Till Your Last Breath di Clovely (/viewuser.php?uid=82227)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. First Sight ***
Capitolo 2: *** 2. The Boy with the Sword ***
Capitolo 3: *** 3. La calma è la virtù dei forti ***
Capitolo 4: *** 4. The Girl with the Knives ***
Capitolo 5: *** 5. Crossroads ***
Capitolo 6: *** 6. Sweet revenge ***
Capitolo 7: *** 7. La vendetta di Damien ***
Capitolo 8: *** 8. La Mietitura ***
Capitolo 9: *** 9. Welcome to the Capitol ***
Capitolo 10: *** 10. I Guerrieri ***
Capitolo 11: *** 11. The Games will change Eveyone ***
Capitolo 12: *** 12. Alleanze ***
Capitolo 13: *** 13. Le Interviste ***
Capitolo 14: *** 14. Animal I have Become ***
Capitolo 15: *** 15. Un Nuovo Alleato ***
Capitolo 16: *** 16. Let it all Burn ***
Capitolo 17: *** 17. Breaking the Rules ***
Capitolo 18: *** 18. Together we can make it ***
Capitolo 19: *** 19. Stay With Me ***
Capitolo 20: *** 20. Into the Dark ***
Capitolo 1 *** 1. First Sight ***
Till
your last breath
PARTE
PRIMA
~
CAPITOLO
1
FIRST SIGHT
Era
una tipica giornata invernale nel Distretto 2. La neve cadeva in
lenti vortici candidi, celando sotto le sue coltri il paesaggio del
Distretto e tingendo tutto ciò che toccava di un bianco
cristallino,
quasi irreale.
Quando
fuori faceva così freddo la cosa più bella che si
potesse fare era
restare al caldo, magari avvolti in una morbida coperta di lana,
vicino ad un camino scoppiettante e con un tazza calda tra le mani.
Ma qualcuno preferiva il contrario.
Essere
fuori, all’aperto, con addosso più strati di
vestiti che di pelle,
correndo nella neve e sprofondandovi, con gli stivali inzuppati e le
dita umide dei piedi, le guance arrossate dal freddo e le labbra
screpolate.
Questo,
senza ombra di dubbio, era più divertente.
Clove
osservava la neve cadere da dietro una grande finestra chiusa. Il
caldo del salotto di casa sua era confortevole ed accogliente e la
bevanda che le aveva preparato sua madre la riscaldava
dall’interno
ma... ma mentre seguiva con lo sguardo gli altri bambini che
giocavano a palle di neve, facevano angeli per terra e sfrecciavano
in ogni direzione con gli slittini di legno, sentì una punta
di
invidia.
Clove
amava l’inverno. Amava l’avventura. Amava la neve.
Le piaceva
anche il freddo, ma solo quando era all’aperto e poteva farlo
passare correndo.
Eppure
quella domenica non le era permesso uscire, pensò sbuffando.
Posò
la tazza, ormai vuota, sul tavolino di legno di fianco al divano dove
si era messa per fissare gli altri ragazzini e si sistemò
con stizza
il fiocchetto rosso di velluto che sua madre Maryse le aveva
appuntato tra i capelli corvini. Odiava sembrare una dolce e brava
bambina. Soprattutto perché non lo era affatto. Clove, otto
anni,
era la ragazzina più indisciplinata del Distretto, tanto che
i
bambini del suo quartiere avevano paura di lei e le giravano allargo
quando la vedevano avvicinarsi. Ma del resto la sua reputazione se la
era guadagnata. Non le piaceva stare in compagnia degli altri bambini
della sua età, per questo preferiva starsene sola. Ma
comunque sua
madre amava conciarla come una bambolina e lei non poteva far altro
che lasciarglielo fare. In fondo a lavoro finito sembrava davvero
una bambola, pensò Clove, scorgendo la sua immagine riflessa
nel
vetro della finestra: capelli neri come la notte e mossi come le onde
del mare in tempesta. Occhi di un blu scuro e intenso che con il buio
sembravano quasi neri. Pelle candida come porcellana e una
spolverata di odiose lentiggini sul naso e sulle guance; labbra
piccole e rosse che in quel momento si incurvarono ai lati,
dipingendole in viso uno studiato sorriso da brava bambina. Clove
sorrise alla sua immagine riflessa, pensando che non doveva farne poi
una così grossa tragedia: solo poche ore e poi avrebbe
potuto uscire
fuori a rovinare il divertimento agli altri bambini. Quel pensiero
parve elettrizzarla. Forse non era del tutto normale che una bimba di
otto anni si divertisse spaventando i suoi coetanei. Ma Clove era
fatta così. Per esempio quando trovava un pupazzo di neve,
probabilmente costruito con tanta cura e dedizione da qualche altro
bimbo, non poteva fare a meno di distruggerlo. Non capiva cosa ci
fosse di male. Era divertente!
Quando
qualcuno bussò alla porta la bambina balzò in
piedi, mettendo da
parte i ricordi delle sue scorribande e lisciandosi le pieghe della
gonna rosso vinaccio, come il fiocchetto che aveva tra i capelli. Sua
madre e suo padre sbucarono dalla cucina e si precipitarono
all’ingresso. La mamma indossava ancora il grembiule ma se ne
liberò in pochi secondi e lo gettò con noncuranza
su una sedia
nell’ingresso. Clove li seguì a qualche passo di
distanza, mentre
loro aprivano la porta, cercando di mascherare l’espressione
scocciata ed annoiata che aveva sul volto.
Ed
ecco apparire davanti ai suoi occhi la causa della sua reclusione in
una così bella domenica invernale. Gli amici dei suoi
genitori.
Clove
non se li ricordava minimamente. Sapeva solo che suo padre e
l’uomo
lavoravano assieme ed erano due pezzi grossi nell'industria del
Distretto. Mamma e papà le avevano anche detto che erano
stati loro
ospiti parecchie volte dalla sua nascita. Probabilmente era troppo
piccola per ricordarselo. O forse non le importava proprio,
pensò
Clove osservando a turno i visi sconosciuti della donna e di suo
marito. I suoi genitori salutarono calorosamente gli ospiti,
cominciando subito con i convenevoli di rito, i complimenti e le
domande da copione. Clove rimase alle loro spalle, con le mani
intrecciate dietro la schiena, mordicchiandosi un labbro in attesa
che i grandi la smettessero di parlare. Ma mentre fissava i volti dei
nuovi arrivati cercando di ricordarsi qualcosa di loro, i suoi occhi
ne incontrarono un altro paio.
Erano
azzurri come il cielo d’estate o come il ghiaccio in cima a
una
montagna altissima. E le parvero curiosi e beffardi. Improvvisamente
si ricordò che anche quei due sconosciuti avevano un figlio.
Glielo
aveva detto sua madre la sera prima.
Il
ragazzino doveva essere solo qualche anno più grande di lei
e
continuava a fissarla con le labbra piegate in un sorriso di scherno.
Clove, in risposta, lo osservò con aria di sfida e un
sorrisetto
divertito, mentre la tanto studiata espressione da bambina innocente
lasciava il suo viso.
«Oh
Clove! Santo cielo come sei cresciuta!» Esclamò la
donna della
quale Clove non si era ricordata il nome almeno fino a quando non
aveva sentito sua madre chiamarla Grace. La piccola distolse lo
sguardo per posarlo su di lei. Era una signora ben curata sui
quarant’anni con i capelli color biondo miele raccolti in
un’acconciatura impeccabile, un tailleur elegante di un verde
smeraldo, gli occhi di un castano intenso e un’espressione
calorosa
sulle labbra rosse. Era molto diversa da sua madre, che invece non
dava mai troppo peso all’aspetto esteriore, figurarsi
indossare un
tailleur o raccogliere i capelli in quel modo! L’uomo dietro
di lei
invece sembra più vecchio perché nei capelli
castani si
intravedevano ciuffi di grigio e in più la sua espressione
sembrava
tirata, quasi finta e sicuramente meno entusiasta di quella della
moglie, visto che guardando l’orologio ad intervalli
regolari, con
una strana espressione in volto, come se avesse fretta.
Bé,
allora non era l’unica che non vedeva l’ora che
quel pranzo
finisse. E pensare che non era ancora nemmeno cominciato.
«Clove,
ti ricordi di lui?» Le chiese sua mamma, indicando il
ragazzino
spavaldo che la donna, Grace, stava spingendo in avanti senza molto
garbo.
«Credo
proprio che non se lo ricordi, dico bene Clove?»
La
bambina scosse la testa senza parlare.
«Suvvia,
non essere maleducato!» Esclamò Grace rivolta al
figlio. Il
ragazzino la guardò con astio e con una smorfia indistinta
sulle
labbra. Quell’espressione era davvero irritante,
pensò la bambina
mentre studiava con sguardo indagatore il ragazzo biondo. Alla fine
lui posò di nuovo lo sguardo su di lei, fece un passo avanti
e
allungò la mano nella sua direzione.
«Ciao.
Io sono Cato.»
«Clove.»
Sussurrò la piccola, con voce vellutata.
~
SPAZIO
AUTORE
Salve
a tutti popolo di efp! Eccomi per la seconda a pubblicare qualcosa su
questi bellissimi libri. Questa volta però ho deciso di
spostare la
mia attenzione non sui protagonisti, bensì su quelli che,
per certi
versi, potrebbero essere definiti gli antagonisti della storia: Cato
e Clove.
Di
fatto, sappiamo ben poco di loro: che vengono dal Distretto 2, che
sono forti ed allenati, che vogliono vincere. Ma cosa sappiamo
veramente
di loro? Bé, io
direi nulla.
Per
questo ho deciso di scrivere la mia fanfiction. Credo che anche loro
si meritino un passato, una vita e una loro storia.
Ma
ora passiamo alla fanfic. Il primo capitolo è una sorta di
introduzione ai personaggi principale e le loro famiglia. Ed
è anche abbastanza corto e
posso dirvi che anche i prossimi non saranno lunghissimi. Ma
c’è
un perché. I capitoli a seguire, più o meno fino
al quinto, saranno
sul passato più remoto di Cato e Clove, quando erano ancora
dei
bambini. Per questo potrebbe capitare che, tra un capitolo e un
altro, ci sia un grandissimo sbalzo temporale, anche di anni. Ma
capirete meglio leggendo, lo giuro ;)
Ed
ora... bé, direi che posso anche smetterla di tediarvi con
tutto
questo poema e lascio la parola a voi. Non so ancora se la storia
sarà un flop totale oppure no, ma mi farebbe davvero davvero
piacere
sentire cosa ne pensate
voi. Quindi... sentitevi liberi di recensire ;)
Ora
vi saluto e, ovviamente, possa la fortuna essere sempre a vostro
favore u.u
~
C
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Capitolo 2 *** 2. The Boy with the Sword ***
Till
your last breath
~
CAPITOLO
2
THE
BOY WITH THE SWORD
Il
sole stava lentamente sorgendo all’orizzonte, tingendo il
cielo con
colori tenui e scacciando la residua oscurità della notte.
Un
ragazzino biondo osservava l’alba dalla cima di un alto
albero, con
le gambe a penzoloni da un ramo robusto e le mani strette attorno ad
esso. I suoi occhi azzurri iniziavano a bruciare per il contatto
prolungato con la luce del sole nascente, ma lui non ci faceva caso.
Era bravo a sopportare il dolore.
Cato
amava quell’ora del giorno. Il cielo, soprattutto, era
magnifico.
Da una parte vedeva il sole sbucare timidamente
all’orizzonte,
portando con sé la luce, che annunciava l’inizio
del nuovo giorno.
Ma se solo si voltava dall’altra parte opposta poteva
scorgere il
cielo ancora scuro della notte passata.
Nero
in lontananza, come i capelli della bambina che aveva conosciuto solo
qualche giorno prima. Il ragazzo non sapeva spiegarsi perché
lo
aveva pensato, ma quella ragazzina aveva qualcosa di particolare.
Una luce sfavillante, accesa in quei suoi occhi misteriosi. Sembrava
diversa dalle altre bambine e quando si erano visti per la prima
volta, lei lo aveva studiato attentamente, senza abbassare gli occhi
in quella sciocca maniera garbata che usavano le altre ragazzine. Era
come se lei lo avesse sfidato.
Ed era solo una bambina. Ma in quegli occhi profondi come il cielo
notturno, sembrava nascondersi un segreto, come qualcosa di
misterioso... qualcosa che aveva colpito Cato.
Ma
poco importava, tanto sapeva che non l’avrebbe più
rivista per
molto tempo e probabilmente quando sarebbe successo lei sarebbe
cresciuta e sarebbe diventata come tutte le altre. Non sono forse
così le persone? Fragili e mutevoli?
Il
ragazzino scosse la testa. Tanto non aveva alcuna importanza.
Così
tornò a guardare il sole.
Fu
in quel momento di pace assoluta che una voce lo richiamò
alla
realtà. Una voce che mai si sarebbe aspettato di sentire.
Suo padre.
«Cato!
Vieni giù, subito!» Il ragazzino
abbassò lo sguardo, con un
cipiglio scocciato. Amava arrampicarsi in posti dove sapeva che non
sarebbe stato trovato e quindi disturbato. Gli alberi vicino a casa
sua erano il luogo adatto. Cato aveva scoperto di potercisi
arrampicare lanciandosi anche dalla finestra della sua cameretta.
Certo, le prime volte aveva avuto paura di cadere, ma poi si era
fatto coraggio e aveva compiuto il balzo. Da allora non aveva
più
avuto paura, era diventato facile come respirare.
Vedendo
che il ragazzo non accennava a muoversi, l’uomo
urlò più forte,
con una certa irritazione nella voce. «Cosa
c’è? Non sei capace
di scendere? Muoviti, devo parlarti!»
Il
ragazzino aumentò la presa sul ramo fino a farlo
scricchiolare. Come
poteva anche solo pensare che non ne fosse capace?
Suo padre, che avrebbe dovuto conoscerlo meglio di chiunque altro,
non sapeva nemmeno quanto fosse diventato agile negli ultimi tempi.
Non si era mai accorto che di mattina, e spesso anche di sera,
sgattaiolava dalla finestra e spariva per ore intere? Non si
accorgeva mai di nulla?
Cato
credeva di non conoscere per niente suo padre. Lo vedeva
così poco
che per lui era quasi un estraneo. Era sempre al lavoro, la maggior
parte della sua vita la trascorreva fuori di casa e quando vi faceva
ritorno era scontroso e taciturno. Almeno quando non urlava insulti a
sua madre. O se la prendeva con lui. Negli ultimi anni aveva iniziato
a farlo.
Per
questo ora avrebbe dovuto essere felice nel vedere suo padre che lo
chiamava. Che lo aveva anteposto al suo prezioso lavoro. Che doveva
dirgli qualcosa.
Ma
a Cato anche questo non importava. Era da anni ormai, che
quell’uomo
aveva cessato di essere suo padre. Si comportava in modo civile solo
quando c’erano altre persone attorno, come al pranzo di pochi
giorni prima. Era solo una maschera, il suo essere cordiale con tutti
e anche con la sua famiglia, come se gli importasse qualcosa. Non era
mai così, nella vita reale. Come in quel momento; urlava e
sbraitava, di fretta come sempre.
Per
tutte queste ragioni Cato non riusciva a vederlo in altro modo se non
come un estraneo. Era solo una persona che di tanto in tanto arrivava
a casa sua e urlava. Tutto qui.
Per
questo quando scese dall’albero con pochi agili balzi non lo
fece
per obbedire al padre, ma solo per dimostrargli che era più
bravo di
quanto lui credesse.
L’uomo
tuttavia non parve impressionato. Quasi non lo guardò.
«Era
ora.» Disse seccamente lanciando uno sguardo al figlio.
«Ti ho
portato questa.» Disse estraendo da dietro la schiena quella
che
aveva tutta l’aria di essere una spada. Gli occhi di Cato si
illuminarono improvvisamente. «Voglio che inizi ad
esercitartici.
All’Accademia si entra al compimento degli undici anni, ma
credo
che tu ora sia abbastanza grande per iniziare. Voglio che arrivi
là
già preparato ed addestrato. Voglio che tu sia il migliore.
E’ chiaro?»
Cato
stava ancora osservando la spada che il padre gli porgeva. Era
un’arma bellissima e il ragazzino non vedeva l’ora
di metterci
sopra le mani e di utilizzarla.
«Ho
detto... è chiaro?»
«Sì.»
Alzò gli occhi azzurri sull’uomo e lo
osservò con freddezza. «Non
c’è bisogno che me lo dica tu. Io sono
già il migliore.»
Il
fantasma di una risata increspò le labbra
dell’uomo che gli
scompigliò i capelli con una mano, porgendogli la spada con
l’altra.
Cato la prese tra le mani con attenzione reverenziale, come se fosse
un oggetto di immenso valore.
«Così
mi piaci, ragazzo. Ma hai ancora molta strada da compiere. E tanto
lavoro da fare. Sei lontanissimo dall’essere il migliore.
Credi che
quel tuo trucchetto sull’albero possa impressionare qualcuno?
Devi
impegnarti molto più di così.» Cato lo
guardò, mascherando la
delusione e l’offesa. Ma non fece in tempo a ribattere
perché
l’uomo, senza aggiungere nulla, si era già voltato
e si
allontanava con passo svelto.
Il
ragazzo rimase fermo immobile a fissare l’uomo che
scompariva,
tenendo la spada stretta tra le mani. Suo padre voleva che lui fosse
il migliore. Ma come poteva pretendere questo da suo figlio? Come
poteva pretendere qualcosa da lui quando non lo degnava della minima
attenzione per tutto il resto della giornata? Come poteva pretendere
che imparasse da solo a maneggiare correttamente una spada? Aveva
appena dieci anni. Tutti i suoi compagni non avevano mai tenuto in
mano nemmeno un coltello, se non per mangiare. Cato sfoderò
la
spada, colto da un impeto di rabbia verso l’uomo che avrebbe
dovuto
essere suo padre. Non pensò nemmeno quando colpì,
semplicemente
seguì il suo istinto. Sentì il peso bilanciato
dell’arma, la
sentì fendere l’aria con leggerezza e conficcarsi
con precisione
nel tronco dell’albero che aveva scalato poco prima,
lasciandovi un
solco profondo.
Cato
estrasse la spada senza alcuno sforzo e fece roteare la lama.
Dopotutto non era così difficile. Era già
diventato agile con
coltelli e lance di piccola taglia. Una spada non doveva essere poi
tanto diversa.
Sì,
ce l’avrebbe fatta benissimo anche da solo. Sarebbe diventato
il
migliore. Sarebbe diventato il migliore con quella spada e lo avrebbe
fatto da solo. In
questo modo suo padre non avrebbe più avuto nulla da ridire,
una
volta visto quanto era stato in grado di fare. A
questo pensava il ragazzo, mentre affondava la spada nei tronchi
degli alberi con precisione letale.
~
SPAZIO
AUTORE
Salve
a tutti! Ecco finalmente il secondo capitolo! Come avrete capito,
è
anch’esso introduttivo. Nel primo ho introdotto soprattutto
il
personaggio di Clove; questo secondo capitolo invece mi è
servito
per presentarvi il personaggio del piccolo Cato e soprattutto la sua
famiglia. E suo padre.
Vi
dico subito che la parte introduttiva finisce qui! Finalmente dal
prossimo capitolo la storia potrà partire e vedremo Cato e
Clove
incontrarsi di nuovo, a distanza di qualche anno dal loro primo
incontro. Spero siate interessati e che leggiate anche il prossimo
capitolo che, tra l’altro, conto di aggiungere presto (scuola
permettendo -.-)
Ringrazio
moltissimo Dream Moan per
aver recensito e ringrazio di cuore anche tutti quelli che hanno
letto la storia e l’hanno messa tra le seguite o le preferite!
Spero
vi sia piaciuto il capitolo, ad ogni modo lasciatemi una recensione,
tanto per farmi sapere cosa ne pensate! Mi farebbe davvero moltissimo
piacere ;)
Ora
devo scappare a studiare! Alla prossima ;)
~
C
|
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Capitolo 3 *** 3. La calma è la virtù dei forti ***
Till
your last breath
~
CAPITOLO
3
LA
CALMA E’ LA VIRTU’ DEI FORTI
La
rabbia pervase ogni singolo nervo del suo corpo. Teneva le piccole
mani strette a pugno e lo sguardo basso, cercando di trattenersi,
mentre un gruppetto composto da tre ragazzi continuava a lanciarsi
avanti e indietro il suo logoro zainetto grigio, ridendo e urlando
come un branco di animali. Se solo avesse avuto qualcosa con cui
colpirli, l’avrebbe fatto. Ma non aveva niente.
E
in più non era allenata. Non ci si poteva iscrivere
all’Accademia
prima del compimento degli undici anni. E lei ne aveva solo nove. In
più sua madre non le faceva maneggiare coltelli o altri
utensili che
potevano essere considerati armi. Si affondò le unghie nei
palmi
delle mani, cercando di trattenersi dall’urlare; tanto non
sarebbe
servito a nulla, solo a divertirli di più.
«Che
c’è asociale, non reagisci?»
Tranquilla.
Tranquilla. Respira. Pensava la ragazzina. Solo un altro paio di anni
e poi si sarebbe vendicata di quei deficienti. Loro avevano undici o
dodici anni e non sapevano far altro che prendersela con bambini
più
piccoli. Che gesta onorevoli e che ammirevole coraggio,
pensò lei,
con ironia.
Frequentavano
tutti l’Accademia, ma erano pessimi. Clove lo sapeva
perché si era
intrufolata di nascosto per assistere agli allenamenti. Erano dei
buoni a nulla e avrebbe benissimo potuto stenderli, ma erano tre e
lei era sola. Così, senza sapere che altro fare,
voltò loro le
spalle e camminò a testa alta, con passo deciso e
noncurante. Se non
poteva reagire, tanto valeva essere superiori. Era solo uno zainetto,
non le importava riaverlo.
«Hey,
ma dove vai!» Urlò uno dei ragazzi, ridendo
sguaiatamente.
Clove
li sentì urlare ancora qualche frase canzonatoria che non si
prese
la briga di ascoltare, quando una voce fuori da quel coro di urla
senza senso catturò la sua attenzione. La ragazzina si
fermò, le
mani ancora strette a pugno lungo i fianchi, ma non si voltò.
«Hey
voi. Vi sentite molto forti prendendovela con una ragazzina di nove
anni, vero? Non sembrate così aggressivi
all’Accademia.» La
risposta dalla parte dei tre imbecilli fu solo un lungo silenzio.
Clove
si voltò di scatto, i capelli neri le mulinarono attorno al
viso,
ricadendole sugli occhi. Lei li scansò con impazienza. Aveva
riconosciuto quella voce anche se non l’aveva sentita per
tanto
tempo, e ora fissava il ragazzo che aveva parlato con le labbra
leggermente dischiuse, sorpresa.
«Non
sono affari tuoi, Cato. Levati di mezzo.» Disse uno di loro,
quello
che pareva essere il loro boss. Doveva chiamarsi Damien, Damian o
qualcosa di simile. Si avvicinò a Cato ostentando
un’aria di
superiorità, ma si vedeva dallo sguardo e dai movimenti
forzati che
in realtà non era così sicuro di sé
stesso. Anche la sua voce, che
voleva apparire sicura ed arrogante, suonava invece intimorita. Aveva
la stessa età di Cato ma grazie al suo paparino era riuscito
ad
entrare in Accademia un anno prima. Questo tuttavia non cambiava i
fatti: aveva paura di Cato.
Il
ragazzo biondo in tutta risposta, rise. «Dammi lo
zaino.»
«Altrimenti?»
Chiese Damien cercando ancora di usare una voce da duro, ma non
riuscì a mascherarne il tremolio. Clove ridacchiò
in silenzio,
divertita. Era patetico, in quel momento come non mai. E lei lo
odiava.
«Altrimenti...»
Cato non finì nemmeno la frase ma afferrò Damien
per il bavero
della giacca, sollevandolo di pochi centimetri da terra. Lui emise un
urlo strozzato mentre i suoi due compagni facevano un passo avanti
istintivamente, prima di bloccarsi e indietreggiare.
«Altrimenti ti
faccio volare contro quel muro.» Disse Cato indicando con un
cenno
il muretto di scuola distante una decina di metri. «Credi che
non
possa farcela? Io dico di sì. Ma potremmo sempre provare,
per
toglierci ogni dubbio.»
Il
ragazzo si divincolò, iniziando a diventare rosso. Clove non
seppe
dire se per rabbia, umiliazione o forse semplicemente perché
stava
soffocando.
«Dategli
quel dannato zaino!» Esclamò infine Damien
ansimando.
Uno
dei suoi tirapiedi lo gettò verso Cato che, con i riflessi
di un
predatore, lo afferrò al volo, reggendo la sua vittima con
una sola
mano, senza fare la minima fatica.
«Ecco,
così ragioniamo.» Disse rivolgendo un sorriso
divertito a Damien
prima di gettarlo a terra, a pochi metri di distanza. Quello cadde
rovinosamente e rotolò nella polvere, che gli
imbiancò gli ordinati
capelli color petrolio e il cappotto nero di sartoria.
«E
ora sparite.» Non ebbe bisogno di ripeterlo: gli altri due
stavano
già correndo via e Damien li raggiunse non appena
riuscì a
rialzarsi. Urlò qualche offesa a Cato mentre se la dava a
gambe, ma
ormai era troppo lontano perché si potesse sentire
chiaramente. Che
razza di codardo.
Clove
seguì la scena con un sorriso deliziato sulle labbra. Vedere
l’umiliazione sul viso di quel viscido essere
l’aveva decisamente
rallegrata. Era stato veramente qualcosa di meraviglioso. Clove
odiava Damien per qualcosa tipo... bé, da sempre. Dal primo
giorno
in cui l’aveva visto. Non che gli altri ragazzini le stessero
più
simpatici, ma non odiava nessuno di loro come Damien.
Lui
era solo un ragazzo viziato, si vantava di essere il numero uno
all’Accademia e che per questa ragione vi era stato ammesso
un anno
prima di tutti gli altri, ma Clove sapeva la verità: lui era
una
schiappa in tutto quello che faceva e la sua popolarità se
la
comprava, grazie al prestigio del suo paparino. O meglio dire del suo
patrigno. Era ricco sfondato e aveva una grande influenza su tutti,
nel Distretto. Per questo Damien poteva fare il teppista senza timore
di poterne subire le conseguenze. Nessuno osava punirlo per paura di
inimicarsi suo padre. Sempre per questa ragione Damien era
costantemente circondato da ragazzini leccapiedi che avevano a cuore
soltanto la sua casa enorme e tutto ciò che vi era dentro.
Questa
era le verità su di lui: senza il suo patrigno e la sua
protezione,
sarebbe stato meno di niente. Una totale nullità.
Avrebbe
potuto elencare una serie di ragioni per le quali odiava quel ragazzo
dai capelli scuri e gli occhi neri, tuttavia Clove non sapeva
perché
Damien ce l’avesse tanto con lei. Forse perché era
talmente
codardo che preferiva prendersela con una ragazzina che non aveva
alcun amico pronto ad aiutarla, ma ad ogni modo pareva che fosse una
delle sue prede preferite. Oh, ma ancora pochi anni e poi avrebbe
avuto la sua vendetta.
Quando
Clove si rese conto che Cato stava venendo verso di lei, con il suo
zainetto tra le mani, il sorriso le scivolò via lentamente
dalle
labbra.
Avrebbe
voluto essere lei a umiliare
quell’essere inutile. Invece non aveva avuto modo di farlo.
Sua
madre le aveva sempre detto che la pazienza era una buona
virtù e
che non sempre si può avere subito tutto quello che si
vuole.
Certo, Clove era anche certa che la frase di Maryse non comprendesse
il fatto di pazientare per escogitare una vendetta migliore, ma
questi erano dettagli insignificanti. Ad ogni modo avrebbe atteso per
averla. Col tempo sarebbe solo diventata più dolce.
Fino
ad allora si sarebbe limitata a non dare alcuna soddisfazione a
Damien e ai suoi seguaci. Clove sospettava che fosse quella una
ragione per la quale se la prendevano spesso con lei. Non reagiva mai
in nessun modo alle loro provocazioni e le rare volte in cui lo
faceva erano sempre loro a finire umiliati. Ma mai nel modo in cui li
aveva umiliati lui. In
quel momento provò un moto di ammirazione per il ragazzo, ma
cercò
subito di reprimerlo. Mentre lo osservava avvicinarsi, si chiese cosa
lo avesse spinto ad aiutarla.
Non
che avesse bisogno di aiuto, ovviamente.
«Tieni.»
Disse Cato, porgendole lo zaino.
«Grazie.»
Disse lei afferrandolo, senza spostare il suo sguardo dal viso del
ragazzo. Improvvisamente si ricordò la prima volta che lo
aveva
visto, a casa sua, circa un anno prima, in una fredda giornata
d’inverno. Si erano osservati, studiati scambiandosi sguardi
di
scherno. Ma in un certo senso Clove lo aveva preso in simpatia. Non
sapeva spiegarsi il perché, ma sembrava diverso da tutti gli
altri
ragazzini che aveva conosciuto. Comunque non le era mai importato,
perché da quel giorno i due non si erano più
rivolti la parola e
non si erano quasi nemmeno visti. Fino ad allora.
Clove
scosse la testa, scacciando i ricordi e si voltò, con
l’intenzione
di andarsene, ma la voce di Cato la bloccò.
«Sono
certo che saresti in grado di stenderlo,
quell’idiota.»
Clove
si voltò di nuovo a guardare Cato, stringendo lo zaino tra
le
braccia. Ed eccolo lì, proprio come se lo ricordava: il
sorrisetto
divertito che aveva sulle labbra il giorno in cui l’aveva
conosciuto. La ragazzina si aprì istintivamente in un grosso
sorriso. «Bé, sono certa che lo scopriremo
presto.»
~
SPAZIO
AUTORE
Ed
eccomi qui con il terzo capitolo! Spero davvero che sia stato di
vostro gradimento ;)
Finalmente
Cato e Clove si incontrano di nuovo, un anno dopo il loro primo
incontro. E’ stato solo un piccolo episodio, ma come avevo
già
detto, i primi capitolo della storia, con loro due ancora piccoli,
saranno molto frammentari e composti da piccoli episodi come questo!
Ad ogni modo vediamo che Clove inizia a sentire un certo senso di
ammirazione per Cato, ammirazione che non vorrebbe provare ma che non
può fare a meno di sentire, perché in un certo
senso, vorrebbe
essere come lui, vorrebbe già poter frequentare
l’Accademia e
combattere per avere finalmente la sua vendetta.
Parlando
di vendetta... ecco che entra in scena un nuovo personaggio: Damien.
Cosa ne pensate di lui??? Vi dico solo che non sarà
l’ultima volta
che lo vedremo, anzi.
E
poi che dire... lo volete in piccolo spoiler sul prossimo capitolo???
:)
Bene,
allora posso dirvi che accadrà qualcosa di veramente
tragico,
qualcosa che ribalterà la vita della piccola Clove...
Detto
questo, non mi dilungo oltre! Spero vi sia piaciuto il capitolo!
Fatemi sapere che ne pensate, ci tengo davvero molto! Grazie a tutti
e alla prossima.
Ah,
ci tengo a ringraziare particolarmente: Clover_trifoglio1997,
BENNYloveEFP, Giosper, Codex e Dream Moan per aver recensito
lo
scorso capitolo. Le vostre recensioni mi fanno sempre piacere e mi
fanno venire sempre più voglia di proseguire con questa
storia!
Quindi grazie di cuore ;) e grazie anche a tutti quelli che hanno
aggiunto la storia nelle seguite e nelle preferite e a chi
l’ha
semplicemente letta ;)
Alla
prossima!
~
C
|
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Capitolo 4 *** 4. The Girl with the Knives ***
Till
your last breath
~
CAPITOLO 4
THE GIRL WITH THE KNIVES
Era
passato un mese ormai da quella terribile notte. Un mese. Sembrava
essere successo solo il giorno prima. Il dolore almeno era rimasto lo
stesso. L’unica differenza era che la disperazione che
provava ora
era abilmente celata nel suo cuore e non trapelava mai
all’esterno
a meno che non fosse sola. E questo capitava spesso.
D’altronde
perdere la propria madre a undici anni non l’aveva aiutata a
socializzare con gli altri ragazzini. Anzi, forse era servito solo al
contrario.
Solo
sua madre si preoccupava per lei e per il suo essere spesso sola e
scortese con gli altri della sua età. Ma ora che se
n’era andata
non c’era più nessuno che si curasse di lei e di
quello che
faceva.
A
Clove non era mai importato avere degli amici, non davvero. Ma a sua
madre sì.
Come
le piaceva vestirla da bambolina. Acconciarle i capelli. Metterle
fiocchetti tra i riccioli ribelli. Farla sorridere.
Ora
era tutto andato. Perduto. Scomparso con lei, sotto le macerie della
loro vecchia vita.
Sua
madre era sempre stata una donna buona e gentile con tutti, sempre
capace di scovare il meglio nelle persone con una sola semplice
occhiata. I suoi occhi erano dello stesso colore di quelli di Clove,
di un blu scuro e intenso, come il mare in tempesta, ma Clove non era
mai stara in grado di capire le persone da un semplice sguardo. Era
tanto diversa da sua madre. Lei era un’artista e amava la
natura.
Proprio per colpa di questa sua passione si era trovata nel posto
sbagliato al momento sbagliato. D’altronde era risaputo che
sulle
montagne del Distretto 2 le frane erano frequenti. Solo nessuno si
aspettava che un pezzo di montagna si sarebbe staccato così
all’improvviso, distruggendo tutto, sua madre compresa.
Clove
sospirò, soffocando le lacrime che tanto odiava, e
passandosi con
stizza una mano sugli occhi umidi. Odiava piangere, la faceva
sembrare debole. Strinse le mani attorno alle sbarre di ferro e fece
dondolare i piedi nel vuoto. Quando doveva restare sola a pensare
quello era il posto che preferiva. Seduta al limitare del tetto, con
solo quei pali di metallo a separarla dal vuoto. Represse di nuovo un
singhiozzo quando improvvisamente una voce ruppe il silenzio, facendola
voltare di scatto.
«Hey.»
Clove
non voleva che qualcuno la vedesse in quei momenti, per questo dopo
ogni lezione si recava in cima al tetto dell’Accademia, dove
non
andava mai nessuno perché era accessibile solo tramite le
scale
antincendio. Ed era vietato usarle se non in caso di assoluta
necessità.
Si
passò velocemente le mani sugli occhi arrossati una seconda
volta,
come se potesse servire a qualcosa. Non poteva nascondere le lacrime
che aveva appena versato. Ma non voleva che Cato la vedesse piangere.
Era da tanto che non lo incontrava. O meglio, era da tanto che non si
parlavano. Si ricordava di averlo visto al funerale di sua madre, si
ricordava anche che Grace, la madre di Cato, l’aveva
abbracciata
facendole le condoglianze, ma finiva tutto lì. I ricordi di
quel
momento erano abbastanza offuscati e nella sua mente aveva impressa
vividamente solo la bara di legno scuro ricoperta di fiori che
conteneva il corpo di sua madre, di Maryse, e la mano di suo padre,
che stringeva la sua fin quasi a farle male. Lui non era più
stato
lo stesso da quel giorno.
«Credevo
che nessuno venisse quassù.» Sussurrò
Clove, voltandosi dall’altra
parte, osservando il sole che si apprestava a tramontare, tingendo il
cielo di tonalità pastello, cercando di ritrovare la sua
solita
compostezza.
«Nessuno
che segua le regole.»
Cato
si sedette al suo fianco sul pavimento freddo del tetto, le gambe a
penzoloni sopra al vuoto, ma Clove non disse nulla. Aveva paura di
parlare, aveva paura che la sua voce potesse inclinarsi e spezzarsi,
come uno specchio che cade a terra. No, non l’avrebbe fatto.
Lei
non era debole. Poi si chiese che cosa volesse Cato da lei. Si chiese
perché ogni tanto spuntasse fuori nella sua vita per poi
scomparire
altrettanto all’improvviso, come una fugace visione durante
una
notte buia.
«Ho
sentito che sei la più brava del tuo corso.»
Clove
annuì, senza però volgere lo sguardo verso di
lui.
«E
che sei brava con i coltelli.»
Un
tenue sorriso si aprì sulle sue labbra. Si chiese come fosse
possibile che uno come lui lo sapesse. Lui era il migliore
dell’intera Accademia.
«Ti
ho portato questo.»
Al
suono di quelle parole Clove fu costretta a voltarsi.
Osservò
incuriosita il ragazzo ma poi il suo sguardo cadde sulla mano tesa di
lui. In essa stringeva il manico di un coltello lucido e dalla lama
affilatissima. Aveva un’aria davvero letale.
Clove
alzò di nuovo lo sguardo sul ragazzo, sbalordita.
«Prendilo.
È tuo.» Disse Cato, facendo roteare il coltello in
aria e
afferrandolo per la lama. Senza tagliarsi. Ora Clove si
trovò a
fissare il manico finemente intagliato dell’arma. Sembrava
così
bello e prezioso. Allungò una mano, titubante, ma poi si
bloccò.
«Perché?»
Chiese con voce roca.
Cato
si strinse nelle spalle. «Sarebbe sprecato per me. Io
preferisco le
spade.»
Allora
la ragazzina prese l’arma per il manico e se la
rigirò tre le
mani, studiandola con cura. Era davvero bellissima.
«E’
magnifico. Grazie.»
«Ah,
diciamo che l’ho preso in prestito dall’Accademia,
quindi... è meglio se non lo usi qui.»
Clove
sorrise, ma ancora si chiedeva perché mai lui
l’avesse fatto.
Forse era stata sua madre Grace a dirgli di comportarsi bene con lei
visto che conosceva la sua situazione pietosa. Clove scacciò
quel
pensiero, odiava pensare che la gente avesse pena di lei per
ciò che
era successo.
«Bé...
ci vediamo allora.» La salutò il ragazzo alzandosi
in piedi con un
solo abile gesto. Le lanciò un ultimo sguardo prima di
balzare giù
per le scale, agile come un felino. Così Clove rimase ancora
sola,
in cima al tetto desolato dell’Accademia. Solo che adesso
stringeva
tra le mani la più bella arma che avesse mai visto. Non era
solo un
oggetto da usare per addestrarsi. Era davvero bellissimo. Ed era suo.
Probabilmente fu da quel giorno che le armi predilette di Clove
diventarono definitivamente i coltelli. Non c’era nessuno
più
bravo di lei a maneggiarli, in tutta l’Accademia. E lei aveva
solo
undici anni.
~
SPAZIO
AUTORE
Salve
a tutti! Sì lo ammetto, questa volta ci ho messo un
po’ ad
aggiornare... ma in questo periodo sono sempre piena di impegni...
per non parlare della scuola ç__ç ma
vabbé, ora per fortuna ho
aggiornato quindi... passiamo al capitolo.
Spero
che vi sia piaciuto! Quando mi è venuta in mente
l’idea di dare
una storia anche al coltello di Clove (??) non poteva che essere
questa. Quindi spero davvero che sia piaciuta anche a voi e...
bé,
ecco svelato il lutto che ha sconvolto così tanto la vita
della
povera piccola Clove! Posso anche dirvi che il prossimo capitolo
sarà
di transizione: infatti vedremo i cambiamenti di Clove al seguito di
questa sua grande perdita. Sarà di transizione anche
perché il
prossimo capitolo ci porterà dritti nella secondo parte
della
fanfiction quindi Cato e Clove non saranno più dei bambini!
Ok,
come sempre mi perdo sempre in chiacchiere quindi ora chiudo.
