, riportando su il suo morale. “Ero davvero così monello da piccolo?”.
“Sì… ma sei rimasto sempre la nostra gioia più grande”, finì, facendomi come al solito sentire un po’ male. Loro erano troppo, troppo, troppo, davvero troppo dei genitori perfetti.
E io? Io ero davvero il figlio che avevano desiderato? O avrebbero preferito lui?
Riguardai quel sorriso, quell’orgoglio nei suoi occhi, e capii. Io andavo bene, ero un Leto e questo bastava. Ero davvero la loro gioia più grande.
 
Ronnie era in piedi, davanti alla culla del piccolo Jeremy Kurt. Non era una novità che la trovassi, nel bel mezzo della notte, davanti a quel piccolo insieme di cellule con due grandi occhi verdi.
Mi chiesi se il bambino stesse piangendo, sebbene non sentivo i suoi soliti piagnistei, oppure se Ronnie l’aveva già calmato e stava per venire a dormire. O peggio, fosse andata da lui per guardarlo dormire e sfogarsi un po’ con le sue di lacrime.
“Dorme?”, chiesi entrando nella stanzetta del bambino.
In teoria era la sua, ma visto che ovviamente non la usavamo mai lei si era ufficialmente trasferita nella mia camera poco prima della nascita e insieme ai ragazzi l’avevamo preparata all’arrivo. Mura tinte di un azzurro chiaro, culla, fasciatoio, giochi regalati anche da zio Tomo e zia Vicky…
“Sì”, rispose svegliando me dai miei pensieri. “E’ più bravo di quanto pensassi, non si sveglia quasi mai urlando”.
Ora che la sentivo meglio notai quel piccolo blocco nella voce. Aveva pianto, Jeremy non si era mai svegliato.
“Ancora non l’hai lasciato andare?”, chiesi cercando di essere meno duro possibile. Ma doveva andare avanti, non poteva piangere in eterno. Adesso avevamo Jeremy, tutto era andato bene, nessun incidente o malattia, era nato perfetto e da quattro mesi a questa parte era stato facile fare il genitore, sebbene in mezzo a pannolini e alzatacce.
“Io… Jay, come faccio?”, disse girandosi e appoggiandosi alla culla. I suoi occhi erano rossi, mentre contornavano lo smeraldo, e le gote di solito pallide ora erano arrossate.
“Pensando a Jeremy!”, le risposi abbracciandola, mentre lei chiudeva i pugni contro la mia maglietta del pigiama, come suo solito quando piangeva. Sentii la stoffa bagnarsi e la strinsi più forte. “Pensando a lui e facendolo sentire il principe del tuo cuore”.
“Sono una madre terribile… non lo guardo mai, sono persa nel mio passato, sbaglio anche le cose più semplici!”, si disperò non alzando il viso dalla stoffa.
“Questo non è vero!”, le dissi dondolandola un po’, provando a calmarla. I respiri si fece più lenti e i singhiozzi diminuirono mentre ci muovevamo e  le ripetevo quella frase. “Tu sei perfetta, solo devi andare avanti. Pensa a quegli occhi, belli e sinceri come i tuoi”.
“Tanto è inutile…”, mi fermò, alzando lo sguardo. “Lo so che avresti preferivo che avesse preso i tuoi occhi e i miei capelli, te lo leggo in faccia”.
Scoppiai a ridere e annuii, per farla contenta. “E sì, guarda, mi hai proprio beccato”.
Lei alzò il sopracciglio, tornando la Ronnie di sempre. “E…?”.
“E quindi visto che Jeremy non ha ne gli occhi azzurri ne i capelli rossi… credo che ci tocchi riprovare di nuovo e vedere se siamo fortunati”, le risposi prendendola di peso tra le braccia.
“Oddio!”, gridò per poi mettersi la mano sulla bocca, per non svegliare il bambino. “Non fare l’idiota, Jared! Non possiamo!”.
“Non possiamo? E perché?”, dissi uscendo dalla stanza e chiudendo bene la porta. “Non ci contare che io non faccia più l’amore con te solo perché c’è un marmocchio in casa… è un Leto, se non ha già capito come va il mondo, lo farà presto”.
“Porco… e idiota!”, mi insultò mentre mi tirava i pugni sulle spalle, provando a farmi male. “Dai, mettimi giù”.
“Non subito”, sorrisi trascinandomi verso la camera. Avanzai verso il lettone, ma mi fermai sul muro di fianco. La feci scivolare da me tanto bastava da aver la schiena appoggiata su di esso e poi le sistemai le gambe attorno ai miei fianchi.
“Mi sei mancato”, disse poggiando la testa sulla mia spalla, facendomi il solletico sul collo con i boccoli.
“Anche tu, piccolo demonietto”, le baciai la pelle sotto il collo, vicino al bordo del pigiama che aveva. Le sbottonai i primi bottoni che aveva sopra e poi le mie mani lavorarono sull’orlo basso, stuzzicandola sulla pancia.
“Smettila!”, cominciò a ridacchiare mentre si dimenava piano contro di me, provocandomi.
“Oh non credo che facendo così mi faciliti il lavoro di lasciarti andare, sai?”, la rimproverai facendola diventare rossa come i suoi capelli, imbarazzata.
“Vedo che siamo diventati anche simpatici!”, mi prese in giro tornando biancastra e cominciando a lanciarmi occhiate. Da dove era, praticamente seduta contro il muro, mi spinse in avanti mettendo le mani sul mio petto.
Prendendomi di sorpresa riuscì a liberarsi e cadere di sedere per terra, facendomi scoppiare a ridere. Lei intanto si era però già alzata e cercava di sfuggirmi. Come quella notte, dopo i Mars300, cominciammo a rincorrerci scherzando e ridendo.
E come quella notte facemmo cadere qualcosa, un libro che Ronnie aveva sul comodino a quanto sembrava.
“Sei un disastro!”, mi urlò contro andando a riprenderlo. Mossa sbagliata, dolcezza.
Mentre era accucciata per tirarlo su, l’abbracciai, cercando di tirarla su. La presi per le gambe e la schiena, lasciando libere le braccia, che mi mise al collo.
“Tranquillo, magari stavolta potrei non strangolarti!”, mi minacciò facendomi ridere.
Con lei in braccio, leggera come sempre, andai verso il letto, finalmente, e la poggiai sulle coperte. Sorrideva, come sempre in questo periodo con Jeremy tranne in quei pochi istanti in cui ricordava lui, e mi guardava come se fossi un regalo tanto atteso a Natale.
Mosse le mani verso i suoi capelli e li lasciò scivolare come serpenti circolari sulle coperte. Era una sfida: sapeva quanto i suoi capelli mi eccitassero, sebbene non fosse del tutto normale come cosa.
“Mai provocare un Leto”, le ricordai avvicinandomi sempre di più, lento ma deciso, come un leone a caccia.
“Le devo ricordare, signor Leto, che ogni volta che prova a fregarmi non ci riesce. Anzi, vince sempre la sottoscritta”, mi rinfacciò con uno sguardo lussurioso.
“Ah sì?”, chiesi io.
“Oh sì!”.
In un attimo mi prese la maglietta e mi spinse con forza sul letto, baciandomi mentre cadevo, provando però a non pesarle completamente addosso, sopra di lei.
Le ripresi l’orlo della maglietta e con facilità mi aiutò a toglierla e lo stesso fece lei con la mia. Ma appena la stoffa toccò terra, qualcosa cambiò.
“Stavolta, visto che non sei convinto, non ti lasciò vincere”, disse ridacchiando, mentre mi sbatteva con la schiena contro le coperte e mettendosi a cavalcioni su di me.
Oh no…
“Non ci provare”, la minacciai provando a spostarmi, ma il suo continuo muoversi mi faceva andare in pappa quel poco che rimaneva del mio cervello in quei momenti.
“E invece ci provo eccome”, mi sussurrò all’orecchio, strusciandosi lentamente mentre mi toccava i capelli con gesti lenti, quasi fosse un massaggio. Merda…
Deciso ormai a dargliela vinta – non avevo scampo, in primo luogo, e mi piaceva anche, in secondo luogo – giocherellai con l’elastico dei suoi pantaloni.
S’irrigidì un momento, prendendomi poi di scatto le mani ma mollandole subito dopo, non sapendo che fare. La cosa non mi sorprese: entrambi eravamo completamente andati in tilt.
Così, avendo via libera, cominciai ad abbassarli, fino a toglierli del tutto e aiutare lei a fare la stessa cosa con i miei. Però ancora un problema avevamo: l’intimo.
Dio mio, ma perché esistevano tutti questi stupidissimi indumenti!
Mentre lei non faceva che baciarmi il collo e stuzzicarmi le orecchie con la lingua, muovendosi e provocando a me altra dose di eccitazione mista a pazzie, cominciai a far fuori quella stoffa.
Presi le sue mutandine di lato, feci girare il lembo di cotone attorno al dito e tirai di scatto. Strap!
“Merda, erano carine quelle, Jared!”, si lamentò sulla mia spalla, mentre io ridacchiavo e buttavo i residui per terra. Per fortuna non le avevo fatto male, anche se sull’altro lato del suo inguine c’era una piccola striscetta rosacea.
“Manca ancora un pezzo”, mi corressi da solo. Avevo dimenticato il reggiseno, me disgraziato!
Mi occupai quindi della parte superiore, salendo con le mani, toccandole la schiena, sentendo il profumo alla ciliegia delle sue labbra che continuavano a farmi uscire di testa.
Arrivato a destinazione, facendole un po’ di solletico, le sganciai il reggiseno con un click e lei si tolse in fretta le spalline. Si mosse con il bacino, ricordandomi che lei ora era completamente nuda mentre a me mancava un pezzo… e che pezzo!
Con un sorrisino l’accontentai e mi tolsi i boxer bianchi che avevo indosso. “Però non mi piace più questa cosa”, dissi spingendola e cambiando di nuovo posizione.
Mentre affondavo tra le sue labbra, per poi baciarle il collo come lei aveva fatto a me, entrai completamente dentro di lei, lasciandola senza fiato per qualche secondo. Sentii i piedi scivolare sulle lenzuola, perdendo un po’ di sensibilità, ora tutta concentrata in un unico posto.
Cominciai a spingere e a baciarla, lasciando che il solito piacere ammazza cervello ci pervadesse ogni singola cellula o atomo presente nel nostro corpo.
“Non… fermarti”, farfugliò appena cominciai a rallentare, sebbene io stesso non avessi nessuna intenzione di bloccarmi.
“Ti piace, eh?”, scherzai facendole aprire di scatto gli occhi e graffiandomi le scapole.
“Smettila… di fare… l’idiota”, mi fece la linguaccia prima che io tornassi a baciare quelle labbra piene e calde.
Le sue mani passarono dalla mia schiena, il loro posto preferito, ai miei capelli, il loro secondo posto preferito. Tornarono al loro piccolo massaggio che mi avevano fatto all’inizio, mentre i nostri petti si scontravano dolcemente, mentre prendevamo fiato più velocemente possibile.
Alla fine, però, stanco come non mai, mi dovetti fermare, e con un tonfo mi sdraiai accanto a lei. aveva una strana espressione di felicità, mista a piacere. Ma in un attimo la stanchezza prese posto e con lei un velo di tristezza.
“Non te ne andare, Jared… non te ne andare ancora, non te ne andare come lui, non te ne andare più”, mi pregò mentre io l’abbracciavo. Non pianse, non ne aveva la forza.
“No, Ronnie, non me ne vado… mai più”, sussurrai nel suo orecchio come una ninna nanna per addormentarla. “Resterò. Resterò per sempre con te, Ronnie. Resterò”.
 


...
Note dell'Autrice:
scusatemi se questi capitoli sono corti, ma sono solo ricordi. Dall'8° saranno più lunghi, GIURO!
comunque... piaciuto?
Aparte l'ultima parte che... coff coff... si commenta da sola (hahahaha), vi è piaciuta la parte del bambino?
Spero di sì.
Riguardo al prossimo capitolo vi dico che ritroveremo Mamma Leto :D Contente?
ci vediamo martedì prossimo ;)
Ronnie02
 

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Capitolo 5
*** Mothers ***


Hey gente! scusatemi bellezze ma questo Martedì sono stata impegnatissima e (non è un caso che aggiorni il martedì perchè non ho nulla da fare) questi due giorni pure. Questo è il mio primo momento libero (in realtà dovrei studiare.... MA OKAY! :D)
L'altra volta avete recensito solo in due.... non vi è piaciuto? Intanto ringrazio quelle due, vi adoro come sempre e lo sapete (adoro tutti, ma va bene!)
Questo... questo è un capitolo particolare, quindi non dico nulla e vi faccio leggere. 
Buona lettura :)




Chapter 5. Mothers






 
“Dannato Leto!”, urlai arrabbiata, riprendendo i miei fogli che aveva fatto cadere per terra.
“Donna abbi pietà di me!”, mi pregò l’uomo avvicinandosi e inginocchiandosi per chiedere perdono.
“No, ho pietà del tuo cervello che si è fottuto e della tua ragazza, non che mia migliore amica, che ti dovrà sopportare in eterno”, gli risposi facendogli alzare gli occhi al cielo.
“E questo chi l’ha detto?”, chiese Andy scherzando e scioccando Shannon. “Io non ho mica promesso amore eterno a questo qui: potrei mollarlo in qualsiasi momento”.
“Non oseresti”, la minacciò lui, prendendola di peso dallo sdraio da cui ci guardava e buttandosi con lei nella piscina. Sentii un urlo mozzato di Andy, fermato dall’acqua, ed entrambi sparirono dalla mia vista.
Alleluia, un attimo di pace…
Sì, solo un attimo però.
Dopo un secondo da quando sistemai i miei fogli e presi in mano la matita sentii le urla di quei due cominciare a nascere e infastidirmi parecchio.
L’importante era però che non mi schizzassero, o in quel caso non avrebbero avuto vita lunga. Veronica McLogan è un dolcetto, ma solo quando vuole, sia ben chiaro.
“La vuoi finire?! Dai Shan!”, ridacchiava Andy facendomi sbagliare il disegno. Merda…
Accartocciai il foglio e di scatto mi alzai in piedi e lo lanciai verso di loro, beccando quasi con un tocco da maestro la testa di Shannon, che si voltò verso di me.
“Adesso la paghi anche tu, dolcezza”, disse l’animale deviando l’acqua che Andy gli stava lanciando e venendo verso di me. Shannon era peggio di Jared in queste situazioni: diventava davvero un cacciatore e, in casi come questi, la preda avrebbe dovuto darsela a gambe in fretta.
“Shan… Shan ti prego, non puoi farlo! Shan!”, lo pregai guardandolo uscire dall’acqua atleticamente e procedere verso di me.
“Mi hai tirato un foglio in testa”, si difese.
“Mi davate fastidio”, mi scusai.
“Ma mi hai tirato un foglio in testa”, ribatté di nuovo.
“Oh ma insomma, Shan, tu continui a distrarmi! Di questo passo arriverò nuda al mio matrimonio, invece che in grande stile!”, cercai di calmarlo.
“Non sarebbe una brutta idea, sai? Ma ora meriti una piccola punizione”, mi comunicò vedendomi indietreggiare.
“Ma dai, Shan, non fare l’idiota”, scherzò Andy, appollaiata sul bordo della piscina.
“Devo ricordarti che tu non sei mai riuscito ad acchiapparmi”, dissi cercando di scappare.
“Dio, Ronnie! La prima e unica volta è stato più di dieci anni fa, eri giovane e con un peso in meno”, mi rispose preparandosi all’attacco.
“Appunto per questo ‘peso’ dovresti evitare di toccarla”, sentii dire da quella voce conosciuta appena arrivata.
Sulla soglia del giardino eccolo lì: Jared.
Era appena tornato a quando pareva!
“Hey bro! Come stai?”, disse Shannon liberandomi dalle sue idee e andando ad abbracciare il fratello.
Andy uscì dall’acqua e si scrollò un po’, stile cagnolino, per poi venire contro di me. Cercò di stringermi, probabilmente per asciugarsi, ma capendo le sue intenzioni scappai anche da lei e corsi verso Jared.
“Eccola qui”, disse staccandosi dal fratello e abbracciandomi al volo, mentre Andy pian piano ci raggiunse e si appiccicò al suo ragazzo. “E tu, piccolo di papà? Stiamo crescendo bene?”, chiese facendomi scoppiare sia a ridere che a piangere. Si abbassò e giocherellò con la stoffa del mio vestito sulla pancia.
“Smettila”, ridacchiai tirandolo su e stringendomi a lui. “Allora com’è andata?”.
“Bene, hanno deciso di produrre anche il quarto album ma ne parleremo bene poi”, ci informò. La loro casa discografica era seriamente una rottura!
“Che due coglioni!”. Appunto. “Voglio dire, fratello, noi abbiamo i nostri tempi”.
“E loro devono avere i loro guadagni, Shan” , gli rispose Andy dandogli un bacio sulla guancia per calmarlo.
“Vaffanculo a loro e i loro soldi”.
“Ringrazia che vi producano ancora e basta, dai”, la finii io, guardando Jared che annuiva.
“Ronnie ha ragione. Fregatene Shan”, lo calmò lui, per poi far tornare un mega sorrisone sul suo viso. “This Is Four, guys!”.
“Spero solo che non facciate un altro tour di due anni lasciandomi sola a Natale!”, rispose una voce stanca, ma sempre allegra.
Solo una persona poteva avere quella voce, un persona che adesso stava dietro di me, sulla soglia della porta, guardandomi amorevole: Constance.
“Constance!”, esultai guardandola sorridere. Mi staccai da Jared e andai ad abbracciarla, mentre gli altri la salutarono allegramente.
“Oh, la mia Ronnie!”, mi disse stretta a me. “Mi ricordo ancora quando vi ho presentati… e ora sei incinta! Sono così felice, tesoro”.
“Spero vada tutto bene, stavolta”, sussurrai sperando che non mi sentisse. Ma era Constance, era ovvio che mi sentisse.
“Oh, sta tranquilla. Vedrai che andrà tutto bene, okay?”, disse guardandomi bene negli occhi e poi andando a salutare gli altri. Voleva dire solo una cosa quello sguardo: ci parliamo dopo.
“Ronnie?”, mi chiamò intanto Vicky, dalla mia camera, dove lei e Tomo stavano giocando ai bravi genitori con i loro due pazzi pargoli.
“Vuoi una mano?”, urlai, mentre Constance li salutava con un sorrisone.
“Mi faresti un gran favore! Astrid non smette di stare ferma!”, mi disse mentre indicava il dentro della stanza, dove un secondo dopo sentii Tomo chiamare la figlia anche con il secondo nome, intimandole di stare ferma. “Non ce la faccio più”.
“Arrivo”, sorrisi, mettendo una mano sulla spalla di Constance, come per salutarla, e facendomi strada verso la mia camera.
La nostra casa, mia e di Jared ormai, era enorme, troppo grande per due persone. E anche con l’arrivo di questo figlio sarebbe rimasta immensa per i miei gusti.
Ma dovendo contenere il Laboratorio - quell’enorme mondo al piano terra, davanti alla piscina, composto da almeno cinque stanze enormi, nelle quali registravamo, componevamo e, per la maggior parte del tempo, cazzeggiavamo cercando ispirazione - era necessaria questa grandezza.
Uscii dal Lab e mi diressi verso la parte abitabile dell’edificio, correndo verso le scale e salendo al piano di sopra, dove c’era principalmente la zona notte.
“Non ti ho chiesto di scappare, potevi venire con calma”, ridacchiò Vicky appena aprii la porta della camera da dove mi aveva chiamata, con un po’ di fiatone.
Liam era tra le braccia del suo papà, che mi spostò di lato per passare e dirigersi verso il bagno, contenente il fasciatoio per cambiarlo, mentre Astrid gattonava per la stanza, facendo impazzire Vicky.
“Scusalo, era di fretta”, sorrise indicando lo spazio lasciato da suo marito.
“Non ti preoccupare”, risi prendendo un giochino da terra e guardandolo attentamente. Era uno di quei giochi per bambini, che facevano rumore.
“Questo la stresserà ancora di più, non facendola dormire”, dissi lanciandolo piano dentro il cestino dei giochi. Per un attimo Astrid lo guardò ammaliata, ma poi ritornò alle sue fantasie, gattonando in giro. I capelli scuri di sua madre erano scompigliati e gli occhi stanchi erano contornati da occhiaie. “Vatti a fare una dormita, e dillo anche a Tomo appena cambia Liam. Ci penso io”.
“Appena finisce andremo insieme. Ce la fai a stare con tutti e due?”, mi chiese mettendosi una mano sulla fronte, provando a sistemare i capelli.
“Anni fa badavo a molti più bambini”, commentai cercando tra il cesto qualcosa che avrebbe potuto calmare la piccola Milicevic.
“Giusto. Ronnie la baby-sitter”, mi prese in giro mentre controllava i piagnistei di Liam farsi più lievi man mano che Tomo lo cambiava. “E’ un bravo papà, vero?”.
“Sei fortunata. Certi padri nemmeno sanno cos’è un pannolino”, scoppiai a ridere, mentre Astrid si metteva seduta e muoveva la testa, presa da una sua melodia. “Una volta ricordo che un bambino era caduto e suo padre non sapeva nemmeno cosa fosse una garza. Mi chiamò solo per curarlo da una ferita di qualche millimetro”.
Vicky rise con lei, per poi poggiare la schiena contro un mobile e chiudere un attimo gli occhi, stanca.
“Vieni qui, te”, chiamai la bimba attirando la sua attenzione con il peluche più morbido che avevo trovato. Un orso chitarrista: un regalo di Andy.
Astrid mi guardò curiosa, mentre mi avvicinavo a lei con il giocattolo e mi mettevo seduta al suo fianco. “Ti va  di giocare un po’ con me?”, domandai mentre lei sorrideva e cercava di afferrare l’orsetto.
Glielo passai, ma le presi le manine, come per ballare. Lei mi fissò e cominciai a cantare una piccola ninna nanna, mentre vedevo Tomo, con in braccio Liam, sulla porta fissare Vicky mezza addormentata.
 
Canta nel bosco mia amata
Corri tra le foglie
Alberi grandi pronti per te
Sali e arriva al ciel
 
Astrid mi guardò stupita, così le lasciai le mani libere e lei abbracciò l’orsetto, mentre Tomo liberava Liam dalle sue braccia. Venne anche lui vicino a me e cominciò a litigare con sua sorella per il pupazzo. Intanto che la mia voce invadeva la stanza cercai un peluche anche per lui: un piccolo scoiattolo morbido.
Lo prese, sorridente come non mai, e se lo strinse addosso, poggiando gli occhi su di me.
 
