Till Your Last Breath

di Clovely
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. First Sight ***
Capitolo 2: *** 2. The Boy with the Sword ***
Capitolo 3: *** 3. La calma è la virtù dei forti ***
Capitolo 4: *** 4. The Girl with the Knives ***
Capitolo 5: *** 5. Crossroads ***
Capitolo 6: *** 6. Sweet revenge ***
Capitolo 7: *** 7. La vendetta di Damien ***
Capitolo 8: *** 8. La Mietitura ***
Capitolo 9: *** 9. Welcome to the Capitol ***
Capitolo 10: *** 10. I Guerrieri ***
Capitolo 11: *** 11. The Games will change Eveyone ***
Capitolo 12: *** 12. Alleanze ***
Capitolo 13: *** 13. Le Interviste ***
Capitolo 14: *** 14. Animal I have Become ***
Capitolo 15: *** 15. Un Nuovo Alleato ***
Capitolo 16: *** 16. Let it all Burn ***
Capitolo 17: *** 17. Breaking the Rules ***
Capitolo 18: *** 18. Together we can make it ***
Capitolo 19: *** 19. Stay With Me ***
Capitolo 20: *** 20. Into the Dark ***



Capitolo 1
*** 1. First Sight ***



Till your last breath


PARTE PRIMA

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CAPITOLO 1
FIRST SIGHT


Era una tipica giornata invernale nel Distretto 2. La neve cadeva in lenti vortici candidi, celando sotto le sue coltri il paesaggio del Distretto e tingendo tutto ciò che toccava di un bianco cristallino, quasi irreale.
Quando fuori faceva così freddo la cosa più bella che si potesse fare era restare al caldo, magari avvolti in una morbida coperta di lana, vicino ad un camino scoppiettante e con un tazza calda tra le mani. Ma qualcuno preferiva il contrario.
Essere fuori, all’aperto, con addosso più strati di vestiti che di pelle, correndo nella neve e sprofondandovi, con gli stivali inzuppati e le dita umide dei piedi, le guance arrossate dal freddo e le labbra screpolate.
Questo, senza ombra di dubbio, era più divertente.
Clove osservava la neve cadere da dietro una grande finestra chiusa. Il caldo del salotto di casa sua era confortevole ed accogliente e la bevanda che le aveva preparato sua madre la riscaldava dall’interno ma... ma mentre seguiva con lo sguardo gli altri bambini che giocavano a palle di neve, facevano angeli per terra e sfrecciavano in ogni direzione con gli slittini di legno, sentì una punta di invidia.
Clove amava l’inverno. Amava l’avventura. Amava la neve. Le piaceva anche il freddo, ma solo quando era all’aperto e poteva farlo passare correndo.
Eppure quella domenica non le era permesso uscire, pensò sbuffando.
Posò la tazza, ormai vuota, sul tavolino di legno di fianco al divano dove si era messa per fissare gli altri ragazzini e si sistemò con stizza il fiocchetto rosso di velluto che sua madre Maryse le aveva appuntato tra i capelli corvini. Odiava sembrare una dolce e brava bambina. Soprattutto perché non lo era affatto. Clove, otto anni, era la ragazzina più indisciplinata del Distretto, tanto che i bambini del suo quartiere avevano paura di lei e le giravano allargo quando la vedevano avvicinarsi. Ma del resto la sua reputazione se la era guadagnata. Non le piaceva stare in compagnia degli altri bambini della sua età, per questo preferiva starsene sola. Ma comunque sua madre amava conciarla come una bambolina e lei non poteva far altro che lasciarglielo fare. In fondo a lavoro finito sembrava davvero una bambola, pensò Clove, scorgendo la sua immagine riflessa nel vetro della finestra: capelli neri come la notte e mossi come le onde del mare in tempesta. Occhi di un blu scuro e intenso che con il buio sembravano quasi neri. Pelle candida come porcellana e una spolverata di odiose lentiggini sul naso e sulle guance; labbra piccole e rosse che in quel momento si incurvarono ai lati, dipingendole in viso uno studiato sorriso da brava bambina. Clove sorrise alla sua immagine riflessa, pensando che non doveva farne poi una così grossa tragedia: solo poche ore e poi avrebbe potuto uscire fuori a rovinare il divertimento agli altri bambini. Quel pensiero parve elettrizzarla. Forse non era del tutto normale che una bimba di otto anni si divertisse spaventando i suoi coetanei. Ma Clove era fatta così. Per esempio quando trovava un pupazzo di neve, probabilmente costruito con tanta cura e dedizione da qualche altro bimbo, non poteva fare a meno di distruggerlo. Non capiva cosa ci fosse di male. Era divertente!
Quando qualcuno bussò alla porta la bambina balzò in piedi, mettendo da parte i ricordi delle sue scorribande e lisciandosi le pieghe della gonna rosso vinaccio, come il fiocchetto che aveva tra i capelli. Sua madre e suo padre sbucarono dalla cucina e si precipitarono all’ingresso. La mamma indossava ancora il grembiule ma se ne liberò in pochi secondi e lo gettò con noncuranza su una sedia nell’ingresso. Clove li seguì a qualche passo di distanza, mentre loro aprivano la porta, cercando di mascherare l’espressione scocciata ed annoiata che aveva sul volto.
Ed ecco apparire davanti ai suoi occhi la causa della sua reclusione in una così bella domenica invernale. Gli amici dei suoi genitori.
Clove non se li ricordava minimamente. Sapeva solo che suo padre e l’uomo lavoravano assieme ed erano due pezzi grossi nell'industria del Distretto. Mamma e papà le avevano anche detto che erano stati loro ospiti parecchie volte dalla sua nascita. Probabilmente era troppo piccola per ricordarselo. O forse non le importava proprio, pensò Clove osservando a turno i visi sconosciuti della donna e di suo marito. I suoi genitori salutarono calorosamente gli ospiti, cominciando subito con i convenevoli di rito, i complimenti e le domande da copione. Clove rimase alle loro spalle, con le mani intrecciate dietro la schiena, mordicchiandosi un labbro in attesa che i grandi la smettessero di parlare. Ma mentre fissava i volti dei nuovi arrivati cercando di ricordarsi qualcosa di loro, i suoi occhi ne incontrarono un altro paio.
Erano azzurri come il cielo d’estate o come il ghiaccio in cima a una montagna altissima. E le parvero curiosi e beffardi. Improvvisamente si ricordò che anche quei due sconosciuti avevano un figlio. Glielo aveva detto sua madre la sera prima.
Il ragazzino doveva essere solo qualche anno più grande di lei e continuava a fissarla con le labbra piegate in un sorriso di scherno. Clove, in risposta, lo osservò con aria di sfida e un sorrisetto divertito, mentre la tanto studiata espressione da bambina innocente lasciava il suo viso.
«Oh Clove! Santo cielo come sei cresciuta!» Esclamò la donna della quale Clove non si era ricordata il nome almeno fino a quando non aveva sentito sua madre chiamarla Grace. La piccola distolse lo sguardo per posarlo su di lei. Era una signora ben curata sui quarant’anni con i capelli color biondo miele raccolti in un’acconciatura impeccabile, un tailleur elegante di un verde smeraldo, gli occhi di un castano intenso e un’espressione calorosa sulle labbra rosse. Era molto diversa da sua madre, che invece non dava mai troppo peso all’aspetto esteriore, figurarsi indossare un tailleur o raccogliere i capelli in quel modo! L’uomo dietro di lei invece sembra più vecchio perché nei capelli castani si intravedevano ciuffi di grigio e in più la sua espressione sembrava tirata, quasi finta e sicuramente meno entusiasta di quella della moglie, visto che guardando l’orologio ad intervalli regolari, con una strana espressione in volto, come se avesse fretta.
Bé, allora non era l’unica che non vedeva l’ora che quel pranzo finisse. E pensare che non era ancora nemmeno cominciato.
«Clove, ti ricordi di lui?» Le chiese sua mamma, indicando il ragazzino spavaldo che la donna, Grace, stava spingendo in avanti senza molto garbo.
«Credo proprio che non se lo ricordi, dico bene Clove?»
La bambina scosse la testa senza parlare.
«Suvvia, non essere maleducato!» Esclamò Grace rivolta al figlio. Il ragazzino la guardò con astio e con una smorfia indistinta sulle labbra. Quell’espressione era davvero irritante, pensò la bambina mentre studiava con sguardo indagatore il ragazzo biondo. Alla fine lui posò di nuovo lo sguardo su di lei, fece un passo avanti e allungò la mano nella sua direzione.
«Ciao. Io sono Cato.»
«Clove.» Sussurrò la piccola, con voce vellutata.



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SPAZIO AUTORE


Salve a tutti popolo di efp! Eccomi per la seconda a pubblicare qualcosa su questi bellissimi libri. Questa volta però ho deciso di spostare la mia attenzione non sui protagonisti, bensì su quelli che, per certi versi, potrebbero essere definiti gli antagonisti della storia: Cato e Clove.
Di fatto, sappiamo ben poco di loro: che vengono dal Distretto 2, che sono forti ed allenati, che vogliono vincere. Ma cosa sappiamo veramente di loro? Bé, io direi nulla.
Per questo ho deciso di scrivere la mia fanfiction. Credo che anche loro si meritino un passato, una vita e una loro storia.
Ma ora passiamo alla fanfic. Il primo capitolo è una sorta di introduzione ai personaggi principale e le loro famiglia. Ed è anche abbastanza corto e posso dirvi che anche i prossimi non saranno lunghissimi. Ma c’è un perché. I capitoli a seguire, più o meno fino al quinto, saranno sul passato più remoto di Cato e Clove, quando erano ancora dei bambini. Per questo potrebbe capitare che, tra un capitolo e un altro, ci sia un grandissimo sbalzo temporale, anche di anni. Ma capirete meglio leggendo, lo giuro ;)
Ed ora... bé, direi che posso anche smetterla di tediarvi con tutto questo poema e lascio la parola a voi. Non so ancora se la storia sarà un flop totale oppure no, ma mi farebbe davvero
davvero piacere sentire cosa ne pensate voi. Quindi... sentitevi liberi di recensire ;)
Ora vi saluto e, ovviamente, possa la fortuna essere sempre a vostro favore u.u

~ C


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Capitolo 2
*** 2. The Boy with the Sword ***



Till your last breath

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CAPITOLO 2
THE BOY WITH THE SWORD

Il sole stava lentamente sorgendo all’orizzonte, tingendo il cielo con colori tenui e scacciando la residua oscurità della notte. Un ragazzino biondo osservava l’alba dalla cima di un alto albero, con le gambe a penzoloni da un ramo robusto e le mani strette attorno ad esso. I suoi occhi azzurri iniziavano a bruciare per il contatto prolungato con la luce del sole nascente, ma lui non ci faceva caso. Era bravo a sopportare il dolore.
Cato amava quell’ora del giorno. Il cielo, soprattutto, era magnifico. Da una parte vedeva il sole sbucare timidamente all’orizzonte, portando con sé la luce, che annunciava l’inizio del nuovo giorno. Ma se solo si voltava dall’altra parte opposta poteva scorgere il cielo ancora scuro della notte passata.
Nero in lontananza, come i capelli della bambina che aveva conosciuto solo qualche giorno prima. Il ragazzo non sapeva spiegarsi perché lo aveva pensato, ma quella ragazzina aveva qualcosa di particolare. Una luce sfavillante, accesa in quei suoi occhi misteriosi. Sembrava diversa dalle altre bambine e quando si erano visti per la prima volta, lei lo aveva studiato attentamente, senza abbassare gli occhi in quella sciocca maniera garbata che usavano le altre ragazzine. Era come se lei lo avesse sfidato. Ed era solo una bambina. Ma in quegli occhi profondi come il cielo notturno, sembrava nascondersi un segreto, come qualcosa di misterioso... qualcosa che aveva colpito Cato.
Ma poco importava, tanto sapeva che non l’avrebbe più rivista per molto tempo e probabilmente quando sarebbe successo lei sarebbe cresciuta e sarebbe diventata come tutte le altre. Non sono forse così le persone? Fragili e mutevoli?
Il ragazzino scosse la testa. Tanto non aveva alcuna importanza.
Così tornò a guardare il sole.
Fu in quel momento di pace assoluta che una voce lo richiamò alla realtà. Una voce che mai si sarebbe aspettato di sentire. Suo padre.
«Cato! Vieni giù, subito!» Il ragazzino abbassò lo sguardo, con un cipiglio scocciato. Amava arrampicarsi in posti dove sapeva che non sarebbe stato trovato e quindi disturbato. Gli alberi vicino a casa sua erano il luogo adatto. Cato aveva scoperto di potercisi arrampicare lanciandosi anche dalla finestra della sua cameretta. Certo, le prime volte aveva avuto paura di cadere, ma poi si era fatto coraggio e aveva compiuto il balzo. Da allora non aveva più avuto paura, era diventato facile come respirare.
Vedendo che il ragazzo non accennava a muoversi, l’uomo urlò più forte, con una certa irritazione nella voce. «Cosa c’è? Non sei capace di scendere? Muoviti, devo parlarti!»
Il ragazzino aumentò la presa sul ramo fino a farlo scricchiolare. Come poteva anche solo pensare che non ne fosse capace? Suo padre, che avrebbe dovuto conoscerlo meglio di chiunque altro, non sapeva nemmeno quanto fosse diventato agile negli ultimi tempi. Non si era mai accorto che di mattina, e spesso anche di sera, sgattaiolava dalla finestra e spariva per ore intere? Non si accorgeva mai di nulla?
Cato credeva di non conoscere per niente suo padre. Lo vedeva così poco che per lui era quasi un estraneo. Era sempre al lavoro, la maggior parte della sua vita la trascorreva fuori di casa e quando vi faceva ritorno era scontroso e taciturno. Almeno quando non urlava insulti a sua madre. O se la prendeva con lui. Negli ultimi anni aveva iniziato a farlo.
Per questo ora avrebbe dovuto essere felice nel vedere suo padre che lo chiamava. Che lo aveva anteposto al suo prezioso lavoro. Che doveva dirgli qualcosa.
Ma a Cato anche questo non importava. Era da anni ormai, che quell’uomo aveva cessato di essere suo padre. Si comportava in modo civile solo quando c’erano altre persone attorno, come al pranzo di pochi giorni prima. Era solo una maschera, il suo essere cordiale con tutti e anche con la sua famiglia, come se gli importasse qualcosa. Non era mai così, nella vita reale. Come in quel momento; urlava e sbraitava, di fretta come sempre.
Per tutte queste ragioni Cato non riusciva a vederlo in altro modo se non come un estraneo. Era solo una persona che di tanto in tanto arrivava a casa sua e urlava. Tutto qui.
Per questo quando scese dall’albero con pochi agili balzi non lo fece per obbedire al padre, ma solo per dimostrargli che era più bravo di quanto lui credesse.
L’uomo tuttavia non parve impressionato. Quasi non lo guardò.
«Era ora.» Disse seccamente lanciando uno sguardo al figlio. «Ti ho portato questa.» Disse estraendo da dietro la schiena quella che aveva tutta l’aria di essere una spada. Gli occhi di Cato si illuminarono improvvisamente. «Voglio che inizi ad esercitartici. All’Accademia si entra al compimento degli undici anni, ma credo che tu ora sia abbastanza grande per iniziare. Voglio che arrivi là già preparato ed addestrato. Voglio che tu sia il migliore. E’ chiaro?»
Cato stava ancora osservando la spada che il padre gli porgeva. Era un’arma bellissima e il ragazzino non vedeva l’ora di metterci sopra le mani e di utilizzarla.
«Ho detto... è chiaro
«Sì.» Alzò gli occhi azzurri sull’uomo e lo osservò con freddezza. «Non c’è bisogno che me lo dica tu. Io sono già il migliore.»
Il fantasma di una risata increspò le labbra dell’uomo che gli scompigliò i capelli con una mano, porgendogli la spada con l’altra. Cato la prese tra le mani con attenzione reverenziale, come se fosse un oggetto di immenso valore.
«Così mi piaci, ragazzo. Ma hai ancora molta strada da compiere. E tanto lavoro da fare. Sei lontanissimo dall’essere il migliore. Credi che quel tuo trucchetto sull’albero possa impressionare qualcuno? Devi impegnarti molto più di così.» Cato lo guardò, mascherando la delusione e l’offesa. Ma non fece in tempo a ribattere perché l’uomo, senza aggiungere nulla, si era già voltato e si allontanava con passo svelto.
Il ragazzo rimase fermo immobile a fissare l’uomo che scompariva, tenendo la spada stretta tra le mani. Suo padre voleva che lui fosse il migliore. Ma come poteva pretendere questo da suo figlio? Come poteva pretendere qualcosa da lui quando non lo degnava della minima attenzione per tutto il resto della giornata? Come poteva pretendere che imparasse da solo a maneggiare correttamente una spada? Aveva appena dieci anni. Tutti i suoi compagni non avevano mai tenuto in mano nemmeno un coltello, se non per mangiare. Cato sfoderò la spada, colto da un impeto di rabbia verso l’uomo che avrebbe dovuto essere suo padre. Non pensò nemmeno quando colpì, semplicemente seguì il suo istinto. Sentì il peso bilanciato dell’arma, la sentì fendere l’aria con leggerezza e conficcarsi con precisione nel tronco dell’albero che aveva scalato poco prima, lasciandovi un solco profondo.
Cato estrasse la spada senza alcuno sforzo e fece roteare la lama. Dopotutto non era così difficile. Era già diventato agile con coltelli e lance di piccola taglia. Una spada non doveva essere poi tanto diversa.
Sì, ce l’avrebbe fatta benissimo anche da solo. Sarebbe diventato il migliore. Sarebbe diventato il migliore con quella spada e lo avrebbe fatto da solo. In questo modo suo padre non avrebbe più avuto nulla da ridire, una volta visto quanto era stato in grado di fare. 
A questo pensava il ragazzo, mentre affondava la spada nei tronchi degli alberi con precisione letale. 



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SPAZIO AUTORE


Salve a tutti! Ecco finalmente il secondo capitolo! Come avrete capito, è anch’esso introduttivo. Nel primo ho introdotto soprattutto il personaggio di Clove; questo secondo capitolo invece mi è servito per presentarvi il personaggio del piccolo Cato e soprattutto la sua famiglia. E suo padre.
Vi dico subito che la parte introduttiva finisce qui! Finalmente dal prossimo capitolo la storia potrà partire e vedremo Cato e Clove incontrarsi di nuovo, a distanza di qualche anno dal loro primo incontro. Spero siate interessati e che leggiate anche il prossimo capitolo che, tra l’altro, conto di aggiungere presto (scuola permettendo -.-)
Ringrazio moltissimo Dream Moan per aver recensito e ringrazio di cuore anche tutti quelli che hanno letto la storia e l’hanno messa tra le seguite o le preferite!
Spero vi sia piaciuto il capitolo, ad ogni modo lasciatemi una recensione, tanto per farmi sapere cosa ne pensate! Mi farebbe davvero moltissimo piacere ;)
Ora devo scappare a studiare! Alla prossima ;)

~ C


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Capitolo 3
*** 3. La calma è la virtù dei forti ***



Till your last breath

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CAPITOLO 3
LA CALMA E’ LA VIRTU’ DEI FORTI


La rabbia pervase ogni singolo nervo del suo corpo. Teneva le piccole mani strette a pugno e lo sguardo basso, cercando di trattenersi, mentre un gruppetto composto da tre ragazzi continuava a lanciarsi avanti e indietro il suo logoro zainetto grigio, ridendo e urlando come un branco di animali. Se solo avesse avuto qualcosa con cui colpirli, l’avrebbe fatto. Ma non aveva niente.
E in più non era allenata. Non ci si poteva iscrivere all’Accademia prima del compimento degli undici anni. E lei ne aveva solo nove. In più sua madre non le faceva maneggiare coltelli o altri utensili che potevano essere considerati armi. Si affondò le unghie nei palmi delle mani, cercando di trattenersi dall’urlare; tanto non sarebbe servito a nulla, solo a divertirli di più.
«Che c’è asociale, non reagisci?»
Tranquilla. Tranquilla. Respira. Pensava la ragazzina. Solo un altro paio di anni e poi si sarebbe vendicata di quei deficienti. Loro avevano undici o dodici anni e non sapevano far altro che prendersela con bambini più piccoli. Che gesta onorevoli e che ammirevole coraggio, pensò lei, con ironia.
Frequentavano tutti l’Accademia, ma erano pessimi. Clove lo sapeva perché si era intrufolata di nascosto per assistere agli allenamenti. Erano dei buoni a nulla e avrebbe benissimo potuto stenderli, ma erano tre e lei era sola. Così, senza sapere che altro fare, voltò loro le spalle e camminò a testa alta, con passo deciso e noncurante. Se non poteva reagire, tanto valeva essere superiori. Era solo uno zainetto, non le importava riaverlo.
«Hey, ma dove vai!» Urlò uno dei ragazzi, ridendo sguaiatamente.
Clove li sentì urlare ancora qualche frase canzonatoria che non si prese la briga di ascoltare, quando una voce fuori da quel coro di urla senza senso catturò la sua attenzione. La ragazzina si fermò, le mani ancora strette a pugno lungo i fianchi, ma non si voltò.
«Hey voi. Vi sentite molto forti prendendovela con una ragazzina di nove anni, vero? Non sembrate così aggressivi all’Accademia.» La risposta dalla parte dei tre imbecilli fu solo un lungo silenzio.
Clove si voltò di scatto, i capelli neri le mulinarono attorno al viso, ricadendole sugli occhi. Lei li scansò con impazienza. Aveva riconosciuto quella voce anche se non l’aveva sentita per tanto tempo, e ora fissava il ragazzo che aveva parlato con le labbra leggermente dischiuse, sorpresa.
«Non sono affari tuoi, Cato. Levati di mezzo.» Disse uno di loro, quello che pareva essere il loro boss. Doveva chiamarsi Damien, Damian o qualcosa di simile. Si avvicinò a Cato ostentando un’aria di superiorità, ma si vedeva dallo sguardo e dai movimenti forzati che in realtà non era così sicuro di sé stesso. Anche la sua voce, che voleva apparire sicura ed arrogante, suonava invece intimorita. Aveva la stessa età di Cato ma grazie al suo paparino era riuscito ad entrare in Accademia un anno prima. Questo tuttavia non cambiava i fatti: aveva paura di Cato.
Il ragazzo biondo in tutta risposta, rise. «Dammi lo zaino.»
«Altrimenti?» Chiese Damien cercando ancora di usare una voce da duro, ma non riuscì a mascherarne il tremolio. Clove ridacchiò in silenzio, divertita. Era patetico, in quel momento come non mai. E lei lo odiava.
«Altrimenti...» Cato non finì nemmeno la frase ma afferrò Damien per il bavero della giacca, sollevandolo di pochi centimetri da terra. Lui emise un urlo strozzato mentre i suoi due compagni facevano un passo avanti istintivamente, prima di bloccarsi e indietreggiare. «Altrimenti ti faccio volare contro quel muro.» Disse Cato indicando con un cenno il muretto di scuola distante una decina di metri. «Credi che non possa farcela? Io dico di sì. Ma potremmo sempre provare, per toglierci ogni dubbio.»
Il ragazzo si divincolò, iniziando a diventare rosso. Clove non seppe dire se per rabbia, umiliazione o forse semplicemente perché stava soffocando.
«Dategli quel dannato zaino!» Esclamò infine Damien ansimando.
Uno dei suoi tirapiedi lo gettò verso Cato che, con i riflessi di un predatore, lo afferrò al volo, reggendo la sua vittima con una sola mano, senza fare la minima fatica.
«Ecco, così ragioniamo.» Disse rivolgendo un sorriso divertito a Damien prima di gettarlo a terra, a pochi metri di distanza. Quello cadde rovinosamente e rotolò nella polvere, che gli imbiancò gli ordinati capelli color petrolio e il cappotto nero di sartoria.
«E ora sparite.» Non ebbe bisogno di ripeterlo: gli altri due stavano già correndo via e Damien li raggiunse non appena riuscì a rialzarsi. Urlò qualche offesa a Cato mentre se la dava a gambe, ma ormai era troppo lontano perché si potesse sentire chiaramente. Che razza di codardo.
Clove seguì la scena con un sorriso deliziato sulle labbra. Vedere l’umiliazione sul viso di quel viscido essere l’aveva decisamente rallegrata. Era stato veramente qualcosa di meraviglioso. Clove odiava Damien per qualcosa tipo... bé, da sempre. Dal primo giorno in cui l’aveva visto. Non che gli altri ragazzini le stessero più simpatici, ma non odiava nessuno di loro come Damien.
Lui era solo un ragazzo viziato, si vantava di essere il numero uno all’Accademia e che per questa ragione vi era stato ammesso un anno prima di tutti gli altri, ma Clove sapeva la verità: lui era una schiappa in tutto quello che faceva e la sua popolarità se la comprava, grazie al prestigio del suo paparino. O meglio dire del suo patrigno. Era ricco sfondato e aveva una grande influenza su tutti, nel Distretto. Per questo Damien poteva fare il teppista senza timore di poterne subire le conseguenze. Nessuno osava punirlo per paura di inimicarsi suo padre. Sempre per questa ragione Damien era costantemente circondato da ragazzini leccapiedi che avevano a cuore soltanto la sua casa enorme e tutto ciò che vi era dentro. Questa era le verità su di lui: senza il suo patrigno e la sua protezione, sarebbe stato meno di niente. Una totale nullità.
Avrebbe potuto elencare una serie di ragioni per le quali odiava quel ragazzo dai capelli scuri e gli occhi neri, tuttavia Clove non sapeva perché Damien ce l’avesse tanto con lei. Forse perché era talmente codardo che preferiva prendersela con una ragazzina che non aveva alcun amico pronto ad aiutarla, ma ad ogni modo pareva che fosse una delle sue prede preferite. Oh, ma ancora pochi anni e poi avrebbe avuto la sua vendetta.
Quando Clove si rese conto che Cato stava venendo verso di lei, con il suo zainetto tra le mani, il sorriso le scivolò via lentamente dalle labbra.
Avrebbe voluto essere lei a umiliare quell’essere inutile. Invece non aveva avuto modo di farlo. Sua madre le aveva sempre detto che la pazienza era una buona virtù e che non sempre si può avere subito tutto quello che si vuole. Certo, Clove era anche certa che la frase di Maryse non comprendesse il fatto di pazientare per escogitare una vendetta migliore, ma questi erano dettagli insignificanti. Ad ogni modo avrebbe atteso per averla. Col tempo sarebbe solo diventata più dolce.
Fino ad allora si sarebbe limitata a non dare alcuna soddisfazione a Damien e ai suoi seguaci. Clove sospettava che fosse quella una ragione per la quale se la prendevano spesso con lei. Non reagiva mai in nessun modo alle loro provocazioni e le rare volte in cui lo faceva erano sempre loro a finire umiliati. Ma mai nel modo in cui li aveva umiliati
lui. In quel momento provò un moto di ammirazione per il ragazzo, ma cercò subito di reprimerlo. Mentre lo osservava avvicinarsi, si chiese cosa lo avesse spinto ad aiutarla.
Non che avesse bisogno di aiuto, ovviamente.
«Tieni.» Disse Cato, porgendole lo zaino.
«Grazie.» Disse lei afferrandolo, senza spostare il suo sguardo dal viso del ragazzo. Improvvisamente si ricordò la prima volta che lo aveva visto, a casa sua, circa un anno prima, in una fredda giornata d’inverno. Si erano osservati, studiati scambiandosi sguardi di scherno. Ma in un certo senso Clove lo aveva preso in simpatia. Non sapeva spiegarsi il perché, ma sembrava diverso da tutti gli altri ragazzini che aveva conosciuto. Comunque non le era mai importato, perché da quel giorno i due non si erano più rivolti la parola e non si erano quasi nemmeno visti. Fino ad allora.
Clove scosse la testa, scacciando i ricordi e si voltò, con l’intenzione di andarsene, ma la voce di Cato la bloccò.
«Sono certo che saresti in grado di stenderlo, quell’idiota.»

Clove si voltò di nuovo a guardare Cato, stringendo lo zaino tra le braccia. Ed eccolo lì, proprio come se lo ricordava: il sorrisetto divertito che aveva sulle labbra il giorno in cui l’aveva conosciuto. La ragazzina si aprì istintivamente in un grosso sorriso. «Bé, sono certa che lo scopriremo presto.»

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SPAZIO AUTORE


Ed eccomi qui con il terzo capitolo! Spero davvero che sia stato di vostro gradimento ;)
Finalmente Cato e Clove si incontrano di nuovo, un anno dopo il loro primo incontro. E’ stato solo un piccolo episodio, ma come avevo già detto, i primi capitolo della storia, con loro due ancora piccoli, saranno molto frammentari e composti da piccoli episodi come questo! Ad ogni modo vediamo che Clove inizia a sentire un certo senso di ammirazione per Cato, ammirazione che non vorrebbe provare ma che non può fare a meno di sentire, perché in un certo senso, vorrebbe essere come lui, vorrebbe già poter frequentare l’Accademia e combattere per avere finalmente la sua vendetta.
Parlando di vendetta... ecco che entra in scena un nuovo personaggio: Damien. Cosa ne pensate di lui??? Vi dico solo che non sarà l’ultima volta che lo vedremo, anzi.
E poi che dire... lo volete in piccolo spoiler sul prossimo capitolo??? :)
Bene, allora posso dirvi che accadrà qualcosa di veramente tragico, qualcosa che ribalterà la vita della piccola Clove...
Detto questo, non mi dilungo oltre! Spero vi sia piaciuto il capitolo! Fatemi sapere che ne pensate, ci tengo davvero molto! Grazie a tutti e alla prossima.

Ah, ci tengo a ringraziare particolarmente: Clover_trifoglio1997, BENNYloveEFP, Giosper, Codex e Dream Moan per aver recensito lo scorso capitolo. Le vostre recensioni mi fanno sempre piacere e mi fanno venire sempre più voglia di proseguire con questa storia! Quindi grazie di cuore ;) e grazie anche a tutti quelli che hanno aggiunto la storia nelle seguite e nelle preferite e a chi l’ha semplicemente letta ;)

Alla prossima!

~ C

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Capitolo 4
*** 4. The Girl with the Knives ***



Till your last breath

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CAPITOLO 4
THE GIRL WITH THE KNIVES

Era passato un mese ormai da quella terribile notte. Un mese. Sembrava essere successo solo il giorno prima. Il dolore almeno era rimasto lo stesso. L’unica differenza era che la disperazione che provava ora era abilmente celata nel suo cuore e non trapelava mai all’esterno a meno che non fosse sola. E questo capitava spesso.
D’altronde perdere la propria madre a undici anni non l’aveva aiutata a socializzare con gli altri ragazzini. Anzi, forse era servito solo al contrario.
Solo sua madre si preoccupava per lei e per il suo essere spesso sola e scortese con gli altri della sua età. Ma ora che se n’era andata non c’era più nessuno che si curasse di lei e di quello che faceva.
A Clove non era mai importato avere degli amici, non davvero. Ma a sua madre sì.
Come le piaceva vestirla da bambolina. Acconciarle i capelli. Metterle fiocchetti tra i riccioli ribelli. Farla sorridere.
Ora era tutto andato. Perduto. Scomparso con lei, sotto le macerie della loro vecchia vita.
Sua madre era sempre stata una donna buona e gentile con tutti, sempre capace di scovare il meglio nelle persone con una sola semplice occhiata. I suoi occhi erano dello stesso colore di quelli di Clove, di un blu scuro e intenso, come il mare in tempesta, ma Clove non era mai stara in grado di capire le persone da un semplice sguardo. Era tanto diversa da sua madre. Lei era un’artista e amava la natura. Proprio per colpa di questa sua passione si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. D’altronde era risaputo che sulle montagne del Distretto 2 le frane erano frequenti. Solo nessuno si aspettava che un pezzo di montagna si sarebbe staccato così all’improvviso, distruggendo tutto, sua madre compresa.
Clove sospirò, soffocando le lacrime che tanto odiava, e passandosi con stizza una mano sugli occhi umidi. Odiava piangere, la faceva sembrare debole. Strinse le mani attorno alle sbarre di ferro e fece dondolare i piedi nel vuoto. Quando doveva restare sola a pensare quello era il posto che preferiva. Seduta al limitare del tetto, con solo quei pali di metallo a separarla dal vuoto. Represse di nuovo un singhiozzo quando improvvisamente una voce ruppe il silenzio, facendola voltare di scatto.
«Hey.»
Clove non voleva che qualcuno la vedesse in quei momenti, per questo dopo ogni lezione si recava in cima al tetto dell’Accademia, dove non andava mai nessuno perché era accessibile solo tramite le scale antincendio. Ed era vietato usarle se non in caso di assoluta necessità.
Si passò velocemente le mani sugli occhi arrossati una seconda volta, come se potesse servire a qualcosa. Non poteva nascondere le lacrime che aveva appena versato. Ma non voleva che Cato la vedesse piangere. Era da tanto che non lo incontrava. O meglio, era da tanto che non si parlavano. Si ricordava di averlo visto al funerale di sua madre, si ricordava anche che Grace, la madre di Cato, l’aveva abbracciata facendole le condoglianze, ma finiva tutto lì. I ricordi di quel momento erano abbastanza offuscati e nella sua mente aveva impressa vividamente solo la bara di legno scuro ricoperta di fiori che conteneva il corpo di sua madre, di Maryse, e la mano di suo padre, che stringeva la sua fin quasi a farle male. Lui non era più stato lo stesso da quel giorno.
«Credevo che nessuno venisse quassù.» Sussurrò Clove, voltandosi dall’altra parte, osservando il sole che si apprestava a tramontare, tingendo il cielo di tonalità pastello, cercando di ritrovare la sua solita compostezza.
«Nessuno che segua le regole.»
Cato si sedette al suo fianco sul pavimento freddo del tetto, le gambe a penzoloni sopra al vuoto, ma Clove non disse nulla. Aveva paura di parlare, aveva paura che la sua voce potesse inclinarsi e spezzarsi, come uno specchio che cade a terra. No, non l’avrebbe fatto. Lei non era debole. Poi si chiese che cosa volesse Cato da lei. Si chiese perché ogni tanto spuntasse fuori nella sua vita per poi scomparire altrettanto all’improvviso, come una fugace visione durante una notte buia.
«Ho sentito che sei la più brava del tuo corso.»
Clove annuì, senza però volgere lo sguardo verso di lui.
«E che sei brava con i coltelli.»
Un tenue sorriso si aprì sulle sue labbra. Si chiese come fosse possibile che uno come lui lo sapesse. Lui era il migliore dell’intera Accademia.
«Ti ho portato questo.»
Al suono di quelle parole Clove fu costretta a voltarsi. Osservò incuriosita il ragazzo ma poi il suo sguardo cadde sulla mano tesa di lui. In essa stringeva il manico di un coltello lucido e dalla lama affilatissima. Aveva un’aria davvero letale.
Clove alzò di nuovo lo sguardo sul ragazzo, sbalordita.
«Prendilo. È tuo.» Disse Cato, facendo roteare il coltello in aria e afferrandolo per la lama. Senza tagliarsi. Ora Clove si trovò a fissare il manico finemente intagliato dell’arma. Sembrava così bello e prezioso. Allungò una mano, titubante, ma poi si bloccò.
«Perché?» Chiese con voce roca.
Cato si strinse nelle spalle. «Sarebbe sprecato per me. Io preferisco le spade.»
Allora la ragazzina prese l’arma per il manico e se la rigirò tre le mani, studiandola con cura. Era davvero bellissima.
«E’ magnifico. Grazie.»
«Ah, diciamo che l’ho preso in prestito dall’Accademia, quindi... è meglio se non lo usi qui.»
Clove sorrise, ma ancora si chiedeva perché mai lui l’avesse fatto. Forse era stata sua madre Grace a dirgli di comportarsi bene con lei visto che conosceva la sua situazione pietosa. Clove scacciò quel pensiero, odiava pensare che la gente avesse pena di lei per ciò che era successo.
«Bé... ci vediamo allora.» La salutò il ragazzo alzandosi in piedi con un solo abile gesto. Le lanciò un ultimo sguardo prima di balzare giù per le scale, agile come un felino. Così Clove rimase ancora sola, in cima al tetto desolato dell’Accademia. Solo che adesso stringeva tra le mani la più bella arma che avesse mai visto. Non era solo un oggetto da usare per addestrarsi. Era davvero bellissimo. Ed era suo. Probabilmente fu da quel giorno che le armi predilette di Clove diventarono definitivamente i coltelli. Non c’era nessuno più bravo di lei a maneggiarli, in tutta l’Accademia. E lei aveva solo undici anni.


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SPAZIO AUTORE


Salve a tutti! Sì lo ammetto, questa volta ci ho messo un po’ ad aggiornare... ma in questo periodo sono sempre piena di impegni... per non parlare della scuola ç__ç ma vabbé, ora per fortuna ho aggiornato quindi... passiamo al capitolo.
Spero che vi sia piaciuto! Quando mi è venuta in mente l’idea di dare una storia anche al coltello di Clove (??) non poteva che essere questa. Quindi spero davvero che sia piaciuta anche a voi e... bé, ecco svelato il lutto che ha sconvolto così tanto la vita della povera piccola Clove! Posso anche dirvi che il prossimo capitolo sarà di transizione: infatti vedremo i cambiamenti di Clove al seguito di questa sua grande perdita. Sarà di transizione anche perché il prossimo capitolo ci porterà dritti nella secondo parte della fanfiction quindi Cato e Clove non saranno più dei bambini!
Ok, come sempre mi perdo sempre in chiacchiere quindi ora chiudo. Ringrazio tutti quelli che leggeranno il capitolo e soprattutto che lasceranno un piccola recensione... mi fanno sempre un immenso piacere ;D
Con la speranza di poter aggiornare presto (anche se, vi avverto, giovedì prossimo parto e non ci sarà per una settimana per cui spero di riuscire ad aggiornare prima!!) vi saluto! Alla prossima ;)

~ C

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Capitolo 5
*** 5. Crossroads ***



Till your last breath

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CAPITOLO 5
CROSSROADS

Colpo. Colpo. Affondo.
La testa di un manichino di plastica volteggiò in aria un paio di volte prima di atterrare dall’altra parte della palestra, rotolando inerme sul pavimento di legno, lontana dal suo corpo, per finire la sua corsa contro il muro della parete opposta.
Cato si raddrizzò, abbassando la spada e guardando con orgoglio il collo mozzato del manichino. Un sorriso soddisfatto gli si dipinse sulle labbra mentre i suoi compagni dell’Accademia si avvicinavano ridacchiando e facendogli i complimenti.
Ma si dispersero tutti non appena un uomo in giacca e cravatta entrò nella sala, raccogliendo tra le mani la testa di plastica. La osservò per un secondo, dritto nei suoi occhi dipinti, come per dare il tempo a tutti i ragazzi di tornare alle proprie postazioni prima di essere sgridati. Poi si diresse a passo di marcia verso il ragazzo biondo, che stava ancora immobile al suo posto, giocherellando con la spada.
«Cato!» Urlò l’uomo quando fu abbastanza vicino. «Quanto volte ti devo ripetere di non mozzare la testa ai nostri manichini?!» L’uomo urlava con la sua voce possente, ma Cato sapeva che non era veramente arrabbiato.
«Mi scusi, signor Silver.» Disse Cato, sorridendogli. Era palese che non era affatto dispiaciuto per quello che aveva appena fatto.
«Mi scusi un corno! Lo sai quanto costano questi aggeggi? Arrivano direttamente da Capitol City! Le fanno pagare care le cose, laggiù! La prossima volta, mi dovrai risarcire!» Terminò il signor Silver, il boss dell’Accademia. Era un uomo alto e muscoloso, con i capelli striati di grigio ben curati e pettinati all’indietro e un paio di baffetti perfettamente tagliati. Non lo dava a vedere, ma Cato sapeva di essere uno dei suo favoriti. D’altronde non era un segreto che lui fosse praticamente il migliore e non perché suo padre versava ingenti somme a nome dell’Accademia.
Il signor Silver aveva i suoi pupilli ed essi erano certamente quelli che dimostravano di essere i migliori in forza e agilità. Cato rientrava fra questi anche se spesso doveva sorbirsi le sue lamentele perché quasi ogni giorno capitava che il ragazzo combinasse qualche guaio. O che distruggesse il materiale dell’Accademia, com’era successo in quel momento, oppure che attaccasse lite con qualche altro ragazzino... ad ogni modo la passava quasi sempre liscia. Quasi.
«Cos’hai da sghignazzare? Posa la spada. Sei già diventato fin troppo bravo con quell’arnese.» Cato aggrottò le sopracciglia e lo guardò con un cipiglio imbronciato. «Veloce, veloce! Spostati alla postazione di tiro con l’arco!» E non ammettendo repliche il signor Silver allungò la mano verso la spada, facendogli un gesto impaziente. Cato sbuffò e gliela porse. Senza perdere tempo a lamentarsi si spostò in fondo alla palestra e svogliatamente afferrò un arco. In quel momento vide un gruppo di ragazzi più piccoli, del secondo o terzo anno, passare nel corridoio adiacente alla palestra. Probabilmente si stavano spostando nella palestra delle funi. La chiamavano così non solo perché in essa vi erano un incredibile moltitudine di funi per l’arrampicata, disposte in ogni angolo e posizione e con vari livelli di difficoltà, ma anche perché quella palestra era interamente dedicata all’arte del sapersi arrampicare su ogni cosa. Oltre alle funi vi erano anche aggeggi come pertiche e costruzioni di legno scolpite in piccoli cubi che arrivavano fino al soffitto. Senza contare i grossi alberi che si ergevano al centro. Saper scalare gli alberi era di vitale importanza perché quasi sempre l’arena degli Hunger Games era una foresta. Al limitare della grande palestra erano state esportate direttamente dalle montagne del Distretto delle spesse pareti rocciose alle quali bisognava arrampicarsi senza funi di sicurezza. Cato non avrebbe saputo dire quanti pivelli incapaci si rompessero un braccio o si slogassero una caviglia ogni giorno perché non erano in grado di scalarla.
Ad ogni modo il gruppo era quasi del tutto passato, quando la sua attenzione venne catturata da una chioma di capelli neri, raccolti in un’alta coda di cavallo che danzava al ritmo della camminata della ragazza.
Cato riconobbe Clove immediatamente.
E mentre la vedeva scomparire dietro la porta, ripensò a quando, qualche giorno prima, l’aveva seguita sul tetto dell’Accademia per regalarle il pugnale. Non sapeva spiegarsi esattamente perché l’avesse fatto. Rubare era illegale. Non che gli importasse poi più di tanto e sicuramente se fosse stato beccato il signor Silver avrebbe chiuso un occhio.
Ma solo qualche giorno prima, mentre si dirigeva agli spogliatoi dopo l’ennesimo giorno di allentamento, l’aveva vista allenarsi tutta sola nella palestra delle lame. Non c’era più nessuno con lei, eppure la ragazzina continuava ad allenarsi come se niente fosse, come se ne andasse della sua stessa vita. Cato si era fermato qualche istante ad osservare la sua muta concentrazione mentre con precisione micidiale piantava un coltello dietro l’altro, tutti nel centro perfetto del bersaglio.
Cato non era un ragazzo che si impressionava facilmente, ma la vista di quella ragazzina di appena undici anni, ancora così piccola e smilza, che tirava i coltelli con tale precisione lo colpì. Capiva perfettamente come si sentisse.
Lei aveva perso sua madre. Trovava conforto solo quando pensava intensamente e senza sosta agli allenamenti. Era una cosa che lui faceva da anni, ormai.
Era da quando si erano conosciuti che aveva sentito qualcosa di diverso in quella ragazzina dai capelli neri e gli occhi scuri e profondi. Forse perché, in un qualche strano senso, erano anime affine. Erano lupi solitari che riuscivano a dimenticare tutto quanto solamente quando erano immersi anima e corpo negli allenamenti. Ad ogni modo aveva rubato quel coltello per lei e quando glielo aveva regalato aveva capito che aveva fatto la cosa giusta. L’aveva visto nei suoi occhi, che per un breve istante si erano messi a brillare. Un istante, uno solo che aveva sferzato la tristezza infinita che celava negli occhi scuri.
«Hey! HEY TU!» Cato si voltò di scatto, il suo momento di riflessione ormai interrotto. Il signor Silver si avvicinava a lui, sventolando pericolosamente la spada sopra la sua testa. I ragazzi attorno a lui si allontanarono, in allerta. «Che diavolo combini?! Ti ho detto di spostarti alla postazione dell’arco, ma non per stare li in piedi come un ebete a far nulla!»
Cato lanciò un ultimo sguardo alla porta, anche se ormai Clove non si vedeva più.
Con un sogghigno beffardo andò al suo posto e si mise in posizione. Chiuse un occhio allineando la punta della freccia verso il centro del bersaglio. La scoccò ed essa sferzò l’aria andandosi a conficcare quasi perfettamente nel centro. Quasi. Già, il tiro con l’arco non era il suo forte. Non c’era verso di cambiare i fatti, preferiva sempre le spade, pensò Cato, incoccando un’altra freccia.
Prima di lanciare anch’essa verso il bersaglio, senza sapere su che base formulò un tale pensiero, sentì che un giorno non troppo lontano la sua strada e quella di Clove si sarebbero di nuovo incrociate.