Ringrazio tutti quelli che leggeranno il capitolo e soprattutto che
lasceranno un piccola recensione... mi fanno sempre un immenso
piacere ;D
Con
la speranza di poter aggiornare presto (anche se, vi avverto,
giovedì
prossimo parto e non ci sarà per una settimana per cui spero
di
riuscire ad aggiornare prima!!) vi saluto! Alla prossima ;)
~
C
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Capitolo 5 *** 5. Crossroads ***
Till
your last breath
~
CAPITOLO 5
CROSSROADS
Colpo.
Colpo. Affondo.
La
testa di un manichino di plastica volteggiò in aria un paio
di volte
prima di atterrare dall’altra parte della palestra, rotolando
inerme sul pavimento di legno, lontana dal suo corpo, per finire la
sua corsa contro il muro della parete opposta.
Cato
si raddrizzò, abbassando la spada e guardando con orgoglio
il collo
mozzato del manichino. Un sorriso soddisfatto gli si dipinse sulle
labbra mentre i suoi compagni dell’Accademia si avvicinavano
ridacchiando e facendogli i complimenti.
Ma
si dispersero tutti non appena un uomo in giacca e cravatta
entrò
nella sala, raccogliendo tra le mani la testa di plastica. La
osservò
per un secondo, dritto nei suoi occhi dipinti, come per dare il tempo
a tutti i ragazzi di tornare alle proprie postazioni prima di essere
sgridati. Poi si diresse a passo di marcia verso il ragazzo biondo,
che stava ancora immobile al suo posto, giocherellando con la spada.
«Cato!»
Urlò l’uomo quando fu abbastanza vicino.
«Quanto volte ti devo
ripetere di non mozzare la testa ai nostri manichini?!»
L’uomo
urlava con la sua voce possente, ma Cato sapeva che non era veramente
arrabbiato.
«Mi
scusi, signor Silver.» Disse Cato, sorridendogli. Era palese
che non
era affatto dispiaciuto per quello che aveva appena fatto.
«Mi
scusi un corno! Lo sai quanto costano questi aggeggi? Arrivano
direttamente da Capitol City! Le fanno pagare care le cose,
laggiù!
La prossima volta, mi dovrai risarcire!» Terminò
il signor Silver,
il boss dell’Accademia. Era un uomo alto e muscoloso, con i
capelli
striati di grigio ben curati e pettinati all’indietro e un
paio di
baffetti perfettamente tagliati. Non lo dava a vedere, ma Cato sapeva
di essere uno dei suo favoriti. D’altronde non era un segreto
che
lui fosse praticamente il migliore e non perché suo padre
versava
ingenti somme a nome dell’Accademia.
Il
signor Silver aveva i suoi pupilli ed essi erano certamente quelli
che dimostravano di essere i migliori in forza e agilità.
Cato
rientrava fra questi anche se spesso doveva sorbirsi le sue lamentele
perché quasi ogni giorno capitava che il ragazzo combinasse
qualche
guaio. O che distruggesse il materiale dell’Accademia,
com’era
successo in quel momento, oppure che attaccasse lite con qualche
altro ragazzino... ad ogni modo la passava quasi sempre liscia.
Quasi.
«Cos’hai
da sghignazzare? Posa la spada. Sei già diventato fin troppo
bravo
con quell’arnese.» Cato aggrottò le
sopracciglia e lo guardò con
un cipiglio imbronciato. «Veloce, veloce! Spostati alla
postazione
di tiro con l’arco!» E non ammettendo repliche il
signor Silver
allungò la mano verso la spada, facendogli un gesto
impaziente. Cato
sbuffò e gliela porse. Senza perdere tempo a lamentarsi si
spostò
in fondo alla palestra e svogliatamente afferrò un arco. In
quel
momento vide un gruppo di ragazzi più piccoli, del secondo o
terzo
anno, passare nel corridoio adiacente alla palestra. Probabilmente si
stavano spostando nella palestra delle funi. La chiamavano
così non
solo perché in essa vi erano un incredibile moltitudine di
funi per
l’arrampicata, disposte in ogni angolo e posizione e con vari
livelli di difficoltà, ma anche perché quella
palestra era
interamente dedicata all’arte del sapersi arrampicare su ogni
cosa.
Oltre alle funi vi erano anche aggeggi come pertiche e costruzioni di
legno scolpite in piccoli cubi che arrivavano fino al soffitto. Senza
contare i grossi alberi che si ergevano al centro. Saper scalare gli
alberi era di vitale importanza perché quasi sempre
l’arena degli
Hunger Games era una foresta. Al limitare della grande palestra erano
state esportate direttamente dalle montagne del Distretto delle
spesse pareti rocciose alle quali bisognava arrampicarsi senza funi
di sicurezza. Cato non avrebbe saputo dire quanti pivelli incapaci si
rompessero un braccio o si slogassero una caviglia ogni giorno
perché
non erano in grado di scalarla.
Ad
ogni modo il gruppo era quasi del tutto passato, quando la sua
attenzione venne catturata da una chioma di capelli neri, raccolti in
un’alta coda di cavallo che danzava al ritmo della camminata
della
ragazza.
Cato
riconobbe Clove immediatamente.
E
mentre la vedeva scomparire dietro la porta, ripensò a
quando,
qualche giorno prima, l’aveva seguita sul tetto
dell’Accademia
per regalarle il pugnale. Non sapeva spiegarsi esattamente
perché
l’avesse fatto. Rubare era illegale. Non che gli importasse
poi più
di tanto e sicuramente se fosse stato beccato il signor Silver
avrebbe chiuso un occhio.
Ma
solo qualche giorno prima, mentre si dirigeva agli spogliatoi dopo
l’ennesimo giorno di allentamento, l’aveva vista
allenarsi tutta
sola nella palestra delle lame. Non c’era più
nessuno con lei,
eppure la ragazzina continuava ad allenarsi come se niente fosse,
come se ne andasse della sua stessa vita. Cato si era fermato qualche
istante ad osservare la sua muta concentrazione mentre con precisione
micidiale piantava un coltello dietro l’altro, tutti nel
centro
perfetto del bersaglio.
Cato
non era un ragazzo che si impressionava facilmente, ma la vista di
quella ragazzina di appena undici anni, ancora così piccola
e
smilza, che tirava i coltelli con tale precisione lo colpì.
Capiva
perfettamente come si sentisse.
Lei
aveva perso sua madre. Trovava conforto solo quando pensava
intensamente e senza sosta agli allenamenti. Era una cosa che lui
faceva da anni, ormai.
Era
da quando si erano conosciuti che aveva sentito qualcosa di diverso
in quella ragazzina dai capelli neri e gli occhi scuri e profondi.
Forse perché, in un qualche strano senso, erano anime
affine. Erano
lupi solitari che riuscivano a dimenticare tutto quanto solamente
quando erano immersi anima e corpo negli allenamenti. Ad ogni modo
aveva rubato quel coltello per lei e quando glielo aveva regalato
aveva capito che aveva fatto la cosa giusta. L’aveva visto
nei suoi
occhi, che per un breve istante si erano messi a brillare. Un
istante, uno solo che aveva sferzato la tristezza infinita che celava
negli occhi scuri.
«Hey!
HEY TU!» Cato si voltò di scatto, il suo momento
di riflessione
ormai interrotto. Il signor Silver si avvicinava a lui, sventolando
pericolosamente la spada sopra la sua testa. I ragazzi attorno a lui
si allontanarono, in allerta. «Che diavolo combini?! Ti ho
detto di
spostarti alla postazione dell’arco, ma non per stare li in
piedi
come un ebete a far nulla!»
Cato
lanciò un ultimo sguardo alla porta, anche se ormai Clove
non si
vedeva più.
Con
un sogghigno beffardo andò al suo posto e si mise in
posizione.
Chiuse un occhio allineando la punta della freccia verso il centro
del bersaglio. La scoccò ed essa sferzò
l’aria andandosi a
conficcare quasi perfettamente nel centro. Quasi.
Già, il tiro con l’arco non era il suo forte. Non
c’era verso di
cambiare i fatti, preferiva sempre le spade, pensò Cato,
incoccando
un’altra freccia.
Prima
di lanciare anch’essa verso il bersaglio, senza sapere su che
base
formulò un tale pensiero, sentì che un giorno non
troppo lontano la
sua strada e quella di Clove si sarebbero di nuovo incrociate.
~
FINE
PRIMA PARTE
~
SPAZIO
AUTORE
Salve
lettori e lettrici! E scusatemi se ci ho messo tanto ad aggiornare!
Come vi avevo forse accennato, sono andata via per una settimana e al
mio ritorno sono stata sommersa dalle cose di scuola che avevo
perso... interrogazioni, verifiche... un mare di roba ecco!
Ad
ogni modo ora sono di nuovo in pari, più o meno, e posso
tornare a
dedicarmi alla mia storia! Alloooora... il capitolo, come si
è
capito, è una transizione dalla prima alla seconda parte
della
fanfiction! Non è nulla di che, ma volevo inserire questa
breve
riflessione di Cato ;)
Il
prossimo capitolo invece vedrà l’inizio di una
parte nuova, i
protagonisti saranno più grandi e non più dei
bambini e... bé,
vedrete quando lo pubblicherò! Il che dovrebbe essere tra
non molto,
visto che voglio recuperare il tempo perduto!
Spero
davvero che mi perdoniate per la mia lunga assenza, che il capitolo
vi sia piaciuto e che continuiate a seguire la mia storia ;) Alla
prossima!
Grazie
a Hope_2000, Dream Moan e girlofblood per
aver recensito lo scorso capitolo ;)
~
C
|
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Capitolo 6 *** 6. Sweet revenge ***
Till
your last breath
PARTE SECONDA
~
CAPITOLO 6
SWEET REVENGE
Clove
stava seduta su un muretto grigio della scuola, celata dietro
l’ombra
di un grosso cespuglio fiorito. Le piaceva stare lì
perché nessuno
poteva vederla dal cortile affollato di studenti vocianti, mentre
lei, per ogni evenienza, poteva osservare chiunque senza essere
vista.
Proprio
mentre pensava a ciò, ecco che i suoi occhi trovarono una
figura ben
nota in mezzo alla folla di studenti. Un mezzo sorriso le
increspò
le labbra.
Era
cresciuta, ora. Aveva ormai quindici anni. Non era più la
bambina
solitaria che era un tempo. Non era più consumata dal dolore
e dalla
disperazione che una tanto grande perdita aveva comportato. Certo, la
malinconia era rimasta, ma ad un certo punto si era resa conto che
sua madre non avrebbe mai voluto questo per lei. E quindi aveva
deciso di tornare a vivere, perché era ingiusto lasciare che
la vita
le scorresse attorno come un fiume in piena mentre lei restava
indietro e si lasciava affondare. Era ingiusto nei confronti di chi
un’occasione simile non l’aveva avuta, di chi la
vita l’aveva
persa da un giorno all’altro, senza poterla nemmeno salutare.
Aveva
capito che era ingiusto nei confronti di sua madre lasciare che tutto
accadesse passivamente attorno a lei.
Sì,
sua madre avrebbe voluto vivere, ne era certa. Lei amava la vita in
ogni sua sfumatura, perché sapeva sempre coglierne i lati
positivi.
Clove invece, aveva preso da suo padre. Un carattere più
chiuso, più
schietto. Ma questo non giustificava il suo comportamento, non
più. Così aveva pian piano ricominciato a
riprendersi la sua vita.
In
primis si era data da fare all’Accademia, allenandosi con
costanza
e diventando una delle più brave e letali combattenti e non
solo tra
i compagni della sua età. Il suo punto forte erano le lame
piccole,
utili per combattimenti ravvicinati ma soprattutto come armi da
lancio. Aveva una mira infallibile.
Clove
si rigirò tra le mani un coltello che si portava sempre
appresso.
Quando non aveva niente da fare, si esercitava con quello.
Ma
non era un semplice coltello, no. Glielo aveva donato il ragazzo che
stava osservando da lontano. Anche lui era cresciuto. Non sembrava
più un ragazzino ormai: era diventato più alto e
il suo fisico si
era irrobustito, merito anche del duro allenamento che seguiva ogni
giorno in Accademia. Ma alcuni tratti di lui restavano sempre gli
stessi, come gli occhi azzurri e limpidi e i capelli biondi e
chiarissimi.
E
la sua ostentata arroganza e superbia. Sapeva di essere il migliore e
non cercava minimamente di nasconderlo. E Clove non lo biasimava per
questo. Anzi, lo ammirava.
Proprio
mentre era persa nei suoi pensieri una voce la riportò alla
realtà.
«Oh!
Ma lo sai che sei inquietante Clove? Perché ti nascondi
sempre qui
dietro al buio con quel dannato coltello in mano? Progetti di
uccidere qualcuno?»
Carolyn.
Per qualche arcana ragione nota solo a lei, quella piccola ragazzina
smilza con vivaci capelli rossi aveva deciso di voler essere sua
amica. La vecchia Clove l’avrebbe
allontanata
immediatamente, perché quel piccolo essere dalla voce acuta
non
aveva niente a che fare con lei: non frequentava l’Accademia,
non
sapeva maneggiare nessun arma ed era incapace in qualsiasi
attività
che necessitasse di un minio di praticità. Per esempio non
sapeva
arrampicarsi sul muretto o correre per più di cinque minuti
consecutivi. Figurarsi tirare un coltello. Tutte queste cose la
irritavano molto.
Stava
di fatto che, da un giorno all’altro, Clove iniziò
a trovarsela
attorno più spesso di quanto potesse desiderare. La maggior
parte
delle volte si limitava ad ignorarla, facendo finta di ascoltare i
suoi futili discorsi e sperando che, offesa dal fatto di essere
ignorata, se ne andasse le lasciasse perdere. Ma questo non succedeva
mai.
Clove
non era fatta per avere amici. Non avrebbe saputo spiegarsi il
perché, semplicemente non ci riusciva. O forse non aveva mai
trovato
la persona giusta. Preferiva la compagnia delle sue armi o la
solitudine dei boschi o la neve d’inverno. Tutte cose che non
la
deludevano mai e non la ferivano mai. Già, nemmeno i
coltelli. Da
che si ricordava, non si era mai tagliata con uno
di essi tra
le mani.
«Può
darsi.» Rispose Clove pigramente, continuando a giocherellare
con il
suo coltello e a seguire con lo sguardo i movimenti di Cato in
lontananza, senza degnare Carolyn di una minima attenzione. La
ragazza rise, come se Clove avesse fatto una battuta. In
realtà non
era affatto così, ma glielo lasciò credere.
«Cosa
stai guardando?» Chiese lei, alzandosi in punta di piedi per
vedere
oltre il muretto. Ovviamente non provò neanche ad issarcisi
sopra.
Invece iniziò a saltellare, cercando di capire cosa avesse
attirato
il suo interesse.
Ancora
una volta, Clove non la degnò di uno sguardo.
Cato
stava scherzando con dei compagni di classe. Tirò una pacca
sulle
spalle di uno, che per poco non perse l’equilibrio e cadde a
terra.
Questo non fece altro che farlo ridere di più. Ma il suo
compagno
non sembrava poi così divertito.
A
vederla così, sembrava che Cato avesse tantissimi amici, ma
in
realtà la maggior parte di quelli che stavano con lui era
perché lo
temevano. Nessuno a scuola avrebbe mai osato mettersi contro di lui,
ma per evitare qualsiasi disguido era meglio cercare di entrare nelle
sue grazie per ottenere l’immunità. In fondo
quando Cato si
arrabbiava qualcuno finiva quasi sempre in ospedale con qualcosa di
rotto.
«Ommioddio.
Stai fissando Cato?»
«No.»
«Sì
invece. Ti sei presa una cotta?»
«No.»
Ribadì di nuovo Clove, scocciata.
«O
dai, sii sincera!» Era ufficiale ormai, Carolyn non sapeva
proprio
nulla di lei. A Clove i ragazzi non interessavano. Le importava solo
delle sue armi e dei suoi allenamenti. Cato era solo uno come tutti
gli altri, con l’unica differenza che Clove lo ammirava per
il suo
talento all’Accademia e per il fatto di essere il
più temuto e
rispettato di tutta la scuola.
E
poi non si era mai sdebitata con lui per il regalo che le aveva
fatto, pensò Clove lanciando in aria il coltello. In un
certo senso,
si sentiva ancora in debito e sapeva che un giorno o l’altro
avrebbe dovuto almeno ringraziarlo, ma non lo faceva mai e si
limitava ad osservarlo di tanto in tanto, come se si aspettasse che
l’occasione giusta o le parole adeguate piombassero dal cielo
al
momento opportuno. Ma non era mai accaduto.
Carolyn
le scuoteva una mano davanti agli occhi, cercando di attirare la sua
attenzione, ancora eccitata dallo scoop che aveva appena scoperto. O
meglio dire che aveva appena inventato. La conferma del fatto che
quella ragazzina non sapesse nulla di lei le si presentò
solo
qualche istante dopo. «Dai, ammettilo che ti piace
Cato!» Riprese a
schiamazzare come una gallina, insistendo ancora su
quell’argomento.
Solo che la sua voce ora si era decisamente alzata troppo di volume e
chiunque passasse lì vicino avrebbe potuto sentire le
sciocchezze
che le uscivano di bocca. «Ogni giorno ti metti qui e lo
osservi!
Non ho forse ragione?»
Clove
la fulminò con lo sguardo, lanciandole un avvertimento, ma
proprio
in quel momento passò loro affianco Damien, che ovviamente
aveva
sentito tutto. Il sorriso beffardo che aveva dipinto sulle labbra lo
confermava.
Anche
lui era cresciuto, ma il suo carattere non era cambiato. Per niente.
«Ma
guarda un po’. Chi l’avrebbe mai detto? Clove la
sfigata ha una
cotta per il fighetto?»
Lo
sguardo omicida di Clove si spostò lentamente su Damien. Lui
aveva
un enorme sorriso di scherno stampato in volto e la guardava con le
mani nelle tasche dei pantaloni, cogliendo al volo
l’opportunità
per tormentarla. D’altronde era da molto che non lo faceva.
Dopo la
morte di sua madre aveva evitato. Che gran tatto.
Ma
probabilmente ciò che aveva sentito dire da quella maledetta
pettegola era stato uno spunto troppo succoso per poter lasciar
perdere. D’altronde Clove sapeva che Damien non la sopportava
ed
era anche risaputo che tra lui e Cato non ci fosse un grande rapporto
di amicizia, anzi.
«Tappati
quel dannato buco, Dam. Non sono
dell’umore adatto.» Clove
pronunciò il nomignolo idiota con il quale lo chiamavano i
suoi
amici come se stesse sputando fuori veleno.
Damien
si mise a ridere, scansando Carolyn senza degnarla di uno sguardo. A
Clove avrebbe potuto fare pena, d’altronde era
l’unica ragazza
della scuola che almeno provava ad essere amica sua, ma in
realtà
non le importava molto di lei. Infondo non le aveva chiesto di
cercare di essere sua amica. Stava facendo tutto da sola.
«E
quando mai lo sei, eh? Depressa.»
Damien
aveva toccato un tasto scoperto e questo bastò ad irritare
Clove più
del necessario. La ragazza arricciò le labbra in un
sorrisetto
malvagio. D’altronde ormai era grande abbastanza per reagire,
no?
Era da tempo che aspettava di avere la sua vendetta, aveva progettato
di prendersela una volta iniziata l’Accademia, ma da allora
aveva
avuto altri pensieri per la testa e l’idea di Damien e dei
suo
leccapiedi, che in quel momento non erano nei paraggi, non
l’aveva
mai più sfiorata. Ma ora, mentre osservava i suoi occhi
scuri e
strafottenti, ricordò i momenti in cui era bambina, quando
lui e i
suoi amichetti se la prendevano con lei e ricordò i suoi
progetti e
l’impazienza di potersi finalmente vendicare nel modo
adeguato. Bé,
ora poteva farlo. «Ti conviene andartene subito prima che mi
arrabbi
davvero, Damien.» Come se non lo fosse già. Ma
quelle parole
volevano solo essere una provocazione... che il ragazzo colse subito,
ovviamente.
«Oh,
ma che paura! Che succede, ho forse ferito i tuoi
sentimenti?» Disse
lui con finto tono piagnucoloso, schernendola.
«No,
ma presto potrebbe essere che io ferisca i tuoi. A pensarci bene, ho
parecchi conti in sospeso con te. Sarebbe ora di
pareggiarli.» Clove
saltò giù dal muretto con
l’agilità e la grazia di un gatto e
soppesò il suo coltello affilato tra le dita, con finta aria
noncurante.
«Oh,
non fare tanto la dura, ragazzina. Non avresti mai il coraggio
di...»
e proprio mentre pronunciava quelle parole, Clove lanciò il
suo
coltello con una precisione impeccabile e una velocità quasi
impercepibile. La lama si conficcò nel muro alle spalle di
Damien
mentre sulla sua guancia si apriva un taglio sottile.
«Brutta
piccola mocciosa!» Esclamò lui, passandosi con
rabbia una manica
della camicia candida sulla guancia, pulendo il sangue che iniziava a
colare dalla ferita superficiale. La stoffa si macchiò
immediatamente di rosso.
Clove
invece si lasciva andare ad una ristata divertita. Era bello mettere
in pratica ciò che aveva imparato a fare così
bene e farlo non su
un manichino ma su un soggetto come quell’imbecille di
Damien.
Clove sentì Carolyn trattenere il respiro mentre la vedeva
scagliare
il coltello ed emise un gridolino acuto quando vide il sangue colare
dalla guancia di Damien. Appariva abbastanza scioccata dal gesto di
Clove, ma lei ovviamente non se ne curò.
Con
uno sguardo carico d’ira Damien caricò contro di
lei, ma Clove era
pronta. Oltre ad essere un’ottima tiratrice era anche piccola
e
veloce. Inafferrabile per un bestione lento e impedito come lui. In
un istante Clove si ritrovò alle sue spalle e lo
colpì alla schiena
con un calcio preciso e mirato. Damien cadde in ginocchio ma si
rialzò quasi subito, rosso per l’indignazione.
Clove
non se n’era accorta ma ora quasi tutti i ragazzi nel cortile
stavano osservando la scena o si avvicinavano per farlo. Cato
compreso. Bene, pensò, ora lui avrebbe visto che sapeva
cavarsela
benissimo anche da sola. Damien cercò di nuovo di colpirla,
deciso a
rimediare all’umiliazione di essere stato messo in ginocchio
da una
ragazza e per di più molto più piccola di lui, ma
Clove recuperò
il suo coltello e, con poche abili mosse, Damien se lo
ritrovò
premuto contro la gola.
Clove
gli sussurrò all’orecchio, con voce appena
udibile. «Non osare
mai più disturbarmi, o la prossima volta
potrei non
fermarmi.» La sua voce ora era puro veleno, mentre aumentava
di poco
la pressione della lama sul collo, tanto per marchiare meglio le sue
parole. «È chiaro?»
Lui
grugnì qualcosa in risposta, ma Clove voleva sentire la sua
voce,
voleva regalargli un’umiliazione senza pari, davanti a tutta
la sua
scuola, ai suoi compagni e ai suoi amici. Premette di più la
lama
sulla sua pelle ma prima che potesse aprire una vera ferita Damien
sputò fuori con voce udibile un sì.
«Bene.»
Esclamò Clove, d’un tratto di nuovo allegra e
sorridente,
lasciandolo andare.
Damien
si allontanò in fretta, barcollando e guardandola con odio.
«Sei
solo una piccola psicopatica. Ti senti tanto forte armata. Vorrei
vedere cosa faresti se io avessi una spada. Ma non finisce qui. Me la
pagherai. Mi vendicherò.»
Disse prima di correre via,
accompagnato dalle risate di molti ragazzi. Clove si voltò
per
recuperare il suo zaino dal muretto e fu allora che i suoi occhi
incontrarono quelli di Cato. Non seppe dirlo con certezza, ma le
parve di vedere un’espressione soddisfatta sul viso di lui.
Con
un sorriso più allegro che mai, Clove si voltò,
mulinando i lunghi
capelli neri, e con molta dignità lasciò il
cortile, sotto lo
sguardo dei suoi compagni. C’era chi la guardava con una
certa
ammirazione, chi con timore o incredulità, chi come se fosse
completamente matta. Carolyn era tra questi, ma Clove se la
lasciò
alle spalle senza considerarla, camminando a testa alta per la prima
volta da molto, molto tempo.
SPAZIO
AUTORE
Salve
a tutti lettori e lettrici! Eccovi finalmente la seconda parte della
fanfic! Come avrete potuto notare ora Cato e Clove non sono
più dei
bambini, ma dei ragazzi e questa è la principale differenza
dai
cinque capitoli precedenti.
Spero
veramente che il capitolo vi sia piaciuto! Io mi sono divertita molto
a scriverlo! A descrivere il comportamento di Clove nei confronti
della povera Carolyn (dai, fa un pochetto di pena, no? Anche se, come
si dice, chi è causa del suo male pianga sé
stesso!)
E
mi è piaciuto anche scrivere della così aspettata
vendetta di
Clove! Damien mi piace come personaggio, lo immagino come...
be’,
come un Draco Malfoy dei poveri, ecco u.u solo con i capelli scuri!
Ahah sappiate che questa non è l’ultima volta in
cui lo vedremo,
anzi. Più avanti diventerà molto importante.
Che
altro dire?? Grazie mille a chi leggere/recensisce/segue questa
storia! Sono sempre più felice di averla scritta e
ricordatevi che
una recensione, anche piccola piccola, mi fa sempre piacere!
Be’,
alla prossima allora! Con affetto,
~
C
|
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Capitolo 7 *** 7. La vendetta di Damien ***
Till
your last breath
CAPITOLO 7
LA VENDETTA DI
DAMIEN
Clove sapeva di dover fare qualcosa.
Non potevano andare avanti così. Suo padre non portava più a casa soldi
a sufficienza per vivere e Clove iniziò a dubitare anche che stesse
seriamente lavorando. La maggior parte delle volte si chiudeva nel suo
studio e non faceva altro che starsene lì chinato su fogli spiegazzati
e centinaia di carte sulle quali scriveva chissà che cosa. Si barricava
lì dentro per la maggior parte del giorno, senza mai aprire le finestre
per far entrare un po’ d’aria fresca o senza mai scostare le tende
scure per lasciar filtrare la luce del sole. La polvere regnava sovrana
in tutto il suo studio ma lui non permetteva a nessuno, nemmeno a lei,
di mettervi mano.
Clove aveva provato a farlo
ragionare, me sembrava quasi di parlare con uno spettro, con qualcuno
che non poteva realmente sentire. Se ne stava lì a fissarla con i suoi
occhi vuoti e l’espressione lontana mentre lei parlava.
Ma a detta sua tutto andava
bene.
Sì, e forse nel suo mondo
immaginario sua madre era ancora viva e sarebbe tornata a casa a
momenti. Ma non era così.
Era in quello stato catatonico
sin dalla sua morte. Da allora non era più stato lo stesso. Era rimasto
indietro e non c’era modo di salvarlo dal mondo in cui era caduto o
meglio in cui si era gettato a capofitto. Un mondo incomprensibile a
tutti se non a lui stesso. Lavorava, di tanto in tanto, ma non portava
a casa soldi a sufficienza. E questo aveva iniziato a diventare un
problema. Un problema che Clove non sapeva ancora come risolvere
ma al quale pensava da molto.
Suo padre aveva deciso di
vivere in un mondo di finzione, ma lei viveva nella realtà. Ed era
abbastanza grande per realizzare che le cose andavano male. Tuttavia
era ancora troppo giovane per poter portare a casa dei soldi. Chi
andava ancora a scuola o all’Accademia non poteva lavorare, era
categoricamente vietato dalle leggi. O almeno lo era nel Distretto 2.
Clove si era arrovellata per
giorni e giorni su questo problema, senza trovarvi una soluzione.
Sapeva solo che senza soldi suo padre non avrebbe più potuto pagare il
cibo, e probabilmente avrebbero perso anche la casa. E allora cose ne
sarebbe stato di loro?
No, Clove non lo avrebbe
permesso. E c’era una sola soluzione a tutti quei problemi.
Un solo modo perché una ragazza
di quasi sedici anni potesse portare a casa soldi.
Solo uno.
Gli Hunger Games.
L’idea le era venuta in mente a
scuola, mentre la professoressa ne parlava. Si chiese come avesse fatto
a non pensarci prima. Il vincitore era ricoperto da ricchezze e onore.
E una nuova casa. Forse una nuova vita avrebbe strappato suo padre dal
mondo irreale in cui si era rinchiuso. Ma c’era un problema.
Doveva tornare a casa.
Doveva vincere i giochi.
Doveva uccidere gli altri
ventitré tributi.
Non che non ne avesse le
capacità. Clove era forte e agile. Letale quando impugnava i suoi
coltelli. Però non poteva essere così certa di vincere. C’era sempre
una probabilità, seppur piccola, di morire nell’arena...
Ma no, doveva scacciare
quell’idea dalla sua testa. Doveva essere sicura di quello che faceva.
Finita la lezione, ormai aveva
deciso. Si sarebbe proposta come tributo e lo avrebbe fatto quel giorno
stesso. Era convinta. Determinata. Era pronta. Poteva farcela. Anzi, ce
l’avrebbe fatta.
Quando lo comunicò agli
istruttori, rimasero tutti molto colpiti dalla sua scelta. Di solito i
volontari erano più grandi di lei. Ma questi non erano affari loro. Ciò
che dovevano fare era avere due tributi da mandare, ogni anno. Non
importava la loro età.
Quando Clove si lasciò
l’Accademia alle spalle, lo fece con fierezza. Sì, avrebbe partecipato
agli Hunger Games. E sì, avrebbe vinto.
In più le era giunta voce che
il tributo di quell’anno sarebbe stato Damien. A quel pensiero le sue
labbra si incurvarono in un sorriso sadico. Sarebbe stato un onore per
lei far fuori quell’imbecille una volta per tutte e mostrare al mondo
intero quanto valesse in realtà. Era famoso e rispettato solo per
l’alta posizione del suo patrigno in società. Era uno dei pezzi grossi
e collaborava anche con Capitol City. Ricco sfondato, con una casa da
fare invidia alle villette che stavano su al villaggio dei vincitori.
Per questo era sempre circondato dalla sua banda di gorilla leccapiedi.
Ma nell’arena non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo. Nessuno a
salvarlo. Sarebbero stati solo loro due e le loro abilità.
E lei non vedeva l’ora che
arrivasse quel momento.
***
L’allenamento era finito prima
quella sera. Tecnicamente lei avrebbe dovuto fare degli orari extra, in
preparazione agli Hunger Games, ma il suo addestratore aveva degli
impegni e le aveva detto di essere comunque a buon punto con
l’allenamento. Era fiero di lei. Avrebbe avuto molte probabilità di
vittoria.
Bé, non c’era bisogno che
glielo dicesse lui.
Clove stava raccogliendo i
capelli bagnati in una coda frettolosa, quando vide Damien trascinarsi
stancamente verso l’uscita. Lui
avrebbe certamente avuto bisogno di allenamento extra, se voleva avere
qualche chance di batterla nell’arena.
Clove gli si avvicinò
silenziosa, con un sorrisetto canzonatorio sulle labbra. Era stanca, ma
non abbastanza per evitare un battibecco con lui.
«Hey, stanco di allenarti Dam?
Potresti anche smettere, sappiamo entrambi che non uscirai vivo
dall’arena.» Esclamò Clove con voce di velluto.
«Cosa ne sai tu, nanerottola?»
«Ma come, non te l’hanno ancora
detto?»
Lui la guardò senza capire,
detergendosi il sudore dalla fronte. Era talmente stanco che non aveva
nemmeno la forza di prenderla in giro adeguatamente.
«Sarò io il tributo di
quest’anno. Dovrai affrontare me nell’arena. E sappiamo entrambi che
non sei in grado di battermi.» Disse con un largo sorriso innocente.
Lui si fermò un istante,
un’espressione sorpresa sul viso. Clove era estasiata dall’effetto che
le sue parole avevano avuto. Non credeva di essere così temuta da lui.
O almeno non credeva che lo avrebbe dato a vedere in modo così palese.
Era più codardo di quanto si
ricordasse.
Ma improvvisamente le labbra di
Damien si piegarono in un ampio sorriso. Anzi, Damien scoppiò
addirittura a ridere. Clove gli rivolse un’occhiata guardinga. Era
forse impazzito?
La ragazza rimase pazientemente
in attesa che lui la smettesse di ridere. Quando lo fece, i suoi occhi
erano strani. Come se si
fossero rianimati, come se la stanchezza fosse evaporata da essi,
lasciando spazio a una luce sinistra. Clove non riusciva a capire il
perché, ma non si fece troppi problemi e non disse nulla.
«Ah, è così allora? Ti offrirai
volontaria?» Damien ricominciò a ridere. «Bene, non vedo l’ora che
arrivi il giorno della mietitura. Ci sarà da divertirsi nell’arena,
vero? Credo che finalmente avrò la mia vendetta. E’ sarà ancora più
spettacolare di quanto credessi.» E con quelle parole e un sorriso
meschino si allontanò. Ma c’era qualcosa di strano in lui, Clove sentì
quella sensazione. Come se le stesse nascondendo qualcosa. Come se in
quell’istante di esitazione nella sua mente si fosse formato un piano
diabolico.
Clove si strinse nelle spalle e
scosse la testa. Ad ogni modo non aveva importanza. Poteva escogitare
tutti i piani diabolici del mondo. Non avrebbe cambiato i fatti, non
nell’arena. Là sarebbero stati solo loro due, uno di fronte all’altra.
E a combattere sarebbero state le loro abilità, non i suoi trucchetti o
i suoi amici. Solo loro due. E allora Clove avrebbe pareggiato i conti
una volta per tutte.
***
Damien svoltò l’angolo e attese
che la ragazza se ne andasse. Sentì i suoi passi sempre più lontani,
poi una porta che sbatteva. Era solo nella palestra, ora.
Scoppiò di nuovo a ridere,
abbandonandosi contro la parete più vicina fino a scivolare a terra,
senza smettere. L’euforia aveva pervaso ogni nervo del suo corpo,
scacciando temporaneamente via la spossatezza. Non ci credeva. Non
poteva davvero crederci.
Lei pensava che lui sarebbe stato il volontario di
quell’anno.
Non aveva idea. Non aveva
assolutamente idea di quanto si sbagliasse.
Voleva vendicarsi
dell’umiliazione subita da quella sciocca ragazzina, ma questo era
molto meglio. Oh, era assolutamente meglio. Era magnifico.
Non vedeva l’ora di vedere la
sua faccia il giorno della mietitura. Quando avrebbe realizzato che lui
non era il volontario. Voleva vedere ogni singolo cambiamento, ogni
singolo istante. Voleva vedere la consapevolezza farsi largo sul suo
viso. Voleva vederla distrutta, dentro e fuori. Voleva gustarsi il
momento in cui lei avrebbe capito di dover uccidere il ragazzo che
aveva sempre amato, sin da quando era una stupida mocciosa. Così
finalmente avrebbero pareggiato i conti. Anzi, era ancora meglio: si
sarebbe vendicato di due persone in un colpo solo. Avrebbe potuto
essere più fortunato di così?
Il bello degli Hunger Games era
che tutto sarebbe stato ripreso. Anche il momento in cui lei avrebbe
dovuto affrontare la verità.
Damien smise di ridere,
riprendendo a respirare normalmente e con una spinta tornò in piedi. Ma
il sorriso malsano che aveva sulle labbra non si spense, anzi, rimase
lì per tutto il resto della giornata.
Durante il tragitto per tornare
a casa pensò a quando sarebbe arrivato quel momento. Il momento in cui
sarebbero rimasti solo loro due nell’arena. Lei lo avrebbe ucciso e
avrebbe vinto, accettando di convivere con il risentimento e il senso
di colpa per tutta la sua vita, o avrebbe ceduto e si sarebbe fatta
ammazzare come una sciocca ragazzina piuttosto che ferire il ragazzo
del quale era innamorata? Damien non seppe darsi una risposta. Ma non
c’era bisogno che si arrovellasse troppo. Presto lo avrebbe scoperto.
Lo avrebbe visto con i suoi occhi. Ormai era solo questione di tempo.
SPAZIO
AUTORE
Salve a tutti miei cari lettori
e lettrici! Mi spiace di averci messo un po' per aggiornare ma la
scuola mi sta davvero torturando! Comunqe... eccovi qui il capitolo!
Clove ha preso l'estrema
decisione: per permettere a lei e a suo padre di sopravvivere ha deciso
di offrirsi volontaria per gli Hunger Games! È sicura di poter vincere,
sa di averne tutte le possibilità ma c'è una cosa che ignora
totalmente... ovvero che Damien non sarà il tributo maschio. E non
aveva ancora fatto i conti con la sua vendetta. Ma perché lui la odia
tanto, vi chiederete? Questo suo spasmodico desiderio di vendetta va
ben oltre l'immaginabile! Be', sappiate che c'é un'altra ragione che lo
ha portato ad odiare Clove, ed essa verrà svelata nel prossimo
capitolo. Detto questo, non mi dilungo oltre ma ringrazio tutti per
aver letto la mia storia, per averla inserita tra le seguite o
preferite e per averla commentata! Grazie, davvero di cuore ;)
E in particolare ringrazio: Dream Moan (grazie davvero per
avermi seguita fin dal primo capitolo <3), Queen_B (le tue recensioni sono
sempre meravigliose *-*), Veroniquess_95,
lottieverdeen e Lali Jai per aver recensito lo
scorso capitolo! Grazie mille ;)
Alla prossima!
~ C
|
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Capitolo 8 *** 8. La Mietitura ***
Till
your last breath
CAPITOLO 8
LA
MIETITURA
Clove
camminava con passo sicuro per la strada principale del Distretto 2.
Indossava un semplice vestito nero, come se stesse portando ancora il
lutto, e dei comodi stivali in pelle, neri anch’essi, come quelli che
usava per gli allenamenti. Dentro uno stivale aveva nascosto, com’era
solita fare, il suo coltello preferito.
Il giorno era arrivato.
Clove non riusciva ancora a capire come si sentisse. Agitata? Euforica?
Impaziente?
Preoccupata? No. Preoccupata no.
Aveva superato quel punto molti mesi prima. Sapeva di potercela fare e
di avere tutte le possibilità per vincere. Era allenata, abile, veloce.
Senza scrupoli, perché tutto ciò che voleva era essere incoronata
vincitrice e sarebbe successo. Non importava a che prezzo.
Anche se questo voleva dire uccidere.
D’altronde non era forse quella la regola dei Giochi? Uccidere o essere
uccisi?
Lei non sarebbe mai stata la vittima.
Si mise in fila assieme alle altre ragazze della sua età. Si sentiva
gli occhi di tutte puntati addosso. Molte mormoravano, alcune la
indicavano anche, cercando di non farsi notare dai pacificatori che
camminavano loro attorno. Clove sapeva perché lo facevano; non capitava
spesso che si offrisse una ragazza di sedici anni.
Bé, quell’anno sarebbe successo.
Da qualche parte nella folla sapeva esserci Carolyn. Lei aveva provato
a convincerla a desistere in ogni modo possibile, le aveva anche
offerto dei soldi una volta intuito che il suo problema fosse quello.
Ma Clove l'aveva scacciata in malo modo, senza darle ulteriore tempo di
parlare e senza ascoltare le sue parole. Da quel giorno Carolyn non le
aveva più rivolto la parola, non l’aveva più cercata.
Clove sapeva di essere meschina, ma non poté negarsi di pensare che
quel giorno l’avrebbe volentieri presa a schiaffi. Chi era lei, per
cercare di convincerla? Per farle cambiare
idea? Nessuno, non era nessuno. Alla fine si era trattenuta,
limitandosi a usare le parole. Avrebbe potuto sfogarsi nell’arena,
anzi.
La rabbia repressa l’avrebbe resa ancora più feroce.