Senti le nuvole correre
Guarda le forme cambiare
Apri gli occhi dorati
Salta e tocca il ciel
 
Presi Astrid tra le braccia, con il suo piccolo orsacchiotto, e la cullai un po’, sorridendo anche a suo fratello. Appena gli occhi della piccola si chiusero, mi avvicinai alla sua piccola culla azzurra e la poggiai sulle morbide piccole lenzuola.
Si mosse piano, per il cambiamento, ma appena sentii il morbido del peluche, tornò a dormire.
 
Inspira il profumo dei fiori
Tocca i loro colori
Belle farfalle guarderai
Seguile nel loro ciel
 
Quando tornai dal fratello, lui tenne stretto lo scoiattolo sotto un braccino, mentre l’altro lo protese verso di me. Gli sorrisi e mi accucciai davanti a lui, cantando sorridente.
Lui mi carezzò la guancia, curioso, per poi farsi cullare dalla mia voce e farsi prendere in braccio, senza dire una parola.
Feci la stessa cosa che avevo fatto con Astrid, cullandolo e poi poggiandolo nella sua culla verdina, sentendo il suo respiro regolare.
 
Ascolta la voce del vento
Custodiscila nel tuo cuore
Ama chi  ti protegge
E vola con lui nel ciel
 
Finii la mia vecchia ninna nanna e guardai i piccoli Milicevic dormire beati. Poi mi voltai e sorrisi alla vista dei loro genitori.
Vicky era profondamente addormentata e Tomo la stava per imitare, stanco morto anche lui. Così continuai con i vocalizzi, riprendendo la melodia della ninna nanna.
Andai verso l’armadio, presi un lenzuolo leggero e coprii entrambi, con un sorriso, e lasciai che il sonno si impossessasse anche di loro, come i loro figli.
“Sei fantastica”, sentii la voce di una donna, dietro di me. “Se fossi nata prima ti avrei chiamato per aiutarmi con i miei figli”.
“Ma cosa ci avrei guadagnato poi ad essere più vecchia di Jared?”, sussurrai per non svegliarli. Andai verso Constance e chiusi la porta dietro di me. Sogni d’oro, famiglia Milicevic.
“In effetti avrei perso una stupenda nuora”, sorrise cominciando a camminare verso il piano terra. “Sai, mi chiedevo quando saresti venuta a trovarmi dopo l’incidente”.
“Sapevo che dovevo rimettere a posto i pezzi, prima”.
“Ma ancora non hai finito il puzzle, non è così?”, chiese sentendo il mio tono. “Anzi, non sarà mai come prima. Ci sarà sempre un pezzo monco, in quel gioco”.
“Avrei dovuto stare più attenta e non romperlo”, continuai a parlare stando a quella metafora.
“Non è colpa tua se un bimbo cattivo ha rovinato il tuo giocattolo”, la comprese lei, guardandomi materna. Mi sciolsi… ed era una cosa che facevo solo con lei.
“Non riuscivo a parlarne con me stessa… avevo paura che se ne avessi parlato seriamente con qualcuno sarei potuta impazzire. Nemmeno Jared, che però è riuscito a capirmi, mi ha mai parlato direttamente”, dissi scendendo le scale, con Constance al mio fianco. “Ma ovviamente sei stata la prima persona a cui ora ne sto parlando. Sei una delle poche su cui mi fido ciecamente”.
“Perché sono la madre di Jared?”.
“No, perché sei anche la mia”, mi fermai su uno scalino e lei fece lo stesso.
“Non potrò mai prendere il posto di tua madre, Ronnie. Per quanto lei ti abbia fatto del male, rimane la donna che ti ha fatto nascere, anche se non lo vorresti”, mi disse. “Un giorno, quando lei sarà in punto di morte, sono certa che in te ci sarà una luce di perdono”.
“Prima dovrà prendersi le sue responsabilità”.
“A volte dobbiamo essere noi a prenderci le responsabilità degli altri”, continuò. “Guarda il padre dei ragazzi: mi ha lasciata sola e io non gli ho più parlato. Ma poi si ammalò gravemente, e Bob mi chiese di andarlo a trovare. Per quanto sua moglie lo amasse, voleva vedere anche me.
“Non si accusò di avermi lasciata sola e io non glielo ricordai. Lo guardai negli occhi e gli tenni la mano, fino a che non chiuse gli occhi accanto a me, sua moglie e i suoi secondi figli”.
“Non avresti dovuto”, commentai, sicura delle mie scelte.
“Lo amavo… e lo odiavo anche. Ma era necessario per non avere più rimpianti. Ora la mia anima è in pace, come la sua. E come quella di mio marito, a cui sono sempre stata accanto. L’ho amato sempre, e non rimpiango mai di averlo sposato”.
“Allora perché tornare dal padre di Jared e Shannon? Non capisco cosa ti ha spinta a perdonarlo! Ti ha lasciata sola, con due bambini, senza un lavoro! Ti ha miseramente abbandonata!”, mi arrabbiai, ma sapevo che lei aveva già la risposta.
“Perché dovevo farlo. Non esiste un perché, Ronnie. Tu sei appassionata di filosofia, una materia che si basa sulla realtà, non suoi miti. Bè, stavolta devi andare oltre per capirmi. È qualcosa simile alla fede”.
“Ho smesso di credere in Dio… soprattuto dopo tutto questo”.
“Invece dovresti. E sai perché?”, chiese. Scossi la testa e aspettai la sua risposa sicura. “Perché sei viva”.
“Ma lui no”.
“Oh per piacere, Ronnie! Anni fa si poteva anche morire di parto e di certo non è una punizione di Dio! Le cose accadono e nessuno può fermarle. Lui ci crea, Ronnie… ma non vuole decidere per noi”, mi spiegò. “La colpa di questo aborto non è Dio… ma quell’uomo che guidava. È andata così, ha deciso lui per tutti voi…”.
“Sì… hai ragione”, mi sentii sconfitta, sotto la verità delle sue stesse parole. “Ma non tornerò da mia madre. Non le darò questa soddisfazione”.
“Mi fido di te”, disse accelerando il passo, mentre io rimanevo ferma. E questo che voleva dire?
 
 

...
Note dell'autrice:
E con questo Constance cosa vuole dire a Ronnie?! Chissà.... 
Piaciuto il capitolo? La ninna nanna?
Quella l'ho scritta io, niente di speciale, ma mi piaceva inserirla. In più i Milicevicssssss tutti addormentati mi piaceva troppo come idea. Che teneri!
Va be, come al solito questo capitolo è piccolino, ma vedrete che man mano si allungheranno :)
Detto questo, alla prossima!
Baci, Ronnie02

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Capitolo 6
*** Daddy? Daddy? Daddy! ***


Salve gente. Mi dispiace prima di tutto di avervi abbandonato ma questa settimana è stata un vero inferno tra scuola e altri drammi. Mi dispiace un sacco, vi giuro che proverò ad essere puntuale, ma fino al 31 ho mille verifiche e ho la testa che scoppia.
Per ora eccovi il capitolo. Bye (ci vediamo sotto)
Buona lettura


 


Chapter 6. Daddy? Daddy? Daddy!





                                                                                                         
“Ehy papà”, lo chiamai cercando di attirare la sua attenzione.
“Jeremy, che succede?”, mi chiese tutto nervoso, quasi come se dovesse affrontare una condanna a morte.
“Niente, volevo solo dirti buona fortuna”, mi irritai io. Era sempre così intrattabile! Porca miseria, non lo stavo puntando con la pistola.
“Scusalo tesoro, ma ora papà è sclerato”, rise mia madre arrivando dal camerino in cui stava con le sue dolci amichette. “Lascialo stare per un po’”.
“Non sono sclerato, donna!”, ribatté lui, per poi respirare e guardarci entrambi. “Ok, forse sì. Scusatemi ma è una grande occasione!”.
“Lo so, papà, ma devi stare calmo o canterai di merda”, dissi io incrociando le braccia. Mio padre scoppiò a ridere e mia madre mi strinse.
“Che caratterino…”, sussurrò mio padre. “Grazie! Grazie davvero della dritta!”.
“Da qualcuno ha pur preso!”, lo prese in giro mia madre.
“Finitela di battibeccare voi, mi distraete!”, disse zio Shannon mentre giocava con le sue bacchette, respirando piano.
“E fate piangere Leslie, quindi muti!”, ci ricordo zia Andy, mentre cullava tra le braccia mia cugina, un po’ troppo grande per essere tenuta in quel modo, ma un po’ troppo piccola per camminare in giro per il backstage di un concerto dei Mars.
“Muti? Muti qui dentro?!”, chiese zia Vicky entrando in scena. “Se non te ne sei accorta tra qualche minuti qui ci sarà l’inferno!”.
“Brava tesoro… come apprendi in fretta”, disse dolce zio Tomo.
“Tu muto e suona, o ti scaglio quella belva di Astrid appena sveglia addosso”, lo minacciò zia Vicky.
“Vado”, si sottomise ridendo l’uomo, continuando ad accordare la chitarra.
“O madonna mia”, scherzò mia madre, sospirando.
“L’inferno è già qui, senza nemmeno fare un accordo”, rise mio padre.
“Meno male che almeno adesso Jeremy è cresciuto”, scoppiò a ridere mia madre. “Se no eravamo messi come zia Andy e zio Shan”.
“Wow”, li prese in girò papà.
“Anche se stavi poco con noi”, fece mamma, pensierosa.
“Com’era papà quando ero piccolo?”, chiesi io ad un tratto, mentre tutti si erano ammutoliti, per sentire gli Echelon cantare.
“Un disastro”, convenne zia Andy.
“Fottiti, Andy!”, riprese mio padre.
“Ora ti racconto…”, cominciò mia madre.
 
We were the ki…”.
“Zitto, Jared!”, mi riprese Ronnie mentre stavo riprovando con tutta la band. Ma cazzo! “La devi finire di cantare mentre questo dorme, non ce la faccio più!”.
“Tesoro, ma tra poco cominceremo il tour, se…”.
“Non me ne frega un cazzo del tour. Tu. Non. Suoni. Mentre. Jeremy. Kurt. Leto. Sta. Dormendo. Okay?!”, sillabò mentre arrivava nel Lab, con mio figlio in braccio, che aveva le guancie rosse e gli occhi gonfi di pianto.
Mio figlio…
Quel piccolo fagotto era nato da qualche mese e io ancora faticavo a crederci. Bè, Ronnie era molto più consapevole della cosa, visto che aveva partorito e lo teneva sempre a bada.
A causa del lavoro mi limitavo a prendermi la parte migliore della paternità e magari alzarmi qualche volta di notte per tranquillizzarlo se Ronnie era fuori uso. Ma non accadeva spesso visto che lui era abbastanza bravo e lei era sempre scattante ad ogni suo lamento.
“E dai, Ronnie, come facciamo?”, chiese Shannon mentre salutava Jeremy con le bacchette. Lui smise di singhiozzare e guardò i legnetti, curioso, per qualche secondo.  “Uh, lui diventerò un batterista”.
“Scordatelo. Il sangue del mio sangue suonerà la chitarra”, ribattei io. Tomo cominciò a ridacchiare, lasciando cadere la situazione sul ridicolo, ma mio fratello non si diede per vinto, così fece una piccola rullata.
Jeremy scoppiò in una risatina isterica, muovendo le manine. “Bum, bum bum bum!”.
“Totalmente batterista”.
“Non ci pensare nemmeno”, conclusi io mentre vedevo Ronnie  rimanere in silenzio, aspettando il momento buono per farci la ramanzina.
“Avete finito?”, chiese. Sembrava arrabbiata ma c’era qualcosa che nascondeva. Noi annuimmo. “Bene, Vicky mi aspetta fuori. Visto che siete così in gamba, vi affido il piccolo”.
“Cosa?!”, obbiettai io.
“Tu osa fargli venire anche il più piccolo dei lividi e sei morto!”, mi minacciò prima di uscire dal Laboratorio e andare di sopra. Sentivo i suoi passi mentre Jeremy mi fissava, aspettando qualcosa da fare.
Guardai Shannon e lui scosse le spalle, come per dirmi che non aveva idea di cosa fare, così mi rivolsi a Tomo, che aveva già due piccoli scatenati.
A proposito dei figli scatenati!
“Tomo, amore mio”, arrivò Vicky nel Laboratorio, vestita a puntino, con alle sue spalle Ronnie in un vestitino leggero visto il caldo californiano. Era rimasta bellissima anche dopo la gravidanza, se non di più…
“Che ci fanno qui Astrid e Liam, tesoro?”, chiese Tomo impaurito, togliendosi di dosso la chitarra prima che sua moglie gli affidasse la piccola e consegnasse a mio fratello Liam. Oh oh.
“Be, non è che io posso andare in giro con i passeggini tutte le volte e visto che la babysitter esce con me,  lascio lavorare il papà”, sorrise lei. Ma cos’era, una congiura contro di noi?!
“Cosa? Oh ma dai, dobbiamo provare, giovincelle!”, si lamentò Shannon, sicuro di non rischiare nulla non avendo figli.
“Tu zitto e cura i bambini”, saltò fuori pure Andy, che lo fece tremare di paura. Sì, quella ragazza era l’unica al mondo che faceva rabbrividire Shannon Leto, strano ma vero. “O se no, astinenza per un mese intero”.
“Wo oh, Shanimal ora ti ci voglio”, lo prese in giro Ronnie mettendo un braccio appoggiato al muro mentre mi guardava prendere in braccio Jeremy, che era rimasto seduto sul tavolino con i fogli delle canzoni.
“Finiscila, rossa”.
“Come sei simpatico, nano”, ribatté lei.
“Io non mollo mio figlio in giro”.
“Non è in giro, è con suo padre!”, disse Ronnie spostandosi dal muro, mentre si vedeva dagli occhi che stava per partire la sfuriata.
“Stiamo provando, maledizione! Non mi importa!”, mio fratello si alzò dalla batteria.
“Me ne sbatto!”, continuò Ronnie.
“Bè allora non dovevi sposare un musicista, bellezza. Noi dobbiamo lavorare!”, sbatté le bacchette a terra.
“E lui non doveva accettare di avere un figlio. Non posso sempre fare tutto io, non ne posso più”, urlò Ronnie, mentre Jeremy mi guardava confuso, con gli occhi lucidi. Astrid si ammutolì dai suoi versetti e Liam rimase a sedere sulla batteria, dove Shannon l’aveva posato quando si era alzato.
“Ti rendi conto del duro lavoro che stiamo facendo, porca miseria?”, disse moderando i termini, sapendo che c’erano orecchie troppo giovani in ascolto. “Cavolo sei una cantante, dovresti capirci”.
“Ma sono anche una mamma e mio figlio deve stare anche con suo padre!”, riprese Ronnie.
“Oh ma sentila…”.
“La volete finire?”, urlai mettendo la testa di Jeremy sulla mia spalla e coprendola con una mano, per attutire il suono. Si mosse, singhiozzando, ma dopo qualche secondo si strinse alla mia maglia, con le sue piccole manine, e si tranquillizzò. C’è papà, piccolino. “Porca miseria basta!”.
“Jared…”, continuò Ronnie.
“No, Jared niente”, ripresi a voce bassa. “Dovete finirla voi due! Dio santo, ma dove sono finiti i migliori amici che eravate?! Non vi ricordate al Lago, quando tu hai vinto la sfida e tu hai riso con lui?”, chiesi indicandoli. “Oppure quando tu eri arrabbiata con me e tu mi hai difeso mandandola via quando mi cercava?! E poi? Avete sempre fatto pace, vi ho sempre visti sorridere insieme… dove è finito tutto questo?”.
Shannon sbuffò, mentre Ronnie si lasciò sedere su una sedia, vicino alla finestra che dava alla piscina.
“Voglio solo che questo album sia il massimo”, replicò mio fratello andandole vicino, mentre cullavo Jeremy e le ragazze stavano a guardare. Astrid riprese a verseggiare, mentre Liam scese dalla sedia e andò a giocare con i pantaloni di suo padre. “Ma sarò sempre il tuo amico Shan, combina guai”.
Ronnie alzò lo sguardo sull’ultima frase, per poi sorridere. “Sono una frignona, vero?”.
“No, sei una neomamma”, concluse lui. “Però a volte rompi parecchio, rossa mia”.
Ronnie alzò gli occhi al cielo, e poi rise. “Wow…”.
“Va a riposare, tesoro. Ce ne prendiamo cura noi di questi tre. A loro piace la musica, possiamo provare piano anche con loro per una mezz’oretta”, dissi io passandole Jeremy per farglielo salutare.
“Stai attento a papà, ok?”, lo ammonì stringendoselo forte e baciandoli i pochi capelli nerastri. “Torno presto”.
“Ciao, piccola”, la presi per baciarla. Lei si lasciò trasportare per un po’, ma alla fine, stanca, si staccò e andò con le sue amiche. Vicky e Andy fecero lo stesso.
Così se ne andarono dal Laboratorio e uscirono di casa.
Il silenzio regnò intorno a noi per qualche secondo.
“Daddy?”, chiese Jeremy facendomi voltare verso di lui, seduto sulla sedia che sua madre prima aveva usato. “Daddy? Daddy!”.
E come se la scena si fosse presentata al rallentatore, vidi la manina di Jeremy puntare verso la finestra, Shannon urlare e Tomo scattare verso di me.
Mi colpì la spalla dalla velocità con cui mi superò e appena riuscii a voltarmi, capii la situazione.
Astrid era per terra, in piedi ma aggrappata alla sedia per non cadere, Jeremy era sulla sedia, scioccato e la manina ancora in avanti, Liam… Liam…
“Liam!”, urlò Tomo mentre mi rendevo conto di cosa Jeremy voleva dirmi. Il suo mezzo cugino era sceso dalla batteria e aveva gattonato in giro, mentre Ronnie e Shannon litigavano. Si era spinto troppo in là e forse era scivolato in acqua.
Ma Liam non sapeva ancora nuotare.
Stava cercando di galleggiare, muovendo le mani, ma chissà quanta acqua aveva bevuto nel mentre. Non riusciva a parlare quindi non poteva chiamarci.
Ringraziai Dio che Jeremy ci avesse avvisato e tirai un sospiro di sollievo quando Tomo lo prese in braccio, riportandolo sano nel Laboratorio.
“Liam? Liam!”, si preoccupò suo padre cercando di farlo sputare l’acqua che aveva bevuto per fare in modo che respirasse.
“Da.. daddy”, balbettò dopo qualche secondo infinito in cui già mi preparai a subire un altro periodo di depressione. No, Liam era sano e salvo, stava sputando tutta l’acqua, le labbra erano tornate rosate e non più violacee.
“O piccolo mio”, sussurrò Tomo abbracciandolo forte e prendendolo in braccio per cullarlo un po’. “Non avere paura, c’è qui papà… c’è qui papà”.
Jeremy mi prese il lembo della camicia e così fece Astrid sui pantaloni di Tomo. Shannon prese la bimba e se la portò tra le braccia, lasciandola però muoversi per avvicinarsi al fratello.
I due si toccarono la mano e si guardarono per qualche secondo. Poi la sorella cominciò a muovere le manine felice e Liam sembrò sollevato.
Era così strano… erano gemelli, avevano ovviamente il loro strambo modo di comunicare e vederli era così… stupefacente.
Avevano un annetto e già parlavano fra di loro come se fossero alieni e si capissero solo fra loro.
“Anche Jeremy vuole salutarlo”, mi svegliò Shannon indicandomi mio figlio. I suoi occhi verdi, presi da quella meraviglia di sua madre, guardavano preoccupati Liam e mi ricordava Ronnie mentre mi parlava di quei bambini farfalla di cui mi aveva parlato a Bossier City. Chissà se era riuscita ad aiutarne qualcuno…
“Sì, hai ragione”, dissi prendendo la manina  che aveva messo sulla mia camicia e me lo presi in braccio, coccolandolo sulla schiena e portandolo da suo cugino, anche se non biologico.
“Je…me…”, cercò di dire Liam guardandolo. Ok, aveva un annetto e qualcosa diceva ma ovviamente era troppo piccolo e a quanto pare il nome Jeremy non era facile da pronunciare per i bambini.
Mio figlio fece ciao con la mano e Liam e lui sorrise prendendogli la mano e stringendola per  qualche secondo, come a dire ‘sono vivo, batti il cinque!’.
Jeremy ridacchiò e poi si voltò verso di me, per strangolarmi mettendomi le braccia attorno al collo. risi e lo coccolai un po’, facendogli anche un po’ di solletico per farlo ridere.
“Uh, Astrid va cambiata, secondo me”, disse Shannon storcendo le labbra e posando Astrid sulla sedia. Lei fece il broncio e si preparò a frignare.
Tre… due… uno…
“Arrivo piccina, arriva papà”, la soccorse Tomo mentre lui cominciava ad avere gli occhi lucidi. La prese in braccio, dando Liam a Shannon e andarono di sopra, nel bagno nel quale c’era il fasciatoio. Mio fratello lo prese un po’ un giro, facendo finta di ballare con il più grande di qualche minuto dei due gemelli.
Liam scoppiò a ridere, dimenticando già l’accaduto. Mi ricordai una frase di mia madre quando caddi dalla bici, mentre mi insegnava. ‘Sei caduto? Succede amore, ma non devi fermarti! Se hai un sogno dei seguirlo, anche se nel mezzo ci sono ostacoli. La paura  di cadere è il tuo nuovo ostacolo ma se vuoi andare in bici devi superarla! Quindi salta in sella, su’.
“Credo che sia ora di fargli una lezione di nuoto”, commentai sistemandomi meglio Jeremy tra le braccia, mentre cominciava a dormicchiare.
“Sai che Tomo ci ucciderà”, disse lui guardando il piccolo ridacchiare e capendo cosa mi passava per la testa.
“E allora  lascerai che la sua paura per l’acqua continui a torturarlo da qui all’eternità?”, chiesi io sentendo Jeremy farsi pesante sulle mie spalle. Aveva appoggiato la testa, addormentato, e il ciuccio era caduto per terra. “Lo porto su nella culla, tu pensaci”.
Stando attento a mio figlio, mi abbassai e presi il suo ciuccio, per poi salutare Liam e uscire dal Laboratorio. Salii le scale, accarezzando la testolina nera di Jeremy cercando di non svegliarlo e presto mi ritrovai davanti alle nostre camere. Dalla porta in mezzo, nel frattempo uscì Tomo con Astrid, che giocava con i suoi lunghi capelli. Almeno lei non li tirava come tutte le sue coetanee…
“So che vuoi fare”, commentò mentre io entravo nella stanza dove c’era  la culla di Jeremy. Mi voltai e lo fissai.
“Ora oltre a dio degli Echelon sei passato ad essere un supereroe che sente qualsiasi cosa?”, gli dissi sorridendo e staccando le braccia di mio figlio dal mio collo, per posarlo tra le coperte morbide della sua culla. Lui mugugnò qualcosa, ma poi si stiracchiò comodo e cominciò a dormire. Più lo guardavo più mi rendeva felice.
“Jared… non credo che dovremmo farlo nuotare”, continuò il discorso Tomo.
“Dio, non voglio mica buttarlo in acqua e insegnargli come si nuota a stile o rana o delfino. Deve solo capire che l’acqua non è un mostro di cui avere paura”, dissi prendendo Astrid dalle sue braccia e muovendola un po’, sentendo la sua risata.
Jeremy si mosse un poco, infastidito forse dalle voci, così presi quell’aggeggio che mi permetteva di stargli dietro anche da lontano, lo misi nei pantaloni e cominciai a camminare.
Uscimmo dalla camera, chiusi la porta senza far rumore e mi diressi verso il Laboratorio, sempre con Astrid in braccio.
“Credi davvero che dovremmo farlo?”, si preoccupò Tomo, guardando sua figlia. Mi fermai, le sistemai bene la frangia marrone e poi la consegnai a suo padre, il quale comincio a coccolarla mentre lei gli abbracciava il collo e poggiava la testa sulla sua spalla.
“Tomo, sei il miglior padre che esista sulla terra, stai calmo. Non gli succederà nulla”, gli sorrisi e notai Shannon venire verso di noi, tutto bagnato.
Liam era sulle sue spalle, con delle gocce sui capelli, che infradiciavano ancora di più mio fratello. Tomo li guardò scioccato, ma subito Liam cominciò a giocherellare sulla schiena di Shannon, chiedendogli di giocare ancora.
“Mi serve aiuto. Questo è un pesce, non un nanetto!”, ridacchiò mentre gli andammo incontro. Astrid, vedendo il gemello, si arrampicò fino ad arrivare comoda sulla schiena di suo padre e insieme si buttarono in acqua, attenti ai passeggeri.
Io li guardai per un po’, ma poi, lasciandoli giocare, salii di nuovo nella camera dove mio figlio stava dormendo. Aprii lentamente la porta, sbirciando dentro e vedendo che era ancora steso nella culla, a pancia in su, con una mano sullo stomaco.
Tipico mio.
La testa era appoggiata di lato, le labbra socchiuse e l’altra mano a pugno era di fianco al faccino pallido.
Tipico di sua madre.
Mi avvicinai ancora di più a lui, per poi sedermi di fianco alla culla e fissarlo dormire. Quante volte avevo trovato ispirazione in quel bimbo? Anche quando ancora non era nato mi aveva aiutato con migliaia di testi e quando avevo visto il suo sorriso la prima volta la prima cosa che mi venne in mente fu Angels.
 