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FINE PRIMA PARTE

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SPAZIO AUTORE


Salve lettori e lettrici! E scusatemi se ci ho messo tanto ad aggiornare! Come vi avevo forse accennato, sono andata via per una settimana e al mio ritorno sono stata sommersa dalle cose di scuola che avevo perso... interrogazioni, verifiche... un mare di roba ecco!
Ad ogni modo ora sono di nuovo in pari, più o meno, e posso tornare a dedicarmi alla mia storia! Alloooora... il capitolo, come si è capito, è una transizione dalla prima alla seconda parte della fanfiction! Non è nulla di che, ma volevo inserire questa breve riflessione di Cato ;)
Il prossimo capitolo invece vedrà l’inizio di una parte nuova, i protagonisti saranno più grandi e non più dei bambini e... bé, vedrete quando lo pubblicherò! Il che dovrebbe essere tra non molto, visto che voglio recuperare il tempo perduto!
Spero davvero che mi perdoniate per la mia lunga assenza, che il capitolo vi sia piaciuto e che continuiate a seguire la mia storia ;) Alla prossima!

Grazie a Hope_2000, Dream Moan e girlofblood per aver recensito lo scorso capitolo ;)

~ C


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Capitolo 6
*** 6. Sweet revenge ***



Till your last breath

PARTE SECONDA


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CAPITOLO 6
SWEET REVENGE

Clove stava seduta su un muretto grigio della scuola, celata dietro l’ombra di un grosso cespuglio fiorito. Le piaceva stare lì perché nessuno poteva vederla dal cortile affollato di studenti vocianti, mentre lei, per ogni evenienza, poteva osservare chiunque senza essere vista.
Proprio mentre pensava a ciò, ecco che i suoi occhi trovarono una figura ben nota in mezzo alla folla di studenti. Un mezzo sorriso le increspò le labbra.
Era cresciuta, ora. Aveva ormai quindici anni. Non era più la bambina solitaria che era un tempo. Non era più consumata dal dolore e dalla disperazione che una tanto grande perdita aveva comportato. Certo, la malinconia era rimasta, ma ad un certo punto si era resa conto che sua madre non avrebbe mai voluto questo per lei. E quindi aveva deciso di tornare a vivere, perché era ingiusto lasciare che la vita le scorresse attorno come un fiume in piena mentre lei restava indietro e si lasciava affondare. Era ingiusto nei confronti di chi un’occasione simile non l’aveva avuta, di chi la vita l’aveva persa da un giorno all’altro, senza poterla nemmeno salutare. Aveva capito che era ingiusto nei confronti di sua madre lasciare che tutto accadesse passivamente attorno a lei.
Sì, sua madre avrebbe voluto vivere, ne era certa. Lei amava la vita in ogni sua sfumatura, perché sapeva sempre coglierne i lati positivi. Clove invece, aveva preso da suo padre. Un carattere più chiuso, più schietto. Ma questo non giustificava il suo comportamento, non più. Così aveva pian piano ricominciato a riprendersi la sua vita.
In primis si era data da fare all’Accademia, allenandosi con costanza e diventando una delle più brave e letali combattenti e non solo tra i compagni della sua età. Il suo punto forte erano le lame piccole, utili per combattimenti ravvicinati ma soprattutto come armi da lancio. Aveva una mira infallibile.
Clove si rigirò tra le mani un coltello che si portava sempre appresso. Quando non aveva niente da fare, si esercitava con quello.
Ma non era un semplice coltello, no. Glielo aveva donato il ragazzo che stava osservando da lontano. Anche lui era cresciuto. Non sembrava più un ragazzino ormai: era diventato più alto e il suo fisico si era irrobustito, merito anche del duro allenamento che seguiva ogni giorno in Accademia. Ma alcuni tratti di lui restavano sempre gli stessi, come gli occhi azzurri e limpidi e i capelli biondi e chiarissimi.
E la sua ostentata arroganza e superbia. Sapeva di essere il migliore e non cercava minimamente di nasconderlo. E Clove non lo biasimava per questo. Anzi, lo ammirava.
Proprio mentre era persa nei suoi pensieri una voce la riportò alla realtà.
«Oh! Ma lo sai che sei inquietante Clove? Perché ti nascondi sempre qui dietro al buio con quel dannato coltello in mano? Progetti di uccidere qualcuno?»
Carolyn. Per qualche arcana ragione nota solo a lei, quella piccola ragazzina smilza con vivaci capelli rossi aveva deciso di voler essere sua amica. La vecchia Clove l’avrebbe allontanata immediatamente, perché quel piccolo essere dalla voce acuta non aveva niente a che fare con lei: non frequentava l’Accademia, non sapeva maneggiare nessun arma ed era incapace in qualsiasi attività che necessitasse di un minio di praticità. Per esempio non sapeva arrampicarsi sul muretto o correre per più di cinque minuti consecutivi. Figurarsi tirare un coltello. Tutte queste cose la irritavano molto.
Stava di fatto che, da un giorno all’altro, Clove iniziò a trovarsela attorno più spesso di quanto potesse desiderare. La maggior parte delle volte si limitava ad ignorarla, facendo finta di ascoltare i suoi futili discorsi e sperando che, offesa dal fatto di essere ignorata, se ne andasse le lasciasse perdere. Ma questo non succedeva mai.
Clove non era fatta per avere amici. Non avrebbe saputo spiegarsi il perché, semplicemente non ci riusciva. O forse non aveva mai trovato la persona giusta. Preferiva la compagnia delle sue armi o la solitudine dei boschi o la neve d’inverno. Tutte cose che non la deludevano mai e non la ferivano mai. Già, nemmeno i coltelli. Da che si ricordava, non si era mai tagliata con uno di essi tra le mani.
«Può darsi.» Rispose Clove pigramente, continuando a giocherellare con il suo coltello e a seguire con lo sguardo i movimenti di Cato in lontananza, senza degnare Carolyn di una minima attenzione. La ragazza rise, come se Clove avesse fatto una battuta. In realtà non era affatto così, ma glielo lasciò credere.
«Cosa stai guardando?» Chiese lei, alzandosi in punta di piedi per vedere oltre il muretto. Ovviamente non provò neanche ad issarcisi sopra. Invece iniziò a saltellare, cercando di capire cosa avesse attirato il suo interesse.
Ancora una volta, Clove non la degnò di uno sguardo.
Cato stava scherzando con dei compagni di classe. Tirò una pacca sulle spalle di uno, che per poco non perse l’equilibrio e cadde a terra. Questo non fece altro che farlo ridere di più. Ma il suo compagno non sembrava poi così divertito.
A vederla così, sembrava che Cato avesse tantissimi amici, ma in realtà la maggior parte di quelli che stavano con lui era perché lo temevano. Nessuno a scuola avrebbe mai osato mettersi contro di lui, ma per evitare qualsiasi disguido era meglio cercare di entrare nelle sue grazie per ottenere l’immunità. In fondo quando Cato si arrabbiava qualcuno finiva quasi sempre in ospedale con qualcosa di rotto.
«Ommioddio. Stai fissando Cato?»
«No.»
«Sì invece. Ti sei presa una cotta?»
«No.» Ribadì di nuovo Clove, scocciata.
«O dai, sii sincera!» Era ufficiale ormai, Carolyn non sapeva proprio nulla di lei. A Clove i ragazzi non interessavano. Le importava solo delle sue armi e dei suoi allenamenti. Cato era solo uno come tutti gli altri, con l’unica differenza che Clove lo ammirava per il suo talento all’Accademia e per il fatto di essere il più temuto e rispettato di tutta la scuola.
E poi non si era mai sdebitata con lui per il regalo che le aveva fatto, pensò Clove lanciando in aria il coltello. In un certo senso, si sentiva ancora in debito e sapeva che un giorno o l’altro avrebbe dovuto almeno ringraziarlo, ma non lo faceva mai e si limitava ad osservarlo di tanto in tanto, come se si aspettasse che l’occasione giusta o le parole adeguate piombassero dal cielo al momento opportuno. Ma non era mai accaduto.
Carolyn le scuoteva una mano davanti agli occhi, cercando di attirare la sua attenzione, ancora eccitata dallo scoop che aveva appena scoperto. O meglio dire che aveva appena inventato. La conferma del fatto che quella ragazzina non sapesse nulla di lei le si presentò solo qualche istante dopo. «Dai, ammettilo che ti piace Cato!» Riprese a schiamazzare come una gallina, insistendo ancora su quell’argomento. Solo che la sua voce ora si era decisamente alzata troppo di volume e chiunque passasse lì vicino avrebbe potuto sentire le sciocchezze che le uscivano di bocca. «Ogni giorno ti metti qui e lo osservi! Non ho forse ragione?»
Clove la fulminò con lo sguardo, lanciandole un avvertimento, ma proprio in quel momento passò loro affianco Damien, che ovviamente aveva sentito tutto. Il sorriso beffardo che aveva dipinto sulle labbra lo confermava.
Anche lui era cresciuto, ma il suo carattere non era cambiato. Per niente.
«Ma guarda un po’. Chi l’avrebbe mai detto? Clove la sfigata ha una cotta per il fighetto?»
Lo sguardo omicida di Clove si spostò lentamente su Damien. Lui aveva un enorme sorriso di scherno stampato in volto e la guardava con le mani nelle tasche dei pantaloni, cogliendo al volo l’opportunità per tormentarla. D’altronde era da molto che non lo faceva. Dopo la morte di sua madre aveva evitato. Che gran tatto.
Ma probabilmente ciò che aveva sentito dire da quella maledetta pettegola era stato uno spunto troppo succoso per poter lasciar perdere. D’altronde Clove sapeva che Damien non la sopportava ed era anche risaputo che tra lui e Cato non ci fosse un grande rapporto di amicizia, anzi.
«Tappati quel dannato buco, Dam. Non sono dell’umore adatto.» Clove pronunciò il nomignolo idiota con il quale lo chiamavano i suoi amici come se stesse sputando fuori veleno.
Damien si mise a ridere, scansando Carolyn senza degnarla di uno sguardo. A Clove avrebbe potuto fare pena, d’altronde era l’unica ragazza della scuola che almeno provava ad essere amica sua, ma in realtà non le importava molto di lei. Infondo non le aveva chiesto di cercare di essere sua amica. Stava facendo tutto da sola.
«E quando mai lo sei, eh? Depressa.»
Damien aveva toccato un tasto scoperto e questo bastò ad irritare Clove più del necessario. La ragazza arricciò le labbra in un sorrisetto malvagio. D’altronde ormai era grande abbastanza per reagire, no? Era da tempo che aspettava di avere la sua vendetta, aveva progettato di prendersela una volta iniziata l’Accademia, ma da allora aveva avuto altri pensieri per la testa e l’idea di Damien e dei suo leccapiedi, che in quel momento non erano nei paraggi, non l’aveva mai più sfiorata. Ma ora, mentre osservava i suoi occhi scuri e strafottenti, ricordò i momenti in cui era bambina, quando lui e i suoi amichetti se la prendevano con lei e ricordò i suoi progetti e l’impazienza di potersi finalmente vendicare nel modo adeguato. Bé, ora poteva farlo. «Ti conviene andartene subito prima che mi arrabbi davvero, Damien.» Come se non lo fosse già. Ma quelle parole volevano solo essere una provocazione... che il ragazzo colse subito, ovviamente.
«Oh, ma che paura! Che succede, ho forse ferito i tuoi sentimenti?» Disse lui con finto tono piagnucoloso, schernendola.
«No, ma presto potrebbe essere che io ferisca i tuoi. A pensarci bene, ho parecchi conti in sospeso con te. Sarebbe ora di pareggiarli.» Clove saltò giù dal muretto con l’agilità e la grazia di un gatto e soppesò il suo coltello affilato tra le dita, con finta aria noncurante.
«Oh, non fare tanto la dura, ragazzina. Non avresti mai il coraggio di...» e proprio mentre pronunciava quelle parole, Clove lanciò il suo coltello con una precisione impeccabile e una velocità quasi impercepibile. La lama si conficcò nel muro alle spalle di Damien mentre sulla sua guancia si apriva un taglio sottile.
«Brutta piccola mocciosa!» Esclamò lui, passandosi con rabbia una manica della camicia candida sulla guancia, pulendo il sangue che iniziava a colare dalla ferita superficiale. La stoffa si macchiò immediatamente di rosso.
Clove invece si lasciva andare ad una ristata divertita. Era bello mettere in pratica ciò che aveva imparato a fare così bene e farlo non su un manichino ma su un soggetto come quell’imbecille di Damien. Clove sentì Carolyn trattenere il respiro mentre la vedeva scagliare il coltello ed emise un gridolino acuto quando vide il sangue colare dalla guancia di Damien. Appariva abbastanza scioccata dal gesto di Clove, ma lei ovviamente non se ne curò.
Con uno sguardo carico d’ira Damien caricò contro di lei, ma Clove era pronta. Oltre ad essere un’ottima tiratrice era anche piccola e veloce. Inafferrabile per un bestione lento e impedito come lui. In un istante Clove si ritrovò alle sue spalle e lo colpì alla schiena con un calcio preciso e mirato. Damien cadde in ginocchio ma si rialzò quasi subito, rosso per l’indignazione.
Clove non se n’era accorta ma ora quasi tutti i ragazzi nel cortile stavano osservando la scena o si avvicinavano per farlo. Cato compreso. Bene, pensò, ora lui avrebbe visto che sapeva cavarsela benissimo anche da sola. Damien cercò di nuovo di colpirla, deciso a rimediare all’umiliazione di essere stato messo in ginocchio da una ragazza e per di più molto più piccola di lui, ma Clove recuperò il suo coltello e, con poche abili mosse, Damien se lo ritrovò premuto contro la gola.
Clove gli sussurrò all’orecchio, con voce appena udibile. «Non osare mai più disturbarmi, o la prossima volta potrei non fermarmi.» La sua voce ora era puro veleno, mentre aumentava di poco la pressione della lama sul collo, tanto per marchiare meglio le sue parole. «È chiaro?»
Lui grugnì qualcosa in risposta, ma Clove voleva sentire la sua voce, voleva regalargli un’umiliazione senza pari, davanti a tutta la sua scuola, ai suoi compagni e ai suoi amici. Premette di più la lama sulla sua pelle ma prima che potesse aprire una vera ferita Damien sputò fuori con voce udibile un sì.
«Bene.» Esclamò Clove, d’un tratto di nuovo allegra e sorridente, lasciandolo andare.
Damien si allontanò in fretta, barcollando e guardandola con odio. «Sei solo una piccola psicopatica. Ti senti tanto forte armata. Vorrei vedere cosa faresti se io avessi una spada. Ma non finisce qui. Me la pagherai. Mi vendicherò.» Disse prima di correre via, accompagnato dalle risate di molti ragazzi. Clove si voltò per recuperare il suo zaino dal muretto e fu allora che i suoi occhi incontrarono quelli di Cato. Non seppe dirlo con certezza, ma le parve di vedere un’espressione soddisfatta sul viso di lui.
Con un sorriso più allegro che mai, Clove si voltò, mulinando i lunghi capelli neri, e con molta dignità lasciò il cortile, sotto lo sguardo dei suoi compagni. C’era chi la guardava con una certa ammirazione, chi con timore o incredulità, chi come se fosse completamente matta. Carolyn era tra questi, ma Clove se la lasciò alle spalle senza considerarla, camminando a testa alta per la prima volta da molto, molto tempo.



SPAZIO AUTORE


Salve a tutti lettori e lettrici! Eccovi finalmente la seconda parte della fanfic! Come avrete potuto notare ora Cato e Clove non sono più dei bambini, ma dei ragazzi e questa è la principale differenza dai cinque capitoli precedenti.
Spero veramente che il capitolo vi sia piaciuto! Io mi sono divertita molto a scriverlo! A descrivere il comportamento di Clove nei confronti della povera Carolyn (dai, fa un pochetto di pena, no? Anche se, come si dice, chi è causa del suo male pianga sé stesso!)
E mi è piaciuto anche scrivere della così aspettata vendetta di Clove! Damien mi piace come personaggio, lo immagino come... be’, come un Draco Malfoy dei poveri, ecco u.u solo con i capelli scuri! Ahah sappiate che questa non è l’ultima volta in cui lo vedremo, anzi. Più avanti diventerà molto importante.
Che altro dire?? Grazie mille a chi leggere/recensisce/segue questa storia! Sono sempre più felice di averla scritta e ricordatevi che una recensione, anche piccola piccola, mi fa sempre piacere!
Be’, alla prossima allora! Con affetto,

~ C

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Capitolo 7
*** 7. La vendetta di Damien ***



Till your last breath

CAPITOLO 7

LA VENDETTA DI DAMIEN


Clove sapeva di dover fare qualcosa. Non potevano andare avanti così. Suo padre non portava più a casa soldi a sufficienza per vivere e Clove iniziò a dubitare anche che stesse seriamente lavorando. La maggior parte delle volte si chiudeva nel suo studio e non faceva altro che starsene lì chinato su fogli spiegazzati e centinaia di carte sulle quali scriveva chissà che cosa. Si barricava lì dentro per la maggior parte del giorno, senza mai aprire le finestre per far entrare un po’ d’aria fresca o senza mai scostare le tende scure per lasciar filtrare la luce del sole. La polvere regnava sovrana in tutto il suo studio ma lui non permetteva a nessuno, nemmeno a lei, di mettervi mano.
Clove aveva provato a farlo ragionare, me sembrava quasi di parlare con uno spettro, con qualcuno che non poteva realmente sentire. Se ne stava lì a fissarla con i suoi occhi vuoti e l’espressione lontana mentre lei parlava.
Ma a detta sua tutto andava bene.
Sì, e forse nel suo mondo immaginario sua madre era ancora viva e sarebbe tornata a casa a momenti. Ma non era così.
Era in quello stato catatonico sin dalla sua morte. Da allora non era più stato lo stesso. Era rimasto indietro e non c’era modo di salvarlo dal mondo in cui era caduto o meglio in cui si era gettato a capofitto. Un mondo incomprensibile a tutti se non a lui stesso. Lavorava, di tanto in tanto, ma non portava a casa soldi a sufficienza. E questo aveva iniziato a diventare un problema. Un problema che Clove non sapeva ancora come risolvere  ma al quale pensava da molto.
Suo padre aveva deciso di vivere in un mondo di finzione, ma lei viveva nella realtà. Ed era abbastanza grande per realizzare che le cose andavano male. Tuttavia era ancora troppo giovane per poter portare a casa dei soldi. Chi andava ancora a scuola o all’Accademia non poteva lavorare, era categoricamente vietato dalle leggi. O almeno lo era nel Distretto 2.
Clove si era arrovellata per giorni e giorni su questo problema, senza trovarvi una soluzione. Sapeva solo che senza soldi suo padre non avrebbe più potuto pagare il cibo, e probabilmente avrebbero perso anche la casa. E allora cose ne sarebbe stato di loro?
No, Clove non lo avrebbe permesso. E c’era una sola soluzione a tutti quei problemi.
Un solo modo perché una ragazza di quasi sedici anni potesse portare a casa soldi.
Solo uno.
Gli Hunger Games.
L’idea le era venuta in mente a scuola, mentre la professoressa ne parlava. Si chiese come avesse fatto a non pensarci prima. Il vincitore era ricoperto da ricchezze e onore. E una nuova casa. Forse una nuova vita avrebbe strappato suo padre dal mondo irreale in cui si era rinchiuso. Ma c’era un problema.
Doveva tornare a casa.
Doveva vincere i giochi.
Doveva uccidere gli altri ventitré tributi.
Non che non ne avesse le capacità. Clove era forte e agile. Letale quando impugnava i suoi coltelli. Però non poteva essere così certa di vincere. C’era sempre una probabilità, seppur piccola, di morire nell’arena...
Ma no, doveva scacciare quell’idea dalla sua testa. Doveva essere sicura di quello che faceva.
Finita la lezione, ormai aveva deciso. Si sarebbe proposta come tributo e lo avrebbe fatto quel giorno stesso. Era convinta. Determinata. Era pronta. Poteva farcela. Anzi, ce l’avrebbe fatta.
Quando lo comunicò agli istruttori, rimasero tutti molto colpiti dalla sua scelta. Di solito i volontari erano più grandi di lei. Ma questi non erano affari loro. Ciò che dovevano fare era avere due tributi da mandare, ogni anno. Non importava la loro età.
Quando Clove si lasciò l’Accademia alle spalle, lo fece con fierezza. Sì, avrebbe partecipato agli Hunger Games. E sì, avrebbe vinto.
In più le era giunta voce che il tributo di quell’anno sarebbe stato Damien. A quel pensiero le sue labbra si incurvarono in un sorriso sadico. Sarebbe stato un onore per lei far fuori quell’imbecille una volta per tutte e mostrare al mondo intero quanto valesse in realtà. Era famoso e rispettato solo per l’alta posizione del suo patrigno in società. Era uno dei pezzi grossi e collaborava anche con Capitol City. Ricco sfondato, con una casa da fare invidia alle villette che stavano su al villaggio dei vincitori. Per questo era sempre circondato dalla sua banda di gorilla leccapiedi. Ma nell’arena non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo. Nessuno a salvarlo. Sarebbero stati solo loro due e le loro abilità.
E lei non vedeva l’ora che arrivasse quel momento.


***

L’allenamento era finito prima quella sera. Tecnicamente lei avrebbe dovuto fare degli orari extra, in preparazione agli Hunger Games, ma il suo addestratore aveva degli impegni e le aveva detto di essere comunque a buon punto con l’allenamento. Era fiero di lei. Avrebbe avuto molte probabilità di vittoria.
Bé, non c’era bisogno che glielo dicesse lui.
Clove stava raccogliendo i capelli bagnati in una coda frettolosa, quando vide Damien trascinarsi stancamente verso l’uscita. Lui avrebbe certamente avuto bisogno di allenamento extra, se voleva avere qualche chance di batterla nell’arena.
Clove gli si avvicinò silenziosa, con un sorrisetto canzonatorio sulle labbra. Era stanca, ma non abbastanza per evitare un battibecco con lui.
«Hey, stanco di allenarti Dam? Potresti anche smettere, sappiamo entrambi che non uscirai vivo dall’arena.» Esclamò Clove con voce di velluto.
«Cosa ne sai tu, nanerottola?»
«Ma come, non te l’hanno ancora detto?»
Lui la guardò senza capire, detergendosi il sudore dalla fronte. Era talmente stanco che non aveva nemmeno la forza di prenderla in giro adeguatamente.
«Sarò io il tributo di quest’anno. Dovrai affrontare me nell’arena. E sappiamo entrambi che non sei in grado di battermi.» Disse con un largo sorriso innocente.
Lui si fermò un istante, un’espressione sorpresa sul viso. Clove era estasiata dall’effetto che le sue parole avevano avuto. Non credeva di essere così temuta da lui. O almeno non credeva che lo avrebbe dato a vedere in modo così palese.
Era più codardo di quanto si ricordasse.
Ma improvvisamente le labbra di Damien si piegarono in un ampio sorriso. Anzi, Damien scoppiò addirittura a ridere. Clove gli rivolse un’occhiata guardinga. Era forse impazzito?
La ragazza rimase pazientemente in attesa che lui la smettesse di ridere. Quando lo fece, i suoi occhi erano strani. Come se si fossero rianimati, come se la stanchezza fosse evaporata da essi, lasciando spazio a una luce sinistra. Clove non riusciva a capire il perché, ma non si fece troppi problemi e non disse nulla.
«Ah, è così allora? Ti offrirai volontaria?» Damien ricominciò a ridere. «Bene, non vedo l’ora che arrivi il giorno della mietitura. Ci sarà da divertirsi nell’arena, vero? Credo che finalmente avrò la mia vendetta. E’ sarà ancora più spettacolare di quanto credessi.» E con quelle parole e un sorriso meschino si allontanò. Ma c’era qualcosa di strano in lui, Clove sentì quella sensazione. Come se le stesse nascondendo qualcosa. Come se in quell’istante di esitazione nella sua mente si fosse formato un piano diabolico.
Clove si strinse nelle spalle e scosse la testa. Ad ogni modo non aveva importanza. Poteva escogitare tutti i piani diabolici del mondo. Non avrebbe cambiato i fatti, non nell’arena. Là sarebbero stati solo loro due, uno di fronte all’altra. E a combattere sarebbero state le loro abilità, non i suoi trucchetti o i suoi amici. Solo loro due. E allora Clove avrebbe pareggiato i conti una volta per tutte.


***

Damien svoltò l’angolo e attese che la ragazza se ne andasse. Sentì i suoi passi sempre più lontani, poi una porta che sbatteva. Era solo nella palestra, ora.
Scoppiò di nuovo a ridere, abbandonandosi contro la parete più vicina fino a scivolare a terra, senza smettere. L’euforia aveva pervaso ogni nervo del suo corpo, scacciando temporaneamente via la spossatezza. Non ci credeva. Non poteva davvero crederci.
Lei pensava che lui sarebbe stato il volontario di quell’anno.
Non aveva idea. Non aveva assolutamente idea di quanto si sbagliasse.
Voleva vendicarsi dell’umiliazione subita da quella sciocca ragazzina, ma questo era molto meglio. Oh, era assolutamente meglio. Era magnifico.
Non vedeva l’ora di vedere la sua faccia il giorno della mietitura. Quando avrebbe realizzato che lui non era il volontario. Voleva vedere ogni singolo cambiamento, ogni singolo istante. Voleva vedere la consapevolezza farsi largo sul suo viso. Voleva vederla distrutta, dentro e fuori. Voleva gustarsi il momento in cui lei avrebbe capito di dover uccidere il ragazzo che aveva sempre amato, sin da quando era una stupida mocciosa. Così finalmente avrebbero pareggiato i conti. Anzi, era ancora meglio: si sarebbe vendicato di due persone in un colpo solo. Avrebbe potuto essere più fortunato di così?
Il bello degli Hunger Games era che tutto sarebbe stato ripreso. Anche il momento in cui lei avrebbe dovuto affrontare la verità.
Damien smise di ridere, riprendendo a respirare normalmente e con una spinta tornò in piedi. Ma il sorriso malsano che aveva sulle labbra non si spense, anzi, rimase lì per tutto il resto della giornata.
Durante il tragitto per tornare a casa pensò a quando sarebbe arrivato quel momento. Il momento in cui sarebbero rimasti solo loro due nell’arena. Lei lo avrebbe ucciso e avrebbe vinto, accettando di convivere con il risentimento e il senso di colpa per tutta la sua vita, o avrebbe ceduto e si sarebbe fatta ammazzare come una sciocca ragazzina piuttosto che ferire il ragazzo del quale era innamorata? Damien non seppe darsi una risposta. Ma non c’era bisogno che si arrovellasse troppo. Presto lo avrebbe scoperto. Lo avrebbe visto con i suoi occhi. Ormai era solo questione di tempo.



SPAZIO AUTORE

Salve a tutti miei cari lettori e lettrici! Mi spiace di averci messo un po' per aggiornare ma la scuola mi sta davvero torturando! Comunqe... eccovi qui il capitolo!
Clove ha preso l'estrema decisione: per permettere a lei e a suo padre di sopravvivere ha deciso di offrirsi volontaria per gli Hunger Games! È sicura di poter vincere, sa di averne tutte le possibilità ma c'è una cosa che ignora totalmente... ovvero che Damien non sarà il tributo maschio. E non aveva ancora fatto i conti con la sua vendetta. Ma perché lui la odia tanto, vi chiederete? Questo suo spasmodico desiderio di vendetta va ben oltre l'immaginabile! Be', sappiate che c'é un'altra ragione che lo ha portato ad odiare Clove, ed essa verrà svelata nel prossimo capitolo. Detto questo, non mi dilungo oltre ma ringrazio tutti per aver letto la mia storia, per averla inserita tra le seguite o preferite e per averla commentata! Grazie, davvero di cuore ;)

E in particolare ringrazio: Dream Moan (grazie davvero per avermi seguita fin dal primo capitolo <3), Queen_B (le tue recensioni sono sempre meravigliose *-*), Veroniquess_95, lottieverdeen e Lali Jai per aver recensito lo scorso capitolo! Grazie mille ;)
Alla prossima!

~ C

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Capitolo 8
*** 8. La Mietitura ***



Till your last breath

CAPITOLO 8
LA MIETITURA

Clove camminava con passo sicuro per la strada principale del Distretto 2. Indossava un semplice vestito nero, come se stesse portando ancora il lutto, e dei comodi stivali in pelle, neri anch’essi, come quelli che usava per gli allenamenti. Dentro uno stivale aveva nascosto, com’era solita fare, il suo coltello preferito.
Il giorno era arrivato.
Clove non riusciva ancora a capire come si sentisse. Agitata? Euforica? Impaziente?
Preoccupata? No. Preoccupata no.
Aveva superato quel punto molti mesi prima. Sapeva di potercela fare e di avere tutte le possibilità per vincere. Era allenata, abile, veloce. Senza scrupoli, perché tutto ciò che voleva era essere incoronata vincitrice e sarebbe successo. Non importava a che prezzo.
Anche se questo voleva dire uccidere.
D’altronde non era forse quella la regola dei Giochi? Uccidere o essere uccisi?
Lei non sarebbe mai stata la vittima.
Si mise in fila assieme alle altre ragazze della sua età. Si sentiva gli occhi di tutte puntati addosso. Molte mormoravano, alcune la indicavano anche, cercando di non farsi notare dai pacificatori che camminavano loro attorno. Clove sapeva perché lo facevano; non capitava spesso che si offrisse una ragazza di sedici anni.
Bé, quell’anno sarebbe successo.
Da qualche parte nella folla sapeva esserci Carolyn. Lei aveva provato a convincerla a desistere in ogni modo possibile, le aveva anche offerto dei soldi una volta intuito che il suo problema fosse quello. Ma Clove l'aveva scacciata in malo modo, senza darle ulteriore tempo di parlare e senza ascoltare le sue parole. Da quel giorno Carolyn non le aveva più rivolto la parola, non l’aveva più cercata.
Clove sapeva di essere meschina, ma non poté negarsi di pensare che quel giorno l’avrebbe volentieri presa a schiaffi. Chi era lei, per cercare di convincerla? Per farle cambiare idea? Nessuno, non era nessuno. Alla fine si era trattenuta, limitandosi a usare le parole. Avrebbe potuto sfogarsi nell’arena, anzi.
La rabbia repressa l’avrebbe resa ancora più feroce.
Da qualche parte tra i ragazzi invece c’era Damien. Chissà cosa stava facendo o a cosa stava pensando. Si stava mangiando le unghie disperando per il suo futuro? Stava per mettersi a piangere immaginando la sua morte imminente? Un sorriso diabolico increspò le labbra di Clove. Dal giorno in cui aveva deciso di offrirsi come tributo e dare una scossa alla sua vita si era buttata a capofitto nell’allenamento, senza badare a nient’altro. Era diventata più forte, più sveglia. I suoi riflessi più acuti. Era diventata una vera cacciatrice.
Era come un lupo: silenziosa e letale.
Clove vide l’assurdo emissario mandato da Capitol City salire sul palco. Era un ometto basso e tondo, con dei radi e stopposi capelli verde acido e gli occhi euforici. Iniziò a parlare, ripetendo le solite cose che ripetevano ogni anno ad ogni edizione dei Giochi: com’erano nati, la ribellione dei Distretti, l’oppressione, il periodo buio. E poi la rinascita.
L’uomo portò al Distretto i complimenti della Capitale, perché dai tempi della ribellione loro erano uno dei pochi Distretti ad essere tornati fedeli alla città che aveva dato loro tutto. Era dal loro Distretto che venivano la maggior parte dei pacificatori che difendevano la capitale, ad esempio.
Clove ascoltò solo i primi minuti del suo discorso, poi iniziò ad ignorarlo. Finalmente iniziava a provare qualcosa, una strana sensazione alla quale non riusciva a dare un nome.
Fissava il palco e pensava che presto lei sarebbe stata là. Ricordava tutte le sue mietiture, sin da quando era bambina, quando c’era ancora sua madre che si preoccupava per lei. Chissà cosa avrebbe pensato nel vederla offrirsi volontaria come tributo.
Fissava il posto alla destra dell’uomo che presto avrebbe occupato lei. Pensava alla sua voce, che presto si sarebbe levata al di sopra di tutte le altre e sarebbe stata forte e chiara. Pensava a tante cose, tutte confuse. E iniziò a non capirci più nulla.
Una strana sensazione la pervase da dentro, facendola quasi tremare. Per poco non si rese conto che il suo momento era più vicino di quanto pensasse.
«E ora... è finalmente arrivato il momento di dare il benvenuto ai due Tributi, un ragazzo e una ragazza, che onoreranno il Distretto 2 nella settantaquattresima edizione degli Hunger Games!» Esclamò l’ometto mentre la folla iniziava a battere le mani e l’emozione si faceva quasi palpabile. Clove sentì le gambe tremarle.
Com’era possibile? Lei non aveva paura. Poi sentì il freddo famigliare del manico del coltello che le sfiorava il polpaccio. Il coltello che aveva nascosto negli stivali. Il suo coltello. Quello che era così brava a maneggiare. Avrebbe potuto vincere i Giochi usando solo quello. Il tremore passò veloce com’era arrivato, mentre l’uomo, come seguendo un copione, pronunciava quelle parole.
E Clove si preparava ad andare in contro al suo destino.
«Iniziamo dalla giovane donna. Ora...» Disse l’uomo alzando una mano sull’imboccatura della boccia di vetro contenente i nomi di tutte le ragazze del Distretto. La mano rimase sospesa con teatralità, ondeggiando lentamente come se stesse indugiando. L’uomo passava lo sguardo tra le file di ragazze, come se cercasse di indovinare chi sarebbe stata la volontaria, cercando di cogliere sguardi, movimenti o qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto essere giudicata un indizio.
Lui sapeva benissimo come sarebbero andate le cose, ma era un uomo di Capitol e loro non facevano nulla se non uno spettacolo. «Come ogni anno sono obbligato a porvi questa domanda.» Il suo sguardo vagava ancora tra loro, avido e impaziente. Ma i suoi occhi non si soffermarono nemmeno su Clove. Sarebbe stato sorpreso allora, di scoprire la volontaria di quell’anno. «C’è... per caso... una coraggiosa ragazza che vuole offrirsi come tributo?»
Ecco. Era il momento.
Il tempo parve rallentare, mentre Clove compieva un passo avanti. Decisa. Sicura.
«Io.» La sua voce era ferma, come aveva saputo sarebbe stata. Il suo sguardo duro e determinato, senza emozioni. «Io.» Ripeté a voce più alta, in modo che tutti potessero sentirla. «Mi offro volontaria come tributo.»
L’uomo posò veloce lo sguardo su di lei, studiandola come se fosse un oggetto prezioso da aggiungere ad una collezione. Ci fu un momento di silenzio, poi l’uomo la invitò a salire sul palco. E il tempo tornò a scorrere come prima.
Solo che Clove non riusciva a stargli dietro.
In un istante si ritrovò sul palco con l’uomo che le chiedeva di presentarsi. Le chiedeva quanti anni avesse. Le faceva i complimenti perché era molto giovane.
Così, tra gli applausi del pubblico, l’uomo l’afferrò per il braccio tirandola in avanti.
«Facciamo tutti un applauso alla nostra giovanissima Clove, che siamo sicuri porterà onore al vostro Distretto! Che la fortuna sia sempre dalla tua parte, ragazza mia.» Esclamò l’uomo allentando la presa sul suo braccio. Clove fece un passo indietro per evitare di essere arpionata di nuovo da quell’essere. Non lo dava a vedere spesso, ma quelli di Capitol City non le andavano veramente a genio.
L’uomo parve non notare l’espressione scocciata sul volto di Clove. Ora era arrivato il momento di conoscere il tributo maschio. Piombò di nuovo il silenzio in tutta la piazza.
«Ed ora, dopo aver conosciuto il nostro primo Tributo...» Disse facendo un cenno a Clove. «E’ giunto il momento di chiamare anche il secondo. Il coraggioso uomo che combatterà negli Hunger Games per portare onore al Distretto 2!» Un silenzio carico di tensione si spanse in tutte le direzioni, mentre Clove cercava Damien tra la folla. Se non fosse stata così confusa dalle troppe emozioni avrebbe sorriso sarcasticamente, impaziente di vedere il suo peggior nemico arrivare al suo fianco. Ma non ci riuscì. Ancora non aveva realizzato di essere lì, di essersi davvero offerta. Non aveva realizzato che di li a poco avrebbe lasciato il Distretto 2 e sarebbe andata a Capitol City.
«C’è qualche uomo coraggioso che decide di offrirsi come tributo?» Chiese l’uomo di Capitol, con un sorriso velato sulle labbra violacee.
Clove non riusciva a trovare Damien in mezzo alla folla, ma poco importava. Presto avrebbe sentito la sua voce tremante. Presto sarebbe salito sul palco con passo mal fermo. Presto sarebbe stato al suo fianco e avrebbe guardato negli occhi colei che lo avrebbe ucciso.
Ma i secondo scorrevano lenti e alla domanda dell’uomo non ci fu alcuna risposta. La gente iniziò a mormorare, i ragazzi a voltarsi e a sussurrare. L’uomo di Capitol faceva saettare gli occhi tra i ragazzi, in trepidante attesa.
Codardo fino al midollo. Ecco cos’era Damien. E se non si fosse offerto? Avrebbe davvero condannato uno dei suoi compagni pur di salvarsi la vita? La risposta era sì, ovviamente. Era sempre stato un verme e lo sarebbe stato sempre.
L’odio montava dentro Clove quando improvvisamente la frase che tutti si aspettavano di sentire arrivò. «Mi offro volontario.»
Solo che quella non era la voce che Clove si aspettava di sentire.


Il tempo si fermò di nuovo. Clove sentì le gambe farsi molli per la secondo volta. Il cuore perse un colpo. Il cervello collegò a fatica la voce con il viso di chi aveva parlato.
No no no no no. Non può essere. No.
Invece era così. Come in sogno lo vide staccarsi dal gruppo di ragazzi in attesa. Vide i pacificatori scortarlo fino al palco. Lo vide salire con passi lenti e pesanti, lo sguardo basso e senza espressione. Riconobbe ogni suo minimo particolare, dai capelli biondi alla curva delle spalle, alle mani strette a pugno lungo i fianchi mentre si fermava al fianco dell’uomo di Capitol. Allora i suoi occhi si alzarono sul pubblico. Erano sempre gli stessi, di un azzurro intenso come il ghiaccio o il cielo limpido. Ma non le erano mai parsi così estranei.
Perché al suo fianco non c’era Damien. C’era Cato.
Cato. Cato. Cato. Cato.
Non Damien. Ma Cato. Il ragazzo che aveva conosciuto quando aveva otto anni. Il ragazzo che aveva sempre trovato interessante, che ammirava in segreto per la sua forza e il suo talento. Il ragazzo che spuntava ogni tanto nella sua vita e poi scompariva altrettanto in fretta. Il ragazzo che le aveva regalato il suo primo coltello. Il ragazzo per il quale provava un miscuglio di sentimenti che non riusciva a comprendere.
E che non avrebbe mai compreso.
Clove vide le sue labbra muoversi, mentre rispondeva alle domande dell’uomo. Ma non sentì nulla. Come avrebbe potuto? Cato era l’altro tributo. Da quel momento in poi sarebbe diventato anche il suo nemico. Perché nei Giochi c’era un vincitore solo.
Lo sguardo di Clove si mosse lentamente verso il pubblico, come calamitato da qualcosa. E poi li incontrò. Quegli occhi neri che prima aveva a lungo cercato ma che non aveva trovato.
Damien aveva un sorriso malsano sulle labbra. E sorrideva nella sua direzione, come un amico che cerca di incoraggiarti da lontano. Ma lui era tutt’altro. Clove comprese. Comprese la sua strana reazione, quando gli aveva detto che si sarebbe offerta come tributo. Lui sapeva tutto. E quella era stata la sua vendetta.
Si era lasciata imbrogliare da lui come una sciocca.
Ed ora non c’era modo di cambiare le cose. Non poteva tornare indietro.
Un peso soffocante la oppresse mentre distoglieva lo sguardo dal suo nemico. Un peso che sapeva bene non l’avrebbe abbandonata più. Perché c’era una sola strada che poteva imboccare ora. Una strada che aveva tracciato lei stessa e che ora non era più così sicura di voler percorrere. Perché improvvisamente ebbe paura della sua fine.
Non cercò nemmeno di ingannarsi con false speranze.
Avrebbe dovuto uccidere Cato. O guardarlo morire.

***

Il tempo passava veloce e Clove non ne aveva più alcuna percezione. Ancora non riusciva a capacitarsi della situazione. Non del fatto che lei fosse lì e che presto avrebbe preso parte agli Hunger Games. Ma che Cato fosse al suo fianco. Lui non avrebbe dovuto essere lì.
Come aveva potuto farsi imbrogliare da Damien?  Come aveva fatto lui a cambiare ciò che era già stato deciso? Lui avrebbe dovuto offrirsi, perché le cose erano cambiate? Cosa si era inventato per evitarlo? Clove non seppe darsi una risposta. Ma avrebbe potuto saperlo, avrebbe potuto... Se solo fosse stata in grado di ascoltare. Carolyn forse glielo avrebbe detto, se le avesse dato l'opportunità di parlare. I suoi addestratori glielo avrebbero potuto dire, se solo lei lo avesse chiesto, se solo non si fosse gettata a testa bassa negli allenamenti tagliando fuori tutto il resto. Se solo... se solo... ma cosa sarebbe cambiato? Pensò poi. Cosa sarebbe cambiato se lo avesse saputo? Non si sarebbe più offerta? Sarebbe stato un atto da codarda. Ma qualcosa, qualcosa sarebbe cambiato, ne era sicura. Solo che ora era troppo tardi.
Clove aveva pensato poco a Cato, da quando aveva deciso di offrirsi volontaria. Sapeva che doveva pensare solo all’allenamento e tenere alla larga tutte le fonti di distrazione. E Cato, anche se non le piaceva ammetterlo, la distraeva.
Una volta però aveva provato ad immaginare cosa lui avrebbe detto di lei, una volta che avesse vinto i Giochi e fosse tornata ricoperta di ricchezze e onori al Distretto. Sarebbe stato fiero di lei? Ora non lo avrebbe mai saputo. Perché Cato era lì.
Mentre i suoi pensieri erano ancora del tutto offuscati, un paio di pacificatori scortarono lei e Cato all’interno del palazzo di Giustizia ma poi i due ragazzi, senza nemmeno alzare lo sguardo l’uno sull’altra, presero due direzioni differenti. Clove sapeva cosa sarebbe accaduto ora. Avrebbe avuto qualche minuto per salutare suo padre, per dirgli che sarebbe andato tutto bene, per rincuorarlo e dirgli che sarebbe tornata a casa presto.
Clove rimase immobile al centro della stanza dove i pacificatori l’avevano condotta, senza rendersi conto del tempo che passava. Ne aveva perso la cognizione dal momento in cui la voce di Cato aveva spezzato il silenzio pronunciando quelle fatidiche parole.
In un momento indefinito suo padre varcò la soglia lentamente.
Era da tanto che non usciva di casa. Ora invece era lì e sembrava un uomo normale, l’uomo che aveva sempre conosciuto. Indossava un abito elegante che riservava solo per le occasioni importanti. I suoi capelli scuri erano puliti e accuratamente spazzolati, la barba rasata e le lenti degli occhiali ripulite. La ragazza si domandò quali sentimenti lo affliggessero in quel momento. Aveva capito cosa sarebbe successo di li a poco? Che la sua bambina avrebbe rischiato la vita offrendosi volontaria per i Giochi mentre lui viveva in pace in un mondo parallelo?
L’uomo avanzò al centro della stanza e si fermò di fronte a Clove. Si guardarono negli occhi. Quelli di suo padre erano velati, come distanti. Lui le mise le mani sulle spalle, stringendole forte.
«Come ti senti, bambina mia?»
«Bene.» Rispose Clove, cercando di analizzare la voce del padre.
«Sei tanto forte, Clove. Lo sei sempre stata.» Suo padre fece una pausa, fissando un punto imprecisato oltre la testa della figlia. «Mi dispiace.» Sussurrò ad un certo punto, mentre gli occhi diventavano lucidi. «Mi dispiace, sono stato un pessimo padre, Clove. Non ci sono stato per niente. Ho preferito isolarmi piuttosto che stare al tuo fianco e compiere il mio dovere. E ora... tu andrai agli Hunger Games. Tua madre non avrebbe voluto questo.» Lui chiuse gli occhi, come se stesse parlando tra sé e sé.
«Stai tranquillo, papà. Tornerò a casa.» Ma in quel momento Clove non era in grado di infondere sicurezza in suo padre. Non ne aveva nemmeno lei. Non era neanche più così sicura che avrebbe vinto.
Suo padre la strinse forte in un abbraccio e Clove chiuse gli occhi, abbandonandosi contro lui come faceva quando era piccola. Ebbe il vago presentimento che lui stesse singhiozzando, ma quando si scostò e la guardò di nuovo i suoi occhi erano lucidi.
Lui fece per parlare ancora, ma mentre le sue labbra si aprivano, la porta si spalancò con violenza e un pacificatore gli si avvicinò, afferrandolo per il braccio. «Il tempo è finito.»
Suo padre si fece trascinare via inerme e quando stava per varcare la porta finalmente incrociò lo sguardo di sua figlia. Era lo sguardo di un uomo distrutto, che aveva perso tutto e che non aveva più speranza.
No, Clove doveva vincere. Non poteva lasciarlo solo, lui non ce l’avrebbe fatta.
Ma la faccenda non sembrava più così facile. La ragazza deglutì, cercando di mandare giù anche la tensione, ma non servì a nulla. Non si era mai sentita peggio di così prima di allora.