Da qualche parte tra i ragazzi invece c’era Damien. Chissà cosa stava
facendo o a cosa stava pensando. Si stava mangiando le unghie
disperando per il suo futuro? Stava per mettersi a piangere immaginando
la sua morte imminente? Un sorriso diabolico increspò le labbra di
Clove. Dal giorno in cui aveva deciso di offrirsi come tributo e dare
una scossa alla sua vita si era buttata a capofitto nell’allenamento,
senza badare a nient’altro. Era diventata più forte, più sveglia. I
suoi riflessi più acuti. Era diventata una vera cacciatrice.
Era come un lupo: silenziosa e letale.
Clove vide l’assurdo emissario mandato da Capitol City salire sul
palco. Era un ometto basso e tondo, con dei radi e stopposi capelli
verde acido e gli occhi euforici. Iniziò a parlare, ripetendo le solite
cose che ripetevano ogni anno
ad ogni edizione dei Giochi: com’erano nati, la ribellione dei
Distretti, l’oppressione, il periodo buio. E poi la rinascita.
L’uomo portò al Distretto i complimenti della Capitale, perché dai
tempi della ribellione loro erano uno dei pochi Distretti ad essere
tornati fedeli alla città che aveva dato loro tutto. Era dal loro
Distretto che venivano la maggior parte dei pacificatori che
difendevano la capitale, ad esempio.
Clove ascoltò solo i primi minuti del suo discorso, poi iniziò ad
ignorarlo. Finalmente iniziava a provare qualcosa, una strana
sensazione alla quale non riusciva a dare un nome.
Fissava il palco e pensava che presto lei sarebbe stata là. Ricordava
tutte le sue mietiture, sin da quando era bambina, quando c’era ancora
sua madre che si preoccupava per lei. Chissà cosa avrebbe pensato nel
vederla offrirsi volontaria come tributo.
Fissava il posto alla destra dell’uomo che presto avrebbe occupato lei.
Pensava alla sua voce, che presto si sarebbe levata al di sopra di
tutte le altre e sarebbe stata forte e chiara. Pensava a tante cose,
tutte confuse. E iniziò a non capirci più nulla.
Una strana sensazione la pervase da dentro, facendola quasi tremare.
Per poco non si rese conto che il suo momento era più vicino di quanto
pensasse.
«E ora... è finalmente arrivato il momento di dare il benvenuto ai due
Tributi, un ragazzo e una ragazza, che onoreranno il Distretto 2 nella
settantaquattresima edizione degli Hunger Games!» Esclamò l’ometto
mentre la folla iniziava a battere le mani e l’emozione si faceva quasi
palpabile. Clove sentì le gambe tremarle.
Com’era possibile? Lei non aveva paura. Poi sentì il freddo famigliare
del manico del coltello che le sfiorava il polpaccio. Il coltello che
aveva nascosto negli stivali. Il suo
coltello. Quello che era così brava a maneggiare. Avrebbe potuto
vincere i Giochi usando solo quello. Il tremore passò veloce com’era
arrivato, mentre l’uomo, come seguendo un copione, pronunciava quelle
parole.
E Clove si preparava ad andare in contro al suo destino.
«Iniziamo dalla giovane donna. Ora...» Disse l’uomo alzando una mano
sull’imboccatura della boccia di vetro contenente i nomi di tutte le
ragazze del Distretto. La mano rimase sospesa con teatralità,
ondeggiando lentamente come se stesse indugiando. L’uomo passava lo
sguardo tra le file di ragazze, come se cercasse di indovinare chi
sarebbe stata la volontaria, cercando di cogliere sguardi, movimenti o
qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto essere giudicata un indizio.
Lui sapeva benissimo come sarebbero andate le cose, ma era un uomo di
Capitol e loro non facevano nulla se non uno spettacolo. «Come ogni
anno sono obbligato a porvi questa domanda.» Il suo sguardo vagava
ancora tra loro, avido e impaziente. Ma i suoi occhi non si
soffermarono nemmeno su Clove. Sarebbe stato sorpreso allora, di
scoprire la volontaria di quell’anno. «C’è... per caso... una
coraggiosa ragazza che vuole offrirsi come tributo?»
Ecco. Era il momento.
Il tempo parve rallentare, mentre Clove compieva un passo avanti.
Decisa. Sicura.
«Io.» La sua voce era ferma, come aveva saputo sarebbe stata. Il suo
sguardo duro e determinato, senza emozioni. «Io.» Ripeté a voce più
alta, in modo che tutti potessero sentirla. «Mi offro volontaria come
tributo.»
L’uomo posò veloce lo sguardo su di lei, studiandola come se fosse un
oggetto prezioso da aggiungere ad una collezione. Ci fu un momento di
silenzio, poi l’uomo la invitò a salire sul palco. E il tempo tornò a
scorrere come prima.
Solo che Clove non riusciva a stargli dietro.
In un istante si ritrovò sul palco con l’uomo che le chiedeva di
presentarsi. Le chiedeva quanti anni avesse. Le faceva i complimenti
perché era molto giovane.
Così, tra gli applausi del pubblico, l’uomo l’afferrò per il braccio
tirandola in avanti.
«Facciamo tutti un applauso alla nostra giovanissima Clove, che siamo
sicuri porterà onore al vostro Distretto! Che la fortuna sia sempre
dalla tua parte, ragazza mia.» Esclamò l’uomo allentando la presa sul
suo braccio. Clove fece un passo indietro per evitare di essere
arpionata di nuovo da quell’essere. Non lo dava a vedere spesso, ma
quelli di Capitol City non le andavano veramente a genio.
L’uomo parve non notare l’espressione scocciata sul volto di Clove. Ora
era arrivato il momento di conoscere il tributo maschio. Piombò di
nuovo il silenzio in tutta la piazza.
«Ed ora, dopo aver conosciuto il nostro primo Tributo...» Disse facendo
un cenno a Clove. «E’ giunto il momento di chiamare anche il secondo.
Il coraggioso uomo che combatterà negli Hunger Games per portare onore
al Distretto 2!» Un silenzio carico di tensione si spanse in tutte le
direzioni, mentre Clove cercava Damien tra la folla. Se non fosse stata
così confusa dalle troppe emozioni avrebbe sorriso sarcasticamente,
impaziente di vedere il suo peggior nemico arrivare al suo fianco. Ma
non ci riuscì. Ancora non aveva realizzato di essere lì, di essersi
davvero offerta. Non aveva realizzato che di li a poco avrebbe lasciato
il Distretto 2 e sarebbe andata a Capitol City.
«C’è qualche uomo coraggioso che decide di offrirsi come tributo?»
Chiese l’uomo di Capitol, con un sorriso velato sulle labbra violacee.
Clove non riusciva a trovare Damien in mezzo alla folla, ma poco
importava. Presto avrebbe sentito la sua voce tremante. Presto sarebbe
salito sul palco con passo mal fermo. Presto sarebbe stato al suo
fianco e avrebbe guardato negli occhi colei che lo avrebbe ucciso.
Ma i secondo scorrevano lenti e alla domanda dell’uomo non ci fu alcuna
risposta. La gente iniziò a mormorare, i ragazzi a voltarsi e a
sussurrare. L’uomo di Capitol faceva saettare gli occhi tra i ragazzi,
in trepidante attesa.
Codardo fino al midollo. Ecco cos’era Damien. E se non si fosse
offerto? Avrebbe davvero condannato uno dei suoi compagni pur di
salvarsi la vita? La risposta era sì, ovviamente. Era sempre stato un
verme e lo sarebbe stato sempre.
L’odio montava dentro Clove quando improvvisamente la frase che tutti
si aspettavano di sentire arrivò. «Mi offro volontario.»
Solo che quella non era la voce che Clove si aspettava di sentire.
Il tempo si fermò di nuovo. Clove sentì le gambe farsi molli per la
secondo volta. Il cuore perse un colpo. Il cervello collegò a fatica la
voce con il viso di chi aveva parlato.
No no no no no. Non può essere. No.
Invece era così. Come in sogno lo vide staccarsi dal gruppo di ragazzi
in attesa. Vide i pacificatori scortarlo fino al palco. Lo vide salire
con passi lenti e pesanti, lo sguardo basso e senza espressione.
Riconobbe ogni suo minimo particolare, dai capelli biondi alla curva
delle spalle, alle mani strette a pugno lungo i fianchi mentre si
fermava al fianco dell’uomo di Capitol. Allora i suoi occhi si alzarono
sul pubblico. Erano sempre gli stessi, di un azzurro intenso come il
ghiaccio o il cielo limpido. Ma non le erano mai parsi così estranei.
Perché al suo fianco non c’era Damien. C’era Cato.
Cato. Cato. Cato. Cato.
Non Damien. Ma Cato. Il ragazzo che aveva conosciuto quando aveva otto
anni. Il ragazzo che aveva sempre trovato interessante, che ammirava in
segreto per la sua forza e il suo talento. Il ragazzo che spuntava ogni
tanto nella sua vita e poi scompariva altrettanto in fretta. Il ragazzo
che le aveva regalato il suo primo coltello. Il ragazzo per il quale
provava un miscuglio di sentimenti che non riusciva a comprendere.
E che non avrebbe mai compreso.
Clove vide le sue labbra muoversi, mentre rispondeva alle domande
dell’uomo. Ma non sentì nulla. Come avrebbe potuto? Cato era l’altro
tributo. Da quel momento in poi sarebbe diventato anche il suo nemico.
Perché nei Giochi c’era un vincitore solo.
Lo sguardo di Clove si mosse lentamente verso il pubblico, come
calamitato da qualcosa. E poi li incontrò. Quegli occhi neri che prima
aveva a lungo cercato ma che non aveva trovato.
Damien aveva un sorriso malsano sulle labbra. E sorrideva nella sua
direzione, come un amico che cerca di incoraggiarti da lontano. Ma lui
era tutt’altro. Clove comprese. Comprese la sua strana reazione, quando
gli aveva detto che si sarebbe offerta come tributo. Lui sapeva tutto.
E quella era stata la sua vendetta.
Si era lasciata imbrogliare da lui come una sciocca.
Ed ora non c’era modo di cambiare le cose. Non poteva tornare indietro.
Un peso soffocante la oppresse mentre distoglieva lo sguardo dal suo
nemico. Un peso che sapeva bene non l’avrebbe abbandonata più. Perché
c’era una sola strada che poteva imboccare ora. Una strada che aveva
tracciato lei stessa e che ora non era più così sicura di voler
percorrere. Perché improvvisamente ebbe paura della sua fine.
Non cercò nemmeno di ingannarsi con false speranze.
Avrebbe dovuto uccidere Cato. O guardarlo morire.
***
Il tempo
passava veloce e Clove non ne aveva più alcuna percezione. Ancora non
riusciva a capacitarsi della situazione. Non del fatto che lei fosse lì
e che presto avrebbe preso parte agli Hunger Games. Ma che Cato fosse
al suo fianco. Lui non avrebbe dovuto essere lì.
Come aveva potuto farsi imbrogliare da Damien? Come aveva fatto lui a cambiare ciò che era già
stato deciso? Lui avrebbe dovuto offrirsi, perché le cose erano
cambiate? Cosa si era inventato per evitarlo? Clove non seppe darsi una
risposta. Ma avrebbe potuto saperlo, avrebbe
potuto... Se solo fosse stata in grado di ascoltare. Carolyn
forse glielo avrebbe detto, se le avesse dato l'opportunità di parlare.
I suoi addestratori glielo avrebbero potuto dire, se solo lei lo avesse
chiesto, se solo non si fosse gettata a testa bassa negli allenamenti
tagliando fuori tutto il resto. Se solo... se solo... ma cosa sarebbe
cambiato? Pensò poi. Cosa sarebbe cambiato se lo avesse saputo? Non si
sarebbe più offerta? Sarebbe stato un atto da codarda. Ma qualcosa,
qualcosa sarebbe cambiato, ne era sicura. Solo che ora era troppo tardi.
Clove aveva pensato poco a Cato, da quando aveva deciso di offrirsi
volontaria. Sapeva che doveva pensare solo all’allenamento e tenere
alla larga tutte le fonti di distrazione. E Cato, anche se non le
piaceva ammetterlo, la distraeva.
Una volta però aveva provato ad immaginare cosa lui avrebbe detto di
lei, una volta che avesse vinto i Giochi e fosse tornata ricoperta di
ricchezze e onori al Distretto. Sarebbe stato fiero di lei? Ora non lo
avrebbe mai saputo. Perché Cato era lì.
Mentre i suoi pensieri erano ancora del tutto offuscati, un paio di
pacificatori scortarono lei e Cato all’interno del palazzo di Giustizia
ma poi i due ragazzi, senza nemmeno alzare lo sguardo l’uno sull’altra,
presero due direzioni differenti. Clove sapeva cosa sarebbe accaduto
ora. Avrebbe avuto qualche minuto per salutare suo padre, per dirgli
che sarebbe andato tutto bene, per rincuorarlo e dirgli che sarebbe
tornata a casa presto.
Clove rimase immobile al centro della stanza dove i pacificatori
l’avevano condotta, senza rendersi conto del tempo che passava. Ne
aveva perso la cognizione dal momento in cui la voce di Cato aveva
spezzato il silenzio pronunciando quelle fatidiche parole.
In un momento indefinito suo padre varcò la soglia lentamente.
Era da tanto che non usciva di casa. Ora invece era lì e sembrava un
uomo normale, l’uomo che aveva sempre conosciuto. Indossava un abito
elegante che riservava solo per le occasioni importanti. I suoi capelli
scuri erano puliti e accuratamente spazzolati, la barba rasata e le
lenti degli occhiali ripulite. La ragazza si domandò quali sentimenti
lo affliggessero in quel momento. Aveva capito cosa sarebbe successo di
li a poco? Che la sua bambina avrebbe rischiato la vita offrendosi
volontaria per i Giochi mentre lui viveva in pace in un mondo parallelo?
L’uomo avanzò al centro della stanza e si fermò di fronte a Clove. Si
guardarono negli occhi. Quelli di suo padre erano velati, come
distanti. Lui le mise le mani sulle spalle, stringendole forte.
«Come ti senti, bambina mia?»
«Bene.» Rispose Clove, cercando di analizzare la voce del padre.
«Sei tanto forte, Clove. Lo sei sempre stata.» Suo padre fece una
pausa, fissando un punto imprecisato oltre la testa della figlia. «Mi
dispiace.» Sussurrò ad un certo punto, mentre gli occhi diventavano
lucidi. «Mi dispiace, sono stato un pessimo padre, Clove. Non ci sono
stato per niente. Ho preferito isolarmi piuttosto che stare al tuo
fianco e compiere il mio dovere. E ora... tu andrai agli Hunger Games.
Tua madre non avrebbe voluto questo.» Lui chiuse gli occhi, come se
stesse parlando tra sé e sé.
«Stai tranquillo, papà. Tornerò a casa.» Ma in quel momento Clove non
era in grado di infondere sicurezza in suo padre. Non ne aveva nemmeno
lei. Non era neanche più così sicura che avrebbe vinto.
Suo padre la strinse forte in un abbraccio e Clove chiuse gli occhi,
abbandonandosi contro lui come faceva quando era piccola. Ebbe il vago
presentimento che lui stesse singhiozzando, ma quando si scostò e la
guardò di nuovo i suoi occhi erano lucidi.
Lui fece per parlare ancora, ma mentre le sue labbra si aprivano, la
porta si spalancò con violenza e un pacificatore gli si avvicinò,
afferrandolo per il braccio. «Il tempo è finito.»
Suo padre si fece trascinare via inerme e quando stava per varcare la
porta finalmente incrociò lo sguardo di sua figlia. Era lo sguardo di
un uomo distrutto, che aveva perso tutto e che non aveva più speranza.
No, Clove doveva vincere. Non
poteva lasciarlo solo, lui non ce l’avrebbe fatta.
Ma la faccenda non sembrava più così facile. La ragazza deglutì,
cercando di mandare giù anche la tensione, ma non servì a nulla. Non si
era mai sentita peggio di così prima di allora.
Qualche minuto dopo la porta si aprì ancora. Lentamente e
scricchiolando. Clove pensò che avrebbe visto entrare un altro
pacificatore con l’incarico di prelevarla e portarla alla stazione del
Distretto 2. In fondo non doveva ricevere altre visite, non dopo che
Carolyn aveva smesso di parlarle. Ma si era sbagliata.
«Tu!» Esclamò con voce carica
di disgusto misto ad odio quando riconobbe la sagoma.
Il ragazzo entrò e si chiuse la porta alle spalle, rivolgendole un
sorriso talmente ampio che gli distorceva il viso. «Ebbene sì. Come
andiamo, Clove? Piaciuta la sorpresa?»
La ragazza strinse le mani a pugno, conficcandosi le unghie nella pelle
mentre un’ondata omicida la invadeva, spingendola ad assecondare l’idea
di balzare addosso al ragazzo, stringergli le mani attorno al collo ed
ucciderlo proprio lì, in quel momento.
«Vattene immediatamente, o giuro che ti ammazzo.»
Damien scoppiò a ridere. «Ma come, non sei felice? Pensavo lo saresti
stata, scoprendo di avere un degno avversario al tuo fianco,
nell’arena.» I suoi occhi neri si posarono su di lei mentre la ragazza
iniziò a tremare dalla rabbia. «Oh, capisco. Forse hai paura che sia
troppo forte per te, dico bene?» Le labbra di Damien erano sempre
incurvate in un sorrisetto che faceva arrabbiare Clove ancora di più,
ma improvvisamente lui assunse un cipiglio pensieroso, come se gli
fosse venuta in mente un’idea improvvisa. «O forse... forse non vuoi
ucciderlo? Eh, è così? La piccola Clove non è in grado di uccidere il
ragazzo per il quale hai una cotta?»
Di nuovo dalle labbra di Damien uscì una risata carica di disprezzo.
Fu allora che Clove scattò.
Compì un balzo in avanti, agile e veloce come un puma, mirando alla
gola di Damien. La forza dell’impatto li scaraventò entrambi a terra ma
Clove non si distrasse dal suo obiettivo. Strinse le mani attorno al
collo di Damien, che cercava in ogni modo di scrollarsela di dosso,
senza risultati.
«Ho colto nel segno, dico bene?» Il ragazzo iniziava a diventare
paonazzo ma riusciva ancora a parlare. Clove strinse più forte.
«Come osi? Lurido, viscido
verme! Sei solo un dannato codardo!»
«Non avrei mai pensato che la mia vendetta sarebbe stata così dolce.»
Clove gli tirò un pugno. Sentì le ossa di Damien scricchiolare sotto il
suo colpo mentre un fiotto di sangue gli usciva dal naso. «Torturarti
non sarebbe stata la stessa cosa. Ma vederti uccidere il ragazzo che
ami... non avrà prezzo. O ancora meglio, vedere lui uccidere te.» Damien rise ancora, soffocando
nel suo stesso sangue, mentre Clove continuava a colpirlo. Sentì la
rabbia defluire in ogni suo colpo, la frustrazione passare dal suo
pugno fino ad abbattersi sul volto del ragazzo. Gli occhi le bruciavano
e la testa le scoppiava. Non sarebbe servito a nulla ucciderlo, non
avrebbe cambiato i fatti. Sarebbe comunque stata gettata nell’arena.
Assieme a Cato. E se anche un tempo aveva provato qualcosa per lui, ora
non poteva più permettersi di farlo. Non
poteva.
Ma poi, cosa mai avesse provato per quel ragazzo, Clove non lo sapeva
dire. Avrebbe voluto scoprirlo un giorno, ma ora non sarebbe stato più
possibile. Per colpa di quel dannato ragazzo che stava prendendo a
pugni.
«Perché? Perché mi odi così tanto Damien? Sei stato tu ad iniziare
tutto, dovresti prendertela solo con te stesso! Io non ti ho mai fatto
niente.» Sibilò la ragazza a pochi centimetri dal viso di Damien.
Continuava a tenerlo immobilizzato a terra, bloccandogli braccia e
gambe e lui sembrava aver smesso di lottare per liberarsi.
«Vuoi sapere perché ti odio? Eh, lo vuoi sapere?» Urlò lui,
sputacchiando sangue. Clove lo guardò con disprezzo.
«Perché sei un folle bastardo, ecco perché.»
Damien si mise a ridere, mostrando i denti insanguinati. Non c’era
nulla di bello o affascinante nel suo viso in quel momento, era solo
una maschera di odio e pura follia. «Oh no. No, no. Sai chi è il
bastardo in tutta questa storia?» Esclamò lui, mentre i suoi occhi neri
come la pece iniziavano a ardere. Rimase in silenzio per pochi istanti,
fissandola intensamente, come se volesse creare suspance. Ma, proprio
mentre Clove stava per perdere la pazienza, lui tornò a parlare. «Tuo
padre. Esatto, papino non ti ha mai raccontato la verità sul suo
passato, eh?»
Clove lo guardò senza capire. «Cosa c’entra mio padre in tutta questa
storia?»
«Oh, c’entra eccome. Quel lurido codardo. Non ti ha mai detto di avere
un altro figlio? Bé, ovviamente no, non avrebbe mai avuto il fegato di
ammettere di avere avuto una relazione fuori dal matrimonio.»
Lo schiaffo arrivò potente ed inaspettato. La mano di Clove si fermò
sotto la gola del ragazzo e il suo sguardo si rabbuiò. «Tu menti. Sai
fare solo questo.»
«Credi davvero? Perché non glielo chiedi? Certo, sempre che tu riesca a
tornare a casa!» Damien scoppiò a ridere senza curarsi del fatto di
essere in procinto di soffocarsi da solo. «Bé, ti pare questo il modo
di trattare tuo fratello, sorellina?»
La ragazza riprese a colpito. Questo era davvero troppo. Prima l’aveva
ingannata, costringendola a mettersi contro Cato. Ora tirava fuori
bugie che non stavano né in cielo né in terra riguardo suo padre e la
sua famiglia. La ragazza mollò la presa sul suo collo, preparandosi a
colpirlo ancora, ma lui iniziò a parlare.
«Puoi non credermi, ma è così. Tuo padre mise incinta mia madre e poi
l’abbandonò. La lasciò sola, senza niente! La minacciò, usando la sua
influenza sull’intero Distretto! La costrinse al silenzio con il
compromesso di inviarle dei soldi una volta al mese, per permetterle di
sopravvivere, tanto per non farci morire di fame. Che gesto nobile, non
è vero? Quello stronzo le ha spezzato il cuore. Ha tradito sua moglie.
E ha mentito. Lui mi fa schifo. E odio tutto quello che proviene da
lui, te compresa.»
Una rabbia cieca crebbe dentro Clove. Perché quel racconto aveva senso,
ma non poteva essere vero. Non poteva. Suo padre non avrebbe mai
tradito sua madre, non l’avrebbe mai fatto. Era fuori discussione.
Clove guardò Damien dritto negli occhi, come se vi cercasse dei tratti
simili. Ma l’unica cosa che avevano in comune Damien, lei e suo padre
era il colore scuro dei capelli e quel fattore non era certo una rarità
nel Distretto 2. Lui non era suo fratello e quelle erano solo un sacco
di menzogne.
Improvvisamente Clove si ricordò del coltello che aveva nascosto nello
stivale. Si chinò quel tanto che bastava per afferrarlo e lo estrasse
con furia, rischiando di tagliarsi. Ma proprio mentre lo puntava con
risolutezza sulla gola del ragazzo, un gruppo di pacificatori irruppe
nella stanza.
Due di loro si avventarono su Clove, afferrandola per le braccia e
tirandola in piedi. La ragazza si divincolò, cercando di colpire ancora
il ragazzo a terra, ma i due la trascinarono via, mentre un altro
pacificatore rimetteva in piedi Damien.
Il ragazzo aveva la camicia bianca ricoperta di sangue, che continuava
a colare copioso dal suo naso rotto. Il volto era ricoperto di quel
liquido viscoso e si stava già gonfiando dove Clove l’aveva colpito più
forte. Ma sotto gli strati di sangue e oltre il dolore che provava,
Damien continuava a sorridere come un folle.
SPAZIO
AUTORE
E... colpo
di scena!!!! Lo avreste mai detto che Cato odiava tanto Clove per una
ragione simile?? Credo di no e spero con tutto il cuore che non vi sia
sembrata una cosa troppo banale xD
Ad ogni modo, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto! È più lungo
degli altri, questo perché ci stiamo avvicinando alla parte della
storia che conosceremo in modo più dettagliato, ovvero quella che
riguarda il “presente” e gli Hunger Games.
Nel prossimo capitolo i pensieri di Clove saranno chiariti e sarà un
capitolo molto riflessivo. In fondo si sa, non ci sarà molto tempo per
pensare dopo l'arrivo a Capitol City. Clove e Cato si incontreranno,
questo è poco ma sicuro. Sarà il loro primo incontro da quando erano
più piccoli.
Ok, ora la smetto di anticipare cose sul prossimo capitolo! Spero
davvero di aver scritto della mietitura in modo dignitoso e... aspetto
i vostri pareri! Grazie per seguire questa storia, grazie davvero a
tutti e al prossimo capitolo ♥
Un grazie particolare a Queen_B,
Hope_2000, Lali Jai e Dream Moan per aver recensito lo scorso
capitolo e a tutte le persone che hanno da poco scoperto la storia o
che l'hanno inserita tra le preferite o le seguite! Grazie mille a
tutti voi! Senza il vostro supporto, questa storia probabilmente non
sarebbe arrivata fin qui ;)
~ C
|
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Capitolo 9 *** 9. Welcome to the Capitol ***
Till
your last breath
CAPITOLO
9
WELCOME TO THE CAPITOL
l treno viaggiava veloce. Talmente tanto che Clove stentava a
riconoscere le immagini che scorrevano sotto i suoi occhi, solo pochi
centimetri oltre il vetro del finestrino. L’uomo di Capitol aveva
ragione quando diceva che quello era il mezzo più veloce di tutta
Panem, probabilmente anche più veloce degli hovercraft. L’uomo aveva
iniziato a parlare da quando i pacificatori avevano condotto lei e Cato
all’ingresso della stazione. Da allora sino a quel momento non era
rimasto zitto per più di pochi secondi, giusto il tempo per prendere un
respiro e ricominciare d’accapo. Dava indicazioni sul loro soggiorno a
Capitol City, spiegava loro cosa sarebbe successo una volta arrivati,
come si sarebbero svolti gli allenamenti, dove avrebbero alloggiato.
Clove non lo aveva degnato
della minima attenzione. Troppi pensieri riempivano la sua mente e il
suo animo era più inquieto che mai. La ragazza stava immobile, le mani
strette a pugno abbandonate in grembo, lo sguardo fisso sulle immagini
sfocate oltre il finestrino, come se ignorando ciò che le accadeva
attorno potesse in qualche modo sfuggirvi.
Non diceva niente ma la sua
mente era piena di domande. E la sua confusione e il suo dolore erano
assoluti. Era stata senza ombra di dubbio la giornata più assurda della
sua vita. Forse peggio ancora del giorno in cui una pattuglia di
pacificatori aveva bussato alla sua porta per portarle la notizia del
decesso di sua madre.
Non solo avrebbe preso parte
ad un reality show con un solo vincitore, ma era certa che avrebbe
dovuto uccidere il ragazzo che in quel momento era seduto al suo
fianco, solo a pochi centimetri di distanza. Clove lanciò uno sguardo
di sottecchi a Cato.
Il ragazzo sembrava molto più
rilassato di lei anche se il suo piede sinistro batteva ritmicamente
sulla moquette del treno, in un gesto che pareva carico d’ansia. Lo
sguardo era diretto verso l’uomo di Capitol ma i suoi occhi fissavano
qualcos’altro.
O forse nulla, forse anche
lui, come lei, era perso nei suoi pensieri. Chissà se anche Cato era
rimasto sorpreso nel vedere lei offrirsi come tributo. Ovviamente la
risposta doveva essere no. Lui molto probabilmente sapeva che Clove si
sarebbe offerta. Si chiese quali sentimenti provasse nei suoi
confronti, al pensiero che avrebbe dovuto uccidere la ragazza che una
volta aveva aiutato. Forse non gli importava per niente. Clove non
riusciva a capirlo.
Ignorando la voce dell’uomo di
Capitol, la ragazza riprese a fissare il paesaggio che scorreva veloce.
Come se tutto ciò non bastasse, ecco che era arrivato Damien, con un
carico di menzogne indicibili sulla sua famiglia.
Perché non era assolutamente
possibile che ciò che le aveva detto fosse vero.
O almeno questo era quello che
la sua mente si era imposta di credere. Non c’era altra soluzione. Come
avrebbe potuto affrontare i Giochi con il pensiero che una volta
tornata a casa avrebbe dovuto scoprire se fosse vero o no? E se lo
fosse stato? Come avrebbe potuto guardare di nuovo negli occhi suo
padre? Se la storia di Damien era vera, voleva dire che suo padre aveva
avuto una relazione quando era già spostato con sua madre. L’aveva tradita. E Clove si chiese come ciò
fosse possibile. Sua madre era una donna meravigliosa, sia d’aspetto
che di carattere. Perché diavolo avrebbe dovuto tradirla? Forse non
l’amava? Allora perché l’aveva sposata? Perché alla sua morte si era
chiuso in sé stesso, come se avesse perso una parte vitale di lui?
Forse per il rimorso? Perché sapeva di non averle mai detto la verità e
che non avrebbe mai più avuto la possibilità di pareggiare i conti?
Tutto ciò non aveva senso. E
distruggeva la poca sanità mentale che le era rimasta quel giorno.
Aveva perso quasi tutto, quando era morta sua madre. Se quella storia
fosse stata vera, sarebbe stato come perdere anche suo padre. E allora
non le sarebbe rimasto niente. Anche se avesse vinto.
Con un sospiro cercò di
ricacciare tutti quei pensieri e di chiuderli in un antro nascosto e
lontano nella sua mente. Avrebbe semplicemente dato tutto per falso.
Doveva per forza essere così. Non c’era altro che potesse fare. E
poi... da quando in qua si fidava così ciecamente di Damien? Era solo
un lurido codardo e per di più un abile bugiardo. L’aveva ingannata
fingendo di essere lui il tributo volontario e aveva voluto darle il
colpo di grazia con quella storia inventata di sana pinta. Lui non era
sua fratello e lei non era sua sorella. Punto, fine della storia.
La sua mente ora sembrava
convinta e decisa come prima che Damien varcasse la soglia e aprisse la
sua dannata bocca, ma il suo cuore non la pensava ancora allo
stesso modo e continuava ad insediarle dubbi e preoccupazioni. Clove
decise di ignorarlo una volta per tutte.
Con una nuova sicurezza tornò
a concentrarsi sul presente, sul treno e sull’uomo di Capitol dai
capelli verdi. Avrebbe potuto fingere di ascoltarlo almeno un poco...
se non fosse che lui non c’era più. Se n’era andato e non lo aveva
nemmeno notato. Al contempo però si rese conto più che mai della
presenza dell’altra persona nello scomparto, quella che era seduta al
suo fianco. Cato la stava fissando, con un sorriso sghembo sulle labbra
sottili. I suoi occhi però, come poco prima, parevano distanti e velati.
Per qualche strana ragione
Clove si sentì in imbarazzo quando i loro sguardi si incrociarono. Da
quanto tempo la stava fissando? Clove non capiva come facessero alcune
ragazze a pensare che sia molto
romantico un ragazzo che ti fissa quando tu non te ne rendi conto.
Magari mentre dormi. Dovevano soffrire di qualche strana patologia. Per
Clove era solo inquietante.
«Che c’è?» Chiese ad un certo
punto, visto che lui non accennava a proferir parola.
Cato scrollò le spalle, con
noncuranza. «Mi stavo solo chiedendo quando saresti tornata tra noi.
Non hai ascoltato una parola di quello che ha detto, vero?» Disse
indicando con un cenno il posto lasciato vuoto dall’uomo di Capitol,
del quale Clove non ricordava il nome.
«No. Nemmeno mezza. Tu?»
«Hmm... qualcosa. Ma non ti
sei persa nulla.»
Clove abbassò lo sguardo,
incapace di dire o fare altro. Il pensiero di quello che sarebbe
successo in poche settimane la perseguitava e le rendeva difficile il
semplice guardare Cato negli occhi. Quegli occhi così azzurri... come
avrebbe fatto ad ucciderlo? Senza contare il fatto che, oltre tutto il
resto... era ancora in debito con lui.
***
Il viaggio proseguì in
silenzio. Clove non aveva nulla da dire e nemmeno Cato sembrava molto
loquace. Bé, da lì a poco sarebbero diventati nemici. Forse questa era
solo la sua tattica. L’uomo di Capitol compariva ogni tanto, cercando
di attaccar bottone con i due Tributi ma nessuno dei due era in vena di
chiacchiere. Nemmeno i loro mentori si erano fatti vedere per tutto il
giorno... ma per Clove quello non era un gran problema. In realtà non
aveva affatto bisogno di loro. Era già stata allenata, aveva già visto
cosa succedeva negli Hunger Games e a dirla tutta era più preoccupata
per quelle ridicole interviste piuttosto che per i Giochi in sé. Se lei
aveva un problema era lo stare davanti ad un pubblico e parlare di sé
stessa a persone sconosciute. Ma avrebbe risolto anche quello, se la
sarebbe cavata, come sempre.
«Oh, eccoci arrivati
finalmente! Ma avete realizzato ragazzi? State per vedere Capitol City!
Deve essere così... così... emozionate
per voi, tutto questo! Vedere la Capitale è un privilegio che non a
tutti viene concesso, sapete?» Cinguettò l’uomo, tutto emozionato per
essersene tornato finalmente a casa, in mezzo ai suoi simili. Clove non
disse nulla, gli lanciò solo uno sguardo di disprezzo. Se per lui
vedere Capitol City su un treno che portava ventitré ragazzi a morte
certa era considerato un privilegio...
L’uomo balzò in piedi e si
fiondò ad una finestra. Clove, senza quasi rendersene conto, lanciò uno
sguardo a Cato prima di alzarsi. Anche lui la guardava, con
un’espressione indecifrabile. Le fece segno di passare per prima e poi
la seguì alla finestra più vicina. Clove sentiva la sua presenza alle
spalle, mentre spostava lo sguardo sulla città che velocemente si
apriva davanti a loro, mostrandosi in tutta la sua magnificenza e
grandezza.
Erano arrivati a Capitol City.
I Giochi non erano mai sembrati più vicini di allora.
~
FINE SECONDA PARTE
~
SPAZIO
AUTORE
Finalmente ho aggiornato la
storia, scusate il ritardo! Ad ogni modo, come forse avrete notato,
questo è un capitolo transitorio che chiude la seconda parte della
fanfic e ci introduce direttamente nel mondo di Capitol. Ora niente
sarà più come prima per i nostri amati protagonisti.
Come avete potuto notare,
tutta la sicurezza di Clove è andata scemando in pochi istanti: Cato
che si offre volontario, Damien che le rivela un realtà sconvolgente.
Clove si tormenta, cercando di capire se quello che ha detto il ragazzo
sia vero o no. Ma ovviamente, non può saperlo, perché dopo la mietitura
non le è consentito avere contatti con la sua vecchia vita. Questo
dubbio irrisolto e la presenza di Cato la destabilizzano. E in più
Clove cerca di capire cosa ne pensi Cato di tutto ciò, ma invano. O
almeno per ora. Vi preannuncio già che prima o poi lo scoprirà ;)
Be', come al solito mi sono
dilungata troppo xD spero che, sebbene sia stato un capitolo corto e
transitorio, vi sia piaciuto!
Conto di aggiornare presto con
il prossimo perché nelle vacanze di Natale non avrò molto tempo (sempre
che domani non finisca il mondo, in tal caso questo sarebbe l'ultimo
capitolo u.u d'ho!)
Be', come sempre, resto in
attesa di vostri pareri e recensioni ;) Grazie a tutti quelli che
leggono questa storia, che l'hanno aggiunta tra le preferite e le
seguite... io semplicemente vi adoro ;) Alla prossima!
~ C
|
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Capitolo 10 *** 10. I Guerrieri ***
10.iguerrieri
Till your last
breath
PARTE TERZA
~
CAPITOLO
10
I
GUERRIERI
La stanza dove si trovava sembrava
un’autentica sala delle torture.
E in effetti per Clove poteva
anche essere definita così.
Non appena scesi dal treno
nella stazione di Capitol furono letteralmente presi d’assalto da una
mandria imbufalita di giornalisti che si sporgevano verso di loro, i
due nuovi Tributi, allungando microfoni, registratori e macchine
fotografiche, parlando tutti assieme e porgendo domane che risultavano
incomprensibili in quel chiasso. Clove aveva cercato di sorridere,
senza molta convinzione però. Come poteva sorridere dopo tutto quello
che era successo solo poche ore prima? Lo scoprire che Cato sarebbe
stato nell’arena con lei, le menzogne di Damien... tutti quei fatti
erano ancora troppo freschi nella sua mente perché lei potesse
mostrarsi felice davanti alle telecamere del reality.
Tuttavia si sforzò di
sorridere e salutare, come faceva Cato al suo fianco.
E dopo quella breve tortura,
ecco che era spuntato fuori il suo staff di preparatori che l’aveva
scortata fino a quella stanza, dove presto avrebbe avuto luogo quella
che loro avevano chiamato la sua trasformazione.
In men che non si dica eccoli
tutti attorno a lei, intenti a guardarla e studiarla come se fosse
stata una bambola. Le giravano attorno esaminandola e maneggiandola
come un manichino e non una persona, perfettamente in grado di sentire
le loro critiche sui suoi capelli o le sue unghie o le sue
sopracciglia.
Impotente, Clove si limitava a
stare lì in piedi, circondata dal suo staff, guardandoli tutti con uno
sguardo aggressivo che loro parevano non notare. Solo sua madre poteva
permettersi di toccarla, di spogliarla o rivestirla a quel modo; l’idea
di quegli estranei che studiavano il suo corpo, il suo viso, i suoi
capelli e che decidevano cosa metterle in faccia o cosa farle indossare
la infastidiva immensamente, fino a farle dimenticare la rabbia e il
dolore per tutto quello che era successo alla Mietitura.
Ma come Clove sapeva bene,
tutto quello faceva parte del reality e avrebbe dovuto sopportarlo, che
lo volesse o meno. Doveva rassegnarsi. Ecco la chiave di tutto. Poteva
essere triste e disperata quando voleva, poteva continuare a pensare a
Cato e al fatto che solo uno di loro sarebbe tornato a casa... ma non
sarebbe servito a nulla.
Clove chiuse gli occhi,
cercando inutilmente di ignorare tutto ciò che accadeva attorno a lei
mentre la sdraiavano su un lettino e iniziavano a ritoccarla. Il tempo
passò lentamente e lei non vedeva l’ora che quella personale tortura
finisse. Così avrebbe potuto passare il suo tempo pensando a quanto
ingiusta fosse tutta quella situazione.
Prima però avrebbe dovuto
affrontare la sfilata dei tributi. Era come se se ne fosse dimenticata,
ma tutte quelle attenzioni che stava ricevendo in quel momento, tutti
quei ritocchi e la sua trasformazione, erano rivolti ad un unico
obiettivo: renderla perfetta per quell’occasione, la prima uscita in
pubblico dei tributi.
Ad un certo punto, riaprendo
lentamente gli occhi, la ragazza si rese conto con una certa sorpresa
di essere rimasta sola nella stanza. Si chiese come avesse fatto a non
accorgersene: dopo l'acuto vociare del suo staff quel silenzio pareva
quasi surreale.
Fu allora che arrivò il suo
stilista. Era un ragazzo sui trent’anni più o meno, anche se
considerando l’ampio utilizzo di chirurgia estetica che praticavano
nella capitale era probabile che ne avesse di più. Ad ogni modo,
sembrava ancora giovane. Aveva i capelli biondi, lunghi e ricci nei
quali si intravedevano delle ciocche fucsia. Era truccato, ovviamente,
e portava vestiti che non avresti trovato strani se fossi stato un
abitante di Capitol.