I stop breathing when I look at you
My heart stop beating when I hear you
You are my life
You make me feel full
You are my angels
You are my angels
 
Gliela cantai, come avevo fatto la prima volta che l’avevo preso in braccio dopo averla scritta. Avevo però deciso con gli altri di non pubblicarla. Era una cosa mia. Mia e della mia famiglia, la mia più piccola famiglia.
Sentii il suo respiro farsi più affannato e le sue manine muoversi. In pochi istanti i suoi occhi verdi si aprirono, impauriti e scioccati.
“C’è qui papà, tesoro”, lo presi in braccio prima che scoppiasse a piangere. Una cosa aveva preso da sua madre: essere vittime di troppi incubi.
Ma almeno lui non avrebbe mai avuto gli stessi di Ronnie.
“Da… daddy”, si ancorò al mio collo.
Lo coccolai sulla schiena e lo cullai un po’, sentendolo vicino a me, il mio piccolo angelo. “C’è qui papà, Jeremy. C’è qui papà”.
E non me ne sarei mai andato.


....
Note dell'Autrice:
scusate se ci sono errori ma non ho la testa per ricontrollare tutto. Mi dispiace ancora per il ritardo. Spero vi sia piaciuto.
Da una stanca Ronnie, alla prossima!
Bacioni

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Capitolo 7
*** The Link ***


*arriva sussurrando e in punta di piedi*
Lettori: TI ABBIAMO VISTA STRONZA!
Ronnie: OK OK, NON SPARATE E NESSUNO SI FARA' MALE, VI PREGO!

...ok sono scema, lasciatemi perdere. Dopo un pomeriggio a studiare di proteinee DNA mi si sta fondendo il poco resto di cervello che mi è rimasto. Ok. prima di tutto SCUSATEMI, ma seriamente le vacanze mi fanno male. Sono arrivata sabato a ricordarmi di non aver aggiornato e quindi ho lasciato la settimana buca. Quanto sono scema? *voi: TAAAAAAAANTO. io: LO SO -.-"* 

(vedete che sono scema?) Ok,ok basta, decisamente sto andando fuori tema. Vi lascio leggere che è meglio, visto che sono pure in ritardo *mannaggia a me!*. Ci vediamo giù




Chapter 7. The link


 

 
Jared era dietro di me, con quei capelli tinti, il sorriso sghembo che stavolta non rasserenava per nulla.
Davanti a me c’era il vuoto più completo, forse un burrone.
Ero al centro di una foresta, scura, piena di alberi che con i loro movimenti sussurravano ogni tipo di maledizione. Mossi un piede in avanti e sentii dei sassolini rumoreggiare lungo il pendio.
Non avevo altra scelta.
Mi voltai e lo guardai avanzare, lentamente, come un predatore. E la sua preda era una sola, in più ora era pure intrappolata. Che caccia facile era stata quella!
“Lo sai che non mi puoi scappare, moretta”, sussurrò ridacchiando, ma lo sentii forte e chiaro. Mosse una mano in avanti, come a provare a strozzarmi, ma cercai di scappare di lato.
Altri sassi, altro burrone. Ero chiusa in una morsa e non sapevo quanto potesse essere profondo quel dirupo.
“Non mi puoi scappare”, ripeté quasi fiero di sé, venendomi incontro ancora una volta.
“Che vuoi da me?”, chiesi facendomi cadere per terra, in ginocchio, provando a distogliere gli occhi da quel blu.
“Non voglio la tua pietà, moretta”, disse ancora una volta. Strinsi le mani a pugno, più forte che mani, tanto che le unghie cominciarono a scavare nella pelle del palmo e a tirare fuori sangue.
“Smettila…”, sussurrai vedendo davanti a me le sue gambe e cominciando ad urlare. “Smettila! Smettila di chiamarmi così, smettila di uccidermi!”.
“Non ti voglio morta”, commentò, impassibile. “Sei tu che mi vuoi qui”.
“Vattene”, dissi seria,alzando lo sguardo. “Vattene via da me”.
“Ne sei davvero sicura?”, mi chiese gagliardo.
“Sì! Devi smetterla di rovinarmi l’esistenza! Devi smetterla! Basta!”, continuai ad urlare.
E poi tutto divenne scuro, gli alberi si ammutolirono e mi ritrovai sdraiata su qualcosa di morbido, con una leggera brezza attorno.
“Basta… basta, ti prego, basta…”, continuai a ripetere, ma calando sempre più d’intensità appena capii dov’ero e chi era veramente con me.
“Ronnie? Ronnie, forza, apri gli occhi”, sentii una voce amica al mio fianco toccarmi la spalla. “Ronnie sono Vicky, sono io. Niente più incubi, okay? Sono qui io”.
Aprii gli occhi e vidi che ero in una camera d’albergo, con la finestra aperta e il sole che illuminava la stanza. Vicky, radiosa e sorridente come sempre, era di fianco a me.
A quel punto ricordai ogni cosa. Ero in vacanza con i Milicevic a Boston, niente Jared, niente burrone, niente di niente. Dovevo stare calma.
“Vicky?”, chiesi alzandomi di scatto dal letto. Era seduta accanto a me, sulla poltrona marrone, intinta alla camera, e mi guardava dolce, cercando di tranquillizzarmi.
“Incubi?”, domandò cercando di non buttarmi di nuovo giù… nel vero burrone però.
“Credo che finirò per conviverci in eterno con quelli”, commentai triste mettendomi una mano in faccia e strizzando gli occhi, svegliandomi del tutto.
“Dai andiamo a fare due passi e dimentichiamo tutto, forza!”, propose con il suo solito sorriso, mentre vedevo Tomo aprire la porta e salutarmi con la sua solita gioia.
Oh, Tomo, Tomo! Tu che tanta pace mi porti ma anche tanta tristezza!
Quando Vicky mi aveva detto chi era davvero il suo nuovo ragazzo ero andata su tutte le furie. Non era possibile, mi sembrava un tradimento.
Ma poi avevo conosciuto lui, l’uomo più dolce e più gentile che abbia mai incontrato. Era perfetto per lei e non importava in quale band suonasse, l’importante era che non invitasse i suoi carissimi amici a casa loro mentre io ero presente.
“Come stai, Ronnie?”, mi chiese, mentre una ciocca nera gli cadde sul viso. Lui e il suo ciuffone!
“Meglio”, dissi sorridendo e calmando entrambi, anche se Vicky sapeva che in fondo non stavo così bene come volevo dimostrare.
“Allora vieni con noi?”, domandò di nuovo, riportandomi al nostro discorso prima dell’arrivo del suo ragazzo.
La guardai e cercai di pensare lucidamente. “Vicky, no… voglio dire oggi volevate girare Boston da soli e non è giusto che dobbiate portare dietro me come se fossi un cagnolino bisognoso”.
“Ronnie tu…”, cercò di sviarmi Tomo.
“No, davvero, posso farcela”, sorrisi, cercando di fargli capire che ero in grado di sopportare un giorno di solitudine. “Starò bene e vedrò di fare qualche bella foto. Voi andate a fare i piccioncini felici”.
“Sei sicura?”, chiese Vicky provando a studiarmi.
“Più che sicura”, le dissi andandola ad abbracciare. Abbraccio mattutino, niente di più sdolcinato. Infatti ridacchiò.
“Okay, okay. Giornata libera per Ronnie. Però, cara mia Cenerentola, a cena devi essere di nuovo in hotel, chiaro?”, mi rispose scherzando.
“Cena? Cenerentola non torna prima di mezzanotte, baby!”, ribattei.
“Tu torna a mezzanotte e ti sorbirai per il resto della vacanza le nostre moine da superinnamorati coccolosi”, mi minacciò. Cavolo, questa era una brutta vendetta!
“Dio mio, ti sto facendo diventare proprio perfida!”, scossi la testa mentre Tomo scoppiava a ridere per le nostre battutine.
“Comunque, Bella Addormentata, c’è la colazione che ci aspetta”, mi disse quando noi due finimmo di battibeccare.
“Credevo di essere Cenerentola, non Bella Addormentata”, gli risposi alzandomi dal letto e andando verso il bagno, per lavarmi e cambiarmi prima di scendere. “Oh, aspettate! Bella Addormentata ha il coprifuoco?”.
“Sì!”, mi dissero insieme ridendo.
“Okay, okay! Calmatevi”, feci l’occhiolino entrando in bagno. Oddio, quanto mi divertivo con quei due!
Addio incubi, voglio vivere questa giornata quindi scappate dalla mia mente!
 
“Grazie mille”, dissi pagando il commesso sorridendo. Il ragazzo, provandoci spudoratamente, ricambiò augurandomi buona giornata a Boston.
Io, forse troppo cattiva, lo ignorai e me ne andai dal negozio. Non si può nemmeno prendere qualche bracciale e una collana che qualcuno ci prova… il mondo è strano!
Misi il pacchettino nella borsa della macchina fotografica e presi in mano la mia arma, pronta ad usarla senza paura. Ok, era solo una fotocamera ma potevo passarci l’esistenza con quell’affare di ultima tecnologia.
Mi trovavo esattamente davanti al famoso ponte di Boston e l’unica cosa che volevo era scattare. Ma la luce in quell’odiosissimo momento faceva schifo e il sole aveva deciso di addormentarsi su una nuvola.
Meglio, sarei rimasta nei paraggi fino al tramonto e lì avrei deciso cosa fare.
Così decisi di sedermi su una panchina e guardare attraverso l’obiettivo. Magari usciva qualcosa di bello anche con le cose più semplici di quella città.
Fiori sui balconi, graminacee vagabonde, raggi di sole presi al punto giusto, formichine nel bel mezzo della strada, Solon che mi fissava stupito…
No, cosa?!
Non era possibile, non ci potevo credere. Riguardai l’obiettivo, zoomando e mettendo bene a fuoco. Era esattamente davanti a me ed era davvero lui.
Solon Bixler mi stava fissando come se fossi un fantasma e nel momento in cui abbassavo la fotocamera sapevo di avere la stessa espressione.
Ovvio che mi avesse riconosciuto anche con gli occhi attaccati a quell’aggeggio. Avevo i capelli tutti scombinati in una mia solita coda alta e saltellavo in giro per fotografare i miei soggetti.
Solo io potevo essere così pazzoide.
Lo vidi riprendersi un poco e camminare verso di me, mentre io mi alzavo e mettevo via, insieme al pacchetto dei bracciali, la macchina fotografica, attenta a non rovinarla.
Gli andai incontro e l’unica cosa che feci fu… andare ad abbracciarlo, anche se in realtà volevo prenderlo davvero a pugni.
Lui quella notte voleva fermarmi…
“Veronica McLogan, ci si rivede”, disse staccandosi mentre lo guardavo bieca. “Ehm… che ho fatto?”.
“Mi hai fermata”.
“Che? Mi sei venuta tu addosso, rossa!”, mi prese in giro chiamandomi con il nomignolo di… di uno dei Leto.
“L’ultima volta”.
“Oh”, capì all’istante e mettendo le mani a mò di preghiera. “Ti prego di perdonarmi, non ero in grado di pensare. E sai una cosa?! Non mi ricordo nulla della serata, solo che tu sei arrivata e poi sei scappata via…”.
“Felice della tua sincerità…”, annuii. L’aveva detto così da evitare la domanda ‘perché l’hai fatto?’ e per ora non avevo voglia di litigare. “E... Santissimo Signore, Solon, quanto tempo!”.
Lui scoppiò a ridere, evidentemente divertito dal cambio di argomento così veloce, e mi abbracciò di nuovo. Non ci vedevano da più di cinque anni e sinceramente faticavo a credere che lo stavo abbracciando.
“Davvero troppo signorina!”, mi disse staccandosi da me e facendomi una radiografia. “Sei ancora più bella di quanto ricordassi, Miss Capelli Rossi”.
“E tu ancora più cretino, Mister Cieco dell’Anno”, gli risposi mentre lui alzava le sopracciglia facendomi scoppiare a ridere.
“Io? Cieco? …o bè ma allora anche quel ragazzo, e quello, e quello ancora, oh anche quello. Tutti ciechi… che però ti sbavano addosso e ora sono verdi d’invidia perché ti sto parlando”, disse sorridendo. Poi salutò qualcuno. “Sì, ciao! Anche tu sei cieco? Bè, smetti di guardarla, la mia amica potrebbe ucciderti”.
Cosa?! Ok, che era questo comportamento da fidanzato geloso?
Alzai il sopracciglio e lui scoppiò a ridere.
“E dai dopo tanto tempo un pomeriggio di cazzate me lo devi, Miss Capelli Rossi!”, ridacchiò abbracciandomi con un braccio.
“Guarda che puoi ancora chiamarmi Ronnie”, lo avvisai capendo che stava facendo di tutto per evitarlo.
“Davvero?”, disse sorridendo. Annuii e lui mi strinse contro di sé, contento di avermi ritrovata. “Bene… ehy, ma che ci fai in giro a fotografare?”.
“Lavoro… storia molto lunga”, spiegai guardando il suo sguardo dilatarsi per lo stupore.
“Ho tempo, sai?”.
“Bene, allora ho voglia di un cappuccino al cioccolato di Starbucks”, risposi indicando la caffetteria al di là della strada. “Su, su, muoviti!”.
“Sempre la solita Ronnie… anche se di solito ero io che guidavo come un pazzoide”.
“Perché, ora non lo fai ora?”, chiesi fingendomi terrorizzata. “Che sei diventato Solon Bixler?!”.
“Smettila di fare la scema, McLogan”, mi fece il solletico, così scattai in aria e lo tenni lontano, con il musone. Due secondi dopo ero di nuovo sotto il suo braccio a ridere, però. “Ed è ovvio che io guidi ancora come un matto, non sarei io se non lo facessi”.
“Oh meno male… eccoci”, dissi entrando nella caffetteria, mentre un odore di caffè mi prendeva l’anima.
“Cappuccino al cioccolato?”.
“Cappuccino al cioccolato”.
 
“E così hai chiuso con i Mars”, commentai. Come se non lo sapessi, mi sgridò il mio cervello. Certo che lo sapevo, ma non potevo sventolarlo ai quattro venti. Lui avrebbe comunque potuto dirlo a…. lui.
“Già, in fondo non faceva molto per me quel casino. Cioè era stupendo suonare con loro, andare in tour… però… però non mi sentivo a mio agio dopo qualche tempo”, mi spiegò.
“Ti capisco…”.
“E tu? Che fine hai fatto?”, mi chiese sorridendo mentre mangiava un muffin al cioccolato grande quanto il palmo della sua mano.
“Niente di che. Sono rimasta a Bossier City fino a qualche anno fa, mentre Andy finiva l’università.
“In realtà ho frequentato dei corsi, ma… insomma non riuscivo a star dietro agli esami e ho lasciato perdere”, raccontai. C’era sempre lui nella mia mentre, non riuscivo nemmeno a prendere in mano un libro, figuriamoci studiarne a bizzeffe!. “Così ho continuato la mia vita senza studiare.
“Andy ha finito la scuola e mi sono trasferita a New York con lei. Intanto anche Vicky, la ragazza che lavorava con me, si era trasferita a New Orleans e poi, dopo aver trovato l’amore della sua vita, credo, è venuta da noi. Abbiamo messo su un negozio di fotografia ed eccoci qui”.
“Wow…”, commentò mentre io sorrisi.
Il discorso sembrava essersi fossilizzato lì, mentre mangiavamo in pace, così cominciai a guardare fuori dalla finestra, tamburellando Long As I Live sul bicchiere che avevo in mano e canticchiando. Il ritmo era assolutamente incompleto, non sapendo suonare uno strumento, ma quella canzone che avevo scritto mi piaceva sul serio.
“Che è?”, mi disse d’un tratto Solon.
“Cosa?!”, mi stupì.
“Quello che stavi… facendo. Che cos’era?”, mi chiese. Uh, beccata in pieno.
“Niente, canticchiavo”, risposi tranquilla. “E’ una canzone che ho scritto anni fa, niente di che…”.
“L’hai scritta tu?”.
“Sì, ma fidati, non è tutta sta gran bellezza!”, mi difesi cercando di non farlo incuriosire troppo.
“Ti ricordo che l’ultima volta che hai scritto un pezzo di una canzone è finito in Year Zero, uno dei tanti pezzi che i fan amano!”, mi prese in giro.
Scoppiai a ridere, cercando però di evitare di ricordare quando e con chi avevo scritto quel pezzo e andai avanti a parlare con Solon. “Non è nulla di speciale, davvero”.
“Cantamela”, mi sorrise.
“No!”, mi lamentai. Non avevo cantato mai le mie canzoni davanti a qualcuno e tantomeno l’averi fatto davanti a lui che avrebbe capito subito a chi mi riferissi.
“E dai, che ti costa, Ronnie? Solo una frase, solo una” mi pregò e lasciai perdere il mio intento, sbuffando.
“Okay! Ma solo una…”, dissi per poi prendere il respiro e farmi coraggio. Non sarebbe andata a finire bene, me lo sentivo. “Can you see me while I drive crazy? It’s you fault. Can you see me while I cry? It’s you fault. Can you see me? I won’t be beg you to come back. Even If I love you, and I will do as long as I live”.
“Ehi ti ho chiesto una frase non un capolavoro!”, mi prese in giro.
“Fottiti!”.
“Non stavo scherzando, Ronnie. È fantastica!”, esultò serio. “Hai già pensato alla musica?”.
“Non so suonare Solon, come faccio?”, gli chiesi quasi fosse ovvio.
“Hai  tempo?”, domandò senza che capissi.
“Cosa? Per andare in giro? Sì fino alle dieci di stasera”.
“Ok, vieni al mio albergo, ho una chitarra!”, mi prese la mano e, pagando, uscimmo da Starbuck.
“Che vuoi fare?”, gli dissi fermandomi mentre lui chiamava un taxi per portarci chissà dove.
“Non voglio fare cose che sai non farei a te, Ronnie. Voglio solo renderti qualcuno che so che puoi diventare”, mi fece l’occhiolino. “Puoi fidarti di un vecchio amico?”.
“Se quello sei tu penso di sì”, sorrisi anche se non avevo ben capito.
“Ottima scelta”, commentò lui.
 
 
“E così arrivò Solon… bè riarrivò”, sorrise mia madre mostrando una foto di Chicago, una che aveva fatto quel pomeriggio. “Peccato essere stata troppo presa a realizzare che era lì davvero e non avergli fatto una foto… era molto buffo”.
“Ma piantala”, si lamentò lui mentre sistemava delle cose di mamma riguardo al nuovo album che doveva  uscire, Mistery. Ormai avevo perso il conto di tutte le canzoni che aveva pubblicato.
“Bè, meno male, almeno così sei riuscita ad arrivare a me, in qualche modo!”, arrivò mio padre e l’abbracciò da dietro, facendole chiudere l’album. Ok, era ora di andarmene…
“Finiscila, cozza vivente”, se lo tolse di mezzo facendomi ridere. “Ok, Jeremy. Qualche altro ricordo che vuoi sapere?”.
“In realtà uno c’è”, dissi riprendendo l’album e tornando indietro. Molto indietro.
 