Qualche minuto dopo la porta si aprì ancora. Lentamente e scricchiolando. Clove pensò che avrebbe visto entrare un altro pacificatore con l’incarico di prelevarla e portarla alla stazione del Distretto 2. In fondo non doveva ricevere altre visite, non dopo che Carolyn aveva smesso di parlarle. Ma si era sbagliata.
«Tu!» Esclamò con voce carica di disgusto misto ad odio quando riconobbe la sagoma.
Il ragazzo entrò e si chiuse la porta alle spalle, rivolgendole un sorriso talmente ampio che gli distorceva il viso. «Ebbene sì. Come andiamo, Clove? Piaciuta la sorpresa?»
La ragazza strinse le mani a pugno, conficcandosi le unghie nella pelle mentre un’ondata omicida la invadeva, spingendola ad assecondare l’idea di balzare addosso al ragazzo, stringergli le mani attorno al collo ed ucciderlo proprio lì, in quel momento.
«Vattene immediatamente, o giuro che ti ammazzo.»
Damien scoppiò a ridere. «Ma come, non sei felice? Pensavo lo saresti stata, scoprendo di avere un degno avversario al tuo fianco, nell’arena.» I suoi occhi neri si posarono su di lei mentre la ragazza iniziò a tremare dalla rabbia. «Oh, capisco. Forse hai paura che sia troppo forte per te, dico bene?» Le labbra di Damien erano sempre incurvate in un sorrisetto che faceva arrabbiare Clove ancora di più, ma improvvisamente lui assunse un cipiglio pensieroso, come se gli fosse venuta in mente un’idea improvvisa. «O forse... forse non vuoi ucciderlo? Eh, è così? La piccola Clove non è in grado di uccidere il ragazzo per il quale hai una cotta?» Di nuovo dalle labbra di Damien uscì una risata carica di disprezzo.
Fu allora che Clove scattò.
Compì un balzo in avanti, agile e veloce come un puma, mirando alla gola di Damien. La forza dell’impatto li scaraventò entrambi a terra ma Clove non si distrasse dal suo obiettivo. Strinse le mani attorno al collo di Damien, che cercava in ogni modo di scrollarsela di dosso, senza risultati.
«Ho colto nel segno, dico bene?» Il ragazzo iniziava a diventare paonazzo ma riusciva ancora a parlare. Clove strinse più forte.
«Come osi? Lurido, viscido verme! Sei solo un dannato codardo!»
«Non avrei mai pensato che la mia vendetta sarebbe stata così dolce.»
Clove gli tirò un pugno. Sentì le ossa di Damien scricchiolare sotto il suo colpo mentre un fiotto di sangue gli usciva dal naso. «Torturarti non sarebbe stata la stessa cosa. Ma vederti uccidere il ragazzo che ami... non avrà prezzo. O ancora meglio, vedere lui uccidere te.» Damien rise ancora, soffocando nel suo stesso sangue, mentre Clove continuava a colpirlo. Sentì la rabbia defluire in ogni suo colpo, la frustrazione passare dal suo pugno fino ad abbattersi sul volto del ragazzo. Gli occhi le bruciavano e la testa le scoppiava. Non sarebbe servito a nulla ucciderlo, non avrebbe cambiato i fatti. Sarebbe comunque stata gettata nell’arena. Assieme a Cato. E se anche un tempo aveva provato qualcosa per lui, ora non poteva più permettersi di farlo. Non poteva.
Ma poi, cosa mai avesse provato per quel ragazzo, Clove non lo sapeva dire. Avrebbe voluto scoprirlo un giorno, ma ora non sarebbe stato più possibile. Per colpa di quel dannato ragazzo che stava prendendo a pugni.
«Perché? Perché mi odi così tanto Damien? Sei stato tu ad iniziare tutto, dovresti prendertela solo con te stesso! Io non ti ho mai fatto niente.» Sibilò la ragazza a pochi centimetri dal viso di Damien. Continuava a tenerlo immobilizzato a terra, bloccandogli braccia e gambe e lui sembrava aver smesso di lottare per liberarsi.
«Vuoi sapere perché ti odio? Eh, lo vuoi sapere?» Urlò lui, sputacchiando sangue. Clove lo guardò con disprezzo.
«Perché sei un folle bastardo, ecco perché.»
Damien si mise a ridere, mostrando i denti insanguinati. Non c’era nulla di bello o affascinante nel suo viso in quel momento, era solo una maschera di odio e pura follia. «Oh no. No, no. Sai chi è il bastardo in tutta questa storia?» Esclamò lui, mentre i suoi occhi neri come la pece iniziavano a ardere. Rimase in silenzio per pochi istanti, fissandola intensamente, come se volesse creare suspance. Ma, proprio mentre Clove stava per perdere la pazienza, lui tornò a parlare. «Tuo padre. Esatto, papino non ti ha mai raccontato la verità sul suo passato, eh?»
Clove lo guardò senza capire. «Cosa c’entra mio padre in tutta questa storia?»
«Oh, c’entra eccome. Quel lurido codardo. Non ti ha mai detto di avere un altro figlio? Bé, ovviamente no, non avrebbe mai avuto il fegato di ammettere di avere avuto una relazione fuori dal matrimonio.»
Lo schiaffo arrivò potente ed inaspettato. La mano di Clove si fermò sotto la gola del ragazzo e il suo sguardo si rabbuiò. «Tu menti. Sai fare solo questo.»
«Credi davvero? Perché non glielo chiedi? Certo, sempre che tu riesca a tornare a casa!» Damien scoppiò a ridere senza curarsi del fatto di essere in procinto di soffocarsi da solo. «Bé, ti pare questo il modo di trattare tuo fratello, sorellina
La ragazza riprese a colpito. Questo era davvero troppo. Prima l’aveva ingannata, costringendola a mettersi contro Cato. Ora tirava fuori bugie che non stavano né in cielo né in terra riguardo suo padre e la sua famiglia. La ragazza mollò la presa sul suo collo, preparandosi a colpirlo ancora, ma lui iniziò a parlare.
«Puoi non credermi, ma è così. Tuo padre mise incinta mia madre e poi l’abbandonò. La lasciò sola, senza niente! La minacciò, usando la sua influenza sull’intero Distretto! La costrinse al silenzio con il compromesso di inviarle dei soldi una volta al mese, per permetterle di sopravvivere, tanto per non farci morire di fame. Che gesto nobile, non è vero? Quello stronzo le ha spezzato il cuore. Ha tradito sua moglie. E ha mentito. Lui mi fa schifo. E odio tutto quello che proviene da lui, te compresa
Una rabbia cieca crebbe dentro Clove. Perché quel racconto aveva senso, ma non poteva essere vero. Non poteva. Suo padre non avrebbe mai tradito sua madre, non l’avrebbe mai fatto. Era fuori discussione. Clove guardò Damien dritto negli occhi, come se vi cercasse dei tratti simili. Ma l’unica cosa che avevano in comune Damien, lei e suo padre era il colore scuro dei capelli e quel fattore non era certo una rarità nel Distretto 2. Lui non era suo fratello e quelle erano solo un sacco di menzogne.
Improvvisamente Clove si ricordò del coltello che aveva nascosto nello stivale. Si chinò quel tanto che bastava per afferrarlo e lo estrasse con furia, rischiando di tagliarsi. Ma proprio mentre lo puntava con risolutezza sulla gola del ragazzo, un gruppo di pacificatori irruppe nella stanza.
Due di loro si avventarono su Clove, afferrandola per le braccia e tirandola in piedi. La ragazza si divincolò, cercando di colpire ancora il ragazzo a terra, ma i due la trascinarono via, mentre un altro pacificatore rimetteva in piedi Damien.
Il ragazzo aveva la camicia bianca ricoperta di sangue, che continuava a colare copioso dal suo naso rotto. Il volto era ricoperto di quel liquido viscoso e si stava già gonfiando dove Clove l’aveva colpito più forte. Ma sotto gli strati di sangue e oltre il dolore che provava, Damien continuava a sorridere come un folle.




SPAZIO AUTORE

E... colpo di scena!!!! Lo avreste mai detto che Cato odiava tanto Clove per una ragione simile?? Credo di no e spero con tutto il cuore che non vi sia sembrata una cosa troppo banale xD
Ad ogni modo, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto! È più lungo degli altri, questo perché ci stiamo avvicinando alla parte della storia che conosceremo in modo più dettagliato, ovvero quella che riguarda il “presente” e gli Hunger Games.
Nel prossimo capitolo i pensieri di Clove saranno chiariti e sarà un capitolo molto riflessivo. In fondo si sa, non ci sarà molto tempo per pensare dopo l'arrivo a Capitol City. Clove e Cato si incontreranno, questo è poco ma sicuro. Sarà il loro primo incontro da quando erano più piccoli.
Ok, ora la smetto di anticipare cose sul prossimo capitolo! Spero davvero di aver scritto della mietitura in modo dignitoso e... aspetto i vostri pareri! Grazie per seguire questa storia, grazie davvero a tutti e al prossimo capitolo ♥

Un grazie particolare a Queen_B, Hope_2000, Lali Jai e Dream Moan per aver recensito lo scorso capitolo e a tutte le persone che hanno da poco scoperto la storia o che l'hanno inserita tra le preferite o le seguite! Grazie mille a tutti voi! Senza il vostro supporto, questa storia probabilmente non sarebbe arrivata fin qui ;)

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Capitolo 9
*** 9. Welcome to the Capitol ***



Till your last breath

CAPITOLO 9
WELCOME TO THE CAPITOL


l treno viaggiava veloce. Talmente tanto che Clove stentava a riconoscere le immagini che scorrevano sotto i suoi occhi, solo pochi centimetri oltre il vetro del finestrino. L’uomo di Capitol aveva ragione quando diceva che quello era il mezzo più veloce di tutta Panem, probabilmente anche più veloce degli hovercraft. L’uomo aveva iniziato a parlare da quando i pacificatori avevano condotto lei e Cato all’ingresso della stazione. Da allora sino a quel momento non era rimasto zitto per più di pochi secondi, giusto il tempo per prendere un respiro e ricominciare d’accapo. Dava indicazioni sul loro soggiorno a Capitol City, spiegava loro cosa sarebbe successo una volta arrivati, come si sarebbero svolti gli allenamenti, dove avrebbero alloggiato.

Clove non lo aveva degnato della minima attenzione. Troppi pensieri riempivano la sua mente e il suo animo era più inquieto che mai. La ragazza stava immobile, le mani strette a pugno abbandonate in grembo, lo sguardo fisso sulle immagini sfocate oltre il finestrino, come se ignorando ciò che le accadeva attorno potesse in qualche modo sfuggirvi.
Non diceva niente ma la sua mente era piena di domande. E la sua confusione e il suo dolore erano assoluti. Era stata senza ombra di dubbio la giornata più assurda della sua vita. Forse peggio ancora del giorno in cui una pattuglia di pacificatori aveva bussato alla sua porta per portarle la notizia del decesso di sua madre.
Non solo avrebbe preso parte ad un reality show con un solo vincitore, ma era certa che avrebbe dovuto uccidere il ragazzo che in quel momento era seduto al suo fianco, solo a pochi centimetri di distanza. Clove lanciò uno sguardo di sottecchi a Cato.
Il ragazzo sembrava molto più rilassato di lei anche se il suo piede sinistro batteva ritmicamente sulla moquette del treno, in un gesto che pareva carico d’ansia. Lo sguardo era diretto verso l’uomo di Capitol ma i suoi occhi fissavano qualcos’altro.
O forse nulla, forse anche lui, come lei, era perso nei suoi pensieri. Chissà se anche Cato era rimasto sorpreso nel vedere lei offrirsi come tributo. Ovviamente la risposta doveva essere no. Lui molto probabilmente sapeva che Clove si sarebbe offerta. Si chiese quali sentimenti provasse nei suoi confronti, al pensiero che avrebbe dovuto uccidere la ragazza che una volta aveva aiutato. Forse non gli importava per niente. Clove non riusciva a capirlo.
Ignorando la voce dell’uomo di Capitol, la ragazza riprese a fissare il paesaggio che scorreva veloce. Come se tutto ciò non bastasse, ecco che era arrivato Damien, con un carico di menzogne indicibili sulla sua famiglia.
Perché non era assolutamente possibile che ciò che le aveva detto fosse vero.
O almeno questo era quello che la sua mente si era imposta di credere. Non c’era altra soluzione. Come avrebbe potuto affrontare i Giochi con il pensiero che una volta tornata a casa avrebbe dovuto scoprire se fosse vero o no? E se lo fosse stato? Come avrebbe potuto guardare di nuovo negli occhi suo padre? Se la storia di Damien era vera, voleva dire che suo padre aveva avuto una relazione quando era già spostato con sua madre. L’aveva tradita. E Clove si chiese come ciò fosse possibile. Sua madre era una donna meravigliosa, sia d’aspetto che di carattere. Perché diavolo avrebbe dovuto tradirla? Forse non l’amava? Allora perché l’aveva sposata? Perché alla sua morte si era chiuso in sé stesso, come se avesse perso una parte vitale di lui? Forse per il rimorso? Perché sapeva di non averle mai detto la verità e che non avrebbe mai più avuto la possibilità di pareggiare i conti?
Tutto ciò non aveva senso. E distruggeva la poca sanità mentale che le era rimasta quel giorno. Aveva perso quasi tutto, quando era morta sua madre. Se quella storia fosse stata vera, sarebbe stato come perdere anche suo padre. E allora non le sarebbe rimasto niente. Anche se avesse vinto.
Con un sospiro cercò di ricacciare tutti quei pensieri e di chiuderli in un antro nascosto e lontano nella sua mente. Avrebbe semplicemente dato tutto per falso. Doveva per forza essere così. Non c’era altro che potesse fare. E poi... da quando in qua si fidava così ciecamente di Damien? Era solo un lurido codardo e per di più un abile bugiardo. L’aveva ingannata fingendo di essere lui il tributo volontario e aveva voluto darle il colpo di grazia con quella storia inventata di sana pinta. Lui non era sua fratello e lei non era sua sorella. Punto, fine della storia.
La sua mente ora sembrava convinta e decisa come prima che Damien varcasse la soglia e aprisse la sua dannata bocca, ma il suo cuore  non la pensava ancora allo stesso modo e continuava ad insediarle dubbi e preoccupazioni. Clove decise di ignorarlo una volta per tutte.
Con una nuova sicurezza tornò a concentrarsi sul presente, sul treno e sull’uomo di Capitol dai capelli verdi. Avrebbe potuto fingere di ascoltarlo almeno un poco... se non fosse che lui non c’era più. Se n’era andato e non lo aveva nemmeno notato. Al contempo però si rese conto più che mai della presenza dell’altra persona nello scomparto, quella che era seduta al suo fianco. Cato la stava fissando, con un sorriso sghembo sulle labbra sottili. I suoi occhi però, come poco prima, parevano distanti e velati.
Per qualche strana ragione Clove si sentì in imbarazzo quando i loro sguardi si incrociarono. Da quanto tempo la stava fissando? Clove non capiva come facessero alcune ragazze a pensare che sia molto romantico un ragazzo che ti fissa quando tu non te ne rendi conto. Magari mentre dormi. Dovevano soffrire di qualche strana patologia. Per Clove era solo inquietante.
«Che c’è?» Chiese ad un certo punto, visto che lui non accennava a proferir parola.
Cato scrollò le spalle, con noncuranza. «Mi stavo solo chiedendo quando saresti tornata tra noi. Non hai ascoltato una parola di quello che ha detto, vero?» Disse indicando con un cenno il posto lasciato vuoto dall’uomo di Capitol, del quale Clove non ricordava il nome.
«No. Nemmeno mezza. Tu?»
«Hmm... qualcosa. Ma non ti sei persa nulla.»
Clove abbassò lo sguardo, incapace di dire o fare altro. Il pensiero di quello che sarebbe successo in poche settimane la perseguitava e le rendeva difficile il semplice guardare Cato negli occhi. Quegli occhi così azzurri... come avrebbe fatto ad ucciderlo? Senza contare il fatto che, oltre tutto il resto... era ancora in debito con lui.

***

Il viaggio proseguì in silenzio. Clove non aveva nulla da dire e nemmeno Cato sembrava molto loquace. Bé, da lì a poco sarebbero diventati nemici. Forse questa era solo la sua tattica. L’uomo di Capitol compariva ogni tanto, cercando di attaccar bottone con i due Tributi ma nessuno dei due era in vena di chiacchiere. Nemmeno i loro mentori si erano fatti vedere per tutto il giorno... ma per Clove quello non era un gran problema. In realtà non aveva affatto bisogno di loro. Era già stata allenata, aveva già visto cosa succedeva negli Hunger Games e a dirla tutta era più preoccupata per quelle ridicole interviste piuttosto che per i Giochi in sé. Se lei aveva un problema era lo stare davanti ad un pubblico e parlare di sé stessa a persone sconosciute. Ma avrebbe risolto anche quello, se la sarebbe cavata, come sempre.
«Oh, eccoci arrivati finalmente! Ma avete realizzato ragazzi? State per vedere Capitol City! Deve essere così... così... emozionate per voi, tutto questo! Vedere la Capitale è un privilegio che non a tutti viene concesso, sapete?» Cinguettò l’uomo, tutto emozionato per essersene tornato finalmente a casa, in mezzo ai suoi simili. Clove non disse nulla, gli lanciò solo uno sguardo di disprezzo. Se per lui vedere Capitol City su un treno che portava ventitré ragazzi a morte certa era considerato un privilegio...
L’uomo balzò in piedi e si fiondò ad una finestra. Clove, senza quasi rendersene conto, lanciò uno sguardo a Cato prima di alzarsi. Anche lui la guardava, con un’espressione indecifrabile. Le fece segno di passare per prima e poi la seguì alla finestra più vicina. Clove sentiva la sua presenza alle spalle, mentre spostava lo sguardo sulla città che velocemente si apriva davanti a loro, mostrandosi in tutta la sua magnificenza e grandezza.
Erano arrivati a Capitol City. I Giochi non erano mai sembrati più vicini di allora.



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FINE SECONDA PARTE

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SPAZIO AUTORE

Finalmente ho aggiornato la storia, scusate il ritardo! Ad ogni modo, come forse avrete notato, questo è un capitolo transitorio che chiude la seconda parte della fanfic e ci introduce direttamente nel mondo di Capitol. Ora niente sarà più come prima per i nostri amati protagonisti.
Come avete potuto notare, tutta la sicurezza di Clove è andata scemando in pochi istanti: Cato che si offre volontario, Damien che le rivela un realtà sconvolgente. Clove si tormenta, cercando di capire se quello che ha detto il ragazzo sia vero o no. Ma ovviamente, non può saperlo, perché dopo la mietitura non le è consentito avere contatti con la sua vecchia vita. Questo dubbio irrisolto e la presenza di Cato la destabilizzano. E in più Clove cerca di capire cosa ne pensi Cato di tutto ciò, ma invano. O almeno per ora. Vi preannuncio già che prima o poi lo scoprirà ;)
Be', come al solito mi sono dilungata troppo xD spero che, sebbene sia stato un capitolo corto e transitorio, vi sia piaciuto!
Conto di aggiornare presto con il prossimo perché nelle vacanze di Natale non avrò molto tempo (sempre che domani non finisca il mondo, in tal caso questo sarebbe l'ultimo capitolo u.u d'ho!)
Be', come sempre, resto in attesa di vostri pareri e recensioni ;) Grazie a tutti quelli che leggono questa storia, che l'hanno aggiunta tra le preferite e le seguite... io semplicemente vi adoro ;) Alla prossima!

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Capitolo 10
*** 10. I Guerrieri ***



10.iguerrieri
Till your last breath



PARTE TERZA
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CAPITOLO 10
I GUERRIERI



La stanza dove si trovava sembrava un’autentica sala delle torture.
E in effetti per Clove poteva anche essere definita così.
Non appena scesi dal treno nella stazione di Capitol furono letteralmente presi d’assalto da una mandria imbufalita di giornalisti che si sporgevano verso di loro, i due nuovi Tributi, allungando microfoni, registratori e macchine fotografiche, parlando tutti assieme e porgendo domane che risultavano incomprensibili in quel chiasso. Clove aveva cercato di sorridere, senza molta convinzione però. Come poteva sorridere dopo tutto quello che era successo solo poche ore prima? Lo scoprire che Cato sarebbe stato nell’arena con lei, le menzogne di Damien... tutti quei fatti erano ancora troppo freschi nella sua mente perché lei potesse mostrarsi felice davanti alle telecamere del reality.
Tuttavia si sforzò di sorridere e salutare, come faceva Cato al suo fianco.
E dopo quella breve tortura, ecco che era spuntato fuori il suo staff di preparatori che l’aveva scortata fino a quella stanza, dove presto avrebbe avuto luogo quella che loro avevano chiamato la sua trasformazione.
In men che non si dica eccoli tutti attorno a lei, intenti a guardarla e studiarla come se fosse stata una bambola. Le giravano attorno esaminandola e maneggiandola come un manichino e non una persona, perfettamente in grado di sentire le loro critiche sui suoi capelli o le sue unghie o le sue sopracciglia.
Impotente, Clove si limitava a stare lì in piedi, circondata dal suo staff, guardandoli tutti con uno sguardo aggressivo che loro parevano non notare. Solo sua madre poteva permettersi di toccarla, di spogliarla o rivestirla a quel modo; l’idea di quegli estranei che studiavano il suo corpo, il suo viso, i suoi capelli e che decidevano cosa metterle in faccia o cosa farle indossare la infastidiva immensamente, fino a farle dimenticare la rabbia e il dolore per tutto quello che era successo alla Mietitura.
Ma come Clove sapeva bene, tutto quello faceva parte del reality e avrebbe dovuto sopportarlo, che lo volesse o meno. Doveva rassegnarsi. Ecco la chiave di tutto. Poteva essere triste e disperata quando voleva, poteva continuare a pensare a Cato e al fatto che solo uno di loro sarebbe tornato a casa... ma non sarebbe servito a nulla.
Clove chiuse gli occhi, cercando inutilmente di ignorare tutto ciò che accadeva attorno a lei mentre la sdraiavano su un lettino e iniziavano a ritoccarla. Il tempo passò lentamente e lei non vedeva l’ora che quella personale tortura finisse. Così avrebbe potuto passare il suo tempo pensando a quanto ingiusta fosse tutta quella situazione.
Prima però avrebbe dovuto affrontare la sfilata dei tributi. Era come se se ne fosse dimenticata, ma tutte quelle attenzioni che stava ricevendo in quel momento, tutti quei ritocchi e la sua trasformazione, erano rivolti ad un unico obiettivo: renderla perfetta per quell’occasione, la prima uscita in pubblico dei tributi.
Ad un certo punto, riaprendo lentamente gli occhi, la ragazza si rese conto con una certa sorpresa di essere rimasta sola nella stanza. Si chiese come avesse fatto a non accorgersene: dopo l'acuto vociare del suo staff quel silenzio pareva quasi surreale.
Fu allora che arrivò il suo stilista. Era un ragazzo sui trent’anni più o meno, anche se considerando l’ampio utilizzo di chirurgia estetica che praticavano nella capitale era probabile che ne avesse di più. Ad ogni modo, sembrava ancora giovane. Aveva i capelli biondi, lunghi e ricci nei quali si intravedevano delle ciocche fucsia. Era truccato, ovviamente, e portava vestiti che non avresti trovato strani se fossi stato un abitante di Capitol.
Lui si presentò come il famoso Eliahs e poi iniziò a parlare e ad elencare i successi ottenuti dal Distretto 2 sin da quando lui era stato lo stilista ufficiale. Ogni anno i tributi arrivavano preparati ed aggressivi e questo contava già tanto per vincere i Giochi. Ma senza l’aiuto degli stilisti e dello staff non ci sarebbero stati sponsor ed essi possono fare la differenza tra la vita e la morte nell’arena. Insomma, la loro creatività nel mettere in luce i tributi non era da sottovalutare.
Andò avanti così per parecchi minuti e Clove iniziò a non seguirlo più. Voleva solo che la finisse di parlare e le facesse indossare il suo stupido vestito. Una volta fatto ciò, doveva solo sfilare su un carro in mezzo a centinaia di spettatori urlanti ed esaltati, cercando di mostrarsi il più forte possibile, sicuramente più forte di quanto fosse in realtà in quel momento. Il fatto che al suo fianco ci sarebbe stato Cato non l’aiutava di sicuro.
Finalmente lo stilista tacque e con un gesto altezzoso fece segno a due membri dello staff, quelli che prima le avevano lavato i capelli e sistemato le sopracciglia, di portare dentro il costume. I due entrarono trascinando un manichino, non senza una certa fatica.
E su di esso Clove vide il più bel vestito che avesse mai visto in una sfilata.
Somigliava in tutto e per tutto ad un armatura da guerra. La ragazza saltò giù dal lettino dove l’avevano fatta sedere, incurante della vestaglia bianca che le avevano messo addosso e si avvicinò al manichino con aria meravigliata, osservando il costume e dimenticando provvisoriamente il motivo per cui avrebbe dovuto indossarlo.
L’armatura era doro, con tanto di mantello lungo e intessuto di materiale luminoso, e le ricordava delle immagini che aveva visto una volta a scuola, immagini del mondo com’era secoli prima, quando Capitol City ancora non comandava, quando non esistevano ancora i Distretti o gli Hunger Games. Un mondo talmente lontano da apparire quasi leggendario. Aveva visto immagini di guerrieri in armature scintillanti ed elmi dai pennacchi colorati, portare con fierezza grandi spade, scudi e stendardi. Quell’armatura le ricordava le immagini che aveva visto. Con l’unica differenza che la sua era completamente dorata. Sul davanti vi erano delle scaglie sempre doro che si estendevano sino a circondare il collo. Sembravano scaglie di drago. L’elmo era anch’esso doro e ai lati vi erano due grandi ali che sembravano librarsi verso l’esterno.
«Wow.» Si lasciò sfuggire Clove, girando attorno al manichino e studiandolo come lo staff poco prima aveva fatto con lei.
Il suo stilista prese in mano l’elmo mentre Clove tornava a posizionarsi davanti all’armatura, osservandola con ammirazione. La frustrazione per i trattamenti estetici di poco prima scivolò via.
«Per volare verso la vittoria.» Le disse Eliahs, porgendole l’elmo doro.
Clove, che fino a poco prima si sentiva in imbarazzo per trovarsi mezza nuda davanti a quell’uomo e infastidita per tutta quella situazione, ora provò una certa simpatia per lui.
In qualche strano modo, aveva colto il suo essere, la sua intera essenza in quel costume. Una guerriera, ecco quello che era. Fiera e determinata, pronta a vincere. O almeno così voleva apparire. Clove gli rivolse un sorriso complice, il primo sincero che toccò il suo viso in tutta quell’assurda giornata. Lui sembrò improvvisamente rilassarsi, come se avesse avuto timore che il suo vestito non le sarebbe piaciuto; le sorrise di rimando, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi e affilati.
«Allora, lo indossiamo o no?» Le chiese con voce emozionata.
«Con estremo piacere.» Clove si portò al centro della stanza, dove lo staff le si radunò attorno e iniziò il processo. C’era chi la spogliava e iniziava a metterle addosso la magnifica armatura d’orata, chi le pettinava i lunghi capelli corvini e li raccoglieva con mano esperta, chi le spargeva un leggero velo di trucco sul viso. Era sicura che, una volta finito con lei, Clove non si sarebbe più riconosciuta guardandosi allo specchio.
Almeno, pensò la ragazza mentre due uomini le legavano due bracciali dorati ai polsi, non sarebbe stata del tutto fuori luogo, non avrebbe dovuto indossare un costume imbarazzante o cose del genere, pensò mentre sentiva l’armatura aderire perfettamente al suo corpo minuto e scattante. Sarebbe stata sé stessa.
E questo era già un ottimo punto dal quale partire.

***

Clove si guardò attorno mentre un’ansia sconosciuta si impossessava di lei. Si sentiva a suo agio con l’armatura addosso ma il fatto di dover sfilare davanti a tutta Capitol City e l’idea di essere ripresa da telecamere che avrebbero mandato in onda la sua sfilata in tutta Panem l’agitava più dell’idea di dover uccidere qualcuno.
Il suo staff di preparatori le ronzava ancora attorno, come un fastidioso sciame di api, esaminando l’ottimo lavoro che aveva compiuto con lei, complimentandosi tra di loro per il magnifico costume ed elogiando l’effetto che l’armatura dorata aveva avuto su Clove.
La ragazza tuttavia continuava a guardarsi attorno, come se cercasse qualcosa. Non sapeva nemmeno lei cosa. Forse qualche volto familiare, perché ancora non aveva del tutto realizzato la situazione: Capitol City. La sfilata. Il centro dell’attenzione. Il reality.
E gli altri tributi. Era come se se ne fosse accorta solo in quel momento. Infatti attorno a lei, in quell’ampio spiazzo dove l’avevano condotta dopo la sua trasformazione, non c’erano solo i membri del suo staff e il suo stilista. No. C’erano anche tutti gli altri tributi. Molti di loro erano irriconoscibili per via degli esuberanti costumi che indossavano, ma erano tutti lì, attorno a lei. I ragazzi che avrebbe dovuto uccidere.
L’idea la colpì per un istante, ma presto la scacciò. Aveva già troppi problemi per la testa, senza aggiungervi anche questo. Sospirò, cercando di calmarsi.
Improvvisamente le tornò alla memoria l’immagine riflessa di lei che aveva visto nello specchio. Al primo impatto, non si era nemmeno riconosciuta. La ragazza che la guardava dall’altra parte del vetro era troppo diversa dalla Clove che conosceva: sembrava più sicura di sé, più aggressiva e austera in quell’armatura da guerriera. Il turbamento interno che provava non si notava, nascosto dalla freddezza dei suoi occhi. I suoi lunghi capelli erano stati tirati indietro e il suo viso ricoperto da un leggero velo di trucco. Oltre che sembrare più grande e più fiera di lei, quella Clove sembrava anche... sì, anche più bella. Era strano notare un dettaglio così banale in un momento come quello, ma era la verità. Per quanto potesse disprezzare quegli omuncoli che erano il suo staff di preparatori, non poteva negare che avessero fatto un buon lavoro. Anzi, avrebbe dovuto ringraziarli. Non poteva più mentire a sé stessa, i Giochi erano una realtà ora, che lo volesse o meno. E gli sponsor sarebbero stati davvero, davvero utili.
Ad ogni modo nulla serviva a calmarla. Lei continuava a guardarsi attorno, in un’agitazione sempre più crescente.
Improvvisamente si chiese che fine avesse fatto Cato. Non avrebbe dovuto importarle, se voleva partecipare ai Giochi e al contempo mantenere la sua sanità mentale avrebbe dovuto non pensare a lui e anzi, dimenticare tutto quello che di lui conosceva. Ma non poté fare a meno di desiderare al suo fianco un viso familiare. Forse, si disse, questo era quello che cercava mentre si guardava attorno con affanno. No. No. Doveva smetterla, doveva tornare in sé. Però non poté fare a meno di chiedersi se anche Cato avrebbe indossato un costume uguale al suo. In tal caso l’effetto sarebbe stato ancora più azzeccato. Cato era un vero guerriero, lo era sempre stato, sin da quando era bambino.
E mentre lei ancora si guardava attorno in cerca del ragazzo, la voce di Cato la raggiunse da dietro.
«Clove?»
Si voltò immediatamente al suono di quella voce e rimase un istante ad osservare il ragazzo. Non poté impedirsi di farlo.
Sì. Era questa la risposta alla sua precedente domanda. Cato indossava un’armatura quasi identica alla sua, con tanto di mantello e scaglie dorate. L’unica differenza era che non portava due bracciali dorati ai polsi, come lei, ma ne aveva uno solo, più grande, poco più in alto dell'avambraccio e che il suo elmo non era chiuso integralmente ma era aperto sulla nuca e lasciava fuoriuscire i sui capelli biondi, in perfetta armonia con l’oro del costume. In qualche modo l’armatura sembrava mettere in evidenza i muscoli asciutti di Cato, bicipiti e addominali, frutto di così tanti anni di duro allenamento. Sebbene su di lei l’armatura avesse un magnifico effetto, era nulla comparato a come appariva su Cato. Era magnifico e sembrava rilucere come la sua armatura dorata.
Il ragazzo le si affiancò, osservandola intensamente come se anche lui stesse studiando la sua trasformazione. Chissà a cosa stava pensando, si chiese Clove ingenuamente.
La verità era che non riusciva a evitare di guardarlo. Si era detta che doveva evitare di pensare a lui, dimenticare di averlo mai conosciuto. Sarebbe stato l’unico modo per non diventare pazza. E ci avrebbe lavorato nei giorni seguenti, se lo promise.
Ma per il momento non poteva far altro che pensare a quanto fosse quasi doloroso stare al suo fianco e vederlo così splendido nel suo costume.
Proprio mentre Clove pensava di non poter reggere più lo sguardo di Cato, i loro stilisti li raggiunsero, congratulandosi con loro e commentando i costumi dell’uno e dell’altra, prima di condurli al loro carro. Clove fu finalmente libera dal peso degli occhi di ghiaccio di Cato.
In quel momento si decise a scacciare tutti i pensieri sui Giochi e focalizzarsi solo sul presente: la sfilata.
Tutti i tributi iniziavano a radunarsi attorno ai loro carri. Clove e Cato, essendo del Distretto 2, sarebbero stati i secondi ad uscire allo scoperto. Il loro carro, come tutti gli altri, era piccolo e aveva giusto lo spazio per ospitare due persone in piedi. Era trainato da due magnifici cavalli neri, che al contrario di lei sembravano assolutamente calmi.
C’era un solo carro davanti al loro e i due tributi vi erano già montati: questo voleva dire che non mancava poi molto all’inizio della sfilata.
I due stilisti fecero salire anche Cato e Clove, che si ritrovarono stretti in quello spazio esiguo. Clove evitò di guardare di nuovo il ragazzo al suo fianco, anche se la tentazione era forte. Si concentrò invece sui due tributi davanti a lei. Dovevano essere per forza quelli del Distretto 1 ed essendo il loro Distretto quello dei minerali e delle pietre preziose indossavano dei costumi che sembravano delle pellicce rosa scuro; attorno al collo la ragazza pareva avere una sciarpa di piume e indossava un copricapo decisamente assurdo. Sotto di esso le parve di vedere dei capelli biondi. I loro costumi, ovviamente, erano ricoperti di pietre preziose. Mentre Clove era immersa nel visualizzare i dettagli dei costumi dei due tributi davanti a lei quasi non si rese conto che il loro carro aveva iniziato a muoversi e i due ragazzi ingioiellati si allontanavano. Non appena uscirono allo scoperto un boato si alzò dalle tribune affollate dell’anfiteatro. Vide i due iniziare a salutare con la mano, regalando sorrisi a tutti quanti. Tra poco sarebbe stato anche il suo momento. Iniziò ad agitarsi. Di nuovo.
«Hey.» Immancabilmente il suo sguardo si alzò verso Cato. «Stai tranquilla, faremo un figurone.» Lui ammiccò ma Clove non fece in tempo a replicare, perché con un sobbalzo i cavalli iniziarono a marciare, tirandosi dietro il carro e loro due. Fantastico, ora si sarebbe chiesta per tutto il resto della serata perché mai Cato si era preso la briga di tranquillizzarla. Tuttavia sembrava aver funzionato, perché quando il carro fu investito dalle luci dell’anfiteatro Clove alzò la mano e, con molta dignità, iniziò a salutare il pubblico, con appena un accenno di sorriso, fiero e determinato, sulle labbra mentre scorgeva le immagini di lei e di Cato sul carro. Si, lui aveva ragione, sarebbero andati alla grande. Il boato del pubblico aumentò quando il loro carro fu ben visibile e Clove perse la cognizione del tempo, continuando a salutare e sorridere con orgoglio, sperando che tutto quello show avrebbe ottenuto i suoi frutti.
Ad un certo punto, dopo un tempo non determinato per Clove, i carri si fermarono, tutti in un semi cerchio attorno ad un alto scranno, davanti all’enorme stemma di Capitol City che per così tanti anni aveva visto da uno schermo. In quella breve pausa, Clove lanciò uno sguardo agli altri tributi.
Solo un carro attirò la sua attenzione. E non soltanto la sua, perché esso pareva aver fatto molto scalpore. Era l’ultimo, quello più lontano da loro. Si era appena fermato alla sua postazione e ospitava due Tributi i quali costumi erano... in fiamme, constatò Clove con un certo sconcerto. I due tributi si tenevano per mano e sembravano circondati da un fuoco vivo e scoppiettante. La ragazza scosse la testa, spostando la sua concentrazione sulla cima dell’enorme scranno. In quel momento l’inno di Capitol partì a tutto volume. Il rumore delle voci provenienti dalle tribune si spense immediatamente.
Quando anche il suono dell’inno si spense ecco che apparve il presidente Snow. Era la prima volta che Clove lo vedeva dal vivo e a dirla tutta sembrava molto più piccolo di quanto apparisse negli schermi delle televisioni. A questo pensava Clove, mentre l’uomo dai capelli e la barba candidi come la neve iniziava il suo discorso, dando il benvenuto ai Tributi. Sembrava strano pensare che quell’uomo dall’aspetto del tutto normale, che stava accogliendo tutti loro con immenso calore nella sua Capitale, avrebbe presto mandato  quegli stessi ventiquattro ragazzi ad ammazzarsi in un’arena.
Quando il presidente finì di parlare ripartì l’inno e i carri sfilarono di nuovo verso l’uscita. Verso la porta che li avrebbe condotti al Centro di Addestramento. Clove sentiva ancora l’adrenalina del momento scorrerle nelle vene e si voltò di nuovo per scorgere un’ultima volta l’enorme anfiteatro gremito di persone che ancora urlavano il loro apprezzamento per i tributi. Fu in quel momento che la mano di Clove sfiorò quella di Cato.
La ragazza si voltò immediatamente verso di lui, come se avesse preso la scossa da quel breve contatto, sentendo i battiti del proprio cuore accelerare. Gli occhi azzurri di Cato si incrociarono con i suoi per qualche istante, come se volessero comunicarle qualcosa. Ma non c’era nulla da dire. Rimasero qualche istante a guardarsi e Clove si ricordò ciò che per pochi minuti aveva dimenticato: i Giochi incombevano su di loro come un’ombra enorme e lei non poteva permettersi distrazioni. Ancora non sapeva cosa avrebbe fatto o come si sarebbe comportata, ma era certa che non poteva permettersi di provare nulla. Qualsiasi sentimento sarebbe stato controproducente nell’arena. L’adrenalina e l’emozione provate durante la sfilata doveva dimenticarsele; invece doveva ricordarsi che Cato, quel ragazzo muscoloso, con i capelli biondi, l’armatura dorata e quei penetranti occhi azzurri, il ragazzo che aveva conosciuto quando aveva solo otto anni, quello che l’aveva aiutata quando era stata in difficoltà, quello che le aveva regalato il suo primo coltello che Clove aveva portato con sé fino a Capitol City, incapace di separarvisi, lui, proprio lui, sarebbe stato presto suo nemico e tutto quello che avrebbe potuto fare era allontanarsi da lui il più presto possibile e sperare che qualcun altro lo uccidesse. Quel pensiero la fece rabbrividire.
Ma doveva imprimerselo bene nella testa. Già troppe volte si era lasciata andare quel giorno, già troppe volte il suo sguardo era caduto su di lui e li si era bloccato. Non sapeva nemmeno perché i suoi occhi le giocassero questi brutti scherzi, ma doveva smetterla.
Così si voltò da un’altra parte e per l’ultima volta scorse in uno schermo l’immagine del loro carro. Cato e Clove, i guerrieri del Distretto 2.

SPAZIO AUOTORE

Salve a tutti!!! Ecco finalmente il nuovo capitolo che apre la terza parte della fanfic, quella dedicata a Capitol! Allora... lo si può considerare un regalo di Natale in ritardo?? Spero di sì ;) E spero anche che vi sia piaciuto!!!
La sfilata dei Tributi era una delle mie scene preferite (nel film, soprattutto, infatti mi sono basata su quello per i costumi!) e spero davvero di non avervi delusa con questo capitolo! Ad ogni modo, non voglio dilungarmi in chiacchiere! Vi chiedo solo... vi piace ancora la storia?? Mi sembra di aver notato un calo di recensioni (niente di che, però io chiedo u.u)

Ad ogni modo voglio ringraziare TUTTI VOI che leggete la mia storia e soprattutto tutti quelli che la recensiscono sempre: leggere le vostre parole mi riempie di gioia e mi da la voglia di andare avanti a scrivere sui miei beniamini *-* grazie anche a tutte le buone anime che hanno messo la storia tra le ricordate, le seguite o le preferite e grazie anche a chi semplicemente la legge e l'apprezza! Grazie a tutti ;)
Come sempre alla fine mi dilungo più del voluto u.u aspetto con ansia i vostri pareri e... al prossimo capitolo! ;)

~ C
























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Capitolo 11
*** 11. The Games will change Eveyone ***



Till your last breath

CAPITOLO 11
THE GAMES WILL CHANGE EVERYONE



Gli appartamenti dei Tributi erano stipati in un palazzone altissimo nel centro di Capitol City. Cato e Clove, arrivando dal Distretto 2, erano stati collocati al secondo piano. Ma non importava veramente l’altezza a cui ti trovavi: le finestre delle stanze erano dotate di una strana tecnologia che ti consentiva di spostare l’inquadratura su qualsiasi zona di Capitol City o addirittura di impostare qualsiasi sfondo desiderassi così che, mentre guardavi fuori dalla finestra, non vedevi più Capitol e le sue innumerevoli luci, ma potevi ritrovarti in riva al mare, in cima ad una montagna o nel fitto di una foresta.
L’appartamento era enorme e dotato di comfort innumerevoli. Clove si sentiva estranea in tutto quel lusso e quell’abbondanza. D’altronde la cosa che le importava di quel loro soggiorno a Capitol non era certo il suo appartamento. Erano la palestra e gli allenamenti.
Clove ci pensava sin dal giorno prima, non appena erano arrivati nei loro appartamenti, dopo la sfilata. Tutti sembravano stanchi per la giornata trascorsa e né Cato né Clove proferirono parola mentre i loro stilisti toglievano loro l’armatura. Anche Clove sentiva di poter crollare da un momento all’altro, non tanto per la stanchezza fisica; sotto quel punto di vista si sentiva pronta e scattante come non mai. Era sotto il punto di vista psichico che era devastata. Per questo delle buone ore di sonno, una doccia calda e una buona colazione l’aiutarono parecchio quel mattino, per rimettersi in pista. D’altronde non poteva negare di sentirsi emozionata. Non agitata come la sera prima per la sfilata. Solo... emozionata. Perché quello era il giorno dei primi allenamenti.
Così, improvvisamente, tutti i problemi e le preoccupazioni del giorno prima si dissolsero, dandole una breve tregua, quando finalmente il tanto atteso momento di incontrare gli altri era arrivato: Clove non avrebbe mai dimenticato il primo vero incontro con i Tributi.