Lui si presentò come il famoso
Eliahs e poi iniziò a parlare e ad elencare i successi ottenuti dal
Distretto 2 sin da quando lui era stato lo stilista ufficiale. Ogni
anno i tributi arrivavano preparati ed aggressivi e questo contava già
tanto per vincere i Giochi. Ma senza l’aiuto degli stilisti e dello
staff non ci sarebbero stati sponsor ed essi possono fare la differenza
tra la vita e la morte nell’arena. Insomma, la loro creatività nel
mettere in luce i tributi non era da sottovalutare.
Andò avanti così per parecchi
minuti e Clove iniziò a non seguirlo più. Voleva solo che la finisse di
parlare e le facesse indossare il suo stupido vestito. Una volta fatto
ciò, doveva solo sfilare su un carro in mezzo a centinaia di spettatori
urlanti ed esaltati, cercando di mostrarsi il più forte possibile,
sicuramente più forte di quanto fosse in realtà in quel momento. Il
fatto che al suo fianco ci sarebbe stato Cato non l’aiutava di sicuro.
Finalmente lo stilista tacque
e con un gesto altezzoso fece segno a due membri dello staff, quelli
che prima le avevano lavato i capelli e sistemato le sopracciglia, di
portare dentro il costume. I due entrarono trascinando un manichino,
non senza una certa fatica.
E su di esso Clove vide il più
bel vestito che avesse mai visto in una sfilata.
Somigliava in tutto e per
tutto ad un armatura da guerra. La ragazza saltò giù dal lettino dove
l’avevano fatta sedere, incurante della vestaglia bianca che le avevano
messo addosso e si avvicinò al manichino con aria meravigliata,
osservando il costume e dimenticando provvisoriamente il motivo per cui
avrebbe dovuto indossarlo.
L’armatura era doro, con tanto
di mantello lungo e intessuto di materiale luminoso, e le ricordava
delle immagini che aveva visto una volta a scuola, immagini del mondo
com’era secoli prima, quando Capitol City ancora non comandava, quando
non esistevano ancora i Distretti o gli Hunger Games. Un mondo talmente
lontano da apparire quasi leggendario. Aveva visto immagini di
guerrieri in armature scintillanti ed elmi dai pennacchi colorati,
portare con fierezza grandi spade, scudi e stendardi. Quell’armatura le
ricordava le immagini che aveva visto. Con l’unica differenza che la
sua era completamente dorata. Sul davanti vi erano delle scaglie sempre
doro che si estendevano sino a circondare il collo. Sembravano scaglie
di drago. L’elmo era anch’esso doro e ai lati vi erano due grandi ali
che sembravano librarsi verso l’esterno.
«Wow.» Si lasciò sfuggire
Clove, girando attorno al manichino e studiandolo come lo staff poco
prima aveva fatto con lei.
Il suo stilista prese in mano
l’elmo mentre Clove tornava a posizionarsi davanti all’armatura,
osservandola con ammirazione. La frustrazione per i trattamenti
estetici di poco prima scivolò via.
«Per volare verso la
vittoria.» Le disse Eliahs, porgendole l’elmo doro.
Clove, che fino a poco prima
si sentiva in imbarazzo per trovarsi mezza nuda davanti a quell’uomo e
infastidita per tutta quella situazione, ora provò una certa simpatia
per lui.
In qualche strano modo, aveva
colto il suo essere, la sua intera essenza in quel costume. Una
guerriera, ecco quello che era. Fiera e determinata, pronta a vincere.
O almeno così voleva apparire. Clove gli rivolse un sorriso complice,
il primo sincero che toccò il suo viso in tutta quell’assurda giornata.
Lui sembrò improvvisamente rilassarsi, come se avesse avuto timore che
il suo vestito non le sarebbe piaciuto; le sorrise di rimando, mettendo
in mostra una fila di denti bianchissimi e affilati.
«Allora, lo indossiamo o no?»
Le chiese con voce emozionata.
«Con estremo piacere.» Clove
si portò al centro della stanza, dove lo staff le si radunò attorno e
iniziò il processo. C’era chi la spogliava e iniziava a metterle
addosso la magnifica armatura d’orata, chi le pettinava i lunghi
capelli corvini e li raccoglieva con mano esperta, chi le spargeva un
leggero velo di trucco sul viso. Era sicura che, una volta finito con
lei, Clove non si sarebbe più riconosciuta guardandosi allo specchio.
Almeno, pensò la ragazza
mentre due uomini le legavano due bracciali dorati ai polsi, non
sarebbe stata del tutto fuori luogo, non avrebbe dovuto indossare un
costume imbarazzante o cose del genere, pensò mentre sentiva l’armatura
aderire perfettamente al suo corpo minuto e scattante. Sarebbe stata sé
stessa.
E questo era già un ottimo
punto dal quale partire.
***
Clove si guardò attorno mentre
un’ansia sconosciuta si impossessava di lei. Si sentiva a suo agio con
l’armatura addosso ma il fatto di dover sfilare davanti a tutta Capitol
City e l’idea di essere ripresa da telecamere che avrebbero mandato in
onda la sua sfilata in tutta Panem l’agitava più dell’idea di dover
uccidere qualcuno.
Il suo staff di preparatori le
ronzava ancora attorno, come un fastidioso sciame di api, esaminando
l’ottimo lavoro che aveva compiuto con lei, complimentandosi tra di
loro per il magnifico costume ed elogiando l’effetto che l’armatura
dorata aveva avuto su Clove.
La ragazza tuttavia continuava
a guardarsi attorno, come se cercasse qualcosa. Non sapeva nemmeno lei
cosa. Forse qualche volto familiare, perché ancora non aveva del tutto
realizzato la situazione: Capitol City. La sfilata. Il centro
dell’attenzione. Il reality.
E gli altri tributi. Era come
se se ne fosse accorta solo in quel momento. Infatti attorno a lei, in
quell’ampio spiazzo dove l’avevano condotta dopo la sua trasformazione,
non c’erano solo i membri del suo staff e il suo stilista. No. C’erano
anche tutti gli altri tributi. Molti di loro erano irriconoscibili per
via degli esuberanti costumi che indossavano, ma erano tutti lì,
attorno a lei. I ragazzi che avrebbe dovuto uccidere.
L’idea la colpì per un
istante, ma presto la scacciò. Aveva già troppi problemi per la testa,
senza aggiungervi anche questo. Sospirò, cercando di calmarsi.
Improvvisamente le tornò alla
memoria l’immagine riflessa di lei che aveva visto nello specchio. Al
primo impatto, non si era nemmeno riconosciuta. La ragazza che la
guardava dall’altra parte del vetro era troppo diversa dalla Clove che
conosceva: sembrava più sicura di sé, più aggressiva e austera in
quell’armatura da guerriera. Il turbamento interno che provava non si
notava, nascosto dalla freddezza dei suoi occhi. I suoi lunghi capelli
erano stati tirati indietro e il suo viso ricoperto da un leggero velo
di trucco. Oltre che sembrare più grande e più fiera di lei, quella
Clove sembrava anche... sì, anche più bella. Era strano notare un
dettaglio così banale in un momento come quello, ma era la verità. Per
quanto potesse disprezzare quegli omuncoli che erano il suo staff di
preparatori, non poteva negare che avessero fatto un buon lavoro. Anzi,
avrebbe dovuto ringraziarli. Non poteva più mentire a sé stessa, i
Giochi erano una realtà ora, che lo volesse o meno. E gli sponsor
sarebbero stati davvero, davvero
utili.
Ad ogni modo nulla serviva a
calmarla. Lei continuava a guardarsi attorno, in un’agitazione sempre
più crescente.
Improvvisamente si chiese che
fine avesse fatto Cato. Non avrebbe dovuto importarle, se voleva
partecipare ai Giochi e al contempo mantenere la sua sanità mentale
avrebbe dovuto non pensare a lui e anzi, dimenticare tutto quello che
di lui conosceva. Ma non poté fare a meno di desiderare al suo fianco
un viso familiare. Forse, si disse, questo era quello che cercava
mentre si guardava attorno con affanno. No. No.
Doveva smetterla, doveva tornare in sé. Però non poté fare a meno di
chiedersi se anche Cato avrebbe indossato un costume uguale al suo. In
tal caso l’effetto sarebbe stato ancora più azzeccato. Cato era un vero
guerriero, lo era sempre stato, sin da quando era bambino.
E mentre lei ancora si
guardava attorno in cerca del ragazzo, la voce di Cato la raggiunse da
dietro.
«Clove?»
Si voltò immediatamente al
suono di quella voce e rimase un istante ad osservare il ragazzo. Non
poté impedirsi di farlo.
Sì. Era questa la risposta
alla sua precedente domanda. Cato indossava un’armatura quasi identica
alla sua, con tanto di mantello e scaglie dorate. L’unica differenza
era che non portava due bracciali dorati ai polsi, come lei, ma ne
aveva uno solo, più grande, poco più in alto dell'avambraccio e che il
suo elmo non era chiuso integralmente ma era aperto sulla nuca e
lasciava fuoriuscire i sui capelli biondi, in perfetta armonia con
l’oro del costume. In qualche modo l’armatura sembrava mettere in
evidenza i muscoli asciutti di Cato, bicipiti e addominali, frutto di
così tanti anni di duro allenamento. Sebbene su di lei l’armatura
avesse un magnifico effetto, era nulla comparato a come appariva su
Cato. Era magnifico e sembrava rilucere come la sua armatura dorata.
Il ragazzo le si affiancò,
osservandola intensamente come se anche lui stesse studiando la sua
trasformazione. Chissà a cosa stava pensando, si chiese Clove
ingenuamente.
La verità era che non riusciva
a evitare di guardarlo. Si era detta che doveva evitare di pensare a
lui, dimenticare di averlo mai conosciuto. Sarebbe stato l’unico modo
per non diventare pazza. E ci avrebbe lavorato nei giorni seguenti, se
lo promise.
Ma per il momento non poteva
far altro che pensare a quanto fosse quasi doloroso stare al suo fianco
e vederlo così splendido nel suo costume.
Proprio mentre Clove pensava
di non poter reggere più lo sguardo di Cato, i loro stilisti li
raggiunsero, congratulandosi con loro e commentando i costumi dell’uno
e dell’altra, prima di condurli al loro carro. Clove fu finalmente
libera dal peso degli occhi di ghiaccio di Cato.
In quel momento si decise a
scacciare tutti i pensieri sui Giochi e focalizzarsi solo sul presente:
la sfilata.
Tutti i tributi iniziavano a
radunarsi attorno ai loro carri. Clove e Cato, essendo del Distretto 2,
sarebbero stati i secondi ad uscire allo scoperto. Il loro carro, come
tutti gli altri, era piccolo e aveva giusto lo spazio per ospitare due
persone in piedi. Era trainato da due magnifici cavalli neri, che al
contrario di lei sembravano assolutamente calmi.
C’era un solo carro davanti al
loro e i due tributi vi erano già montati: questo voleva dire che non
mancava poi molto all’inizio della sfilata.
I due stilisti fecero salire
anche Cato e Clove, che si ritrovarono stretti in quello spazio esiguo.
Clove evitò di guardare di nuovo il ragazzo al suo fianco, anche se la
tentazione era forte. Si concentrò invece sui due tributi davanti a
lei. Dovevano essere per forza quelli del Distretto 1 ed essendo il
loro Distretto quello dei minerali e delle pietre preziose indossavano
dei costumi che sembravano delle pellicce rosa scuro; attorno al collo
la ragazza pareva avere una sciarpa di piume e indossava un copricapo
decisamente assurdo. Sotto di esso le parve di vedere dei capelli
biondi. I loro costumi, ovviamente, erano ricoperti di pietre preziose.
Mentre Clove era immersa nel visualizzare i dettagli dei costumi dei
due tributi davanti a lei quasi non si rese conto che il loro carro
aveva iniziato a muoversi e i due ragazzi ingioiellati si
allontanavano. Non appena uscirono allo scoperto un boato si alzò dalle
tribune affollate dell’anfiteatro. Vide i due iniziare a salutare con
la mano, regalando sorrisi a tutti quanti. Tra poco sarebbe stato anche
il suo momento. Iniziò ad agitarsi. Di nuovo.
«Hey.» Immancabilmente il suo
sguardo si alzò verso Cato. «Stai tranquilla, faremo un figurone.» Lui
ammiccò ma Clove non fece in tempo a replicare, perché con un sobbalzo
i cavalli iniziarono a marciare, tirandosi dietro il carro e loro due.
Fantastico, ora si sarebbe chiesta per tutto il resto della serata
perché mai Cato si era preso la briga di tranquillizzarla. Tuttavia
sembrava aver funzionato, perché quando il carro fu investito dalle
luci dell’anfiteatro Clove alzò la mano e, con molta dignità, iniziò a
salutare il pubblico, con appena un accenno di sorriso, fiero e
determinato, sulle labbra mentre scorgeva le immagini di lei e di Cato
sul carro. Si, lui aveva ragione, sarebbero andati alla grande. Il
boato del pubblico aumentò quando il loro carro fu ben visibile e Clove
perse la cognizione del tempo, continuando a salutare e sorridere con
orgoglio, sperando che tutto quello show avrebbe ottenuto i suoi frutti.
Ad un certo punto, dopo un
tempo non determinato per Clove, i carri si fermarono, tutti in un semi
cerchio attorno ad un alto scranno, davanti all’enorme stemma di
Capitol City che per così tanti anni aveva visto da uno schermo. In
quella breve pausa, Clove lanciò uno sguardo agli altri tributi.
Solo un carro attirò la sua
attenzione. E non soltanto la sua, perché esso pareva aver fatto molto
scalpore. Era l’ultimo, quello più lontano da loro. Si era appena
fermato alla sua postazione e ospitava due Tributi i quali costumi
erano... in fiamme, constatò Clove con un certo sconcerto. I due
tributi si tenevano per mano e sembravano circondati da un fuoco vivo e
scoppiettante. La ragazza scosse la testa, spostando la sua
concentrazione sulla cima dell’enorme scranno. In quel momento l’inno
di Capitol partì a tutto volume. Il rumore delle voci provenienti dalle
tribune si spense immediatamente.
Quando anche il suono
dell’inno si spense ecco che apparve il presidente Snow. Era la prima
volta che Clove lo vedeva dal vivo e a dirla tutta sembrava molto più
piccolo di quanto apparisse negli schermi delle televisioni. A questo
pensava Clove, mentre l’uomo dai capelli e la barba candidi come la
neve iniziava il suo discorso, dando il benvenuto ai Tributi. Sembrava
strano pensare che quell’uomo dall’aspetto del tutto normale, che stava
accogliendo tutti loro con immenso calore nella sua Capitale, avrebbe
presto mandato quegli stessi ventiquattro ragazzi ad ammazzarsi
in un’arena.
Quando il presidente finì di
parlare ripartì l’inno e i carri sfilarono di nuovo verso l’uscita.
Verso la porta che li avrebbe condotti al Centro di Addestramento.
Clove sentiva ancora l’adrenalina del momento scorrerle nelle vene e si
voltò di nuovo per scorgere un’ultima volta l’enorme anfiteatro gremito
di persone che ancora urlavano il loro apprezzamento per i tributi. Fu
in quel momento che la mano di Clove sfiorò quella di Cato.
La ragazza si voltò
immediatamente verso di lui, come se avesse preso la scossa da quel
breve contatto, sentendo i battiti del proprio cuore accelerare. Gli
occhi azzurri di Cato si incrociarono con i suoi per qualche istante,
come se volessero comunicarle qualcosa. Ma non c’era nulla da dire.
Rimasero qualche istante a guardarsi e Clove si ricordò ciò che per
pochi minuti aveva dimenticato: i Giochi incombevano su di loro come
un’ombra enorme e lei non poteva permettersi distrazioni. Ancora non
sapeva cosa avrebbe fatto o come si sarebbe comportata, ma era certa
che non poteva permettersi di provare nulla. Qualsiasi sentimento
sarebbe stato controproducente nell’arena. L’adrenalina e l’emozione
provate durante la sfilata doveva dimenticarsele; invece doveva
ricordarsi che Cato, quel ragazzo muscoloso, con i capelli biondi,
l’armatura dorata e quei penetranti occhi azzurri, il ragazzo che aveva
conosciuto quando aveva solo otto anni, quello che l’aveva aiutata
quando era stata in difficoltà, quello che le aveva regalato il suo
primo coltello che Clove aveva portato con sé fino a Capitol City,
incapace di separarvisi, lui, proprio lui, sarebbe stato presto suo
nemico e tutto quello che avrebbe potuto fare era allontanarsi da lui
il più presto possibile e sperare che qualcun altro lo uccidesse. Quel
pensiero la fece rabbrividire.
Ma doveva imprimerselo bene
nella testa. Già troppe volte si era lasciata andare quel giorno, già
troppe volte il suo sguardo era caduto su di lui e li si era bloccato.
Non sapeva nemmeno perché i suoi occhi le giocassero questi brutti
scherzi, ma doveva smetterla.
Così si voltò da un’altra
parte e per l’ultima volta scorse in uno schermo l’immagine del loro
carro. Cato e Clove, i guerrieri del Distretto 2.
SPAZIO
AUOTORE
Salve
a tutti!!! Ecco finalmente il nuovo capitolo che apre la terza parte
della fanfic, quella dedicata a Capitol! Allora... lo si può
considerare un regalo di Natale in ritardo?? Spero di sì ;) E spero
anche che vi sia piaciuto!!!
La
sfilata dei Tributi era una delle mie scene preferite (nel film,
soprattutto, infatti mi sono basata su quello per i costumi!) e spero
davvero di non avervi delusa con questo capitolo! Ad ogni modo, non
voglio dilungarmi in chiacchiere! Vi chiedo solo... vi piace ancora la
storia?? Mi sembra di aver notato un calo di recensioni (niente di che,
però io chiedo u.u)
Ad ogni modo voglio
ringraziare TUTTI VOI che leggete la mia storia e soprattutto tutti
quelli che la recensiscono sempre: leggere le vostre parole mi riempie
di gioia e mi da la voglia di andare avanti a scrivere sui miei
beniamini *-* grazie anche a tutte le buone anime che hanno messo la
storia tra le ricordate, le seguite o le preferite e grazie anche a chi
semplicemente la legge e l'apprezza! Grazie a tutti ;)
Come sempre alla fine mi
dilungo più del voluto u.u aspetto con ansia i vostri pareri e... al
prossimo capitolo! ;)
~ C
|
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Capitolo 11 *** 11. The Games will change Eveyone ***
Till your last breath
CAPITOLO
11
THE
GAMES WILL CHANGE EVERYONE
Gli
appartamenti dei Tributi erano stipati in un palazzone altissimo nel
centro di Capitol City. Cato e Clove, arrivando dal Distretto 2, erano
stati collocati al secondo piano. Ma non importava veramente l’altezza
a cui ti trovavi: le finestre delle stanze erano dotate di una strana
tecnologia che ti consentiva di spostare l’inquadratura su qualsiasi
zona di Capitol City o addirittura di impostare qualsiasi sfondo
desiderassi così che, mentre guardavi fuori dalla finestra, non vedevi
più Capitol e le sue innumerevoli luci, ma potevi ritrovarti in riva al
mare, in cima ad una montagna o nel fitto di una foresta.
L’appartamento era enorme e
dotato di comfort innumerevoli. Clove si sentiva estranea in tutto quel
lusso e quell’abbondanza. D’altronde la cosa che le importava di quel
loro soggiorno a Capitol non era certo il suo appartamento. Erano la
palestra e gli allenamenti.
Clove ci pensava sin dal giorno prima, non appena erano arrivati nei
loro appartamenti, dopo la sfilata. Tutti sembravano stanchi per la
giornata trascorsa e né Cato né Clove proferirono parola mentre i loro
stilisti toglievano loro l’armatura. Anche Clove sentiva di poter
crollare da un momento all’altro, non tanto per la stanchezza fisica;
sotto quel punto di vista si sentiva pronta e scattante come non mai.
Era sotto il punto di vista psichico che era devastata. Per questo
delle buone ore di sonno, una doccia calda e una buona colazione
l’aiutarono parecchio quel mattino, per rimettersi in pista. D’altronde
non poteva negare di sentirsi emozionata. Non agitata come la sera
prima per la sfilata. Solo... emozionata. Perché quello era il giorno
dei primi allenamenti.
Così, improvvisamente, tutti i problemi e le preoccupazioni del giorno
prima si dissolsero, dandole una breve tregua, quando finalmente il
tanto atteso momento di incontrare gli altri era arrivato: Clove non
avrebbe mai dimenticato il primo vero incontro con i Tributi.
Vedere ventidue facce sconosciute, schierate in un cerchio carico di
tensione attorno alla capoistruttrice degli allenamenti e sapere che
presto avresti potuto, o meglio dire dovuto, uccidere ognuno di loro
era un’esperienza che non si dimentica tanto facilmente. Così, agendo
quasi incondizionatamente, Clove si trovò a scrutare i tributi con
occhio critico e calcolatore, come ad identificare le debolezze e i
punti forti di tutti coloro contro i quali avrebbe dovuto combattere.
Se tutti gli altri, o almeno quasi tutti, sembravano spaventati e
spaesati lei e Cato apparivano del tutto rilassati e pronti all’azione.
Gran parte dei loro compagni faceva scorrere velocemente lo sguardo
sugli altri tributi, abbassandolo non appena si rendevano conto che un
altro paio di occhi era puntato su di loro. Spostavano il peso del
corpo da una gamba all’altra, muovendo i piedi in continuazione,
tradendo la loro ansia. Si stringevano le braccia al petto e
deglutivano in continuazione.
Quelli... sì, quelli sarebbero stati i primi a morire, fu il perentorio
decreto di Clove. A meno che non avessero avuto, nascosta da qualche
parte, una grande dose di coraggio, di forza e di astuzia. Ma non molti
parevano rispondere a quei requisiti.
Clove lanciò uno sguardo a Cato che se ne stava ritto e immobile, con
le braccia conserte e i muscoli ben in vista. Sulle labbra aveva un
lieve sorriso soddisfatto e non si degnava quasi di guardare gli altri
tributi. Quando si accorse che Clove lo fissava abbassò lo sguardo su
di lei e le sorrise. Clove ricambiò, del tutto tranquilla, quasi
elettrizzata. Si sentiva così diversa dalla sera prima. Quello sì che
era il suo campo. Pareva quasi che i due si fossero passati un
messaggio: loro erano più forti degli altri, e lo avrebbero fatto
capire a tutti. Forse però questo messaggio non detto Clove se lo era
solo immaginato.
Tornò a guardare gli altri tributi. Uno in particolare avrebbe potuto
darle qualche problema. Era un ragazzo grosso e con muscoli pompati, la
pelle scura come la notte e i capelli rasati. Anche lui se ne stava
dritto in piedi, il suo corpo non aveva fremiti e il suo volto non si
mostrava particolarmente preoccupato. Ma dopotutto il ragazzo veniva
dal Distretto 11. Non aveva pratica e destrezza. Non era stato
addestrato come lei. Cos’aveva dalla sua parte? I muscoli e il suo
corpo, tutto qui. Ma la forza bruta non sempre batte la tecnica. E se
Clove fosse stata fortunata qualcun altro l’avrebbe ucciso oppure la
natura se lo sarebbe portato via prima che potesse diventare una
minaccia.
Al suo fianco c’era una ragazzina che probabilmente non sarebbe durata
fin oltre il bagno di sangue alla cornucopia. Era alta meno della metà
del suo compagno e avrà avuto sì o no undici anni. Anche la sua pelle
era scura come ebano e i capelli erano una matassa di riccioli crespi.
Si guardava attorno con occhi scaltri e forse era agile, perché il
Distretto 11 era quello dell’agricoltura e lì i ragazzi sono abituati a
muoversi parecchio. Ma era troppo piccola, non aveva speranze.
Gli occhi di Clove abbandonarono i due Tributi del Distretto 11 e si
posarono su quelli dell’1. Quasi ogni anno i tributi del Distretto 1 e
2, e a volte anche quelli del 4, stringevano un'alleanza strategica
volta ad eliminare il maggior numero di tributi e a proteggersi a
vicenda fino a quando nell’arena non fossero rimasti solo i migliori.
Allora l’alleanza veniva rotta e iniziava la vera guerra. Ma Clove non
credeva che quell’anno lei avrebbe fatto parte di quei tributi che
venivano abitualmente chiamati i Favoriti. Non poteva certo allearsi
con Cato. Anzi, il meglio che potesse fare era sperare che qualcun
altro lo uccidesse, levandole quel peso dalle spalle.
Ad ogni modo i Tributi dell’1 sembravano gli unici in quella stanza,
fatta eccezione per lei, Cato e il ragazzo dell’11, ad essere
tranquilli. La ragazza, quella che Clove aveva osservato alla sfilata,
non sembrava nulla di che ora che non indossava più pelliccia e
gioielli; non era particolarmente muscolosa e non sembrava nemmeno
particolarmente sveglia ma aveva dipinta sul viso un’espressione
sprezzante ed arrogante, teneva il mento alto con grande fierezza e si
arricciava tra le dita la punta di una delle sue due lunghe trecce
bionde. Il ragazzo al suo fianco aveva anch’esso un’espressione feroce
e un sorriso impaziente sulle labbra sottili. Era muscoloso ma non
quanto Cato. Mentre lei lo analizzava il suo sguardo le si posò
addosso, continuando a sorridere. A Clove parve quasi che il ragazzo
ora le stesse rivolgendo uno sguardo amichevole, come per dire che
presto sarebbero stati alleati nell’arena. La ragazza si voltò
immediatamente dall’altra parte.
Fu allora che il suo sguardo cadde in fondo al gruppo, dove c’erano i
due tributi del Distretto 12. Quelli che, la sera prima alla sfilata,
erano in fiamme. Clove non ricordava di aver mai visto un tributo di
quel distretto vincere i Giochi sin da quando era in vita e da quel che
sapeva era successo talmente poche volte che si potevano contare sulle
dita di una mano, ma forse anche in quel caso ne sarebbero avanzate. E
quest’anno non sarebbe certo andata diversamente. Il ragazzo era poco
più alto di lei, con i capelli biondi ben ordinati e sotto la tuta
sembrava avere muscoli abbastanza sviluppati. Ma era il suo viso a
parlare per lui: i suoi occhi azzurri scattavano da una parte
all’altra, veloci, le sue mani si stringevano a pugno a intervalli
regolari ed era decisamente agitato. Poteva sembrare un tizio tosto da
fuori, ma la sua paura era palpabile. Non costituiva un problema.
La ragazza forse poteva essere più “pericolosa”. Clove aveva sentito
dire che si era offerta volontaria, ma non come erano soliti fare nel
Distretto 2. L’aveva fatto per salvare la sorellina, o almeno così
aveva sentito raccontare. A quanto pareva, era già diventata l’eroina di Capitol. Un volontario da
un distretto remoto non si era mai visto e la sua tragica storia e il suo grande coraggio facevano fremere
quei buoni a nulla della popolazione di Capitol City. E probabilmente
dopo lo show che aveva offerto alla sfilata la sua popolarità era
aumentata a dismisura. Ma era l’abilità che ti salvava nell’arena, non
la tua popolarità. Gli sponsor erano utili, ma non erano tutto.
La ragazza del 12 aveva occhi scuri, come i capelli che erano raccolti
in una lunga treccia. Le mani erano strette a pugno, i muscoli tesi e
il portamento fiero. Lo sguardo duro e freddo era senza espressione,
sembrava molto concentrata e determinata. Ma valeva il discorso fatto
prima. Nessuno degli altri tributi, a parte quelli dell’1, del 2 e
forse del 4, era stato allenato prima dei Giochi. Loro erano lì per
puro caso, o come avrebbero potuto dire loro, per mera sfortuna, erano
vittime sacrificali destinate a morire sotto le mani dei Favoriti. Sia
che avessero avuto un mare di sponsor o meno.
Clove si stupì della sua freddezza e acutezza di pensiero, ma fu solo
per un breve istante. Prima di allora non aveva mai pensato seriamente
di uccidere qualcuno, a parte Damien forse, ed ora invece si ritrovava
a studiare quei ragazzi come se fossero bestie, imprimendosi nella
mente quali avrebbe ucciso prima e quali avrebbe cercato di evitare.
Era proprio vero che i Giochi ti cambiavano.
Clove e Cato erano già impazienti mentre venivano scortati nella
palestra dove si sarebbero tenuti gli addestramenti. Quella si
trovava nei sotterranei ed era gremita di armi di tutti i tipi e
numerosi percorsi ad ostacoli. Aspettavano quel momento sin da quando
erano saliti a bordo del treno che li aveva condotti fin lì. Era
l’unica ragione per la quale volevano arrivare a Capitol City. Gli
altri tributi invece non parevano essere così emozionati. Probabilmente
più della metà di loro non aveva mai tenuto in mano una spada, non
aveva mai tirato con l’arco, non aveva mai lanciato coltelli o lance.
Per molti di loro quella era un’esperienza del tutto nuova. Ma non per
lei.
Dopo le ultime istruzioni, i tributi vennero lasciati liberi di
scegliersi le proprie postazioni ed iniziare l’allenamento individuale.
In ogni postazione ci sarebbero stati degli esperti di ogni specialità
ma Clove era certa che non se ne sarebbe servita. Lei sapeva già tutto
quello che doveva sapere.
Cato le lanciò uno sguardo e le si avvicinò mestamente.
«Bé, buon divertimento allora.» Il suo sorriso era brillante come non
lo vedeva da tempo. «E tieni gli occhi aperti.» Gli disse lanciando uno
sguardo agli altri tributi che si aggiravano attorno alle postazioni
senza sapere cosa fare. Detto questo il ragazzo si allontanò, andando
con passo sicuro verso la postazione delle spade e non si preoccupò di
schivare un ragazzino impaurito che non sapeva dove andare, tirandogli
una spallata che per poco non lo fece cadere a terra.
Clove sapeva cosa aveva voluto dire Cato poco prima, le diceva di
guardarsi attorno e studiare bene i propri nemici. La ragazza si mosse
con passo sicuro verso la postazione con i bersagli. Quelli erano delle
sagome a grandezza naturale di persone con i punti vitali evidenziati
in rosso. Di fianco ad ogni postazione vi era un arco con la sua
faretra... e dei coltelli da lancio. Clove ne afferrò tre, senza
pensarci un istante di più, e li tirò, uno dietro l’altro.
Quelli si conficcarono con precisione nei punti desiderati: l’occhio
destro, il centro della testa e il cuore. Con un sorriso soddisfatto
Clove afferrò altri coltelli. Si stava solo riscaldando. Lanciò uno
sguardo attorno solo per notare con certo orgoglio che molti Tributi si
erano fermati a guardarla ad occhi spalancati. Altri invece rivolgevano
gli stessi sguardi alla postazione delle spade, dove Cato aveva già
iniziato a distruggere i suoi manichini. Solo pochi altri tributi si
avventuravano nelle poche postazioni dove erano per lo meno discreti,
ma senza grandi risultati. La maggior parte di loro si affollò attorno
alle postazioni dove si insegnava come accendere un fuoco, intessere
trappole e fare nodi. Che abilità inutili, pensò Clove con stizza,
tornando a concentrarsi sui suoi bersagli.
Ritrovò Cato poco più tardi, mentre lasciava la postazione di lotta
libera dove aveva appena steso un giovane assistente di Capitol che
aveva il compito di guidare i tributi nelle varie postazioni. Clove
sghignazzò sentendolo lamentarsi alle sue spalle mentre degli uomini
vestiti di bianco gli si affollavano attorno. E quel tizio avrebbe
dovuto insegnare qualcosa a lei?
La ragazza scosse la testa, continuando a sorridere.
Quando vide Cato si diresse verso di lui, non sapendo che altro fare e
decidendo di concedersi una breve pausa dagli allenamenti.
«Bé, come procede?» Chiese lei, cercando di non apparire sciocca. Non
sapeva perché, ma Cato le dava sempre qualche problema. Quando parlava
con lui, si sentiva come... inferiore forse? Non lo sapeva, ma le
sembrava sempre di apparire come una bambina.
Lui si strinse nelle spalle. «Non è molto diverso dalla nostra
Accademia.» Il suo sguardo scivolò alle sue spalle, sul ragazzo che
aveva appena steso e che i medici stavano portando via su una barella,
mentre lui si stringeva la caviglia. Cato si mise a ridere.
«Però! L’hai conciato proprio bene! Come quando hai steso quell’idiota
di Damien a scuola!» Cato ridacchiò brevemente, seguendo i medici con
lo sguardo. «Attenta però... non svelare tutti i tuoi trucchi prima
ancora di entrare nell’arena.» Aggiunse beffardo, continuando a
sorridere.
«Uff... ma l’ho appena sfiorato! Non ho usato nessun trucchetto, non me
ne ha dato l’opportunità.» Si lamentò la ragazza, con un sorrisetto
furbesco sulle labbra. In quell’ambiente familiare le risultava più
facile stare al fianco di Cato. Poteva quasi fingere che non si
stessero preparando per i Giochi. Che presto non sarebbero diventati
nemici. Bé, poteva quasi
fingere. Ridacchiavano entrambi quando qualcuno si avvicinò.
Erano i Tributi dell’1.
«Hey.» Esclamò il ragazzo, avvicinandosi. La bionda era alle sue spalle
e sorrideva. «Complimenti ad entrambi, per il bello show di poco fa!
Credo proprio che noi,» Disse
marcando particolarmente la parola noi come se vi stesse includendo
anche lui e la sua compagna. «Siamo i pochi in grado di fare veramente qualcosa con questi
attrezzi.» Disse il ragazzo indicando la palestra alle sue spalle e i
tributi ancora mezzi spaesati che vagavano da una postazione all’altra.
Il suo intento era chiaro: voleva conoscere i tributi più agguerriti in
modo da poter creare un’alleanza strategica. Ta da! Ed ecco la nascita
dei Favoriti! Peccato che Clove non volesse farne parte.
«Oh, comunque io sono Marvel.» Il ragazzo tese la mano a Cato, che la
strinse energicamente, poi la porse a Clove. La ragazza non sapeva cosa
dire. Non voleva allearsi con loro
ma rinnegare così l’alleanza non era certo una mossa furba. Non li
voleva neppure come nemici. Senza mostrare alcuna emozione, strinse la
mano al ragazzo.
«Glimmer.» Disse la ragazza bionda salutandoli entrambi con la mano. Il
suo sguardo indugiò qualche istante su Cato, pensò Clove, ma forse
l’aveva solo immaginato.
«Bé,» iniziò Cato, rompendo il silenzio. «Tu hai visto in cosa sono
forte. Ma io non ho visto in cosa lo sei tu.»
Marvel gli sorrise tirandogli una pacca sulla schiena e iniziando a
camminare. «Oh amico, devo dire che me la cavo abbastanza bene con le
lance. Anzi, a dire la verità mi è stato detto che sono il migliore. Ma
niente è meglio che giudicare con i propri occhi, no?»
«Ah, sicuro!» Esclamò Cato, non ancora del tutto convinto. Se Marvel
voleva allearsi con lui, avrebbe dovuto dimostrare di essere alla sua
altezza. Clove rimase ferma, osservando i due ragazzi che si
allontanavano. Poi si rese conto della presenza della ragazza bionda,
Glimmer, al suo fianco. Lei le sorrise con quelle sue labbra rosee e
piene, con uno sguardo che Clove non riuscì a leggere. Poi, senza dire
nulla, si allontanò, seguendo Cato e Marvel con passo ondeggiante.
Clove la guardò per qualche istante, studiandola attentamente. Era una
ragazza strana e ancora non aveva capito se fosse forte oppure facesse
solo finta di essere superiore a tutti gli altri tributi. Non sembrava
particolarmente dotata in qualche arte ma il suo sguardo, misterioso e
indagatore, pareva nascondere qualcosa. Sì, forse era meglio averla
come alleata che come nemica. Alla fine veniva dall’1; poteva avere
qualche abilità che preferiva tenere nascosta.
Ad ogni modo Clove non intendeva avere alcun alleato, se questo voleva
dire affrontare l’arena assieme a Cato. Preferiva starsene da sola. O
almeno così si era imposta di credere. Si voltò con risolutezza e si
diresse alla prima postazione che le capitò a tiro, cercando di non
voltarsi a guardare quelli che, già lo sapeva, sarebbero diventati i
Tributi Favoriti della settantaquattresima edizione degli Hunger Games.
SPAZIO AUTORE
Hemm, salve a tutti
*schiva qualche coltello* scusate, scusate davvero per questo immenso
ritardo nell'aggiornare!!! Lo so, mi odio anche io xD ultimamente la
scuola non mi lascia spazio e mi sta letteralmente sommergendo...
è l'ultimo anno, è normale che sia così D:
ad ogni modo, spero il capitolo non vi abbia deluso e... la prossima
volta, aggiornerò senza tutto questo ritardo, lo giuro ;)
Grazie a tutti quelli che leggeranno e recensiranno la storia, se ce ne
sono ancora... grazie davvero <3
~ C
|
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Capitolo 12 *** 12. Alleanze ***
Till your last
breath
CAPITOLO 12
ALLEANZE
Il secondo giorno al Centro di
Addestramento il tempo parve a tornare a scorrere normalmente. Clove si
concesse anche il tempo di osservare attentamente le altre persone
sedute assieme a lei e Cato al grande tavolo della colazione.
Per tutti i giorni precedenti
il suo unico obiettivo era stato quello di raggiungere la palestra e
iniziare gli addestramenti, nient’altro le era importato. Ora che
finalmente l’aveva fatto e aveva visto e analizzato gli altri tributi
si sentiva più tranquilla.
Al tavolo sedevano, oltre che
lei e Cato, i loro due stilisti. Eliahs e il suo compagno, un uomo
robusto con i capelli neri dalle punte di un blu elettrico. I due
stavano parlando e Clove preferì non sapere cosa stessero progettando.
Probabilmente un qualche altro vestito per loro. Eliahs le stava
simpatico e parlare con lui non le dispiaceva. Ma preferiva non averci
nulla a che fare, visto il suo lavoro.
A capotavola sedeva l’omino
dai capelli verdi e la voce squillante che li aveva guidati a Capitol,
il loro accompagnatore, quello che aveva eseguito anche la Mietitura.
Clove non aveva ancora imparato il suo nome. Ad ogni modo, lui cercava
con tutti i mezzi possibili di ravvivare la situazione quando si
trovavano tutti assieme e cercava con assiduo impegno di attaccar
bottone con Brutus ed Enobaria. I loro mentori.
Ma loro, come Cato e Clove,
non erano poi così vogliosi di chiacchierare con quell’essere chiassoso
e così evidentemente superficiale. Non che parlassero molto di più con
gli altri, anzi; erano abbastanza silenziosi e sulle loro.
Il lavoro di mentore nel
Distretto 2 non era poi così impegnativo. Cato e Clove sapevano già
quasi tutto quello che dovevano sapere e Brutus ed Enobaria si
erano limitati a dare loro qualche prezioso consiglio, attingendo anche
ad esempi delle loro edizioni degli Hunger Games, quelle in cui avevano
trionfato. Clove non poteva nasconderlo, ma sia lei che Cato guardavano
i loro mentori con un certo rispetto. Loro due ce l’avevano fatta,
avevano vinto gli Hunger Games.
Ad ogni modo questo era tutto.
Non vi era un grande rapporto tra di loro, anche se un paio di volte
Clove era certa di aver visto lo sguardo di Enobaria passare da lei a
Cato, studiandoli con una certa attenzione e con uno sguardo meno duro
del solito. Forse, sotto sotto, sperava che almeno uno di loro due
vincesse.
Quel mattino Cato e Clove si
recarono da soli nei sotterranei, visto che i loro mentori non avevano
nulla di più da insegnare loro. Gli ascensori erano veloci e
silenziosi, come l’abitacolo che li portava sempre più in basso. Fu
Cato a rompere il silenzio.