 
 
 ...
Note dell'Autrice:
Ok, non ho molto tempo per rivederlo perchè devo cenare, se ci sono degli errori perdonatemi (sono stupida e non li vedo -.-)
Per il resto..... questo è l'ultimo capitolo cortino. D'ora in poi (per altri 4 o 5 capitoli) saranno decisamente più lunghi. Spero vi sia piaciuto questo e che vi piacciano anche i prossimo
Per ora vi saluto velocemente o qui mi uccidono :D
Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 8
*** When I was 17... ***


Arriva in punta di piedi per la seconda volta....... OK, SPARATEMI ME LO MERITO! *piange*
Allora sentite, lo so lo so lo so mi dispiace! Ho balzato di nuovo una settimana ma date la colpa a questa dannata scuola! E' da due settimane che sto studiando praticamente solo biologia perchè interroga ad ogni lezione (mercoledì ovviamente -.-) e gli altri giorni non è meglio.
Mi spiace avervi fatto aspettare, ma almeno stavolta il capitolo è lungo :D

però stanno scendendo un pò le recensioni... cos'è non vi piace? Ditemelo vi prego, così mi regolo un attimo. 
Grazie comunque come sempre, ora vi lascio alla lettura :)





Chapter 8. When I was seventeen…

 




‘School sucks’.
Wow, Jared si era veramente impegnato stavolta… pessimo. Non lo credevo possibile che avessi un fratello così idiota.
Aveva sedici anni ma era davvero un bambino.
“Wow, ti credi tanto figo a portare quella maglietta al ballo della scuola?”, gli chiesi mentre sotto metteva dei jeans neri e le delle Converse dello stesso colore.
Ok, entrambi odiavano quelle stupide feste e nessuno dei due, sebbene quasi tutta parte femminile della scuola ce l’avesse chiesto, avevamo deciso di andarci da soli, bere qualcosa e scappare via con i nostri amici per farci un giro al fiume.
Però almeno io non esibivo magliette dall’originalità di un pesce rosso mezzo morto.
“Non rompere le palle, fratello. Ma ti sei visto tu?”, mi chiese. Niente di male, camicia e pantaloni, ero… anonimo. Come se uno di voi Leto potesse essere anonimi!, aveva ridacchiato Jessie un giorno, mentre ripetevo questo stesso aggettivo.
“Finiscila”.
Lui alzò gli occhi al cielo e mi fece segno di uscire dalla sua camera un secondo. Che palle! Dieci anni e sarebbe diventato un maniaco dell’ordine, ci avrei giurato.
Mamma forse si era fumata qualcosa prima di concepirci ed era rimasta confusa. Sebbene non fossimo gemelli, avevamo poco tempo di distanza, un anno, e invece di avere metà pregi e metà difetti per ognuno, eravamo ai poli.
Lui era perfettino, non dava a vedere mai ciò che provava, la sua vita privata o familiare era un mistero per tutti tranne che per chi faceva parte di quella vita e stava spesso e volentieri da solo, sebbene uscisse con molte ragazze e avesse molti amici. Come facesse era un enigma anche per me.
Io invece ero un casino sia fuori che dentro. Camera mia era sempre piena di vestiti in giro, cuscini per terra, fogli ovunque, bacchette della batteria dimenticate chissà dove, tamburi negli angoli e via dicendo. In più entravo in casa mia solo per dormire e stavo fuori con chiunque capitasse. Amici, ragazze, persone conosciute in giro della mia età che sembravano simpatiche. Non importava.
La mia vita era sempre sulla bocca di tutti, ormai avevo perso la voglia di fermare i pettegolezzi e tutto quello che Jared non voleva dire io lo facevo passare senza dire però che ciò per lui era zona rossa.
Al contrario mio, che non m’ interessava, lui aveva dei segreti che nessuno al mondo doveva scoprire e li aveva rinchiusi in questa zona rossa, una linea inventata nella nostra testa. Nessuno avrebbe dovuto prendere i ricordi dietro quella linea, a meno che non si voleva passare ore a subirsi la sua ira e giorni senza che lui parlasse.
Una volta era successo. E per quello non mi aveva più parlato per due mesi ed ero stato malissimo.
Per quanto facesse il cretino e qualche volta lo odiassi, stare senza la sua compagnia e la sua voce per due mesi era stata la cosa più terribile al mondo. Per perdonarmi dovetti fare un mese di pulizie da solo, dire di me qualcosa di così ridicolo da far dimenticare lo scoop che aveva fatto il suo triste segreto e scusarmi nel modo in cui solo noi potevamo comunicare: la musica.
Appena aveva sentito la canzone, aveva capito che non l’avevo fatto per ferirlo e così mi aveva perdonato, a patto però che facessi anche tutte le altre cose.
“BU!”, mi urlò nell’orecchio quando scese in cucina, perfetto come sempre con i suoi occhioni azzurri. Mannaggia a lui! “Sei vivo?”.
“Certo che sono vivo, che problemi hai?”, chiesi alzandomi dalla sedia. Guardai l’orologio: 20.15. Eravamo in perfetto orario… per la prima volta nella nostra vita.
“Io? Sei tu che ti imbamboli per mezz’ora senza ne muoverti ne parlare!”, ridacchiò mentre andavamo verso l’uscita della casa. Uscimmo e chiudemmo a chiave. “Mamma ha le chiavi, giusto?”.
“Lo spero, perché io non torno a casa”, dissi cominciando a camminare verso la scuola. Mamma… mamma era nel pieno momento post-luna di miele perenne.
Da quanto si era risposata, ovvero un bel po’ di anni prima, era rimasta innamorata cotta e non realizzava la vera realtà. Niente di male, il suo nuovo marito era fantastico e avevamo preso il suo cognome visto che il nostro vero padre l’aveva abbandonata dopo la nascita di Jared.
Non ricordavo granché di lui e Jared men che meno. Avevo memorizzato soltanto la faccia di mia madre: triste e completamente sola. Ovvero tutto il contrario di adesso.
Infatti quella sera erano andati a cena fuori per festeggiare non sapevo cosa, così noi avevamo via libera per divertirci.
In pochi minuti arrivammo a casa di Jessie e Coline, delle nostre amiche, e le vedemmo fuori dalla porta di casa. Coline, con i suoi capelli  mori e ricci, era vestita in un abito celeste accompagnato da un tacco altissimo mentre Jessie era in top rosso e pantaloncini di jeans neri, con le solite sneakers.
“Ottimo look, Jessie”, la prese in giro Jared mentre loro uscivano sulla strada. Lei gli fece la linguaccia e salutò me con la mano.
Coline aveva un anno in meno di Jared e avrebbe decisamente voluto andare al ballo con lui, ma non c’era stato modo di convincerlo. Era sua amica e in più non aveva nessuna voglia di passare la serata nella palestra della scuola a farsi sbavare dietro.
Così lei appena ci vide cercò di evitare Jared e cominciò a camminare svelta. Jessie la guardò un attimo, scosse la testa e poi la lasciò andare con un sorriso.
Lei aveva la mia età ed era esattamente come noi. Infatti per quanto fosse una delle ragazze più belle del liceo – con i suoi capelli biondissimi e lunghi fino alla fine della schiena e i suoi occhi azzurro-grigi, alta un metro e settanta e gambe da favola – non aveva accettato nessun invito e ci aveva obbligato a portarla con noi in giro.
A volte era davvero strano averla sempre tra i piedi, ma in fondo era così maschiaccio che tutti la consideravano una di noi. Lei odiava lo shopping o qualsiasi cosa di appariscente, ma al contrario amava partecipare i nostri scherzi colossali.
Tutte le ragazze erano gelose di lei per la sua evidente bellezza, ma a parer mio avrebbero dovuto essere più gelose del suo carattere.
“Hey Leto, ti sei addormentato?”, mi chiese mentre attraversavamo il campo da football della scuola. Ancora?! No, ero sveglissimo!
Vidi i miei amici, poco più avanti di noi due, avvicinarsi a Jared e cominciando a scherzare con lui, con le solite stupide battutine. Il programma lo sapevano anche loro, quindi non si erano vestiti eleganti apposta. Tutti i jeans e t-shirt… in effetti ero l’unico in camicia e la cosa mi stava cominciando a dare fastidio.
“No, ci sono, tranquilla”, risposi un po’ in ritardo alla domanda della bionda. Sentii Jared chiamarmi e velocizzai il passo, mentre sentivo la musica da discoteca arrivare dalla palestra.
La scelta di quell’anno: anni ’50. Bleah, sarebbe stato meglio abolirlo del tutto. Era un insulto a quell’epoca! L’unico motivo per cui esisteva quella festa era perché le ragazze trovassero il modo di fare colpo su ragazzi adocchiati da tempo e i ragazzi avessero la possibilità di portasele a letto a fine serata.
In effetti la maggior parte delle volte ci andavamo anche per quello ma quella sera ci saremmo divertiti in un altro modo.
“Shannon qui la musica è uno scempio, fa veramente schifo”, mi chiese mio fratello, trovandomi pienamente d’accordo. “Jason ha lo stereo in macchina e Walter ha saputo di una piccola festa con un falò sulla spiaggia. Che te ne pare?”.
Nel mentre gli altri annuivano quindi accettai anche io. “Sì, sembra piuttosto divertente”, risposi in fretta, prima che Jessie prendesse parola.
“Molto divertente. Poi potremmo fare un bagno di mezzanotte… se avete il coraggio”, osò sfidare tutti la bionda, ridendo. O merda!
Uno dei difetti di Jessie era proprio non rendersi conto delle conseguenze che potevano portare le sue parole e le sue sfide.
“Primo”, cominciò Jared, seriamente offeso mentre gli altri la guardavano come se fosse la solita ragazzina che non sapeva con chi aveva a che fare. Sebbene la conoscessero da tempo, ogni volta la guardavano sempre allo stesso modo. “Il coraggio è l’ultima cosa che non ho. E secondo, nessuno ti ha invitato, bellezza”.
“Già, piccola serata tra uomini!”, rise Fred, scherzando con Jason.
“Se! Uomini… voi?! Ma per piacere”, ridacchiò in risposta. Poi guardò me. “E comunque Shannon mi ha detto che potevo venire”.
“Cosa?!”, urlammo sia io che mio fratello. Gli altri rimasero scioccati, anche perché di solito nessuno sa dove andiamo nelle nostre uscite notturne. Nessuno tranne Jessie.
“Jessie, non ti ho mai detto nulla del genere”, continuai io fissandola male. Questa me l’avrebbe pagata cara.
“Ok, sei sempre più antipatico”, disse facendo il muso. Oh, grazie al cielo! “Vorrà dire che te lo chiederò ora: Shannon posso venire?”.
Dal muso passò al labbruccio barra faccia da cucciolo abbandonato e mi guardò con quegli occhi color del ghiaccio.
“Merda!”, sussurrai per non farmi sentire. Poi alzai la voce e chiesi aiuto a mio fratello. “Jared?”.
“Non l’ho chiesto a Jared, Shannon”, mi rispose tra l’annoiato e il deluso la biondina.
Non la considerai e aspettai che mio fratello guardasse gli altri e decidesse sul da farsi.
“Va bene, ragazza. Ma sappi che non è una compagnia di preti”, l’avviso Jared mentre io sorridevo della sua seconda frase.
“Jared, sono uscita con voi centinaia di volte, la vostra reputazione è conosciuta in tutto l’intero universo”, disse Jessie indicando tutti noi. “So chi siete e cosa fate, quindi risparmiami la predica”.
Gioco di parole tra preti e predica. Me lo sarei aspettato; Jessie era brava a scherzare quanto noi.
“Bene!”, replicò infatti Jared, prima di fare segno a tutti di partire.
 
“Sei il solito bastardo, Leto!”, mi prese in giro quando cercai di affogarla per scherzo.  “La prossima volta che mi tocchi ti ammazzo, figlio di tua madre!”.
“Figlio di tua madre?”, chiesi ridendo. “Come sei permalosa!”.
“Non mi va di insultare quella santa donna di Constance”, replicò lei togliendosi le gocce d’acqua dagli occhi. “E permalosa, sto cazzo, stronzo!”.
“Io? Ma se io sono un così bravo bambino!”, risi guardandola socchiudere gli occhi arrabbiata. “Come osi insultare un bimbo indifeso come me?”.
Jared nel mentre stava picchiando per finta Derek in acqua; sentivo le sue risate mischiate a quelle degli altri. Era meglio tenerlo d’occhio, a  volte sapeva esagerare in maniera negativa.
“Tu? Un bambino indifeso?”, rispose con una risata ironica per poi finire in una veloce linguaccia. “Sì, certo! Quando mi proclameranno regina d’Inghilterra!”.
“So God save the queen!”, dissi con un finto e pesante accento inglese, così ridicolo da farmi sembrare ancora più coglione di quando già non fossi di mio.
Fece una smorfia di disgusto e andò sott’acqua per sistemarsi i capelli, così io me ne andai in giro a nuotare un po’. Non era un posto enorme, ma ci si divertiva tranquillamente.
In più ormai i ragazzi con cui eravamo stati prima, quelli del parlato grande falò, se n’erano già andati da un pezzo, così eravamo da soli.
“Non ti libererai di me così in fretta, Leto!”, urlò Jessie arrivando di colpo sulle mie spalle e facendomi affogare e bere un po’. Bleah, che schifo!
“Jessie!”, le urlai addosso, cercando di scrollarmela via. Bene, era finita la pacchia, mi toccava sopportarla ancora per un po’.
“Sì, i miei genitori mi hanno chiamato così all’anagrafe. Puoi controllare se proprio vuoi essere sicuro”, fece la simpatica, prima di tuffarsi dalle mie spalle all’indietro e finendo con la schiena in acqua. Tornò a galla con i capelli bagnati e in un secondo notai dei tremolii di freddo sulla sua pelle.
“Bene, ma direi che è meglio andare ad asciugarci o ci prendiamo un raffreddore mai visto”, dissi cominciando a uscire dall’acqua. “Dai, è l’una meno un quarto, hai nuotato abbastanza!”.
“No, non voglio uscire!”, fece la bambina cattiva scuotendo la testa. Sbuffai e provai a prenderle le mani per spingerla fuori ma saltellava in giro troppo in fretta. Alla fine, dopo qualche tentativo, le afferrai i polsi, ma continuava comunque a muoversi. “No, no, no, no, no, no! Non voglio uscire! Jared, aiuto!”.
Tutti si spaventarono e mio fratello si girò curioso. Scosse la testa e sorrise mentre Jessie si muoveva ancora.
“Basta nuotare”, decretai.
“Shannon, per favore, dai! Non voglio uscire, non voglio, non voglio, non voglio! No, no, no, no, no, no!”, si lamentò ancora mentre io ridevo. A  volte era così snervante!
“O esci, o esci. A te l’ardua scelta, Jessie”, le diedi una finta possibilità, pensando a come farla stare zitta.
“No, no, no, no, no! No. Assolut…”, disse prima che evitassi che disturbasse la quiete pubblica. Senza pensare le presi il viso tra le mani e la baciai, lasciandole le altre parole in gola.
Non l’avevo fatto con l’intenzione di farle provare qualcosa per me o rivelarle qualcosa che provavo io per lei. La storia di avere una ragazza… erano minchiate liceali e basta.
L’amore non faceva per me e nemmeno avevo mai provato a cercarlo. Come se la mia anima gemella fosse davvero seduta sui banchi della mia stessa scuola!
Però… però per un attimo di tempo rispose al bacio, cercando di farsi stringere di più dalle mie braccia.
“No”, sussurrò in seguito, staccandosi di colpo, frantumando ogni mia possibilità di però. “Non posso, Shannon. Mi dispiace, davvero”.
All’improvviso, per la prima volta da quando la conoscevo, la sua faccia si fece subito seria. Si staccò da me del tutto e se ne andò sulla riva, prendendo le sue cose e scappando via, mentre io realizzavo ancora il tutto.
 
“E come finì?”, chiesi a zio Shannon mentre passeggiavamo vicino allo stesso fiume di cui mi aveva appena parlato, a Bossier City.
“Che dimenticammo tutto e tornammo ad essere gli amici di sempre. Poi, dopo due mesi, lei si trasferì a Toronto, in Canada, con i suoi”, mi rispose con un sorriso malinconico. “Non so se fu per quello che scappò via quella sera. Ma alla fine persi sia la possibilità di una storia seria, ma anche e soprattutto quella che consideravo la mia migliore amica”.
Ci fermammo e ci sedemmo su dei sassoni, di fianco al fiume. Ne presi uno piccolo, sott’acqua,e lo lasciai a qualche metro di distanza. Un rimbalzo, due, e poi la corrente lo abbandonò al suolo.
“Ma con zia Andy?”, chiesi.
“Tua zia è quello che non cercavo al liceo, l’anima gemella, se così vogliamo definirla. Jessie non era e non sarebbe mai stata nulla al suo confronto”, rise con lo sguardo perso. “Ma non fu facile lasciarla andar via”.
“Rinunceresti alla tua vita con Andy per lei?”.
“Mai. Perché dovrei? Andy è tutto ciò di cui ho bisogno”, mi guardò sorridendo. “E’ il mio sogno fatto a realtà”.
E in quel momento capii che aveva già detto quella frase, con lo stesso sorriso e lo sguardo perso nel passato.
 
Dire che ero stanca era fare un eufemismo. Vero mi aveva proprio uccisa!
Avrei voluto dormire per tutto il giorno, ma la ragazza me l’aveva proibito. La principessina del mare non aveva voglia di starsene sdraiata sul letto a fare niente, dopo un’intera giornata sulla spiaggia.
“Ti prego, Vero, lasciami qui a morire di sonno, lo preferisco”, chiesi stanca buttandomi sul letto mentre lei, con la musica al massimo, sistemava le cose del mare.
“You make me wanna die, Andy! Non il contrario”, sbuffò ridendo e saltellando in giro. Dove trovasse la forza lo sapeva solo lei!
“Tu scherzi, ma io davvero potrei rimanerci secca un giorno di questi a starti dietro”, esclamai sfinita. Mi misi seduta e la guardai mentre scuoteva la testa a ritmo e camminava seguendo la grancassa della batteria. Era così pazza!
Oggi aveva dei pantaloncini cortissimi versi con una canottiera bianca, con la scritta Bitch, life is great!. I capelli rossi erano diventati un unico boccolo bagnato dentro lo chignon post bagno in mare e la pelle era diventata color caramello per l’abbronzatura.
“Che hai?”, mi chiese guardandomi. Alzò un sopracciglio e poi scoppiò a ridere, mentre io le facevo la linguaccia.
“Len dice che si farebbe volentieri una strafiga come te”, confessai un segreto noto a tutti tranne che a lei nella nostra compagnia. “Anzi non vede l’ora di farti ubriacare con lei per dare la colpa all’alcol”.
“Len è fidanzata da due anni con Federico. Non lo vedo possibile, Miss Sono Troppo Stanca E Rompiscatole”, disse ammiccando e facendomi ridere.
“Dice che in realtà non sarebbe un vero tradimento visto che… ehm… non sei un maschio, diciamo”, ridacchiai ricordando il discorso della nostra amica, mentre lei sbuffava. “E Federico non si tirerebbe certo indietro per una cosa a tre”.
Toccò a lei ridere sta volta. “Due troie, ecco cosa sono quei due! Ci credo che stanno bene insieme”. Scosse la testa e dopo qualche secondo continuò. “E comunque ti sembro il tipo che accetterebbe?”.
“Perché no? Ti sono sempre piaciute le sfide”, ammiccai. E sapevo che sfidarla non era mai una cosa intelligente da fare.
“Ah sì?”, chiese lasciando perdere lo specchio con cui stava lavorando per rifarsi il make-up, lasciando un occhio perfettamente truccato e l’altro a metà. Venne verso di me, si appiattì come un gatto a caccia e si fece strada sulle lenzuola con uno sguardo strano. “Credi davvero che abbia voglia di scoparmi Len, magari insieme a Federico?”.
“Sì, Vero”, le dissi convinta, sapendo di farla incazzare. Per quanto tutti le dessero della stronza perché amava canottiere e pantaloncini corti, nessun ragazzo – o ragazza se si vuole specificare – l’aveva mai toccata. E dirle il contrario così apertamente la faceva uscire dai gangheri.
Un attimo dopo lei ridacchiò e mi capottò dalle coperte, mettendosi vicino a me, in ginocchio, e cominciare a farmi il solletico. Quando mi dimenai lasciò perdere e mi tirò un pungo indolore sul braccio.
“Non faccio sesso alla cazzo solo perché ho due gambe da paura e so aprirle grazie alla danza, chiaro?”, specificò. Appunto.
“Lo so, ma chi sono io per dirti di non andare con una ragazza?”, la presi in giro.
Lei si alzò e mi diede una pacca sul sedere, come tutte facevamo nel nostro gruppo mentre scherzavamo.
“I maschi danno più soddisfazione… credo”, alzò e spalle e tornò al suo specchio per sistemare l’occhio dimenticato. “E poi l’hai detto tu: mi piacciono le sfide. Che sfida sarebbe guardare qualcosa che conosco dalla mia nascita?”.
“Pervertita”, feci una smorfia di divertimento.
“Sei tu che hai iniziato. E poi sai che novità, Len è bisex e si farebbe anche quella povera di Natalia”, disse ricordandomi della povera ragazza che tutti evitavano. “Una volta ci ha provato pure con te”.
“Questo te lo sei inventato!”, ribadii puntandole l’indice contro.
“No! Ti sei già scordata la festa di Wendy dell’anno scorso? Ti stava pulendo con il suo corpo da quanto ti si strusciava addosso”, disse ridendo. Che incubo! La prima e ultima volta che avevo bevuto abbastanza da non capire più molto bene il resto del mondo.
Il giorno dopo, saputo cosa Len voleva fare con me, mi dovettero trattenere per non permettermi di picchiarla. Niente contro i suoi gusti, non ero una persona che giudicava per queste cose, ma non doveva permettersi di farlo con me.
“Non ero cosciente”.
“Infatti non sto dando la colpa a te, lo sai. Dio se è cornuto quel ragazzo!”, ridacchiò.
“Ma perché non la molla, scusa?”.
“Sono due troie, te l’ho detto. Se Len lo tradisce lo fa con delle ragazze e così Federico la perdona sperando che si decida per un tre”, concluse schifata dalla mentalità malata di quei due.
“Obbrobrioso”, commentai.
“Non potrei essere più d’accordo”, disse, per poi cambiare decisamente argomento. “Ora possiamo andare a festeggiare?”.
“Che palle!”, dissi alzandomi di malavoglia dal letto. A volte era insopportabile!
 