Vedere ventidue facce sconosciute, schierate in un cerchio carico di tensione attorno alla capoistruttrice degli allenamenti e sapere che presto avresti potuto, o meglio dire dovuto, uccidere ognuno di loro era un’esperienza che non si dimentica tanto facilmente. Così, agendo quasi incondizionatamente, Clove si trovò a scrutare i tributi con occhio critico e calcolatore, come ad identificare le debolezze e i punti forti di tutti coloro contro i quali avrebbe dovuto combattere.
Se tutti gli altri, o almeno quasi tutti, sembravano spaventati e spaesati lei e Cato apparivano del tutto rilassati e pronti all’azione. Gran parte dei loro compagni faceva scorrere velocemente lo sguardo sugli altri tributi, abbassandolo non appena si rendevano conto che un altro paio di occhi era puntato su di loro. Spostavano il peso del corpo da una gamba all’altra, muovendo i piedi in continuazione, tradendo la loro ansia. Si stringevano le braccia al petto e deglutivano in continuazione.
Quelli... sì, quelli sarebbero stati i primi a morire, fu il perentorio decreto di Clove. A meno che non avessero avuto, nascosta da qualche parte, una grande dose di coraggio, di forza e di astuzia. Ma non molti parevano rispondere a quei requisiti.
Clove lanciò uno sguardo a Cato che se ne stava ritto e immobile, con le braccia conserte e i muscoli ben in vista. Sulle labbra aveva un lieve sorriso soddisfatto e non si degnava quasi di guardare gli altri tributi. Quando si accorse che Clove lo fissava abbassò lo sguardo su di lei e le sorrise. Clove ricambiò, del tutto tranquilla, quasi elettrizzata. Si sentiva così diversa dalla sera prima. Quello sì che era il suo campo. Pareva quasi che i due si fossero passati un messaggio: loro erano più forti degli altri, e lo avrebbero fatto capire a tutti. Forse però questo messaggio non detto Clove se lo era solo immaginato.
Tornò a guardare gli altri tributi. Uno in particolare avrebbe potuto darle qualche problema. Era un ragazzo grosso e con muscoli pompati, la pelle scura come la notte e i capelli rasati. Anche lui se ne stava dritto in piedi, il suo corpo non aveva fremiti e il suo volto non si mostrava particolarmente preoccupato. Ma dopotutto il ragazzo veniva dal Distretto 11. Non aveva pratica e destrezza. Non era stato addestrato come lei. Cos’aveva dalla sua parte? I muscoli e il suo corpo, tutto qui. Ma la forza bruta non sempre batte la tecnica. E se Clove fosse stata fortunata qualcun altro l’avrebbe ucciso oppure la natura se lo sarebbe portato via prima che potesse diventare una minaccia.
Al suo fianco c’era una ragazzina che probabilmente non sarebbe durata fin oltre il bagno di sangue alla cornucopia. Era alta meno della metà del suo compagno e avrà avuto sì o no undici anni. Anche la sua pelle era scura come ebano e i capelli erano una matassa di riccioli crespi. Si guardava attorno con occhi scaltri e forse era agile, perché il Distretto 11 era quello dell’agricoltura e lì i ragazzi sono abituati a muoversi parecchio. Ma era troppo piccola, non aveva speranze.
Gli occhi di Clove abbandonarono i due Tributi del Distretto 11 e si posarono su quelli dell’1. Quasi ogni anno i tributi del Distretto 1 e 2, e a volte anche quelli del 4, stringevano un'alleanza strategica volta ad eliminare il maggior numero di tributi e a proteggersi a vicenda fino a quando nell’arena non fossero rimasti solo i migliori. Allora l’alleanza veniva rotta e iniziava la vera guerra. Ma Clove non credeva che quell’anno lei avrebbe fatto parte di quei tributi che venivano abitualmente chiamati i Favoriti. Non poteva certo allearsi con Cato. Anzi, il meglio che potesse fare era sperare che qualcun altro lo uccidesse, levandole quel peso dalle spalle.
Ad ogni modo i Tributi dell’1 sembravano gli unici in quella stanza, fatta eccezione per lei, Cato e il ragazzo dell’11, ad essere tranquilli. La ragazza, quella che Clove aveva osservato alla sfilata, non sembrava nulla di che ora che non indossava più pelliccia e gioielli; non era particolarmente muscolosa e non sembrava nemmeno particolarmente sveglia ma aveva dipinta sul viso un’espressione sprezzante ed arrogante, teneva il mento alto con grande fierezza e si arricciava tra le dita la punta di una delle sue due lunghe trecce bionde. Il ragazzo al suo fianco aveva anch’esso un’espressione feroce e un sorriso impaziente sulle labbra sottili. Era muscoloso ma non quanto Cato. Mentre lei lo analizzava il suo sguardo le si posò addosso, continuando a sorridere. A Clove parve quasi che il ragazzo ora le stesse rivolgendo uno sguardo amichevole, come per dire che presto sarebbero stati alleati nell’arena. La ragazza si voltò immediatamente dall’altra parte.
Fu allora che il suo sguardo cadde in fondo al gruppo, dove c’erano i due tributi del Distretto 12. Quelli che, la sera prima alla sfilata, erano in fiamme. Clove non ricordava di aver mai visto un tributo di quel distretto vincere i Giochi sin da quando era in vita e da quel che sapeva era successo talmente poche volte che si potevano contare sulle dita di una mano, ma forse anche in quel caso ne sarebbero avanzate. E quest’anno non sarebbe certo andata diversamente. Il ragazzo era poco più alto di lei, con i capelli biondi ben ordinati e sotto la tuta sembrava avere muscoli abbastanza sviluppati. Ma era il suo viso a parlare per lui: i suoi occhi azzurri scattavano da una parte all’altra, veloci, le sue mani si stringevano a pugno a intervalli regolari ed era decisamente agitato. Poteva sembrare un tizio tosto da fuori, ma la sua paura era palpabile. Non costituiva un problema.
La ragazza forse poteva essere più “pericolosa”. Clove aveva sentito dire che si era offerta volontaria, ma non come erano soliti fare nel Distretto 2. L’aveva fatto per salvare la sorellina, o almeno così aveva sentito raccontare. A quanto pareva, era già diventata l’eroina di Capitol. Un volontario da un distretto remoto non si era mai visto e la sua tragica storia e il suo grande coraggio facevano fremere quei buoni a nulla della popolazione di Capitol City. E probabilmente dopo lo show che aveva offerto alla sfilata la sua popolarità era aumentata a dismisura. Ma era l’abilità che ti salvava nell’arena, non la tua popolarità. Gli sponsor erano utili, ma non erano tutto.
La ragazza del 12 aveva occhi scuri, come i capelli che erano raccolti in una lunga treccia. Le mani erano strette a pugno, i muscoli tesi e il portamento fiero. Lo sguardo duro e freddo era senza espressione, sembrava molto concentrata e determinata. Ma valeva il discorso fatto prima. Nessuno degli altri tributi, a parte quelli dell’1, del 2 e forse del 4, era stato allenato prima dei Giochi. Loro erano lì per puro caso, o come avrebbero potuto dire loro, per mera sfortuna, erano vittime sacrificali destinate a morire sotto le mani dei Favoriti. Sia che avessero avuto un mare di sponsor o meno.
Clove si stupì della sua freddezza e acutezza di pensiero, ma fu solo per un breve istante. Prima di allora non aveva mai pensato seriamente di uccidere qualcuno, a parte Damien forse, ed ora invece si ritrovava a studiare quei ragazzi come se fossero bestie, imprimendosi nella mente quali avrebbe ucciso prima e quali avrebbe cercato di evitare.
Era proprio vero che i Giochi ti cambiavano.


Clove e Cato erano già impazienti mentre venivano scortati nella palestra dove si sarebbero tenuti gli addestramenti.  Quella si trovava nei sotterranei ed era gremita di armi di tutti i tipi e numerosi percorsi ad ostacoli. Aspettavano quel momento sin da quando erano saliti a bordo del treno che li aveva condotti fin lì. Era l’unica ragione per la quale volevano arrivare a Capitol City. Gli altri tributi invece non parevano essere così emozionati. Probabilmente più della metà di loro non aveva mai tenuto in mano una spada, non aveva mai tirato con l’arco, non aveva mai lanciato coltelli o lance. Per molti di loro quella era un’esperienza del tutto nuova. Ma non per lei.
Dopo le ultime istruzioni, i tributi vennero lasciati liberi di scegliersi le proprie postazioni ed iniziare l’allenamento individuale. In ogni postazione ci sarebbero stati degli esperti di ogni specialità ma Clove era certa che non se ne sarebbe servita. Lei sapeva già tutto quello che doveva sapere.
Cato le lanciò uno sguardo e le si avvicinò mestamente.
«Bé, buon divertimento allora.» Il suo sorriso era brillante come non lo vedeva da tempo. «E tieni gli occhi aperti.» Gli disse lanciando uno sguardo agli altri tributi che si aggiravano attorno alle postazioni senza sapere cosa fare. Detto questo il ragazzo si allontanò, andando con passo sicuro verso la postazione delle spade e non si preoccupò di schivare un ragazzino impaurito che non sapeva dove andare, tirandogli una spallata che per poco non lo fece cadere a terra.
Clove sapeva cosa aveva voluto dire Cato poco prima, le diceva di guardarsi attorno e studiare bene i propri nemici. La ragazza si mosse con passo sicuro verso la postazione con i bersagli. Quelli erano delle sagome a grandezza naturale di persone con i punti vitali evidenziati in rosso. Di fianco ad ogni postazione vi era un arco con la sua faretra... e dei coltelli da lancio. Clove ne afferrò tre, senza pensarci un istante di più, e li tirò, uno dietro l’altro.
Quelli si conficcarono con precisione nei punti desiderati: l’occhio destro, il centro della testa e il cuore. Con un sorriso soddisfatto Clove afferrò altri coltelli. Si stava solo riscaldando. Lanciò uno sguardo attorno solo per notare con certo orgoglio che molti Tributi si erano fermati a guardarla ad occhi spalancati. Altri invece rivolgevano gli stessi sguardi alla postazione delle spade, dove Cato aveva già iniziato a distruggere i suoi manichini. Solo pochi altri tributi si avventuravano nelle poche postazioni dove erano per lo meno discreti, ma senza grandi risultati. La maggior parte di loro si affollò attorno alle postazioni dove si insegnava come accendere un fuoco, intessere trappole e fare nodi. Che abilità inutili, pensò Clove con stizza, tornando a concentrarsi sui suoi bersagli.


Ritrovò Cato poco più tardi, mentre lasciava la postazione di lotta libera dove aveva appena steso un giovane assistente di Capitol che aveva il compito di guidare i tributi nelle varie postazioni. Clove sghignazzò sentendolo lamentarsi alle sue spalle mentre degli uomini vestiti di bianco gli si affollavano attorno. E quel tizio avrebbe dovuto insegnare qualcosa a lei? La ragazza scosse la testa, continuando a sorridere.
Quando vide Cato si diresse verso di lui, non sapendo che altro fare e decidendo di concedersi una breve pausa dagli allenamenti.
«Bé, come procede?» Chiese lei, cercando di non apparire sciocca. Non sapeva perché, ma Cato le dava sempre qualche problema. Quando parlava con lui, si sentiva come... inferiore forse? Non lo sapeva, ma le sembrava sempre di apparire come una bambina.
Lui si strinse nelle spalle. «Non è molto diverso dalla nostra Accademia.» Il suo sguardo scivolò alle sue spalle, sul ragazzo che aveva appena steso e che i medici stavano portando via su una barella, mentre lui si stringeva la caviglia. Cato si mise a ridere.
«Però! L’hai conciato proprio bene! Come quando hai steso quell’idiota di Damien a scuola!» Cato ridacchiò brevemente, seguendo i medici con lo sguardo. «Attenta però... non svelare tutti i tuoi trucchi prima ancora di entrare nell’arena.» Aggiunse beffardo, continuando a sorridere.
«Uff... ma l’ho appena sfiorato! Non ho usato nessun trucchetto, non me ne ha dato l’opportunità.» Si lamentò la ragazza, con un sorrisetto furbesco sulle labbra. In quell’ambiente familiare le risultava più facile stare al fianco di Cato. Poteva quasi fingere che non si stessero preparando per i Giochi. Che presto non sarebbero diventati nemici. Bé, poteva quasi fingere. Ridacchiavano entrambi quando qualcuno si avvicinò.
Erano i Tributi dell’1.
«Hey.» Esclamò il ragazzo, avvicinandosi. La bionda era alle sue spalle e sorrideva. «Complimenti ad entrambi, per il bello show di poco fa! Credo proprio che noi,» Disse marcando particolarmente la parola noi come se vi stesse includendo anche lui e la sua compagna. «Siamo i pochi in grado di fare veramente qualcosa con questi attrezzi.» Disse il ragazzo indicando la palestra alle sue spalle e i tributi ancora mezzi spaesati che vagavano da una postazione all’altra. Il suo intento era chiaro: voleva conoscere i tributi più agguerriti in modo da poter creare un’alleanza strategica. Ta da! Ed ecco la nascita dei Favoriti! Peccato che Clove non volesse farne parte.
«Oh, comunque io sono Marvel.» Il ragazzo tese la mano a Cato, che la strinse energicamente, poi la porse a Clove. La ragazza non sapeva cosa dire. Non voleva allearsi con loro ma rinnegare così l’alleanza non era certo una mossa furba. Non li voleva neppure come nemici. Senza mostrare alcuna emozione, strinse la mano al ragazzo.
«Glimmer.» Disse la ragazza bionda salutandoli entrambi con la mano. Il suo sguardo indugiò qualche istante su Cato, pensò Clove, ma forse l’aveva solo immaginato.
«Bé,» iniziò Cato, rompendo il silenzio. «Tu hai visto in cosa sono forte. Ma io non ho visto in cosa lo sei tu.»
Marvel gli sorrise tirandogli una pacca sulla schiena e iniziando a camminare. «Oh amico, devo dire che me la cavo abbastanza bene con le lance. Anzi, a dire la verità mi è stato detto che sono il migliore. Ma niente è meglio che giudicare con i propri occhi, no?»
«Ah, sicuro!» Esclamò Cato, non ancora del tutto convinto. Se Marvel voleva allearsi con lui, avrebbe dovuto dimostrare di essere alla sua altezza. Clove rimase ferma, osservando i due ragazzi che si allontanavano. Poi si rese conto della presenza della ragazza bionda, Glimmer, al suo fianco. Lei le sorrise con quelle sue labbra rosee e piene, con uno sguardo che Clove non riuscì a leggere. Poi, senza dire nulla, si allontanò, seguendo Cato e Marvel con passo ondeggiante. Clove la guardò per qualche istante, studiandola attentamente. Era una ragazza strana e ancora non aveva capito se fosse forte oppure facesse solo finta di essere superiore a tutti gli altri tributi. Non sembrava particolarmente dotata in qualche arte ma il suo sguardo, misterioso e indagatore, pareva nascondere qualcosa. Sì, forse era meglio averla come alleata che come nemica. Alla fine veniva dall’1; poteva avere qualche abilità che preferiva tenere nascosta.
Ad ogni modo Clove non intendeva avere alcun alleato, se questo voleva dire affrontare l’arena assieme a Cato. Preferiva starsene da sola. O almeno così si era imposta di credere. Si voltò con risolutezza e si diresse alla prima postazione che le capitò a tiro, cercando di non voltarsi a guardare quelli che, già lo sapeva, sarebbero diventati i Tributi Favoriti della settantaquattresima edizione degli Hunger Games.

SPAZIO AUTORE

Hemm, salve a tutti *schiva qualche coltello* scusate, scusate davvero per questo immenso ritardo nell'aggiornare!!! Lo so, mi odio anche io xD ultimamente la scuola non mi lascia spazio e mi sta letteralmente sommergendo... è l'ultimo anno, è normale che sia così D: ad ogni modo, spero il capitolo non vi abbia deluso e... la prossima volta, aggiornerò senza tutto questo ritardo, lo giuro ;) Grazie a tutti quelli che leggeranno e recensiranno la storia, se ce ne sono ancora... grazie davvero <3

~ C
 





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Capitolo 12
*** 12. Alleanze ***



Till your last breath

CAPITOLO 12

ALLEANZE




Il secondo giorno al Centro di Addestramento il tempo parve a tornare a scorrere normalmente. Clove si concesse anche il tempo di osservare attentamente le altre persone sedute assieme a lei e Cato al grande tavolo della colazione.
Per tutti i giorni precedenti il suo unico obiettivo era stato quello di raggiungere la palestra e iniziare gli addestramenti, nient’altro le era importato. Ora che finalmente l’aveva fatto e aveva visto e analizzato gli altri tributi si sentiva più tranquilla.
Al tavolo sedevano, oltre che lei e Cato, i loro due stilisti. Eliahs e il suo compagno, un uomo robusto con i capelli neri dalle punte di un blu elettrico. I due stavano parlando e Clove preferì non sapere cosa stessero progettando. Probabilmente un qualche altro vestito per loro. Eliahs le stava simpatico e parlare con lui non le dispiaceva. Ma preferiva non averci nulla a che fare, visto il suo lavoro.
A capotavola sedeva l’omino dai capelli verdi e la voce squillante che li aveva guidati a Capitol, il loro accompagnatore, quello che aveva eseguito anche la Mietitura. Clove non aveva ancora imparato il suo nome. Ad ogni modo, lui cercava con tutti i mezzi possibili di ravvivare la situazione quando si trovavano tutti assieme e cercava con assiduo impegno di attaccar bottone con Brutus ed Enobaria. I loro mentori.
Ma loro, come Cato e Clove, non erano poi così vogliosi di chiacchierare con quell’essere chiassoso e così evidentemente superficiale. Non che parlassero molto di più con gli altri, anzi; erano abbastanza silenziosi e sulle loro.
Il lavoro di mentore nel Distretto 2 non era poi così impegnativo. Cato e Clove sapevano già quasi tutto quello che dovevano sapere e  Brutus ed Enobaria si erano limitati a dare loro qualche prezioso consiglio, attingendo anche ad esempi delle loro edizioni degli Hunger Games, quelle in cui avevano trionfato. Clove non poteva nasconderlo, ma sia lei che Cato guardavano i loro mentori con un certo rispetto. Loro due ce l’avevano fatta, avevano vinto gli Hunger Games.
Ad ogni modo questo era tutto. Non vi era un grande rapporto tra di loro, anche se un paio di volte Clove era certa di aver visto lo sguardo di Enobaria passare da lei a Cato, studiandoli con una certa attenzione e con uno sguardo meno duro del solito. Forse, sotto sotto, sperava che almeno uno di loro due vincesse.
Quel mattino Cato e Clove si recarono da soli nei sotterranei, visto che i loro mentori non avevano nulla di più da insegnare loro. Gli ascensori erano veloci e silenziosi, come l’abitacolo che li portava sempre più in basso. Fu Cato a rompere il silenzio.
«Allora... come ti sono sembrati i tributi dell’1?»
Clove alzò lo sguardo verso di lui e ci pensò su, prima di rispondere. «Non sembravano male.» Disse, non del tutto convinta.
«No, affatto. Credo che potrebbero benissimo essere nostri alleati, nell’arena. Ci saranno molto utili.»
Clove sgranò gli occhi. La confusione si impadronì di lei per qualche istante. Nostri alleati? Ci saranno utili? Sembrava quasi che Cato intendesse che lui e Clove sarebbero effettivamente stati alleati nell’arena. Ma non poteva essere così, vero? Doveva essersi sbagliato.
«Cosa c’è?» Chiese lui, accorgendosi che Clove lo stava fissando con gli occhi sgranati. Lei si schiarì la voce, presa alla sprovvista da quella situazione.
«Ecco io... non pensavo... non pensavo che ci saremmo alleati nell’arena. Tu ed io, voglio dire.» Aggiunse, come se non fosse stata abbastanza chiara.
Ora fu lo sguardo di Cato ad apparire confuso. Incrociò le braccia al petto, guardandola inarcando le sopracciglia. «E perché lo pensavi?»
Clove si strinse nelle spalle. «Non lo so.» Abbassò lo sguardo mentre il cuore le saltava in gola. Cosa stava succedendo in quel maledetto ascensore? «Perché... tu vorresti avermi come alleata?»
«Stai scherzando, vero?!» Esclamò lui, sempre più sorpreso. Clove alzò di nuovo lo sguardo verso di lui. «Certo che sì. Ti ho vista all’Accademia. Ho visto quanto sei brava con quei coltelli. Certo che ti voglio come alleata.» La mente di Clove volò per qualche istante al coltello che lui le aveva regalato una sera di tanti anni prima, sul tetto dell’Accademia. Ora era ben nascosto nella sua stanza al Centro di Addestramento. Per qualche ragione, non voleva separarsi da quell’oggetto.
Poi tornò al presente e  metabolizzò il tutto: Cato la voleva come alleata nell’arena. Cato voleva che lei fosse sua alleata nell’arena.
«Allora... siamo alleati, vero?» Riprese Cato, in attesa di una risposta. «Se il problema sono quelli dell’1 possiamo sempre dirgli che non ci interessa allearci con loro.»
«No!» Esclamò Clove. «No, loro sono a posto.»
«Allora qual’è il problema?» Cato inarcò le sopracciglia e rimase in silenzio per un istante. «Io?»
Clove lo guardò socchiudendo le labbra. Il suo sguardo si fece duro. «No, certo che no! Non c’è alcun problema. È solo che... oh, lascia perdere.» Si arrese Clove, scuotendo la testa, sconsolata. «Saremo alleati. Siamo alleati.»
«Fantastico!» Sulle labbra di Cato si dipinse un sorriso soddisfatto. Proprio in quel momento le porte dell’ascensore si spalancarono davanti a loro e i due si incamminarono nella palestra.
Cosa aveva combinato? Cosa diavolo aveva combinato?
Che fine avevano fatto tutti i suoi propositi sul dimenticarsi di Cato, di ignorarlo e fare finta di non averlo mai conosciuto? Il suo piano di distanziarlo il più possibile nell’arena e sperare che qualcun altro si occupasse di lui mentre lei cercava di non pensarci? Che fine avevano fatto tutti i suoi buoni propositi per affrontare gli Hunger Games al meglio, senza avere quel peso opprimente addosso? Perché aveva accettato?
Si era scavata la fossa da sola. Come avrebbe potuto sopportare di allearsi con Cato, di stare assieme a lui nell’arena, quando riusciva a mala pena a stare nella stessa stanza con lui senza pensare a cosa sarebbe successo di li a poco? Senza continuare ad interrogarsi su come sarebbe finita tutta quella storia?
Aveva solo peggiorato la sua già precaria situazione. A questo pensava mentre Cato si dirigeva spensierato verso gli altri due Favoriti. Clove si chiese per un istante cosa passasse per la sua testa. Sembrava sempre così tranquillo e misurato, ma a cosa pensava in realtà? Perché la voleva come alleata? Era forte, certo. O forse il suo piano era di eliminarla il più presto possibile, così la sua presenza non gli avrebbe più dato alcun problema di rimorso o cose simili? Come si diceva, tieni vicino gli amici ma ancora più vicino i nemici. Clove non sapeva perché lo avesse fatto, sapeva soltanto che le cose si mettevano sempre peggio e la sua mente, già così tanto provata, iniziava lentamente a cedere.

***

«Avete visto gli strateghi?» Chiese Marvel al terzo giorno di allenamenti, posando rumorosamente il vassoio di metallo sul tavolo della mensa. All’ora di pranzo i quattro Tributi Favoriti erano soliti unire due tavoli e crearne uno unico, dove mangiavano assieme e parlavano degli allenamenti e di quanto fossero scarsi gli altri tributi in confronto a loro.
Glimmer li raggiunse e si sedette con grazia al suo posto. «Finalmente hanno deciso di farsi vedere.»
«Chissà cosa ci hanno organizzato quest’anno.» Si chiese Marvel, iniziando a mangiare.
Già, era una bella domanda.
Ad ogni modo il problema più impellente erano le sessioni private; per questo gli strateghi si erano decisi a farsi vivi. Le sessioni sarebbero state di vitale importanza. Soprattutto lo sarebbe stato il voto.
«Spero sia un’arena decente.» Fu il commento di Cato. Glimmer ridacchiò. Clove la guardò storto.
«Bé, ma prima dell’arena ci saranno le interviste.» Fece la ragazza bionda, lanciando uno sguardo ai suoi compagni con uno strano sorriso sulle labbra. «Non vedo l’ora che arrivi il momento!» Dopo quella sua esclamazione si trovò addosso tre paia di occhi che la guardavano storto. «Che c’è? Che ho detto?»
«Niente, ma credo che tu sia l’unica ad amare le interviste, qui dentro.» Disse Clove ridacchiando al pensiero e cercando di nascondere il nervosismo che il solo pensare alle interviste le infondeva.
«Sì, è vero.» Concordò Cato, tornando a mangiare.
«Oh, ma dai! Sarà divertente! In più la mia stilista mi ha promesso un vestito favoloso
Marvel scosse la testa, tornando anch’esso a mangiare. Glimmer sbuffò sconsolata, borbottando un sommesso ‘’che noia’’.
«Avete notato come gli strateghi tenevano gli occhi puntati addosso a quei due pivelli del 12?» Chiese Marvel, abbassando la voce ad un sussurro. I loro sguardi si posarono per qualche istante sui tributi in questione per poi tornare a fissarsi su Marvel.
«Sì, l’ho notato.» Fece Cato. Anche Clove annuì, in segno di assenso.
«La loro è tutta fortuna. Adorano lei perché si è offerta volontaria per salvare la sorellina. Poi hanno dato il loro show alla sfilata, tenendosi per mano e mandando in fiamme il loro costume.» Commentò Clove in tono sprezzante. Non sapeva dirsi se era per questi motivi o per altri, ma i tributi del 12 non le andavano particolarmente a genio. Anzi. Nutriva una certa antipatia verso di loro, soprattutto verso la ragazza.
«Quante storie! Non hanno nulla di speciale, nessuno dei due!» Esclamò Glimmer, lanciando loro uno sguardo palesemente nauseato. «La ragazza poi non è nemmeno così bella.»
«Sono curioso di vedere le loro valutazioni. Su quelle almeno non posso barare.»
«Hai ragione Cato. Sono molto curioso anche io.» Gli fece eco Marvel. «A proposito, avete già pensato a cosa mostrare agli strateghi durante le sessioni?»
Così la discussione abbandonò i tributi del 12 e si spostò sulle varie tattiche e mosse che avrebbero mostrato agli strateghi per impressionarli. Però Clove lanciò loro un ultimo sguardo. La fortuna aveva fatto in modo che fossero stati notati dagli sponsor e dagli altri tributi, ma tutto finiva lì. Clove soffocò l’irritazione dovuta a quel pensiero. Se lei era arrivata fino a dove stava non era stato certo per la fortuna.
Ad ogni modo cancellò quei pensieri dalla mente e tornò a focalizzarsi sulla conversazione. Marvel stava ancora parlando di cosa avrebbe mostrato agli strateghi durante le ormai incombenti sessioni mentre Cato la guardava di sottecchi, come se avesse voluto dirle qualcosa. Glimmer invece fissava apertamente Cato, come se lo stesse attentamente esaminando da vicino.
Eccoli lì, quelli che sarebbero stati i suoi compagni nell’arena.
O almeno, lo sarebbero stati fino a quando l'alleanza avrebbe tenuto.
Poi sarebbero diventati tutti quanti nemici.
Cato compreso.


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Capitolo 13
*** 13. Le Interviste ***



Till your last breath
CAPITOLO 13
LE INTERVISTE


Clove iniziò a sentirsi nervosa già mentre si avviava, con passo incerto, verso l’ascensore. Tutta la grinta e la determinazione che l’avevano pervasa durante le sessioni private, tutta la sicurezza e la forza che aveva mostrato agli strateghi e che le era fruttata un ottimo dieci come voto, sembrava evaporata come acqua lasciata troppo tempo sotto il sole cocente.
Il suo debole alla fine restava sempre quello: il pubblico. E niente era peggio delle interviste. Niente.
Non solo avrebbe dovuto restare per un tempo indefinito sul palco, immobile su una sedia, sotto le luci accecanti dei riflettori e con le telecamere che le ronzavano attorno, riprendendola da ogni angolazione quando nemmeno se ne rendeva conto. Non solo avrebbe dovuto sedersi a fianco di Caesar Flickerman e parlare amabilmente della sua vita, del suo passato e di come avrebbe affrontato gli Hunger Games. No, questo non bastava. Avrebbe anche dovuto indossare uno stupido vestito e dei maledetti tacchi. Questo, più di ogni altra cosa, la faceva rabbrividire. Non i Giochi, non i ragazzi che avrebbero tentato di ucciderla. Vestiti da sera e tacchi alti.
Era un controsenso, ma per Clove era così. Ad ogni modo era davvero brava a mascherare il nervosismo e i suoi timori, perché tutti gli altri tributi continuavano a temerla. Quando passava loro vicino, assieme agli altri Favoriti, si scansavano e abbassando gli occhi. Nessuno avrebbe mai capito che lei, la ragazza letale dal Distretto 2, aveva paura delle interviste. Eliahs, il suo stilista, le aveva detto di mostrarsi forte, determinata e superiore quanto sarebbe arrivato il momento di parlare. Doveva far capire a tutti che era lì per una sola ragione: vincere. E che avrebbe fatto di tutto per adempire ad essa. Ma allo stesso tempo doveva mostrarsi scaltra e misteriosa per attirare su di sé il maggior numero di sponsor possibile. Certo, essere anche un po’ affascinante non avrebbe guastato, ma quando Eliahs glielo propose lei lo guardò in cagnesco.
Clove pensava che se ne sarebbe semplicemente rimasta là seduta immobile, muta con un pesce e con uno sguardo omicida verso il pubblico. Sponsor inclusi. Quando aveva espresso questo suo pensiero al suo stilista, Eliahs l’aveva guardata inarcando le sopracciglia sottili e le aveva fatto una ramanzina. Aveva ottenuto un voto alto alle valutazioni, facendosi notare in positivo dagli strateghi; gli altri tributi sapevano quanto fosse forte e letale, un vero osso duro nell’arena. Non poteva rovinare tutto in una sola sera.
E Clove sapeva che lui aveva ragione. Non poteva farlo, doveva essere forte e superare anche quella. Prese un profondo respiro e si sistemò il vestito, reprimendo l’istinto di strapparselo via. Almeno alla sfilata aveva indossato qualcosa con cui aveva una certa affinità. Di vestiti invece non ne aveva mai indossati. Per non parlare di tacchi, pensò mentre entrava nell’ascensore cercando di non inciampare. Eliahs aveva passato l’intera mattinata per insegnarle il portamento corretto con vestito e scarpe alte. Per Clove quello era tutto tempo sprecato che avrebbe preferito impiegare in ulteriori allenamenti. Ma avrebbe potuto ricredersi se tutte quelle ore buttate le sarebbero servite per non cadere rovinosamente a terra sul palco mandando in fumo tutto quanto.
Mentre osservava con stizza il suo vestito arancio, appiattendolo con le mani come se sperasse che potesse diventare improvvisamente più lungo, e si sistemava l’acconciatura troppo elaborata, che probabilmente sua madre avrebbe amato, Cato si infilò tra le porte dell’ascensore che si stavano già richiudendo.
«Scusate il ritardo.» Disse con voce calma, abbozzando un mezzo sorriso. Brutus lo guardò storto. Anche lui ed Enobaria non parevano apprezzare troppo tutta la storia delle interviste, ma almeno erano arrivati puntuali. L’omino di Capitol iniziò a fargli una ramanzina, spiegandogli quanto fosse importante essere sempre in orario per gli abitanti di Capitol City ma nessuno, Cato compreso, gli diede ascolto.
Mentre l’ascensore iniziava la sua breve discesa Clove lanciò uno sguardo a Cato. Anche lui, come lei, aveva preso dieci alle sessioni private. Questo non faceva altro che sottolineare quanto fossero simili, anche nella forza e nella tattica. Marvel e Glimmer avevano preso entrambi nove. Solo la ragazza del 12, quella che tutti amavano, aveva preso undici. Clove si chiese cosa avesse mostrato agli strateghi, per piacergli così tanto.
Il ragazzo si appoggiò pigramente ad una parete dell’ascensore, con le mani nelle tasche dei suoi pantaloni scuri. Clove non lo aveva mai visto così elegante; indossava una giacca di un grigio lucido, quasi argentata e sotto di essa una camicia nera. Ma non lo avevano costretto ad indossare una cravatta, infatti i bottoni scuri della camicia erano aperti sul collo. Probabilmente, pensò la ragazza abbassando lo sguardo sui suoi piedi, nemmeno lui era così entusiasta per le interviste. Solo Glimmer lo era.
Finalmente le porte dell’ascensore si aprirono tintinnando e furono fuori. Clove prese un bel respiro e si avviò con passo deciso verso la sua meta, cercando di non badare ai tacchi. Cato, al suo fianco, camminava tranquillo senza tutti i maledetti problemi di Clove. La ragazza pensò di averlo visto ridacchiare per qualche istante, ma forse se lo era solo immaginato. Ad ogni modo, doveva apparire decisamente goffa con tutte quelle cianfrusaglie addosso.
Cato camminava con lo sguardo basso e distante; pareva immerso nei suoi pensieri mentre procedeva con passo sicuro, le mani abbandonate pigramente nelle tasche dei pantaloni.
Anche Clove aveva pensato molto ultimamente. Soprattutto la notte, quando la solitudine della sua grande stanza la faceva sentire vuota. Restava per ore intere sveglia a guardare il soffitto oppure a lanciare in aria il suo coltello, come faceva quando andava a scuola, mentre la sua mente vagava lontana: tornava indietro nel tempo, quando era ancora una bambina e sua madre era ancora viva. Si chiedeva se sarebbe stata comunque lì, a Capitol City, se sua madre non fosse morta. Pensava a suo padre e a come dovesse sentirsi, solo in quella casa impolverata, davanti alla televisione, vedendo sua figlia, l’unica famiglia che gli era rimasta, che si preparava a scendere nell’arena. Si chiedeva se sarebbe morta là? Sperava che potesse tornare a casa? O forse non se ne rendeva neanche conto, continuando a vivere nel suo mondo immaginario dove tutto andava bene? E poi pensava a Damien. Pensava a come sarebbe stata felice di ucciderlo una volta tornata a casa, di fargliela pagare per le menzogne che le aveva raccontato. Sempre che quelle fossero tali. Ad ogni modo, lo avrebbe strangolato con le sue stesse mani, che fosse suo fratello oppure no. Ma la maggior parte del tempo, anche se si odiava per questo, anche se cercava di non farlo, pensava a Cato. Come avrebbe potuto fare altrimenti?
Non doveva essere lui a trovarsi al suo fianco. Lui era sempre stato il ragazzino dai capelli biondi e gli occhi azzurri che gli aveva regalato il suo primo coltello. E lei non gli aveva ancora detto grazie. E probabilmente non avrebbe mai potuto farlo.
E poi pensava al futuro. Cercava di non farlo, perché ogni volta sembrava che qualcosa di pesante la schiacciasse fin quasi a farla soffocare. Era impossibile pensare al futuro quando stavi per partecipare agli Hunger Games. Fino a poche settimane prima si sarebbe semplicemente detta che non aveva nulla da temere, che avrebbe vinto e sarebbe tornata a casa e avrebbe avuto soldi e una nuova casa, suo padre sarebbe tornato com’era un tempo, avrebbe smentito le bugie di Damien e lei avrebbe potuto ringraziare Cato per averle donato il coltello in quel periodo buio della sua vita.
Ma dal momento che il ragazzo si trovava lì con lei quando invece non avrebbe dovuto esserlo... quel piccolo dettaglio aveva sconvolto i suoi piani. E il pensiero di essere sua alleata nell’arena non faceva altro che opprimerla di più. Avrebbe voluto poter entrare nella sua testa e capire a cosa pensasse ma non poteva farlo. Doveva solo limitarsi a vivere nel presente, senza pensare a cosa sarebbe successo e cosa avrebbe fatto. Era l’unico modo, altrimenti sarebbe impazzita. C’è un limite ai problemi che una ragazza di sedici anni può affrontare nello stesso momento. E il limite si accorcia drasticamente se tra questi problemi ci sono gli Hunger Games.
E le interviste. Si impose di pensare Clove, tornando velocemente al presente. Tutti quei pensieri le avevano lasciato un leggero mal di testa che fuso al mal di piedi non facevano altre che aumentare la sua agitazione. Prese un profondo respiro, di nuovo, mentre raggiungeva in fila gli altri tributi in attesa di entrare nell’anfiteatro. Senza fiatare, prese il suo posto dietro a Marvel. Alle sue spalle, Cato era silenzioso quanto lei, ma poteva sentire il suo respiro sul collo scoperto, tanto erano vicini.
Marvel, in un completo di un blu elettrico, si girò verso di loro per salutarli. Il suo sguardo indugiò su Clove e la ragazza odiò ancora di più il suo stupido vestito e i suoi stupidi capelli, che la facevano apparire così diversa da com’era di solito.
Anche Glimmer si voltò verso di loro. Non aveva scherzato quando aveva detto loro che la sua stilista le avrebbe preparato un vestito meraviglioso per l’intervista. Clove avrebbe scommesso che ogni spettatore là fuori avrebbe perso il respiro nel vederla. Se la ragazza non sembrava un’apparente minaccia in fatto di forza o agilità poteva almeno giocare la carta della bellezza. La sua stilista non doveva avere avuto molti problemi nel renderla così affascinante. Indossava un corto, cortissimo vestito colo oro semitrasparente che lasciava ampiamente scoperte le gambe nude. I suoi lunghi capelli biondi erano fluenti e sembravano quasi illuminarsi di una luce tutta loro. Il risultato era, Clove dovette ammetterlo, veramente ammirevole.
In altre parole, lei era spacciata.
«Ciao ragazzi!» Salutò lei con voce emozionata. «Clove, quasi non ti riconoscevo! Sei adorabile vestita in quel modo.» Clove la guardò male, incrociando le braccia al petto con fare difensivo, ma non fece in tempo a ribattere o ad insultarla, perché l’ interesse di Glimmer si era già spostato su Cato. Perché d’un tratto la sua voce era diventata più suadente e il suo sorriso sembrava quasi provocatorio? Quella ragazza era un vero mistero. «Ciao, Cato.» Alle sue spalle, Cato alzò lo sguardo per un istante, rivolgendole un cenno col capo. Poi tornò a guardarsi i piedi, pensieroso. Glimmer si voltò, mulinando i lunghi capelli biondi.
Clove la guardò carica di risentimento.
Adorabile. Adorabile! Un gattino si può definire adorabile. Ma non lei! Ok, non era sexy come Glimmer, ma adorabile pareva quasi un insulto. Lei era letale e spietata.
Mentre meditava su tutto ciò, partì un segnale acustico e Glimmer, la prima che sarebbe stata intervistata, si incamminò con passo rapido, camminando sui tacchi alti come se fosse stata a raso terra e con un’andatura da felino. Forse se l’avessero buttata nell’arena con i tacchi avrebbe avuto più possibilità di vincere. Ma Clove non ebbe modo di pensarci oltre.
In meno di un respiro, eccola che seguiva Glimmer e Marvel sul palco. E poi la magia accadde, proprio com’era successo alla sfilata. Sul suo volto si dipinse un mezzo sorriso mentre il suo sguardo si posava sul pubblico colorato e vociante. Il suo cuore iniziò a battere più veloce ma lo ignorò e imitò i suoi compagni, iniziando a salutare gli abitanti di Capitol e allo stesso tempo camminando in maniera più o meno dignitosa sui tacchi alti. Gli applausi, le urla e le luci la stordivano, ma cercò di non farci caso. Ad ogni modo fu più che contenta quando raggiunse la sua poltrona e vi sprofondò, carica di gratitudine per poter finalmente dar tregua ai suoi poveri piedi, che erano abituati a calzare stivali di pelle al massimo. Quando finalmente tutti i tributi ebbero preso il loro posto le luci si abbassarono e un unico riflettore seguì i movimenti di un uomo che corse sul palco, salutando il pubblico con numerosi inchini e un enorme sorriso. Caesr Flickerman.
Il presentatore, che quell’anno aveva i capelli tinti di blu, salutò calorosamente il popolo di Capitol City. E con un breve sguardo ai ventiquattro Tributi schierati in semi cerchio alle sue spalle... diede il via alle interviste dei settantaquattresimi Hunger Games.