«Allora... come ti sono
sembrati i tributi dell’1?»
Clove alzò lo sguardo verso di
lui e ci pensò su, prima di rispondere. «Non sembravano male.» Disse,
non del tutto convinta.
«No, affatto. Credo che
potrebbero benissimo essere nostri alleati, nell’arena. Ci saranno
molto utili.»
Clove sgranò gli occhi. La
confusione si impadronì di lei per qualche istante. Nostri alleati? Ci saranno utili? Sembrava quasi
che Cato intendesse che lui e Clove sarebbero effettivamente stati
alleati nell’arena. Ma non poteva essere così, vero? Doveva essersi
sbagliato.
«Cosa c’è?» Chiese lui,
accorgendosi che Clove lo stava fissando con gli occhi sgranati. Lei si
schiarì la voce, presa alla sprovvista da quella situazione.
«Ecco io... non pensavo... non
pensavo che ci saremmo alleati nell’arena. Tu ed io, voglio dire.»
Aggiunse, come se non fosse stata abbastanza chiara.
Ora fu lo sguardo di Cato ad
apparire confuso. Incrociò le braccia al petto, guardandola inarcando
le sopracciglia. «E perché lo pensavi?»
Clove si strinse nelle spalle.
«Non lo so.» Abbassò lo sguardo mentre il cuore le saltava in gola.
Cosa stava succedendo in quel maledetto ascensore? «Perché... tu
vorresti avermi come alleata?»
«Stai scherzando, vero?!»
Esclamò lui, sempre più sorpreso. Clove alzò di nuovo lo sguardo verso
di lui. «Certo che sì. Ti ho vista all’Accademia. Ho visto quanto sei
brava con quei coltelli. Certo che ti voglio come alleata.» La mente di
Clove volò per qualche istante al coltello che lui le aveva regalato
una sera di tanti anni prima, sul tetto dell’Accademia. Ora era ben
nascosto nella sua stanza al Centro di Addestramento. Per qualche
ragione, non voleva separarsi da quell’oggetto.
Poi tornò al presente e
metabolizzò il tutto: Cato la voleva come alleata nell’arena. Cato voleva che lei fosse sua alleata
nell’arena.
«Allora... siamo alleati,
vero?» Riprese Cato, in attesa di una risposta. «Se il problema sono
quelli dell’1 possiamo sempre dirgli che non ci interessa allearci con
loro.»
«No!» Esclamò Clove. «No, loro
sono a posto.»
«Allora qual’è il problema?»
Cato inarcò le sopracciglia e rimase in silenzio per un istante. «Io?»
Clove lo guardò socchiudendo
le labbra. Il suo sguardo si fece duro. «No, certo che no! Non c’è
alcun problema. È solo che... oh, lascia perdere.» Si arrese Clove,
scuotendo la testa, sconsolata. «Saremo alleati. Siamo alleati.»
«Fantastico!» Sulle labbra di
Cato si dipinse un sorriso soddisfatto. Proprio in quel momento le
porte dell’ascensore si spalancarono davanti a loro e i due si
incamminarono nella palestra.
Cosa aveva combinato? Cosa diavolo aveva combinato?
Che fine avevano fatto tutti i
suoi propositi sul dimenticarsi di Cato, di ignorarlo e fare finta di
non averlo mai conosciuto? Il suo piano di distanziarlo il più
possibile nell’arena e sperare che qualcun altro si occupasse di lui
mentre lei cercava di non pensarci? Che fine avevano fatto tutti i suoi
buoni propositi per affrontare gli Hunger Games al meglio, senza avere
quel peso opprimente addosso? Perché aveva accettato?
Si era scavata la fossa da
sola. Come avrebbe potuto sopportare di allearsi con Cato, di stare
assieme a lui nell’arena, quando riusciva a mala pena a stare nella
stessa stanza con lui senza pensare a cosa sarebbe successo di li a
poco? Senza continuare ad interrogarsi su come sarebbe finita tutta
quella storia?
Aveva solo peggiorato la sua
già precaria situazione. A questo pensava mentre Cato si dirigeva
spensierato verso gli altri due Favoriti. Clove si chiese per un
istante cosa passasse per la sua testa. Sembrava sempre così tranquillo
e misurato, ma a cosa pensava in realtà? Perché la voleva come alleata?
Era forte, certo. O forse il suo piano era di eliminarla il più presto
possibile, così la sua presenza non gli avrebbe più dato alcun problema
di rimorso o cose simili? Come si diceva, tieni vicino gli amici ma
ancora più vicino i nemici. Clove non sapeva perché lo avesse fatto,
sapeva soltanto che le cose si mettevano sempre peggio e la sua mente,
già così tanto provata, iniziava lentamente a cedere.
***
«Avete visto gli strateghi?»
Chiese Marvel al terzo giorno di allenamenti, posando rumorosamente il
vassoio di metallo sul tavolo della mensa. All’ora di pranzo i quattro
Tributi Favoriti erano soliti unire due tavoli e crearne uno unico,
dove mangiavano assieme e parlavano degli allenamenti e di quanto
fossero scarsi gli altri tributi in confronto a loro.
Glimmer li raggiunse e si
sedette con grazia al suo posto. «Finalmente hanno deciso di farsi
vedere.»
«Chissà cosa ci hanno
organizzato quest’anno.» Si chiese Marvel, iniziando a mangiare.
Già, era una bella domanda.
Ad ogni modo il problema più
impellente erano le sessioni private; per questo gli strateghi si erano
decisi a farsi vivi. Le sessioni sarebbero state di vitale importanza.
Soprattutto lo sarebbe stato il voto.
«Spero sia un’arena decente.»
Fu il commento di Cato. Glimmer ridacchiò. Clove la guardò storto.
«Bé, ma prima dell’arena ci
saranno le interviste.» Fece la ragazza bionda, lanciando uno sguardo
ai suoi compagni con uno strano sorriso sulle labbra. «Non vedo l’ora
che arrivi il momento!» Dopo quella sua esclamazione si trovò addosso
tre paia di occhi che la guardavano storto. «Che c’è? Che ho detto?»
«Niente, ma credo che tu sia
l’unica ad amare le interviste, qui dentro.» Disse Clove ridacchiando
al pensiero e cercando di nascondere il nervosismo che il solo pensare
alle interviste le infondeva.
«Sì, è vero.» Concordò Cato,
tornando a mangiare.
«Oh, ma dai! Sarà divertente!
In più la mia stilista mi ha promesso un vestito favoloso!»
Marvel scosse la testa,
tornando anch’esso a mangiare. Glimmer sbuffò sconsolata, borbottando
un sommesso ‘’che noia’’.
«Avete notato come gli
strateghi tenevano gli occhi puntati addosso a quei due pivelli del
12?» Chiese Marvel, abbassando la voce ad un sussurro. I loro sguardi
si posarono per qualche istante sui tributi in questione per poi
tornare a fissarsi su Marvel.
«Sì, l’ho notato.» Fece Cato.
Anche Clove annuì, in segno di assenso.
«La loro è tutta fortuna.
Adorano lei perché si è offerta volontaria per salvare la sorellina.
Poi hanno dato il loro show alla sfilata, tenendosi per mano e mandando
in fiamme il loro costume.» Commentò Clove in tono sprezzante. Non
sapeva dirsi se era per questi motivi o per altri, ma i tributi del 12
non le andavano particolarmente a genio. Anzi. Nutriva una certa
antipatia verso di loro, soprattutto verso la ragazza.
«Quante storie! Non hanno
nulla di speciale, nessuno dei due!» Esclamò Glimmer, lanciando loro
uno sguardo palesemente nauseato. «La ragazza poi non è nemmeno così
bella.»
«Sono curioso di vedere le
loro valutazioni. Su quelle almeno non posso barare.»
«Hai ragione Cato. Sono molto
curioso anche io.» Gli fece eco Marvel. «A proposito, avete già pensato
a cosa mostrare agli strateghi durante le sessioni?»
Così la discussione abbandonò
i tributi del 12 e si spostò sulle varie tattiche e mosse che avrebbero
mostrato agli strateghi per impressionarli. Però Clove lanciò loro un
ultimo sguardo. La fortuna aveva fatto in modo che fossero stati notati
dagli sponsor e dagli altri tributi, ma tutto finiva lì. Clove soffocò
l’irritazione dovuta a quel pensiero. Se lei era arrivata fino a dove
stava non era stato certo per la fortuna.
Ad ogni modo cancellò quei
pensieri dalla mente e tornò a focalizzarsi sulla conversazione. Marvel
stava ancora parlando di cosa avrebbe mostrato agli strateghi durante
le ormai incombenti sessioni mentre Cato la guardava di sottecchi, come
se avesse voluto dirle qualcosa. Glimmer invece fissava apertamente
Cato, come se lo stesse attentamente esaminando da vicino.
Eccoli lì, quelli che
sarebbero stati i suoi compagni nell’arena.
O almeno, lo sarebbero stati
fino a quando l'alleanza avrebbe tenuto.
Poi sarebbero diventati tutti
quanti nemici.
Cato compreso.
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Capitolo 13 *** 13. Le Interviste ***
Till your last breath
CAPITOLO 13
LE INTERVISTE
Clove iniziò a
sentirsi nervosa già mentre si avviava, con passo incerto, verso
l’ascensore. Tutta la grinta e la determinazione che l’avevano pervasa
durante le sessioni private, tutta la sicurezza e la forza che aveva
mostrato agli strateghi e che le era fruttata un ottimo dieci come
voto, sembrava evaporata come acqua lasciata troppo tempo sotto il sole
cocente.
Il suo debole alla fine
restava sempre quello: il pubblico. E niente era peggio delle
interviste. Niente.
Non solo avrebbe dovuto
restare per un tempo indefinito sul palco, immobile su una sedia, sotto
le luci accecanti dei riflettori e con le telecamere che le ronzavano
attorno, riprendendola da ogni angolazione quando nemmeno se ne rendeva
conto. Non solo avrebbe dovuto sedersi a fianco di Caesar Flickerman e
parlare amabilmente della sua vita, del suo passato e di come avrebbe
affrontato gli Hunger Games. No, questo non bastava. Avrebbe anche
dovuto indossare uno stupido vestito e dei maledetti tacchi. Questo,
più di ogni altra cosa, la faceva rabbrividire. Non i Giochi, non i
ragazzi che avrebbero tentato di ucciderla. Vestiti da sera e tacchi
alti.
Era un controsenso, ma per
Clove era così. Ad ogni modo era davvero brava a mascherare il
nervosismo e i suoi timori, perché tutti gli altri tributi continuavano
a temerla. Quando passava loro vicino, assieme agli altri Favoriti, si
scansavano e abbassando gli occhi. Nessuno avrebbe mai capito che lei,
la ragazza letale dal Distretto 2, aveva paura delle interviste.
Eliahs, il suo stilista, le aveva detto di mostrarsi forte, determinata
e superiore quanto sarebbe arrivato il momento di parlare. Doveva far
capire a tutti che era lì per una sola ragione: vincere. E che avrebbe
fatto di tutto per adempire ad essa. Ma allo stesso tempo doveva
mostrarsi scaltra e misteriosa per attirare su di sé il maggior numero
di sponsor possibile. Certo, essere anche un po’ affascinante non
avrebbe guastato, ma quando Eliahs glielo propose lei lo guardò in
cagnesco.
Clove pensava che se ne
sarebbe semplicemente rimasta là seduta immobile, muta con un pesce e
con uno sguardo omicida verso il pubblico. Sponsor inclusi. Quando
aveva espresso questo suo pensiero al suo stilista, Eliahs l’aveva
guardata inarcando le sopracciglia sottili e le aveva fatto una
ramanzina. Aveva ottenuto un voto alto alle valutazioni, facendosi
notare in positivo dagli strateghi; gli altri tributi sapevano quanto
fosse forte e letale, un vero osso duro nell’arena. Non poteva rovinare
tutto in una sola sera.
E Clove sapeva che lui aveva
ragione. Non poteva farlo, doveva essere forte e superare anche quella.
Prese un profondo respiro e si sistemò il vestito, reprimendo l’istinto
di strapparselo via. Almeno alla sfilata aveva indossato qualcosa con
cui aveva una certa affinità. Di vestiti invece non ne aveva mai
indossati. Per non parlare di tacchi, pensò mentre entrava
nell’ascensore cercando di non inciampare. Eliahs aveva passato
l’intera mattinata per insegnarle il portamento corretto con vestito e
scarpe alte. Per Clove quello era tutto tempo sprecato che avrebbe
preferito impiegare in ulteriori allenamenti. Ma avrebbe potuto
ricredersi se tutte quelle ore buttate le sarebbero servite per non
cadere rovinosamente a terra sul palco mandando in fumo tutto quanto.
Mentre osservava con stizza il
suo vestito arancio, appiattendolo con le mani come se sperasse che
potesse diventare improvvisamente più lungo, e si sistemava
l’acconciatura troppo elaborata, che probabilmente sua madre avrebbe
amato, Cato si infilò tra le porte dell’ascensore che si stavano già
richiudendo.
«Scusate il ritardo.» Disse
con voce calma, abbozzando un mezzo sorriso. Brutus lo guardò storto.
Anche lui ed Enobaria non parevano apprezzare troppo tutta la storia
delle interviste, ma almeno erano arrivati puntuali. L’omino di Capitol
iniziò a fargli una ramanzina, spiegandogli quanto fosse importante
essere sempre in orario per gli abitanti di Capitol City ma nessuno,
Cato compreso, gli diede ascolto.
Mentre l’ascensore iniziava la
sua breve discesa Clove lanciò uno sguardo a Cato. Anche lui, come lei,
aveva preso dieci alle sessioni private. Questo non faceva altro che
sottolineare quanto fossero simili, anche nella forza e nella tattica.
Marvel e Glimmer avevano preso entrambi nove. Solo la ragazza del 12,
quella che tutti amavano, aveva preso undici. Clove si chiese cosa
avesse mostrato agli strateghi, per piacergli così tanto.
Il ragazzo si appoggiò
pigramente ad una parete dell’ascensore, con le mani nelle tasche dei
suoi pantaloni scuri. Clove non lo aveva mai visto così elegante;
indossava una giacca di un grigio lucido, quasi argentata e sotto di
essa una camicia nera. Ma non lo avevano costretto ad indossare una
cravatta, infatti i bottoni scuri della camicia erano aperti sul collo.
Probabilmente, pensò la ragazza abbassando lo sguardo sui suoi piedi,
nemmeno lui era così entusiasta per le interviste. Solo Glimmer lo era.
Finalmente le porte
dell’ascensore si aprirono tintinnando e furono fuori. Clove prese un
bel respiro e si avviò con passo deciso verso la sua meta, cercando di
non badare ai tacchi. Cato, al suo fianco, camminava tranquillo senza
tutti i maledetti problemi di Clove. La ragazza pensò di averlo visto
ridacchiare per qualche istante, ma forse se lo era solo immaginato. Ad
ogni modo, doveva apparire decisamente goffa con tutte quelle
cianfrusaglie addosso.
Cato camminava con lo sguardo
basso e distante; pareva immerso nei suoi pensieri mentre procedeva con
passo sicuro, le mani abbandonate pigramente nelle tasche dei
pantaloni.
Anche Clove aveva pensato
molto ultimamente. Soprattutto la notte, quando la solitudine della sua
grande stanza la faceva sentire vuota. Restava per ore intere sveglia a
guardare il soffitto oppure a lanciare in aria il suo coltello, come
faceva quando andava a scuola, mentre la sua mente vagava lontana:
tornava indietro nel tempo, quando era ancora una bambina e sua madre
era ancora viva. Si chiedeva se sarebbe stata comunque lì, a Capitol
City, se sua madre non fosse morta. Pensava a suo padre e a come
dovesse sentirsi, solo in quella casa impolverata, davanti alla
televisione, vedendo sua figlia, l’unica famiglia che gli era rimasta,
che si preparava a scendere nell’arena. Si chiedeva se sarebbe morta
là? Sperava che potesse tornare a casa? O forse non se ne rendeva
neanche conto, continuando a vivere nel suo mondo immaginario dove
tutto andava bene? E poi pensava a Damien. Pensava a come sarebbe stata
felice di ucciderlo una volta tornata a casa, di fargliela pagare per
le menzogne che le aveva raccontato. Sempre che quelle fossero tali. Ad
ogni modo, lo avrebbe strangolato con le sue stesse mani, che fosse suo
fratello oppure no. Ma la maggior parte del tempo, anche se si odiava
per questo, anche se cercava di non farlo, pensava a Cato. Come avrebbe
potuto fare altrimenti?
Non doveva essere lui a
trovarsi al suo fianco. Lui era sempre stato il ragazzino dai capelli
biondi e gli occhi azzurri che gli aveva regalato il suo primo
coltello. E lei non gli aveva ancora detto grazie. E probabilmente non
avrebbe mai potuto farlo.
E poi pensava al futuro.
Cercava di non farlo, perché ogni volta sembrava che qualcosa di
pesante la schiacciasse fin quasi a farla soffocare. Era impossibile
pensare al futuro quando stavi per partecipare agli Hunger Games. Fino
a poche settimane prima si sarebbe semplicemente detta che non aveva
nulla da temere, che avrebbe vinto e sarebbe tornata a casa e avrebbe
avuto soldi e una nuova casa, suo padre sarebbe tornato com’era un
tempo, avrebbe smentito le bugie di Damien e lei avrebbe potuto
ringraziare Cato per averle donato il coltello in quel periodo buio
della sua vita.
Ma dal momento che il ragazzo
si trovava lì con lei quando invece non avrebbe dovuto esserlo... quel
piccolo dettaglio aveva sconvolto i suoi piani. E il pensiero di essere
sua alleata nell’arena non faceva altro che opprimerla di più. Avrebbe
voluto poter entrare nella sua testa e capire a cosa pensasse ma non
poteva farlo. Doveva solo limitarsi a vivere nel presente, senza
pensare a cosa sarebbe successo e cosa avrebbe fatto. Era l’unico modo,
altrimenti sarebbe impazzita. C’è un limite ai problemi che una ragazza
di sedici anni può affrontare nello stesso momento. E il limite si
accorcia drasticamente se tra questi problemi ci sono gli Hunger Games.
E le interviste. Si impose di
pensare Clove, tornando velocemente al presente. Tutti quei pensieri le
avevano lasciato un leggero mal di testa che fuso al mal di piedi non
facevano altre che aumentare la sua agitazione. Prese un profondo
respiro, di nuovo, mentre raggiungeva in fila gli altri tributi in
attesa di entrare nell’anfiteatro. Senza fiatare, prese il suo posto
dietro a Marvel. Alle sue spalle, Cato era silenzioso quanto lei, ma
poteva sentire il suo respiro sul collo scoperto, tanto erano vicini.
Marvel, in un completo di un
blu elettrico, si girò verso di loro per salutarli. Il suo sguardo
indugiò su Clove e la ragazza odiò ancora di più il suo stupido vestito
e i suoi stupidi capelli, che la facevano apparire così diversa da
com’era di solito.
Anche Glimmer si voltò verso
di loro. Non aveva scherzato quando aveva detto loro che la sua
stilista le avrebbe preparato un vestito meraviglioso per l’intervista.
Clove avrebbe scommesso che ogni spettatore là fuori avrebbe perso il
respiro nel vederla. Se la ragazza non sembrava un’apparente minaccia
in fatto di forza o agilità poteva almeno giocare la carta della
bellezza. La sua stilista non doveva avere avuto molti problemi nel
renderla così affascinante. Indossava un corto, cortissimo vestito colo
oro semitrasparente che lasciava ampiamente scoperte le gambe nude. I
suoi lunghi capelli biondi erano fluenti e sembravano quasi illuminarsi
di una luce tutta loro. Il risultato era, Clove dovette ammetterlo,
veramente ammirevole.
In altre parole, lei era
spacciata.
«Ciao ragazzi!» Salutò lei con
voce emozionata. «Clove, quasi non ti riconoscevo! Sei adorabile vestita in quel modo.»
Clove la guardò male, incrociando le braccia al petto con fare
difensivo, ma non fece in tempo a ribattere o ad insultarla, perché l’
interesse di Glimmer si era già spostato su Cato. Perché d’un tratto la
sua voce era diventata più suadente e il suo sorriso sembrava quasi
provocatorio? Quella ragazza era un vero mistero. «Ciao, Cato.» Alle
sue spalle, Cato alzò lo sguardo per un istante, rivolgendole un cenno
col capo. Poi tornò a guardarsi i piedi, pensieroso. Glimmer si voltò,
mulinando i lunghi capelli biondi.
Clove la guardò carica di
risentimento.
Adorabile. Adorabile! Un gattino si può
definire adorabile. Ma non lei! Ok, non era sexy come Glimmer, ma
adorabile pareva quasi un insulto. Lei era letale e spietata.
Mentre meditava su tutto ciò,
partì un segnale acustico e Glimmer, la prima che sarebbe stata
intervistata, si incamminò con passo rapido, camminando sui tacchi alti
come se fosse stata a raso terra e con un’andatura da felino. Forse se
l’avessero buttata nell’arena con i tacchi avrebbe avuto più
possibilità di vincere. Ma Clove non ebbe modo di pensarci oltre.
In meno di un respiro, eccola
che seguiva Glimmer e Marvel sul palco. E poi la magia accadde, proprio
com’era successo alla sfilata. Sul suo volto si dipinse un mezzo
sorriso mentre il suo sguardo si posava sul pubblico colorato e
vociante. Il suo cuore iniziò a battere più veloce ma lo ignorò e imitò
i suoi compagni, iniziando a salutare gli abitanti di Capitol e allo
stesso tempo camminando in maniera più o meno dignitosa sui tacchi
alti. Gli applausi, le urla e le luci la stordivano, ma cercò di non
farci caso. Ad ogni modo fu più che contenta quando raggiunse la sua
poltrona e vi sprofondò, carica di gratitudine per poter finalmente dar
tregua ai suoi poveri piedi, che erano abituati a calzare stivali di
pelle al massimo. Quando finalmente tutti i tributi ebbero preso il
loro posto le luci si abbassarono e un unico riflettore seguì i
movimenti di un uomo che corse sul palco, salutando il pubblico con
numerosi inchini e un enorme sorriso. Caesr Flickerman.
Il presentatore, che
quell’anno aveva i capelli tinti di blu, salutò calorosamente il popolo
di Capitol City. E con un breve sguardo ai ventiquattro Tributi
schierati in semi cerchio alle sue spalle... diede il via alle
interviste dei settantaquattresimi Hunger Games.
Fu quando Caesar si alzò in
piedi per la seconda volta, stringendo vigorosamente la mano a Marvel
con un grosso sorriso divertito e un augurio di vittoria che Clove
realizzò con orrore che era arrivato il suo turno. Il tempo antistante
si era limitata a starsene seduta sulla sua poltrona, in una posa il
più aggraziata e femminile possibile, come le aveva consigliato il suo
stilista, lanciando lunghe occhiate al pubblico e mantenendo fermo
sulle labbra quel sorriso che ostentava sicurezza e superiorità. Aveva
ascoltato vagamente l’intervista di Glimmer, che aveva proseguito sulla
strada del mostrati-sexy-e-andrà-tutto-bene con ottimi risultati. Come
Clove aveva previsto, il pubblico rimase estasiato alla vista della
ragazza bionda con gli occhi verdi e brillanti come gemme del Distretto
1.
Marvel invece aveva ripiegato
sulla simpatia e le battute, si era mostrato calmo e disinvolto, come
se stesse chiacchierando con un amico che non vedeva da molto tempo. Ma
quando Caesar gli chiese come pensasse di agire nei giochi non ebbe
esitazioni nel rispondere che avrebbe cercato di eliminare il più vasto
numero di tributi possibile. Tutti e due, bene o male, erano stati loro
stessi sul palco. Per Clove invece sarebbe stato più difficile. Fosse
stato per lei si sarebbe comportata esattamente come durante la sua
sessione con gli strateghi: avrebbe tirato un paio di coltelli, avrebbe
parlato di come avrebbe agito nell’arena e poi se ne sarebbe andata.
Invece purtroppo non avrebbe potuto fare così. Quando Marvel tornò a
sedersi al suo posto, con aria soddisfatta e ancor più rilassata, Clove
strinse spasmodicamente la presa sui braccioli della poltrona. Per un
istante non sentì né provò nulla, poi il tempo riprese a scorrere
normale.
«E dal Distretto 2...
Distretto 2 signore e signori! Diamo il benvenuto alla nostra
incantevole Clove!» Al suono di quelle parole Clove si alzò in piedi e
sorrise malvolentieri al pubblico prima di incamminarsi verso Caesar,
proprio sotto i riflettori. Man mano che avanzava verso la poltrona
bianca sentiva la paura scemare e scivolarle di dosso come fosse acqua.
Ce l’avrebbe fatta. Lei ce la faceva sempre.
Caesar le tese la mano e lei
gliela strinse con presa decisa, rivolgendogli un sorriso sicuro.
«Benvenuta Clove! Prego, accomodati!»
La ragazza si sedette, felice
di non dover più camminare su quei trampoli, e si sistemò il vestito,
lanciando un lungo, misterioso sorriso (o almeno sperò che Elihas lo
avrebbe definito così) al pubblico che non aveva ancora smesso di
applaudire. Forse, pensò, si ricordavano ancora della sua armatura
dorata.
«Meraviglioso, meraviglioso!»
Esclamò Caesar ridendo e facendo cenno al pubblico di ristabilire il
silenzio. «Che accoglienza calorosa! Ma veniamo a noi. Allora, Clove,
come ti senti? Agitata?» Le chiese l’uomo regalandole un sorriso
luminoso. Clove gli sorrise a sua volta, con finta dolcezza.
«Per niente Caesar.» Mentì
lei, spostando lo sguardo sugli spalti. «Sono felicissima di essere
qui.» Qualcuno applaudì.
«Ovviamente, ovviamente!
Vedere Capitol City e vivere nel lusso non è certo cosa di tutti i
giorni! Anche se ho sentito che al Distretto 2 non si vive affatto
male! È vero?»
Clove annuì, continuando a
sorridere e iniziando a sentirsi un ebete. «Verissimo. Amo il mio
Distretto.» Il pubblico applaudì entusiasta e anche Caesar sembrò
felice di sentirglielo dire.
«Certamente, certamente!
Ma...» E qui la sua voce passò dal divertito al serio. Pessimo segnale,
pensò Clove. «Ho sentito una storia sul tuo conto... sulla tua
famiglia.» Caesar gli si fece più vicino e le strinse una mano. Clove
ebbe un sobbalzo, sentendosi immediatamente irritata da quel tocco e da
quella eccessiva vicinanza. Poi capì dove Caesar volesse andare a
parare. Oh no. No, no, no. Avrebbe sopportato tutto, ma non
quell’argomento.
Ma ormai era troppo tardi.
«Tua madre.» La voce di Caesar
si ridusse quasi ad un sussurro, come se fosse rattristato al pensiero
della sua morte, come se lui l’avesse
conosciuta. Il sorriso di Clove le si spense sulle labbra. Non voleva
parlare di lei a quella gente aliena. Perché mai avrebbe dovuto farlo?
Ma poi si rese conto che non aveva altra scelta. Anzi, forse se avesse
studiato bene le parole... forse avrebbe potuto commuovere qualche
sponsor. Non mostrare le tue
debolezze. Trasformale in punti di forza.
«Ti senti di parlarci di lei e
della tua famiglia?»
«Mia madre è morta quando ero
ancora una bambina.» Iniziò Clove, con voce forte e sicura ma allo
stesso tempo molto triste e persa nei ricordi. «La sua morte è il
peggiore ricordo di tutta la mia vita. Era una donna
straordinaria. Le volevo molto bene.»
«Certo, certo. Capisco.» Disse
Caesar continuando a stringerle la mano come se potesse portarle
conforto. «E scommetto che ora sarebbe molto fiera di te.» Clove
abbozzò un sorriso, certa che sua madre sarebbe stata l’opposto di
fiera nel sapere che la sua bambina avrebbe partecipato agli Hunger
Games, ma non disse nulla e abbassò lo sguardo. Probabilmente il
pubblicò avrebbe pensato che stesse per commuoversi. Meglio
lasciarglielo credere.
«Ma ti resta comunque tuo
padre. Com’è il tuo rapporto con lui?»
«Mio padre non è più lo stesso
da quando mia madre è morta. Ma gli voglio un gran bene e farò di tutto
per tornare a casa e aiutarlo a passare questo momento buio.»
Caesar sorrise dolcemente,
passandosi un dito sotto un occhio come a detergersi una lacrima
immaginaria. «Una figlia modello, davvero.» Lanciò uno sguardo al
pubblico che per esprimere il suo assenso, iniziò ad applaudire. «Ma
passiamo oltre alla famiglia.» Esclamò Caesar, sovrastando gli applausi
«Sono certo che un ragazza bella e intelligente come te avrà un sacco
di amici a casa. Dico bene?» Caesar tornò a rivolgerle un sorriso
furbesco e Clove capì che, finalmente, il capitolo rivolto alla sua
famiglia era stato chiuso. Era stato veloce ed indolore, Clove non
l'avrebbe mai pensato. Lei seguì il conduttore e abbandonò l’aria da
ragazza persa nei ricordi per ritrovare il suo sorrisetto sghembo. «Ti
sorprenderà saperlo Caesar, ma non è così.»
L’uomo inarcò le sopracciglia
blu e rivolse uno sguardo stupito verso il pubblico. «Non ci credo! Sta
scherzando, che dite?» Il pubblico ridacchiò.
«No, affatto.» Intervenne
Clove.
«No? Nessuno di... speciale?»
Le chiese lui, ammiccando.
«No.» Rispose secca Clove. Non
voleva che tutte quelle persone ficcanasassero nella sua vita privata.
Ma poi le venne un’idea... «Ma c’è un ragazzo del mio Distretto al
quale vorrei portare un regalo, quando tornerò a casa.» La ragazza
rivolse un sorriso divertito al pubblico, che si fece molto più
interessato.
«Ah! Allora c’è qualcuno di
speciale! Di chi si tratta? E soprattutto di che regalo si tratta?»
Fece lui con voce maliziosa.
«Speciale non direi.» Asserì
Clove, con convinzione. «Ma quando tornerò a casa si troverà le mie
cinque dita stampate in faccia. Per sempre.» Il suo sorriso divenne più
ampio mentre si abbandonava al sadico pensiero di ammazzare
Damien con le sue stesse mani, un giorno. Per fortuna decise di
censurare i suoi pensieri e limitarsi a parlare di uno schiaffo. Caesar
scoppiò a ridere. Il pubblico lo seguì a ruota.
Bel colpo, Clove. Si disse la
ragazza. Alla fine non era poi così male come aveva pensato. Quelle
persone erano solo un branco di pecore smarrite che facevano tutto
quelle che veniva detto loro di fare. Incluso ridere e commuoversi e
provare sentimenti alcuni. Quando Caesar finì di ridere tornò ad
osservarla. Ovviamente, voleva saperne di più.
«E dicci Clove, cosa ti ha
fatto questo ragazzo per meritarsi le tue cinque dita sulla faccia? Si
può dire?» Chiese lui, molto interessato.
«Mi spiace Caesar, ma è meglio
di no. E comunque...» Disse Clove puntando gli occhi in una telecamera
e sorridendo come se si stesse rivolgendo ad un suo caro amico. «Il
ragazzo in questione sa perfettamente cos’ha fatto. E sono certa che
non vede l’ora di rivedermi per pareggiare i conti.»
Il pubblico rise ancora.
Perfetto, se la stava cavando bene. E il fatto di parlare male di
Damien e umiliarlo anche da chilometri di distanza la rendeva euforica.
«Bene, bene! Quindi
nient’altro? Solo lui? Nessun ragazzo speciale ad attenderti al tuo
ritorno?»
Clove si rabbuiò per un
istante. «No, nessuno.»
«Ma potrebbe.» Insisté Caesar.
«Non credo proprio.» Clove si
rese conto tutto d’un tratto di essere diventata troppo dura, per
qualche strana ragione non voleva toccare l’argomento. Così decise di
correre ai ripari. Rilassò l’espressione minacciosa in un sorriso
divertito. «E poi, non ho proprio avuto tempo per pensarci. Avevo altri
problemi per la testa. Tipo prepararmi per gli Hunger Games, sai
com’è... un sacco di roba da fare.»
Caesar perse il sorriso
malizioso e la guardò con gran calore. «Ma certo, ma certo. Hai
ragione. A proposito, complimenti per il tuo dieci. Ho sentito che sei
bravissima a lanciare i coltelli. Userai questa tua abilità nell’arena?»
«Sì, certo. Sono la migliore
in materia. Se avrò anche un solo coltello sarà impossibile fermarmi.
Io non sbaglio mai.» E come era successo prima con Marvel, ogni
studiata compostezza, ogni finta simpatia o forzato sorriso si
dissolsero lasciando spazio solo alla sicurezza, le determinazione e,
ad essere sinceri, all’arroganza. Ma era la pura verità e Clove non
l’avrebbe nascosta. Era letale con un coltello in mano.
«Non ne dubito! Ma ora
purtroppo il nostro tempo è finito.» Caesar si alzò in piedi,
continuando a stringerle la mano. «Ti auguro tanta fortuna, Clove. E
anche di trovare un coltello nell’arena per farci vedere quanto sei
brava. Perché ovviamente qui non puoi farci alcuna dimostrazione.» Il
pubblico ridacchiò e anche Clove si concesse un sorriso. L’ultimo della
serata, probabilmente. «Sei una ragazza oltremodo talentuosa e sebbene
giovane sono certo che darai del filo da torcere a tutti i tuoi
compagni nell’arena! Per questo di dico: metticela tutta. Ti auguro di
vincere, per tua madre, tuo padre e ovviamente il ragazzo a cui devi
uno schiaffo!» Non appena Caesar concluse il suo augurio un segnale
acustico decretò la fine della sua intervista. Clove fece un leggero
inchino verso il pubblico e, con ancora il suo sorriso sulle labbra, si
voltò con grazia dirigendosi alla sua vecchia poltrona. Si sentiva
leggera, come se si fosse tolta un gran peso. Mentre si sedeva il suo
sguardo incrociò quello di Cato. Lui era proteso in avanti, pronto ad
alzarsi e le sorrideva. Probabilmente, pensò Clove sedendosi, non era
un vero sorriso. Era solo la sua recita per le telecamere. Ad ogni modo
nessun pensiero poté incupirla in quel momento. Si sentiva troppo
soddisfatta di sé. Ce l’aveva fatta. Aveva superato anche quello che
credeva sarebbe stato il suo ostacolo peggiore. Era forte, addestrata,
letale. Il pubblico l’aveva apprezzata e probabilmente era riuscita a
racimolare qualche sponsor. Ora, cosa le avrebbe impedito di vincere
anche i Giochi? Ma la risposta a quella domanda ce l’aveva davanti agli
occhi e si dirigeva con passo disinvolto verso Caesar, prendendo il
posto che aveva occupato lei fino a pochi istanti prima.
Per tutta la durata
dell’intervista Cato mantenne saldo sulle labbra un sorrisetto beffardo
e di ostentata superiorità. Rispondeva a tutte le domande con
sicurezza, parlando con decisione e senza divagare troppo. Stava seduto
sulla poltrona con naturalezza, come se fosse stato seduto sul divano
di casa sua e non davanti ad un pubblico avido di conoscere tutti i
suoi segreti. La sua sicurezza era indice di quanto si sentisse
preparato per i Giochi. Per lui non apparivano nemmeno un problema.
Come se la sua vittoria fosse un dato di fatto.
«Dunque Cato, qui abbiamo
tutti capito quanto tu sia forte e preparato. La vedo dura per i tuoi
avversari nell’arena.» Cato sghignazzò, come se avesse detto una cosa
totalmente ovvia. «Ma ora cambiamo argomento. Parliamo di casa tua. Che
mi dici della tua famiglia?»
Il suo sorriso vacillò, ma
solo per un istante. «Saranno fieri di me, quando tornerò a casa e
porterò onore al mio Distretto.» Il pubblico parve soddisfatto da
quella risposta. Per quanto Caesar ci provasse, pareva difficile far
cambiare argomento a Cato. Qualsiasi cosa dicesse, lui cercava di
riportare l’argomento sugli Hunger Games.
«Ovviamente. Saranno molto
fieri di te. E dimmi, ormai lo chiedo a tutti, famiglia a parte, hai
qualche persona speciale ad attenderti al Distretto 2?» Cato lo guardò
inarcando un sopracciglio, come a chiedergli se facesse sul serio. «No,
nessuna persona speciale.»
«Non c’è mai stata? Non hai
mai fatto qualcosa di particolare per una ragazza? Una sorpresa, un
regalo? Che non siano cinque dita stampate in faccia, ovviamente.» Il
pubblico rise di gusto. Clove si sorprese di sentire Caesar tirare in
ballo ancora la sua storiella. Cato alzò gli occhi al cielo e ci pensò
su un attimo.
«Una volta ho regalato un
coltello ad un ragazza. Può contare?»
Caesar lo guardò divertito,
poi si mise a ridere, seguito a ruota ovviamente dal gregge di Capitol.
«Molto romantico devo dire! Bé, è esattamente quello che mi sarei
aspettato da te, se devo essere sincero!» Cato ridacchiò e parve
sincero per la prima volta in tutta la serata.
Il cuore di Clove invece perse
un battito, perché quella ragazza era indiscutibilmente lei.
«Ero solo un ragazzino. Ma
devo ammetterlo, lo rifarei. È il massimo che un ragazza potrebbe
ottenere da me.» Il suo sorriso di scherno gli tornò sulle labbra.
«Meraviglioso! Meraviglioso!»
Caesar applaudì e il pubblico proruppe in un fragoroso boato. «Ma
purtroppo è arrivato il momento di salutarsi. Allora Cato, sei pronto?»
«Sono pronto. Sono allenato.
Nessuno potrà fermarmi.»
«Certamente. Se mi consenti di
dirlo, gli strateghi ti hanno definito una macchina per uccidere.» Il
pubblico si aprì in un’espressione di sorpresa al suono dissonante di
quelle parole e all'improvviso cambiamento di tema. «E sono certo che
sarai un nemico formidabile per tutti, là dentro.»
«Non ci sono dubbi. Voglio
vincere.»
Caesar si alzò in piedi e gli
tirò una pacca sulla schiena. Poi gli sollevò in alto la mano mentre il
pubblico applaudiva con trasporto.
«E sei sulla buona strada!
Come si dice qui a Capitol, possa la fortuna essere sempre a tuo
favore.»
Cato non disse più nulla e il
suo sguardo si fece duro e determinato, letale mentre il segnale
acustico segnava anche la fine della sua intervista. Mentre si dirigeva
a testa china verso il suo posto Clove lo osservò attentamente. Non
poteva crederci che lui avesse parlato di quell’episodio nella sua
intervista. Allora si ricordava ancora, del passato.
Clove pensò a questo mentre
cercava di ascoltare le altre venti interviste. Ma oramai il suo
interesse si era spostato altrove. Sul ragazzo che sorrideva al suo
fianco, per esempio.
~
FINE TERZA PARTE
~
SPAZIO AUTORE
Saaalve a tutti! Dopo
settimane e settimane di silenzio stampa, eccomi tornata! Mi spiace
tantissimo di aggiornare così poco ç__ç spero solo che non tutti voi vi
siate stancati di questa storia e che ci sia ancora qualcuno disposto a
seguirmi fino alla fine <3 e scusate ancora per le lunghe assenze :'(
Ma ora veniamo alla storia!