Mare. Per Vero non esisteva altro che mare.
Alla fine era riuscita a trascinarmi in città, ma poi avevamo deciso di andarcene a fare una passeggiata sul bagnasciuga, a rilassarci un po’ con il rumore del mare.
“Guarda Marte”, mi disse alzando la mano e indicando un piccolo pezzo di cielo. Il pianeta rosso brillava come poche volte e faceva sognare mondi sconosciuti e avventure supergalattiche. “E lì c’è Venere”.
“Sono così  belli”, sussurrai guardando anche l’altro pianeta, che splendeva come l’altro.
“I greci dicevano che Marte era innamorato di Venere, ma poi la cosa non funzionò. Lui era troppo ossessionato dalla guerra e del suo immenso giardino governato da rose, mentre Venere era in constante ricerca di attenzioni”, raccontò come se quei due pianeti fossero persone realmente esistite. “Non ricordo la fine della storia e del mito, ma credo non esista una morale.
Forse dopo tante ossessioni che la mettevano in secondo piano, Venere decise di lasciare Marte e lui rimase così addolorato da restare solo. Scelse solo due consiglieri e soldati fidati, che rimasero per sempre vicino a lui, sebbene le loro storie fossero altrettanto tristi”.
“Phobos e Deimos”, li chiamai. Gli strani satelliti del pianeta rosso, che lo accompagnavano sempre.
“Li immagino giovani e belli, guerrieri così formidabili da sostenere un amico come Marte, il dio che li guidava. Ma nel frattempo anche loro avevano i loro problemi.
Sempre percossi da un passato orribile da cui traggono perfino i loro nomi. Paura e Terrore, la sola cosa che Marte accetta di avvicinare dopo il suo immenso dolore”, raccontò.
“E Venere che fine fece?”, chiesi curiosa, guardandola sdraiarsi su uno scoglio e chiudere gli occhi, lasciando che le sue parole venissero trascinate dal vento. Feci lo stesso, ma continuai a guardare le stelle.
“Non lo so. Penso se ne sia andata in cerca del suo vero amore. Ma forse non riuscì mai a trovarlo, cosicché decide di prendersela con i mortali, combinando i guai omerici”.
“Tutti i disastri e le guerre cominciano per amore”, commentai.
“Già. L’amore rende l’essere umano debole, cieco e pazzo. Quell’uomo potrebbe essere il tuo migliore amico, ma nel momento in cui ama una donna diventa il peggiore degli animali e la difende con tutto se stesso”, lo descrisse come se conoscesse l’amore da tutta una vita. “Non avvicinarti alla donna che l’uomo veramente ama, o Marte si ricorderà di Venere e scaglierà contro di te l’odio del tuo amico”.
“E la religione?”.
“Credo sia sempre una sorta di amore. Forse peggiore perché non puoi davvero sopportare che qualcuno ti convinca ad avere dubbi su quello che credi”, sussurrò.
“Non so più se credere, a volte…”, dissi io cercano la luna e vedendola splendente come sempre. Era troppo bella per essersi creata da sola.
“Io sì. Insomma qualcosa deve pur esserci. Voglio dire, andare in chiesa, fare la brava ragazza… va bene se ci tieni, ma poi?”, si chiese quasi da sola. “Da piccola ho visto morire il padre di una bambina. Suicida. Era ed è ovvio che io pensi che deve essere pur andato da qualche parte. Non possiamo essere qui solo per morire”.
“Forse non aveva speranza nemmeno nell’aldilà”.
“Tutti abbiamo una speranza e delle possibilità. Basta solo saperle cogliere e convincersi che arriveranno presto”, concluse.
E dopo questo non parlammo più. Restammo sedute o sdraiate su quei sassi a sentire il mare andare e venire  il vento soffiarci dolcemente contro. Ricordai le discussioni che avevamo avuto quel giorno, quella e quella del pomeriggio.
Vero non era mai stata normale. Sapeva dividere allegria con serietà e decideva sempre il modo migliore per affrontare un discorso. Vidi il polso brillare e una linea più bianca dell’abbronzatura si fece lucente. Il mio gatto, era stata la sua scusa dopo che ero andata a trovarla da sua nonna. Ma la cosa non quadrava molto…
Ma sapevo che sarebbe stata lei a parlarmene e non volevo entrare nella sua privacy. Distolsi lo sguardo e fissai le stelle. E con Marte e Venere brillanti insieme alla Luna chiusi gli occhi in ascolto della natura.


...
Note dell'autrice:
La faticaccia a scrivere Vero e non Ronnie è da ricordare per l'eternità! ahaha continuavo a sbagliare!
Cooooooooooooomunque: per la parte sui Leto nulla da dire, credo, tutto regolare nel "io non li conosco questa è solo la mia fantasia non prendetela per vera".
Per la parte di Ronnie... bè, io sono esattamente come lei riguardo al mare. Se mi portate in vacanza al mare sappiate che vi stresserò fino alla morte tra tuffi, divertimenti e anche serate sotto le stelle. *-*
E per quando riguarda Venere e Marte... il mito è vero fino a che Ronnie non dice "Secondo me...." perchè da lì non ho trovato niente ed è pura mia immaginazione. Spero vi sia piaciuto, 
taaaaaaaaaaaaaaaaaaanto affetto,
Ronnie02

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Capitolo 9
*** You said it was easy! ***


Salve gente! Lo so sono in ritardo *che strano* ma in questi giorni sono stata male quindi chiedo umilmente perdono!
Volevo solo dirvi una cosa, prima di lasciarvi leggere: so che questo ricordo vi è indigesto, so che mi picchierete, so che ucciderete sia me che forse anche Jared... ma please, avevo voglia di scriverlo e farvi capere meglio cosa successe quella nottaccia.
Spero che vi piaccia.
Buona lettura



Chapter 10. You said it was easy!





 
Svegliarsi con il desiderio di lei era la sensazione migliore al mondo. Vedevo le sue mani sul mio petto e il suo respiro al mio fianco. Non ricordavo molto della notte passata, non ricordavo il suo arrivo…
Cos’era successo davvero?
“Oh tesoro, sei stato fantastico”, disse una voce bassa. Una voce non dolce e perfetta come quella di Ronnie. Una voce sbagliata.
Una ciocca di capelli biondo platino mi coprii la visuale. Il colore sbagliato… Ronnie aveva osato tingersi i capelli? Eppure stanotte li avevo ricordati dello stesso rosso sangue di sempre.
Due occhi marroni scuro mi guardavano, dopo che i capelli andarono al suo posto. Forma e colore sbagliato… di nuovo. Che succedeva?
“Concordo con te. Oh, piccolo, sei strepitoso”, una seconda voce stridula alla mia sinistra si fece sentire. “E ricordati di noi nei ringraziamenti del tuo disco, bellezza. Per ora però noi dobbiamo andare”.
Mi voltai di scatto e una ragazza dai capelli biondo tinti, rifatta e anoressica, mi fece l’occhiolino mentre si rivestiva con l’intimo. Era nuda? E cosa ci faceva qui?!
Mi voltai e vidi una seconda ragazza bionda, più in forma della prima e con un tatuaggio orrendo sul petto. Anche lei si rivestì con l’intimo.
Aspettate… dov’era Ronnie?! Chi erano queste due?!
Avevo fatto l’amore con Ronnie stanotte, ne ero certo. L’avevo vista e chiamata per tutta la notte, per la miseria!
“E comunque siamo Sheila e Hellen. La Ronnie che tanto cercavi non c’è, baby”, mi disse la bionda a sinistra. Cosa?! No… che?!
No, no, no, non potevo crederci. No!
Ero stato con lei, l’avevo attesa per così tanto tempo, volevo portarla qui… non era possibile, no…
E come erano arrivate nella mia vita, le due bionde sparirono altrettanto in fretta, lasciandomi solo in quello stupido letto di tradimenti non voluti.
Mi alzai piano, dondolando per lo shock, e presi tutte le mie cose, il più in fretta possibile. Uscii dalla stanza e scoprii essere nella casa di quello che sarebbe potuto diventare il nostro futuro manager.
“Oh cazzo… Merda! Merda, sono un fottutissimo coglione, cazzo!”, piansi tirando indietro la tristezza.
Corsi fuori e uscii dalla casa, prendendo un taxi e andando nell’appartamento provvisorio che dividevo con Solon e mio fratello.
Suonai il citofono e la porta si aprì, senza che nessuno parlasse. Entrai in casa e mi sedetti sul divano, apatico. Che cazzo era successo?!
Nessun rumore irrompeva nella stanza, il che era molto strano visti i miei coinquilini. Poggiai la testa sullo schienale e chiusi gli occhi. Dovevo ricordare, poi a quel punto le avrei spiegato tutto, pregando in ginocchio per il perdono.
Ma non ricordavo assolutamente nulla.
Nella mia testa c’erano solo immagini troppo confuse: Shannon che balla con delle ragazze sconosciute, che mi offre dei drink – troppi – e  che m’invita sulla pista; poi ecco un ricordo delle bionde, che mi puntano e cominciano a flirtare; Ronnie che mi guarda scioccata e io che me ne vado con loro…
Wait. Ronnie che mi guarda. Quindi voleva dire che lei c’era davvero?
“Jared…”, sentii una voce famigliare al mio fianco. Mio fratello.
Mi tirai su con la testa e lo guardai, con i pantaloni della tuta e i capelli tutti disordinati.
“Dimmi che non mi ha visto”, pregai in tutte le lingue, socchiudendo gli occhi e sentendo il mio cuore mancare un battito.
“E’ arrivata ieri sera, senza che nessuno lo sapesse. Ho provato a fermarla, ma…”, si bloccò mentre io mi continuavo a ripetere che era tutto un incubo. Poi mi porse un plettro spaccato e la parte rotta. Due parole: Year Zero. “L’aveva portato per te, ma l’ha buttato per terra, correndo via”.
Chiusi gli occhi, respirai piano per calmarmi… ma non funzionò. Mi alzai di getto, facendo cadere pure la sedia. “E invece di fermare lei, non potevi fermare me?!”, urlai arrabbiato. “Non avrei nemmeno dovuto ubriacarmi, Shan. Oggi avrei dovuto chiederle di trasferirsi qui, cazzo!”.
“Jared, calmati. Lo so, è colpa mia, ma non avevo intenzione di combinare questo casino, fidati!”, si provò a scusare, ma ormai ero perso.
“Lei era l’unica, Shannon. L’unica che si fidava di me, che mi vedeva per quello che ero e non il solito disgraziato figlio piccolo adottato per cara grazia da Leto! Era l’ unica, dopo troppo tempo, che mi aveva fatto dimenticare tutta quella merda che da sempre abbiamo dovuto sopportare addosso!”, urlai impazzito, cercando di non piangere. Un uomo non piange, nemmeno se la sua anima cade a pezzi. “E tu me l’hai portata via… così, solo per un’ubriacata del cazzo”.
Lo lasciai con uno sguardo distrutto e me ne andai in camera mia. Mi sembrava di essere tornati a quindici anni, quando avevo smesso di parlargli dopo che aveva spifferato a tutti un mio segreto prezioso.
Presi il telefono e provai a chiamarla almeno sette volte in sei minuti scarsi. Ma niente, aveva il telefono spento.
Ronnie, ti prego… ho bisogno di te, della tua voce, del tuo perdono… ti prego.
Provai un’ottava volta e quella volta il telefono era accesso. Ma continuò a squillare invano e capii che non mi avrebbe risposto. E intanto ogni fottutissimo bip rimbombava nella mia testa e ogni suo silenzio mi strappava un pezzo di anima, lasciandomi cadere nel buio.
 
Cadeva. Sempre, di continuo, e senza mi provare a tirarsi mai in piedi. Ormai ero certo che si sarebbe ritrovata con ematomi ovunque, ma sembrava decisa a fermarsi mai.
Andava avanti e cadeva, sempre più pesantemente. Sempre con più dolore nel rimettersi su quei piedi stanchi, coperti dai pattini. 
I suoi capelli boccolosi e rossi di un tempo erano ora crespi e spenti, non curati quasi, le gambe un po’ più magre, che ormai non la reggevano più. 
Un'altra caduta e di nuovo qualcosa mi colpì lo stomaco. Ogni volta che toccava terra la mia pancia mi provocava dolori assurdi, perché in fondo sapevo il motivo della sua fissa a non fermarsi.
Era tutta colpa mia, solo colpa mia, ma ovviamente non avevo il coraggio - anche dopo ore e ore di aereo - di andarla a tirare su e baciarla, pregandola in ogni modo di tornare da me.
In aereo avevo provato così tanti discorsi e alla fine mi ero deciso di andare a braccio. Ma perché la immaginavo a casa, sul divano, piangente e in attesa del mio ritorno, probabilmente per massacrarmi di pugni. L’avrei preferito. Non sopportavo di vederla così, ma non sapevo che fare. Alla fine non ero tanto maturo come credevo, ero sempre il solito bambino che mamma deve aiutare. Ero uno stramaledetto idiota, ecco cosa. 
Un'altra caduta mi distolse dai miei stupidi pensieri, ma stavolta a porgere la mano a Ronnie arrivò un ragazzo che non riuscii a riconoscere. Si parlarono un pò e capii che alla fine non aveva molto bisogno di me.  
Io, come altri, l'avevo fatta soffrire. Le avevo promesso una cura, la cosa che più necessitava, e oltre a non mantenerla ho pure peggiorato la sua precedente situazione.
Mi facevo abbastanza schifo da solo a pensarla così, ma in fondo era solo la verità. Non la meritavo per niente: ci sarebbero stati altri più in gamba di me ha tenerla in piedi, come quel ragazzo. 
Così decisi di voltarmi e non guardarla oltre. Mi obbligai a non tornare, a non dirle nulla, a non osservarla ancora, a non chiamarla di nuovo. Era ora che lei avesse indietro la sua vita senza un cretino del mio calibro.
Me ne andai di fretta e non passai nemmeno a salutare mia madre, ma tornai subito all'aeroporto. Nessuno doveva sapere che ero stato a Bossier City quel giorno. Nessuno doveva avere sospetti: io ero a Los Angeles, io non ero tornato, io non esistevo più qui.
Doveva liberarsi di me e io dovevo dimenticarla.
Presi un taxi e pagai il viaggio verso l’aeroporto, senza guardare indietro. E per tutto il viaggio mi preparai a rinchiudermi in me stesso e perdermi nell'oblio di quello che era stato la causa di tutto: sesso e alcol. 
 
Ballare con Astrid era la cosa più scomoda e imbarazzante che esistesse al mondo. Mamma le aveva insegnato a ballare e ora capivo come si sentivano tutti a ballare con lei. Era assurdo il modo in cui ti sentivi inferiore vista la sua esperienza.  
Ma almeno non avevo motivo di vergognarmi di fronte lei: era come una sorella e ci saremmo presi comunque in giro in altri modo. Mi aveva conosciuto ad un anno di vita e lei era sempre stata con me. Non avevamo segreti, nemmeno i più terribili ci nascondevamo.
In realtà, ovviamente, non c’era nessun vero legame di sangue tra di noi, se non che i nostri genitori erano migliore amici, ma per me lei e Liam erano esattamente dei fratelli, come zio Tomo e zia Vicky lo erano per la mia famiglia.
“Ottima festa, Leto”, mi disse abbracciandomi, con il solito sorriso smagliante. “Tuo padre sarà fiero del tuo lavoro”. 
“Grazie del tuo aiuto”, ridacchiai. Per quanto mio padre fosse  un festaiolo dubitai che, se fosse venuto a sapere di quella festa, sarebbe stato molto felice di suo figlio. 
Volteggiammo un po’ a ritmo di musica, finchè non so chi decise di allentare gli animi e mettere una cosa tranquilla, per le coppiette innamorate.
Lei si staccò dal mio collo, mi sorrise contro voglia e fermò il ballo, guardandomi. Sapevo cosa voleva da me… ma ovviamente non era possibile, sebbene mi dispiacesse da morire. 
“Non sarò mai abbastanza, vero?”, chiese con un sorriso ironico e triste, uno di quelli che ti fanno sentire in colpa per l’eternità. 
“Non é questo il problema, As, lo sai”, le dissi per la millesima volta. Perché proprio a me? “Potrei baciarti in qualsiasi momento e andarne orgoglioso perché sei una ragazza fantastica...”
“Allora fallo, dannazione!”, scoppiò, gracchiando per evitare di urlare, tornando tra le mie braccia con uno scatto e prendendomi il viso tra le mani. “Fallo e basta!”.
“Non posso”, l'allontanai un po’ cercando di non essere troppo rude, visto che le volevo bene comunque, anche se non come lei ora avrebbe voluto. “Sei come una sorella per me: sarebbe come vedere te e Liam mentre vi baciate”. Rabbrividii.
“Tu non sei mio fratello! I miei sono solo molto amici dei tuoi, ma non c'è nessun legame di sangue", fece la maestrina come suo solito, ma come sempre non poteva attaccare. “Anzi, ne sarebbero felici a vedere finalmente le famiglie unirsi”.
“Astrid..”, cercai di dirle, ma lei non accettò un no come risposta e mi baciò di colpo. Stupito, ci misi qualche secondo a capire, ma non risposi al bacio, anzi cercai di staccarmi prima di voler andare avanti. “Merda As, non farlo mai più!”.
“Perché?!”, gracchiò quasi in lacrime. Odiavo vederla stare così male, ma in fondo che potevo farci io?
“Perché è solo una delle tante cotte, lo sappiamo ben entrambi… Le feste non ci fanno bene a noi due", cercai di metterla sul ridere, provando a strapparle un sorriso. 
Lei tirò su col naso, s'allontanò e si guardò intorno, quasi confusa. 
“Lo credi davvero?”, chiese quasi convinta, ma sapevo che in realtà voleva farmi cedere. Ma non potevo, non con lei.
“Sono tuo fratello, Astrid”, l'ammonii cercando di farla ragionare una volta per tutte. Non avrebbe mai funzionato, si sapeva, e io non intenzionato a buttare una vita di amicizie per stare con lei un mese e poi farla soffrire. 
 
Bastardo, stronzo, coglione, traditore, imbecille, bugiardo. Una ripetizione che la mia testa mandava al cervello ogni secondo. E più andava avanti più la rabbia mi cresceva dentro, lasciando sparire la tristezza per qualche secondo.
Bastardo, stronzo, coglione, traditore, imbecille, bugiardo. Non potevo credere di essermi fidata così tanto di una persona del genere, di averci passato del tempo e avergli dato tutto ciò a cui tenevo di più. Come avevo fatto ad essere così cieca nei suoi confronti? 
Bastardo, stronzo, coglione, traditore, imbecille, bugiardo. E a causa sua avevo anche buttato nel cesso questi mesi e ora chi ne ripagava le conseguenze ero io. Come sempre. Come ogni santa cosa che mi succedeva nella vita. Perché ero così sfigata?!
Bastardo, stronzo, coglione, traditore, imbecille, bugiardo. Lui che mi aveva promesso tutto il meglio di cui seriamente avevo bisogno, si era fottuto due troie appena io mi sono allontanata. Che fedeltà, ragazzi, sul serio! Mai vista una cosa più squallida di così.
Bastardo, stronzo, coglione, traditore, imbecille, bugiardo. Lui e i suoi fottuti amichetti da quattro soldi di quella stupidissima band campata per aria potevano andare a fanculo. Tante e solo parole. Parole che nascondevano un animo marcio e schifoso. Fanculo! 
“Veronica”, mi chiamò Vicky dal muro della mia camera. “Stare lì sdraiata non aiuterà a stare meglio, fidati”.
“Vorrei solo che il letto mi inglobasse per sempre. Il mondo senza di me sarebbe molto più facile e molto più fico”, dissi senza paura delle sue reazioni riguardo la mia attuale stupidità. Infatti sbuffò, ma non me ne importò molto. 
“Veronica stai vaneggiando, ed è odioso quando lo fai, dai retta a me”, commentò lanciandomi un'occhiataccia. 
”Io credo di no”, commentai non muovendomi di un centimetro.
“Cazzo era solo un fottuto idiota, non cade il mondo, sai?. Vi siete mollati?! Meglio, il mondo sarà di nuovo ai tuoi piedi da single e quando troverai un ragazzo migliore glielo sbatterai in faccia con tutta la tua fantastica vendetta", mi fece l'occhiolino cercando di tirarmi su di morale e gesticolando per farmi capire meglio il messaggio. 
Ma lei non capiva. Come non capiva nessuno, se l’argomento ero io e i  miei problemi. L’unico con cui ero stata davvero e del tutto sincera si era andato a farsi fottere e non avevo intenzione di ripetere l’esperienza.
Non si trattava di avere un ragazzo in sé, non m’interessava niente di quello. Ero solo stufa di venir presa in giro da persone fidate. 
“Non è veramente per Jared, vero?”, mi sussurrò avvicinandosi e sedendosi di fianco a me. Mi tirai su e poggiai la schiena sulla testiera. Come faceva a leggermi la mente? 
“Perché tutti provano piacere a tradirmi o farmi del male?! Ho forse un tatuaggio in fronte che dice sono solo una povera pazza, fammi del male, è divertente da morire?”, chiesi guardandola dura. Non era giusto nei suoi confronti, perché non era colpa sua, ma ormai mi aspettavo che anche lei mi lasciasse sola. 
“Che tatuaggio enorme”, scherzò, ma poi tornò seria, vedendo che non ero molto in vena. “Ronnie, io e Andy ancora non l'abbiamo fatto”, commentò ancora con un piccolo sorriso fiero di sé. 
"No, non l'avete ancora fatto", ripetei senza sottolineare la parola ancora per farle capire che mi fidavo di lei. Sbagliavo, ormai avrei dovuto smettere di fidarmi delle persone, ma con lei non riuscivo ad essere razionale. Come con Andy era troppo affidabile per farmi dei dubbi reali e lasciarla andare. 
“Dovresti dirlo ad Andy”, disse porgendomi il telefono, che aveva suonato con la suoneria della mia migliore amica. E ora? 
“No. A Febbraio”, risposi sicura, trattenendo il suo sguardo truce di chi non accetta le tue decisioni. “Non posso farlo, Vicky… per lei”. 
Già, perché se le avessi detto tutta la verità si sarebbe preoccupata per nulla e non sarebbe andata a New York. Sarebbe andata in panico e avrebbe dimentica tutto il suo duro lavoro. No, non potevo permetterlo. 
Guardai il telefono, lo sbloccai e notai il messaggio che mi aveva mandato.
Salve... Ronnie ;) Come sta la mia sorellina innamorata? I Leto fanno i bravi?
Gli occhi, senza che ci potessi fare niente cominciarono a lacrimare e, tremando come una foglia, scrissi la bugia. 
Certo, bellezza! Mi sto divertendo un sacco come sempre :) ora sono a LA ma torneranno presto, mi chiama sempre. Aggiornami sul musical, voglio sapere ogni cosa!
Inviai lentamente il messaggio e tenni il telefono in mano, mentre Vicky andò a prendermi qualcosa da mangiare, sebbene alla fine riportava ogni cosa in cucina, arrabbiata con la sottoscritta.
 Ma poco dopo il diretto interessato della bugia mi chiamò. In effetti non era del tutto una bugia. Quel ragazzo non solo mi aveva pugnalata alle spalle, ma continuava a rigirare il coltello nella ferita mille e mille volte chiedendomi di parlargli. E il dolore che provavo mentre il mio cervello mi impediva di rispondere era esattamente quello del mio cuore che veniva piagato ogni secondo, da un vecchio coltello che girava e rigirava in esso. Un dolore atroce non bastava come definizione. 
Ma il mio cervello ebbe la meglio sul mio cuore distrutto e dolorante, così attaccai senza rispondere e spensi il telefono, per la milionesima volta. 
Basta, era ora di finirla. Quel giorno avrei chiuso la faccenda: avrei cambiato numero e telefono. Era ora di smetterla sul serio. 
 