Fu quando Caesar si alzò in piedi per la seconda volta, stringendo vigorosamente la mano a Marvel con un grosso sorriso divertito e un augurio di vittoria che Clove realizzò con orrore che era arrivato il suo turno. Il tempo antistante si era limitata a starsene seduta sulla sua poltrona, in una posa il più aggraziata e femminile possibile, come le aveva consigliato il suo stilista, lanciando lunghe occhiate al pubblico e mantenendo fermo sulle labbra quel sorriso che ostentava sicurezza e superiorità. Aveva ascoltato vagamente l’intervista di Glimmer, che aveva proseguito sulla strada del mostrati-sexy-e-andrà-tutto-bene con ottimi risultati. Come Clove aveva previsto, il pubblico rimase estasiato alla vista della ragazza bionda con gli occhi verdi e brillanti come gemme del Distretto 1.
Marvel invece aveva ripiegato sulla simpatia e le battute, si era mostrato calmo e disinvolto, come se stesse chiacchierando con un amico che non vedeva da molto tempo. Ma quando Caesar gli chiese come pensasse di agire nei giochi non ebbe esitazioni nel rispondere che avrebbe cercato di eliminare il più vasto numero di tributi possibile. Tutti e due, bene o male, erano stati loro stessi sul palco. Per Clove invece sarebbe stato più difficile. Fosse stato per lei si sarebbe comportata esattamente come durante la sua sessione con gli strateghi: avrebbe tirato un paio di coltelli, avrebbe parlato di come avrebbe agito nell’arena e poi se ne sarebbe andata. Invece purtroppo non avrebbe potuto fare così. Quando Marvel tornò a sedersi al suo posto, con aria soddisfatta e ancor più rilassata, Clove strinse spasmodicamente la presa sui braccioli della poltrona. Per un istante non sentì né provò nulla, poi il tempo riprese a scorrere normale.
«E dal Distretto 2... Distretto 2 signore e signori! Diamo il benvenuto alla nostra incantevole Clove!» Al suono di quelle parole Clove si alzò in piedi e sorrise malvolentieri al pubblico prima di incamminarsi verso Caesar, proprio sotto i riflettori. Man mano che avanzava verso la poltrona bianca sentiva la paura scemare e scivolarle di dosso come fosse acqua. Ce l’avrebbe fatta. Lei ce la faceva sempre.
Caesar le tese la mano e lei gliela strinse con presa decisa, rivolgendogli un sorriso sicuro. «Benvenuta Clove! Prego, accomodati!»
La ragazza si sedette, felice di non dover più camminare su quei trampoli, e si sistemò il vestito, lanciando un lungo, misterioso sorriso (o almeno sperò che Elihas lo avrebbe definito così) al pubblico che non aveva ancora smesso di applaudire. Forse, pensò, si ricordavano ancora della sua armatura dorata.
«Meraviglioso, meraviglioso!» Esclamò Caesar ridendo e facendo cenno al pubblico di ristabilire il silenzio. «Che accoglienza calorosa! Ma veniamo a noi. Allora, Clove, come ti senti? Agitata?» Le chiese l’uomo regalandole un sorriso luminoso. Clove gli sorrise a sua volta, con finta dolcezza.
«Per niente Caesar.» Mentì lei, spostando lo sguardo sugli spalti. «Sono felicissima di essere qui.» Qualcuno applaudì.
«Ovviamente, ovviamente! Vedere Capitol City e vivere nel lusso non è certo cosa di tutti i giorni! Anche se ho sentito che al Distretto 2 non si vive affatto male! È vero?»
Clove annuì, continuando a sorridere e iniziando a sentirsi un ebete. «Verissimo. Amo il mio Distretto.» Il pubblico applaudì entusiasta e anche Caesar sembrò felice di sentirglielo dire.
«Certamente, certamente! Ma...» E qui la sua voce passò dal divertito al serio. Pessimo segnale, pensò Clove. «Ho sentito una storia sul tuo conto... sulla tua famiglia.» Caesar gli si fece più vicino e le strinse una mano. Clove ebbe un sobbalzo, sentendosi immediatamente irritata da quel tocco e da quella eccessiva vicinanza. Poi capì dove Caesar volesse andare a parare. Oh no. No, no, no. Avrebbe sopportato tutto, ma non quell’argomento.
Ma ormai era troppo tardi.
«Tua madre.» La voce di Caesar si ridusse quasi ad un sussurro, come se fosse rattristato al pensiero della sua morte, come se lui l’avesse conosciuta. Il sorriso di Clove le si spense sulle labbra. Non voleva parlare di lei a quella gente aliena. Perché mai avrebbe dovuto farlo? Ma poi si rese conto che non aveva altra scelta. Anzi, forse se avesse studiato bene le parole... forse avrebbe potuto commuovere qualche sponsor. Non mostrare le tue debolezze. Trasformale in punti di forza.
«Ti senti di parlarci di lei e della tua famiglia?»
«Mia madre è morta quando ero ancora una bambina.» Iniziò Clove, con voce forte e sicura ma allo stesso tempo molto triste e persa nei ricordi. «La sua morte è il peggiore ricordo di tutta la mia vita.  Era una donna straordinaria. Le volevo molto bene.»
«Certo, certo. Capisco.» Disse Caesar continuando a stringerle la mano come se potesse portarle conforto. «E scommetto che ora sarebbe molto fiera di te.» Clove abbozzò un sorriso, certa che sua madre sarebbe stata l’opposto di fiera nel sapere che la sua bambina avrebbe partecipato agli Hunger Games, ma non disse nulla e abbassò lo sguardo. Probabilmente il pubblicò avrebbe pensato che stesse per commuoversi. Meglio lasciarglielo credere.
«Ma ti resta comunque tuo padre. Com’è il tuo rapporto con lui?»
«Mio padre non è più lo stesso da quando mia madre è morta. Ma gli voglio un gran bene e farò di tutto per tornare a casa e aiutarlo a passare questo momento buio.»
Caesar sorrise dolcemente, passandosi un dito sotto un occhio come a detergersi una lacrima immaginaria. «Una figlia modello, davvero.» Lanciò uno sguardo al pubblico che per esprimere il suo assenso, iniziò ad applaudire. «Ma passiamo oltre alla famiglia.» Esclamò Caesar, sovrastando gli applausi «Sono certo che un ragazza bella e intelligente come te avrà un sacco di amici a casa. Dico bene?» Caesar tornò a rivolgerle un sorriso furbesco e Clove capì che, finalmente, il capitolo rivolto alla sua famiglia era stato chiuso. Era stato veloce ed indolore, Clove non l'avrebbe mai pensato. Lei seguì il conduttore e abbandonò l’aria da ragazza persa nei ricordi per ritrovare il suo sorrisetto sghembo. «Ti sorprenderà saperlo Caesar, ma non è così.»
L’uomo inarcò le sopracciglia blu e rivolse uno sguardo stupito verso il pubblico. «Non ci credo! Sta scherzando, che dite?» Il pubblico ridacchiò.
«No, affatto.» Intervenne Clove.
«No? Nessuno di... speciale?» Le chiese lui, ammiccando.
«No.» Rispose secca Clove. Non voleva che tutte quelle persone ficcanasassero nella sua vita privata. Ma poi le venne un’idea... «Ma c’è un ragazzo del mio Distretto al quale vorrei portare un regalo, quando tornerò a casa.» La ragazza rivolse un sorriso divertito al pubblico, che si fece molto più interessato.
«Ah! Allora c’è qualcuno di speciale! Di chi si tratta? E soprattutto di che regalo si tratta?» Fece lui con voce maliziosa.
«Speciale non direi.» Asserì Clove, con convinzione. «Ma quando tornerò a casa si troverà le mie cinque dita stampate in faccia. Per sempre.» Il suo sorriso divenne più ampio  mentre si abbandonava al sadico pensiero di ammazzare Damien con le sue stesse mani, un giorno. Per fortuna decise di censurare i suoi pensieri e limitarsi a parlare di uno schiaffo. Caesar scoppiò a ridere. Il pubblico lo seguì a ruota.
Bel colpo, Clove. Si disse la ragazza. Alla fine non era poi così male come aveva pensato. Quelle persone erano solo un branco di pecore smarrite che facevano tutto quelle che veniva detto loro di fare. Incluso ridere e commuoversi e provare sentimenti alcuni. Quando Caesar finì di ridere tornò ad osservarla. Ovviamente, voleva saperne di più.
«E dicci Clove, cosa ti ha fatto questo ragazzo per meritarsi le tue cinque dita sulla faccia? Si può dire?» Chiese lui, molto interessato.
«Mi spiace Caesar, ma è meglio di no. E comunque...» Disse Clove puntando gli occhi in una telecamera e sorridendo come se si stesse rivolgendo ad un suo caro amico. «Il ragazzo in questione sa perfettamente cos’ha fatto. E sono certa che non vede l’ora di rivedermi per pareggiare i conti.»
Il pubblico rise ancora. Perfetto, se la stava cavando bene. E il fatto di parlare male di Damien e umiliarlo anche da chilometri di distanza la rendeva euforica.
«Bene, bene! Quindi nient’altro? Solo lui? Nessun ragazzo speciale ad attenderti al tuo ritorno?»
Clove si rabbuiò per un istante. «No, nessuno.»
«Ma potrebbe.» Insisté Caesar.
«Non credo proprio.» Clove si rese conto tutto d’un tratto di essere diventata troppo dura, per qualche strana ragione non voleva toccare l’argomento. Così decise di correre ai ripari. Rilassò l’espressione minacciosa in un sorriso divertito. «E poi, non ho proprio avuto tempo per pensarci. Avevo altri problemi per la testa. Tipo prepararmi per gli Hunger Games, sai com’è... un sacco di roba da fare.»
Caesar perse il sorriso malizioso e la guardò con gran calore. «Ma certo, ma certo. Hai ragione. A proposito, complimenti per il tuo dieci. Ho sentito che sei bravissima a lanciare i coltelli. Userai questa tua abilità nell’arena?»
«Sì, certo. Sono la migliore in materia. Se avrò anche un solo coltello sarà impossibile fermarmi. Io non sbaglio mai.» E come era successo prima con Marvel, ogni studiata compostezza, ogni finta simpatia o forzato sorriso si dissolsero lasciando spazio solo alla sicurezza, le determinazione e, ad essere sinceri, all’arroganza. Ma era la pura verità e Clove non l’avrebbe nascosta. Era letale con un coltello in mano.
«Non ne dubito! Ma ora purtroppo il nostro tempo è finito.» Caesar si alzò in piedi, continuando a stringerle la mano. «Ti auguro tanta fortuna, Clove. E anche di trovare un coltello nell’arena per farci vedere quanto sei brava. Perché ovviamente qui non puoi farci alcuna dimostrazione.» Il pubblico ridacchiò e anche Clove si concesse un sorriso. L’ultimo della serata, probabilmente. «Sei una ragazza oltremodo talentuosa e sebbene giovane sono certo che darai del filo da torcere a tutti i tuoi compagni nell’arena! Per questo di dico: metticela tutta. Ti auguro di vincere, per tua madre, tuo padre e ovviamente il ragazzo a cui devi uno schiaffo!» Non appena Caesar concluse il suo augurio un segnale acustico decretò la fine della sua intervista. Clove fece un leggero inchino verso il pubblico e, con ancora il suo sorriso sulle labbra, si voltò con grazia dirigendosi alla sua vecchia poltrona. Si sentiva leggera, come se si fosse tolta un gran peso. Mentre si sedeva il suo sguardo incrociò quello di Cato. Lui era proteso in avanti, pronto ad alzarsi e le sorrideva. Probabilmente, pensò Clove sedendosi, non era un vero sorriso. Era solo la sua recita per le telecamere. Ad ogni modo nessun pensiero poté incupirla in quel momento. Si sentiva troppo soddisfatta di sé. Ce l’aveva fatta. Aveva superato anche quello che credeva sarebbe stato il suo ostacolo peggiore. Era forte, addestrata, letale. Il pubblico l’aveva apprezzata e probabilmente era riuscita a racimolare qualche sponsor. Ora, cosa le avrebbe impedito di vincere anche i Giochi? Ma la risposta a quella domanda ce l’aveva davanti agli occhi e si dirigeva con passo disinvolto verso Caesar, prendendo il posto che aveva occupato lei fino a pochi istanti prima.


Per tutta la durata dell’intervista Cato mantenne saldo sulle labbra un sorrisetto beffardo e di ostentata superiorità. Rispondeva a tutte le domande con sicurezza, parlando con decisione e senza divagare troppo. Stava seduto sulla poltrona con naturalezza, come se fosse stato seduto sul divano di casa sua e non davanti ad un pubblico avido di conoscere tutti i suoi segreti. La sua sicurezza era indice di quanto si sentisse preparato per i Giochi. Per lui non apparivano nemmeno un problema. Come se la sua vittoria fosse un dato di fatto.
«Dunque Cato, qui abbiamo tutti capito quanto tu sia forte e preparato. La vedo dura per i tuoi avversari nell’arena.» Cato sghignazzò, come se avesse detto una cosa totalmente ovvia. «Ma ora cambiamo argomento. Parliamo di casa tua. Che mi dici della tua famiglia?»
Il suo sorriso vacillò, ma solo per un istante. «Saranno fieri di me, quando tornerò a casa e porterò onore al mio Distretto.» Il pubblico parve soddisfatto da quella risposta. Per quanto Caesar ci provasse, pareva difficile far cambiare argomento a Cato. Qualsiasi cosa dicesse, lui cercava di riportare l’argomento sugli Hunger Games.
«Ovviamente. Saranno molto fieri di te. E dimmi, ormai lo chiedo a tutti, famiglia a parte, hai qualche persona speciale ad attenderti al Distretto 2?» Cato lo guardò inarcando un sopracciglio, come a chiedergli se facesse sul serio. «No, nessuna persona speciale.»
«Non c’è mai stata? Non hai mai fatto qualcosa di particolare per una ragazza? Una sorpresa, un regalo? Che non siano cinque dita stampate in faccia, ovviamente.» Il pubblico rise di gusto. Clove si sorprese di sentire Caesar tirare in ballo ancora la sua storiella. Cato alzò gli occhi al cielo e ci pensò su un attimo.
«Una volta ho regalato un coltello ad un ragazza. Può contare?»
Caesar lo guardò divertito, poi si mise a ridere, seguito a ruota ovviamente dal gregge di Capitol. «Molto romantico devo dire! Bé, è esattamente quello che mi sarei aspettato da te, se devo essere sincero!» Cato ridacchiò e parve sincero per la prima volta in tutta la serata.
Il cuore di Clove invece perse un battito, perché quella ragazza era indiscutibilmente lei.
«Ero solo un ragazzino. Ma devo ammetterlo, lo rifarei. È il massimo che un ragazza potrebbe ottenere da me.» Il suo sorriso di scherno gli tornò sulle labbra.
«Meraviglioso! Meraviglioso!» Caesar applaudì e il pubblico proruppe in un fragoroso boato. «Ma purtroppo è arrivato il momento di salutarsi. Allora Cato, sei pronto?»
«Sono pronto. Sono allenato. Nessuno potrà fermarmi.»
«Certamente. Se mi consenti di dirlo, gli strateghi ti hanno definito una macchina per uccidere.» Il pubblico si aprì in un’espressione di sorpresa al suono dissonante di quelle parole e all'improvviso cambiamento di tema. «E sono certo che sarai un nemico formidabile per tutti, là dentro.»
«Non ci sono dubbi. Voglio vincere.»
Caesar si alzò in piedi e gli tirò una pacca sulla schiena. Poi gli sollevò in alto la mano mentre il pubblico applaudiva con trasporto.
«E sei sulla buona strada! Come si dice qui a Capitol, possa la fortuna essere sempre a tuo favore.»
Cato non disse più nulla e il suo sguardo si fece duro e determinato, letale mentre il segnale acustico segnava anche la fine della sua intervista. Mentre si dirigeva a testa china verso il suo posto Clove lo osservò attentamente. Non poteva crederci che lui avesse parlato di quell’episodio nella sua intervista. Allora si ricordava ancora, del passato.
Clove pensò a questo mentre cercava di ascoltare le altre venti interviste. Ma oramai il suo interesse si era spostato altrove. Sul ragazzo che sorrideva al suo fianco, per esempio.

~
FINE TERZA PARTE
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SPAZIO AUTORE

Saaalve a tutti! Dopo settimane e settimane di silenzio stampa, eccomi tornata! Mi spiace tantissimo di aggiornare così poco ç__ç spero solo che non tutti voi vi siate stancati di questa storia e che ci sia ancora qualcuno disposto a seguirmi fino alla fine <3 e scusate ancora per le lunghe assenze :'(
Ma ora veniamo alla storia! Spero vi sia piaciuto il capitolo! È un po' lungo, ma non volevo troncarlo a metà! Ho sempre desiderato sapere cosa avessero fatto e detto i nostri beniamini nelle interviste e probabilmente ciò che ho scritto non rende giustizia ai personaggi, ma spero di non aver fatto un totale disastro xD Fatemi sapere ;)
Riguardo al prossimo capitolo, vi dico solo una cosa: sarà ambientato nell'arena. Ebbene sì, è giunto il momento!
Ora non mi dilungo oltre! Al prossimo capitolo miei cari lettori (sempre che ce ne siano ancora xD) e scusate davvero per le lunghe attese!
Love always,

~ C

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Capitolo 14
*** 14. Animal I have Become ***



Till your last breath


PARTE QUARTA
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CAPITOLO 14
 ANIMAL I HAVE BECOME




Il tempo sembrò rallentare fin quasi a fermarsi quando finalmente i suoi occhi videro di nuovo la luce. Il cerchio metallico raggiunse finalmente la superficie e l’arena si distese per la prima volta sotto i suoi occhi.
Ma non appena il cilindro di vetro che la teneva intrappolata nel cerchio scomparve, Clove realizzò che non c'era tempo per guardarsi attorno. Non c'era tempo per ammirare l'arena.
Tutto quello che Clove vedeva in quel momento era la cornucopia, che se ne stava al centro della radura, circondata dai ventiquattro tributi, immobile e luccicante sotto la luce del sole con le armi che vi brillano all’interno. Le sue armi, quelle che tra poco avrebbe stretto tra le mani e usato per uccidere gli altri.
Ma benché il tempo pareva essersi fermato, Clove sapeva esattamente che non era così.
Sessanta secondi. Solo sessanta prima del gong e poi i Giochi avrebbero davvero avuto inizio. Non sembrava vero, era tutto così surreale: i tributi, tutti e ventiquattro in cerchio attorno alla cornucopia e ai suoi preziosi doni, tutti sistemati sulle loro pedane metalliche. Il bosco fitto alle loro spalle. Il lago a pochi metri di distanza. E la tensione, che incombeva su di loro come una grande nuvola scura che minaccia pioggia.
Clove strinse le mani a pugno, poi le rilasciò, scrollandole impercettibilmente. Si mise in posizione, pronta per scattare il più velocemente possibile al suono del gong, per lanciarsi in una corsa folle con l’unico obiettivo di trovare le sue armi. I suoi coltelli. Una volta trovati quelli, non avrebbe più avuto nulla da temere.
Mentre il tempo scorreva lento e i suoi respiri si facevano più lunghi e carichi di tensione, Clove lanciò un rapido sguardo ai tributi che la circondavano. Al suo fianco non c’era nessuno dei suoi alleati. Marvel e Glimmer dovevano trovarsi dall’altra parte della cornucopia, invisibili ai suoi occhi. Cato invece era a qualche tributo di distanza. I loro sguardi si incrociarono per un istante, come era successo così tante volte durante la loro permanenza a Capitol City. Ma questa volta i suoi occhi color del ghiaccio erano più concentrati che mai e in essi, come in quelli di Clove, vi si poteva leggere un solo messaggio: uccidere.
Perché le persone che avevano attorno non erano più gli altri tributi. Erano i nemici.
I Giochi alla fine erano arrivati e con essi, il momento della verità.
Clove tornò a guardare la cornucopia. I secondi erano quasi terminati.
Dieci. Nove. Otto. Sette.
L’aria usciva lentamente dai suoi polmoni, quasi con fatica, come se fosse fatta di fuoco.
Sei. Cinque. Quattro.
I muscoli si tendevano sempre di più, pronti a scattare come quelli di un predatore.
Tre.
Due.
Uno.
Gong.
I settantaquattresimi Hunger Games erano ufficialmente iniziati.
Clove non esitò nemmeno un secondo. Non appena il gong risuonò in tutta la radura la ragazza si precipitò giù dalla sua pedana, sicura che ormai nessuna mina le sarebbe esplosa sotto i piedi. Senza curarsi degli altri tributi che le sfrecciavano attorno in tutte le direzioni corse dritta nel cuore della cornucopia, veloce come mai in tutta la sua vita.
La stanchezza sembrava un fenomeno che non poteva toccarla, non in quel momento. L’adrenalina era troppo forte.
Si fermò in scivolata, strappando grandi zolle di erba e terra nella sua frenata, quando vide quello che cercava. I suoi coltelli. Senza esitazione li afferrò, sentendo un’immensa gioia esploderle dentro. Certo, il suo vero coltello non era lì con lei nell’arena. L’aveva affidato ad Enobaria perché non poteva sopportare l’idea che, una volta partita per l’arena, quello venisse perduto per sempre. Ci era troppo affezionata.
Clove si voltò di scatto, stringendo uno coltello in ogni mano.
Ed iniziò il suo personale bagno di sangue.


Non era come stare in accademia. I bersagli non erano fermi e le parti da colpire non si illuminavano di rosso. Ma per Clove era come se lo facessero. Perché ora i tributi non erano altro che bersagli per lei. Bersagli da colpire e da abbattere.
Scagliò il suo primo coltello, che si conficcò con precisione letale nel petto di una ragazza. Sulla sua giacca scura si aprì una macchia rossa mentre lei cadeva a terra e restava immobile. Clove non perse tempo, non ce n’era neanche abbastanza per analizzare le sue vittime. Che fossero ragazze o ragazzi, che avessero i capelli neri oppure biondi, da che Distretto arrivassero. Niente di tutto ciò aveva più la minima importanza.
Doveva solo limitarsi a risparmiare i suoi alleati e uccidere tutti gli altri. Bersagli. Sono tutti bersagli Clove. Si ripeteva mentre un altro coltello si piantava nel collo di un tributo che correva verso i boschi. In quel momento si guardò per un istante attorno, individuando Marvel, che colpiva senza pietà con un lungo coltello dalla lama ricurva e seghettata, ormai ricoperta di sangue rosso e brillante, piantandola più e più volte nella schiena di un tributo ormai morto. Glimmer correva issandosi sulla schiena una faretra argentata, incoccando nello stesso tempo una freccia. Cato aveva trovato una spada, affilata e letale, e la usava come se fosse un prolungamento naturale del suo braccio.
I tributi intanto cominciavano a scomparire: quelli che si erano gettati subito nella foresta erano già lontani, sfuggiti al bagno di sangue e ai coltelli di Clove. Ma non avevano viveri e presto ne avrebbero subito le conseguenza. Un numero imprecisato giaceva già a terra. Quelli che si erano arrischiati a recuperare qualcosa dalla cornucopia stavano lottando. Clove ne vide due poco più distanti che si stavano contendendo uno zainetto. Il suo cuore ebbe un fremito quando riconobbe la ragazza del 12. Dopo le interviste l’aveva odiata più che mai. Se prima era solo antipatia, ora era puro odio. La fortuna le aveva già regalato troppi bonus e dopo quel patetico e sdolcinato show suo e del Ragazzo Innamorato l’aveva odiata ancora di più. Sperava di incontrarla, al bagno di sangue, tanto per testare se quel suo undici nelle sessioni private se lo meritasse o meno. Prese la mira e scagliò un coltello, che colpì in pieno il ragazzo con cui lei stava lottando. Quello mollò la presa sullo zainetto e cadde a terra, tossendo sangue. Clove vide il volto sorpreso della ragazza mentre il suo rivale cadeva a terra morto. E poi vide lei. E capì.
Iniziò a correre veloce verso la foresta ma Clove non voleva lasciarsela sfuggire. Scagliò il suo coltello con precisione, mirando alla nuca scoperta, ma all’ultimo istante la ragazza alzò lo zainetto e la sua lama vi si conficcò dentro, senza colpire altro che stoffa. Clove imprecò, indecisa se lanciarsi all’inseguimento oppure no. La ragazza era già vicina agli alberi e se lei l’avesse seguita avrebbe solo perso tempo. Non poteva allontanarsi dalla cornucopia. Con rabbia si voltò dall’altra parte, dando le spalle alla ragazza in fiamme. Ma non era finita. L’avrebbe ritrovata e l’avrebbe uccisa.
Digrignando i denti tornò al centro dell’azione e scagliò i suoi coltelli con ira crescente. Odiava il fatto che la sua preda le fosse sfuggita, soprattutto che quella sua preda le fosse sfuggita. Presa dalla rabbia Clove non si accorse che un tributo le finì quasi addosso, brandendo un coltello. La ragazza indietreggiò di qualche passo, presa alla sprovvista dall’urto. Il ragazzo, deciso a cogliere l’occasione di eliminare un Tributo Favorito, le si fiondò addosso agitando con mano inesperta la sua arma. Ma non sapeva che Clove era portata anche per i combattimenti corpo a corpo. Con un sorriso meschino aspettò fino all’ultimo secondo poi si abbassò sulle ginocchia, allungando una gamba. Il tributo vi inciampò e cadde rovinosamente a terra, sbattendo il mento sulla terra brulla. Si rialzò il più in fretta possibile. Ma non servì a nulla. «Troppo tardi.» Gli sussurrò Clove all’orecchio, mentre lo trafiggeva con il suo coltello.
Lui cadde a terra, morto.
Quando estrasse la sua arma e si rimise in piedi Clove vide Cato, che si era avvicinato brandendo la spada. Per un istante Clove credette che fosse lì per aiutarla. D’altronde è questo che fanno i Favoriti, si guardano le spalle a vicenda.
I loro sguardi restarono incatenati per pochi istanti. Il respiro di Clove si fece pesante mentre guardava le mani di Cato ricoperte di sangue. Anche le sue ora, dopo il combattimento con il tributo che ora giaceva morto ai suoi piedi, erano schizzate della stessa sostanza rossa e viscida. Aveva appena ucciso quattro tributi, se non di più. Le sue mani erano sporche di sangue e probabilmente esso era schizzato anche da altre parti. Sulla giacca forse, oppure sul suo viso o tra i capelli. Ma vedere Cato vivo e pieno di forze la fece sentire bene. Non erano passati più di dieci minuti e i Giochi li avevano già resi predatori senza scrupoli.
Che razza di bestie erano diventati?
Poi il loro scambio di sguardi si interruppe, la magia si spezzò e i due tornarono ognuno sulla propria strada, in due direzioni opposte. Ma non c’era più molto da fare, realizzò Clove, pulendo il sangue dal suo pugnale. Il campo di battaglia ormai si era quasi svuotato. Il sangue versato a terra la rendeva scivolosa e i tributi morti erano macabre chiazze di colore sparse qua e là nell’erba verde e brillante che circondava la cornucopia. Sembrava tutto un paradosso: il sole che brillava, riscaldandola. Il bel tempo, il prato verde, i fiori colorati sparsi nell’erba. Sembrava tutto così pacifico.
Invece era solo un inferno di morte, sangue e grida agghiaccianti.
Ad ogni modo anche gli urli di dolore e di battaglia andavano sempre più scemando.
Clove si fermò, immobile in quel bagno di sangue. Per un istante non sentì altro che il suono del suo respiro. Tutto taceva, ora, tutto era immobile. Non c’era più anima viva nella radura, a parte lei e i suoi tre alleati.
Il bagno di sangue si era concluso.
In quel momento si levarono i colpi di cannone.


Undici colpi in tutto. Clove rimase immobile fino a quando l’ultimo risuonò tetro nel silenzio ritrovato della radura. Quella sera stessa l’inno di Capitol avrebbe spezzato di nuovo il silenzio, risuonando cupamente nell’arena; lo stemma sarebbe apparso in cielo e le foto degli undici tributi morti sarebbero comparse su un grande schermo. Nei Distretti le famiglie delle vittime stavano probabilmente rivedendo le scene di morte dei loro figli, fratelli o amici.
Ma Clove era lì in piedi. Ed era viva.
Le urla e i suoni delle lame ora tacevano. La ragazza si sentiva svuotata.
E così, i Giochi avevano avuto veramente inizio. Non sapeva definire come si sentisse. Lasciò vagare lo sguardo tra i corpi morti che tappezzavano la radura. Almeno quattro di quelli avevano addosso uno dei suoi coltelli. Aveva ucciso altri esseri umani per la prima volta nella sua vita, ma non riusciva a capire come si sentisse a proposito. Si sentiva fredda, vuota. E spietata. L’adrenalina e la furia che l’avevano pervasa fino a pochi minuti prima iniziarono ad abbandonarla, lasciandola lì, pronta a scattare se avesse avvistato un qualche pericolo, ma comunque con la mente fredda e distante. Come un animale.
In quel momento sentì dei passi alle sue spalle, ma non se ne curò molto. Sapeva che erano i suoi alleati che si radunavano per studiare la situazione.
«Wow! Undici! Bel colpo ragazzi!» Esclamò Marvel superandola e scrutando la radura e studiando, forse per la prima volta, l’arena che li circondava. Glimmer vagava tra i corpi, riponendo una freccia inutilizzata e raccogliendone alcune. Le lanciò uno sguardo. «Forse ti conviene fare lo stesso con i tuoi coltelli.» Disse agitando una freccia argentata. «Certo, ce ne saranno a centinaia nella cornucopia, ma dobbiamo fare scorta per un po’. Dobbiamo allontanarci da qui così che possano recuperare i cadaveri.» Disse lanciando uno sguardo ai corpi che li circondavano. «Iniziano già a puzzare di morte e l’odore di sangue mi sta facendo venire il mal di testa.» Con una smorfia disgustata tornò a raccattare le sue frecce.
«Sì, Glimmer ha ragione.» Cato arrivò al suo fianco, scrutando anch’esso l’orizzonte. Nessuno di loro sembrava particolarmente turbato dalla presenza di tutti quei cadaveri di tributi, parecchi dei quali avevano ucciso loro stessi. A parte Glimmer, che si aggirava palesemente schifata attorno ad essi. Così Clove decise di comportarsi come loro e di non pensarci più. Dopotutto erano solo bersagli. Solo bersagli.
«Dobbiamo radunare le scorte e lasciare la cornucopia.» Continuò Cato. «Prendiamo acqua e cibo. Armi e tutto ciò che può tornarci utile. Dobbiamo lasciare questo posto. La caccia non è ancora finita.»
Clove seguì malvolentieri il consiglio di Glimmer e iniziò ad aggirarsi tra i cadaveri, recuperando i suoi coltelli. Ecco il primo, piantato nella schiena della sua prima vittima. E andò avanti così, fino a quando non ne recuperò cinque. Ovviamente uno l’aveva perso; era rimasto conficcato nello zaino della ragazza del 12.
E così mentre recuperava le sue armi i volti e le identità dei tributi che aveva ucciso le piombarono addosso, trasformandoli da bersagli a ragazzi. Chiudendo gli occhi, Clove scacciò quell’idea. Non ci doveva pensare. Questi erano i Giochi. Se lei non li avesse uccisi, loro avrebbero ucciso lei. Non c’era altro modo se non quello. Era la legge degli Hunger Games: uccidere o essere uccisi. E lei preferiva uccidere.
Mentre sistemava i suoi coltelli e li ripuliva dal sangue ormai secco, gli altri radunarono tutte le provviste e le armi restanti nella cornucopia, creando la loro personale scorta per sopravvivere nell’arena. Poi, una volta ben carichi di provviste e armi, lanciarono un ultimo sguardo alla cornucopia e ai caduti.
«Propongo di andare nella foresta.» Fece Marvel, indicando i pini di un verde scuro che si ergevano di fronte a loro.
«Sì. Sicuramente la maggior parte dei tributi sono scappati lì dentro.» La determinazione di Cato era tutto ciò che si poteva scorgere in lui, in quel momento. Non si erano più rivolti né una parola né uno sguardo. Erano più distanti che mai, o almeno a Clove parve così. Forse era meglio, avrebbero resto le cose più semplici quando sarebbe arrivato il momento. Tuttavia il dispiacere provato a causa di quel distacco era l’unico sentimento che Clove riusciva a provare in quel momento. E per questo si odiava.
«E noi li troveremo e li uccideremo.» Glimmer si mise al fianco di Cato, con un sorriso sghembo sulle labbra rosse.
«E quando avranno ripulito il posto torneremo qui e ammazzeremo chiunque oserà avvicinarsi al lago.» Fece Marvel, iniziando ad incamminarsi. Era un buon piano, non c’era dubbio. Per di più la foresta poteva essere un ottimo rifugio, ma solo per chi era in grado di sfruttarne le sue potenzialità. Clove era certa che la maggior parte dei tributi che vi erano fuggiti non ne era in grado. Avrebbero acceso fuochi, o vagato in cerca di acqua del tutto scoperti. Sarebbe stato facile prenderli, facile come uccidere un coniglio selvatico.
Mentre si inoltravano nella foresta il sole iniziava a calare e presto sarebbe scesa la notte. La prima notte nell’arena. L’ora migliore per dei cacciatori come loro.



SPAZIO AUTORE

Saaalve a tutti! Finalmente ho aggiornato! Non ci credo xD Mi dispiace tantissimo aggiornare dopo secoli, la scuola mi sta letteralmente sommergendo... insomma, quest'anno ho quell'inutile esame chiamato maturità -__-
Ma ad ogni modo, passiamo alla storia. Finalmente i nostri Favoriti sono nell'arena. Devo essere sincera, ho amato scrivere questi capitoli ed analizzare la psicologia di Clove. Spero con tutto il cuore che piacciano anche a voi, davvero!
E spero anche di riuscire ad aggiornare presto, perché il prossimo capitolo è praticamente collegato a questo (erano un solo capitolo ma l'ho tagliato, sennò era troppo lungo xD)
Comunque, se c'è ancora qualcuno che legge la storia, fatemi sapere cosa ne pensate, il vostro parere conta sempre <3
Love always,

~ C

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Capitolo 15
*** 15. Un Nuovo Alleato ***



Till your last breath

~


CAPITOLO 15
UN NUOVO ALLEATO



Continuarono a camminare senza parlare per parecchi minuti, o almeno così parve a Clove. I loro passi risuonavano attutiti dal manto erboso ma anche se avessero fatto rumore non sarebbe cambiato gran che. Con tutte le armi che avevano e con la loro abilità nessuno sarebbe riuscito a coglierli di sorpresa. Ad ogni modo per tutto quel tempo non incontrarono nessun altro tributo. Solo qualche animale selvatico che spuntava fuori per pochi secondi per poi scomparire di nuovo.
Ad un certo punto, Marvel sbuffò. «Che noia ragazzi, qui non c’è nessuno. Faremmo meglio a tornare indietro.» Glimmer annuì e aprì le labbra per esprimere il suo assenso, ma Cato non le diede il tempo.
«No, non ancora. Sono certo che se avremo pazienza li troveremo. Aspettiamo che scenda la notte, in quel momento saranno più vulnerabili. Saranno stanchi, soli, infreddoliti e senza cibo o acqua.»
Clove sorrise. Cato era un vero stratega. Era spietato e non aveva rimorso. Era forte e letale. Aveva la stoffa del leader. Aveva la vittoria in pugno, non c’erano dubbi.
Marvel e Glimmer parvero rianimarsi all’idea di poter colpire altri tributi nel sonno, così si fecero forza e continuarono a proseguire.
«Comunque... il cannone ha sparato per undici volte. Quanti ne avete ammazzati voi?» Chiese Marvel con noncuranza, tenendo il conto sulle dita delle mani.
«Quattro.» Rispose prontamente Cato. «E qualcuno l’ho ferito mortalmente. Scommetto che si nascondo qui attorno, aspettando la morte.» Il ragazzo ridacchiò sadicamente.
«Quattro anche io.» Aggiunse Clove con orgoglio, perché era lo stesso numero di Cato. Nel caso lui avesse iniziato a dubitarne, dimenticando la sua destrezza all’Accademia, e il che era molto probabile visto che la trattava come una perfetta sconosciuta da dopo le interviste, ora aveva la conferma che lei sarebbe stata una degna avversaria. Una da temere. Cato le lanciò un lungo sguardo, senza perdere il suo sorrisetto.
«Io credo di averne fatti fuori due.» Marvel aveva un’aria pensierosa. «Sapete com’è, nella foga del momento qualche colpo è andato a vuoto. Vero Glimmer? Solo uno per te?» Disse prendendola in giro.
Glimmer assunse immediatamente un cipiglio imbronciato. «Non è mica una gara.» Marvel l’aveva detto scherzando, ma sotto un altro punto di vista, poteva benissimo esserlo. Poteva essere una gara e se così fosse stato, lei sarebbe arrivata ultima. E questo voleva dire che era la più debole. La più vulnerabile. La situazione si fece tesa per un’istante, così Clove decise di intervenire.
«Ma per poco non ho ucciso quella del 12.» Tutti la guardarono, sgranando gli occhi. Quella sua affermazione venne accolta con stupore da tutti e tre.
«Accidenti! Com’ha fatto a sfuggirti?»
«Pensavo non mancassi mai il colpo! È davvero così brava?»
Clove guardò Marvel e Glimmer che parlavano in continuazione, uno sopra all’altra, dicendo frasi sconnesse. La ragazza li fermò con un gesto scocciato della mano.
«È stata solo fortuna. L’avrei colpita se non si fosse difesa con il suo stupido zaino. Quando ho realizzato di averla mancata, era troppo lontana. Non potevo allontanarmi dalla cornucopia.»
«Quindi non ha lottato.» Disse Cato, pensieroso.
«No.»
Glimmer sbuffò, schifata. «Fortuna, dannata fortuna! Non vedo l’ora di averla tra le mie mani! Allora vedremo chi sarà fortunata!»
E così andarono avanti a parlare dei tributi del 12. Purtroppo nessuno di loro ricordava di aver colpito il ragazzo quindi molto probabilmente era sopravvissuto anche lui.
Fu in quel momento che Clove sentì un rumore, come qualcosa di pesante che spezza un ramoscello. Si fermò di colpo e Marvel le andò a sbattere addosso.
«Zitti!» Esclamò, cercando di sentire.
E poi lo udì di nuovo, molto più nitidamente di prima. Dei passi pesanti. Alle loro spalle.
Clove si voltò di scatto, e con incredibile destrezza scagliò uno dei suoi coltelli mentre se ne preparava già un altro in mano, pronta a lanciare anche quello se fosse stato necessario. Un gemito proveniente da lì vicino le disse che il suo colpo era andato a segno.
In quel breve lasso di tempo, anche i suoi compagni si voltarono. E tutti e quattro videro il coltello di Clove, ancora vibrante per il lancio, conficcato in un albero alle spalle di un ragazzo che, gemendo, si stringeva una mano attorno al braccio destro dal quale iniziava a colare del sangue. Ci impiegarono qualche secondo a riconoscerlo: aveva il volto livido e una gamba malferma, ma non c’erano dubbi, era lui. Clove era certa che sul viso dei suoi compagni si era dispiegato lo stesso sorriso cattivo che era affiorato sulle sue labbra.
Perché quello era il Ragazzo Innamorato del 12.


«Fermi! Fermi!» Esclamò il biondino cercando di non cadere a terra.
Cato aveva già sguainato la sua spada, avanzando di un passo. Marvel aveva un lungo pugnale  dalla lama ricurva tra le mani e Glimmer stava estraendo una freccia argentata dalla faretra.
«Aspettate!» Esclamò ancora lui, con voce disperata. Nella mano che usava per fermare il flusso di sangue stringeva un coltello, ma, lo sapeva di certo anche lui, sarebbe stato inutile contro loro quattro. Clove lo guardò con gusto, esaminando la sua situazione penosa. Cosa credeva di fare, balzando fuori alle loro spalle ridotto in quel modo? Un eroico gesto d’amore, cercando di spianare la strada della vittoria alla sua ragazza? Patetico, davvero patetico. Ignorando i suoi urli, i quattro avanzarono ancora attorno a lui, accerchiandolo e intrappolandolo. Ma stranamente il ragazzo non sembrava voler fuggire.
«Aspettate... sono qui...» Disse prendendo fiato. «Sono qui perché voglio allearmi con voi.» Disse con voce ferma e sguardo duro. Cercò di recuperare un briciolo di dignità e in qualche modo ci riuscì. I quattro restarono in silenzio per qualche secondo, con le sopracciglia inarcate. Poi scoppiarono a ridere fragorosamente, come se lui avesse appena raccontato una barzelletta particolarmente divertente.
«Sì certo, come no!» Esclamò Marvel, asciugandosi una finta lacrima dall’angolo di un occhio, cercando di smettere di ridere. «Allora, qual’è il tuo grande piano, Ragazzo Innamorato? La tua ragazza si nasconde qui nei paraggi e ci attacca alle spalle mentre tu ci fai ridere?» Gli altri scoppiarono di nuovo in fragorose risate, ma l’espressione del ragazzo rimase seria. «No, non ho nessun piano. E mi chiamo Peeta. Non so dove sia Katniss, e non mi importa. Sono qui per allearmi con voi.»
«E allora spiegaci perché mai dovremmo volerci alleare con te.» Disse Glimmer, scrutandolo da capo a piedi. Era abbastanza mal ridotto e la ferita che Clove gli aveva aperto gli stava facendo perdere molto sangue.
«Perché sono forte e posso esservi utile.» Marvel e Glimmer gli risero in faccia, di nuovo. Clove continuò a studiarlo con attenzione, poi si rese conto che Cato non rideva più. Ma aveva un sorrisetto divertito sulle labbra. Mentre lei lo guardava, lui fece un passo avanti, superando gli altri e restando ad un paio di passi dal ragazzo, che alzò lo sguardo su di lui, senza esitare o ritrarsi. Coraggioso, pensò Clove, e stupido.
«Dunque vuoi allearti con noi, eh?»
«Sì.»
«E se noi ti accettassimo, tu saresti dalla nostra parte. Ci aiuteresti a trovare la tua ragazza e ad ucciderla?» Chiese lui, con voce bassa e suadente. Marvel e Glimmer protestarono ma lui li zittì con un gesto. Clove invece, che pensava di conoscerlo abbastanza bene, intravide il piano che gli si stava disegnando nella mente.
Il Ragazzo Innamorato non batté ciglio. «Non è la mia ragazza. Quella era tutta una recita voluta dal nostro mentore. E sì, vi aiuterò a trovarla se mi prenderete con voi. So come fare.»
Cato lo fissò per qualche istante, scrutandolo con attenzione. Lui non abbassò lo sguardo e i loro occhi rimasero incatenati, lanciando scintille. Alla fine Cato fece un passo indietro e allargò le braccia. «Bene. Benvenuto a bordo allora. Ma sappi una cosa: un solo passo falso e sei morto.»
«Cosa?! Cato sei fuori di testa?» Esclamò Marvel indignato.
«È ovvio che mente! È un bugiardo!» Si unì Glimmer. Clove invece passò lo sguardo dai tre che bisticciavano al ragazzo che faticosamente si rimetteva in piedi, con un sorriso vittorioso sulle labbra livide.
«Zitti. Non lo avete sentito? Ci aiuterà. Medicategli la ferita, altrimenti morirà dissanguato.»
Marvel e Glimmer continuarono ad opporsi. Non volevano capire che Cato non poteva parlare apertamente, non con il ragazzo così vicino? Era ovvio che il suo era tutto un bluff. Poteva mostrarsi sicuro quanto voleva, ma non riusciva ad ingannare Clove. E nemmeno Cato. E di certo anche lui sapeva che loro non gli credevano, se era almeno un po’ sveglio. Ad ogni modo la sua presenza avrebbe potuto rivelarsi davvero utile per trovare la sua compagna. Quanto rendeva stupidi l’amore. Grazie alla mossa azzardata del Ragazzo Innamorato ne avrebbero presi due in un colpo solo.
«Io non lo medico! Non lo voglio nemmeno con noi!» Urlò Glimmer. «Dovresti farlo tu visto che lo hai ferito!» Clove lanciò uno sguardo carico d’ira a Glimmer, perché era così ingenua da non capire il piano di Cato ed era così sciocca da schiamazzare in quel modo in mezzo al bosco. Se ci fosse stato qualche tributo nei paraggi, di sicuro era già fuggito lontano.
Senza fiatare, Clove recuperò un rotolo di garze dal suo zaino poi andò alle spalle del ragazzo, che si era inginocchiato a terra, e recuperò il suo coltello. Lo ripulì e con un colpo secco tagliò un pezzo sufficientemente lungo di garza. Si sentiva quattro paia di occhi puntati contro, ma li ignorò tutti quanti. Era stufa di quella giornata, si sentiva i nervi a fior di pelle, il ricordo del bagno di sangue sembrava essere stampato sotto le sue palpebre e il fatto di non provare rimorso per le sue quattro vittime la inquietava ancora. In più ci si metteva Glimmer, con le sue scenate di permalosità e Cato, che si comportava come un generale in guerra, come se niente fosse, come se nemmeno la conoscesse. Con rabbia si inginocchiò di fianco al ragazzo e senza delicatezza gli afferrò il braccio che lui aveva allungato. Arrotolò la garza bianca attorno alla ferita che lei gli aveva procurato e subito quella si tinse di rosso. Sentiva lo sguardo del Ragazzo Innamorato sul suo viso e si chiese quale strano piano stesse macchinando. Doveva essere pieno di risorse, per osare tanto. Schierarsi dalla parte dei nemici era un passo che non molti avevano il coraggio di compiere. O erano dei maledetti codardi o erano degli stupidi oltremodo coraggiosi. Lui doveva appartenere alla seconda categoria. Clove strinse con forza la benda, in modo da bloccare la fuoriuscita di sangue. Fece un nodo ben stretto e finì lì la medicazione. Senza poterne fare a meno alzò lo sguardo sul volto del ragazzo. I loro occhi si incontrarono e Clove realizzò che erano azzurri. Non come quelli di Cato però. Nessuno aveva occhi come i suoi.
Senza dire nulla Clove si rialzò e si buttò lo zaino sulle spalle. I suoi alleati tacevano mentre lei si dirigeva verso di loro, decisa a riprendere la marcia.
«Grazie.» La voce del ragazzo le arrivò alle spalle e Clove si voltò a guardarlo. Si era rialzato e zoppicando li stava raggiungendo. I loro occhi si incontrarono di nuovo. Scoprirò cosa stai tramando, Ragazzo Innamorato. Oh sì che lo farò. E quando ci porterai dalla tua ragazza la ucciderò. Dopo di che ci occuperemo di te.
«Andiamo. Non abbiamo tempo da perdere. Clove.» La voce di Cato interruppe i suoi pensieri e la ragazza spostò lo sguardo dal Ragazzo Innamorato a Cato. Le stava rivolgendo la parola, dopotutto. Ma era troppo irritata per farci realmente caso. Ignorando tutti gli altri Clove riprese a camminare, facendo strada nella foresta.  