Spero vi sia piaciuto il capitolo! È un po' lungo, ma non volevo
troncarlo a metà! Ho sempre desiderato sapere cosa avessero fatto e
detto i nostri beniamini nelle interviste e probabilmente ciò che ho
scritto non rende giustizia ai personaggi, ma spero di non aver fatto
un totale disastro xD Fatemi sapere ;)
Riguardo al prossimo capitolo,
vi dico solo una cosa: sarà ambientato nell'arena. Ebbene sì, è giunto
il momento!
Ora non mi dilungo oltre! Al
prossimo capitolo miei cari lettori (sempre che ce ne siano ancora xD)
e scusate davvero per le lunghe attese!
Love always,
~ C
|
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Capitolo 14 *** 14. Animal I have Become ***
Till your last
breath
PARTE
QUARTA
~
CAPITOLO
14
ANIMAL
I HAVE BECOME
Il tempo sembrò rallentare fin
quasi a fermarsi quando finalmente i suoi occhi videro di nuovo la
luce. Il cerchio metallico raggiunse finalmente la superficie e l’arena
si distese per la prima volta sotto i suoi occhi.
Ma non appena il cilindro di
vetro che la teneva intrappolata nel cerchio scomparve, Clove realizzò
che non c'era tempo per guardarsi attorno. Non c'era tempo per ammirare
l'arena.
Tutto quello che Clove vedeva
in quel momento era la cornucopia, che se ne stava al centro della
radura, circondata dai ventiquattro tributi, immobile e luccicante
sotto la luce del sole con le armi che vi brillano all’interno. Le sue armi, quelle che tra poco
avrebbe stretto tra le mani e usato per uccidere gli altri.
Ma benché il tempo pareva
essersi fermato, Clove sapeva esattamente che non era così.
Sessanta secondi. Solo
sessanta prima del gong e poi i Giochi avrebbero davvero avuto inizio.
Non sembrava vero, era tutto così surreale: i tributi, tutti e
ventiquattro in cerchio attorno alla cornucopia e ai suoi preziosi
doni, tutti sistemati sulle loro pedane metalliche. Il bosco fitto alle
loro spalle. Il lago a pochi metri di distanza. E la tensione, che
incombeva su di loro come una grande nuvola scura che minaccia pioggia.
Clove strinse le mani a pugno,
poi le rilasciò, scrollandole impercettibilmente. Si mise in posizione,
pronta per scattare il più velocemente possibile al suono del gong, per
lanciarsi in una corsa folle con l’unico obiettivo di trovare le sue
armi. I suoi coltelli. Una volta trovati quelli, non avrebbe più avuto
nulla da temere.
Mentre il tempo scorreva lento
e i suoi respiri si facevano più lunghi e carichi di tensione, Clove
lanciò un rapido sguardo ai tributi che la circondavano. Al suo fianco
non c’era nessuno dei suoi alleati. Marvel e Glimmer dovevano trovarsi
dall’altra parte della cornucopia, invisibili ai suoi occhi. Cato
invece era a qualche tributo di distanza. I loro sguardi si
incrociarono per un istante, come era successo così tante volte durante
la loro permanenza a Capitol City. Ma questa volta i suoi occhi color
del ghiaccio erano più concentrati che mai e in essi, come in quelli di
Clove, vi si poteva leggere un solo messaggio: uccidere.
Perché le persone che avevano
attorno non erano più gli altri tributi. Erano i nemici.
I Giochi alla fine erano
arrivati e con essi, il momento della verità.
Clove tornò a guardare la
cornucopia. I secondi erano quasi terminati.
Dieci.
Nove. Otto. Sette.
L’aria usciva lentamente dai
suoi polmoni, quasi con fatica, come se fosse fatta di fuoco.
Sei.
Cinque. Quattro.
I muscoli si tendevano sempre
di più, pronti a scattare come quelli di un predatore.
Tre.
Due.
Uno.
Gong.
I settantaquattresimi Hunger
Games erano ufficialmente iniziati.
Clove non esitò nemmeno un
secondo. Non appena il gong risuonò in tutta la radura la ragazza si
precipitò giù dalla sua pedana, sicura che ormai nessuna mina le
sarebbe esplosa sotto i piedi. Senza curarsi degli altri tributi che le
sfrecciavano attorno in tutte le direzioni corse dritta nel cuore della
cornucopia, veloce come mai in tutta la sua vita.
La stanchezza sembrava un
fenomeno che non poteva toccarla, non in quel momento. L’adrenalina era
troppo forte.
Si fermò in scivolata,
strappando grandi zolle di erba e terra nella sua frenata, quando vide
quello che cercava. I suoi coltelli. Senza esitazione li afferrò,
sentendo un’immensa gioia esploderle dentro. Certo, il suo vero
coltello non era lì con lei nell’arena. L’aveva affidato ad Enobaria
perché non poteva sopportare l’idea che, una volta partita per l’arena,
quello venisse perduto per sempre. Ci era troppo affezionata.
Clove si voltò di scatto,
stringendo uno coltello in ogni mano.
Ed iniziò il suo personale
bagno di sangue.
Non era come stare in
accademia. I bersagli non erano fermi e le parti da colpire non si
illuminavano di rosso. Ma per Clove era come se lo facessero. Perché
ora i tributi non erano altro che bersagli per lei. Bersagli da colpire
e da abbattere.
Scagliò il suo primo coltello,
che si conficcò con precisione letale nel petto di una ragazza. Sulla
sua giacca scura si aprì una macchia rossa mentre lei cadeva a terra e
restava immobile. Clove non perse tempo, non ce n’era neanche
abbastanza per analizzare le sue vittime. Che fossero ragazze o
ragazzi, che avessero i capelli neri oppure biondi, da che Distretto
arrivassero. Niente di tutto ciò aveva più la minima importanza.
Doveva solo limitarsi a
risparmiare i suoi alleati e uccidere tutti gli altri. Bersagli. Sono tutti bersagli Clove.
Si ripeteva mentre un altro coltello si piantava nel collo di un
tributo che correva verso i boschi. In quel momento si guardò per un
istante attorno, individuando Marvel, che colpiva senza pietà con un
lungo coltello dalla lama ricurva e seghettata, ormai ricoperta di
sangue rosso e brillante, piantandola più e più volte nella schiena di
un tributo ormai morto. Glimmer correva issandosi sulla schiena una
faretra argentata, incoccando nello stesso tempo una freccia. Cato
aveva trovato una spada, affilata e letale, e la usava come se fosse un
prolungamento naturale del suo braccio.
I tributi intanto cominciavano
a scomparire: quelli che si erano gettati subito nella foresta erano
già lontani, sfuggiti al bagno di sangue e ai coltelli di Clove. Ma non
avevano viveri e presto ne avrebbero subito le conseguenza. Un numero
imprecisato giaceva già a terra. Quelli che si erano arrischiati a
recuperare qualcosa dalla cornucopia stavano lottando. Clove ne vide
due poco più distanti che si stavano contendendo uno zainetto. Il suo
cuore ebbe un fremito quando riconobbe la ragazza del 12. Dopo le
interviste l’aveva odiata più che mai. Se prima era solo antipatia, ora
era puro odio. La fortuna le aveva già regalato troppi bonus e dopo
quel patetico e sdolcinato show suo e del Ragazzo Innamorato l’aveva
odiata ancora di più. Sperava di incontrarla, al bagno di sangue, tanto
per testare se quel suo undici nelle sessioni private se lo meritasse o
meno. Prese la mira e scagliò un coltello, che colpì in pieno il
ragazzo con cui lei stava lottando. Quello mollò la presa sullo
zainetto e cadde a terra, tossendo sangue. Clove vide il volto sorpreso
della ragazza mentre il suo rivale cadeva a terra morto. E poi vide
lei. E capì.
Iniziò a correre veloce verso
la foresta ma Clove non voleva lasciarsela sfuggire. Scagliò il suo
coltello con precisione, mirando alla nuca scoperta, ma all’ultimo
istante la ragazza alzò lo zainetto e la sua lama vi si conficcò
dentro, senza colpire altro che stoffa. Clove imprecò, indecisa se
lanciarsi all’inseguimento oppure no. La ragazza era già vicina agli
alberi e se lei l’avesse seguita avrebbe solo perso tempo. Non poteva
allontanarsi dalla cornucopia. Con rabbia si voltò dall’altra parte,
dando le spalle alla ragazza in fiamme. Ma non era finita. L’avrebbe
ritrovata e l’avrebbe uccisa.
Digrignando i denti tornò al
centro dell’azione e scagliò i suoi coltelli con ira crescente. Odiava
il fatto che la sua preda le fosse sfuggita, soprattutto che quella sua preda le fosse sfuggita.
Presa dalla rabbia Clove non si accorse che un tributo le finì quasi
addosso, brandendo un coltello. La ragazza indietreggiò di qualche
passo, presa alla sprovvista dall’urto. Il ragazzo, deciso a cogliere
l’occasione di eliminare un Tributo Favorito, le si fiondò addosso
agitando con mano inesperta la sua arma. Ma non sapeva che Clove era
portata anche per i combattimenti corpo a corpo. Con un sorriso
meschino aspettò fino all’ultimo secondo poi si abbassò sulle
ginocchia, allungando una gamba. Il tributo vi inciampò e cadde
rovinosamente a terra, sbattendo il mento sulla terra brulla. Si rialzò
il più in fretta possibile. Ma non servì a nulla. «Troppo tardi.» Gli
sussurrò Clove all’orecchio, mentre lo trafiggeva con il suo coltello.
Lui cadde a terra, morto.
Quando estrasse la sua arma e
si rimise in piedi Clove vide Cato, che si era avvicinato brandendo la
spada. Per un istante Clove credette che fosse lì per aiutarla.
D’altronde è questo che fanno i Favoriti, si guardano le spalle a
vicenda.
I loro sguardi restarono
incatenati per pochi istanti. Il respiro di Clove si fece pesante
mentre guardava le mani di Cato ricoperte di sangue. Anche le sue ora,
dopo il combattimento con il tributo che ora giaceva morto ai suoi
piedi, erano schizzate della stessa sostanza rossa e viscida. Aveva
appena ucciso quattro tributi, se non di più. Le sue mani erano sporche
di sangue e probabilmente esso era schizzato anche da altre parti.
Sulla giacca forse, oppure sul suo viso o tra i capelli. Ma vedere Cato
vivo e pieno di forze la fece sentire bene. Non erano passati più di
dieci minuti e i Giochi li avevano già resi predatori senza scrupoli.
Che razza
di bestie erano diventati?
Poi il loro scambio di sguardi
si interruppe, la magia si spezzò e i due tornarono ognuno sulla
propria strada, in due direzioni opposte. Ma non c’era più molto da
fare, realizzò Clove, pulendo il sangue dal suo pugnale. Il campo di
battaglia ormai si era quasi svuotato. Il sangue versato a terra la
rendeva scivolosa e i tributi morti erano macabre chiazze di colore
sparse qua e là nell’erba verde e brillante che circondava la
cornucopia. Sembrava tutto un paradosso: il sole che brillava,
riscaldandola. Il bel tempo, il prato verde, i fiori colorati sparsi
nell’erba. Sembrava tutto così pacifico.
Invece era solo un inferno di
morte, sangue e grida agghiaccianti.
Ad ogni modo anche gli urli di
dolore e di battaglia andavano sempre più scemando.
Clove si fermò, immobile in
quel bagno di sangue. Per un istante non sentì altro che il suono del
suo respiro. Tutto taceva, ora, tutto era immobile. Non c’era più anima
viva nella radura, a parte lei e i suoi tre alleati.
Il bagno di sangue si era
concluso.
In quel momento si levarono i
colpi di cannone.
Undici colpi in tutto. Clove
rimase immobile fino a quando l’ultimo risuonò tetro nel silenzio
ritrovato della radura. Quella sera stessa l’inno di Capitol avrebbe
spezzato di nuovo il silenzio, risuonando cupamente nell’arena; lo
stemma sarebbe apparso in cielo e le foto degli undici tributi morti
sarebbero comparse su un grande schermo. Nei Distretti le famiglie
delle vittime stavano probabilmente rivedendo le scene di morte dei
loro figli, fratelli o amici.
Ma Clove era lì in piedi. Ed
era viva.
Le urla e i suoni delle lame
ora tacevano. La ragazza si sentiva svuotata.
E così, i Giochi avevano avuto
veramente inizio. Non sapeva definire come si sentisse. Lasciò vagare
lo sguardo tra i corpi morti che tappezzavano la radura. Almeno quattro
di quelli avevano addosso uno dei suoi coltelli. Aveva ucciso altri
esseri umani per la prima volta nella sua vita, ma non riusciva a
capire come si sentisse a proposito. Si sentiva fredda, vuota. E
spietata. L’adrenalina e la furia che l’avevano pervasa fino a pochi
minuti prima iniziarono ad abbandonarla, lasciandola lì, pronta a
scattare se avesse avvistato un qualche pericolo, ma comunque con la
mente fredda e distante. Come un animale.
In quel momento sentì dei
passi alle sue spalle, ma non se ne curò molto. Sapeva che erano i suoi
alleati che si radunavano per studiare la situazione.
«Wow! Undici! Bel colpo
ragazzi!» Esclamò Marvel superandola e scrutando la radura e studiando,
forse per la prima volta, l’arena che li circondava. Glimmer vagava tra
i corpi, riponendo una freccia inutilizzata e raccogliendone alcune. Le
lanciò uno sguardo. «Forse ti conviene fare lo stesso con i tuoi
coltelli.» Disse agitando una freccia argentata. «Certo, ce ne saranno
a centinaia nella cornucopia, ma dobbiamo fare scorta per un po’.
Dobbiamo allontanarci da qui così che possano recuperare i cadaveri.»
Disse lanciando uno sguardo ai corpi che li circondavano. «Iniziano già
a puzzare di morte e l’odore di sangue mi sta facendo venire il mal di
testa.» Con una smorfia disgustata tornò a raccattare le sue frecce.
«Sì, Glimmer ha ragione.» Cato
arrivò al suo fianco, scrutando anch’esso l’orizzonte. Nessuno di loro
sembrava particolarmente turbato dalla presenza di tutti quei cadaveri
di tributi, parecchi dei quali avevano ucciso loro stessi. A parte
Glimmer, che si aggirava palesemente schifata attorno ad essi. Così
Clove decise di comportarsi come loro e di non pensarci più. Dopotutto
erano solo bersagli. Solo bersagli.
«Dobbiamo radunare le scorte e
lasciare la cornucopia.» Continuò Cato. «Prendiamo acqua e cibo. Armi e
tutto ciò che può tornarci utile. Dobbiamo lasciare questo posto. La
caccia non è ancora finita.»
Clove seguì malvolentieri il
consiglio di Glimmer e iniziò ad aggirarsi tra i cadaveri, recuperando
i suoi coltelli. Ecco il primo, piantato nella schiena della sua prima
vittima. E andò avanti così, fino a quando non ne recuperò cinque.
Ovviamente uno l’aveva perso; era rimasto conficcato nello zaino della
ragazza del 12.
E così mentre recuperava le
sue armi i volti e le identità dei tributi che aveva ucciso le
piombarono addosso, trasformandoli da bersagli a ragazzi. Chiudendo gli
occhi, Clove scacciò quell’idea. Non ci doveva pensare. Questi erano i
Giochi. Se lei non li avesse uccisi, loro avrebbero ucciso lei. Non
c’era altro modo se non quello. Era la legge degli Hunger Games:
uccidere o essere uccisi. E lei preferiva uccidere.
Mentre sistemava i suoi
coltelli e li ripuliva dal sangue ormai secco, gli altri radunarono
tutte le provviste e le armi restanti nella cornucopia, creando la loro
personale scorta per sopravvivere nell’arena. Poi, una volta ben
carichi di provviste e armi, lanciarono un ultimo sguardo alla
cornucopia e ai caduti.
«Propongo di andare nella
foresta.» Fece Marvel, indicando i pini di un verde scuro che si
ergevano di fronte a loro.
«Sì. Sicuramente la maggior
parte dei tributi sono scappati lì dentro.» La determinazione di Cato
era tutto ciò che si poteva scorgere in lui, in quel momento. Non si
erano più rivolti né una parola né uno sguardo. Erano più distanti che
mai, o almeno a Clove parve così. Forse era meglio, avrebbero resto le
cose più semplici quando sarebbe arrivato il momento. Tuttavia il
dispiacere provato a causa di quel distacco era l’unico sentimento che
Clove riusciva a provare in quel momento. E per questo si odiava.
«E noi li troveremo e li
uccideremo.» Glimmer si mise al fianco di Cato, con un sorriso sghembo
sulle labbra rosse.
«E quando avranno ripulito il
posto torneremo qui e ammazzeremo chiunque oserà avvicinarsi al lago.»
Fece Marvel, iniziando ad incamminarsi. Era un buon piano, non c’era
dubbio. Per di più la foresta poteva essere un ottimo rifugio, ma solo
per chi era in grado di sfruttarne le sue potenzialità. Clove era certa
che la maggior parte dei tributi che vi erano fuggiti non ne era in
grado. Avrebbero acceso fuochi, o vagato in cerca di acqua del tutto
scoperti. Sarebbe stato facile prenderli, facile come uccidere un
coniglio selvatico.
Mentre si inoltravano nella
foresta il sole iniziava a calare e presto sarebbe scesa la notte. La
prima notte nell’arena. L’ora migliore per dei cacciatori come loro.
SPAZIO AUTORE
Saaalve a tutti! Finalmente ho
aggiornato! Non ci credo xD Mi dispiace tantissimo aggiornare dopo
secoli, la scuola mi sta letteralmente sommergendo... insomma,
quest'anno ho quell'inutile esame chiamato maturità -__-
Ma ad ogni modo, passiamo alla
storia. Finalmente i nostri Favoriti sono nell'arena. Devo essere
sincera, ho amato scrivere questi capitoli ed analizzare la psicologia
di Clove. Spero con tutto il cuore che piacciano anche a voi, davvero!
E spero anche di riuscire ad
aggiornare presto, perché il prossimo capitolo è praticamente collegato
a questo (erano un solo capitolo ma l'ho tagliato, sennò era troppo
lungo xD)
Comunque, se c'è ancora
qualcuno che legge la storia, fatemi sapere cosa ne pensate, il vostro
parere conta sempre <3
Love always,
~ C
|
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Capitolo 15 *** 15. Un Nuovo Alleato ***
Till your last
breath
~
CAPITOLO
15
UN
NUOVO ALLEATO
Continuarono a camminare senza
parlare per parecchi minuti, o almeno così parve a Clove. I loro passi
risuonavano attutiti dal manto erboso ma anche se avessero fatto rumore
non sarebbe cambiato gran che. Con tutte le armi che avevano e con la
loro abilità nessuno sarebbe riuscito a coglierli di sorpresa. Ad ogni
modo per tutto quel tempo non incontrarono nessun altro tributo. Solo
qualche animale selvatico che spuntava fuori per pochi secondi per poi
scomparire di nuovo.
Ad un certo punto,
Marvel sbuffò. «Che noia ragazzi, qui non c’è nessuno. Faremmo meglio a
tornare indietro.» Glimmer annuì e aprì le labbra per esprimere il suo
assenso, ma Cato non le diede il tempo.
«No, non ancora.
Sono certo che se avremo pazienza li troveremo. Aspettiamo che scenda
la notte, in quel momento saranno più vulnerabili. Saranno stanchi,
soli, infreddoliti e senza cibo o acqua.»
Clove sorrise. Cato
era un vero stratega. Era spietato e non aveva rimorso. Era forte e
letale. Aveva la stoffa del leader. Aveva la vittoria in pugno, non
c’erano dubbi.
Marvel e Glimmer
parvero rianimarsi all’idea di poter colpire altri tributi nel sonno,
così si fecero forza e continuarono a proseguire.
«Comunque... il
cannone ha sparato per undici volte. Quanti ne avete ammazzati voi?»
Chiese Marvel con noncuranza, tenendo il conto sulle dita delle mani.
«Quattro.» Rispose
prontamente Cato. «E qualcuno l’ho ferito mortalmente. Scommetto che si
nascondo qui attorno, aspettando la morte.» Il ragazzo ridacchiò
sadicamente.
«Quattro anche io.»
Aggiunse Clove con orgoglio, perché era lo stesso numero di Cato. Nel
caso lui avesse iniziato a dubitarne, dimenticando la sua destrezza
all’Accademia, e il che era molto probabile visto che la trattava come
una perfetta sconosciuta da dopo le interviste, ora aveva la conferma
che lei sarebbe stata una degna avversaria. Una da temere. Cato le
lanciò un lungo sguardo, senza perdere il suo sorrisetto.
«Io credo di averne
fatti fuori due.» Marvel aveva un’aria pensierosa. «Sapete com’è, nella
foga del momento qualche colpo è andato a vuoto. Vero Glimmer? Solo uno
per te?» Disse prendendola in giro.
Glimmer assunse
immediatamente un cipiglio imbronciato. «Non è mica una gara.» Marvel
l’aveva detto scherzando, ma sotto un altro punto di vista, poteva
benissimo esserlo. Poteva essere una gara e se così fosse stato, lei
sarebbe arrivata ultima. E questo voleva dire che era la più debole. La
più vulnerabile. La situazione si fece tesa per un’istante, così Clove
decise di intervenire.
«Ma per poco non ho
ucciso quella del 12.» Tutti la guardarono, sgranando gli occhi. Quella
sua affermazione venne accolta con stupore da tutti e tre.
«Accidenti! Com’ha
fatto a sfuggirti?»
«Pensavo non
mancassi mai il colpo! È davvero così brava?»
Clove guardò Marvel
e Glimmer che parlavano in continuazione, uno sopra all’altra, dicendo
frasi sconnesse. La ragazza li fermò con un gesto scocciato della mano.
«È stata solo
fortuna. L’avrei colpita se non si fosse difesa con il suo stupido
zaino. Quando ho realizzato di averla mancata, era troppo lontana. Non
potevo allontanarmi dalla cornucopia.»
«Quindi non ha
lottato.» Disse Cato, pensieroso.
«No.»
Glimmer sbuffò,
schifata. «Fortuna, dannata fortuna! Non vedo l’ora di averla tra le
mie mani! Allora vedremo chi sarà fortunata!»
E così andarono
avanti a parlare dei tributi del 12. Purtroppo nessuno di loro
ricordava di aver colpito il ragazzo quindi molto probabilmente era
sopravvissuto anche lui.
Fu in quel momento
che Clove sentì un rumore, come qualcosa di pesante che spezza un
ramoscello. Si fermò di colpo e Marvel le andò a sbattere addosso.
«Zitti!» Esclamò,
cercando di sentire.
E poi lo udì di
nuovo, molto più nitidamente di prima. Dei passi pesanti. Alle loro
spalle.
Clove si voltò di
scatto, e con incredibile destrezza scagliò uno dei suoi coltelli
mentre se ne preparava già un altro in mano, pronta a lanciare anche
quello se fosse stato necessario. Un gemito proveniente da lì vicino le
disse che il suo colpo era andato a segno.
In quel breve lasso
di tempo, anche i suoi compagni si voltarono. E tutti e quattro videro
il coltello di Clove, ancora vibrante per il lancio, conficcato in un
albero alle spalle di un ragazzo che, gemendo, si stringeva una mano
attorno al braccio destro dal quale iniziava a colare del sangue. Ci
impiegarono qualche secondo a riconoscerlo: aveva il volto livido e una
gamba malferma, ma non c’erano dubbi, era lui. Clove era certa che sul
viso dei suoi compagni si era dispiegato lo stesso sorriso cattivo che
era affiorato sulle sue labbra.
Perché quello era il
Ragazzo Innamorato del 12.
«Fermi! Fermi!»
Esclamò il biondino cercando di non cadere a terra.
Cato aveva già
sguainato la sua spada, avanzando di un passo. Marvel aveva un lungo
pugnale dalla lama ricurva tra le mani e Glimmer stava estraendo
una freccia argentata dalla faretra.
«Aspettate!» Esclamò
ancora lui, con voce disperata. Nella mano che usava per fermare il
flusso di sangue stringeva un coltello, ma, lo sapeva di certo anche
lui, sarebbe stato inutile contro loro quattro. Clove lo guardò con
gusto, esaminando la sua situazione penosa. Cosa credeva di fare,
balzando fuori alle loro spalle ridotto in quel modo? Un eroico gesto
d’amore, cercando di spianare la strada della vittoria alla sua
ragazza? Patetico, davvero patetico. Ignorando i suoi urli, i quattro
avanzarono ancora attorno a lui, accerchiandolo e intrappolandolo. Ma
stranamente il ragazzo non sembrava voler fuggire.
«Aspettate... sono
qui...» Disse prendendo fiato. «Sono qui perché voglio allearmi con
voi.» Disse con voce ferma e sguardo duro. Cercò di recuperare un
briciolo di dignità e in qualche modo ci riuscì. I quattro restarono in
silenzio per qualche secondo, con le sopracciglia inarcate. Poi
scoppiarono a ridere fragorosamente, come se lui avesse appena
raccontato una barzelletta particolarmente divertente.
«Sì certo, come no!»
Esclamò Marvel, asciugandosi una finta lacrima dall’angolo di un
occhio, cercando di smettere di ridere. «Allora, qual’è il tuo grande
piano, Ragazzo Innamorato? La
tua ragazza si nasconde qui nei paraggi e ci attacca alle spalle mentre
tu ci fai ridere?» Gli altri scoppiarono di nuovo in fragorose risate,
ma l’espressione del ragazzo rimase seria. «No, non ho nessun piano. E
mi chiamo Peeta. Non so dove sia Katniss, e non mi importa. Sono qui
per allearmi con voi.»
«E allora spiegaci
perché mai dovremmo volerci alleare con te.» Disse Glimmer, scrutandolo da
capo a piedi. Era abbastanza mal ridotto e la ferita che Clove gli
aveva aperto gli stava facendo perdere molto sangue.
«Perché sono forte e
posso esservi utile.» Marvel e Glimmer gli risero in faccia, di nuovo.
Clove continuò a studiarlo con attenzione, poi si rese conto che Cato
non rideva più. Ma aveva un sorrisetto divertito sulle labbra. Mentre
lei lo guardava, lui fece un passo avanti, superando gli altri e
restando ad un paio di passi dal ragazzo, che alzò lo sguardo su di
lui, senza esitare o ritrarsi. Coraggioso, pensò Clove, e stupido.
«Dunque vuoi
allearti con noi, eh?»
«Sì.»
«E se noi ti
accettassimo, tu saresti dalla nostra parte. Ci aiuteresti a trovare la
tua ragazza e ad ucciderla?» Chiese lui, con voce bassa e suadente.
Marvel e Glimmer protestarono ma lui li zittì con un gesto. Clove
invece, che pensava di conoscerlo abbastanza bene, intravide il piano
che gli si stava disegnando nella mente.
Il Ragazzo
Innamorato non batté ciglio. «Non è la mia ragazza. Quella era tutta
una recita voluta dal nostro mentore. E sì, vi aiuterò a trovarla se mi
prenderete con voi. So come fare.»
Cato lo fissò per
qualche istante, scrutandolo con attenzione. Lui non abbassò lo sguardo
e i loro occhi rimasero incatenati, lanciando scintille. Alla fine Cato
fece un passo indietro e allargò le braccia. «Bene. Benvenuto a bordo
allora. Ma sappi una cosa: un solo passo falso e sei morto.»
«Cosa?! Cato sei
fuori di testa?» Esclamò Marvel indignato.
«È ovvio che mente!
È un bugiardo!» Si unì Glimmer. Clove invece passò lo sguardo dai tre
che bisticciavano al ragazzo che faticosamente si rimetteva in piedi,
con un sorriso vittorioso sulle labbra livide.
«Zitti. Non lo avete
sentito? Ci aiuterà. Medicategli la ferita, altrimenti morirà
dissanguato.»
Marvel e Glimmer
continuarono ad opporsi. Non volevano capire che Cato non poteva
parlare apertamente, non con il ragazzo così vicino? Era ovvio che il suo era tutto un
bluff. Poteva mostrarsi sicuro quanto voleva, ma non riusciva ad
ingannare Clove. E nemmeno Cato. E di certo anche lui sapeva che loro
non gli credevano, se era almeno un po’ sveglio. Ad ogni modo la sua
presenza avrebbe potuto rivelarsi davvero utile per trovare la sua
compagna. Quanto rendeva stupidi l’amore. Grazie alla mossa azzardata
del Ragazzo Innamorato ne avrebbero presi due in un colpo solo.
«Io non lo medico!
Non lo voglio nemmeno con noi!» Urlò Glimmer. «Dovresti farlo tu visto che lo hai ferito!» Clove
lanciò uno sguardo carico d’ira a Glimmer, perché era così ingenua da
non capire il piano di Cato ed era così sciocca da schiamazzare in quel
modo in mezzo al bosco. Se ci fosse stato qualche tributo nei paraggi,
di sicuro era già fuggito lontano.
Senza fiatare, Clove
recuperò un rotolo di garze dal suo zaino poi andò alle spalle del
ragazzo, che si era inginocchiato a terra, e recuperò il suo coltello.
Lo ripulì e con un colpo secco tagliò un pezzo sufficientemente lungo
di garza. Si sentiva quattro paia di occhi puntati contro, ma li ignorò
tutti quanti. Era stufa di quella giornata, si sentiva i nervi a fior
di pelle, il ricordo del bagno di sangue sembrava essere stampato sotto
le sue palpebre e il fatto di non provare rimorso per le sue quattro
vittime la inquietava ancora. In più ci si metteva Glimmer, con le sue
scenate di permalosità e Cato, che si comportava come un generale in
guerra, come se niente fosse, come se nemmeno la conoscesse. Con rabbia
si inginocchiò di fianco al ragazzo e senza delicatezza gli afferrò il
braccio che lui aveva allungato. Arrotolò la garza bianca attorno alla
ferita che lei gli aveva procurato e subito quella si tinse di rosso.
Sentiva lo sguardo del Ragazzo Innamorato sul suo viso e si chiese
quale strano piano stesse macchinando. Doveva essere pieno di risorse,
per osare tanto. Schierarsi dalla parte dei nemici era un passo che non
molti avevano il coraggio di compiere. O erano dei maledetti codardi o
erano degli stupidi oltremodo coraggiosi. Lui doveva appartenere alla
seconda categoria. Clove strinse con forza la benda, in modo da
bloccare la fuoriuscita di sangue. Fece un nodo ben stretto e finì lì
la medicazione. Senza poterne fare a meno alzò lo sguardo sul volto del
ragazzo. I loro occhi si incontrarono e Clove realizzò che erano
azzurri. Non come quelli di Cato però. Nessuno aveva occhi come i suoi.
Senza dire nulla
Clove si rialzò e si buttò lo zaino sulle spalle. I suoi alleati
tacevano mentre lei si dirigeva verso di loro, decisa a riprendere la
marcia.
«Grazie.» La voce
del ragazzo le arrivò alle spalle e Clove si voltò a guardarlo. Si era
rialzato e zoppicando li stava raggiungendo. I loro occhi si
incontrarono di nuovo. Scoprirò cosa
stai tramando, Ragazzo Innamorato. Oh sì che lo farò. E quando ci
porterai dalla tua ragazza la ucciderò. Dopo di che ci occuperemo di te.
«Andiamo. Non
abbiamo tempo da perdere. Clove.» La voce di Cato interruppe i suoi
pensieri e la ragazza spostò lo sguardo dal Ragazzo Innamorato a Cato.
Le stava rivolgendo la parola, dopotutto. Ma era troppo irritata per
farci realmente caso. Ignorando tutti gli altri Clove riprese a
camminare, facendo strada nella foresta.
SPAZIO
AUTORE
Ma saaalve a tutti!
Dai, questa volta non ci ho messo proprio un secolo per aggiornare ;D
Questa è l'altra
metà dello scorso capitolo, che avevo deciso di tagliare per non
renderlo troppo lungo! Spero davvero che vi sia piaciuto! E finalmente
arriva un volto noto! Ebbene sì, il nostro Peeta che entra nella
schiera dei Favoriti! Ma noi, come Cato e Clove, non ci facciamo
ingannare e sappiamo perfettamente perché l'ha fatto u.u
Ad ogni modo, spero
di riuscire ad aggiornare prestissimo, e voi penserete che certo, ormai
è estate, sono iniziate le vacanze....... ebbene, NO! Io avrò la
maturità ç___ç spero comunque di poter aggiornare presto, anche perché
nei prossimi capitoli ci saranno degli sviluppi nel rapporto tra Cato e
Clove... ;D
Ora vi saluto! Spero
davvero che continuiate a seguire questa storia e ricordatevi che una
recensione mi fa sempre un immenso piacere ;D
Grazie a tutti,
~ C
|
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Capitolo 16 *** 16. Let it all Burn ***
Till your last breath
CAPITOLO
15
Let it all burn
Uscirono in silenzio dalle ombre e
allora non si preoccuparono più di non essere sentiti. Una testa
spettinata si alzò di scatto, gli occhi brillavano al tenue bagliore
del residuo fuoco. Era una ragazza.
Che sciocca, pensò
Clove. Accendere un fuoco in piena notte equivaleva a sparare in aria
un segnale luminoso per svelare la propria posizione.
Cato estrasse le
spada e il rumore dell’arma che fendeva l’aria sembrò risvegliare la
ragazza. Quella iniziò a urlare e a strisciare all’indietro,
implorandoli di non ucciderla. Ma loro avanzarono, inesorabili. Poco
dopo la sua voce si spense in un ultimo rantolo di dolore. Clove rimase
a guardare in silenzio. Se fosse stata almeno un po’ intelligente
avrebbe potuto scampare alla morte, ma non la era stata. E si sa che
nell’arena vige la legge del più forte tanto quanto quella del più
intelligente.
Marvel rise di
gusto, facendo i complimenti a Cato mentre lui estraeva la spada,
ripulendola con stizza. «Fantastico! Dodici fatti, undici da fare!»
Anche Glimmer iniziò a ridere e poco dopo Cato e Clove si unirono al
coro. Marvel era sempre lo stesso, arena o meno, non poteva farne a
meno di sparare battute.
Solo uno di loro se
ne stava in disparte in quel momento, in silenzio e senza ridere.
Era strano farlo.
Ridere. Forse lo facevano solo per allentare la tensione, perché tutti
sapevano che prima o poi sarebbe venuta l’ora di affrontarsi. Di
affrontare la spada di Cato o i suoi coltelli. Ora erano alleati, ma
non lo sarebbero stati per sempre.
Marvel iniziò a
frugare tra i pochi averi della ragazza morta, ma tra imprecazioni si
rese conto che non c’era nulla di utile.
«È meglio se ce ne
andiamo da qui. Così potranno raccogliere il corpo prima che inizi a
puzzare.» Disse Glimmer, ridacchiando. Furono tutti d’accordo e così
ripresero a marciare. Ma a pochi metri di distanza, in una radura
spoglia, si fermarono di nuovo. Il silenzio era tornato a regnare
sovrano su tutto il bosco. E c’era qualcosa che non andava.
«Non dovremmo
sentire un colpo di cannone, adesso?» Fece notare Clove, ascoltando con
attenzione. Gli altri le diedero ragione. La morte della ragazza
avrebbe già dovuto essere annunciata.
«Forse non è morta
davvero.» Glimmer si rigirò tra le dita una delle sue due lunghe trecce
bionde con noncuranza, come faceva agli allenamenti.
«Certo che è morta.»
Cato le rivolse uno sguardo irritato. «L’ho uccisa io.»
«E allora perché non
sentiamo il colpo di cannone?» Fece notare Marvel, indicando il cielo.
«Forse qualcuno
dovrebbe andare indietro e accertarsi che sia veramente morta.» Glimmer
lasciò ricadere la treccia sulla sua spalla, con aria annoiata.
«Infatti. Altrimenti
ci toccherà andarla a scovare per due volte.» Constatò Marvel.
«Ho detto che è
morta!» La voce di Cato si alzò, carica di irritazione. La sua rabbia
sembrava decisamente sproporzionata rispetto alla situazione.
Clove gli lanciò un
lungo sguardo. Aveva i nervi a fior di pelle, una semplice questione
come quella bastava a farlo arrabbiare oltremisura. Cosa gli stava
succedendo? Di colpo aveva perso il comando su sé stesso? Se solo potessi sapere a cosa pensi...
Mentre Clove se ne
stava in silenzio a guardarli, i tre iniziarono a bisticciare.
«Credi che non sia
in grado di ammazzare una maledetta ragazzina?» Esclamò Cato
spintonando Marvel.
«Ma che ti prende,
amico?!» Esclamò quello, arrabbiandosi a sua volta. «Il cannone non è
suonato! Vuol dire che non è morta!»
Ripresero a
spintonarsi con più vigore. Glimmer urlava cercando di farli smettere.
Clove avanzò, tentando di fermare Cato ma lui era già forte
normalmente, figurarsi ora che era arrabbiato. Sembrava quasi folle,
mentre si proponeva di ammazzare Marvel lì, in quel momento. Stava già
mettendo mano alla spada mentre gli altri cercavano inutilmente di
calmarlo.
«Stiamo sprecando
tempo!» La voce li colse tutti di sorpresa. Si fermarono e si voltarono
all’unisono verso la persona che aveva parlato. In quel momento, si
erano del tutto dimenticati che il Ragazzo Innamorato fosse con loro.
«Vado io a finirla. Poi ce ne andiamo.»
Cato rilassò i
muscoli e lasciò andare Marvel, che gli rivolse uno sguardo torvo.
«Vai pure Ragazzo
Innamorato, guarda con i tuoi occhi.»
E lui andò,
lasciandosi i quattro Favoriti alle spalle. Loro restarono ancora in
silenzio per qualche istante, aspettando che si allontanasse
abbastanza. La lite di prima sembrava già acqua passata. Si radunarono
in cerchio, parlando a bassa voce.
«Non capisco perché
non lo uccidiamo subito e la facciamo finita.» Sussurrò Glimmer con
voce velenosa.
Clove scosse la
testa. «No, è meglio aspettare. Può sempre tornarci. E poi...» Clove
lasciò la frase in sospeso mentre un sorrisetto le si dispiegava sulle
labbra sottili e faceva passare lo sguardo malvagio tra i compagni.
Fu Cato a concludere
la sua frase. «E poi lui è la nostra possibilità migliore per trovare lei.»
Gli atri
ridacchiarono. «Credete che si sia davvero bevuta quelle fesserie
sentimentali?» Chiese Glimmer con una smorfia disgustata.
«Potrebbe.» Fece
Clove, pensierosa. «Ogni volta che ripenso alle interviste mi viene da
star male. Lei che fa piroette con quel suo vestito e lui che butta in
piedi tutta quella stupida faccenda.»
«Mi piacerebbe
sapere come diavolo ha fatto a prendere quell’undici. Non sembra
particolarmente sveglia.» Sentenziò Marvel. Gli altri gli diedero piena
ragione.
«Il Ragazzo
Innamorato lo sa, puoi scommetterci.» Iniziò Cato, ma fu presto zittito
dai passi pesanti del ragazzo che tornava.
«Allora?» Cato si
raddrizzò, riportando la voce ad un tono normale. «Era morta?»
Il Ragazzo
Innamorato alzò uno sguardo duro su di lui. «No. Ma adesso lo è.» A
conferma delle sue parole, tutti sentirono un colpo di cannone spezzare
il silenzio. «Pronti a muoversi?»
Clove guardò ancora
il ragazzo del 12. Era un ottimo attore, non c’era dubbio. Si impegnava
così tanto per ingannarli. Ma per lui non c’era scampo. Si era andato
ad adagiare nella rete dei nemici con le sue stesse mani. La sua vita
era segnata.
Senza aggiungere
altro, ripartirono tutti e cinque in silenzio, mentre l’alba iniziava
rischiarare il cielo.
***
L’intera giornata passò
tranquillamente. Fin troppo tranquillamente.