Vicky credeva che non l'avessi visto chiamare la sua nuova fiamma dal bancone di quella stupida discoteca dove James faceva la sua festa di ventitré anni. Una scelta peggiore non poteva farla, quello stupido ragazzo, collega della mia amica. 
Lei credeva che, facendolo andare via immediatamente, io non mi sarei accorra di lui, che non mi si fosse fermato un battito e lo stesso coltello di tanti anni prima avesse ricominciato a girare dentro di lui. 
Ma aveva sbagliato, l'avevo visto e anche fin troppo bene. 
Strafottente come al solito, allegro e quasi ubriaco, con i capelli un pò lunghi e gli stessi occhioni azzurri che splendevano anche tra le luci abbaglianti della discoteca. 
Bello come sempre. 
E poi avevo capito chi fosse il mitico Tomo di cui Vicky era andata pazza. Ma come potevo accettare che la mia migliore amica s'innamorasse di un nuovo componente dei Thirty Seconds To Mars?! 
Avrei voluto arrabbiarmi con lei, con lui, con tutti. Avrei voluto darle della traditrice, avrei voluto tornare a New York.
Però non potevo. Perché non potevo dirle come vivere la sua vita, in primo luogo, e poi non l'avevo mai vista così presa e felice da quando si era trasferita.
In più avevo capito che lui, in qualche modo, aveva capito che c'entravo con il cantante, e prontamente l'aveva portato via, raccontando balle su balle. Potevo fidarmi? Sì, potevo fidarmi del croato che aveva affascinato Vicky. 
Lo seguii fuori e notai il nuovo membro della band parlare con lui. Aveva la testa abbassata e si muoveva lentamente, quasi  triste. 
Si voltò e io mi nascosi in fretta dentro il locale scuro. No, non avrei ricominciato a vederlo come un tempo. La mia sanità mentale non l’avrebbe accettato ancora. Portavo ancora evidenti segni fisici di quella rottura. Per non parlare di quelli psichici. 
Così tornai da Vicky e cominciai a ballare con lei. Non avevo bisogno di lui, me la sarei cavata da sola o avrei trovato qualcun altro. Qualcuno migliore di quello stronzo. Con lui non avrei mai più avuto a che fare. 
 
“E poi sono nato io”, scherzai con mia madre mentre preparavamo una torta per zio Shannon con tutta la famiglia. Zio Tomo aveva reclutato tutti in cucina. 
“La vita non va mai come la si programma”, disse lei guardando papà imbambolata con un sorrisone mentre lui imbrattava di farina Tomo. 
Quasi sessant'anni e sono ancora tutti e tre così. Erano assurdamente dei grandi!
Ridacchiai e continuai il mio lavoro. Aveva ragione, niente va mai come si decide. Puoi ribellarti quanto vuoi ma alle perdi sempre. La vita fa quel che le pare e i miei ne erano la prova. 
Mio padre lasciò il lavoro a Tomo e andò a prendere in braccio mia madre per farle il solletico. Risero e con loro scoppiamo tutti in una risata enorme. 
Erano fatti così, ragazzini fino alla fine. 
“Uffa la mia torta!”, si lamentò Tomo alla fine ridendo con tutti.


.....
Note dell'Autrice:
Ed eccoci quaaaaa. Si è triste questo capitolo, scusatemi. Ma in questo periodo sono un pò giù, quindi ci sta. MA.... fuck all world, la vita va avanti e io vi voglio tanto bene. 
Vorrei dire solo GRAZIE a quelle, ormai, poche decine di persone che mi seguono (ma meglio pochi ma buoni) e quelle sante due ragazze che recensiscono (con con che magnifiche recensioni lo fanno!) ogni santa volta.
Siamo al penultimo capitolo prima della fine senza contare l'epilogo, quindi dopo questo ci saranno solo altri 2 aggiornamenti..

ma non pensate che io me ne vada! Tornerò, con una storia completamente diversa e nuova ma  tornerò.
Mi mancheranno tutti questi personaggi, forse è per quello che ritardo ad aggiornare. Non voglio lasciarli.
Bè,... ora mi sto zitta e vado, va!
Grazie a tutte/i di cuore.
Ronnie02

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Capitolo 10
*** I Know Who I Am ***


Ok vediamo se riuscite a capire questi due ricordi. Sono estremamente importanti per me, soprattutto il secondo (che è anche importante per la storia in generale :D)
1. scusate per il ritardo ma ieri mi sono addormentata due volte in classe, una volta sul pullman, una volta mentre studiavo e appena sono riuscita a liberarmi ho dormito xD La scuola mi uccide, SALVATEMI!
2. ora sono qui quindi eccovi il capitolo
Spero vi piaccia.
Buona lettura




Chapter 9. I know who I am




 
I surrender.
Questa frase ormai era diventata la mia fissa ed era orribile, davvero. Come riuscissi ad andare avanti ancora come un tempo non lo sapevo; era come vivere in un’altra persona, di cui non sai nulla, e magari nemmeno ti importa.
Forse l’unica cosa che mi spingeva a vivere era quello che tutti definivano amore. Ma amore per chi?
Per la vita? No. Per la mia famiglia? Non era vero. Per  Colin?
Non che non l’amassi, anzi. Quando mia sorella mi aveva fatto visita l’ultima volta, le avevo detto che mi sarebbe tanto piaciuto sposarlo.
Ma non era affatto la pura verità: sognavo davvero di vestirmi di bianco, tutto pizzi e lustrini e camminare verso di lui, bello come il sole in smoking.
Però era solo uno degli innumerevoli modi di accontentare tutti gli altri tranne che me stessa. Io in realtà stavo morendo pian piano, giorno dopo giorno, marcendo nell’anima e guandando gli altri riuscire in tutto ciò che desideravano, al contrario mio.
Io che stavo qui a fare?
“Hey baby”, mi chiamò Colin, capendo che ero sveglia. Si avvicinò tra le coperte bianche e sentii il suo corpo caldo schiacciarsi contro il mio.
Mi strinsi alle lenzuola, come se fossero il mio unico appiglio, e chiusi gli occhi tanto fortemente da farmi male. Lui non doveva scendere nel baratro con me; lui era bravo, talentuoso, si sarebbe di certo fatto una bella vita come tutti. Non potevo trascinarlo nel buio.
“Hey”, cercai di dire con voce strozzata. Inutile che continuassi a fingere, sapevo da come si comportava che qualcosa l’aveva già intuito. Ma questo non cambiava le cose.
“Come stai oggi? Ti va di uscire un po’?”, mi chiese cercando di farmi stare meglio, come ogni giorno.
“C’è brutto tempo”, dissi senza nemmeno controllare fuori dalla finestra. Ma intendevo davvero parlare di questo?
“Fuori o dentro la tua testa?”, indovinò lui, facendomi capire che sapeva più di quanto avrebbe dovuto. Cercò di stringermi ancora di più contro di lui, in un caldo abbraccio, ma mi divincolai per restare libera e riuscire a respirare.
Era da un po’ che toccarci era diventata una rarità. Sentirlo vicino mi faceva piacere, mi risollevava l’animo, ma appena sentivo le sue mani cercare il mio corpo i brividi cominciavano ad impossessarsi della mia pelle e della mia mente.
Stavo dimagrendo a vista d’occhio, farmi toccare e fargli sentire con evidenza cosa stavo diventando era come ammettere di avere un problema. Un problema che ero convinta di non avere.
“Non c’è niente che non vada nella mia testa”, ribattei convinta girandomi sul suo lato, lontana qualche centimetro. Vidi i suoi occhi scuri cercare una risposta veritiera nei miei, altrettanto marroni, ma nessuna risposta degna della sua attenzione.
“Io invece non la penso così. Almeno da quando tua sorella ha deciso di trasferirsi di nuovo da Veronica”, mi ricordò e io mi rabbuiai, allontanandomi ancora e guardandolo bieca. Non avrebbe dovuto dirlo, era una brutta mossa da parte sua. Il discorso di mia sorella e dalla sua amica non doveva essere portato a galla. Mai.
“Non è vero!”.
“Ammettilo Lucy, sei gelosa marcia perché ha una vita più avvincente della tua”, disse cercando di non avere un tono troppo perfido. Poi continuò, più dolce. “Ma non è vero! Ha solo vissuto in posti diversi, non c’è questa grande differenza tra voi”.
“Lei ha viaggiato, mentre io sono sempre stata rinchiusa qui. Ecco la differenza!”, dissi sprezzante come un tempo, anche se me ne pentii un secondo dopo, vedendo il suo volto intristirsi e i suoi occhi abbassarsi a causa di un insulto non voluto.
“Non credevo di averti obbligata a rinchiuderti quando accettasti la mia proposta di venire a vivere insieme a me”, mi lasciò vuota dentro, evitandomi con i suoi occhi abbassati.
Ad un tratto sospirò e si staccò completamente da me, mettendosi seduto e guardando il probabile sole fuori dalla finestra.
Orribile sole: lo odiavo. Era solo una stupida palla di fuoco che ispirava troppa felicità.
“Credi che ti deciderai mai ad uscire da questa casa?”, mi domandò di punto in bianco, dopo almeno cinque minuti di silenzio da parte di entrambi, in cui si limitò a non guardarmi. Fissava il vuoto, sulla finestra, senza dare segno di qualsiasi emozione.
E io? Cosa provavo in quel momento?
Avrei voluto alzarmi dal letto, guardare insieme il sole e chiedergli di uscire ancora, per poi assicurargli che tutto sarebbe andato bene e che volevo migliorare.
Ma poi ripensai alla sua domanda: volevo uscire da quella casa?
“Non lo so…”, sussurrai. Abbassai gli occhi sulle coperte, quelle coperte che raramente abbandonavo. Uscivo dal letto solo per mangiare e andare in bagno, oppure mi mettevo seduta sul divano, impassibile, facendo finta di leggere un libro.
Odiavo leggere: tutti i personaggi, alla fine, sebbene fossero anche i più sfigati del mondo, trovavano la speranza, la forza e soprattutto la fortuna per andare avanti e avere il loro lieto fine.
Leggere era peggio che vedere il mondo andare avanti felice, al contrario mio, perché perfino le persone inventate avevano più fortuna di me.
“Io non ti lascerò per una stupida depressione, Lucy”, cominciò di nuovo Colin, girandosi e guardandomi seduta sul letto, attaccata alle lenzuola.
“Non sono depressa”, commentai, ma lui non mi sentii nemmeno, o forse non volle farlo.
“Ma tu non sei la ragazza di cui mi sono innamorato perdutamente anni fa e per cui ho lottato, anche nel vero senso della parola”, continuò, ricordandomi quel ballo di Halloween della cittadina finito a botte tra Colin, Brad e per un momento anche dal ragazzo dell’amica di Vicky. Lo capivo, ma non riuscivo a farci nulla. “Lo sai? Mi manca quella ragazza, anche perché stravedevo per lei, era il mio tutto. Era divertente, rompiscatole e parecchio maliziosa. Però con me era tanto dolce e amorevole, sebbene gli stupidi anni che ci separavano”.
“Sono ancora qui”, piagnucolai. Anche a me mancava la vera me stessa, quella ragazza che lui amava tanto e che dal sentirlo parlare sembrava scomparsa. Mi ritrovai ad essere gelosa marcia della ragazza che descriveva, tanto vivevo come un’altra persona.
“No, non del tutto, Lucy. Quella ragazza c’è ancora, so che c’è, dentro di te, ma non le permetti mai di portarla da me. La rinchiudi, la soffochi e la uccidi sotto il tuo insensato dolore e non la fai mai vivere al posto di quella te che ora ti sta portando nel buio”, mi spiegò. Avrei dovuto capirlo prima che lui ormai ci era arrivato, ed ora era oltre l’ovvio.
“Prima hai detto che non mi avresti lasciato”, ricordai cercando di trattenere le lacrime.
“Infatti voglio portarti da uno specialista. Mia madre conosce questo tipo che…”.
“Chi? Specialista?! Toglitelo dalla mente, Colin! E poi che vuoi dire? Hai spifferato a tua madre che… che non sto bene da un po’ di tempo?!”, urlai scioccata. Come si era permesso di farlo?
“Tu sei malata, Lucy, non è che non stai bene! E non è da un po’ di tempo, ma da quasi due anni, e lo sai benissimo”, cercò di farmi ragionare. “Sei depressa e lo capisco, quindi cerca di aiutarmi. Possiamo farcela insieme, non devi tenerti tutto dentro”.
Non potevo crederci, come poteva dire certe cose?!
Ero scioccata, scuotevo la testa a scatti e mi guardavo intorno, cercando di fare qualcosa. Così mi alzai e cominciai a vestirmi, mentre lui mi guardava stupito.
“Io… non sono… malata. Io… io…”.
“Tu lo sei, invece, ed è per questo che non sai come ribattere. Capisci che ho pienamente ragione”, disse venendomi incontro. Oh, Colin, perché mi sento così morta dentro da non sentirmi nemmeno alla tua altezza?
“No, smettila!”, urlai impazzita ancora una volta.
“Lucy, può succedere. Guarirai e staremo tutti meglio”, mi sussurrò piano per calmarmi, ma appena provò ad abbracciami scoppiai.
“No. No, Colin, no”, dissi voltandomi di scatto per prendere una valigia e infilarci dentro tutto ciò che trovavo nel mio armadio.
“E ora che fai?”, mi chiese cercando di fermarmi. Ma più le sue mani toccavano le mie, più andavo svelta, comandata da una stupida paura.
“Vado a casa, Colin”, sussurrai. “Ho bisogno di spazio per respirare”.
Gli presi veloce il viso e, senza provare a scappare, gli diedi una bacio veloce, piangendo. Mi dispiace Colin, davvero.
 
“Non sapevo che zia Vicky avesse una sorella”, dissi curioso.
Mia madre stava toccando una foto di tanto tempo prima, dove lei e Vicky, entrambe sui vent’anni o meno, stavano festeggiando Halloween. Dietro di loro, con un ragazzone che sembrava quasi un armadio, c’era la ragazza di cui mamma aveva deciso di parlarmi.
“Non vuole farsi vedere molto. Ma ora sta bene e ha un bimbo di cinque anni che è una meraviglia”, mi rivelò sorridendo.
“Con Colin?”, chiesi io.
“No, lui si è sposato due anni dopo di me e tuo padre con la ragazza che ha conosciuto dopo Lucy, ma non l’ho più sentito dal matrimonio”, mi rispose ambigua, lasciando cadere il discorso.
“Quindi che successe alla sorella di zia Vicky?”, domandai sempre più curioso.
“Arrivò per il momento in cui ritornarono a splendere i raggi del Sole”, sorrise. Ed ero certo che intendesse ripetere il titolo del suo vecchio secondo album, Sunshine.
 
‘I surrender’ormai era solo un ricordo. Chiusi gli occhi e respirai forte, prendendo più aria possibile da trasmettere ai miei polmoni.
Tre… due… uno…
Aprii gli occhi di nuovo e guardai davanti a me. La strada asfaltata mi circondava, con i suoi marciapiedi e qualche alberello intorno per renderla più sana.
Wow, stavo davvero camminando il giro per Bossier City! Erano passati almeno cinque anni da quando l’avevo fatto per l’ultima volta. Cinque anni da quando ero entrata, distrutta e anoressica, in quello stupidissimo centro di recupero che, in fondo, mi aveva aiutato a salvarmi. Ma ora ero uscita.
Respirai di nuovo.
Oh, era un giorno di sole, un bellissimo sole caldo che trapassava la mia pelle più resistente e il mio corpo quasi normale per arrivare fino alle fragili ossa. Era bellissimo.
“Tesoro mio!”, urlò mia madre vedendomi davanti alla macchina. Macchina… avevano cambiato auto in questi anni per caso?!
Sorrisi e corsi ad abbracciarla. Ronnie aveva ragione, totalmente ragione: c’era sempre qualcosa o qualcuno per cui lottare.
“Oh tesoro”, mi disse mio padre sorridendomi e aspettando il suo turno per stringermi forte. Ma mancava qualcuno…
“Vicky?”, chiesi senza pensare. Forse aveva impegni, o doveva tenere a bada la sua famiglia…
“Non è potuta venire, ma dice che ti manda un superabbraccio e il regalo che c’è in macchina”, mi fece l’occhiolino mia madre. Allora non si era dimenticata di me. E regalo? …che aveva fatto quella pazza di mia sorella?
Lasciai che entrambi mi avessero stretto abbastanza e poi salimmo tutti in auto per tornare a casa. Casa mia, quella vera, quella che non vedevo da almeno sette anni, quella che mi era mancata da morire.
Mi sedetti e di fianco a me, sui sedili posteriori, c’era un album fotografico e un biglietto.
Bentornata alla vita!, diceva l’evidente scrittura di Vicky, con la sua firma e quella di tutti i suoi amici. Vicino ai nomi di mia sorella e Tomo c’erano due manine verdi, nominate Astrid e Liam. Avevano avuto un secondo figlio? Oppure quella pazza aveva sfornato due gemelli?
Invece sotto le firme di Ronnie e Jared c’era una sola manina blu, che portava il nome di Jeremy. Dopo di loro le firme di Shannon e una certa Andy, senza nessuna manina in giro.
Sorrisi e rimisi il biglietto al suo posto, prendendo in mano l’album mentre mio padre sfrecciava per le vie di Bossier City.
La prima foto era di Vicky che mi faceva la linguaccia, con gli occhi storti e i palmi aperti di fianco alle orecchie. Scoppiai a ridere. Di fianco a Vicky c’era poi Ronnie con una faccia da te l’avevo detto, che mi salutava con la mano, sorridendo. Sotto di loro, sulla carta, la scritta ‘You find the reason’.
Dopo la prima c’era una montagna di foto, tutte di loro insieme oppure singole: Vicky appena sveglia, Tomo che suona la chitarra, entrambi con i loro figli mentre cercano di farli mangiare (erano identici quindi dovevano essere gemelli), i piccoli che giocavano. Oppure i concerti di Ronnie, quelli dei Mars, alcuni Meet&Greet, Ronnie che gioca con un bimbo e un gattino marroncino, color sabbia, Jared che fa l’idiota con Shannon. E ancora Vicky, Ronnie e una ragazza (la stessa Andy del biglietto) che scherzano, Ronnie e Andy che si abbracciano, Shannon che bacia la ragazza e lui infradiciato nella piscina della loro casa. Foto dei bambini, delle due gravidanze, dei matrimoni…
Era un album così perfetto che arrivati a casa, dovetti chiudere gli occhi e trattenere le lacrime. Me lo strinsi contro e uscii dall’auto.
Ciao casa. Lucy è tornata, sei contenta? Hai visto che bel regalo? Vicky è pazza….
 
Controllai la prima foto dell’album che stavo sfogliando e che avevo preso quel pomeriggio per guardarlo con tutta la famiglia. Le smorfie di zia Vicky e la faccia di mia madre abbellivano la scritta ‘You find the reason’.
“Non l’ha tenuto?”, chiesi scioccato.
“L’ha fatto per parecchi anni, ma poi decise di riconsegnarcelo. Voleva che fosse un regalo anche per voi e ormai lei aveva visto quelle foto così tante volte da averle impresse nella sua mente”, mi spiegò Vicky con un sorriso, magari pensando a sua sorella.
“Tornò mai in clinica?”, domandai.
“No, rimase sempre sana”, rispose fiera. “Ricominciò a studiare e incontrò Dan, suo marito e padre del suo bimbo. Stanno ancora  a Bossier City, perché in fondo quella è la sua vera casa”.
“Il perfetto lieto fine”, sussurrai.
“Così sembra”, sorrise lei coccolando quella stupida gatta di Sandy. Un piccolo ciuffo scuro le cadde sugli occhi e un  gran sorriso si stampò sul suo viso.
 
Seduta sul letto stavo per cadere nel vuoto. Di nuovo.
La musica mi riempiva il cervello così violentemente che prima o poi sia lo stereo che la mia testa sarebbe scoppiata. La mia mano si chiuse a pugno e mi impedivano di fare pazzie mentre mia madre, per l’ennesima volta litigava con mio padre.
Urla che superavano lo stereo, già al massimo, e che ovviamente tutto il vicinato avrebbe sentito, ingombrarono la mia testa.
Ma i vicini sentivano le vere parole, per lo meno, i veri insulti che si lanciavano tra di loro come se si odiassero da una vita. Io invece ero costretta a impazzire, sentendo quei toni vocali cambiare e diventare pian piano sussurri maniacali che dicevano il mio nome, accompagnato a orribili accuse.
Avevo spento il telefono. L’avevo nascosto. Mi ero fottuta il cervello con la musica talmente alta per ore che avevo dimenticato dove l’avevo messo.
Missione considerata compiuta.
Non potevo permettere a me stessa di contattare nessuno. Nemmeno Andy o Marco.
Dovevo proteggerli, quindi dovevo occuparmene io. Da sola. Come sempre.
Un attimo di vuoto, cambio della canzone. Un tintinnio di pianoforte cominciò a crescere dentro le casse del mio stereo che chiedeva pietà da quanto era alto il volume.
Riconobbi subito la canzone e sapevo l’effetto che aveva su di me in questi momenti.
Il tintinnio continuò a diventare sempre più potente, fino a che arrivarono le chitarre elettriche e la batteria a tenergli compagnia. Il mio cuore scoppiò a ritmo della musica e il respiro si fece affannoso.
L’apatia conquistata con tanta fatica nelle ultime due ore si andò a benedire e, senza rendermene conto, ero in piedi.
Non ero una debole, ero cattiva e sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare per questo.
Mi mossi a tempo di batteria, come se l’orologio andasse a tempo della musica e il resto fosse al rallentatore. Andai verso la porta, presi la maniglia in mano e cominciai piano ad aprirla.
Farlo avrebbe scatenato la guerra. E io ero pronta ad essere chiamata alle armi. Non potevano continuare così, ne avevo sentite troppe e quelle voci che cambiavano mi stavano facendo diventare matta. Sarei andata in battaglia.
“Finitela!”, urlai uscendo dalla mia camera. Ero arrabbiata, delusa, sfinita. Volevo smetterla con questa storia.
 