SPAZIO AUTORE


Ma saaalve a tutti! Dai, questa volta non ci ho messo proprio un secolo per aggiornare ;D
Questa è l'altra metà dello scorso capitolo, che avevo deciso di tagliare per non renderlo troppo lungo! Spero davvero che vi sia piaciuto! E finalmente arriva un volto noto! Ebbene sì, il nostro Peeta che entra nella schiera dei Favoriti! Ma noi, come Cato e Clove, non ci facciamo ingannare e sappiamo perfettamente perché l'ha fatto u.u
Ad ogni modo, spero di riuscire ad aggiornare prestissimo, e voi penserete che certo, ormai è estate, sono iniziate le vacanze....... ebbene, NO! Io avrò la maturità ç___ç spero comunque di poter aggiornare presto, anche perché nei prossimi capitoli ci saranno degli sviluppi nel rapporto tra Cato e Clove... ;D
Ora vi saluto! Spero davvero che continuiate a seguire questa storia e ricordatevi che una recensione mi fa sempre un immenso piacere ;D
Grazie a tutti,

~ C

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Capitolo 16
*** 16. Let it all Burn ***




Till your last breath
CAPITOLO 15
Let it all burn


Uscirono in silenzio dalle ombre e allora non si preoccuparono più di non essere sentiti. Una testa spettinata si alzò di scatto, gli occhi brillavano al tenue bagliore del residuo fuoco. Era una ragazza.
Che sciocca, pensò Clove. Accendere un fuoco in piena notte equivaleva a sparare in aria un segnale luminoso per svelare la propria posizione.
Cato estrasse le spada e il rumore dell’arma che fendeva l’aria sembrò risvegliare la ragazza. Quella iniziò a urlare e a strisciare all’indietro, implorandoli di non ucciderla. Ma loro avanzarono, inesorabili. Poco dopo la sua voce si spense in un ultimo rantolo di dolore. Clove rimase a guardare in silenzio. Se fosse stata almeno un po’ intelligente avrebbe potuto scampare alla morte, ma non la era stata. E si sa che nell’arena vige la legge del più forte tanto quanto quella del più intelligente.
Marvel rise di gusto, facendo i complimenti a Cato mentre lui estraeva la spada, ripulendola con stizza. «Fantastico! Dodici fatti, undici da fare!» Anche Glimmer iniziò a ridere e poco dopo Cato e Clove si unirono al coro. Marvel era sempre lo stesso, arena o meno, non poteva farne a meno di sparare battute.
Solo uno di loro se ne stava in disparte in quel momento, in silenzio e senza ridere.
Era strano farlo. Ridere. Forse lo facevano solo per allentare la tensione, perché tutti sapevano che prima o poi sarebbe venuta l’ora di affrontarsi. Di affrontare la spada di Cato o i suoi coltelli. Ora erano alleati, ma non lo sarebbero stati per sempre.
Marvel iniziò a frugare tra i pochi averi della ragazza morta, ma tra imprecazioni si rese conto che non c’era nulla di utile.
«È meglio se ce ne andiamo da qui. Così potranno raccogliere il corpo prima che inizi a puzzare.» Disse Glimmer, ridacchiando. Furono tutti d’accordo e così ripresero a marciare. Ma a pochi metri di distanza, in una radura spoglia, si fermarono di nuovo. Il silenzio era tornato a regnare sovrano su tutto il bosco. E c’era qualcosa che non andava.
«Non dovremmo sentire un colpo di cannone, adesso?» Fece notare Clove, ascoltando con attenzione. Gli altri le diedero ragione. La morte della ragazza avrebbe già dovuto essere annunciata.
«Forse non è morta davvero.» Glimmer si rigirò tra le dita una delle sue due lunghe trecce bionde con noncuranza, come faceva agli allenamenti.
«Certo che è morta.» Cato le rivolse uno sguardo irritato. «L’ho uccisa io.»
«E allora perché non sentiamo il colpo di cannone?» Fece notare Marvel, indicando il cielo.
«Forse qualcuno dovrebbe andare indietro e accertarsi che sia veramente morta.» Glimmer lasciò ricadere la treccia sulla sua spalla, con aria annoiata.
«Infatti. Altrimenti ci toccherà andarla a scovare per due volte.» Constatò Marvel.
«Ho detto che è morta!» La voce di Cato si alzò, carica di irritazione. La sua rabbia sembrava decisamente sproporzionata rispetto alla situazione.
Clove gli lanciò un lungo sguardo. Aveva i nervi a fior di pelle, una semplice questione come quella bastava a farlo arrabbiare oltremisura. Cosa gli stava succedendo? Di colpo aveva perso il comando su sé stesso? Se solo potessi sapere a cosa pensi...
Mentre Clove se ne stava in silenzio a guardarli, i tre iniziarono a bisticciare.
«Credi che non sia in grado di ammazzare una maledetta ragazzina?» Esclamò Cato spintonando Marvel.
«Ma che ti prende, amico?!» Esclamò quello, arrabbiandosi a sua volta. «Il cannone non è suonato! Vuol dire che non è morta!»
Ripresero a spintonarsi con più vigore. Glimmer urlava cercando di farli smettere. Clove avanzò, tentando di fermare Cato ma lui era già forte normalmente, figurarsi ora che era arrabbiato. Sembrava quasi folle, mentre si proponeva di ammazzare Marvel lì, in quel momento. Stava già mettendo mano alla spada mentre gli altri cercavano inutilmente di calmarlo.
«Stiamo sprecando tempo!» La voce li colse tutti di sorpresa. Si fermarono e si voltarono all’unisono verso la persona che aveva parlato. In quel momento, si erano del tutto dimenticati che il Ragazzo Innamorato fosse con loro. «Vado io a finirla. Poi ce ne andiamo.»
Cato rilassò i muscoli e lasciò andare Marvel, che gli rivolse uno sguardo torvo.
«Vai pure Ragazzo Innamorato, guarda con i tuoi occhi.»
E lui andò, lasciandosi i quattro Favoriti alle spalle. Loro restarono ancora in silenzio per qualche istante, aspettando che si allontanasse abbastanza. La lite di prima sembrava già acqua passata. Si radunarono in cerchio, parlando a bassa voce.
«Non capisco perché non lo uccidiamo subito e la facciamo finita.» Sussurrò Glimmer con voce velenosa.
Clove scosse la testa. «No, è meglio aspettare. Può sempre tornarci. E poi...» Clove lasciò la frase in sospeso mentre un sorrisetto le si dispiegava sulle labbra sottili e faceva passare lo sguardo malvagio tra i compagni.
Fu Cato a concludere la sua frase. «E poi lui è la nostra possibilità migliore per trovare lei
Gli atri ridacchiarono. «Credete che si sia davvero bevuta quelle fesserie sentimentali?» Chiese Glimmer con una smorfia disgustata.
«Potrebbe.» Fece Clove, pensierosa. «Ogni volta che ripenso alle interviste mi viene da star male. Lei che fa piroette con quel suo vestito e lui che butta in piedi tutta quella stupida faccenda.»
«Mi piacerebbe sapere come diavolo ha fatto a prendere quell’undici. Non sembra particolarmente sveglia.» Sentenziò Marvel. Gli altri gli diedero piena ragione.
«Il Ragazzo Innamorato lo sa, puoi scommetterci.» Iniziò Cato, ma fu presto zittito dai passi pesanti del ragazzo che tornava.
«Allora?» Cato si raddrizzò, riportando la voce ad un tono normale. «Era morta?»
Il Ragazzo Innamorato alzò uno sguardo duro su di lui. «No. Ma adesso lo è.» A conferma delle sue parole, tutti sentirono un colpo di cannone spezzare il silenzio. «Pronti a muoversi?»
Clove guardò ancora il ragazzo del 12. Era un ottimo attore, non c’era dubbio. Si impegnava così tanto per ingannarli. Ma per lui non c’era scampo. Si era andato ad adagiare nella rete dei nemici con le sue stesse mani. La sua vita era segnata.
Senza aggiungere altro, ripartirono tutti e cinque in silenzio, mentre l’alba iniziava rischiarare il cielo.

***

L’intera giornata passò tranquillamente. Fin troppo tranquillamente. A quanto pareva gli altri tributi sfuggiti al bagno di sangue erano più intelligenti dell’ultima che avevano ucciso. Non ne scovarono nemmeno uno in tutta la giornata. Così il mattino successivo si risvegliarono al loro accampamento senza aver sentito nemmeno un cannone sparare.
«Ragazzi, non trovate che faccia un po’ troppo caldo qui?» Marvel, che si era da poco risvegliato, si passò una mano sulla fronte, detergendosi un sottile velo di sudore.
«In effetti è vero. Fa decisamente troppo caldo qui. Forse dovremmo spogliarci un po’.» La voce di Glimmer era bassa e suadente. Clove alzò lo sguardo su di lei, inarcando le sopracciglia. La ragazza si stava abbassando la zip della pesante giacca a vento e, notò Clove con un certo disappunto, il suo sguardo sembrava aver preso un cipiglio malizioso ed era senza ombra di dubbio diretto verso Cato.
Anche lui la guardò per un istante. «Deve essere un’impressione.» Glimmer si imbronciò e lasciò perdere la zip. Clove guardò da un’altra parte.
E fu allora che notò un branco di animali selvatici che correvano via a tutta velocità. Che strano, pensò mentre iniziava a sudare anche lei. Faceva davvero caldo. La ragazza si alzò in piedi, avvicinandosi alla direzione in cui erano scomparsi gli animali.
«Ragazzi.» Disse, mettendosi in ascolto. «Che cos’è questo rumore?»
«Quale rumore?» Chiese Marvel mentre tutti quanti balzavano in piedi.
«Non lo so.» Si portarono tutti alle sue spalle, in silenzio. Clove rimase in ascolto e ora riuscì a sentire il rumore, ma non ad identificarlo. Tutto quello che capì era che arrivava dalle sue spalle. Strinse forte un coltello tra le dita e si voltò.
Ma subito si accorse che la sua arma sarebbe stata inutile contro quel nemico.
Un muro di fuoco si stava dirigendo verso di loro, abbattendo alberi e bruciando il terreno. Presto avrebbe investito anche loro.
«Correte! VIA!» I cinque si sparpagliarono. Clove afferrò velocemente il suo zaino ma non fece in tempo a prendere altro. Si misero tutti a correre, urlando.
«Veloce! Più veloce!»
«Forza, forza!»
«Scappate!»
Clove corse veloce, cercando di non inciampare nei rami caduti. Se cadi, sei morta.
Ma non importava quanto veloce corressero, sentivano il fuoco alle loro spalle, sempre più vicino. Lo sentivano distruggere tutto, inghiottire ogni albero, ogni roccia, ogni essere vivente e ridurlo in cenere. Presto il fumo li raggiunse. Si fece sempre più fitto e penetrante, come un muro di nebbia. Clove iniziò a vederci sempre meno. Perse di vista i suoi compagni. Continuando a correre a perdifiato si portò un braccio davanti a naso e bocca, cercando di non inalare altro fumo: i polmoni le bruciavano già. Presto la sua andatura rallentò e gli occhi iniziarono a bruciarle. Aveva distanziato il fuoco, ma poteva ancora sentirlo, alle sue spalle. Non era un evento naturale, era opera degli strateghi, per questo avanzava così veloce.
Perse l’orientamento. Non sentiva più i passi dei suoi compagni. Respirare iniziava a diventare troppo difficile. Strinse tra le mani il manico del suo coltello. Per la prima volta in tutta la sua vita non poteva abbattere il suo nemico con quell’arma. Non poteva affatto battere il suo nemico. E così, correndo e appoggiandosi agli alberi per non cadere e per cercare di proseguire dritto, ebbe paura per la prima volta nell’arena. Oramai si era abituata all’idea di uccidere altri esseri umani. Ma come poteva uccidere il fuoco? O come poteva fermare il fumo che le entrava a forza nei polmoni, brucandoli?
Ebbe paura di morire.
Ma non poteva farlo, non poteva morire così, sconfitta non in una battaglia con un altro  tributo, ma da un muro fuoco. No, non l’avrebbe permesso, non lei.
Riprese a correre e ritrovò un po’ di fiato. Così iniziò a urlare, sperando di trovare i suoi alleati. «Cato! CATO!» Tossì. In lontananza, sotto il crepitare delle fiamme, le sembrò di sentire qualcuno chiamare il suo nome. Clove brancolò in quella fitta coltre di fumo, cercando di andare dalla parte della voce. Ora non sentiva più il fuoco alle spalle, forse gli strateghi avevano deciso di spegnerlo. Ma il fumo restava ed esso era letale tanto quanto le fiamme di poco prima.
«Cato!» Urlò di nuovo, con voce roca.
«Sono qui!» E lo era davvero. Per poco Clove non ci andò a sbattere contro.
«Cato!» Esclamò, tossendo contro la manica della sua giacca che teneva ancora a coprirle naso e bocca. Quando alzò gli occhi brucianti su di lui, notò che anche Cato cercava di proteggersi dal fumo in quel modo.
«Forza.» Esclamò prendendola per un polso. «Andiamocene da qui!»
E ripresero a correre assieme. Clove lo guardò attraverso il fumo. Si chiese perché lo stesse facendo, perché la stesse aiutando. Sarebbe stato più facile per lui lasciarla indietro, lasciarla a morire nel fumo. Invece la stava aiutando.
Corsero per un tempo indefinito, fino a quando finalmente i loro occhi iniziarono a vederci più nitidamente, segno che il fumo andava diradandosi. Andarono avanti a correre ancora per parecchi metri e poi si fermarono. Cato le lasciò andare il polso. Entrambi inspirarono l’aria pura a pieni polmoni, cercando di smettere di tossire.
Poco più distante, Clove sentì delle voci rauche chiamarli. Erano tutti vivi: Marvel, Glimmer e persino il Ragazzo Innamorato, che seguiva gli altri due zoppicando. Si radunarono tutti e cinque nella radura e si lasciarono cadere a terra, riprendendo fiato. Clove aveva la gola in fiamme e gli occhi le bruciavano. Tossiva ancora, come i suoi compagni, ma erano tutti vivi. Stavano tutti bene. Certo, notò osservando i pochi zaini rimasti, gran parte delle loro scorte erano state divorate dalle fiamme, ma quello non era un gran problema: potevano sempre tornare alla cornucopia e recuperarle.
Alla fine gli strateghi non erano riusciti ad eliminarli. In qualche modo erano riusciti a battere anche il fuoco.


Si concessero giusto il tempo di riprendersi dall’attacco, poi ripartirono. Sapevano perché, ad un certo punto dei Giochi, gli strateghi decidevano di intervenire. Il più delle volte era per portare allo scoperto i tributi che si erano nascosti e par farli avvicinare, inducendoli al combattimento. Se gli strateghi non l’avessero quasi uccisa, Clove avrebbe approvato la loro mossa. La giornata trascorsa era stata fin troppo tranquilla. Ma ora sapevano che gli altri erano scappati dai loro nascondigli per evitare di bruciare vivi ed erano in giro, nella foresta, spaesati e in cerca di una nuova tana come conigli selvatici.
E fu mentre si avviavano verso un ruscello che avevano scovato qualche giorno prima che ne trovarono uno. Anzi, trovarono proprio quello che avevano tanto sperato di poter avere tra le mani. Trovarono la ragazza del 12.
La gioia collettiva parve risollevare loro il morale. Immediatamente iniziarono a correre e a urlare. Clove seguì la ragazza con lo sguardo e notò che anche lei aveva dovuto fronteggiare l’incendio, ma non era stata fortunata come loro. Da quello che poteva vedere era rimasta ferita ad una gamba. Questo la rallentava, il che era un bene visto che nemmeno loro erano al massimo delle forze. Infatti avevano ancora la gola irritata e spesso si ritrovavano a tossire. Ma questo non li fermò. Trovare la ragazza in fiamme era un pensiero fisso fin dall’inizio dei Giochi.
Passarono il ruscello arrancando e quando la raggiunsero, la ragazza si stava agilmente arrampicando su un alto albero. Arrivata ad una certa altezza, si fermò e guardò in giù. Era circondata, ma non sembrava particolarmente spaventata, notò Clove con disappunto.
Anzi, sembrava che stesse sorridendo. «Come va, ragazzi?» Chiese con voce spavalda.
Tutti la guardarono stupiti. Se Clove fosse stata al suo posto e fosse stata ad un passo dalla sua morte, non si sarebbe certamente messa a scherzare.
Cato fu il primo a riprendersi dallo stupore e decise di reggerle il gioco. «Abbastanza bene.» Esclamò. «E tu?»
«Ha fatto un po’ caldo per i miei gusti.» Rispose lei, continuando a sorridere scioccamente. «L’aria è migliore quassù. Perché non mi raggiungete?» Così Clove capì perché si permetteva di essere così rilassata. Probabilmente nessuno di loro era così agile da poter scalare un albero tanto alto e con rami tanto sottili. E questo era il suo vantaggio.
«Penso che lo farò.» Cato iniziò di nuovo ad irritarsi, Clove poté sentirlo nella sua voce. Dopo averla salvata dal fumo era tornato ad essere lo stesso ragazzo freddo e distante, teso come una corda di violino, pronto a scattare alla minima provocazione. Clove capì che in quel momento si stava trattenendo: non voleva dare nessuna soddisfazione alla ragazza del 12. Ma probabilmente non pensò nemmeno che scalare quell’albero non avrebbe portato a nulla.
«Ecco, prendi questo Cato.» Glimmer gli tese arco e frecce, ma lui le allontanò con una mano.
«No. Preferisco usare la spada.» Rispose lui, issandosi sul primo ramo. La ragazza riprese a salire, agile come uno scoiattolo. Cato non l’avrebbe mai raggiunta, pensò Clove con irritazione. Non poteva sfuggirgli un’altra volta. Questo era troppo.
Marvel e Glimmer iniziarono ad urlare a Cato, incitandolo. Ma dopo pochi metri si sentì un terribile crack di un ramo spezzato e il ragazzo cadde al suolo.
«Cato!» Esclamò Clove facendo un passo avanti. Ma lui si rimise subito in piedi, imprecando. Il suo sguardo lanciava scintille. Anche lui voleva farla finita subito con quella maledetta ragazza. Aveva avuto fortuna fin troppe volte. Clove iniziò a calcolare la distanza e pensò di provare con un coltello. Magari ce l’avrebbe fatta. Ma Glimmer la precedette. «Ci penso io.»
Incoccò una freccia e prese la mira, ma la mancò. Quella si andò a conficcare a qualche centimetro di distanza dalla ragazza, sullo stesso ramo. Lei la estrasse e la sventolò nella loro direzione, con il chiaro intento di prenderli in giro.
«Dannazione!» Esclamò Glimmer, pestando i piedi a terra. Così iniziò un nuovo battibecco. Ma ormai si stava facendo sera e il tempo si stava esaurendo. Parlavano tutti e quattro, proponendo piani e senza nemmeno ascoltarsi a vicenda. Cato iniziò ad urlare.
«Lasciamola là.» Li interruppe il Ragazzo Innamorato. «Dove volete che vada? Ce ne occuperemo domani mattina.» Clove lo osservò di nuovo. Era ovvio che stava prendendo tempo per salvare la sua amata. Ma facendo i conti, forse era meglio seguire il suo consiglio. La ragazza non poteva scendere dall’albero senza che loro la attaccassero. Era bloccata là sopra, nel suo stesso nascondiglio. Con il buio le possibilità di prenderla erano scarsissime, ma con l’arrivo del mattino avrebbero potuto provarci di nuovo. Forse durante la notte avrebbero ideato un piano migliore. Non aveva scampo. Le avrebbero regalato qualche ora in più di vita, tutto qui.
I quattro si lanciarono uno sguardo e vi fu un muto assenso. Cato era infuriato perché la sua preda gli era sfuggita dalle mani, ma scrollò le spalle ed iniziò ad allestire l’accampamento in silenzio, mentre Marvel si apprestava ad accendere il fuoco. Clove rimase ancora un istante con lo sguardo puntato verso i rami. La ragazza era appena visibile, là in alto. Forse l’avevano davvero sottovalutata. Forse non era così sciocca come avevano creduto. Era già sfuggita loro due volte e tuttora restava fuori dalla loro portata. Ma sarebbe stato ancora per poco. Solo una notte, e poi sarebbe caduta dritta tra le loro braccia, verso la sua morte.


Il mattino dopo però Clove si rese conto che tutti i loro piani per uccidere la ragazza in fiamme sarebbero falliti miseramente. Lei li aveva imbrogliati, un’altra volta.
Furono svegliati da qualcosa di pesante che si schiantava fragorosamente al suolo. Clove si svegliò di soprassalto e il suo primo pensiero fu che la ragazza era caduta dall’albero e che quello era il momento perfetto per ucciderla. Ma non avrebbe potuto sbagliarsi più di così. Non era un essere umano ciò che era caduto al centro del loro accampamento. Era un grosso alveare. E quando si schiantò a terra, frantumandosi in mille pezzi, le bestie che conteneva al suo interno ronzarono fuori come un’ondata impetuosa, infuriate. E fu il caos. Erano aghi inseguitori.
Gli urli arrivarono immediatamente, ma non c’era tempo di radunare le poche scorte o di pensare ad altro se non a scappare. Le api gli erano già addosso. Clove fu la più reattiva ed iniziò subito a correre veloce come un fulmine, mentre cercava di scacciare le api che l’avevano raggiunta. Dietro di lei poteva sentire i passi dei suoi compagni e a poca distanza il ronzio furioso dello sciame degli aghi inseguitori.
«Al lago! Al lago!» Urlò qualcuno alle sue spalle. Era la loro unica possibilità di salvezza. Le api non entrano in acqua. Clove cercò di correre più veloce e finalmente lo vide: una distesa di acqua limpida proprio davanti a lei. Le sue gambe non frenarono nemmeno, ma quando fu vicina alla riva piegò di poco le ginocchia e si lanciò dritta in acqua, prendendo un grande respiro. Subito andò a fondo. Sentì le alghe solleticarle i piedi e le gambe e con un grande sforzo, si costrinse ad aprire gli occhi. Poco più in alto vide tre macchie indistinte che si agitavano. Erano i suoi compagni che si erano tuffati dopo di lei. La vista era appannata ma fu certa di vedere una grossa macchia scura passare sopra le loro teste, appena sopra il livello dell’acqua. Lo sciame di api li stava superando, proseguendo dritto per la propria strada, pronto a rivolgere la sua furia contro qualcun altro.
Quando Clove pensò che il pericolo fosse abbastanza lontano, iniziò a scalciare e muovere la braccia, cercando di riemergere in superficie, in cerca di aria. Proprio mentre la sua testa usciva dall’acqua e lei riprendeva a respirare, sentì un colpo di cannone provenire da dove poco prima stavano tutti tranquillamente riposando. Qualcuno era morto. Clove non poté far altro che sperare che fosse la ragazza del 12, uccisa dalla sua stessa trappola. Si guardò attorno: nell’acqua, a poca distanza da lei, c’erano Cato e Marvel. Strano, avrebbe giurato di aver visto almeno tre persone entrare in acqua dopo di lei.
«Dov’è Glimmer?» Urlò Marvel, nuotando convulsamente verso riva. Forse era annegata, pensò Clove, scrutando l’acqua scura al di sotto.
«NO!» L’urlo di Cato arrivò del tutto inaspettato. Clove e Marvel si voltarono a guardarlo. «Ci ha traditi! È stato lui!» Gridò indicando un punto nella foresta. E Clove lo vide, solo per un istante, perché scomparve subito. Il Ragazzo Innamorato stava correndo verso la radura che avevano appena lasciato. Non ci fu bisogno di parole. Tutti e tre si precipitarono verso riva ma il più veloce di tutti fu Cato.
Uscì dal lago e si gettò all’inseguimento, incurante delle punture. Clove e Marvel lo seguirono, ma quando arrivarono alla radura si resero conto che era troppo tardi: Cato teneva in mano la spada insanguinata e il Ragazzo Innamorato fuggiva zoppicando nei boschi, con una profonda ferita aperta sulla gamba. Della ragazza del 12 non c’era più traccia. Il veleno degli aghi inseguitori iniziava a fare effetto, rendendoli deboli e spossati. Non avrebbero di certo avuto la forza di inseguire il ragazzo nel bosco, sarebbero morti nel tentativo.
Cato però provò a rialzarsi.
«Cato, lascia perdere!» Esclamò Clove arrancando verso di lui, che usava la spada come un bastone per reggersi in piedi. «Lo hai già ferito, morirà dissanguato in meno di poche ore! Dobbiamo tornare al lago e far uscire il veleno! Subito!» Il ragazzo si voltò con sguardo stralunato verso di lei.
«Ragazzi.» La voce di Marvel li raggiunse in un sussurro. «Ra... ragazzi.» Loro si voltarono e lo raggiunsero faticosamente. Lui era inginocchiato al fianco di un mucchio di qualcosa, aveva le braccia molli e lo sguardo basso. Clove ci mise un secondo a collegare. Quello non era un mucchio, quella era Glimmer. Ed era morta.
Tutta la bellezza e il fascino che l’avevano da sempre caratterizzata sembravano scomparsi, sepolti sotto quegli orrendi bozzi che gli aghi le avevano lasciato su tutto il corpo ormai deforme. I suoi occhi, l’unica parte rimasta immutata, erano aperti verso il cielo mattutino che non avrebbero più potuto vedere. Arco e frecce erano scomparsi, segno che la ragazza del 12 era ancora viva ed era scappata.
Clove distolse lo sguardo, incapace di sopportare la visione di quel corpo straziato che un tempo era stato della sua alleata. Prese Marvel per un braccio e cercò di tirarlo in piedi. «Avanti, dobbiamo andarcene di qui. Dobbiamo tornare al lago! Alzati!» Clove lo tirò con tutte le sue poche forze, ma non riuscì a farlo alzare. Cato, che parve risvegliarsi dal torpore in cui era caduto, afferrò il ragazzo per l’altro braccio e assieme lo tirarono in piedi e, barcollando, riuscirono a tornare al lago. Vi si gettarono dentro e iniziarono a guardare le proprie ferite. Clove si impegnò al massimo, cercando di trattenere i conati, mentre vi estraeva i pungiglioni e guardava il veleno fuoriuscire, disperdendosi nell’acqua. Forse, se agivano in fretta, avrebbero potuto evitare gli effetti peggiori delle punture degli aghi inseguitori. Le allucinazioni ad esempio.
Vide i suoi compagni fare lo stesso, in silenzio, mentre un hovercraft passava sopra le loro teste. Tutti e tre sapevano che stava andando a recuperare il corpo di Glimmer, ma non dissero nulla. Fecero finta di niente e continuarono così per parecchi minuti, fino a quando il dolore iniziò a scemare e lo stordimento a diminuire. Marvel si lasciò cadere stancamente a riva, con le gambe a penzoloni nell’acqua. Cato si tolse l’ultimo pungiglione dal braccio, poi alzò lo sguardo verso Clove. Lei si accorse che aveva ancora una puntura proprio sotto l’occhio destro. Se lui non l’avesse tolta subito, si sarebbe gonfiata. Sarebbe diventata come quelle sul corpo di Glimmer. No, non pensare a lei. Si disse Clove, scacciando il ricordo. Si avvicinò lentamente a Cato e gli fece segno di sedersi.
«Ne hai ancora uno.» Gli disse. Lui le si avvicinò, senza dire una parola. Clove gli portò le mani al viso e, cercando di non farle tremare, estrasse con cura il pungiglione, ripulendo la guancia di Cato dal veleno che fuoriuscì dalla piccola ferita. «Ecco. Ora sei a posto.» Sussurrò lei, sciacquandosi le mani nell’acqua limpida.
Lui abbassò lo sguardo. «Grazie.» Sussurrò.
Clove scosse la testa, sorridendogli debolmente.
Lo stordimento stava passando, ma le forze non le aveva ancora recuperate del tutto. Si sedette mollemente sulla riva, sospirando e sperando che gli effetti delle punture fossero solo quelli.
Questa era l’ultima goccia. Non solo la ragazza in fiamme era scappata di nuovo, ma aveva ucciso una dei loro. Adesso Clove era davvero stufa di lei. La prossima volta che l’avrebbe trovata, l’avrebbe uccisa con le sue stesse mani. E non se la sarebbe lasciata sfuggire di nuovo.


SPAZIO AUTORE

Saalve a tutti! Lo so, lo so... ci ho messo ancora un secolo ad aggiornare, ma la ragione è che dopo la maturità non mi sono fermata un momento! Ho cercato di godermi appieno le vacanze, visto che forse saranno le ultime davvero libere per mooolti anni xD
Comunque, eccoci qui... spero il capitolo vi sia piaciuto! Finalmente il rapporto tra Clove e Cato ha qualche sviluppo :D Almeno fino a quando la Ragazza di Fuoco decide di fregarli e fare andare Clove fuori di testa u.u Oh, e anche... diciamo ciao ciao a Glimmer! Sarà stata odiosa, ma non augurerei la sua morte nemmeno al mio peggior nemico!
Ora però vediamo di non dilungarci oltre... so che il fatto di metterci secoli ad aggiornare fa probabilmente perdere anche interesse nella storia, ma spero che ci sia ancora qualcuno che la legga... se sì, sappiate che le vostre recensioni mi fanno sempre piacere ;)
Ok, allora alla prossima!!!

~ C

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Capitolo 17
*** 17. Breaking the Rules ***



Till your last breath
CAPITOLO 17
BREAKING THE RULES


Passarono due giorni interi prima che l’effetto del veleno degli aghi inseguitori sparisse del tutto. In quel vasto arco di tempo i tre Favoriti rimasti decisero di radunare le forze e stabilire la loro base alla cornucopia, a solo pochi metri dal lago, dov’erano rimaste tutte le loro scorte.
Fu lì che trovarono il ragazzo del Distretto 3. Anche lui era stato punto da qualche ape, quindi doveva trovarsi nei pressi del lago da un po’ di tempo. Ormai restavano solo dieci tributi in tutto e presto ne sarebbero rimasti nove. Ma il ragazzo li aveva fermati e  aveva detto che, se lo avessero risparmiato, lui li avrebbe aiutati.
Avrebbe fatto in modo di riattivare le mine sotterrate nel terreno attorno alla cornucopia, era da un po’ di tempo che stava pensando di farlo, per quello si trovava nei pressi del lago. Disse che le avrebbe nascoste attorno alle provviste, di modo che se qualcuno avesse tentato di avvicinarsi per rubarle sarebbe scoppiato in mille pezzi.
Dopo varie discussioni i tre decisero di accettare. Quel ragazzo non era una minaccia: era smilzo, affamato, pallido. Non aveva con sé nemmeno un’arma. Però poteva essere utile come sentinella mentre loro andavano a caccia.
E così adesso si trovavano lì, in silenzio, seduti su scatole e contenitori di plastica vuoti, attorno al mucchio di provviste che avevano radunato e attorno alle quali il ragazzo del Distretto 3 aveva sistemato le mine.
Non erano state giornate piacevoli, anzi. Il dolore delle punture degli aghi inseguitori tornava spesso a farsi sentire e le ferite non erano ancora del tutto guarite. Erano rimasti in silenzio, pensierosi. Marvel era cupo e aveva perso la sua allegria. Clove sospettava fosse colpa della morte di Glimmer. In fondo lei era del suo stesso Distretto. Lo aveva visto, alzare lo sguardo al cielo quando lo schermo aveva proiettato la foto della ragazza con sotto inciso il numero 1. E l’aveva visto abbassarlo subito dopo, ignorando la foto del tributo femmina del Distretto 4. Aveva visto una certa tristezza nei suoi occhi. Come se avesse realizzato che non erano immortali, i Favoriti.
Anche Cato era rimasto cupo e silenzioso per tutto il tempo. E Clove si chiedeva se fosse per la stessa ragione di Marvel. Odiava ammetterlo, ma aveva notato, nei giorni passati, che Glimmer gli ronzava spesso attorno e che lui sembrava considerarla più di quanto considerasse lei. Di nuovo il pensiero del suo carattere mutevole la pervase. Rimase lunghi minuti ad osservarlo, mentre stava seduto ai piedi di un grosso albero al limitare della foresta. Non c’era pericolo che lui la vedesse, era troppo preso dai suoi pensieri.
Prima dei Giochi si comportava quasi come se fossero amici. Le sorrideva, scherzava anche con lei, a volte. Ma dall’inizio degli Hunger Games non la guardava quasi più negli occhi, come se fosse una completa estranea.
Però il giorno dell’incendio l’aveva aiutata a fuggire. L’aveva presa per il polso e se la era trascinata dietro fino a quando erano giunti in salvo. Perché?
Perché salvarla se tanto per lui era come una sconosciuta? Non sarebbe stato più semplice lasciarla morire? Clove passò quei due giorni in preda alla confusione e allo sconforto. Si odiava per questo, perché per molto tempo era riuscita a non pensare a Cato o al futuro, e ora invece non faceva che concentrarsi su quei problemi. Diede la colpa al veleno degli aghi inseguitori. Ma non era certa che quello fosse l’unico responsabile.
Clove si rese conto che il suo debito nei confronti di Cato aumentava sempre di più e forse era ora di saldarlo. Forse era per questo che si sentiva in dovere di aiutarlo. Forse una volta che si fosse tolta quell’enorme peso dalla coscienza avrebbe potuto smettere di pensare a lui e di sentirsi in debito.
Così, guidata da chissà quale istinto o forse ancora dal veleno, si alzò silenziosamente in piedi. Diede uno sguardo veloce alle sue spalle: Marvel le dava la schiena ad una decina di metri di distanza. Il ragazzo del 3 studiava un cubo di plastica contenente chissà che cosa. Nessuno badava a lei. Così, con passo silenzioso, si avvicinò di soppiatto a Cato. Esitò solo per un istante, poi si sedette al suo fianco, a pochi centimetri di distanza da lui.
«Ciao.»
Lui non alzò nemmeno lo sguardo, ma continuò pigramente a strappare erba e pezzetti di radice. «Hey.»
Clove abbassò lo sguardo, incerta sul da farsi. Era venuta lì per sdebitarsi con lui, ma realizzò solo in quel momento di non aver nemmeno pensato a cosa gli avrebbe detto. Rimase in silenzio per qualche istante. «Come ti senti?» Gli chiese alla fine, senza guardarlo. «Il dolore è passato?»
«Sì. È tutto a posto.» Ma non lo era, Clove lo sapeva. Non seppe dirsi quale strana forza la spinse a parlare, ma lo fece.
«Sei così cupo per via della morte di Glimmer, non è vero?» Clove iniziò a strappare pezzetti d’erba, stringendoli spasmodicamente tra le dita.
«Cosa?» Cato alzò uno sguardo confuso su di lei. «No.» Disse con voce dura, scuotendo la testa. «Doveva morire prima o poi. Non mi importa nulla di lei. Non mi è mai importato.» Detto questo, abbassò nuovamente lo sguardo e tornò a strappare le radici dell’albero che fuoriuscivano dalla terra brulla. Clove rimase sorpresa dalla sua risposta. Si aspettava che la causa della sua tristezza fosse quella, invece non era così. Allora cosa lo aveva spinto a diventare così silenzioso e distante? I Giochi stavano lentamente entrando nelle fasi finali, quelle più dure, e lui pareva non rendersene conto.
«Oh, credevo...» Iniziò Clove, pensando a voce alta. Si maledisse per averlo fatto. «Niente, lascia perdere.» Scosse la testa, sconsolata. «Cosa ti prende, Cato? Non sei più la stessa persona. Da qualche giorno tu... sembri assente. Cosa ti è successo?» Sembri folle. Avrebbe aggiunto Clove. Non si dimenticava dei suoi eccessi di ira. Molte volte si era ritrovato a battibeccare con Marvel per motivi futili ma questo non l’aveva fermato dal minacciarlo o addirittura dall’estrarre la spada. E quando accadevano questi eccessi non c’era nessuno in grado di placarli. La rabbia doveva semplicemente sbollire da sé e poi Cato tornava ad essere silenzioso e imbronciato e non proferiva parola per lunghi lassi di tempo. Questo non era da lui.
«Niente. Non mi è successo niente.» Disse lui con voce roca.
«Voglio solo aiutarti, Cato. Te lo devo.»
Lui la guardò e i suoi occhi sembravano stanchi ma, almeno per quel momento, presenti.
«Durante le interviste...» Riprese lei, scrutando la foresta. «Hai parlato di una ragazza alla quale avevi regalato un coltello.» Anche lui spostò lo sguardo nella stessa direzione, senza negare. «Non ti ho mai ringraziato per averlo fatto. Avrei voluto, ma non l’ho mai fatto. È stata la mia prima vera arma e... e l’ho anche portata a Capitol. Non volevo separarmene. Ma sapevo di non poterla portare con me nell’arena. Così l’ho lasciata in custodia ad Enobaria. Non sopportavo l’idea che essa venisse perduta. In un certo senso, mi ci sono affezionata. Quindi volevo solo dirti... grazie per avermela regalata.» Clove si zittì, sentendosi immediatamente meglio. Era da anni che quelle parole aspettavano di essere dette. La ragazza non avrebbe mai pensato però che sarebbe accaduto in una circostanza come quella.
«Non mi devi ringraziare. E non devi sentirti in debito con me. Quello che è successo fuori dall’arena resta fuori.» La sua voce era fredda e tagliente coma la lama del suo coltello. Clove ne rimase sorpresa. Cosa voleva dire con quella frase? Era la spiegazione del perché la trattava come se fosse un’estranea? Tutto ciò che è successo fuori resta fuori? E lei che aveva passato così tanto tempo pensando a lui, a come sarebbe stato difficile ucciderlo o vederlo morire quando sarebbe arrivato il momento! Chissà come se la rideva di gusto Damien in quel momento. Era da un bel pezzo che Clove non pensava a lui, ma era colpa sua se lei si trovava in quella situazione. Si chiese come sarebbero stati i Giochi se Damien si fosse offerto, come doveva essere. E poi si chiese perché mai invece si fosse offerto Cato. Non gli importava nulla di sapere che lei sarebbe stata l’altra volontaria? Non gli importava di niente? Clove mandò giù un groppo di delusione al pensiero. Chiuse gli occhi per un istante e rimase in silenzio.
«Bene. Allora è tutto a posto. Non sono in debito con te.» Disse, e mascherando la tristezza si alzò in piedi e si allontanò da Cato, tornando a sedersi al suo posto. Per un istante, un solo istante, si era sentita leggera, quando aveva ringraziato Cato. Ora invece qualcosa di ben più pensante pareva schiacciarla a terra. A lui non importava niente di lei, alla fine l’avrebbe uccisa senza tanti problemi. L’aveva salvata solo perché gli serviva la sua abilità con i coltelli. Prima dei Giochi era stato buono con lei solo per fare in modo che si fidasse di lui abbastanza da allearcisi. Era tutta finzione. Tutti i suoi complessi andarono in fumo perché Cato, il ragazzo che pensava di conoscere almeno un po’, non era altro che una vera e propria macchina per uccidere, proprio come aveva detto Caesar alla fine della sua intervista. Gli importava solo di vincere e alla fine lo avrebbe fatto. Avrebbe ucciso tutti, lei compresa, senza alcun rimorso.


Solo poche ore dopo a rompere il silenzio fu un urlo di Cato.
«Guardate!» Gridò balzando in piedi e avvicinandosi al centro della radura. «Là in fondo, nella foresta!» Clove e Marvel si alzarono e seguirono il suo sguardo: non molto lontano, dalle cime degli alberi, si alzava un sottile filo di fumo grigio. Possibile? Qualche altro tributo ci era ricascato? Probabilmente con l’avvicinarsi della fine uno di loro era impazzito per la fame o per il freddo e aveva deciso di arrischiarsi ad accendere un fuoco. Pessima mossa. Clove preparò i suoi coltelli, felice di avere finalmente qualcosa a cui pensare. Un po’ di azione era quello che ci voleva. Stava già per partire quando si rese conto che Cato e Marvel stavano discutendo. Di nuovo.
Non c’era tempo per aspettare un altro eccesso d’ira di Cato. Dovevano trovare il tributo ed ucciderlo prima che si allontanasse.
«Ho detto che viene anche lui.» Sussurrò Cato tra i denti, indicando il ragazzo del Distretto 3 che si era alzato e se ne stava immobile, in attesa. Marvel però non pareva essere d’accordo con la sentenza di Cato. «Ne avremo bisogno nel bosco. E poi il suo lavoro qui è finito. Nessuno può toccare le nostre provviste.»
«E il Ragazzo Innamorato?» Chiese Marvel, non ancora del tutto convinto.
«Te l’ho già detto, dimenticati di lui! So dove l’ho colpito. È un miracolo che non sia già morto dissanguato! Non è una minaccia per noi, non lo è mai stato.»
Marvel lanciò uno sguardo a Clove e lei gli comunicò con gli occhi di smetterla, che non era il caso di far arrabbiare Cato. Lui capì al volo e decise di arrendersi.
«Andiamo.» Li esortò Cato, soffocando l’irritazione e ficcando una lancia tra le mani del ragazzo smilzo, prima di iniziare a correre. «E quando la troveremo, la ucciderò io.» Urlò con voce spietata. «E nessuno osi intromettersi.»
Meno di pochi minuti dopo erano nel bosco e seguivano la colonna di fumo. Corsero veloci e in silenzio, determinati come non mai. Ma quando arrivarono al luogo del fuoco, quello era deserto.
«Dannazione!» Imprecò Cato prendendo a calci i resti polverizzati dei tronchi bruciati. Ma mentre sfogava la sua ira e la sua delusione, ecco che poco più distante si levò un’altra colonna di fumo oltre agli alberi.
«Ci sta prendendo in giro.» La voce di Marvel era bassa, come un ringhio. «Forza, muoviamoci! Magari riusciamo a beccarla!»
Clove ne dubitava. Chiunque avesse acceso il fuoco aveva un piano in mente, un percorso che loro stavano seguendo senza battere ciglio. Clove era anche certa che ad accendere i fuochi era stata lei. Preferiva giocare d’astuzia piuttosto che fronteggiarli. Ma non importava. Non poteva nascondersi per sempre.
Corsero per parecchi minuti ma quando arrivarono al luogo del fuco trovarono anch’esso deserto. La rabbia cresceva dentro di loro mentre un nemico invisibile li imbrogliava in quel modo. La tensione, che in quei giorni era cresciuta tra di loro fin quasi a soffocarli, ora sembrava essere diventata una cappa carica di elettricità pronta ad esplodere da un momento all’altro. Questo era troppo.
Marvel voleva andare avanti a cercare, certo che chiunque avesse acceso il fuoco dovesse trovarsi nei paraggi, ma secondo Clove quella sarebbe stata una mossa inutile. Di sicuro il piano della ragazza del 12 non era di farsi trovare.
«Dobbiamo tornare indietro! Non la troveremo mai se continuiamo così!» Esclamò Clove, sull’orlo della disperazione. Sentiva di dover tornare all’accampamento. Quei fuochi e la loro progressiva distanza... sembravano quasi un diversivo per allontanarli dalla loro base.
«Non puoi nasconderti per sempre! Mi hai sentito! Ti troverò!» Gridò Cato con furia, rivolgendosi all’aria. Proprio in quel momento sentirono l’esplosione. Un boato enorme, assordante. Tutti e quattro si coprirono le orecchie con le mani, chiudendo gli occhi. Gli uccelli si alzarono in volo dagli alberi e gli animali selvaggi scapparono via, in branco. L’esplosione veniva da dove erano arrivati loro. Non ci volle molto per capire che erano stati fregati.
«Maledizione!»
Con quell’ultima imprecazione ripartirono tutti, correndo veloci come fulmini.
In pochi minuti erano ancora nella radura della cornucopia, solo che la trovarono irriconoscibile. Del fumo si alzava da dove una volta c’era il loro mucchio di provviste. Ora non restava altro che un mucchietto di plastica annerita e cenere.
Cato urlò la sua rabbia, prendendo a calci i detriti e portandosi le mani tra i capelli biondi. Clove e Marvel invece, dopo essersi accertati che tutte le mine fossero esplose, si addentrarono in quel disastro cercando tra i resti qualcosa che potesse essere recuperato, ma non c’era nulla. Era tutto andato. Sparito. Esploso. Tutte le loro risorse non c’erano più e Clove sapeva esattamente di chi fosse la colpa. La rabbia le montò dentro come un fiume in piena.
Poco distante, Cato sbraitava insulti al ragazzo del Distretto 3. Clove sentì un colpo secco, un sonoro crack e il ragazzino cadde a terra morto con il collo spezzato. Il cannone suonò.
Ma la furia di Cato non si placò. Clove e Marvel gli si avvicinarono con cautela, cercando di farlo tornare in sé. Era come tentare di domare una animale furioso, imbestialito.
«NO! Dobbiamo tornare là dentro, questa è l’ultima goccia! Io la uccido, la uccido con le mie mani quella piccola, lurida...»
«Cato! Cato!» Esclamò Clove cercando di bloccarlo, aiutata da Marvel. «Fermati un attimo e ragiona! Non dobbiamo tornare nel bosco.» Cato smise di dimenarsi e si fermò, il respiro pesante, gli occhi folli. «Chiunque abbia provocato l'esplosione deve essere morto!»
Marvel le diede ragione. «Esatto, deve essere saltato in aria, non può essere altrimenti! Chiunque sia stato, ora è già all’altro mondo!»
Cato ci pensò su per qualche istante, poi spostò lo sguardo verso il mucchio fumante di macerie. «Tutte le nostre provviste...» Anche gli occhi degli altri due si spostarono nella stessa direzione.
«Ce la caveremo.» Disse Clove con freddezza.
«Forza, spostiamoci di qui, così possono recuperare il corpo.»
Si allontanarono tutti e tre verso il lago, cercando di calmarsi e di escogitare un piano, perché tutte le risorse erano andate e non sapevano come fare per trovarne di nuove. La soluzione era semplice, dovevano fare in modo di accorciare i tempi e di eliminare i restanti tributi. Rimasero a pensare fino a quando l’inno non interruppe il silenzio e in cielo comparve lo stemma di Capitol. E poco dopo le immagini dei tributi morti: quello del 3 ucciso da Cato, quello del 10 morto quel mattino... e basta.
Cato imprecò di nuovo e si alzò in piedi. «È ancora viva.» La sua voce era bassa e vibrante, piena di disprezzo e crudeltà. Clove non poteva biasimarlo. Anche lei era stanca delle bravate di quella ragazza. «Muoviamoci.»
Clove e Marvel recuperarono in fretta le loro armi e con feroce determinazione si diressero tutti e  tre verso i boschi. Erano rimasti solo in otto adesso. I Giochi si stavano dirigendo lentamente verso la fine. La caccia era aperta.