A quanto pareva gli altri tributi sfuggiti al bagno di sangue erano più
intelligenti dell’ultima che avevano ucciso. Non ne scovarono nemmeno
uno in tutta la giornata. Così il mattino successivo si risvegliarono
al loro accampamento senza aver sentito nemmeno un cannone sparare.
«Ragazzi, non
trovate che faccia un po’ troppo caldo qui?» Marvel, che si era da poco
risvegliato, si passò una mano sulla fronte, detergendosi un sottile
velo di sudore.
«In effetti è vero.
Fa decisamente troppo caldo
qui. Forse dovremmo spogliarci un po’.» La voce di Glimmer era bassa e
suadente. Clove alzò lo sguardo su di lei, inarcando le sopracciglia.
La ragazza si stava abbassando la zip della pesante giacca a vento e,
notò Clove con un certo disappunto, il suo sguardo sembrava aver preso
un cipiglio malizioso ed era senza ombra di dubbio diretto verso Cato.
Anche lui la guardò
per un istante. «Deve essere un’impressione.» Glimmer si imbronciò e
lasciò perdere la zip. Clove guardò da un’altra parte.
E fu allora che notò
un branco di animali selvatici che correvano via a tutta velocità. Che
strano, pensò mentre iniziava a sudare anche lei. Faceva davvero caldo. La ragazza si alzò
in piedi, avvicinandosi alla direzione in cui erano scomparsi gli
animali.
«Ragazzi.» Disse,
mettendosi in ascolto. «Che cos’è questo rumore?»
«Quale rumore?»
Chiese Marvel mentre tutti quanti balzavano in piedi.
«Non lo so.» Si
portarono tutti alle sue spalle, in silenzio. Clove rimase in ascolto e
ora riuscì a sentire il rumore, ma non ad identificarlo. Tutto quello
che capì era che arrivava dalle sue spalle. Strinse forte un coltello
tra le dita e si voltò.
Ma subito si accorse
che la sua arma sarebbe stata inutile contro quel nemico.
Un muro di fuoco si
stava dirigendo verso di loro, abbattendo alberi e bruciando il
terreno. Presto avrebbe investito anche loro.
«Correte! VIA!» I
cinque si sparpagliarono. Clove afferrò velocemente il suo zaino ma non
fece in tempo a prendere altro. Si misero tutti a correre, urlando.
«Veloce! Più veloce!»
«Forza, forza!»
«Scappate!»
Clove corse veloce,
cercando di non inciampare nei rami caduti. Se cadi, sei morta.
Ma non importava
quanto veloce corressero, sentivano il fuoco alle loro spalle, sempre
più vicino. Lo sentivano distruggere tutto, inghiottire ogni albero,
ogni roccia, ogni essere vivente e ridurlo in cenere. Presto il fumo li
raggiunse. Si fece sempre più fitto e penetrante, come un muro di
nebbia. Clove iniziò a vederci sempre meno. Perse di vista i suoi
compagni. Continuando a correre a perdifiato si portò un braccio
davanti a naso e bocca, cercando di non inalare altro fumo: i polmoni
le bruciavano già. Presto la sua andatura rallentò e gli occhi
iniziarono a bruciarle. Aveva distanziato il fuoco, ma poteva ancora
sentirlo, alle sue spalle. Non era un evento naturale, era opera degli
strateghi, per questo avanzava così veloce.
Perse
l’orientamento. Non sentiva più i passi dei suoi compagni. Respirare
iniziava a diventare troppo difficile. Strinse tra le mani il manico
del suo coltello. Per la prima volta in tutta la sua vita non poteva
abbattere il suo nemico con quell’arma. Non poteva affatto battere il suo nemico. E
così, correndo e appoggiandosi agli alberi per non cadere e per cercare
di proseguire dritto, ebbe paura per la prima volta nell’arena. Oramai
si era abituata all’idea di uccidere altri esseri umani. Ma come poteva
uccidere il fuoco? O come poteva fermare il fumo che le entrava a forza
nei polmoni, brucandoli?
Ebbe paura di
morire.
Ma non poteva farlo,
non poteva morire così, sconfitta non in una battaglia con un
altro tributo, ma da un muro fuoco. No, non l’avrebbe permesso,
non lei.
Riprese a correre e
ritrovò un po’ di fiato. Così iniziò a urlare, sperando di trovare i
suoi alleati. «Cato! CATO!» Tossì. In lontananza, sotto il crepitare
delle fiamme, le sembrò di sentire qualcuno chiamare il suo nome. Clove
brancolò in quella fitta coltre di fumo, cercando di andare dalla parte
della voce. Ora non sentiva più il fuoco alle spalle, forse gli
strateghi avevano deciso di spegnerlo. Ma il fumo restava ed esso era
letale tanto quanto le fiamme di poco prima.
«Cato!» Urlò di
nuovo, con voce roca.
«Sono qui!» E lo era
davvero. Per poco Clove non ci andò a sbattere contro.
«Cato!» Esclamò,
tossendo contro la manica della sua giacca che teneva ancora a coprirle
naso e bocca. Quando alzò gli occhi brucianti su di lui, notò che anche
Cato cercava di proteggersi dal fumo in quel modo.
«Forza.» Esclamò
prendendola per un polso. «Andiamocene da qui!»
E ripresero a
correre assieme. Clove lo guardò attraverso il fumo. Si chiese perché
lo stesse facendo, perché la stesse aiutando. Sarebbe stato più facile
per lui lasciarla indietro, lasciarla a morire nel fumo. Invece la
stava aiutando.
Corsero per un tempo
indefinito, fino a quando finalmente i loro occhi iniziarono a vederci
più nitidamente, segno che il fumo andava diradandosi. Andarono avanti
a correre ancora per parecchi metri e poi si fermarono. Cato le lasciò
andare il polso. Entrambi inspirarono l’aria pura a pieni polmoni,
cercando di smettere di tossire.
Poco più distante,
Clove sentì delle voci rauche chiamarli. Erano tutti vivi: Marvel,
Glimmer e persino il Ragazzo Innamorato, che seguiva gli altri due
zoppicando. Si radunarono tutti e cinque nella radura e si lasciarono
cadere a terra, riprendendo fiato. Clove aveva la gola in fiamme e gli
occhi le bruciavano. Tossiva ancora, come i suoi compagni, ma erano
tutti vivi. Stavano tutti bene. Certo, notò osservando i pochi zaini
rimasti, gran parte delle loro scorte erano state divorate dalle
fiamme, ma quello non era un gran problema: potevano sempre tornare
alla cornucopia e recuperarle.
Alla fine gli
strateghi non erano riusciti ad eliminarli. In qualche modo erano
riusciti a battere anche il fuoco.
Si concessero giusto
il tempo di riprendersi dall’attacco, poi ripartirono. Sapevano perché,
ad un certo punto dei Giochi, gli strateghi decidevano di intervenire.
Il più delle volte era per portare allo scoperto i tributi che si erano
nascosti e par farli avvicinare, inducendoli al combattimento. Se gli
strateghi non l’avessero quasi uccisa, Clove avrebbe approvato la loro
mossa. La giornata trascorsa era stata fin troppo tranquilla. Ma ora
sapevano che gli altri erano scappati dai loro nascondigli per evitare
di bruciare vivi ed erano in giro, nella foresta, spaesati e in cerca
di una nuova tana come conigli selvatici.
E fu mentre si
avviavano verso un ruscello che avevano scovato qualche giorno prima
che ne trovarono uno. Anzi, trovarono proprio quello che avevano tanto
sperato di poter avere tra le mani. Trovarono la ragazza del 12.
La gioia collettiva
parve risollevare loro il morale. Immediatamente iniziarono a correre e
a urlare. Clove seguì la ragazza con lo sguardo e notò che anche lei
aveva dovuto fronteggiare l’incendio, ma non era stata fortunata come
loro. Da quello che poteva vedere era rimasta ferita ad una gamba.
Questo la rallentava, il che era un bene visto che nemmeno loro erano
al massimo delle forze. Infatti avevano ancora la gola irritata e
spesso si ritrovavano a tossire. Ma questo non li fermò. Trovare la
ragazza in fiamme era un pensiero fisso fin dall’inizio dei Giochi.
Passarono il
ruscello arrancando e quando la raggiunsero, la ragazza si stava
agilmente arrampicando su un alto albero. Arrivata ad una certa
altezza, si fermò e guardò in giù. Era circondata, ma non sembrava
particolarmente spaventata, notò Clove con disappunto.
Anzi, sembrava che
stesse sorridendo. «Come va, ragazzi?» Chiese con voce spavalda.
Tutti la guardarono
stupiti. Se Clove fosse stata al suo posto e fosse stata ad un passo
dalla sua morte, non si sarebbe certamente messa a scherzare.
Cato fu il primo a
riprendersi dallo stupore e decise di reggerle il gioco. «Abbastanza
bene.» Esclamò. «E tu?»
«Ha fatto un po’
caldo per i miei gusti.» Rispose lei, continuando a sorridere
scioccamente. «L’aria è migliore quassù. Perché non mi raggiungete?»
Così Clove capì perché si permetteva di essere così rilassata.
Probabilmente nessuno di loro era così agile da poter scalare un albero
tanto alto e con rami tanto sottili. E questo era il suo vantaggio.
«Penso che lo farò.»
Cato iniziò di nuovo ad irritarsi, Clove poté sentirlo nella sua voce.
Dopo averla salvata dal fumo era tornato ad essere lo stesso ragazzo
freddo e distante, teso come una corda di violino, pronto a scattare
alla minima provocazione. Clove capì che in quel momento si stava
trattenendo: non voleva dare nessuna soddisfazione alla ragazza del 12.
Ma probabilmente non pensò nemmeno che scalare quell’albero non avrebbe
portato a nulla.
«Ecco, prendi questo
Cato.» Glimmer gli tese arco e frecce, ma lui le allontanò con una mano.
«No. Preferisco
usare la spada.» Rispose lui, issandosi sul primo ramo. La ragazza
riprese a salire, agile come uno scoiattolo. Cato non l’avrebbe mai
raggiunta, pensò Clove con irritazione. Non poteva sfuggirgli un’altra
volta. Questo era troppo.
Marvel e Glimmer
iniziarono ad urlare a Cato, incitandolo. Ma dopo pochi metri si sentì
un terribile crack di un ramo spezzato e il ragazzo cadde al suolo.
«Cato!» Esclamò
Clove facendo un passo avanti. Ma lui si rimise subito in piedi,
imprecando. Il suo sguardo lanciava scintille. Anche lui voleva farla
finita subito con quella maledetta ragazza. Aveva avuto fortuna fin
troppe volte. Clove iniziò a calcolare la distanza e pensò di provare
con un coltello. Magari ce l’avrebbe fatta. Ma Glimmer la precedette.
«Ci penso io.»
Incoccò una freccia
e prese la mira, ma la mancò. Quella si andò a conficcare a qualche
centimetro di distanza dalla ragazza, sullo stesso ramo. Lei la
estrasse e la sventolò nella loro direzione, con il chiaro intento di
prenderli in giro.
«Dannazione!»
Esclamò Glimmer, pestando i piedi a terra. Così iniziò un nuovo
battibecco. Ma ormai si stava facendo sera e il tempo si stava
esaurendo. Parlavano tutti e quattro, proponendo piani e senza nemmeno
ascoltarsi a vicenda. Cato iniziò ad urlare.
«Lasciamola là.» Li
interruppe il Ragazzo Innamorato. «Dove volete che vada? Ce ne
occuperemo domani mattina.» Clove lo osservò di nuovo. Era ovvio che
stava prendendo tempo per salvare la sua amata. Ma facendo i conti,
forse era meglio seguire il suo consiglio. La ragazza non poteva
scendere dall’albero senza che loro la attaccassero. Era bloccata là
sopra, nel suo stesso nascondiglio. Con il buio le possibilità di
prenderla erano scarsissime, ma con l’arrivo del mattino avrebbero
potuto provarci di nuovo. Forse durante la notte avrebbero ideato un
piano migliore. Non aveva scampo. Le avrebbero regalato qualche ora in
più di vita, tutto qui.
I quattro si
lanciarono uno sguardo e vi fu un muto assenso. Cato era infuriato
perché la sua preda gli era sfuggita dalle mani, ma scrollò le spalle
ed iniziò ad allestire l’accampamento in silenzio, mentre Marvel si
apprestava ad accendere il fuoco. Clove rimase ancora un istante con lo
sguardo puntato verso i rami. La ragazza era appena visibile, là in
alto. Forse l’avevano davvero sottovalutata. Forse non era così sciocca
come avevano creduto. Era già sfuggita loro due volte e tuttora restava
fuori dalla loro portata. Ma sarebbe stato ancora per poco. Solo una
notte, e poi sarebbe caduta dritta tra le loro braccia, verso la sua
morte.
Il mattino dopo però
Clove si rese conto che tutti i loro piani per uccidere la ragazza in
fiamme sarebbero falliti miseramente. Lei li aveva imbrogliati,
un’altra volta.
Furono svegliati da
qualcosa di pesante che si schiantava fragorosamente al suolo. Clove si
svegliò di soprassalto e il suo primo pensiero fu che la ragazza era
caduta dall’albero e che quello era il momento perfetto per ucciderla.
Ma non avrebbe potuto sbagliarsi più di così. Non era un essere umano
ciò che era caduto al centro del loro accampamento. Era un grosso
alveare. E quando si schiantò a terra, frantumandosi in mille pezzi, le
bestie che conteneva al suo interno ronzarono fuori come un’ondata
impetuosa, infuriate. E fu il caos. Erano aghi inseguitori.
Gli urli arrivarono
immediatamente, ma non c’era tempo di radunare le poche scorte o di
pensare ad altro se non a scappare. Le api gli erano già addosso. Clove
fu la più reattiva ed iniziò subito a correre veloce come un fulmine,
mentre cercava di scacciare le api che l’avevano raggiunta. Dietro di
lei poteva sentire i passi dei suoi compagni e a poca distanza il
ronzio furioso dello sciame degli aghi inseguitori.
«Al lago! Al lago!»
Urlò qualcuno alle sue spalle. Era la loro unica possibilità di
salvezza. Le api non entrano in acqua. Clove cercò di correre più
veloce e finalmente lo vide: una distesa di acqua limpida proprio
davanti a lei. Le sue gambe non frenarono nemmeno, ma quando fu vicina
alla riva piegò di poco le ginocchia e si lanciò dritta in acqua,
prendendo un grande respiro. Subito andò a fondo. Sentì le alghe
solleticarle i piedi e le gambe e con un grande sforzo, si costrinse ad
aprire gli occhi. Poco più in alto vide tre macchie indistinte che si
agitavano. Erano i suoi compagni che si erano tuffati dopo di lei. La
vista era appannata ma fu certa di vedere una grossa macchia scura
passare sopra le loro teste, appena sopra il livello dell’acqua. Lo
sciame di api li stava superando, proseguendo dritto per la propria
strada, pronto a rivolgere la sua furia contro qualcun altro.
Quando Clove pensò
che il pericolo fosse abbastanza lontano, iniziò a scalciare e muovere
la braccia, cercando di riemergere in superficie, in cerca di aria.
Proprio mentre la sua testa usciva dall’acqua e lei riprendeva a
respirare, sentì un colpo di cannone provenire da dove poco prima
stavano tutti tranquillamente riposando. Qualcuno era morto. Clove non
poté far altro che sperare che fosse la ragazza del 12, uccisa dalla
sua stessa trappola. Si guardò attorno: nell’acqua, a poca distanza da
lei, c’erano Cato e Marvel. Strano, avrebbe giurato di aver visto
almeno tre persone entrare in acqua dopo di lei.
«Dov’è Glimmer?»
Urlò Marvel, nuotando convulsamente verso riva. Forse era annegata,
pensò Clove, scrutando l’acqua scura al di sotto.
«NO!» L’urlo di Cato
arrivò del tutto inaspettato. Clove e Marvel si voltarono a guardarlo.
«Ci ha traditi! È stato lui!» Gridò indicando un punto nella foresta. E
Clove lo vide, solo per un istante, perché scomparve subito. Il Ragazzo
Innamorato stava correndo verso la radura che avevano appena lasciato.
Non ci fu bisogno di parole. Tutti e tre si precipitarono verso riva ma
il più veloce di tutti fu Cato.
Uscì dal lago e si
gettò all’inseguimento, incurante delle punture. Clove e Marvel lo
seguirono, ma quando arrivarono alla radura si resero conto che era
troppo tardi: Cato teneva in mano la spada insanguinata e il Ragazzo
Innamorato fuggiva zoppicando nei boschi, con una profonda ferita
aperta sulla gamba. Della ragazza del 12 non c’era più traccia. Il
veleno degli aghi inseguitori iniziava a fare effetto, rendendoli
deboli e spossati. Non avrebbero di certo avuto la forza di inseguire
il ragazzo nel bosco, sarebbero morti nel tentativo.
Cato però provò a
rialzarsi.
«Cato, lascia
perdere!» Esclamò Clove arrancando verso di lui, che usava la spada
come un bastone per reggersi in piedi. «Lo hai già ferito, morirà
dissanguato in meno di poche ore! Dobbiamo tornare al lago e far uscire
il veleno! Subito!» Il ragazzo si voltò con sguardo stralunato verso di
lei.
«Ragazzi.» La voce
di Marvel li raggiunse in un sussurro. «Ra... ragazzi.» Loro si
voltarono e lo raggiunsero faticosamente. Lui era inginocchiato al
fianco di un mucchio di qualcosa, aveva le braccia molli e lo sguardo
basso. Clove ci mise un secondo a collegare. Quello non era un mucchio,
quella era Glimmer. Ed era morta.
Tutta la bellezza e
il fascino che l’avevano da sempre caratterizzata sembravano scomparsi,
sepolti sotto quegli orrendi bozzi che gli aghi le avevano lasciato su
tutto il corpo ormai deforme. I suoi occhi, l’unica parte rimasta
immutata, erano aperti verso il cielo mattutino che non avrebbero più
potuto vedere. Arco e frecce erano scomparsi, segno che la ragazza del
12 era ancora viva ed era scappata.
Clove distolse lo
sguardo, incapace di sopportare la visione di quel corpo straziato che
un tempo era stato della sua alleata. Prese Marvel per un braccio e
cercò di tirarlo in piedi. «Avanti, dobbiamo andarcene di qui. Dobbiamo
tornare al lago! Alzati!» Clove lo tirò con tutte le sue poche forze,
ma non riuscì a farlo alzare. Cato, che parve risvegliarsi dal torpore
in cui era caduto, afferrò il ragazzo per l’altro braccio e assieme lo
tirarono in piedi e, barcollando, riuscirono a tornare al lago. Vi si
gettarono dentro e iniziarono a guardare le proprie ferite. Clove si
impegnò al massimo, cercando di trattenere i conati, mentre vi estraeva
i pungiglioni e guardava il veleno fuoriuscire, disperdendosi
nell’acqua. Forse, se agivano in fretta, avrebbero potuto evitare gli
effetti peggiori delle punture degli aghi inseguitori. Le allucinazioni
ad esempio.
Vide i suoi compagni
fare lo stesso, in silenzio, mentre un hovercraft passava sopra le loro
teste. Tutti e tre sapevano che stava andando a recuperare il corpo di
Glimmer, ma non dissero nulla. Fecero finta di niente e continuarono
così per parecchi minuti, fino a quando il dolore iniziò a scemare e lo
stordimento a diminuire. Marvel si lasciò cadere stancamente a riva,
con le gambe a penzoloni nell’acqua. Cato si tolse l’ultimo pungiglione
dal braccio, poi alzò lo sguardo verso Clove. Lei si accorse che aveva
ancora una puntura proprio sotto l’occhio destro. Se lui non l’avesse
tolta subito, si sarebbe gonfiata. Sarebbe diventata come quelle sul
corpo di Glimmer. No, non pensare a
lei. Si disse Clove, scacciando il ricordo. Si avvicinò
lentamente a Cato e gli fece segno di sedersi.
«Ne hai ancora uno.»
Gli disse. Lui le si avvicinò, senza dire una parola. Clove gli portò
le mani al viso e, cercando di non farle tremare, estrasse con cura il
pungiglione, ripulendo la guancia di Cato dal veleno che fuoriuscì
dalla piccola ferita. «Ecco. Ora sei a posto.» Sussurrò lei,
sciacquandosi le mani nell’acqua limpida.
Lui abbassò lo
sguardo. «Grazie.» Sussurrò.
Clove scosse la
testa, sorridendogli debolmente.
Lo stordimento stava
passando, ma le forze non le aveva ancora recuperate del tutto. Si
sedette mollemente sulla riva, sospirando e sperando che gli effetti
delle punture fossero solo quelli.
Questa era l’ultima
goccia. Non solo la ragazza in fiamme era scappata di nuovo, ma aveva
ucciso una dei loro. Adesso Clove era davvero stufa di lei. La prossima
volta che l’avrebbe trovata, l’avrebbe uccisa con le sue stesse mani. E
non se la sarebbe lasciata sfuggire di nuovo.
SPAZIO
AUTORE
Saalve a tutti! Lo so, lo so... ci
ho messo ancora un secolo ad aggiornare, ma la ragione è che dopo la
maturità non mi sono fermata un momento! Ho cercato di godermi appieno
le vacanze, visto che forse saranno le ultime davvero libere per
mooolti anni xD
Comunque, eccoci
qui... spero il capitolo vi sia piaciuto! Finalmente il rapporto tra
Clove e Cato ha qualche sviluppo :D Almeno fino a quando la Ragazza di
Fuoco decide di fregarli e fare andare Clove fuori di testa u.u Oh, e
anche... diciamo ciao ciao a Glimmer! Sarà stata odiosa, ma non
augurerei la sua morte nemmeno al mio peggior nemico!
Ora però vediamo di
non dilungarci oltre... so che il fatto di metterci secoli ad
aggiornare fa probabilmente perdere anche interesse nella storia, ma
spero che ci sia ancora qualcuno che la legga... se sì, sappiate che le
vostre recensioni mi fanno sempre piacere ;)
Ok, allora alla
prossima!!!
~ C
|
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Capitolo 17 *** 17. Breaking the Rules ***
Till your last breath
CAPITOLO 17
BREAKING THE
RULES
Passarono due giorni interi prima
che l’effetto del veleno degli aghi inseguitori sparisse del tutto. In
quel vasto arco di tempo i tre Favoriti rimasti decisero di radunare le
forze e stabilire la loro base alla cornucopia, a solo pochi metri dal
lago, dov’erano rimaste tutte le loro scorte.
Fu lì che trovarono il ragazzo
del Distretto 3. Anche lui era stato punto da qualche ape, quindi
doveva trovarsi nei pressi del lago da un po’ di tempo. Ormai restavano
solo dieci tributi in tutto e presto ne sarebbero rimasti nove. Ma il
ragazzo li aveva fermati e aveva detto che, se lo avessero
risparmiato, lui li avrebbe aiutati.
Avrebbe fatto in modo di
riattivare le mine sotterrate nel terreno attorno alla cornucopia, era
da un po’ di tempo che stava pensando di farlo, per quello si trovava
nei pressi del lago. Disse che le avrebbe nascoste attorno alle
provviste, di modo che se qualcuno avesse tentato di avvicinarsi per
rubarle sarebbe scoppiato in mille pezzi.
Dopo varie discussioni i tre
decisero di accettare. Quel ragazzo non era una minaccia: era smilzo,
affamato, pallido. Non aveva con sé nemmeno un’arma. Però poteva essere
utile come sentinella mentre loro andavano a caccia.
E così adesso si trovavano lì,
in silenzio, seduti su scatole e contenitori di plastica vuoti, attorno
al mucchio di provviste che avevano radunato e attorno alle quali il
ragazzo del Distretto 3 aveva sistemato le mine.
Non erano state giornate
piacevoli, anzi. Il dolore delle punture degli aghi inseguitori tornava
spesso a farsi sentire e le ferite non erano ancora del tutto guarite.
Erano rimasti in silenzio, pensierosi. Marvel era cupo e aveva perso la
sua allegria. Clove sospettava fosse colpa della morte di Glimmer. In
fondo lei era del suo stesso Distretto. Lo aveva visto, alzare lo
sguardo al cielo quando lo schermo aveva proiettato la foto della
ragazza con sotto inciso il numero 1. E l’aveva visto abbassarlo subito
dopo, ignorando la foto del tributo femmina del Distretto 4. Aveva
visto una certa tristezza nei suoi occhi. Come se avesse realizzato che
non erano immortali, i Favoriti.
Anche Cato era rimasto cupo e
silenzioso per tutto il tempo. E Clove si chiedeva se fosse per la
stessa ragione di Marvel. Odiava ammetterlo, ma aveva notato, nei
giorni passati, che Glimmer gli ronzava spesso attorno e che lui
sembrava considerarla più di quanto considerasse lei. Di nuovo il
pensiero del suo carattere mutevole la pervase. Rimase lunghi minuti ad
osservarlo, mentre stava seduto ai piedi di un grosso albero al
limitare della foresta. Non c’era pericolo che lui la vedesse, era
troppo preso dai suoi pensieri.
Prima dei Giochi si comportava
quasi come se fossero amici. Le sorrideva, scherzava anche con lei, a
volte. Ma dall’inizio degli Hunger Games non la guardava quasi più
negli occhi, come se fosse una completa estranea.
Però il giorno dell’incendio
l’aveva aiutata a fuggire. L’aveva presa per il polso e se la era
trascinata dietro fino a quando erano giunti in salvo. Perché?
Perché salvarla se tanto per
lui era come una sconosciuta? Non sarebbe stato più semplice lasciarla
morire? Clove passò quei due giorni in preda alla confusione e allo
sconforto. Si odiava per questo, perché per molto tempo era riuscita a
non pensare a Cato o al futuro, e ora invece non faceva che
concentrarsi su quei problemi. Diede la colpa al veleno degli aghi
inseguitori. Ma non era certa che quello fosse l’unico responsabile.
Clove si rese conto che il suo
debito nei confronti di Cato aumentava sempre di più e forse era ora di
saldarlo. Forse era per questo che si sentiva in dovere di aiutarlo.
Forse una volta che si fosse tolta quell’enorme peso dalla coscienza
avrebbe potuto smettere di pensare a lui e di sentirsi in debito.
Così, guidata da chissà quale
istinto o forse ancora dal veleno, si alzò silenziosamente in piedi.
Diede uno sguardo veloce alle sue spalle: Marvel le dava la schiena ad
una decina di metri di distanza. Il ragazzo del 3 studiava un cubo di
plastica contenente chissà che cosa. Nessuno badava a lei. Così, con
passo silenzioso, si avvicinò di soppiatto a Cato. Esitò solo per un
istante, poi si sedette al suo fianco, a pochi centimetri di distanza
da lui.
«Ciao.»
Lui non alzò nemmeno lo
sguardo, ma continuò pigramente a strappare erba e pezzetti di radice.
«Hey.»
Clove abbassò lo sguardo,
incerta sul da farsi. Era venuta lì per sdebitarsi con lui, ma realizzò
solo in quel momento di non aver nemmeno pensato a cosa gli avrebbe
detto. Rimase in silenzio per qualche istante. «Come ti senti?» Gli
chiese alla fine, senza guardarlo. «Il dolore è passato?»
«Sì. È tutto a posto.» Ma non
lo era, Clove lo sapeva. Non seppe dirsi quale strana forza la spinse a
parlare, ma lo fece.
«Sei così cupo per via della
morte di Glimmer, non è vero?» Clove iniziò a strappare pezzetti
d’erba, stringendoli spasmodicamente tra le dita.
«Cosa?» Cato alzò uno sguardo
confuso su di lei. «No.» Disse con voce dura, scuotendo la testa.
«Doveva morire prima o poi. Non mi importa nulla di lei. Non mi è mai
importato.» Detto questo, abbassò nuovamente lo sguardo e tornò a
strappare le radici dell’albero che fuoriuscivano dalla terra brulla.
Clove rimase sorpresa dalla sua risposta. Si aspettava che la causa
della sua tristezza fosse quella, invece non era così. Allora cosa lo
aveva spinto a diventare così silenzioso e distante? I Giochi stavano
lentamente entrando nelle fasi finali, quelle più dure, e lui pareva
non rendersene conto.
«Oh, credevo...» Iniziò Clove,
pensando a voce alta. Si maledisse per averlo fatto. «Niente, lascia
perdere.» Scosse la testa, sconsolata. «Cosa ti prende, Cato? Non sei
più la stessa persona. Da qualche giorno tu... sembri assente. Cosa ti
è successo?» Sembri folle.
Avrebbe aggiunto Clove. Non si dimenticava dei suoi eccessi di ira.
Molte volte si era ritrovato a battibeccare con Marvel per motivi
futili ma questo non l’aveva fermato dal minacciarlo o addirittura
dall’estrarre la spada. E quando accadevano questi eccessi non c’era
nessuno in grado di placarli. La rabbia doveva semplicemente sbollire
da sé e poi Cato tornava ad essere silenzioso e imbronciato e non
proferiva parola per lunghi lassi di tempo. Questo non era da lui.
«Niente. Non mi è successo
niente.» Disse lui con voce roca.
«Voglio solo aiutarti, Cato.
Te lo devo.»
Lui la guardò e i suoi occhi
sembravano stanchi ma, almeno per quel momento, presenti.
«Durante le interviste...»
Riprese lei, scrutando la foresta. «Hai parlato di una ragazza alla
quale avevi regalato un coltello.» Anche lui spostò lo sguardo nella
stessa direzione, senza negare. «Non ti ho mai ringraziato per averlo
fatto. Avrei voluto, ma non l’ho mai fatto. È stata la mia prima vera
arma e... e l’ho anche portata a Capitol. Non volevo separarmene. Ma
sapevo di non poterla portare con me nell’arena. Così l’ho lasciata in
custodia ad Enobaria. Non sopportavo l’idea che essa venisse perduta.
In un certo senso, mi ci sono affezionata. Quindi volevo solo dirti...
grazie per avermela regalata.» Clove si zittì, sentendosi
immediatamente meglio. Era da anni che quelle parole aspettavano di
essere dette. La ragazza non avrebbe mai pensato però che sarebbe
accaduto in una circostanza come quella.
«Non mi devi ringraziare. E
non devi sentirti in debito con me. Quello che è successo fuori
dall’arena resta fuori.» La sua voce era fredda e tagliente coma la
lama del suo coltello. Clove ne rimase sorpresa. Cosa voleva dire con
quella frase? Era la spiegazione del perché la trattava come se fosse
un’estranea? Tutto ciò che è successo fuori resta fuori? E lei che
aveva passato così tanto tempo pensando a lui, a come sarebbe stato
difficile ucciderlo o vederlo morire quando sarebbe arrivato il
momento! Chissà come se la rideva di gusto Damien in quel momento. Era
da un bel pezzo che Clove non pensava a lui, ma era colpa sua se lei si
trovava in quella situazione. Si chiese come sarebbero stati i Giochi
se Damien si fosse offerto, come doveva essere. E poi si chiese perché
mai invece si fosse offerto Cato. Non gli importava nulla di sapere che
lei sarebbe stata l’altra volontaria? Non gli importava di niente? Clove mandò giù un groppo
di delusione al pensiero. Chiuse gli occhi per un istante e rimase in
silenzio.
«Bene. Allora è tutto a posto.
Non sono in debito con te.» Disse, e mascherando la tristezza si alzò
in piedi e si allontanò da Cato, tornando a sedersi al suo posto. Per
un istante, un solo istante, si era sentita leggera, quando aveva
ringraziato Cato. Ora invece qualcosa di ben più pensante pareva
schiacciarla a terra. A lui non importava niente di lei, alla fine
l’avrebbe uccisa senza tanti problemi. L’aveva salvata solo perché gli
serviva la sua abilità con i coltelli. Prima dei Giochi era stato buono
con lei solo per fare in modo che si fidasse di lui abbastanza da
allearcisi. Era tutta finzione. Tutti i suoi complessi andarono in fumo
perché Cato, il ragazzo che pensava di conoscere almeno un po’, non era
altro che una vera e propria macchina per uccidere, proprio come aveva
detto Caesar alla fine della sua intervista. Gli importava solo di
vincere e alla fine lo avrebbe fatto. Avrebbe ucciso tutti, lei
compresa, senza alcun rimorso.
Solo poche ore dopo a rompere
il silenzio fu un urlo di Cato.
«Guardate!» Gridò balzando in
piedi e avvicinandosi al centro della radura. «Là in fondo, nella
foresta!» Clove e Marvel si alzarono e seguirono il suo sguardo: non
molto lontano, dalle cime degli alberi, si alzava un sottile filo di
fumo grigio. Possibile? Qualche altro tributo ci era ricascato?
Probabilmente con l’avvicinarsi della fine uno di loro era impazzito
per la fame o per il freddo e aveva deciso di arrischiarsi ad accendere
un fuoco. Pessima mossa. Clove preparò i suoi coltelli, felice di avere
finalmente qualcosa a cui pensare. Un po’ di azione era quello che ci
voleva. Stava già per partire quando si rese conto che Cato e Marvel
stavano discutendo. Di nuovo.
Non c’era tempo per aspettare
un altro eccesso d’ira di Cato. Dovevano trovare il tributo ed
ucciderlo prima che si allontanasse.
«Ho detto che viene anche
lui.» Sussurrò Cato tra i denti, indicando il ragazzo del Distretto 3
che si era alzato e se ne stava immobile, in attesa. Marvel però non
pareva essere d’accordo con la sentenza di Cato. «Ne avremo bisogno nel
bosco. E poi il suo lavoro qui è finito. Nessuno può toccare le nostre
provviste.»
«E il Ragazzo Innamorato?»
Chiese Marvel, non ancora del tutto convinto.
«Te l’ho già detto,
dimenticati di lui! So dove l’ho colpito. È un miracolo che non sia già
morto dissanguato! Non è una minaccia per noi, non lo è mai stato.»
Marvel lanciò uno sguardo a
Clove e lei gli comunicò con gli occhi di smetterla, che non era il
caso di far arrabbiare Cato. Lui capì al volo e decise di arrendersi.
«Andiamo.» Li esortò Cato,
soffocando l’irritazione e ficcando una lancia tra le mani del ragazzo
smilzo, prima di iniziare a correre. «E quando la troveremo, la
ucciderò io.» Urlò con voce spietata. «E nessuno osi intromettersi.»
Meno di pochi minuti dopo
erano nel bosco e seguivano la colonna di fumo. Corsero veloci e in
silenzio, determinati come non mai. Ma quando arrivarono al luogo del
fuoco, quello era deserto.
«Dannazione!» Imprecò Cato
prendendo a calci i resti polverizzati dei tronchi bruciati. Ma mentre
sfogava la sua ira e la sua delusione, ecco che poco più distante si
levò un’altra colonna di fumo oltre agli alberi.
«Ci sta prendendo in giro.» La
voce di Marvel era bassa, come un ringhio. «Forza, muoviamoci! Magari
riusciamo a beccarla!»
Clove ne dubitava. Chiunque
avesse acceso il fuoco aveva un piano in mente, un percorso che loro
stavano seguendo senza battere ciglio. Clove era anche certa che ad
accendere i fuochi era stata lei. Preferiva giocare d’astuzia piuttosto
che fronteggiarli. Ma non importava. Non poteva nascondersi per sempre.
Corsero per parecchi minuti ma
quando arrivarono al luogo del fuco trovarono anch’esso deserto. La
rabbia cresceva dentro di loro mentre un nemico invisibile li
imbrogliava in quel modo. La tensione, che in quei giorni era cresciuta
tra di loro fin quasi a soffocarli, ora sembrava essere diventata una
cappa carica di elettricità pronta ad esplodere da un momento
all’altro. Questo era troppo.
Marvel voleva andare avanti a
cercare, certo che chiunque avesse acceso il fuoco dovesse trovarsi nei
paraggi, ma secondo Clove quella sarebbe stata una mossa inutile. Di
sicuro il piano della ragazza del 12 non era di farsi trovare.
«Dobbiamo tornare indietro!
Non la troveremo mai se continuiamo così!» Esclamò Clove, sull’orlo
della disperazione. Sentiva di dover tornare all’accampamento. Quei
fuochi e la loro progressiva distanza... sembravano quasi un diversivo
per allontanarli dalla loro base.
«Non puoi nasconderti per
sempre! Mi hai sentito! Ti troverò!» Gridò Cato con furia, rivolgendosi
all’aria. Proprio in quel momento sentirono l’esplosione. Un boato
enorme, assordante. Tutti e quattro si coprirono le orecchie con le
mani, chiudendo gli occhi. Gli uccelli si alzarono in volo dagli alberi
e gli animali selvaggi scapparono via, in branco. L’esplosione veniva
da dove erano arrivati loro. Non ci volle molto per capire che erano
stati fregati.
«Maledizione!»
Con quell’ultima imprecazione
ripartirono tutti, correndo veloci come fulmini.
In pochi minuti erano ancora
nella radura della cornucopia, solo che la trovarono irriconoscibile.
Del fumo si alzava da dove una volta c’era il loro mucchio di
provviste. Ora non restava altro che un mucchietto di plastica annerita
e cenere.
Cato urlò la sua rabbia,
prendendo a calci i detriti e portandosi le mani tra i capelli biondi.
Clove e Marvel invece, dopo essersi accertati che tutte le mine fossero
esplose, si addentrarono in quel disastro cercando tra i resti qualcosa
che potesse essere recuperato, ma non c’era nulla. Era tutto andato.
Sparito. Esploso. Tutte le loro risorse non c’erano più e Clove sapeva
esattamente di chi fosse la colpa. La rabbia le montò dentro come un
fiume in piena.
Poco distante, Cato sbraitava
insulti al ragazzo del Distretto 3. Clove sentì un colpo secco, un
sonoro crack e il ragazzino cadde a terra morto con il collo spezzato.
Il cannone suonò.
Ma la furia di Cato non si
placò. Clove e Marvel gli si avvicinarono con cautela, cercando di
farlo tornare in sé. Era come tentare di domare una animale furioso,
imbestialito.
«NO! Dobbiamo tornare là
dentro, questa è l’ultima goccia! Io la uccido, la uccido con le mie
mani quella piccola, lurida...»
«Cato! Cato!» Esclamò Clove
cercando di bloccarlo, aiutata da Marvel. «Fermati un attimo e ragiona!
Non dobbiamo tornare nel bosco.» Cato smise di dimenarsi e si fermò, il
respiro pesante, gli occhi folli. «Chiunque abbia provocato
l'esplosione deve essere morto!»
Marvel le diede ragione.
«Esatto, deve essere saltato in aria, non può essere altrimenti!
Chiunque sia stato, ora è già all’altro mondo!»
Cato ci pensò su per qualche
istante, poi spostò lo sguardo verso il mucchio fumante di macerie.
«Tutte le nostre provviste...» Anche gli occhi degli altri due si
spostarono nella stessa direzione.
«Ce la caveremo.» Disse Clove
con freddezza.
«Forza, spostiamoci di qui,
così possono recuperare il corpo.»
Si allontanarono tutti e tre
verso il lago, cercando di calmarsi e di escogitare un piano, perché
tutte le risorse erano andate e non sapevano come fare per trovarne di
nuove. La soluzione era semplice, dovevano fare in modo di accorciare i
tempi e di eliminare i restanti tributi. Rimasero a pensare fino a
quando l’inno non interruppe il silenzio e in cielo comparve lo stemma
di Capitol. E poco dopo le immagini dei tributi morti: quello del 3
ucciso da Cato, quello del 10 morto quel mattino... e basta.
Cato imprecò di nuovo e si
alzò in piedi. «È ancora viva.» La sua voce era bassa e vibrante, piena
di disprezzo e crudeltà. Clove non poteva biasimarlo. Anche lei era
stanca delle bravate di quella ragazza. «Muoviamoci.»
Clove e Marvel recuperarono in
fretta le loro armi e con feroce determinazione si diressero tutti
e tre verso i boschi. Erano rimasti solo in otto adesso. I Giochi
si stavano dirigendo lentamente verso la fine. La caccia era aperta.