“Vedrai che tutto andrà per il meglio”, mi disse mia nonna dopo qualche giorno dal mio trasferimento. Ero stesa sul letto a guardare il soffitto marrone a cassoni della mia nuova stanza.
“Troppa gente me l’ha promesso”, risposi evitando di guardarla. Sapevo che era di fianco a me, seduta sulle coperte e mi guardava compassionevole. Ma non riuscivo a voltarmi per ricambiare lo sguardo.
“Cosa ci faceva qui papà quando sono arrivata?”, mi venne di nuovo in mente.
“Mi parlava del divorzio e del trasferimento. Quando tu cambierai casa a tua volta – perché tutti sappiamo che accadrà – vorrebbe che cambiassi casa per stare con lui”, mi spiegò.
“Addirittura”, commentai ironica.
“E’ mio figlio”, si giustificò, segno che avrebbe fatto ciò che mio padre le chiedeva.
“Ed è anche mio padre, ma nessuno dice che lo perdonerò per quello che entrambi mi hanno fatto”, risposi apatica.
“E lui non si aspetta che tu lo faccia”, mi sorprese. Mi misi seduta e alzai un sopracciglio. “Ha detto che se vorrai sparirà dalla tua vita e attenderà che tu sia pronta”.
“Allora puoi digli che può scomparire”, risposi di botto, senza nemmeno prendere in considerazione la cosa.
“Tra qualche anno non la penserai così”, mi disse dolce, cercando di farmi cambiare idea.
“Vedrai che tra qualche anno la penserò allo stesso modo”, risposi guardandola alzarsi e sorridere come per scusarsi. E scusarsi di che? Lei era l’unica persona sana in quella famiglia di matti, me compresa.
“Nonna”, la richiamai un secondo prima che uscisse dalla mia nuova stanza.
“Sì, tesoro?”, mi chiese voltandosi.
“Tu pensi che io sia…”, cominciai, ma poi un ricordò mi fermò. Io, ferma sul letto, che giuravo a me stessa di farcela da sola. “Che io sia in grado di perdonare i miei?”.
Sapevo la risposta alla mia domanda, perché era no, e nemmeno voglio, ma dovevo sviare la richiesta precendente. Non potevo rivelarle che credevo di essere pazza. Quella realtà sarebbe morta con me. Nessuno l’avrebbe saputo. Nessuno.
Mia nonna si morse il labbro e così io mi voltai. Lei non sapeva ciò che era successo, mi avrebbe risposto di sì. Così capii che non volevo sentire davvero la risposta e se ne andò.
Quando fui da sola mi alzai e andai alla finestra, dove sul davanzale troneggiava in bella vista una lettera.
Nonna l’aveva appoggiata lì appena era arrivata nella mia camera da letto, nella speranza che mi sarei affacciata per pensare a cosa mi aveva detto.
Presi la lettera evitando di darmi comunque ragione, perché sapevo che mai li avrei perdonati. Ne ora, ne tra qualche anno, ne mai.
La girai in mano e vidi il mio nome come destinatario e quello di mio fratello come mittente. Marco mi aveva mandato una lettera, datata di qualche giorno fa. Perché?
Un colpo al cuore mi colpì mentre leggevo il suo nome e il mio, troppo vicini mentre noi eravamo così distanti.
 
Cara Veronica,
ho saputo della tua nuova avventura e della tua nuova ‘casa’. Mamma mi ha detto ciò che hai combinato e in realtà la cosa non mi stupisce molto. Sapevo che prima o poi l’avresti fatto, tutt’al più ora che eri in quella casa da sola.
Cosa ne penso? Non  lo so.
Sento che l’hai fatto per lo stesso motivo per cui me ne sono andato io anni fa e quindi non posso giudicarti.
Ma non pensare di non poter riallacciare mai più i rapporti perché è stupido e infantile, e so quanto a te dia fastidio che qualcuno ti attribuisca questi aggettivi. Ma è così, perché tutti noi, prima o poi, che ci piaccia o meno, abbiamo bisogno dei nostri genitori.
Non si possono rimpiazzare, non si possono dimenticare… per sfortuna o fortuna, decidi tu.
Prima o poi te ne accorgerai.
Marco.
 
Finii di leggere con le lacrime agli occhi. Per quanto mi comprendesse mi stava giudicando. Anche lui, il mio unico appoggio in questi anni.
Era come se stessi scalando una montagna e dopo quello che era successo con i miei avevo fatto una caduta quasi mortale.
Poi però ero riuscita a risalire un po’, con fatica e dolori solo miei. Ma ancora una volta, in quel momento, con in mano quella lettera, era come se fossi caduta di nuovo.
“No, tu non sai niente”, sussurrai guardandomi il polso ancora fasciato.
Lui non poteva capire, sapere o comprendere. Lui era lontano, non aveva vissuto con loro come me, negli ultimi anni. Lui non moriva ogni volta che i loro urli di tramutavano nel suo nome.
 
“Devi stare tranquilla, Ron”, sentii sussurrare da papà.
Erano in camera loro da qualche ora, dopo che mamma era scappata lì dentro con un’espressione strana.
Era stato un attimo.
Qualcuno aveva telefonato e io – che ora avevo la fissa del ‘magico telefono’ – avevo risposto. Una voce anziana aveva chiesto chi fossi e le avevo detto, anonimo, Casa Leto.
Un sussurro di sollievo che non avevo capito e vidi mia madre correre verso di me, staccandomi la mano dal telefono. Mio padre mi aveva preso in braccio e mi aveva portato in camera mia, dicendomi che andava tutto bene e mi aveva passato alcuni miei giochi.
Poi era tornato da mamma, che stava gridando nel soggiorno, e alla fine erano andati in camera, dove ora sentivo la mamma piangere.
“Le piace rovinarmi la vita, vero? E ora vuole distruggere anche quella di Jeremy”, la sentii mugolare con il fiato rotto dal pianto. Mi sedetti contro la porta per non fare rumore. Ero piccolo, non mi avrebbero né visto né sentito.
“Non lo toccherà, Ronnie. Non lo vedrà nemmeno, a meno che non lo permetta tu”, sentii papà consolarla. Ma chi era quella donna anziana che aveva chiamato? Che voleva da me? Perché aveva fatto piangere mamma?
“Non avrebbe nemmeno dovuto sapere della sua esistenza! Chi è stato a dirgli di Jeremy?!”, gracchiò scioccata.
“Ronnie, siamo rockstar. Basta una foto di Jeremy al nostro fianco o del nostro matrimonio. E poi tutti gli Echelon sanno di nostro figlio”, le disse papà dolce, cercando di farla ragionare.
“Hai ragione, devo calmarmi. Ma non volevo che lo venisse a sapere, non volevo che tornasse ancora”, singhiozzò mia mamma. “Ha rovinato me, non permetterò a nessuno di torturare mio figlio nello stesso modo”.
Torturare? Rovinare? Chi era quella donna?
Nella mia curiosità avrei voluto richiamare quel numero, ma mamma era ossessionata dal pensiero che non la dovessi conoscere e non volevo che piangesse ancora.
“Lo difenderemo anche con i denti, Ronnie. Non le permetterò  di avvicinarsi, lo sai”, sentii la voce decisa di mio padre. “E’ la nostra possibilità sempre sognata, la nostra cura. Nessuno potrà fargli del male finchè io sono qui”.
Mia madre non rispose e io colsi l’occasione di alzarmi e mettermi sulle punte per afferrare la maniglia. Entrai nella loro camera li guardai abbracciati, mamma con le guance e gli occhi rossi di pianto.
“Jeremy”, mi chiamò papà, alzandosi in piedi e prendendomi in bracco, con un sorriso tirato. “Cosa ci fai qui? Gli incubi fanno i cattivi?”.
“Voglio solo stare con voi”, sussurrai stringendomi al suo collo.
“Per l’età che hai sei il miglior figlio del mondo”, disse mia madre sorridendo davvero e asciugandosi gli occhi con le mani.
Mamma mi abbracciò forte e papà strinse tutti e due. Era una bella sensazione. Sensazione di casa, di amore.


....
Note dell'Autrice:
La canzone che fa scattare Ronnie è NIGHTMARE, degli Avenged Sevenfold (i miei amati dopo i Mars e i The Pretty Reckless). Da una carica assurda, se non l'avete mai sentita fatelo... ecco perchè lei impazzisce. Lo faccio anche io (e qui notiamo quanto di me potete trovare in Ronnie, oltre al nome ovviamente).
Riguardo Lucy... be a volte mi sento anche io depressa, non a questi livelli, ma volevo esplorare un pò il campo che già avevo mostrato nella vera storia. Nella prima parte Lucy era la stronzetta di turno, nella seconda era la sorella disastrata di Vicky. qui la troviamo a metà e mi piace da morire :)

Infine... be nulla spero vi sia piaciuto.
Un bacio, Ronnie02

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Capitolo 11
*** Babies grow up some babies ***


Allora gente (sono con il solito ritardo, ma va bè, perdonatemi). QUESTO E' L'ULTIMO CAPITOLO PRIMA DELL'EPILOGO. Lasciatemi piangere a dovere.... *soffia nel fazzoletto*

O madonna santa, quante ne abbiamo passate. Va bè, non deprimiamoci, che abbiamo ancora un aggiornamento :)

Questo è il capitolo più bello e divertente a parere mio, per questo l'ho tenuto per ultimo.

Per il resto dei commenti ci vediamo in basso. Buona lettura dolcezze





Chapter 11. Babies grow up some babies



 



Odiavo queste situazioni. 
Perchè dovevano capitare tutte a me?! 
Ronnie e Jared erano ancora in tour a farsi gli affaracci loro mentre Shannon e Andy oggi avevano deciso di andare a Malibù per una bella gita al mare. Maledetti loro e i loro stupidi pomeriggi da soli!
E io? Io dovevo soffrire come un cane, in una sterile stanzetta anonima con attorno una valanga di medici e dottori a guardarmi proprio dove non avrei mai voluto che mi guardassero. 
Ok, era una cosa ovvia visto cosa stavo facendo, ma mi faceva comunque abbastanza senso, non l’avevo mai sopportato. 
L'unica nota positiva era che Tomo, quel santo di mio marito, era con me, anche se a volte se la filava in bagno a lavarsi la faccia in modo da riprendersi decentemente. Ero seriamente così orrenda?!
Maledetti gemelli che avevano voglia di uscire! Non potevano starsene al caldo, dentro di me, ancora per un bel pò?!
“Signora, spinga di nuovo”, mi avvisò quel simpaticissimo medico del cazzo, guardandomi un secondo. Ah, la faceva facile lui! Vaffanculo, non doveva tirare fuori un coso enorme da una cosina minuscola! 
Neppure dei nomi decenti mi venivano in mente per metaforizzare la cosa... che merda! 
Alla fine feci come diceva, cominciai a spingere e mi convinsi. Qualche ora e sarebbe tutto finito. Ovvio; avrei solo dovuto portarmeli a casa e crescerli. 
Solo… O merda!
Ma non l'avevo sempre sognato?! In più con due gemelli mi sarei scordata un'altra gravidanza. E quindi sarebbe stata l'unica e ultima volta per fare quest’esperienza, per poi essere libera. 
Piagnistei, pannolini, notti insonni, pappine... chissene frega, li preferivo mille volte a questo.
“Vicky, dai! Sono qui vicino a te”, arrivò Tomo tutto affannato e gli presi la mano, stritolandola amorevolmente. Forse l’idea di tornare in bagno gli tornò in mente visto che lo vidi sbiancare e mi venne da ridere. 
Lui soffriva?! E io no, vero?
“Forza, sta uscendo”, disse sollevato il dottore, come se mi avesse detto che sarebbe finita presto. Sì, sta uscendo… il primo. E chissà quanto avrei dovuto aspettare per la seconda. O porca merda!
Grazie al cazzo, dottore, ne manca ancora una e quindi non siamo nemmeno a metà!
“Forza Vicky, ce l'hai quasi fatta!”, esultò Tomo. Era proprio il quasi che mi fotteva. Secondo me tutti mi stavano prendendo in giro e si godevano le loro stupidissime battutine squallide. 
Ma almeno, settantasette secondi dopo, contati con i rispettivi piccoli respiri, il dolore se ne andò di fretta esattamente come era arrivato, lasciandomi stanca morta. Era finita… per ora.
“Vedo che ha voglia di cantare”, scherzò Tomo appena un urlo squarciò il silenzio della stanza. Oh piccolino, i polmoni imparerai ad apprezzarli anche tu. 
“Allora lo dovremmo chiamare Jared II” , ridacchiai io, stanca, mentre vedevo l'ostetrica passarmi il mio primo figlio. 
“Non osare”, fece l'offeso mio marito, per poi sorridere guardando il bambino venir posto tra le mie braccia. Era così paterno… l’avevo sempre immaginato in queste vesti ma vederlo dal vivo era bellissimo.
Il piccolo mi guardò e smise di piangere. Guardò Tomo e fece un piccolo sorriso. Era bellissimo: un piccolo ammasso di pelle, ciccia e faccia che mi guardava con due occhioni scuri da cerbiatto. 
"Liam sarebbe perfetto", dissi io. 
"Oh, Nikola mi piacerebbe chiamarti, piccolo", mi sovrappose lui. 
"Nikola?!", mi stupii io. 
"Liam?", ripeté lui. 
"Entrambi?!", ridacchiò la donna mentre si avvicinava di nuovo, riprendendosi mio figlio per portarlo a pulire. Lo salutai stanca con la mano e lui chiuse gli occhi. 
"Liam Nikola Milicevic?", chiesi io. 
"Americano e croato", sorrise mio marito mentre mi vestivano e mi riportavano in stanza, mentre attendevano che la piccola decidesse di seguire le orme del fratello. 
Sarebbe stata una lunga giornata quella, e di sicuro me la sarei ricordata per il resto della mia esistenza.
 
Lui nacque a mezzogiorno esatto del 9 settembre. Lei a mezzanotte precisa dello stesso giorno. 
Un minuto in più e sarebbero nati in due giorno diversi. 
I medici ci speravano davvero quando entrai in sala parto quasi di notte: sarebbe stata la prima volta dopo più di trent'anni, a quanto mi avevano detto. 
Ma io non avevo accettato. Loro non erano nati in giorni diversi e io sarei rimasta sulla verità. Così avevo detto di tenere la stessa data e le ore precise: 12.00 e 24.00. 
Maschio e femmina, giornaliero e notturna, lui si era subito addormentato e lei aveva fatto mille pianti mentre veniva portata a pulirsi e vestirsi con la tutina bianca che mettevano a tutti. 
Era un segno? Probabile, ma mi sarebbe piaciuto scoprirlo da sola quando sarebbero cresciuti. 
Andy e Shan vennero a trovarci il giorno dopo il parto e appena li videro ebbero la mia stessa espressione. 
Nella culla dove spuntava il nome di Liam Nikola c'era un bimbo sorridente e calmo, mentre in quella di Astrid Kim c'era una bimba che cercava una via d'uscita e si muoveva sulle copertine. 
“Non chiedetemi aiuto quando quella sarà adolescente”, commentò Shannon facendomi scoppiare a ridere. “Ho già paura ora al pensiero”.
"Sempre il solito cretino", commentò Andy scuotendo la testa e facendo ridere tutti. 
Tomo fu il primo a smettere e cominciò a guardare Astrid muovere le manine dentro la sua culla, cercando di acchiappare qualcosa per evadere. Sapevo che aveva una voglia spassionata di prenderli in braccio ma per ora dovevano restare da soli per dormire. 
“Ronnie ha chiamato stamattina presto”, ci avvisò Shannon dopo ancora qualche battutina sui miei piccoli, alle quali, da brava madre, ho attaccato. “Dice che partiranno appena finisce il concerto. Vogliono vederli immediatamente”.
“E non sia mai che qualcuno non faccia ciò che dice”, rise la sua ragazza, da brava migliore amica qual’era. 
"Ma dai!", la fermò Tomo con una sberla leggera sul braccio, facendo attenzione a non farle male, pena una rissa con il batterista geloso. 
Ronnie. 
In un certo senso non volevo farle vedere i miei figli. Non perché fossi arrabbiata con lei o la odiassi… mai pensato a questo. Più per il suo bene che per altro.
Avevo paura che tornasse di nuovo nel buio che aveva appena passato grazie al tour e alla proposta di Jared a Londra. 
Jared.
Quel pazzo scatenato alla fine era riuscito a sposarsela. La cosa assurda era che per primo aveva chiesto consiglio a Shannon. Cioè... Shannon! 
Certo, era suo fratello e avevano una così strana relazione loro due… ma non mi sarei mai aspettata che, soprattutto, lui indovinasse un consiglio così fuori luogo per le sue esperienze. Prima che incontrasse Andy, le parole Shannon e matrimonio non comparivano mai nella stessa frase.
Però alla fine Jared ce l'aveva fatta a chiederglielo e lei, mi pare ovvio, aveva accettato. Cavolo, se aveva accettato, quella piccola grande pazzoide!
Il video della proposta era finito in tutti i siti internet, in primo luogo in una newsletter immediata dei Mars a tutti gli Echelon e sul sito officiale di Ronnie per tutti gli Offbeats. 
Ormai avevo guardato così tante volte la faccia della mia amica diventare viola d'imbarazzo da sembrare di averla vista dal vivo. 
Riguardai i miei piccoli ragazzi. Lei ne sarebbe andata pazza, ma, anche se non sapevo come mai, avevo la sensazione che tramasse qualcosa. 
Al giorno in cui i miei bambini erano nati erano passati esattamente tre mesi dalla proposta di Jared e si erano fatti sentire meno del solito. In più Ronnie aveva una voce strana. Stanca, ovviamente per il tour… ma non avrei mai saputo dire cosa mi diceva che cosa mi nascondesse.
“Vicky”, mi svegliò Andy con uno schiocco di dita. “Ti sei addormentata in piedi?”.
“No, sto bene, tranquilli”, ridacchiai guardando per un'ultima volta i bambini e poi seguirei miei amici nella mia camera d'ospedale. 
Era l’ora del riposino che ci obbligavano a fare e che odiavo, ma senza quello sarei arrivata all'ora di cena come una zombie. Quindi non commentai e diedi retta all’infermiera.
Guardai mio marito e lui mi sorrise, con gli occhioni marroni luccicanti di orgoglio per il nostro lavoro. 
Eravamo stati bravi, sì. 
 
“Liam sei un fottuto stronzo!”, urlai appena schiacciò su di Leslie e fece punto. 
“Ventiquattro a ventitré, matchpoint”, gridò di rimando zia Vicky, evidentemente fiera di quei baroni che erano i suoi figli cloni. 
“Fanculo, possiamo ancora farcela”, dissi io facendo annuire la mia compagna di squadra, nonché mia cugina. 
Eravamo alla gara Milicevic-Leto Junior, ed eravamo un set a testa. Questo avrebbe deciso la vittoria. Poi sarebbe toccato ai Milicevic-Leto Senior a giocare. 
Astrid andò veloce alla battuta, si scrocchiò mano, mosse la testa per prepararsi e urlò: “Palla!”.
Poi con una schiacciata la mandò dritta verso di me, cercando di farla arrivare così veloce da passarmi in mezzo alle dita. Ma fortunatamente riuscii a prenderla e la passai veloce a Leslie, che alzò il pallone. 
Lo intercettai di nuovo, saltai e schiacciai.
Liam non riuscì a murarla e finì nell'angolo del campo. 
“Sì! Beccatevi questo, cloni!”, esultai battendo un cinque a Leslie. I miei esultarono e Shannon mandò a quel paese Tomo, sempre con tanto amore. 
"Dai, Jeremy", rise mia cugina. “Possiamo ancora rimontare!”.
“Dobbiamo rimontare!”, risposi pronto mentre mio cugino acquisito mi faceva una smorfia.
Eravamo ventiquattro pari quindi si arrivava a ventisei. 
Leslie si preparò alla battuta e schiacciò esattamente in testa ad Astrid, che senza nemmeno farlo apposta, palleggiò la palla verso il fratello. Liam cercò di mandarla nel nostro campo ma lo murai. 
"Sì! Alla facciazza vostra!”, gridò mia madre ridendo. Vicky le fece la linguaccia ma poi si unì alla risata. 
"Venticinque a ventiquattro, matchpoint", urlò Tomo con meno voglia ora che potevamo vincere noi. 
Ridacchiai e passai la palla a Leslie, già appostata in zona di battuta.
Mi sorrise e schiacciò una delle sue batoste, sempre precise e efficaci… ad alcune condizioni. 
Era un rischio perché era decisamente una battuta fuori campo. Ma mia cugina conosceva Astrid e la sua testardaggine, presente soprattutto in questi momenti. 
Infatti la prese lo stesso, con tutta la forza che poteva, e cercò di passarla a Liam, inutilmente visto che le sue mani non furono abbastanza forti e la palla passò comunque in mezzo, arrivando a fondo campo con tutta la sua potenza. 
“Ventisei a ventiquattro; vincono i Leto!”, stabilì Tomo, sorridendo, anche se di certo ora doveva darsi da fare per vincere contro i miei genitori. Poi chi vinceva si sarebbe battuto con Andy e Shannon, i vincitori del primo torneo. 
Abbracciai subito Leslie ridendo e così finì la partita. Guardai i cloni che fecero smorfie ma poi vennero a esultare con noi, da bravi cugini acquisiti. 
Eravamo fatti così, una grande e perfetta famiglia che non avrei cambiato mai. 
 