***

All’alba, dopo un breve riposo, visto che tutto taceva, i tre Favoriti rimasti si divisero, dandosi appuntamento il pomeriggio successivo alla cornucopia. Restavano in otto ed escludendo loro tre i tributi da eliminare erano solo cinque. Uno dei quali era probabilmente moribondo. Poi, oltre al Ragazzo Innamorato, restava ancora la ragazza del 12, ovviamente. Il bestione dell’11 e la ragazzina del suo Distretto, che era ancora miracolosamente viva. E poi un altro tributo che Clove non riusciva a ricordare.
L’idea di separarsi non la entusiasmava gran che, ma forse era meglio così. Prima o poi sarebbe successo. Clove si inoltrò nel fitto della foresta, con le orecchie tese a captare il minimo rumore, ma tutto era silenzioso.
Così la ragazza ebbe abbastanza tempo per pensare e lo sfruttò, esaminando per bene la sua situazione. Arrivò perfino ad accogliere l’idea di non presentarsi all’appuntamento alla cornucopia. Quella era la sua occasione per rompere l’alleanza. Perché tornare, poi? Dopo quello che le aveva detto Cato, il suo debito con lui aveva cessato di esistere. Poteva benissimo starsene per conto suo, cercare gli ultimi nemici rimasti ed ucciderli e sperare che il gigante dell’11 trovasse i suoi ormai non più alleati e che si uccidessero tra di loro. L’idea la fece trasalire, il pensiero di Cato e Marvel morti la disorientò per qualche istante.
Pensandoci bene, aveva vissuto con loro per tutto quel tempo, si erano guardati le spalle a vicenda come dei veri compagni. Ma alla fine dovevano morire, o se così non fosse stato voleva dire che sarebbe morta lei. E non era forse meglio abbandonare l’alleanza ora, senza lotte o liti, piuttosto che aspettare di rimanere loro tre e doversi combattere a vicenda? In vecchie edizioni degli Hunger Games aveva visto più e più volte queste situazioni: alla fine, quando restavano pochi tributi, la tensione tra i Favoriti aumentava sempre di più per la consapevolezza che presto uno di loro avrebbe tradito gli altri. Doveva andare così, il vincitore era uno solo. Quella probabilmente era la parte preferita del pubblico: vedere gli alleati litigare e iniziare a colpirsi a vicenda, ammazzando quelli che fino a pochi minuti prima avrebbero potuto considerare compagni.
Non era forse meglio evitare tutto questo? Lei, che ne aveva l’occasione, avrebbe dovuto farlo. E lo avrebbe fatto.
Non avrebbe mai più rivisto Marvel... o Cato. Mai più: l’alleanza era rotta.


Andò avanti tutto il giorno cercando di imprimersi per bene quel pensiero nella mente. Quando si accorse che il momento dell’incontro era vicino, cercò di non pensarci e concentrarsi sulla caccia. Ma non incontrò nessuno per tutto il giorno, solo qualche animale selvatico. Per battere la noia ed evitare di crucciarsi sulla sua decisione, iniziò a tirare coltelli a bersagli immaginari, colpendo anche qualche animaletto.
Proseguì in questo modo fino a quando ormai la sera iniziò a calare in lontananza. In quel momento sentì due distinti spari di cannone spezzare il silenzio, a breve distanza l’uno dall’altro. Due spari. Due tributi morti.
Chi erano?
L’agitazione si impadronì di lei. Due morti.
Cosa doveva fare?
Si fermò, in preda all’angoscia. E se fossero stati Cato e Marvel? Possibile che qualcuno avesse teso loro un’imboscata alla cornucopia? Clove non sapeva darsi una risposta, ma era certa che doveva scoprirlo, e subito, altrimenti l’ansia l’avrebbe uccisa. Non poteva aspettare che comparissero le loro foto in cielo. Doveva sapere e subito.
Mettendo da parte i suoi propositi di non tornare più alla cornucopia, iniziò a correre proprio in quella direzione. Non si era resa conto di essersi allontana così tanto e quando finalmente arrivò nello spiazzo non aveva più fiato e le gambe le dolevano.
E poi lo vide. Alzò lo sguardo verso di lei e balzò in piedi.
«Clove!»
Cato. Era vivo. Cato era vivo, il colpo di cannone non aveva segnato la sua morte. Era vivo. E lei era tornata alla cornucopia e ora non avrebbe più potuto scappare via. Si maledisse mentalmente per la sua codardia. Alla fine, dopo tutto quello che aveva pensato, dopo la decisione che aveva preso con difficoltà, era comunque tornata.
«Dov’è Marvel?» Chiese lei correndogli incontro.
«Io... non lo so. È  da quasi un’ora che aspetto qui. Credevo foste morti tutti e due.»
Clove riprese fiato. «Io credevo che voi foste morti.»
«Forse non tornerà.» Disse Cato, scrutando i boschi come se Marvel vi potesse spuntare fuori da un momento all’altro.
«Stai dicendo che è morto?» Per un istante Clove arrivò persino a pensare che Cato avrebbe potuto ucciderlo. Forse era il suo piano fin dall’inizio, farli dividere e ucciderli uno alla volta. Forse ora avrebbe ucciso lei.
«No. Forse non tornerà più perché non vuole farlo.» Fu allora che Clove capì cosa intendeva Cato. Stava pensando a quello che aveva pensato lei per tutto il giorno: rompere l’alleanza. «Credevo che tutti e due aveste pensato di non tornare più.» Fece una breve pausa, poi la guardò intensamente «Perché sei qui?»
La domanda colse Clove di sorpresa. «Perché tu sei qui?»
Cato scosse la testa ma non rispose e lasciò cadere l’argomento. Già, perché Clove era lì? Doveva solo restare ferma nel suo proposito e non tornare mai più. Invece le sue gambe avevano corso senza fermarsi fino a quando lei non aveva scorso la testa bionda di Cato. Improvvisamente, mentre lo guardava sedersi stancamente su una cassa di plastica annerita, le tornò in mente quando era bambino, quando lo aveva conosciuto. Era passato così tanto tempo.
Non potendo fare altro, Clove si lasciò cadere al suo fianco,passandosi le mani nei capelli ormai sporchi e spettinati.
«Ma il cannone ha sparato due volte. Chi è morto?» Chiese lei, arrovellandosi.
Cato scosse la testa. «Non lo so, non ho incontrato nessuno per tutto il giorno.»
Nemmeno lui aveva avuto fortuna, allora. Clove chiuse stancamente gli occhi. Cosa ne sarebbe stato di lei adesso?


Dopo molti minuti di silenzio partì l’inno di Capitol. Subito Cato e Clove alzarono lo sguardo al cielo. Era il momento della verità, avrebbero finalmente scoperto per chi erano suonati quei due colpi di cannone.
L’inno si spense. Lo schermo si illuminò. Su di esso vi comparve lo stemma di Capitol e poi... E poi comparve la foto di Marvel.
«Marvel...» Sussurrò Clove con voce bassa. Il suo cuore accelerò e lei non poté negarsi di essere dispiaciuta per il ragazzo. Ma doveva succedere. Doveva succedere, si ripeté nella mente, come per convincersi.
La sua foto scomparve e fece posto a quella della ragazzina dell’11. Poi di nuovo lo stemma e poi il cielo tornò ad essere sgombro. I due abbassarono la testa, restando in silenzio. Sei, erano solo in sei ora. Loro due, il tributo dell’11, entrambi quelli del 12 e un altro che non doveva essere una grande minaccia, visto che né Cato né Clove avevano idea di chi fosse.
La conclusione si avvicinava di ora in ora e presto sarebbe arrivato lo scontro finale. E lei era lì, alla cornucopia. Con Cato. Di nuovo, si chiese cosa ne sarebbe stato di lei.


Cato e Clove rimasero in silenzio, dandosi le spalle e scrutando ognuno una determinata zona dell’arena. Erano solo quattro ora gli occhi disponibili per controllare tutto quel vasto campo e non potevano permettersi distrazioni. Si aspettavano un attacco da un momento all’altro. Gli altri dovevano sapere che due dei Favoriti erano morti e ne restavano due soltanto. Avrebbero potuto pensare di poterli sopraffare se avessero agito con astuzia, ma si sbagliavano. Forse avevano prevalso su Marvel, ma lui era solo. E per di più né Cato né Clove sapevano come lui fosse morto.
Se gli altri tributi pensavano di poterli battere, che si facessero avanti. Avrebbero scoperto la forza dei tributi del Distretto 2. Forse, pensò Clove, arrivati a questo punto dei Giochi non era male avere ancora un alleato. O forse, le sussurrò una vocina nella sua testa, era un pessima mossa. Solo le circostanze avrebbero potuto farglielo capire.
Rimasero in silenzio, le orecchie tese, gli occhi attenti quando lo stemma di Capitol City ricomparve nel cielo. I due si raddrizzarono ma non si alzarono. I morti erano già stati annunciati e da allora nessun cannone aveva sparato.
Questo poteva voler dire solo una cosa...
Dopo l’inno vi fu uno squillo di trombe. E le trombe significavano che presto vi sarebbe stato un annuncio. Cato e Clove restarono in silenzio, tesi e trepidanti. Forse quello avrebbe donato loro l’occasione perfetta per scovare gli altri tributi ed ucciderli. Forse gli strateghi avevano deciso di organizzare un festino o un banchetto e quella era la migliore occasione che potessero sperare di ottenere per agire.
Ma Clove si sbagliava, si sbagliava di grosso.
«Attenzione tributi, attenzione!» Tuonò la voce. «Prima di tutto, le nostre congratulazioni ai sei valorosi guerrieri rimasti in gara! Onoriamo il vostro coraggio e la vostra forza!» Vi fu un istante di silenzio e il cuore di Clove iniziò a battere all’impazzata. In quel preciso momento avrebbero potuto udire quella che sarebbe stata la svolta finale dei Giochi.
«Ho un importante annuncio da comunicarvi, perciò prestate la massima attenzione. Devo annunciare un... cambiamento nelle regole!» Clove si fece ancora più attena, con il cuore in gola. «La regola che imponeva l’incoronazione di un solo vincitore è stata... sospesa. Da questo momento potranno essere incoronati due vincitori se entrambi provengono dallo stesso Distretto e se saranno gli ultimi due a restare in vita.» Ci fu una pausa. Il cuore di Clove si fermò temporaneamente, o almeno così le sembrò. Prima che potesse formulare una qualsiasi ipotesi, la voce riprese a parlare. «Ripeto: da questo momento potranno essere incoronati due vincitori se provengono dallo stesso Distretto e se saranno gli ultimi due a restare in vita. Buona fortuna e possa la sorte essere sempre a vostro favore.» La comunicazione terminò e piombò di nuovo in silenzio. Clove non si mosse, non respirò. Doveva essere uno scherzo, un terribile scherzo. Non poteva essere vero, non poteva. Dopo tutto quello che aveva vissuto, quello che aveva pensato. Di uccidere Cato, di vederlo morire o di soccombere trafitta dalla sua spada... ora questo.
Potevano vincere entrambi. Potevano tornare a casa.
Alle sue spalle sentiva silenzio, nemmeno il suono di un respiro. Lentamente si alzò in piedi. Le gambe tremanti quasi non la ressero. L’emozione le stava quasi facendo venire le lacrime agli occhi. Un debole sorriso, segno della speranza che rinasce, si fece largo sulle sue labbra. Non ebbe il coraggio di voltarsi, aveva paura che, se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che l’annuncio era stato tutto un sogno.
Lentamente, come se una forza indefinita la bloccasse, si voltò verso Cato. Anche lui si era alzato, e la guardava. La guardava come non faceva da giorni. O forse come non aveva mai fatto. I suoi occhi azzurri brillavano, non erano più cupi e distanti, erano vivi più che mai, una fiamma danzante sotto il cielo che andava scurendosi. Anche sulle sue labbra si dipinse un grande sorriso.
Senza dire una parola, senza nemmeno pensare, semplicemente seguendo il suo istinto, Clove corse verso Cato. Anche lui avanzò di qualche instabile passo vero di lei. E allargò le braccia. Clove vi si gettò dentro con uno slancio un po’ troppo forte e per poco non caddero entrambi a terra. Lo abbracciò come se fosse la cosa più naturale al mondo.
Lei lo strinse così forte come non aveva mai fatto con nessuno e con sua sorpresa anche lui la strinse, sollevandola da terra e fino quasi a farle male. Ma a Clove non importava, il dolore se n’era andato via, lontano. La tensione le scivolò di dosso come acqua, lasciando solo un senso di calore e forza. E di ritrovata speranza.
Una sola, calda lacrima le scivolò sulla guancia, andandosi a posare sulla giacca di Cato. Ma poi lei iniziò a ridere, più felice di quanto non fosse mai stata in vita sua. Anche lui rise, iniziando a girare in tondo. No, non era un sogno. Era reale.
Le regole erano state cambiate. Potevano vincere entrambi.
Tutte le angosce che le avevano affollato la mente si dissolsero mentre entrambi cadevano a terra, ridendo come dei folli. Ora sì, che erano imbattibili.
Insieme erano più forti e adesso sapevano che avrebbero combattuto fianco a fianco fino alla fine. Non dovevano più preoccuparsi di dover rompere l’alleanza o di doversi combattere. E tutto questo era un’enorme vantaggio, perché c’era solo un’altra coppia in gara e loro presto l’avrebbero trovata ed eliminata. Gli altri invece combattevano soli e sarebbero stati una facile preda per loro due.
Rimasero lì, sdraiati nell’erba a ridere e a fissare il cielo che diventava sempre più scuro fino a quando a Clove cominciò a fare male la pancia. Allora smisero di ridere. Ma la felicità e l’euforia non li abbandonò nemmeno per un istante.
«Torneremo a casa, Clove. Torneremo entrambi a casa.» Le sussurrò Cato, voltandosi verso di lei. Clove sorrise e osservò con interesse la prima stella comparire nel cielo scuro.
«Lo so.» Disse lei, allungando la mano sull’erba e stringendo quella di Cato.
Chissà cosa stava succedendo ora nel Distretto 2. Chissà a cosa pensava suo padre, o Damien o i loro compagni di Accademia. Probabilmente stavano festeggiando, Damien escluso ovviamente, il fatto che i loro ragazzi avrebbero potuto tornare a casa, tutti e due. E chissà cosa pensava tutta Capitol nel vedere quella scena: i due spietati, letali Favoriti che quasi si commuovono nel sentire la modifica delle leggi.
Ad ogni modo, Clove sapeva solo a quello che pensava lei, ovvero che sarebbero tornati a casa tutti e due. E allora avrebbe potuto pensare al futuro senza che una morsa di dolore la attanagliasse.
Lei e Cato, loro ce l’avrebbero fatta. Insieme.


SPAZIO AUTORE

Salve a tutti lettori e lettrici! Ecco finalmente il nuovo capitolo! Allora... che ne pensate?
Siamo arrivati ad un punto davvero cruciale dei giochi: le regole sono cambiate.
Nel libro vediamo solo la reazione di Katniss, ma io ho sempre cercato di immaginarmi la reazione di Cato e Clove. D'altronde, loro era l'unica altra coppia che sarebbe potuta tornare a casa. Ho sempre cercato di immaginare le loro reazioni, le loro emozioni a riguardo. E ho tentato di scriverle (spero in modo decente xD)
Dopo tutti i problemi di Clove, le paranoie, la paura del momento in cui sarebbero rimasti loro due, faccia a faccia sapendo che solo un poteva andare a casa.... E invece questo cambiamento. Be', non mi dilungo oltre, lascio la parola a voi!
Sarei davvero, davvero molto felice di sapere cosa ne pensate, quindi... recensite, mi farebbe piacere ;) Al prossimo capitolo!
Love always,

~ C

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Capitolo 18
*** 18. Together we can make it ***



Till your last breath
CAPITOLO 18
TOGETHER WE CAN MAKE IT



«Se partiamo subito, possiamo farcela.» La voce di Clove era decisa e determinata. Forse non lo era mai stata così tanto nell’arena. Determinata a vincere e a tornare a casa. La ragazza sistemò la sua scorta di coltelli con cura, riponendoli con un ordine preciso nella sua pesante giacca a vento. La sera prima non avevano nemmeno iniziato ad ideare un piano. La felicità li aveva sopraffatti e per quel breve lasso di tempo fuori dal mondo dei Giochi, avevano pensato solo a loro stessi. Avevano festeggiato il cambiamento delle regole. Avevano dormito sereni, spalla contro spalla, senza alcun timore.
Ma ora era arrivato un nuovo giorno, il sole mattutino splendeva in cielo ed era tempo di agire. Non potevano più perdere un solo istante. E poi, avevano un piano.
«Di sicuro adesso 12 starà cercando il Ragazzo Innamorato. Se noi lo troviamo prima di lei, potremmo sbarazzarci di entrambi.» Clove chiuse la zip della sua giacca, tenendo fuori un paio di coltelli da avere a portata di mano. Anche Cato stava finendo di prepararsi e si legava la lunga spada affilata alla cintura. Lei gli lanciò uno sguardo. Avevano entrambi approvato quel piano e speravano di essere fortunati: avrebbero potuto eliminare due avversari in una volta sola e se ci fossero riusciti ne sarebbero rimasti solo altri due, prima della conclusione.
«Perfetto. Sono pronto.» Cato le si affiancò ed entrambi guardarono il bosco. Era davvero enorme e non avevano idea di dove potessero nascondersi il Ragazzo Innamorato o la sua compagna. Però era poco probabile che i due si fossero già ritrovati. L’annuncio era arrivato di sera e trovare qualcuno di notte non era facile per nessuno. Tranne che per Clove e Cato; loro amavano cacciare quando la luce del giorno lasciava il posto al buio della notte.
Ad ogni modo era sorto da poco il sole e di sicuro la ragazza in fiamme si era già messa sulle tracce del suo amato. Dovevano affrettarsi.


Camminarono per ore, sperando di trovarli. Ma non ebbero fortuna. Per qualche strano scherzo del destino, pareva proprio che la fortuna non stesse dalla loro parte in quei Giochi, ma da quella dei due patetici innamorati sventurati del Distretto 12. Come se lo fossero davvero. Ma per loro sfortuna il popolo di Capitol City era talmente ottuso da non rendersi conto che quella era tutta una stupida recita.
Così, dopo ore e ore di ricerche senza frutti, decisero di tornare indietro. Le risorse scarseggiavano ormai e dovevano mantenersi in forze. E comunque, presto o tardi, avrebbero dovuto incontrarsi. Probabilmente gli strateghi stavano già organizzando il loro prossimo intervento e allora non avrebbero più avuto scampo.
«Torniamo al lago.» Propose Cato, facendo dietro front. «È la nostra possibilità migliore. Là almeno avremo l’acqua e al cibo ci penseranno gli sponsor.» Clove fu d'accordo con lui così si rimisero in marcia. Per qualche strana ragione da quando erano rimasti solo loro due i regali degli sponsor sembravano aumentare. Certo, ricevevano molti paracaduti sin dall’inizio dei Giochi, ma allora non aveva bisogno di niente visto che avevano già tutto quello che serviva loro. Ma adesso che le scorte erano letteralmente andate in fumo i doni degli sponsor erano diventati qualcosa di davvero prezioso. Anche perché ormai i tributi da sponsorizzare non erano molti e probabilmente le scommesse su chi avrebbe vinto impazzavano. Clove era quasi certa che loro fossero, in tutti i sensi, i Favoriti alla vittoria. Probabilmente però nei sondaggi vi era un testa a testa tra loro e i due innamorati. Ma cosa avevano quei due che avrebbe potuto portarli alla vittoria? Solo la fortuna. Cato e Clove invece ce l’avrebbero fatta con le loro forze.
Poi restava il tizio dell’11. Probabilmente anche lui poteva avere un discreto numero di sponsor, ma Clove non l’aveva mai visto in giro, nell’arena. E poi l’altro tributo di cui non ricordava né il nome né il volto.
Camminarono per un po’ e finalmente arrivarono al punto di partenza. Si lasciarono cadere stancamente al limitare della foresta, vicini al lago. La loro missione era fallita, ma Clove non captava veri e propri segni di delusione nell’aria.
«Ci è andata male.» Disse Cato, alzando lo sguardo al cielo. «Ma è solo questione di tempo prima che gli strateghi organizzino qualcosa per farci ritrovare. E allora ci sarà la resa dei conti.»
«Non vedo l’ora.» Gli rispose Clove, sorridendo meschinamente all’idea.
Poi però si fermò un istante a pensare. «Sai cosa ci servirebbe, per quando arriverà quel momento?» Disse, mentre un’idea si faceva largo nella sua mente. «Un’armatura. Tipo quelle che ci facevano usare all’Accademia. So che siamo in due e siamo forti, ma è meglio non sottovalutare i nemici. Soprattutto 12. Ha arco e frecce e da quel che ho capito è capace di usarle molto bene. Se ci tendesse un agguato, saremmo del tutto vulnerabili.» Clove lanciò uno sguardo a Cato e lo vide pensieroso. Stava considerando l’idea.
Le armature che avevano all’Accademia non erano come quelle che avevano indossato alla sfilata. Prima di tutto, non erano così vistose. Niente oro, niente scaglie di drago. Erano semplici e color carne e aderivano al corpo come una seconda pelle, proteggendone ogni centimetro. Erano da portare sotto i vestiti così da sembrare invisibili; i nemici ti colpivano ma non riuscivano a ferirti e non ne capivano la ragione. Occupavano poco spazio ma allo stesso tempo erano molto resistenti. Forse avrebbero ceduto sotto vari colpi di spada, ma avrebbero sicuramente resistito a delle frecce.
«Forse qualche sponsor generoso ce le potrebbe procurare.» Cato guardò in alto e ammiccò, certo che qualche telecamera lo stesse riprendendo.
Anche Clove alzò lo sguardo al cielo, lanciando però un muto messaggio. Avere le armature sarebbe stato grandioso, ma c’era una cosa che desiderava ardentemente riavere con tutte le sue forze, per l’atto finale dei Giochi. Però sapeva bene che il suo desiderio non era realizzabile. Così abbassò di nuovo lo sguardo su Cato.
«Sono felice, sai, di poter contare su di te fino alla fine. Insieme siamo più forti.»
Lui le sorrise. Non lo disse, ma era ovvio che la pensava come lei. Clove poteva leggerglielo negli occhi azzurri. Quegli occhi che non aveva guardato per così tanto tempo, perché erano sempre distanti e opachi, come se la loro luce si fosse spenta.
Improvvisamente, Cato balzò in piedi e si diresse con due lunghi passi all’albero più vicino. Quello aveva un  ramo robusto a qualche metro dal suolo sul quale il ragazzo si issò senza troppi problemi. A differenza dell’albero sul quale si era arrampicato per inseguire 12, quello resse il suo peso.
«Vieni?» Le chiese, allungando la mano. «Da qui si vede tutto.»
Clove si alzò e lo raggiunse. Ignorò la sua mano tesa e si issò sull’albero più goffamente di Cato, ma ad ogni modo si ritrovò seduta al suo fianco, a soli pochi centimetri di distanza da lui. Davano le spalle ai boschi e da lì potevano vedere il lago e la cornucopia in lontananza. E poi, dietro quella, lo spiazzo vuoto che sembrava culminare in un burrone dove loro non avevano mai messo piede.
«Ho sentito dire che quello è il territorio di Thresh.» Le disse Cato, indicando lo strapiombo.
«Di chi?» Chiese Clove, cercando inutilmente di capire se fosse davvero un burrone o se ci fosse qualcosa al di là.
«Thresh. Quello dell’11. Dicono che al di là ci siano dei campi.» Le disse Cato, come se le avesse letto i suoi pensieri. Ecco perché 11 aveva scelto di andare là. Il suo Distretto era quello dell’agricoltura.
«Oh. Lui. Sembra un osso duro.»
Cato annuì. «Credo che lo sia. Ma noi siamo in due e lui è solo. Non dobbiamo preoccuparcene.»
«No, hai ragione.» Clove sorrise. Sembrava un sogno essere lì con Cato, pianificare quello che avrebbero fatto, studiare i loro nemici e constatare di poterli facilmente battere, assieme. Senza più il peso opprimente del dover rompere l’alleanza e scontrarsi tra di loro. Chissà com’era felice Damien, a casa. Ora che il suo diabolico piano era fallito.
Ci fu un istante di silenzio e Clove guardò Cato di sottecchi. Con stupore, realizzò che il sorriso gli si stava affievolendo sulle labbra. Clove si voltò in fretta verso la zona che, come lui le aveva detto poco fa, era il territorio di Thresh. L’aveva forse visto arrivare in lontananza? Ma no, guardò attentamente in tutte le direzioni. Nessuno stava arrivando. Si voltò di nuovo a guardare Cato.
«Sai...» Iniziò lui, con voce bassa, come se stesse quasi sussurrando. «Quando mio padre mi ha detto che mi sarei dovuto offrire volontario per i settantaquattresimi Hunger Games non avevo idea di chi sarebbe stato l’altro tributo.» Fece un pausa e abbassò lo sguardo. Clove invece continuò a fissarlo intensamente. «L’ho scoperto solo al giorno della mietitura.»
Il cuore di Clove perse un battito. Improvvisamente la sua mente tornò indietro, veloce come un fulmine, tornò a quel giorno. Lei si era offerta volontaria e poi aveva cercato il volto di Damien tra la folla, ma non lo aveva trovato. L’uomo di Capitol aveva chiesto se ci fossero volontari tra i ragazzi. Ma nessuno aveva risposto. Clove aveva pensato che quel codardo di Damien si fosse tirato indietro all’ultimo momento. Ma si era sbagliata.
Perché non era stata la sua voce a parlare, poco dopo. Ma quella di Cato.
Cato, che aveva esitato prima di proclamare con voce decisa che si sarebbe offerto.
Cato aveva esitato. Clove non ci aveva più pensato dopo quel giorno, aveva semplicemente dimenticato quel fatto, ma ora lo ricordava nitidamente, come se le stesse accadendo davanti agli occhi in quel preciso istante.
Cato alzò lo sguardo su di lei, rivolgendole un mezzo sorriso colmo di qualcosa che sembrava tristezza mascherata da ironia.
Aveva esitato perché non si aspettava di vedere lei offrirsi volontaria.
E si era offerto perché suo padre aveva deciso così. E la posizione di suo padre superava quella del padre di Damien. Per questo c’era stato lo scambio.
Clove aveva sempre pensato che Cato lo sapesse, sapesse che lei si sarebbe offerta e che non gliene importasse nulla. Ma questo, quelle parole... quelle cambiavano tutto.
Ora fu lei ad abbassare lo sguardo. «Nemmeno io sapevo che saresti stato tu.» Ammise con voce sottile. Sentì uno strano calore pervaderla e salirle fino alle guance, infiammandole.
«Cosa?» Chiese lui, sorpreso.
«Io... io pensavo sarebbe stato Damien. Ma lui mi ha imbrogliata. Me lo ha fatto credere fino alla fine. Alla mietitura, pensavo si sarebbe offerto lui. Ma ho scoperto che mi sbagliavo. Ovviamente.» Anche sulle labbra di Clove si dipinse un debole sorriso di falsa ironia.
«Ora capisco cosa intendevi nelle interviste.» Cato tornò a fissare il cielo, con un sorriso divertito sulle labbra. «Quando dicevi di volerti vendicare di un ragazzo. Ora capisco il perché. E sappi che ti aiuterò a farlo, una volta tornati a casa.» Proclamò lui con decisione. «Quel maledetto ragazzino ne ha già combinate troppe, per i miei gusti. Credo sia ora di mettere fine alla sua patetica esistenza.»
Clove si mise a ridere mentre pensava a Damien, che probabilmente ora li stava osservando carico di rabbia e paura perché loro avevano appena decretato la sua morte. E mentre lei rideva, Cato estrasse la spada e con un movimento fluido fendette l’aria sopra le loro teste. Clove lo guardò senza capire ma poi sentì un suono ai suoi piedi, parecchi metri più sotto. Abbassò lo sguardo e vide un piccolo oggetto metallico che fumava e sfrigolava.
«Quella è... è una telecamera
«Sì.» Rispose Cato ridacchiando.
«Ma come... come...»
«Non ti stanchi mai? Di essere osservata dico. Io sì, così ho capito come eliminarle. Almeno per qualche minuto. Qualche minuto di tregua»
Entrambi si misero a ridere. Clove guardava Cato. Non le sembrava neanche più di essere nell’arena degli Hunger Games, le sembrava di essere a casa, al Distretto 2. E ora che tutto era chiaro, ora che avevano realizzato che nessuno dei due sapeva che avrebbe trovato l’altro nell’arena, sembravano essersi aperte un migliaio di porte davanti a loro. Tante domande ottennero risposta, tanti dubbi vennero chiariti.
E Clove capì che quando Cato era distante e la trattava come una sconosciuta, stava semplicemente pensando a quello che lei aveva pensato sin dall’inizio. Al fatto che si sarebbero dovuti uccidere, al fatto che, alla fine dei Giochi, uno dei due non sarebbe tornato a casa. Clove avrebbe voluto sapere a cosa pensava Cato in quei momenti. Ma ora lo sapeva. Non poteva essere più chiaro di così.
Allora, dopotutto, non era vero che non gli importava di nulla. Perché tutto ciò voleva dire che, alla fine, Cato ci teneva a lei. In un qualche modo contorto e incomprensibile, ma doveva essere così.
«Non sopportavo l’idea di ucciderti.» Le confessò Cato, come se le avesse letto nel pensiero. «Sapevo che, una volta arrivato il momento, avrei dovuto farlo. Che altra possibilità avevo?» Il ragazzo abbassò lo sguardo, come se si vergognasse di quello che aveva detto. Clove, seguendo il suo istinto, abbassò la sua mano, posandola sopra quella di lui, stringendola. Non doveva sentirsi male per aver pensato di doverla uccidere. Anche lei lo aveva fatto. D’altronde, non c’era altro modo. Stava per dirglielo, ma lui riprese a parlare, abbassando lo sguardo sulle loro mani intrecciate.
«Non siamo mai stati veramente amici a casa, ma... alla fine credo di essermi affezionato a te. Alla ragazza che ho conosciuto quando ero ancora un bambino. Che mi aveva guardato dritto negli occhi, con aria di sfida.» Cato ridacchiò al ricordo. Clove non pensava nemmeno che lui ricordasse ancora quel giorno. Ma il ragazzo non le diede il tempo di commentare e proseguì. «La ragazza che a soli nove anni avrebbe potuto stendere quell’idiota di Damien e tutta la sua banda. Che malgrado una così grande sofferenza...» Disse, alludendo alla perdita della madre. «È stata in grado di entrare all’Accademia e di battere tutti diventando una dei più forti. Quasi al mio livello.» Concluse ridacchiando.
Clove sorrise. Le loro mani si stringevano ancora. Non erano mai stati così vicini. La telecamera era ancora a terra, fumante. Era come se fossero soli, in quel momento. Nessuno poteva vederli, negli schermi del reality. Così, abbandonandosi a quei pensieri, fu come se una forza esterna li spingesse una verso l’altro, attirandosi come delle calamite, come due pezzi di un qualcosa che erano destinati a riunirsi. Le loro labbra si sfiorarono, leggere come la brezza che soffiava tra le foglie degli alberi. La mano di Clove si posò sulla guancia di Cato, proprio dove solo pochi giorni prima vi aveva estratto il pungiglione velenoso di un ago inseguitore. Il cuore le batteva forte, mentre Cato appoggiava la fronte alla sua, chiudendo gli occhi.
«Vinceremo Clove. Torneremo a casa. È così che deve andare.» Sussurrò piano lui.
«Andrà così, Cato.» Le rispose lei, sussurrandogli a fior di labbra.


Quello stesso giorno fu lo squillo di trombe a rompere il silenzio, com’era successo la volta precedente. La pace che si era creata nella radura, l’armonia, la tranquillità fu come spazzata via da quel suono. Cato e Clove balzarono in piedi, uno affianco all’altra, e alzarono lo sguardo al cielo, dove lo stemma di Capitol aveva oscurato ogni cosa.
Pensarono entrambi la stessa cosa, probabilmente, perché la mano di Clove cercò quella di Cato e quando la trovò, lui la strinse con forza. No no no no no no no. Ti prego, no.
Il terrore la pervase, facendola quasi tremare. Non potevano farlo. Non potevano annullare la nuova regola dei due vincitori. Non ora, non dopo quello che era successo tra di loro, quello che si erano detti... non potevano.
Ma i nervi di Clove, e anche quelli di Cato, si sciolsero immediatamente quando sentirono l’annuncio. Un festino.
Ecco cosa gli strateghi avevano organizzato per riunirli e farli combattere.
«Badate bene, questo non sarà un festino ordinario.» Esclamò la voce che dava l’annuncio. «Ognuno di voi ha disperatamente bisogno di qualcosa.» Ci fu una pausa. «E troverete quel qualcosa alla cornucopia, all’alba. Pensateci bene, prima di rifiutare. Per alcuni di voi potrebbe essere l’ultima opportunità.» La voce si spense e il cielo tornò limpido.
La tensione di poco prima se n’era già andata e sulle labbra di Cato e Clove si era già dispiegato un sorriso d’intesa. Proprio quando avevano realizzato di aver bisogno di qualcosa ecco che gli strateghi gliela offrivano su un piatto d’argento. E non solo stavano donando loro le armature, ma anche una grande occasione.
Si scambiarono uno sguardo.
«È il nostro momento.»
Clove annuì. «Sì. Sarà la nostra migliore occasione per concludere tutto questo. Ci saranno tutti, ne sono certa. Se ognuno dei tributi rimasti ha un bisogno disperato di qualcosa, saranno tutti là.»
«Scommetto che 12 avrà bisogno di una medicina.» Cato sghignazzò. «Sai, per curare il Ragazzo Innamorato.»
«Lo penso anche io. Lei ci sarà di sicuro. E noi non ci faremo cogliere impreparati, non questa volta.» La voce di Clove si fece spietata e beffarda. «Sarà l’ultima volta che vedrà la cornucopia. Sarà l’ultima volta che vedrà qualsiasi cosa.» Sussurrò Clove, con determinazione.
«Ci puoi giurare. Ora dobbiamo solo organizzarci. Organizzare il piano d’attacco.»
Clove annuì e i due decisero di spostarsi al limitare della foresta. Non era bene stare troppo vicini alla cornucopia, era meglio osservarla da lontano, da dietro il lago, in modo da avere la situazione sotto controllo mentre pianificavano come agire per il festino.
Mentre si inoltravano nel bosco però, Clove fermò Cato. Lo sguardo della ragazza era più serio che mai.
«Che c’è? Che succede?»
«Voglio solo chiederti una cosa.» Clove fece una pausa e il suo sguardo si fece feroce. «Lascia a me la ragazza. Mi occuperò io di lei, questa volta. Voglio mettere fine io alla sua vita. Ti prometto che se me lo lascerai fare, offrirò al pubblico un bello show.»
Cato la osservò per qualche istante, in silenzio. Gli occhi di Clove sembravano sparare scintille. L’odio per quella ragazza era aumentato ancora di più, dopo l’annuncio dei due vincitori. Clove sapeva che avrebbe lottato per salvarsi la pelle e per riportare a casa anche il suo ragazzo. Ma lei era stufa di tutta quella recita. Erano arrivati fin lì solo perché avevano finto di essere innamorati sventurati. Ma ora era il capolinea. La cornucopia sarebbe stata l’ultima fermata per la ragazza in fiamme.
Cato si aprì in un sorriso divertito. «Ok. Va bene, suppongo di dovertelo. Mi è già sfuggita due volte. La lascerò a te. Però... stai attenta.»
Clove sorrise, raggiante. «Non preoccuparti, so quello che faccio.»
Detto questo, si avviarono per iniziare a progettare il loro piano. Questa volta ci sarebbero riusciti, se tutto fosse andato bene avrebbero potuto eliminare tutti i tributi rimasti. E allora sarebbero rimasti loro due. E sarebbero stati incoronati vincitori.


SPAZIO AUTORE

Saaalve lettori e lettrici!
Sono davvero davvero curiosa di sapere cosa ne pensate di questo capitolo, con un'atmosfera decisamente diversa da quelle dei capitoli scorsi ambientati nell'arena! Avevamo lasciato, nello scorso capitolo, Cato e Clove al settimo cielo per l'annuncio dei due vincitori. Ora abbiamo visto come questo annuncio li abbia fatti aprire uno verso l'altra. Cato non sapeva che Clove si sarebbe offerta volontaria. E – ma questo lo sapevamo già – nemmeno Clove lo sapeva. Alla fine, Cato non è una macchina senza sentimenti, per niente. O almeno, questa è la mia versione della storia :D
Spero non abbiate trovato il tutto troppo “sdolcinato”, in tal caso, mi scuso! Ma ci tenevo davvero a dare a loro due almeno un momento di pace nell'isteria dell'arena ♥
Ora la smetto di blaterare e lascio a voi la parola! Ricordatevi che un commento mi fa sempre piacere ;)
Grazie a tutti e al prossimo capitolo ♥

~ C


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Capitolo 19
*** 19. Stay With Me ***



Till your last breath
CAPITOLO 18
STAY WITH ME



Il bosco era buio e silenzioso. Gli alti rami stipati di foglie scure oscuravano il cielo ma Cato e Clove camminavano veloci, a proprio agio anche nel buio. Sapevano che mancava poco all’alba, ormai. Il tempo dell’azione si avvicinava sempre di più.
Il loro piano era pronto, ora. E loro si stavano spostando per occupare le posizioni prestabilite. Cato si sarebbe nascosto al limitare della foresta, vicino alla territorio misterioso e inesplorato dove si nascondeva Thresh. Clove invece si sarebbe nascosta nel bosco, vicina alla cornucopia. In quel luogo, avrebbe aspettato fino a quando la ragazza del 12 non si fosse decisa ad uscire allo scoperto. Solo allora avrebbe attaccato. E una volta partita, non si sarebbe dovuta preoccupare di nulla se non di ucciderla. Cato le copriva le spalle e avrebbe intercettato Thresh non appena lo avesse visto dirigersi alla cornucopia. Una volta uccisa 12, Clove sarebbe corsa ad aiutarlo, nel caso ne avesse avuto bisogno, ovviamente, per sconfiggere il nemico. Se fossero stati fortunati, avrebbero trovato anche l’ultimo tributo e poi sarebbe rimasto solo il Ragazzo Innamorato. Ma erano certi che, senza la medicina di cui aveva disperatamente bisogno, la natura l’avrebbe ucciso prima ancora che loro lo trovassero.
Questo era il loro piano. E se tutta andava come avevano previsto, i Giochi sarebbero presto finiti. E loro sarebbero stati incoronati vincitori. Presto, avrebbero potuto tornare a casa.
Immersa nei suoi pensieri, Clove quasi non si rese conto di essere arrivata. Erano ad un bivio ora e lì le loro strade si sarebbero divise: lei si sarebbe diretta verso il limitare della foresta, verso la cornucopia; Cato avrebbe proseguito dritto, girando attorno alla radura e portandosi il più vicino possibile al luogo dove si sarebbe nascosto Thresh.
Si fermarono. Erano sicuri del loro piano, erano decisi, pronti e combattivi. Letali e senza scrupoli. Ma in quel momento, in quel solo momento, esitarono. Clove non avrebbe voluto dividersi da lui, ma sapeva che era la cosa giusta da fare. Andare tutti e due alla cornucopia sarebbe stata una follia. Thresh avrebbe potuto tendere loro un’imboscata ed ucciderli. Dovevano dividersi, non c’era altro modo.
Clove abbassò lo sguardo. «Allora siamo arrivati. Buona fortuna, Cato.»
Lui le si avvicinò e la costrinse a guardarlo. Le strinse le mani, i loro volti erano così vicini che a lui bastò sussurrare per farsi sentire. Clove ricordò quando le loro labbra si erano sfiorate, il giorno prima. Era inesperta in materia, ma era stata una sensazione magnifica, che l’aveva scaldata dall’interno. E ora il solo pensiero di perdere Cato la faceva sentire come prima, come quando aveva paura del futuro, quando pensava che avrebbe dovuto ucciderlo.
«Non abbiamo bisogno di fortuna, Clove.» Le sussurrò Cato. «Noi abbiamo la forza e la tecnica. Non ci serve altro.»
Clove sorrise debolmente. Non voleva che Cato la vedesse tesa. «Ad ogni modo, sii prudente.»
«Anche tu. Ma non preoccuparti, ci rivedremo presto. E a quell’ora i Giochi saranno finiti e io e te saremo i vincitori. Ok?»
Clove annuì ma non riuscì a trattenersi e lo strinse per qualche secondo in una abbraccio. Inspirò a fondo, cercando di assorbire la forza e la sicurezza che l’abbraccio di Cato le trasmise. «Vai, ora.»
Lui si sciolse dall’abbraccio e le strinse la mano un’ultima volta. Poi, dopo averla guardata bene, come se volesse imprimesi il suo volto nella memoria, si voltò e si inoltrò nel bosco. Clove rimase qualche istante ad osservarlo mentre si allontanava, fino a quando l’oscurità lo inghiottì e lui scomparve nel buio. Allora prese un profondo respiro e riprese la sua strada. Non poté evitare però di pensare ancora a Cato. A come fossero cambiate le cose tra loro. Prima dei Giochi erano solo conoscenti e niente di più. Ora invece... invece cos’erano? Amici? Forse. Qualcosa di più? Clove non lo sapeva, sapeva soltanto di tenere a lui più di ogni altra cosa al mondo. Ci teneva così tanto che il solo pensiero di perderlo le faceva male.
Ma ora, pensò iniziando a intravedere la luce dell’alba e lo scintillio della cornucopia, non poteva permettersi di pensare a lui. Doveva concentrarsi sul presente, sul piano.
Doveva essere concentrata al massimo, non poteva permettersi di fallire. Non ci sarebbero state altre possibilità altrimenti. Doveva scacciare, sebbene a malincuore, tutti i pensieri su Cato. Lui la distraeva, i ricordi le annebbiavano la mente, i sentimenti ancora incompresi che provava per lui la rendevano debole. Doveva isolarli e rinchiuderli in un recesso remoto della sua testa. Almeno per allora.
Doveva tornare ad essere Clove, la ragazza fredda e calcolatrice. Letale e senza scrupoli. Strinse tra le mani un paio di coltelli e subito il freddo famigliare del metallo le infuse forza e sicurezza. Clove, la ragazza che non sbaglia mai il colpo.