Ronnie stava correndo via da me per l'ennesima volta. La rincorrevo ma era stranamente più veloce, anche se camminava lenta come un fantasma. Come se ogni centimetro della sua  camminata valesse un chilometro della mia corsa.
Mi fermai per cercare un modo per andare più veloce e soprattutto prendere fiato, ma mi resi conto che più restavo immobile più lei scompariva da me. 
Dovevo muovermi, dovevo raggiungerla, dovevo andare più veloce. 
“Ronnie, ti prego!”, la chiamai mentre lei camminava. 
Un secondo dopo si voltò di scatto e vidi i suoi occhi squarciare i miei, seguiti da un urlo mi colpì in pieno, riportandomi alla realtà. 
“Jared, sei scemo?!”, sentii una voce che mi chiamava e mi resi conto che era Andy. 
Aprii gli occhi di scatto e vidi la ragazza con una faccia tra lo scioccato al divertito. 
Un altro urlo rotto arrivò da lontano e capii dove mi trovavo. Ero appoggiato alla porta della sala parto e dentro Ronnie, da circa tre ore stava patendo l'inferno. 
Dopo due ore e mezza nel pieno della notte il mio cervello era entrato in stand-by senza volerlo. 
“Dov'è? Come sta? Quanto manca?”, chiesi preoccupato e lei scoppiò immediatamente a ridere. 
"Bene, pensavo fossi morto. Quando sei uscito eri bianco da paura”, mi tranquillizzò, con il suo sorriso. Se fosse successo qualcosa alla mia Ronnie lei non starebbe ridendo, quindi voleva dire che andata tutto bene… “E Ronnie sta abbastanza okay, ma potresti entrare a controllare”.
Annuii e lei se ne andò a sedersi nella sala d’attesa, lasciandomi aprire piano la porta. La dottoressa mi vide e mi lasciò entrare, mentre vedevo Ronnie sudata e con i capelli in disordine. 
“Sei vivo?”, ridacchiò per poi fare una smorfia di dolore. 
“Ovvio. E voi?”, le strappai un sorriso prima che l'ultima spinta aiutò quel pasticcione di nostro figlio a uscire. 
Vidi l'ostetrica prendere in braccio il bimbo e cominciare a vedere come stavano gli arti e i polmoni. 
Quando il bimbo pianse, per la novità che si ritrovava nella sua gabbia toracica, ci guardò e Ronnie allungò le mano verso di lei. 
La donna lo depose tra le braccia di mia moglie - ancora faticavo a chiamarla così - e ci sorrise. “Un bambino più bello non potevate farlo”, si congratulò, facendo ridere Ronnie.
“Merito del papà più bello del mondo, ovviamente”, la ringraziò Ronnie ridendo. Di certo la donna fu subito d’accordo, ma non le diedi peso. 
“E della mamma più sdolcinata e stupenda di Marte”, la corressi mentre lei rideva e alzava gli occhi al cielo. 
“E poi sarei io la sdolcinata?”, mi prese in giro lei mentre nostro figlio ci fissava confuso mentre smetteva di piangere. Sì, piccolo, hai dei genitori molto strani, abituati. 
“Come lo vorreste chiamare?”, ci chiese subito il dottore. Guardai Ronnie provai a vedere cosa ne pensasse, ma sembrava impassibile. 
“Io lo so che lo vuoi chiamare Kurt, non fare il finto tonto”, mi sorrise poi, mentre l'ostetrica decise di riprendere nostro figlio – oddio non ci potevo ancora credere – per andare a pulirlo. Appena lo toccò però lui impazzì ancora e cominciò a piangere. 
“È figlio di due rockstar, crescerebbe bene con quel nome”, mi giustificai mentre lei ci pensava ancora una volta, guardando l’ostetrica dichiarare guerra a nostro figlio e portarselo via. 
“A me piace anche Jeremy”, disse sussurrando per vedere con calma la mia reazione. Aveva davvero paura che potessi dirle di no?
“Allora vada per Jeremy. Piace anche a me”, sorrisi e lei mi imitò a sua volta con gli occhi stanchi ma luccicanti. 
“Kurt potrebbe anche essere il secondo nome”, commentò dopo pensandoci meglio. “Suona bene, no? Jeremy Kurt Leto”. 
Jeremy Kurt Leto. 
Quel nome mi vagò in testa come la peggior droga per qualche secondo. Mio figlio… era davvero assurdo. Nove mesi per farci l’abitudine e ancora non ci ero riuscito. 
La mia mente era rimasta ancora a dieci anni prima. Non riusciva a starmi dietro e succedevano troppe cose per il mio povero cervello: non credeva possibile che avessi trovato una ragazza del genere, che l'avessi persa ma poi ritrovata, che l'avessi sposata e ora avessi un figlio con lei. 
Jeremy Kurt Leto. 
“È perfetto”, dissi sorridendo e prendendola per mano. Lei rise e chiuse gli occhi. 
Erano le quattro del mattino. Lui e Astrid avevano in comune che erano nati nel bel mezzo della notte, mannaggia a loro. 
“Bene. Ora la portiamo nella sua stanza”, le disse il dottore, togliendo la mia mano dalla sua e sistemando le cose per trasferirla fuori dalla sala parto. 
Lei mi guardò ma poi cadde in un sonno profondo mentre la seguiva nella camera. 
“Suo figlio è già stato portato alla nursery, lo potrete vedere appena avrà dormito abbastanza”, mi informò l'ostetrica. 
Mio figlio. 
 
Un piccolo piagnisteo arrivò dall'altra stanza. 
Ronnie lo sentii immediatamente e si alzò di scatto, come se avesse in testa capace di svegliarla appena Jeremy si svegliava. Era impressionante.
“No, tocca a me stavolta”, dissi io rotto dal sonno. Lei scosse la testa e s'intestardì. “Ronnie, seriamente, dormi. Vado io, tu hai bisogno di riposarti un po’”.
Mi alzai e lei mi guardò grata, rimettendosi a dormire. Era una settimana che non stava tranquilla per una notte intera. 
Uscii dalla stanza chiudendo piano la porta e andai dal piccoletto. 
“Prima o poi ci farai impazzire”, dissi entrando e vedendolo aggrappato alla culla con le manine bianche. 
Dio santo, aveva già quasi un anno e ogni giorno averlo tra i piedi era stupendo. Ma in quella settimana aveva iniziato ad avere incubi su incubi e piangeva ogni notte. 
Lo presi in braccio e lui si strinse a me in una morsa soffocante. Lo cullai in po’, canticchiandogli qualcosa di tranquillo e pian piano lo stretta si fece leggera. 
“Tranquillo piccolo, c'è qui papà”, sussurrai mentre lo mettevo di nuovo nella culla. 
Lui mi guardò, come a dirmi di non andare via, e io lo feci giocare un po’ con i pupazzi che aveva lì dentro. Subito mi rubò il piccolo orsetto morbido dalla mano e si sdraiò piano, sorridendo. Se lo strinse forte e poco dopo le sue manine alleggerirono la presa: si era già addormentato. 
Sorrisi e gli diedi un bacio sui capelli scuri, cercando di non svegliarlo ancora. Non si mosse e io tornai in camera mia. 
“Sei un papà fantastico”, sentii il sussurro di Ronnie mentre io entravo cercando di non fare rumore. 
“E tu una moglie disubbidiente: dovevi dormire”, ridacchiai entrando nel letto al suo fianco. Era così bello averla vicino. 
Lei si arpionò al mi petto, d’accordo con il mio pensiero, e rise stanca, cercando di dormire. Le accarezzai i capelli e cominciai a cantare anche per lei. 
Sapevo che non riusciva a stare calma mentre Jeremy piangeva. Era il suo piccolo e restava in pensiero. In più i suoi incubi le risvegliavano i suoi; in questo erano simili. Ma prima o poi questo periodo sarebbe passato. 
“Ci sono io, babe”, le sussurrai mentre i suoi occhi si facevano pesanti. 
“Lo so”, rise ancora e sentii la presa aumentare. “E non potrei sopportare di non averti vicino un’altra volta”. 
“Non succederà, lo giuro”, l'abbracciai e lei si addormentò con un grande sorrisone. 
Missione compiuta, Leto. Ora potevo continuare a dormire anche io. 

“Maledetti incubi”, commentai sprezzante svegliandomi nel cuore della notte. 
Guardai fuori dal finestrino: la notte si estendeva su una città tutta illuminata. Eravamo ancora a Sidney e i tre marziani dovevano essere ancora sul palco. 
“Ciao Jer”, mi salutò Liam, sveglio come sempre con la sua chitarra ad arpeggiare qualcosa. 
“Oggi niente tastiera?”, gli chiesi andando sul suo letto e sedendomi vicino a lui. Bene, iniziava una delle nostre nottate insonni.
“Nah, è elettronica, sveglierei tutti. Con questa sono più sicuro. Incubi?”, mi domandò sorridendo. Sapeva quanto la mia mente fosse malata. Sorrisi e annuii.
“Come al solito. Che suoni?”, gli domandai notando che stava arpeggiando qualcosa di nuovo.
“Niente di importate, aspettavo papà”, sorrise mentre strimpellava senza senso. Sorrisi.
Per quanto fosse imbarazzante per alcuni essere quasi migliori amici dei propri genitori, non era il nostro caso. Soprattutto per Liam, che con zio Tomo faceva qualsiasi cosa.
Da lui aveva imparato a suonare la chitarra e un po’ la pianola, arte migliorata con mio padre, e si divertivano a fare gare sull’assolo venuto meglio. Quando insieme erano andati in Croazia, ovviamente con Vicky e Astrid al seguito, si erano divertiti talmente tanto che ancora oggi non riusciva a spiegarmi cosa avessero fatto per le troppe risate che quei ricordi scaturivano.
Nei concerti, come quella sera, dormiva raramente e aspettava tutti sveglio fino a che non fossero tornati per sapere ogni minimo particolare. A volte ovviamente andavamo nel backstage, ma quella sera avevamo preferito restare noi ragazzi nel tourbus a giocare e vederci un film da soli.
“Che strano”, ridacchiai mentre lui faceva finta di tirarmi la chitarra in testa.
Leslie mugugnò e a Liam parve di sentire qualcosa, ma lasciammo perdere. Ormai pure le piante sapevano che Leslie straparlava nel sonno, anche con frasi sconnesse e a volte parole inesistenti.
“Hey, comunque mi dispiace per Jodie, è stata una grande stronza”, dissi mettendogli un braccio sulle spalle mentre lui deglutiva. Non era un bell’argomento.
“Meglio così, una piovra di meno”, cercò di sorridere mentre plettrava.
“Be almeno non ti dovrai scervellare di nuovo per trovarle il regalo perfetto”, scherzai per poi dargli un pugno leggero sul bracci.
Lui rise e cominciammo a parlare d’altro, a fare qualche nota e provare a comporre qualcosa per la band. Sì, potevamo sembrare i figli di papà già con tutto pronto, ma non era colpa nostra se ci piaceva suonare!
Alla fine, dopo un ora e mezza, i nostri genitori ancora non si erano visti e così decidemmo di andare a dormire. Forse avevano deciso di farsi uno dei loro giri notturni nelle città o di bersi qualcosa come sempre.
“Ehy Jer?”, mi chiamò Liam dal suo letto.
“Dimmi, clone”, gli sorrisi chiamandolo come sempre.
“Grazie”, disse ridendo battendo il pungo contro il mio e andando a dormire.
Non c’è di che fratello.
 
“VAFFANCULO!”, urlò Andy senza aver paura di farsi sentire.
“Mamma mia, la finezza fatta a persona”, scoppiò a ridere Ronnie mentre le sistemava il vestito. “E per fortuna che hai l’abito bianco!”.
“Non è tutto bianco, quindi, fanculo, posso dire quello che voglio!”, si lamentò ancora lei guardandola truce, nel suo trucco perfetto.
“E’ vero, ok. Ritiro ciò che ho detto”, continuò la rossa sistemandole uno dei fiocchetti sulla schiena.
“Ma ti prego, Andy, hai un abito stupendo… abbi un po’ di contegno”, ridacchiai io mentre le sistemavo i capelli.
“Va bene, scusatemi, ma sono tesa e dovete lasciarmi stare”, disse nervosa mentre Ronnie rideva e le schioccava un bacino sulla guancia, da perfetta migliore amica.
“Sarai stupenda”, ridacchiò mentre Andy respirava a fatica. “Ora però non rompere o ti picchio e al matrimonio ci vai con un occhio nero…. Oh, perfetto, ho finito!”.
“Pure io”, annunciai e insieme la portammo davanti allo specchio.
“O mio…”, sussurrò lei, ammirandosi nella sua perfetta bellezza.
Partendo dall’alto: i suoi capelli erano stati raccolti dalle mie mani esperte – la vicinanza con Jared si faceva sentire a volte – in tante piccole treccine strette, ma poi unite tutte insieme al centro a  formare una bellissima crocchia intrecciata con un piccolo e luccicante nastro rosato. Ci era voluta una vita ma ce l’avevo fatta.
Gli occhi erano truccati in maniera neutra, con qualche sbaffo di rosa con l’ombretto e poco mascara, mentre sulle labbra del lucidalabbra tendente al rosso, ma non troppo distaccato dall’insieme.
Il vestito era una meraviglia e se Shannon non sveniva barra moriva soffocato dalla bava sarebbe stato un vero miracolo.
Era un vestito a sirena, sfumato dal rosa chiaro fino al bianco più splendente. Il corsetto era tutto ricamato ai lati e, dietro la schiena, era un grande corpetto con nastri rosati come per i capelli, seguiti da minifiocchi bianchi – opera di Ronnie – che le mostravano la schiena perfetta in un gioco di vedo-non vedo.
La gonna, ovviamente lunga da star male, non era pomposa ma leggera e semplice, visti i gusti della proprietaria. E le scarpe, nascoste dal vestito ma presenti, erano dei tacchi a spillo bianchi con un piccolo decolleté.
“Dio”, suggerì Ronnie ridendo.
“Non per metterti ansia, Andy…. Ma è tempo di andare”, sorrisi io prendendola per mano e sistemandole il velo nella crocchia. Lei mosse la testa, scherzando, e sentì le ondine di quel bianco tessuto muoversi sulle sue spalle.
“Figo”, scherzò ridendo.
“Sì, sì, tutto questo è molto emozionante, ma è ora di andare”, la spinse fuori Ronnie con la sua solita finezza da uccidere tutti.
Risi di nuovo e presi le spalle di Andy, mandandola nel punto esatto in cui si trovava suo padre, arrivato per l’occasione con la famiglia in America.
“Sei bellissima, sta solo calma”, le sussurrai andando all’altare, per posizionarmi tra le damigelle, mentre Ronnie portava, per la seconda volta nella sua vita, le fedi degli sposi dietro di lei.
Vidi il padre di Andy abbracciare Ronnie e farle una carezza sulla guancia, per poi tornare da sua figlia. Spostai lo sguardo su Jared e lui era perso nella sua bella, facendola sentire finalmente apprezzata.
In realtà osservai tutti quanti. Tomo, il mio bel Tomo, era vestito come tutti quanti i testimoni con uno smoking bianco, con una rosa rosa (ovviamente), per la similitudine con la sposa e il contrasto con lo sposo. Infatti Shannon aveva un bellissimo smoking nero da far invidia a tutti.
Io avevo un abito beige, con delle striature di color nocciola, che finivano per sfumare il primo colore e diventare tutto del secondo alla fine della gonna corta. Le scarpe ovviamente erano tacchi, color marrone chiaro.
Ronnie invece era il mio contrario: vestito lungo e senza spalline, color nocciola con striature di beige che finivano per poi invertirsi sulla fine. L’idea ovviamente dei contrari era tutta sua.
Andy cominciò a camminare, tenuta salda in piedi da suo padre e la solita musica di sottofondo era partita come accompagnamento. Arrivata all’altare, Ronnie mi venne di fianco, sorridendo, e lasciò cominciare la cerimonia.
“Sì, lo voglio”, disse la sposa poi, con le lacrime agli occhi, cercando di non macchiare il trucco. Poi si voltò e vide Shannon fare lo stesso, stringendogli forte la mano.
Il prete li dichiarò marito e moglie, Ronnie diede loro le fedi e Jared andò a occupare il piano, suonando sorridente una nuova canzone scritta per l’occasione.
Le parole le avevamo censurate vista la cerimonia e la mente malata dello scrittore. Andy, che le conosceva, scoppiò a ridere e si attaccò a… suo marito.
Era tutto così perfetto che niente, niente, niente, poteva andare storto. Niente!


....
Note dell'Autrice:
i commenti da 'fine storia' li lascio all'epilogo, oggi c'è la regola del "don't worry be happy" perchè sono in attesa della neve (speriamo seriamente che arrivi :D)
Bè... spero davvero che vi sia piaciuto perchè io mi sono divertita davvero tanto a scriverlo.
E sebbene ormai questa storia non venga più letta come un tempo, vi ringrazio comunque, a voi che ci siete state, a voi che ci sarete un giorno se scoverete questa storia nei meandri di EFP, e voi che ci siete SEMPRE, ad ogni aggiornamento.
Vi amo, sul serio.
Un bacio e alla prossima settimana.
Ronnie02

 

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Capitolo 12
*** Epilogue. We Have A Family ***


Oddio... Oh God. Ci siamo, siamo arrivati al mini epilogo (scusate se è piccolo ma così va la vita :D)
E... e cosa dovrei dire?... bo leggete, io intanto ci penso e lo scrivo sotto. Sono troppo emozionata, troppo... triste? Sì anche.
Va be, per ora buona piccola lettura




Epilogue. We have a family





 
“Certo che ne avete passate, voi!”, scherzai guardando mia madre, che mi raccontava di quando zia Andy e zio Shannon si erano sposati.
“Sì, abbastanza… e non è nemmeno finita!”, ridacchiò lei, tornando a guardare l’album, nelle mie mani. “A volte molta gente pensa di aver perso il poco tempo che aveva, oppure di non averne ancora abbastanza per fare ciò che vuole… e poi che fa? Sta seduto sul divano!
“Ovvio che così non farai niente di quello che desideri. Ogni santo giorno, invece, puoi fare qualcosa di nuovo. Guarda quante cose abbiamo fatto noi, e molti giorni, come per esempio in tour, facevamo sempre le stesse cose...”.
“Non ti piacerebbe vivere ancora per altri mille anni?”, chiesi. Mia madre era una filosofa nata, era già tanto che per imparare l’alfabeto non mi aveva canticchiato i nomi dei grandi filosofi grechi in ordine (parola di mio padre).
“E perché? Certo se avessi ancora trent’anni sarebbe fico, ma… ho già avuto e fatto tutto ciò che volevo. Non tornerei mai indietro per cambiare qualcosa ma nemmeno rimarrei qui secoli in più per rifare cose che ho già vissuto”.
“Forte”, commentai facendola ridere. Poi ci fu un momento di silenzio, quello tranquillo, quello in cui ti perdi nella tua mente e nei tuoi pensieri.
Erano stati dei momenti fighi quelli in cui così tante persone della mia famiglia avevano deciso di parlarmi di loro, qualunque età avessi. Ecco perché mi piaceva stare così tanto a parlare.
Perché non cercavano di metterti in imbarazzo, non era la solita relazione a gradi di qualsiasi famiglia conosciuta al mondo. No… eravamo tutti allo stesso posto.
Certo, c’erano i momenti in cui li rispettavo da genitori o mi prendevo le paternali, come giusto che sia e come capitava anche a Leslie, a Liam e ad Astrid. Ma non cambiava le cose.
Era la famiglia migliore che mi potesse capitare nell’intero universo.
“Scusa, mi sono persa via, tesoro”, si svegliò mia madre scherzando e sfogliando di nuovo l’album, che ormai avevamo finito. “Vuoi sapere qualcos’altro?”.
“No, penso di aver finito con i ricordi”, scherzai riprendendolo e chiudendolo a mia volta, poggiandolo sul divano.
“Bene, sono contenta di averti fatto sapere un po’ di cose sul nostro conto”, mi fece l’occhiolino e abbracciandomi forte. Ricambiai… era una madre perfetta e l’adoravo. “Ma ora che fai? Liam è riuscito a liberarsi?”.
“Sì, penso di sì…”, dissi indicando il telefono.
“Vai a divertirti, pasticcio vivente. Aspetto io tuo padre”, mi fece la linguaccia per poi darmi un bacio sulla testa e scompigliandomi i capelli.
“Buona fortuna allora”, la presi in giro facendola ridere.
“Già, mi servirà”, commentò ridendo, ma poi si fece più seria, passando alla modalità filosofa on. Una modalità che mi affascinava parecchio. “E Jeremy?”.
“Sì, mamma?”, dissi alzandomi ma rimanendo davanti a lei, sorridente.
“Qualunque cosa tu faccia… non essere mai preoccupato delle conseguenze. Quelle arriveranno sempre, sia in negativo che in positivo. Ma vivi la tua vita tranquillo, okay? Senza ripensamenti”, mi disse alzandosi e sistemandomi il ciuffo ribelle.
“We should never regret about our lives”, canticchiai una delle sue canzoni, Freedom. “O è meglio, I will never regret?”.
“Dipende qual è il tuo genitore preferito!”, scherzò e mi abbracciò di fretta, per poi lasciarmi andare. “Buona serata, piccolo Jer”.
“Ti voglio bene, mamma!”, dissi mentre uscivo dalla porta, con in mano il telefono per chiamare quel pazzo di mio cugino.
“Anche io te ne voglio, Jeremy”, mi urlò da dentro, facendomi scoppiare a ridere.
Non avrei mai potuto scegliere una famiglia migliore, davvero!
 

....
Note Dell'Autrice:
ECCOCI. Eccoci qua. Dicevo prima che, sì, sono molto triste. Insomma è stata la mia prima storia dei Mars, la mia prima serie in assoluto, è la storia che ho sempre sognato e ormai ho questi personaggi nel cuore, con tutte le loro vicende. E' difficile staccarsene, e so che mi capite.
Però vado fiera del mio lavoro e sono felice di vederlo completo. E' finita e, guardandomi indietro, dopo più di un anno a quando ho scritto l'inizio di "One Day Maybe We'll Meet Again", ho fatto davvero un buon lavoro. Ho fatto un viaggio, sono migliorata, mi sono appassionata ai personaggi. Con loro ho vissuto un anno fantastico, pensando sempre a cosa fagli combinare. Mi hanno "vista" crescere, innamorare, piangere anche, cantare dalla gioia, delusa e depressa ma anche perfettamente allegra. 
Bè, sì mi mancheranno davvero, ma sono fierissima del mio lavoro. Spero che anche a voi sia piaciuto viaggiare con me e che ricorderete questa serie. Un GRAZIE INFINITO a tutti quelli che mi seguono, mi scrivono e recensiscono, o anche ai lettori muti. Siete diminuiti ma mai scomparsi e va bene così. E' stato un luuuuuuungo viaggio, capisco che qualcuno si sia perso o se ne sia voluto andare nel mentre.
Grazie davvero a tutti, ad ognuno di voi. 
GRAZIE.
E.... bè, penso che tra un pò (o a Natale, o dopo le vacanze) comincerò a pubblicare la mia nuova FF *non mi fermo mai :D*. Se volete seguirmi sarò ben lieta di accogliervi. 
Questo è un assaggino, tanto per finire con un nuovo inizio, stile "End of The Beginning" (che canzone!!!!)


“E tu ormai troppo incosciente di quello che sei”, rispose il ragazzo. [...] Era diversa… diversa da chiunque in qualsiasi mondo andasse.
Era unica nella sua specie.

 

Bè.... spero vi colpisca almeno un pochino e che vi piaccia. Con questo non voglio dimenticare Ronnie, Andy o Lucy, o i bambini, o le loro storie, di tutti, ma solo andare avanti. Rimarranno sempre dentro di me e spero, come spero che lo facciate anche voi, di aprire un giorno questa storia e rileggerla ancora, con la stessa passione di quando l'ho scritta.

Un grazie speciale al mio... gatto ahhhah Sì, quello stronzo che di notte, mentre scrivo mi fa compagnia. O la mia migliore amica, Andy, che mi sostiene sempre. 
Grazie.

Ronnie02

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