Rimase in silenzio a lungo, acquattata nell’ombra, in attesa. Aveva visto il lungo tavolo con gli zainetti adagiati sopra. Lì dentro c’erano le cose delle quali ognuno di loro aveva disperatamente bisogno; tra di essere, le loro armature. Erano quattro zainetti. Il primo aveva sul davanti un grosso numero due. Il loro.
Il secondo aveva un cinque. Quindi il tributo di cui non si ricordava veniva del Distretto 5. Probabilmente era la ragazza, ragionò Clove. Se non ricordava male il ragazzo era morto nel bagno di sangue. Cercò in ogni modo di ricordarsela ma aveva solo vaghi ricordi. Non era nulla di eccezionale durante gli allenamenti. Non era una minaccia per lei. Probabilmente era sopravvissuta grazie all’ingegno, molti altri tributi l’avevano fatto in altre edizioni. Di fianco allo zaino con il numero cinque ce n’erano due. L'undici, ovviamente, quello di Thresh e di fianco quello del dodici, che doveva contenere la medicina del Ragazzo Innamorato.
Clove rimase pazientemente in attesa fino a quando notò un movimento. Ma, con sua grande sorpresa, non proveniva dalla foresta. Arrivava da dentro la cornucopia.
Clove si mise sull’attenti, pronta a partire all’attacco. Ma poi si fermò.
Era la ragazza del 5. Si era nascosta nella cornucopia e ora afferrava velocemente il suo zaino e poi si dirigeva verso il bosco, correndo rapida e senza mai voltarsi indietro. Dunque era davvero per questo che era sopravvissuta. Astuzia e ingegno. C’erano molti tributi che arrivavano vicino alla vittoria restando nascosti per tutti i Giochi, senza uccidere nessuno, semplicemente sopravvivendo. Quella doveva essere la tattica della ragazza dai capelli rossi del 5. Clove strinse i pugni, costringendosi a stare ferma e a non attaccare. Un preda scoperta come quella sarebbe stata facile da abbattere, anche perché pareva del tutto disarmata. Ma non poteva fare nulla, doveva attenersi al piano e aspettare che arrivasse la ragazza del 12.
Proprio mentre passava lo sguardo verso i boschi per capire se stesse succedendo qualcosa, la vide. La ragazza in fiamme.
Si era fatta avanti dopo aver visto quella del 5 fuggire e ora si guardava attorno, circospetta, indecisa sul da farsi. Non c’era traccia del Ragazzo Innamorato. Clove indietreggiò tra gli alberi e quando fu certa di non poter essere vista, iniziò a correre. Si portò in fretta sul retro della cornucopia e corse allo scoperto. Ma da quella posizione, 12 non poteva vederla. Rallentò la sua corsa solo quando le sue mani si posarono sul metallo della coda della cornucopia. Riprese fiato.
E attese in silenzio. Poi sentì. Sentì i passi veloci di 12 che correva sull’erba, dalla parte opposta a lei, dritta verso la bocca della cornucopia. Clove non ebbe esitazioni.
Si buttò di lato e aspettò solo un frazione di secondo, per identificare la posizione della sua preda. La vide, era lei. Questo le bastò. Scagliò con furia il suo primo coltello.
La ragazza però riuscì a deviarlo e le sparò contro una freccia, dritta verso il suo cuore. Clove si scansò veloce, ma non abbastanza. La freccia arrivò sibilando e la colpì al braccio sinistro. Rallentò l’andatura ed estrasse la freccia, gettandola a terra con rabbia e poi lanciò il secondo coltello. Questa volta il colpo andò a segno.
Lo capì dal sangue che iniziò a fuoriuscire da una ferita superficiale alla fronte di 12. Non era una ferita mortale, ma bastò a disorientarla. Infatti quando lanciò un’altra freccia nella sua direzione, fu facile per Clove evitarla. Approfittando della debolezza del nemico, le si gettò addosso con furia e la forza dell’impatto le fece cadere entrambe a terra.
La ragazza in fiamme sbatté la schiena con violenza e chiuse gli occhi ma non si arrese e cercò in ogni modo di disarcionarla. Si ritrovarono a rotolare sull’erba un paio di volte, combattendo con braccia e gambe. Ma alla fine, ovviamente, Clove ebbe la meglio.
Con prontezza, si apprestò a bloccarle le ginocchia in modo che non potesse più sfuggirle. Era sua ora, la preda era caduta nella trappola della predatrice. E quella era un trappola senza vie di fuga, pensò Clove con malvagità, stringendo la presa.
«Dov’è il Ragazzo Innamorato? È ancora in giro? Aspetta che tu gli porti la medicina? Che cosa dolce.» Sussurrò Clove, la voce profonda e carica di veleno mentre teneva bloccata la sua preda a terra. Guardò da così vicino il volto della ragazza che tanto odiava per la prima volta. Non era nulla di speciale, era solo una ragazza, una normale ragazza.
Ma Clove la odiava, perché li aveva presi in giro tante volte nell’arena, le era sfuggita, aveva preso un voto più alto del suo alle sessioni con gli strateghi. Aveva attirato tanti sponsor non per un suo merito personale, ma solo grazie alle abilità del suo stilista e allo show del Ragazzo Innamorato. Cos’aveva fatto di suo pugno? Cosa? Nulla.
Aveva solo accettato la fortuna che le era piombata addosso e usato bene il suo maledetto arco. Tutti l’amavano già dal principio perché si era offerta volontaria al posto della sorellina. La sua fama era cresciuta dopo la sfilata, perché il suo stilista aveva deciso di mandarle in fiamme il vestito. Poi c’era stata la volta delle sessioni private. E poi alle interviste, dove si era messa a volteggiare in modo così sciocco, mandando in fiamme anche quel secondo abito. E poi era arrivata tutta quella balla colossale degli innamorati sfortunati. Clove non metteva in dubbio il fatto che lui fosse innamorato di lei. Ma lei non lo era. Non le importava niente di tutto quello show, voleva solo tornarsene a casa. Ma non ce l’avrebbe fatta. Clove l’avrebbe impedito. Avrebbe dimostrato che la fortuna non sempre può vince.
«Lui è la fuori. Sta dando la caccia a Cato.» Disse la ragazza, guardandola con sfida. «Peeta!» Urlò poi. Clove le premette il gomito sulla trachea, impedendole di urlare, poi si guardò attorno, attentamente. Ma il Ragazzo Innamorato non si vedeva. Stava bluffando, era ovvio. La cosa che odiava più di tutto, era la sua spavalderia. Ma preso avrebbe perso anche quella. Presto avrebbe perso tutto.
«Bugiarda.» Le disse Clove sorridendo con aria di scherno. «Cato l’ha colpito ed è un miracolo che sia ancora vivo. L’avrai lasciato da qualche parte, morente, in attesa della sua medicina. Peccato che non la otterrà mai.» La ragazza si aprì la giacca e afferrò un nuovo coltello, piccolo e dalla lama ricurva. «Ho promesso a Cato che, se ti avesse lasciata a me, avrei offerto al pubblico un buono spettacolo. Ma la tentazione di eliminarti subito è forte.» Clove si mordicchiò il labbro, indecisa. Si fermò ad osservare attentamente il viso della sua nemica, a studiarlo. Ora capiva perché la odiava così tanto. Non lo aveva mai realizzato perché per tutto quel tempo non aveva pensato a Cato in quel modo. Ma ora aveva capito che 12 e il suo compagno non erano i soli innamoratati sventurati di quei Giochi. Anzi, non lo erano nemmeno per davvero. Lei aveva solo sfruttato quella storia per ottenere sponsor. Non sapeva, non lo sapeva cosa volesse dire vive ogni giorno nella disperazione dovuta al fatto di sapere di dover perdere una persona così importante. La certezza che uno dei due sarebbe morto, che per loro non ci sarebbe stato un futuro. Non lo sapeva, perché per lei era solo una recita.
La rabbia le crebbe dentro ma poi si ricordò improvvisamente che c’era stato qualcuno a cui aveva tenuto davvero. Qualcuno che poi aveva perso.
La ragazza in fiamme cercò inutilmente di divincolarsi e di liberarsi, ma Clove strinse la presa su di lei, immobilizzandola. «Lascia perdere, 12.» E poi decise di attaccare e di farla soffrire in ogni modo possibile. Era quello che si meritava, pensò Clove con cattiveria, alimentata da una folle rabbia. «È tutto inutile. Ti uccideremo. Proprio come abbiamo fatto con la tua amichetta. Come si chiamava? Rue? Prima Rue, poi te e poi verrà il turno del Ragazzo Innamorato. Ma credo che senza quella medicina non ci sarà nemmeno il bisogno di un nostro intervento.» Clove ridacchiò, spietata. «Sarà meglio iniziare.»
Detto questo, calò il suo coltello, ma a pochi centimetri dal suo viso si bloccò. «Vuoi mandare un ultimo bacio al Ragazzo Innamorato? Ti conviene approfittarne, non credo che avrai molte altre occasioni simili, dopo.»  La ragazza iniziò a divincolarsi, cercando di gridare, rabbiosa. Ma non c’era nulla che potesse fare. Clove posò la lama sulla sue pelle, sul bordo delle sue labbra e aprì un piccolo taglio.
Un sorriso folle, malsano le si dipinse sulle labbra sottili. Non era più in lei, l’odio e la frustrazione accumulata in tutti quei giorni nell’arena stavano ottenendo il proprio sfogo in quel momento. Allontanò il coltello dalle labbra di 12 e prese la mira, pronta a mettere fine alla sua vita una volta per tutte.
Ma il suo colpo non calò mai. Qualcosa la afferrò da dietro. Clove fu colta totalmente alla sprovvista mentre una forza a lei sconosciuta la sollevava da terra. Il coltello le sfuggì dalle mani e un flebile grido le sfuggì dalle labbra.  No, non è possibile.
Ora vedeva il volto del suo aggressore. La teneva sollevata da terra, soffocandola. Clove scalciò nel vano tentativo di liberarsi, ma era tutto inutile. Thresh l’aveva presa.


Che cosa era successo? Cato avrebbe dovuto occuparsi di Thresh. Le guardava le spalle, in attesa di vederlo arrivare. Thresh aveva forse ucciso Cato? Impossibile, nessun cannone aveva sparato. Allora la ragazza arrivò alla conclusione più ovvia: Thresh non era arrivato da dove loro si aspettavano che arrivasse. Veniva dalla foresta. Gli era piombato alle spalle ma lei, troppo presa com’era nella sua vendetta, non lo aveva sentito.
E ora Cato era lontano, dalla parte opposta della radura, ad aspettare un nemico che non sarebbe mai arrivato. Perché aveva già raggiunto il suo obiettivo.
La faccia scura di Thresh era colma di rabbia, la sovrastava, era grosso e possente e la teneva sollevata da terra senza il minimo sforzo. Poi, senza preavviso, la lanciò in aria. Clove cadde a terra, gemendo, e un terrore senza precedenti invase ogni nervo del suo corpo mentre cercava di rialzarsi, senza riuscirci. Gattonò all’indietro, senza capire più nulla. Non sapeva cosa fare, sembrava quasi che la sua testa si fosse svuotata. Tutto ciò che aveva imparato all’Accademia, i suoi coltelli... tutto andato, perduto.
«Cosa hai fatto a quella ragazzina? L’hai uccisa? L’HAI UCCISA?!» Tuonò lui e il suono della sua voce, profonda e graffiante, risvegliò in lei una paura che non aveva mai provato.
«No!» Esclamò Clove, rimettendosi in piedi a fatica. «No!»
«Hai detto il suo nome! Era il suo nome!» Urlò lui, avvicinandosi con impeto a Clove.
«No! Non sono stata io!» Ma lui avanzò ancora e la inchiodò contro la cornucopia, senza lasciarle via di scampo. E fu in quel momento che Clove vide cosa Thresh stringeva in una mano. Un sasso, una grande sasso grigio.
No no no no no. Oh, ti prego, no!
Quella visione risvegliò Clove all’improvviso. Non poteva arrendersi così, senza lottare. Non poteva andarsene, non ora. Aveva promesso a Cato di tornare. Cato...
«Cato!» Urlò, ricordandosi del ragazzo. «CATO!» Il suo urlo riecheggiò nella radura, straziante, carico di terrore.
«Clove!» La risposta di Cato le arrivò alle orecchie, infondendole una debole luce di speranza. Non voleva ammetterlo a sé stessa ma dentro di lei lo sapeva già: la sua voce era troppo lontana. Lui non sarebbe mai arrivato in tempo.
Clove scalciò, cercando di allontanare da lei quel gigante dall’espressione folle, ma era tutto inutile. Non era abbastanza forte. Cato. Cato. Cato! Era tutto quello a cui riusciva a pensare, l’unico appiglio che trovò in quel mondo di terrore. L’unico nome che le impediva di impazzire.
Ma di nuovo, fu tutto inutile. Chiuse gli occhi quando vide il braccio di Thresh alzarsi e calare il masso verso di lei, veloce e letale.
Il dolore esplose veloce come uno sparo di cannone. Non aveva mai sentito niente di più terribile. La testa le esplodeva, sangue caldo le colava tra i capelli corvini mentre senza forze si accasciava a terra. Aumentava sempre di più, facendole lacrimare gli occhi che, tuttavia, non riusciva a chiudere. Credeva che se l’avesse fatto non li avrebbe mai più potuti riaprire. E c’era ancora una cosa che voleva fare, prima di andarsene.
Le immagini ora le arrivavano sfocate, ma vide il suo assassino e 12 che parlavano. E capì che per lei era finita. Capì che i Giochi le avevano portato via tutto, persino la sua sanità mentale e la sua umanità. L’avevano resa un animale, le avevano fatto uccidere altri ragazzi. Le avevano fatto perdere tutto e lei se n’era accorta soltanto ora.
Pensò a suo padre, a casa. Pensò a lui mentre la guardava spegnersi nello schermo. Lo aveva lasciato solo, solo in quell’universo di dolore che ora non avrebbe fatto altro che ingrandirsi e inghiottirlo ancora di più. Pensò a sua madre, che non avrebbe mai voluto questo per lei. Non avrebbe mai voluto vedere la sua famiglia andare a pezzi. Pensò a Damien, che aveva finalmente ottenuto la sua vendetta. Sarebbe stato felice, ora? Nel vederla a terra? Non avrebbe mai scoperto se la sua storia era vera, se erano veramente fratello e sorella. Non l’avrebbe mai saputo. Mai...
Vide l’immagine sfocata di due ragazzi che correvano via. Cercò ancora di parlare, di gridare, ma dalle labbra le usciva solo un rantolo incomprensibile e doloroso. Allora era così che se ne sarebbe andata? La ragazza letale dei Distretto 2, quella che non sbaglia mai. Bé, questa volta hai sbagliato. E ne pagherai le conseguenze. Il male che sentiva era così forte che anche pensare le risultava doloroso. Ma allora perché non finiva? Perché sono ancora qui?
Ma lo sapeva, perché era ancora lì. Non se ne voleva andare, non ancora. Non ancora.
«Clove!» La voce che la chiamava era più vicina adesso. Ed era colma di dolore. Qualcuno le si inginocchiò vicino. Sentì il rumore di qualcosa che cadeva, poi un volto apparve nel suo campo visivo. Quel volto. Le strinse forte una mano, ma lei lo sentì appena.
«Clove! Oddio, Clove. Ti prego, resta con me. Ti prego. Ti prego.»
Lei provò a ricambiare la stretta sulla sua mano, ma non ci riuscì. Provò a parlare, ma anche quella semplice azione le parve un’impresa impossibile. Era come se si stesse spegnendo e nulla avrebbe potuto cambiare ciò che stava accadendo. Era troppo tardi.
«Ca...to...» Riuscì a sussurrare, con voce rotta e tremante.
«Stai con me Clove, ti prego. Andrà tutto bene. Staremo bene.» Ma quando lo disse, Clove capì che non sarebbe stato così. Non c’era più speranza per lei, non poteva essere salvata, lo sapeva. Avrebbe voluto dire a Cato di essere forte, di lottare, di farlo anche per lei. Di vincere per entrambi. Ma non ne ebbe la forza. Il dolore alla testa iniziò a diminuire, finalmente. La percezione del suo corpo divenne sempre più vaga. Solo la voce di Cato, così vicina, così calda, la legava ancora al mondo circostante. Vedeva i suoi occhi, azzurri come il cielo e freddi come il ghiaccio e per un momento le parve di essere tornata bambina. Ma solo per un momento.
«Resta con me, ti prego.» Ma anche la voce di lui ormai era solo un flebile sussurro, una litania ripetuta all’infinito. Dentro di essa non vi è più speranza. Solo dolore.
Malgrado tutto, Clove fu felice di aver resistito ancora per qualche minuto. Fu felice di avere davanti agli occhi il viso di Cato. Fu felice di vederlo per l’ultima volta, di osservare i suoi occhi luminosi prima di emettere il suo ultimo respiro.
Lui continuava a parlarle, ma le sue parole si persero nel nulla. Gli occhi di Clove vedevano solo oscurità e sebbene Cato continuasse a chiamarla, lei se n’era già andata, troppo lontana per poterlo sentire.

***

«No. NO!»
Cato urlò, gridò con tutta la forza della sua disperazione. «Clove! Clove!» Ma gli occhi della ragazza si erano già velati e non potevano più vedere il suo volto. Non vedevano più niente. Lui lasciò la mano fredda di Clove, lanciò lontano la spada, continuando a gridare. Batté i pugni a terra. Pianse lacrime di disperazione. Non aveva mai pianto, nemmeno da bambino, ma ora lo fece. Non poteva essere successo. Non poteva essere. No.
Lei non poteva essere morta. Non poteva essere morta. Non così. No.
L’aveva tenuta tra le braccia e l’aveva vista andarsene. E non aveva fatto niente. Non era arrivato in tempo. Mentre lei lottava per la sua vita, lui era lontano e il nemico che aveva l’incarico di braccare era spuntato da un’altra parte e anziché sfidare lui, si era preso lei.
Cato strinse gli occhi, serrando le mani a pugno. Dalle sue labbra usciva un rantolo disperato mentre sentiva un colpo di cannone sparare. Urlò di nuovo tutta la sua disperazione. Quel colpo era per Clove.
La guardò. Il suo volto era di un pallore mortale e la luce che aveva da sempre visto nei suoi occhi scuri e vivi si era spenta. Le strinse di nuovo la mano, la sollevò e l’abbracciò, come aveva fatto prima di lasciarla, quando si erano promessi che si sarebbero ritrovati e che avrebbero vinto. Non avrebbe mai dovuto lasciarla andare da sola. Era tutta colpa sua. Era colpa sua se ora stringeva il suo corpo senza vita tra le braccia. Colpa sua, perché non era arrivato in tempo. Non aveva corso abbastanza velocemente. E ora l’unica ragione che lo aveva tenuto sano di mente, l’unica ragione per cui avrebbe voluto tornare a casa, se n’era andata. E con lei tutta la speranza. Cosa gli restava ora? Cosa?
Niente.
Anzi no, una cosa soltanto.
Cato posò delicatamente il corpo di Clove a terra e le abbassò le palpebre. Lasciò scorrere la mano sulla sua guancia fredda, delicatamente, come una carezza. Non poteva restare lì per sempre. Lei non lo avrebbe voluto.
«Ti vendicherò, Clove. Lo giuro. Fosse l’ultima cosa che faccio. Ti vendicherò.» Si asciugò gli occhi con rabbia e, faticosamente, si rialzò. Il suo sguardo non riusciva a lasciare il volto di Clove, immobile. Senza vita. Ma si costrinse a farlo. Prese dei lunghi, profondi respiri. Recuperò la spada. Non si girò più indietro. E iniziò a correre.
Chiunque l’avesse uccisa, chiunque l’avesse fatta soffrire in quel modo, aveva i battiti del cuore contati. Non gli avrebbe permesso di vivere un istante di più. L’avrebbe ucciso. Quando riaprì gli occhi, essi erano asciutti e brucianti d'odio e di una determinazione quasi folle. Iniziò a correre, distruggendo qualsiasi cosa intralciasse il suo cammino. «Ti troverò! Ovunque tu sia!» Gridò con furia, recidendo una ramo con un solo colpo di spada.


Cato correva, correva veloce. Una furia cieca lo guidava e gli indicava la via. La voglia di uccidere, la sete di sangue erano le uniche ragioni che gli impedivano di tornare indietro, di tornare da lei. Il ricordo di Clove che se ne andava tra le sue braccia lo perseguitava come un fantasma. La realtà lo investiva come un’onda di fuoco, bruciandolo vivo senza che potesse opporvisi. Anche se avesse vinto, lei non ci sarebbe stata più. Questa era la cruda verità.
 Si fermò in una radura spoglia. Si guardò attorno. Sentì un rumore.
«Vieni fuori! So che sei qui! È inutile che ti nascondi, tanto ti troverò!» Il suo grido riecheggiò tra gli alberi, facendo fuggire gli uccelli dai propri nidi. «Vieni fuori, vigliacco!»
Sentì il rumore di un ramo spezzato e si voltò. Alle sue spalle, lo vide.
«Non sono un vigliacco.» Tuonò Thresh, avanzando lentamente. Sulla schiena portava due zainetti. E improvvisamente Cato si ricordò del perché Clove si trovava sola a fronteggiare quel gigante. Il festino, gli zainetti. Per quello era morta. E ora quel mostro, oltre ad averle rubato la vita, le aveva anche sottratto ciò che di diritto apparteneva a loro.
«Non mi importa quello che pensi di essere o no. So solo che presto sarai morto.» Detto questo, Cato partì all’attacco. La sua spada però cozzò contro una spessa lama argentea che Thresh estrasse velocemente. Cato attaccò ancora, facendo arretrare l’avversario. Lo colpiva senza sosta, senza dargli il tempo di contrattaccare ma solo di difendersi, mettendolo in difficoltà. La sua furia passava dalle sue mani alla spada, che fendeva l’aria veloce e letale, bramando il sangue del nemico.
Il colpo successivo fu talmente forte che fece quasi perdere l’equilibrio a Thresh. Il ragazzo venne sbalzato all’indietro e  inciampando cadde a terra.
«Fine dei Giochi.» Sussurrò Cato, con voce folle e spietata, avventandosi su di lui. Ma Thresh balzò in piedi velocemente, liberandosi allo stesso tempo del peso degli zainetti, che restarono a terra. Lo sguardo di Cato fu per un istante attirato da un luccichio. Lo zaino con il numero due si era aperto e qualcosa vi era fuoriuscito.
Le sue labbra si dischiusero per la sorpresa quando riconobbe l’oggetto. Perché lì, sulla terra brulla dell’arena, c’era il coltello che aveva regalato a Clove. Quello che le aveva donato sul tetto dell’Accademia. Il suo primo coltello, quello che lei aveva portato a Capitol City perché non aveva cuore di separarsene. E ora era lì, nell’arena, a pochi centimetri da lui. Ma lei non c’era più.
Mentre Cato era distratto Thresh gli piombò addosso. Lo mandò a sbattere a terra e non perse tempo. La sua enorme lama puntava dritta alla sua testa quando calò il colpo, ma Cato riuscì a spostarsi di poco e quella incise la carne della sua guancia, aprendo una ferita superficiale. Il sangue iniziò a sgorgare. Cato perse la ragione.
Con la sola forza delle gambe spinse via Thresh, facendolo volare in aria. Mollò la spada e si gettò in avanti, verso gli zainetti. Strinse tra le mani il coltello di Clove e per un istante gli sembrò quasi che lei fosse lì, con lui. Al suo fianco.
Mentre Thresh si gettava ancora su di lui, abbassandosi quel tanto che gli serviva per conficcargli la lama nel cuore, Cato alzò il braccio, stringendo con forza il manico del coltello mentre la lama penetrava nella carne del ragazzo fino al manico. Lui spalancò le labbra, sorpreso, facendo cadere la sua arma.
Cato si alzò e lo spinse a terra, sovrastandolo.
In quel momento, iniziò a piovere. Thresh era ancora vivo, respirava a fatica, rantolando e lo guardava con gli occhi sgranati, carico d’odio.
«Tu hai ucciso lei. Ora io ammazzerò te. Avresti dovuto saperlo che sarebbe andata così.»
Lui ridacchiò, sputacchiando sangue. «Lei?» Chiese con voce roca. «Lei aveva ucciso Rue. Meritava di morire.»
Un ringhio gutturale salì per la gola di Cato mentre lui affondava ancora di più il coltello. Thresh strinse i denti, impedendosi di urlare.
«Non dire un’altra parola.» Ringhiò Cato pieno di odio e di ribrezzo.
«Allora ti importava... di lei.» Disse Thresh con enorme fatica, quasi soffocato dal suo stesso sangue. «Credevo che ai Favoriti non importasse di nessuno.» Cercò ancora di ridacchiare, ma finì per tossire.
«Ti sbagli. Era la sola cosa che mi importava. Saremmo dovuti tornare a casa assieme. È tutta colpa tua. Pagherai per questo. La vendicherò.»
Lui fece per replicare, ma ormai non riusciva più a parlare. Cato estrasse con un colpo secco il pugnale e Thresh sussultò, in preda a spasmi di dolore. Cato sentì di essere stato fin troppo misericordioso quando, guardando il nemico negli occhi, calò su di lui il suo ultimo colpo. Dritto nel suo cuore.
Quando Thresh morì, la pioggia iniziò a scrosciare sempre più forte, diventando un vero temporale. Un possente tuono accompagnò il colpo di cannone.
Cato estrasse il coltello dal cadavere del ragazzo e lo strinse forte tra le dita, mentre si chinava a terra, con i gomiti affondati nel fango e le mani che stringevano i capelli biondi fino a fargli male. Il suo grido si confuse con il fragore di un tuono. Le poche lacrime di rabbia che riuscì ancora a versare si confusero con la pioggia e con il sangue che colava dalla ferita che aveva sul viso. Ma non gli importava, nulla gli importava. Aveva vendicato Clove, aveva ammazzato colui che le aveva tolto la vita e il suo corpo sanguinante era a pochi centimetri da lui. Ma nulla di quello gli diede pace.
Il dolore era troppo grande. La disperazione lo attanagliava in una ferrea morsa. La perdita che aveva subito stava facendo riaffiorare la pazzia che lo aveva perseguitato durante tutti gli Hunger Games. Strinse forte il coltello nella mano, fino a che la lama non gli intaccò la pelle del palmo. Ma nemmeno questo gli importava. Nulla aveva più senso. Cato si strinse a quell’oggetto come se ne andasse della sua vita. La lama gli tagliava la pelle, ma non vi badò. Non poteva lasciarlo andare, non poteva farlo nemmeno per un secondo. Perché quel coltello era tutto ciò che gli restava di Clove. Assieme al suo ricordo.
E così sarebbe stato per sempre.


SPAZIO AUTORE

Ok. Bene. Eccomi qua.
Il fatidico capitolo è arrivato. È normale sentirsi male leggendo il proprio lavoro?? No perché... ok, la smetto. Sto bene. Sto bene.
Ho appena ucciso uno dei miei personaggi preferiti della trilogia con le mie stesse parole, ma sto bene D: Alcuni lettori si chiedevano se magari avessi potuto scrivere un “finale alternativo”, sapete, per non distruggerci i feelings di nuovo etc etc...
E anche io ci avevo pensato. Ma poi mi sono detta... stai scrivendo la vera storia di Cato e Clove. O almeno, la mia versione della loro vera storia. Non posso cambiare il finale se sono partita da questo presupposto. Quindi credetemi, avrei voluto farlo, ma non ho potuto. Ad ogni modo, spero non mi odierete per questo! E, più di ogni altra cosa, spero di aver reso bene questo momento, che a parer mio è uno dei più intensi di TUTTA la trilogia ç______ç
Non so che altro dire, sono abbastanza depressa *masochismo mode on* quindi lascio a voi la parola, sperando non mi malediciate x''D No davvero, ci tengo a sapere che ne pensate, quindi resto in attesa di commenti ;) ♥
E vi ringrazio, ringrazio tutti voi, che seguiate la storia qui da efp o da facebook, per avermi seguita fino a questo punto! Senza di voi probabilmente mi sarei fermata molto prima, ma, anche se mi sono trovata a scrivere cose mooolto difficili a livello emotivo, sono felice di essere arrivata fino a qui, e di aver dato una storia ai miei personaggi preferiti :')
Ok, ora taccio davvero!
Al prossimo capitolo... ♥

~ C

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Capitolo 20
*** 20. Into the Dark ***



20. Into the Dark
Till your last breath

CAPITOLO 19
IINTO THE DARK


Corri. Corri. Corri.
Era tutto quello che gli passava per la mente in quel momento. Correre era tutto quello che poteva fare. Che doveva fare. Correre via, scappare, lontano da quegli occhi.
La sua mente non ragionava ma le sue gambe lo guidavano al posto suo. C’era solo un luogo in tutta l’arena in cui avrebbe potuto rifugiarsi e il suo subconscio lo stava conducendo lì, in una corsa disperata, che lo stava lentamente uccidendo. Le gambe gli dolevano per lo sforzo, per la prima volta nell’arena. I polmoni andavano in fiamme a furia di pompare ossigeno, così velocemente. I piedi si incastravano in rametti appuntiti e  radici sporgenti, ma strappavano via tutto e proseguivano inesorabili nella loro corsa. Non poteva fermarsi. Se l’avesse fatto, sarebbe morto.
Sentiva i passi delle bestie alle sue spalle. Sentiva il loro respiro affannoso e il loro ringhiare sommesso sembrava uscire da un incubo. Era come se si chiamassero a vicenda, sentendo che la loro preda era sempre più vicina, più debole. Cato sentiva il loro fiato caldo sul collo, talmente tanto si erano avvicinati. Per la prima volta nella sua vita, era la preda e non il cacciatore.
La spada gli batteva ripetutamente contro coscia durante la corsa frenetica. Avrebbe tanto voluto impugnarla e uccidere le bestie, una ad una, ma quelle erano un intero branco contro un solo ragazzo. Non poteva farcela. E poi non aveva più il coraggio di voltarsi. Non avrebbe sopportato ancora il peso di quegli occhi. Solo la loro vista lo aveva fatto impazzire di dolore e per poco, a causa di quella piccola esitazione, non venne ucciso.
Quando sentì le forze venirgli meno e la speranza di farcela lo stava lentamente lasciando, vide finalmente la cornucopia, al di là degli alberi.
Ancora un sforzo. Un piccolo sforzo. Fallo per lei.
E Cato corse, corse veloce per tutta la radura, con le belve fameliche che lo seguivano, compiendo lunghi balzi e cercando di azzannarlo ogni volta che si avvicinava abbastanza. Arrivato alla cornucopia sfruttò lo slanciò della corsa e saltò. Arrivò in cima senza nessuna fatica. Si trascinò al centro della cornucopia ed estrasse la spada, pronto a colpire i mostri, ma quelli si erano fermati e lo scrutavano con quei loro grandi occhi umani. Poi, con un lungo latrato, si voltarono e corsero verso i boschi.
Cato si lasciò cadere in ginocchio, riponendo la spada e prendendo fiato. Non riusciva quasi più a respirare, i crampi lo piegavano in due.
Si portò una mano alla giacca ed estrasse un piccolo oggetto che strinse con forza tra le mani, aggrappandosi ad esso come se ne andasse della sua vita. Se il suo viso era ancora incrostato di sangue, il coltello era lucido e affilato come non mai. Lo aveva ripulito, cancellando ogni singola goccia di sangue che aveva macchiato la sua lama, e lo portava con sé. Sempre. E in momenti come quello lo tirava fuori e lo stringeva fino a farsi male. Perché quella era l’unica cosa che gli restava di Clove e ad esso si aggrappava per non perdere la speranza. E per non perdere sé stesso. Perché erano gli occhi di Clove, quelli che aveva visto nel corpo di una bestia. I suoi occhi, i suoi occhi scuri e brillanti. Vivi. Ma Clove se n’era andata. Cosa le avevano fatto? Cosa le avevano fatto?
Cato continuò a ripeterselo, chiudendo gli occhi e respirando a fatica, stringendo il coltello, lama e manico, nelle mani tremanti. Non solo l’avevano uccisa, ma quei pazzi maniaci di Capitol City le avevano rubato anche gli occhi? Il pensiero lo mandò fuori di testa, lo fece arrabbiare, lo fece tremare d’ira e d’angoscia, fino a fargli salire lacrime brucianti agli occhi. Perché lei doveva essere lì con lui, al suo fianco fino alla fine. Invece i suoi occhi erano imprigionati nel corpo di un mostro.


Dopo una quantità di tempo indefinita Cato sentì degli urli provenire dalla foresta. Ignorando i crampi balzò in piedi, riponendo con cura il coltello in una tasca interna della giacca, vicino al cuore. Scrutò l’orizzonte. E li vide.
Gli ultimi due tributi rimasti. Quelli del 12.
E il branco di ibridi che li seguiva da vicino. Si prese qualche istante per osservare il branco. Ora che li vedeva da lontano, si accorse che apparivano spaventosamente umani. Non solo per gli occhi, ma anche il loro corpo. Quelli in testa al gruppo si alzavano sulle zampe posteriori ed usavano quelle anteriori quasi come braccia, come se stessero indicando agli altri la direzione. Fortunatamente Cato aveva già appurato che non erano in grado di arrampicarsi. Indietreggiò, cercando di rendersi invisibile. Fuori era buio, la sera stava lentamente lasciando il posto alla notte, e non fu difficile per lui passare inosservato. Soprattutto perché i due ragazzi che si stavano arrampicando sulla cornucopia avevano ben altri problemi per la testa. Non lo avevano nemmeno notato.
I mostri, gli ibridi, tentarono si balzare sulla cornucopia, lanciandovisi contro con impeto. Cato approfittò del rumore stridente che producevano i loro artigli quando strisciavano sul metallo per avvicinarsi di soppiatto. Cercò di non pensare a loro, agli ibridi. Agli occhi di Clove. Al fatto che lì in mezzo dovevano esserci anche Marvel e Glimmer e tutti gli altri che erano morti.
Ma in quel momento, mentre era pronto a colpirli alle spalle, i due si voltarono. Cato non perse tempo. Si avventò sulla ragazza, scagliandola di lato. Lei scivolò sul metallo, ma non cadde giù. Il Ragazzo Innamorato gli fu subito addosso, ma lui lo respinse. Faceva fatica a muoversi, i muscoli gli dolevano. La grande quantità di sangue che aveva perso dal taglio sulla guancia ancora incrostato di sangue si faceva sentire e quella lunga corsa per sfuggire agli ibridi lo aveva distrutto. Ma non si sarebbe arreso. No, non poteva lasciarli vincere.
Individuò di nuovo la sua preda, la ragazza, e l'afferrò. Lei cercò di liberarsi, cercò di strangolarlo ma le sue mani non lo ferirono nemmeno. Lui la buttò a terra, spingendola verso il baratro. Gli ibridi cercarono di saltare più in alto, guaivano e latravano in attesa di affondare le loro zanne affilate nella carne umana. Quelli non potevano essere gli altri tributi. Non potevano. Quella bestia non poteva essere Clove.
Qualcosa lo afferrò da dietro e lui fu costretto a mollare la presa sulla ragazza. Il Ragazzo Innamorato lo aveva sollevato e lo aveva gettato di lato. Era forte certo, ma se Cato fosse stato nel pieno delle sue forze non sarebbe mai riuscito a sopraffarlo. Con la coda dell’occhio, vide la ragazza armare il suo arco, pronta a trafiggerlo con una freccia. No, oh no. Non sarà così facile liberarti di me. Pensò Cato, in preda a una folle ira. La ferita sulla guancia si era riaperta di poco, riprendendo a sanguinare. Senza esitare, si gettò addosso al Ragazzo Innamorato e gli bloccò le braccia. Poi lo trascinò fino al margine della cornucopia. Strinse un braccio attorno al suo collo, soffocandolo. Lui lottava per liberarsi e per respirare, ma era tutto inutile. La ragazza restò immobile, davanti a loro, con la freccia pronta per essere scoccata.
No, non li avrebbe lasciati vincere. Pensò Cato con risolutezza. O almeno non entrambi. Lei poteva ucciderlo, ma se Cato fosse caduto, il Ragazzo Innamorato sarebbe venuto giù con lui. Non avrebbe permesso che vincessero entrambi. Lui e Clove dovevano vincere. Lui e Clove dovevano essere incoronati vincitori. Non loro! Non loro!
Avrebbe ucciso il ragazzo. L’avrebbe fatto per Clove. Certo, avrebbe preferito ucciderli entrambi o uccidere lei ma non aveva possibilità di scelta. Sapeva soltanto che doveva farcela. Per lei. L’avrebbe vendicata ancora. La morte di Thresh non era bastata a colmare la sua furia e il vuoto che gli era rimasto dentro.
«Uccidimi.» Disse con voce debole ma allo stesso tempo decisa. «Uccidimi e lui viene giù con me.» Una risata soffocata gli uscì dalle labbra insanguinate. «Che cosa aspetti? Spara. Moriremo entrambi e tu vincerai.» Ma la ragazza rimase immobile. Cato poteva sentire la sua mente macchinare, pensare a tutta velocità, cercare una scappatoia. Ma non c’era. Se avesse scoccato la freccia, sarebbero caduti entrambi. Se avesse aspettato, il Ragazzo Innamorato sarebbe morto di soffocamento. Cato rise di nuovo, una risata cupa, spettrale, senza un minimo di allegria. Solo rabbia, rancore e rimorso.
A cosa gli sarebbe servito vincere, dopotutto? Non avrebbe comunque riportato indietro Clove. Cosa restava al Distretto 2 per lui? Niente. Non gli restava niente. E in quell'istante, si rese conto che la morte non appariva più come una grande disgrazia. Ma lui non poteva arrendersi, no. Doveva resistere, doveva vincere, doveva vincere per lei. Non poteva arrendersi, non poteva farlo.
Lei non l’avrebbe fatto. Non poteva lasciarsi andare... non poteva...
«Forza, cosa aspetti?» La esortò lui, mentre le parole gli uscivano dalla labbra senza che lui se ne rendesse conto, come se non fosse lui a pronunciarle. «Sono morto comunque.» Esclamò ridendo. Era folle, folle di rabbia ed era stanco, stanco di soffrire, stanco di pensare. La morte di Clove aveva distrutto la poca integrità mentale che gli era rimasta.
E ora aveva capito che non aveva mai veramente avuto possibilità di vincere. Non dopo la sua morte. Era stato tutto deciso, lo aveva capito solo adesso. Il cambiamento delle regole, il fatto che in due potessero vincere. Era stato fatto per loro, perché la loro storia aveva commosso Capitol. L’esito di quei Giochi era già stato deciso in partenza. Ma lui e Clove... insieme avrebbero potuto farcela. Cos’avevano in meno di quei due individui? Niente. Potevano vincere. Ma ora era tutto inutile, tutto perduto.
«Lo sono sempre stato, non è così? L’ho capito solo ora.» Sentì in bocca il ferroso sapore del sangue, ma non vi fece caso. «È questo quello che volete, vero?» Urlò istericamente, rivolto alle telecamere. «Mi spiace, ma non lo avrete!» Spostò le braccia attorno al collo del ragazzo, nella posizione che, lui lo sapeva bene, gli avrebbe consentito di spezzargli il collo con un solo, semplice gesto. Poteva ancora farlo, e lo avrebbe fatto. Non li avrebbe lasciati vivere entrambi. Non avrebbe lasciato vincere nemmeno Capitol City. Sapeva che, una volta morto il ragazzo, lei lo avrebbe ucciso. Ma non gli importava, non gli importava più. Questo era quello che gli avevano insegnato all’Accademia. Ad uccidere, a colpire nel posto giusto, un solo colpo letale. Non gli avevano mai insegnato a vincere, solo ad uccidere. Portare onore al suo Distretto. Questo era tutto quello che contava.
Prima di aver trovato Clove. Lei gli aveva fatto capire che la vita non era solo questo. Gli aveva fatto capire che c’era dell'altro. Ora rivedeva il suo passato, i lunghi giorni trascorsi in Accademia ad allenarsi, per compiacere suo padre. Suo padre, che voleva che fosse il migliore in tutto. Suo padre, al quale non importava nulla di lui. Voleva solo che portasse onore al suo nome. Si rese conto di aver buttato via la sua vita. Suo padre gli diceva che non poteva permettersi distrazioni. Quella ragazza sarebbe diventata una distrazione per lui, se non l’avesse lasciata subito andare. E lui gli aveva dato retta. Perché tutto quello che gli importava era quello che gli avevano sempre insegnato: portare onore e gloria al  Distretto 2, anche a costo della propria vita. Aveva vissuto come un automa, aveva donato la sua vita a una causa che non gli apparteneva. L’aveva buttata via e se ne accorgeva solo ora. Ora che era troppo tardi. Anche se avesse vinto gli Hunger Games, aveva comunque perso Clove. Non c’era modo di riscattare la propria esistenza. Aveva sbagliato, ma non c’era più il tempo per redimersi. Perduto, era tutto perduto. Sparito quando il cuore di Clove aveva battuto il suo ultimo battito e l’ultimo, lieve respiro le era sfuggito dalle labbra dischiuse.
E ora lui era lì, pronto ad uccidere ancora una volta, come gli avevano insegnato a fare. E lo avrebbe fatto. Lo avrebbe fatto. Se solo la freccia non gli avesse perforato la mano.
Cato mollò la presa sul ragazzo e mentre lui lo spingeva giù, il tempo parve rallentare. Stava cadendo, cadeva lentamente di sotto, tra le grinfie dei predatori.
Quando il suo corpo si schiantò a terra e il fiato gli uscì dal corpo per la forza dell’impatto, il tempo tornò a scorrere normalmente. E in meno di un respiro, il branco gli era addosso. Cato urlò, o forse non lo fece, non avrebbe saputo dirlo. L’armatura che indossava sotto i vestiti non era abbastanza robusta per resistere ai loro morsi e alle loro zanne. Dopo un paio di tentativi, si ruppe e i loro denti affilati gli dilaniarono la carne.
Le sue armi erano irraggiungibili. La spada era caduta da qualche parte, fuori dalla sua portata. Sentiva il coltello di Clove premergli contro il petto, ma non poteva prenderlo. Non poteva nemmeno stringerlo tra le mani come aveva fatto poco prima. I mostri lo stavano facendo a pezzi, lo distruggevano e non c’era nulla che lui potesse fare per impedirlo.
Poi rivide gli occhi. Gli occhi di Clove.
E ricordò. Ricordò lei, quando era ancora una bambina. La ricordò in cima al tetto dell’Accademia, mentre cercava di nascondere le lacrime. La vide prendere tra le mani il suo coltello e i suoi occhi brillare. La vide allenarsi sola all’Accademia, con determinazione e precisione letale. E poi la vide pronunciare la frase che l’aveva condotta lì, nei Giochi, durante la mietitura. La vide alla sfilata, splendida nella sua armatura dorata, così bella e fiera da fargli male al solo ricordo. La vide alle interviste, con quello sguardo misterioso e il fare impacciato mentre si sistemava le pieghe del vestito. E poi la vide nell’arena, mentre gli stringeva la mano, mentre lo abbracciava... Mentre gli prometteva che sarebbero tornati a casa. Assieme.
Gli occhi di Clove, intrappolati nel corpo dell’ibrido, occuparono tutto il suo universo. Furono tutto quello che vide. Il dolore lancinante del suo corpo straziato iniziava ad allontanarsi, come gli ululati gutturali delle belve. La sua mente si svuotò piano e sentì come se stesse per volare via, lontano da quel mondo di dolore e sofferenza, lontano in un posto sconosciuto, dove però sapeva ci sarebbe stata Clove ad aspettarlo. Sarebbe tornato da lei, alla fine. Questi furono i suoi ultimi pensieri, perché poi arrivò la freccia. Le sue urla si spensero all’istante, il suo corpo non provò più dolore, i suoi occhi smisero di vedere e tutto si fece scuro. Ma poteva ancora scorgere qualcosa, qualcosa che lo guidava via, lontano dall’arena, lontano dagli Hunger Games e da Capitol City. Lontano da tutto. Nel nulla placido e mortale nel quale era caduto, era ancora in grado di provare qualcosa.
E tutto ciò che vedeva erano gli occhi di Clove nell’oscurità.



***





SPAZIO AUTORE


Ed eccoci qua, miei cari lettori e lettrici. Non credevo che questo giorno sarebbe alla fine arrivato. Ci ho messo molto a pubblicare questo capitolo, a dire la verità, credevo che non lo avrei mai caricato. Perché, sebbene non sia proprio l'ultimo, è la vera conclusione della vicenda. E che conclusione, direi... giuro che nel rileggerlo per l'ultimo controllo mi si è spezzato il cuore ç____ç E a volte penso che sono stata davvero sadica e masochista a scrivere questa storia, perché essendo una fanfiction avrei potuto benissimo mandare a quel paese la trama e farli vivere! Ma no, ho voluto scrivere la loro vera storia, quindi eccoci qui, con il cuore spezzato per la fine di Cato....... Ma sebbene sia molto, molto triste, sono anche molto, molto contenta per essere arrivata fino a qui, per aver concluso la fanfic, per aver dato loro la mia versione della storia. Cato e Clove sono personaggi molto sottovalutati, incompresi, che spesso vengono bollati con la parola “cattivi” e fine della storia. Io ho sempre visto qualcosa di più oltre a questo, sarà solo la mia mente malata, ma ci credo davvero e spero con tutto il cuore di aver reso bene, con questa storia, tutto ciò che secondo me c'era dietro a questi due personaggi.
E, ultimo ma non meno importante, vorrei ringraziare tutti, ognuno di voi, che avete speso qualche minuto per leggere questi venti capitoli, per aver dedicato un po' del vostro tempo a leggere le mie parole e per averne trovato anche un po' di più per scrivermi un commento. Non sapete quanto questo mi sia stato d'aiuto per arrivare fino in fondo!
Ma ora non vi annoio più con il mio lungo e tedioso discorso depresso xD Alla fin fine, ci sarà un altro capitolo, un epilogo, tanto per non chiudere con questa scena così triste ç___ç Lascerò gli addii per quel momento xD Che poi, chissà, non sarà un vero addio, perché spero di tornare ancora a scrivere su Cato e Clove, visto l'amore che provo per loro. E chissà, forse in una futura storia potranno avere, finalmente, il loro lieto fine u.u
Okay, ora chiudo per davvero. Un GRAZIE di cuore ancora a tutti voi, spero di non avervi delusa con questo ultimo/penultimo capitolo perché per me è uno dei più importanti dell'intera storia <3
Bene dunque, alla prossima! E questa, oddei, è l'ultima volta che posso dirlo :'(
Con tanto affetto,

~ C


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