***
All’alba,
dopo un breve riposo, visto che tutto taceva, i tre Favoriti rimasti si
divisero, dandosi appuntamento il pomeriggio successivo alla
cornucopia. Restavano in otto ed escludendo loro tre i tributi da
eliminare erano solo cinque. Uno dei quali era probabilmente moribondo.
Poi, oltre al Ragazzo Innamorato, restava ancora la ragazza del 12,
ovviamente. Il bestione dell’11 e la ragazzina del suo Distretto, che
era ancora miracolosamente viva. E poi un altro tributo che Clove non
riusciva a ricordare.
L’idea di separarsi non la entusiasmava gran che, ma forse era meglio
così. Prima o poi sarebbe successo. Clove si inoltrò nel fitto della
foresta, con le orecchie tese a captare il minimo rumore, ma tutto era
silenzioso.
Così la ragazza ebbe abbastanza tempo per pensare e lo sfruttò,
esaminando per bene la sua situazione. Arrivò perfino ad accogliere
l’idea di non presentarsi all’appuntamento alla cornucopia. Quella era
la sua occasione per rompere l’alleanza. Perché tornare, poi? Dopo
quello che le aveva detto Cato, il suo debito con lui aveva cessato di
esistere. Poteva benissimo starsene per conto suo, cercare gli ultimi
nemici rimasti ed ucciderli e sperare che il gigante dell’11 trovasse i
suoi ormai non più alleati e che si uccidessero tra di loro. L’idea la
fece trasalire, il pensiero di Cato e Marvel morti la disorientò per
qualche istante.
Pensandoci bene, aveva vissuto con loro per tutto quel tempo, si erano
guardati le spalle a vicenda come dei veri compagni. Ma alla fine
dovevano morire, o se così non fosse stato voleva dire che sarebbe
morta lei. E non era forse meglio abbandonare l’alleanza ora, senza
lotte o liti, piuttosto che aspettare di rimanere loro tre e doversi
combattere a vicenda? In vecchie edizioni degli Hunger Games aveva
visto più e più volte queste situazioni: alla fine, quando restavano
pochi tributi, la tensione tra i Favoriti aumentava sempre di più per
la consapevolezza che presto uno di loro avrebbe tradito gli altri.
Doveva andare così, il vincitore era uno solo. Quella probabilmente era
la parte preferita del pubblico: vedere gli alleati litigare e iniziare
a colpirsi a vicenda, ammazzando quelli che fino a pochi minuti prima
avrebbero potuto considerare compagni.
Non era forse meglio evitare tutto questo? Lei, che ne aveva
l’occasione, avrebbe dovuto farlo. E lo avrebbe fatto.
Non avrebbe mai più rivisto Marvel... o Cato. Mai più: l’alleanza era
rotta.
Andò avanti tutto il giorno cercando di imprimersi per bene quel
pensiero nella mente. Quando si accorse che il momento dell’incontro
era vicino, cercò di non pensarci e concentrarsi sulla caccia. Ma non
incontrò nessuno per tutto il giorno, solo qualche animale selvatico.
Per battere la noia ed evitare di crucciarsi sulla sua decisione,
iniziò a tirare coltelli a bersagli immaginari, colpendo anche qualche
animaletto.
Proseguì in questo modo fino a quando ormai la sera iniziò a calare in
lontananza. In quel momento sentì due distinti spari di cannone
spezzare il silenzio, a breve distanza l’uno dall’altro. Due spari. Due
tributi morti.
Chi erano?
L’agitazione si impadronì di lei. Due morti.
Cosa doveva fare?
Si fermò, in preda all’angoscia. E se fossero stati Cato e Marvel?
Possibile che qualcuno avesse teso loro un’imboscata alla cornucopia?
Clove non sapeva darsi una risposta, ma era certa che doveva scoprirlo,
e subito, altrimenti l’ansia l’avrebbe uccisa. Non poteva aspettare che
comparissero le loro foto in cielo. Doveva sapere e subito.
Mettendo da parte i suoi propositi di non tornare più alla cornucopia,
iniziò a correre proprio in quella direzione. Non si era resa conto di
essersi allontana così tanto e quando finalmente arrivò nello spiazzo
non aveva più fiato e le gambe le dolevano.
E poi lo vide. Alzò lo sguardo verso di lei e balzò in piedi.
«Clove!»
Cato. Era vivo. Cato era vivo, il colpo di cannone non aveva segnato la
sua morte. Era vivo. E lei era tornata alla cornucopia e ora non
avrebbe più potuto scappare via. Si maledisse mentalmente per la sua
codardia. Alla fine, dopo tutto quello che aveva pensato, dopo la
decisione che aveva preso con difficoltà, era comunque tornata.
«Dov’è Marvel?» Chiese lei correndogli incontro.
«Io... non lo so. È da quasi un’ora che aspetto qui. Credevo
foste morti tutti e due.»
Clove riprese fiato. «Io credevo che voi foste morti.»
«Forse non tornerà.» Disse Cato, scrutando i boschi come se Marvel vi
potesse spuntare fuori da un momento all’altro.
«Stai dicendo che è morto?» Per un istante Clove arrivò persino a
pensare che Cato avrebbe potuto ucciderlo. Forse era il suo piano fin
dall’inizio, farli dividere e ucciderli uno alla volta. Forse ora
avrebbe ucciso lei.
«No. Forse non tornerà più perché non vuole farlo.» Fu allora che Clove
capì cosa intendeva Cato. Stava pensando a quello che aveva pensato lei
per tutto il giorno: rompere l’alleanza. «Credevo che tutti e due
aveste pensato di non tornare più.» Fece una breve pausa, poi la guardò
intensamente «Perché sei qui?»
La domanda colse Clove di sorpresa. «Perché tu sei qui?»
Cato scosse la testa ma non rispose e lasciò cadere l’argomento. Già,
perché Clove era lì? Doveva solo restare ferma nel suo proposito e non
tornare mai più. Invece le sue gambe avevano corso senza fermarsi fino
a quando lei non aveva scorso la testa bionda di Cato. Improvvisamente,
mentre lo guardava sedersi stancamente su una cassa di plastica
annerita, le tornò in mente quando era bambino, quando lo aveva
conosciuto. Era passato così tanto tempo.
Non potendo fare altro, Clove si lasciò cadere al suo fianco,passandosi
le mani nei capelli ormai sporchi e spettinati.
«Ma il cannone ha sparato due volte. Chi è morto?» Chiese lei,
arrovellandosi.
Cato scosse la testa. «Non lo so, non ho incontrato nessuno per tutto
il giorno.»
Nemmeno lui aveva avuto fortuna, allora. Clove chiuse stancamente gli
occhi. Cosa ne sarebbe stato di lei adesso?
Dopo molti minuti di silenzio partì l’inno di Capitol. Subito Cato e
Clove alzarono lo sguardo al cielo. Era il momento della verità,
avrebbero finalmente scoperto per chi erano suonati quei due colpi di
cannone.
L’inno si spense. Lo schermo si illuminò. Su di esso vi comparve lo
stemma di Capitol e poi... E poi comparve la foto di Marvel.
«Marvel...» Sussurrò Clove con voce bassa. Il suo cuore accelerò e lei
non poté negarsi di essere dispiaciuta per il ragazzo. Ma doveva
succedere. Doveva succedere, si ripeté nella mente, come per
convincersi.
La sua foto scomparve e fece posto a quella della ragazzina dell’11.
Poi di nuovo lo stemma e poi il cielo tornò ad essere sgombro. I due
abbassarono la testa, restando in silenzio. Sei, erano solo in sei ora.
Loro due, il tributo dell’11, entrambi quelli del 12 e un altro che non
doveva essere una grande minaccia, visto che né Cato né Clove avevano
idea di chi fosse.
La conclusione si avvicinava di ora in ora e presto sarebbe arrivato lo
scontro finale. E lei era lì, alla cornucopia. Con Cato. Di nuovo, si
chiese cosa ne sarebbe stato di lei.
Cato e Clove rimasero in silenzio, dandosi le spalle e scrutando ognuno
una determinata zona dell’arena. Erano solo quattro ora gli occhi
disponibili per controllare tutto quel vasto campo e non potevano
permettersi distrazioni. Si aspettavano un attacco da un momento
all’altro. Gli altri dovevano sapere che due dei Favoriti erano morti e
ne restavano due soltanto. Avrebbero potuto pensare di poterli
sopraffare se avessero agito con astuzia, ma si sbagliavano. Forse
avevano prevalso su Marvel, ma lui era solo. E per di più né Cato né
Clove sapevano come lui fosse morto.
Se gli altri tributi pensavano di poterli battere, che si facessero
avanti. Avrebbero scoperto la forza dei tributi del Distretto 2. Forse,
pensò Clove, arrivati a questo punto dei Giochi non era male avere
ancora un alleato. O forse, le sussurrò una vocina nella sua testa, era
un pessima mossa. Solo le circostanze avrebbero potuto farglielo capire.
Rimasero in silenzio, le orecchie tese, gli occhi attenti quando lo
stemma di Capitol City ricomparve nel cielo. I due si raddrizzarono ma
non si alzarono. I morti erano già stati annunciati e da allora nessun
cannone aveva sparato.
Questo poteva voler dire solo una cosa...
Dopo l’inno vi fu uno squillo di trombe. E le trombe significavano che
presto vi sarebbe stato un annuncio. Cato e Clove restarono in
silenzio, tesi e trepidanti. Forse quello avrebbe donato loro
l’occasione perfetta per scovare gli altri tributi ed ucciderli. Forse
gli strateghi avevano deciso di organizzare un festino o un banchetto e
quella era la migliore occasione che potessero sperare di ottenere per
agire.
Ma Clove si sbagliava, si sbagliava di grosso.
«Attenzione tributi, attenzione!» Tuonò la voce. «Prima di tutto, le
nostre congratulazioni ai sei valorosi guerrieri rimasti in gara!
Onoriamo il vostro coraggio e la vostra forza!» Vi fu un istante di
silenzio e il cuore di Clove iniziò a battere all’impazzata. In quel
preciso momento avrebbero potuto udire quella che sarebbe stata la
svolta finale dei Giochi.
«Ho un importante annuncio da comunicarvi, perciò prestate la massima
attenzione. Devo annunciare un... cambiamento nelle regole!» Clove si
fece ancora più attena, con il cuore in gola. «La regola che imponeva
l’incoronazione di un solo vincitore è stata... sospesa. Da questo
momento potranno essere incoronati due vincitori se entrambi provengono
dallo stesso Distretto e se saranno gli ultimi due a restare in vita.»
Ci fu una pausa. Il cuore di Clove si fermò temporaneamente, o almeno
così le sembrò. Prima che potesse formulare una qualsiasi ipotesi, la
voce riprese a parlare. «Ripeto: da questo momento potranno essere
incoronati due vincitori se provengono dallo stesso Distretto e se
saranno gli ultimi due a restare in vita. Buona fortuna e possa la
sorte essere sempre a vostro favore.» La comunicazione terminò e piombò
di nuovo in silenzio. Clove non si mosse, non respirò. Doveva essere
uno scherzo, un terribile scherzo. Non poteva essere vero, non poteva. Dopo tutto quello che
aveva vissuto, quello che aveva pensato. Di uccidere Cato, di vederlo
morire o di soccombere trafitta dalla sua spada... ora questo.
Potevano vincere entrambi. Potevano tornare a casa.
Alle sue spalle sentiva silenzio, nemmeno il suono di un respiro.
Lentamente si alzò in piedi. Le gambe tremanti quasi non la ressero.
L’emozione le stava quasi facendo venire le lacrime agli occhi. Un
debole sorriso, segno della speranza che rinasce, si fece largo sulle
sue labbra. Non ebbe il coraggio di voltarsi, aveva paura che, se lo
avesse fatto, avrebbe scoperto che l’annuncio era stato tutto un sogno.
Lentamente, come se una forza indefinita la bloccasse, si voltò verso
Cato. Anche lui si era alzato, e la guardava. La guardava come non
faceva da giorni. O forse come non aveva mai fatto. I suoi occhi
azzurri brillavano, non erano più cupi e distanti, erano vivi più che
mai, una fiamma danzante sotto il cielo che andava scurendosi. Anche
sulle sue labbra si dipinse un grande sorriso.
Senza dire una parola, senza nemmeno pensare, semplicemente seguendo il
suo istinto, Clove corse verso Cato. Anche lui avanzò di qualche
instabile passo vero di lei. E allargò le braccia. Clove vi si gettò
dentro con uno slancio un po’ troppo forte e per poco non caddero
entrambi a terra. Lo abbracciò come se fosse la cosa più naturale al
mondo.
Lei lo strinse così forte come non aveva mai fatto con nessuno e con
sua sorpresa anche lui la strinse, sollevandola da terra e fino quasi a
farle male. Ma a Clove non importava, il dolore se n’era andato via,
lontano. La tensione le scivolò di dosso come acqua, lasciando solo un
senso di calore e forza. E di ritrovata speranza.
Una sola, calda lacrima le scivolò sulla guancia, andandosi a posare
sulla giacca di Cato. Ma poi lei iniziò a ridere, più felice di quanto
non fosse mai stata in vita sua. Anche lui rise, iniziando a girare in
tondo. No, non era un sogno. Era reale.
Le regole erano state cambiate. Potevano vincere entrambi.
Tutte le angosce che le avevano affollato la mente si dissolsero mentre
entrambi cadevano a terra, ridendo come dei folli. Ora sì, che erano
imbattibili.
Insieme erano più forti e adesso sapevano che avrebbero combattuto
fianco a fianco fino alla fine. Non dovevano più preoccuparsi di dover
rompere l’alleanza o di doversi combattere. E tutto questo era
un’enorme vantaggio, perché c’era solo un’altra coppia in gara e loro
presto l’avrebbero trovata ed eliminata. Gli altri invece combattevano
soli e sarebbero stati una facile preda per loro due.
Rimasero lì, sdraiati nell’erba a ridere e a fissare il cielo che
diventava sempre più scuro fino a quando a Clove cominciò a fare male
la pancia. Allora smisero di ridere. Ma la felicità e l’euforia non li
abbandonò nemmeno per un istante.
«Torneremo a casa, Clove. Torneremo entrambi a casa.» Le sussurrò Cato,
voltandosi verso di lei. Clove sorrise e osservò con interesse la prima
stella comparire nel cielo scuro.
«Lo so.» Disse lei, allungando la mano sull’erba e stringendo quella di
Cato.
Chissà cosa stava succedendo ora nel Distretto 2. Chissà a cosa pensava
suo padre, o Damien o i loro compagni di Accademia. Probabilmente
stavano festeggiando, Damien escluso ovviamente, il fatto che i loro
ragazzi avrebbero potuto tornare a casa, tutti e due. E chissà cosa
pensava tutta Capitol nel vedere quella scena: i due spietati, letali
Favoriti che quasi si commuovono nel sentire la modifica delle leggi.
Ad ogni modo, Clove sapeva solo a quello che pensava lei, ovvero che
sarebbero tornati a casa tutti e due. E allora avrebbe potuto pensare
al futuro senza che una morsa di dolore la attanagliasse.
Lei e Cato, loro ce l’avrebbero fatta. Insieme.
SPAZIO
AUTORE
Salve
a tutti lettori e lettrici! Ecco finalmente il nuovo capitolo!
Allora... che ne pensate?
Siamo arrivati ad un punto davvero cruciale dei giochi: le regole sono
cambiate.
Nel libro vediamo solo la reazione di Katniss, ma io ho sempre cercato
di immaginarmi la reazione di Cato e Clove. D'altronde, loro era
l'unica altra coppia che sarebbe potuta tornare a casa. Ho sempre
cercato di immaginare le loro reazioni, le loro emozioni a riguardo. E
ho tentato di scriverle (spero in modo decente xD)
Dopo tutti i problemi di Clove, le paranoie, la paura del momento in
cui sarebbero rimasti loro due, faccia a faccia sapendo che solo un
poteva andare a casa.... E invece questo cambiamento. Be', non mi
dilungo oltre, lascio la parola a voi!
Sarei davvero, davvero molto felice di sapere cosa ne pensate,
quindi... recensite, mi farebbe piacere ;) Al prossimo capitolo!
Love always,
~ C
|
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Capitolo 18 *** 18. Together we can make it ***
Till your last breath
CAPITOLO 18
TOGETHER WE
CAN MAKE IT
«Se
partiamo subito, possiamo farcela.» La voce di Clove era decisa e
determinata. Forse non lo era mai stata così tanto nell’arena.
Determinata a vincere e a tornare a casa. La ragazza sistemò la sua
scorta di coltelli con cura, riponendoli con un ordine preciso nella
sua pesante giacca a vento. La sera prima non avevano nemmeno iniziato
ad ideare un piano. La felicità li aveva sopraffatti e per quel breve
lasso di tempo fuori dal mondo dei Giochi, avevano pensato solo a loro
stessi. Avevano festeggiato il cambiamento delle regole. Avevano
dormito sereni, spalla contro spalla, senza alcun timore.
Ma ora era arrivato un nuovo giorno, il sole mattutino splendeva in
cielo ed era tempo di agire. Non potevano più perdere un solo istante.
E poi, avevano un piano.
«Di sicuro adesso 12 starà cercando il Ragazzo Innamorato. Se noi lo
troviamo prima di lei, potremmo sbarazzarci di entrambi.» Clove chiuse
la zip della sua giacca, tenendo fuori un paio di coltelli da avere a
portata di mano. Anche Cato stava finendo di prepararsi e si legava la
lunga spada affilata alla cintura. Lei gli lanciò uno sguardo. Avevano
entrambi approvato quel piano e speravano di essere fortunati:
avrebbero potuto eliminare due avversari in una volta sola e se ci
fossero riusciti ne sarebbero rimasti solo altri due, prima della
conclusione.
«Perfetto. Sono pronto.» Cato le si affiancò ed entrambi guardarono il
bosco. Era davvero enorme e non avevano idea di dove potessero
nascondersi il Ragazzo Innamorato o la sua compagna. Però era poco
probabile che i due si fossero già ritrovati. L’annuncio era arrivato
di sera e trovare qualcuno di notte non era facile per nessuno. Tranne
che per Clove e Cato; loro amavano cacciare quando la luce del giorno
lasciava il posto al buio della notte.
Ad ogni modo era sorto da poco il sole e di sicuro la ragazza in fiamme
si era già messa sulle tracce del suo amato. Dovevano affrettarsi.
Camminarono per ore, sperando di trovarli. Ma non ebbero fortuna. Per
qualche strano scherzo del destino, pareva proprio che la fortuna non
stesse dalla loro parte in quei Giochi, ma da quella dei due patetici
innamorati sventurati del Distretto 12. Come se lo fossero davvero. Ma
per loro sfortuna il popolo di Capitol City era talmente ottuso da non
rendersi conto che quella era tutta una stupida recita.
Così, dopo ore e ore di ricerche senza frutti, decisero di tornare
indietro. Le risorse scarseggiavano ormai e dovevano mantenersi in
forze. E comunque, presto o tardi, avrebbero dovuto incontrarsi.
Probabilmente gli strateghi stavano già organizzando il loro prossimo
intervento e allora non avrebbero più avuto scampo.
«Torniamo al lago.» Propose Cato, facendo dietro front. «È la nostra
possibilità migliore. Là almeno avremo l’acqua e al cibo ci penseranno
gli sponsor.» Clove fu d'accordo con lui così si rimisero in marcia.
Per qualche strana ragione da quando erano rimasti solo loro due i
regali degli sponsor sembravano aumentare. Certo, ricevevano molti
paracaduti sin dall’inizio dei Giochi, ma allora non aveva bisogno di
niente visto che avevano già tutto quello che serviva loro. Ma adesso
che le scorte erano letteralmente andate in fumo i doni degli sponsor
erano diventati qualcosa di davvero prezioso. Anche perché ormai i
tributi da sponsorizzare non erano molti e probabilmente le scommesse
su chi avrebbe vinto impazzavano. Clove era quasi certa che loro
fossero, in tutti i sensi, i Favoriti alla vittoria. Probabilmente però
nei sondaggi vi era un testa a testa tra loro e i due innamorati. Ma
cosa avevano quei due che avrebbe potuto portarli alla vittoria? Solo
la fortuna. Cato e Clove invece ce l’avrebbero fatta con le loro forze.
Poi restava il tizio dell’11. Probabilmente anche lui poteva avere un
discreto numero di sponsor, ma Clove non l’aveva mai visto in giro,
nell’arena. E poi l’altro tributo di cui non ricordava né il nome né il
volto.
Camminarono per un po’ e finalmente arrivarono al punto di partenza. Si
lasciarono cadere stancamente al limitare della foresta, vicini al
lago. La loro missione era fallita, ma Clove non captava veri e propri
segni di delusione nell’aria.
«Ci è andata male.» Disse Cato, alzando lo sguardo al cielo. «Ma è solo
questione di tempo prima che gli strateghi organizzino qualcosa per
farci ritrovare. E allora ci sarà la resa dei conti.»
«Non vedo l’ora.» Gli rispose Clove, sorridendo meschinamente all’idea.
Poi però si fermò un istante a pensare. «Sai cosa ci servirebbe, per
quando arriverà quel momento?» Disse, mentre un’idea si faceva largo
nella sua mente. «Un’armatura. Tipo quelle che ci facevano usare
all’Accademia. So che siamo in due e siamo forti, ma è meglio non
sottovalutare i nemici. Soprattutto 12. Ha arco e frecce e da quel che
ho capito è capace di usarle molto bene. Se ci tendesse un agguato,
saremmo del tutto vulnerabili.» Clove lanciò uno sguardo a Cato e lo
vide pensieroso. Stava considerando l’idea.
Le armature che avevano all’Accademia non erano come quelle che avevano
indossato alla sfilata. Prima di tutto, non erano così vistose. Niente
oro, niente scaglie di drago. Erano semplici e color carne e aderivano
al corpo come una seconda pelle, proteggendone ogni centimetro. Erano
da portare sotto i vestiti così da sembrare invisibili; i nemici ti
colpivano ma non riuscivano a ferirti e non ne capivano la ragione.
Occupavano poco spazio ma allo stesso tempo erano molto resistenti.
Forse avrebbero ceduto sotto vari colpi di spada, ma avrebbero
sicuramente resistito a delle frecce.
«Forse qualche sponsor generoso ce le potrebbe procurare.» Cato guardò
in alto e ammiccò, certo che qualche telecamera lo stesse riprendendo.
Anche Clove alzò lo sguardo al cielo, lanciando però un muto messaggio.
Avere le armature sarebbe stato grandioso, ma c’era una cosa che
desiderava ardentemente riavere con tutte le sue forze, per l’atto
finale dei Giochi. Però sapeva bene che il suo desiderio non era
realizzabile. Così abbassò di nuovo lo sguardo su Cato.
«Sono felice, sai, di poter contare su di te fino alla fine. Insieme
siamo più forti.»
Lui le sorrise. Non lo disse, ma era ovvio che la pensava come lei.
Clove poteva leggerglielo negli occhi azzurri. Quegli occhi che non
aveva guardato per così tanto tempo, perché erano sempre distanti e
opachi, come se la loro luce si fosse spenta.
Improvvisamente, Cato balzò in piedi e si diresse con due lunghi passi
all’albero più vicino. Quello aveva un ramo robusto a qualche
metro dal suolo sul quale il ragazzo si issò senza troppi problemi. A
differenza dell’albero sul quale si era arrampicato per inseguire 12,
quello resse il suo peso.
«Vieni?» Le chiese, allungando la mano. «Da qui si vede tutto.»
Clove si alzò e lo raggiunse. Ignorò la sua mano tesa e si issò
sull’albero più goffamente di Cato, ma ad ogni modo si ritrovò seduta
al suo fianco, a soli pochi centimetri di distanza da lui. Davano le
spalle ai boschi e da lì potevano vedere il lago e la cornucopia in
lontananza. E poi, dietro quella, lo spiazzo vuoto che sembrava
culminare in un burrone dove loro non avevano mai messo piede.
«Ho sentito dire che quello è il territorio di Thresh.» Le disse Cato,
indicando lo strapiombo.
«Di chi?» Chiese Clove, cercando inutilmente di capire se fosse davvero
un burrone o se ci fosse qualcosa al di là.
«Thresh. Quello dell’11. Dicono che al di là ci siano dei campi.» Le
disse Cato, come se le avesse letto i suoi pensieri. Ecco perché 11
aveva scelto di andare là. Il suo Distretto era quello dell’agricoltura.
«Oh. Lui. Sembra un osso duro.»
Cato annuì. «Credo che lo sia. Ma noi siamo in due e lui è solo. Non
dobbiamo preoccuparcene.»
«No, hai ragione.» Clove sorrise. Sembrava un sogno essere lì con Cato,
pianificare quello che avrebbero fatto, studiare i loro nemici e
constatare di poterli facilmente battere, assieme. Senza più il peso
opprimente del dover rompere l’alleanza e scontrarsi tra di loro.
Chissà com’era felice Damien, a casa. Ora che il suo diabolico piano
era fallito.
Ci fu un istante di silenzio e Clove guardò Cato di sottecchi. Con
stupore, realizzò che il sorriso gli si stava affievolendo sulle
labbra. Clove si voltò in fretta verso la zona che, come lui le aveva
detto poco fa, era il territorio di Thresh. L’aveva forse visto
arrivare in lontananza? Ma no, guardò attentamente in tutte le
direzioni. Nessuno stava arrivando. Si voltò di nuovo a guardare Cato.
«Sai...» Iniziò lui, con voce bassa, come se stesse quasi sussurrando.
«Quando mio padre mi ha detto che mi sarei dovuto offrire volontario
per i settantaquattresimi Hunger Games non avevo idea di chi sarebbe
stato l’altro tributo.» Fece un pausa e abbassò lo sguardo. Clove
invece continuò a fissarlo intensamente. «L’ho scoperto solo al giorno
della mietitura.»
Il cuore di Clove perse un battito. Improvvisamente la sua mente tornò
indietro, veloce come un fulmine, tornò a quel giorno. Lei si era
offerta volontaria e poi aveva cercato il volto di Damien tra la folla,
ma non lo aveva trovato. L’uomo di Capitol aveva chiesto se ci fossero
volontari tra i ragazzi. Ma nessuno aveva risposto. Clove aveva pensato
che quel codardo di Damien si fosse tirato indietro all’ultimo momento.
Ma si era sbagliata.
Perché non era stata la sua voce a parlare, poco dopo. Ma quella di
Cato.
Cato, che aveva esitato prima di proclamare con voce decisa che si
sarebbe offerto.
Cato aveva esitato. Clove non ci aveva più pensato dopo quel giorno,
aveva semplicemente dimenticato quel fatto, ma ora lo ricordava
nitidamente, come se le stesse accadendo davanti agli occhi in quel
preciso istante.
Cato alzò lo sguardo su di lei, rivolgendole un mezzo sorriso colmo di
qualcosa che sembrava tristezza mascherata da ironia.
Aveva esitato perché non si aspettava di vedere lei offrirsi volontaria.
E si era offerto perché suo padre aveva deciso così. E la posizione di
suo padre superava quella del padre di Damien. Per questo c’era stato
lo scambio.
Clove aveva sempre pensato che Cato lo sapesse, sapesse che lei si
sarebbe offerta e che non gliene importasse nulla. Ma questo, quelle
parole... quelle cambiavano tutto.
Ora fu lei ad abbassare lo sguardo. «Nemmeno io sapevo che saresti
stato tu.» Ammise con voce sottile. Sentì uno strano calore pervaderla
e salirle fino alle guance, infiammandole.
«Cosa?» Chiese lui, sorpreso.
«Io... io pensavo sarebbe stato Damien. Ma lui mi ha imbrogliata. Me lo
ha fatto credere fino alla fine. Alla mietitura, pensavo si sarebbe
offerto lui. Ma ho scoperto che mi sbagliavo. Ovviamente.» Anche sulle
labbra di Clove si dipinse un debole sorriso di falsa ironia.
«Ora capisco cosa intendevi nelle interviste.» Cato tornò a fissare il
cielo, con un sorriso divertito sulle labbra. «Quando dicevi di volerti
vendicare di un ragazzo. Ora capisco il perché. E sappi che ti aiuterò
a farlo, una volta tornati a casa.» Proclamò lui con decisione. «Quel
maledetto ragazzino ne ha già combinate troppe, per i miei gusti. Credo
sia ora di mettere fine alla sua patetica esistenza.»
Clove si mise a ridere mentre pensava a Damien, che probabilmente ora
li stava osservando carico di rabbia e paura perché loro avevano appena
decretato la sua morte. E mentre lei rideva, Cato estrasse la spada e
con un movimento fluido fendette l’aria sopra le loro teste. Clove lo
guardò senza capire ma poi sentì un suono ai suoi piedi, parecchi metri
più sotto. Abbassò lo sguardo e vide un piccolo oggetto metallico che
fumava e sfrigolava.
«Quella è... è una telecamera?»
«Sì.» Rispose Cato ridacchiando.
«Ma come... come...»
«Non ti stanchi mai? Di essere osservata dico. Io sì, così ho capito
come eliminarle. Almeno per qualche minuto. Qualche minuto di tregua»
Entrambi si misero a ridere. Clove guardava Cato. Non le sembrava
neanche più di essere nell’arena degli Hunger Games, le sembrava di
essere a casa, al Distretto 2. E ora che tutto era chiaro, ora che
avevano realizzato che nessuno dei due sapeva che avrebbe trovato
l’altro nell’arena, sembravano essersi aperte un migliaio di porte
davanti a loro. Tante domande ottennero risposta, tanti dubbi vennero
chiariti.
E Clove capì che quando Cato era distante e la trattava come una
sconosciuta, stava semplicemente pensando a quello che lei aveva
pensato sin dall’inizio. Al fatto che si sarebbero dovuti uccidere, al
fatto che, alla fine dei Giochi, uno dei due non sarebbe tornato a
casa. Clove avrebbe voluto sapere a cosa pensava Cato in quei momenti.
Ma ora lo sapeva. Non poteva essere più chiaro di così.
Allora, dopotutto, non era vero che non gli importava di nulla. Perché
tutto ciò voleva dire che, alla fine, Cato ci teneva a lei. In un
qualche modo contorto e incomprensibile, ma doveva essere così.
«Non sopportavo l’idea di ucciderti.» Le confessò Cato, come se le
avesse letto nel pensiero. «Sapevo che, una volta arrivato il momento,
avrei dovuto farlo. Che altra
possibilità avevo?» Il ragazzo abbassò lo sguardo, come se si
vergognasse di quello che aveva detto. Clove, seguendo il suo istinto,
abbassò la sua mano, posandola sopra quella di lui, stringendola. Non
doveva sentirsi male per aver pensato di doverla uccidere. Anche lei lo
aveva fatto. D’altronde, non c’era altro modo. Stava per dirglielo, ma
lui riprese a parlare, abbassando lo sguardo sulle loro mani
intrecciate.
«Non siamo mai stati veramente amici a casa, ma... alla fine credo di
essermi affezionato a te. Alla ragazza che ho conosciuto quando ero
ancora un bambino. Che mi aveva guardato dritto negli occhi, con aria
di sfida.» Cato ridacchiò al ricordo. Clove non pensava nemmeno che lui
ricordasse ancora quel giorno.
Ma il ragazzo non le diede il tempo di commentare e proseguì. «La
ragazza che a soli nove anni avrebbe potuto stendere quell’idiota di
Damien e tutta la sua banda. Che malgrado una così grande
sofferenza...» Disse, alludendo alla perdita della madre. «È stata in
grado di entrare all’Accademia e di battere tutti diventando una dei
più forti. Quasi al mio livello.» Concluse ridacchiando.
Clove sorrise. Le loro mani si stringevano ancora. Non erano mai stati
così vicini. La telecamera era ancora a terra, fumante. Era come se
fossero soli, in quel momento. Nessuno poteva vederli, negli schermi
del reality. Così, abbandonandosi a quei pensieri, fu come se una forza
esterna li spingesse una verso l’altro, attirandosi come delle
calamite, come due pezzi di un qualcosa che erano destinati a riunirsi.
Le loro labbra si sfiorarono, leggere come la brezza che soffiava tra
le foglie degli alberi. La mano di Clove si posò sulla guancia di Cato,
proprio dove solo pochi giorni prima vi aveva estratto il pungiglione
velenoso di un ago inseguitore. Il cuore le batteva forte, mentre Cato
appoggiava la fronte alla sua, chiudendo gli occhi.
«Vinceremo Clove. Torneremo a casa. È così che deve andare.» Sussurrò
piano lui.
«Andrà così, Cato.» Le rispose lei, sussurrandogli a fior di labbra.
Quello stesso giorno fu lo squillo di trombe a rompere il silenzio,
com’era successo la volta precedente. La pace che si era creata nella
radura, l’armonia, la tranquillità fu come spazzata via da quel suono.
Cato e Clove balzarono in piedi, uno affianco all’altra, e alzarono lo
sguardo al cielo, dove lo stemma di Capitol aveva oscurato ogni cosa.
Pensarono entrambi la stessa cosa, probabilmente, perché la mano di
Clove cercò quella di Cato e quando la trovò, lui la strinse con forza.
No no no no no no no. Ti prego, no.
Il terrore la pervase, facendola quasi tremare. Non potevano farlo. Non
potevano annullare la nuova regola dei due vincitori. Non ora, non dopo
quello che era successo tra di loro, quello che si erano detti... non
potevano.
Ma i nervi di Clove, e anche quelli di Cato, si sciolsero
immediatamente quando sentirono l’annuncio. Un festino.
Ecco cosa gli strateghi avevano organizzato per riunirli e farli
combattere.
«Badate bene, questo non sarà un festino ordinario.» Esclamò la voce
che dava l’annuncio. «Ognuno di voi ha disperatamente bisogno di
qualcosa.» Ci fu una pausa. «E troverete quel qualcosa alla cornucopia,
all’alba. Pensateci bene, prima di rifiutare. Per alcuni di voi
potrebbe essere l’ultima opportunità.» La voce si spense e il cielo
tornò limpido.
La tensione di poco prima se n’era già andata e sulle labbra di Cato e
Clove si era già dispiegato un sorriso d’intesa. Proprio quando avevano
realizzato di aver bisogno di qualcosa ecco che gli strateghi gliela
offrivano su un piatto d’argento. E non solo stavano donando loro le
armature, ma anche una grande occasione.
Si scambiarono uno sguardo.
«È il nostro momento.»
Clove annuì. «Sì. Sarà la nostra migliore occasione per concludere
tutto questo. Ci saranno tutti, ne sono certa. Se ognuno dei tributi
rimasti ha un bisogno disperato di qualcosa, saranno tutti là.»
«Scommetto che 12 avrà bisogno di una medicina.» Cato sghignazzò. «Sai,
per curare il Ragazzo Innamorato.»
«Lo penso anche io. Lei ci sarà di sicuro. E noi non ci faremo cogliere
impreparati, non questa volta.» La voce di Clove si fece spietata e
beffarda. «Sarà l’ultima volta che vedrà la cornucopia. Sarà l’ultima
volta che vedrà qualsiasi cosa.»
Sussurrò Clove, con determinazione.
«Ci puoi giurare. Ora dobbiamo solo organizzarci. Organizzare il piano
d’attacco.»
Clove annuì e i due decisero di spostarsi al limitare della foresta.
Non era bene stare troppo vicini alla cornucopia, era meglio osservarla
da lontano, da dietro il lago, in modo da avere la situazione sotto
controllo mentre pianificavano come agire per il festino.
Mentre si inoltravano nel bosco però, Clove fermò Cato. Lo sguardo
della ragazza era più serio che mai.
«Che c’è? Che succede?»
«Voglio solo chiederti una cosa.» Clove fece una pausa e il suo sguardo
si fece feroce. «Lascia a me la ragazza. Mi occuperò io di lei, questa
volta. Voglio mettere fine io alla sua vita. Ti prometto che se me lo
lascerai fare, offrirò al pubblico un bello show.»
Cato la osservò per qualche istante, in silenzio. Gli occhi di Clove
sembravano sparare scintille. L’odio per quella ragazza era aumentato
ancora di più, dopo l’annuncio dei due vincitori. Clove sapeva che
avrebbe lottato per salvarsi la pelle e per riportare a casa anche il
suo ragazzo. Ma lei era stufa di tutta quella recita. Erano arrivati
fin lì solo perché avevano finto di essere innamorati sventurati. Ma
ora era il capolinea. La cornucopia sarebbe stata l’ultima fermata per
la ragazza in fiamme.
Cato si aprì in un sorriso divertito. «Ok. Va bene, suppongo di
dovertelo. Mi è già sfuggita due volte. La lascerò a te. Però... stai
attenta.»
Clove sorrise, raggiante. «Non preoccuparti, so quello che faccio.»
Detto questo, si avviarono per iniziare a progettare il loro piano.
Questa volta ci sarebbero riusciti, se tutto fosse andato bene
avrebbero potuto eliminare tutti i tributi rimasti. E allora sarebbero
rimasti loro due. E sarebbero stati incoronati vincitori.
SPAZIO AUTORE
Saaalve
lettori e lettrici!
Sono davvero davvero curiosa di sapere cosa ne pensate di questo
capitolo, con un'atmosfera decisamente diversa da quelle dei capitoli
scorsi ambientati nell'arena! Avevamo lasciato, nello scorso capitolo,
Cato e Clove al settimo cielo per l'annuncio dei due vincitori. Ora
abbiamo visto come questo annuncio li abbia fatti aprire uno verso
l'altra. Cato non sapeva che Clove si sarebbe offerta volontaria. E –
ma questo lo sapevamo già – nemmeno Clove lo sapeva. Alla fine, Cato
non è una macchina senza sentimenti, per niente. O almeno, questa è la
mia versione della storia :D
Spero non abbiate trovato il tutto troppo “sdolcinato”, in tal caso, mi
scuso! Ma ci tenevo davvero a dare a loro due almeno un momento di pace
nell'isteria dell'arena ♥
Ora la smetto di blaterare e lascio a voi la parola! Ricordatevi che un
commento mi fa sempre piacere ;)
Grazie a tutti e al prossimo capitolo ♥
~ C
|
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Capitolo 19 *** 19. Stay With Me ***
Till your last breath
CAPITOLO 18
STAY WITH ME
Il
bosco era buio e silenzioso. Gli alti rami stipati di foglie scure
oscuravano il cielo ma Cato e Clove camminavano veloci, a proprio agio
anche nel buio. Sapevano che mancava poco all’alba, ormai. Il tempo
dell’azione si avvicinava sempre di più.
Il loro piano era pronto, ora. E loro si stavano spostando per occupare
le posizioni prestabilite. Cato si sarebbe nascosto al limitare della
foresta, vicino alla territorio misterioso e inesplorato dove si
nascondeva Thresh. Clove invece si sarebbe nascosta nel bosco, vicina
alla cornucopia. In quel luogo, avrebbe aspettato fino a quando la
ragazza del 12 non si fosse decisa ad uscire allo scoperto. Solo allora
avrebbe attaccato. E una volta partita, non si sarebbe dovuta
preoccupare di nulla se non di ucciderla. Cato le copriva le spalle e
avrebbe intercettato Thresh non appena lo avesse visto dirigersi alla
cornucopia. Una volta uccisa 12, Clove sarebbe corsa ad aiutarlo, nel
caso ne avesse avuto bisogno, ovviamente, per sconfiggere il nemico. Se
fossero stati fortunati, avrebbero trovato anche l’ultimo tributo e poi
sarebbe rimasto solo il Ragazzo Innamorato. Ma erano certi che, senza
la medicina di cui aveva disperatamente bisogno, la natura l’avrebbe
ucciso prima ancora che loro lo trovassero.
Questo era il loro piano. E se tutta andava come avevano previsto, i
Giochi sarebbero presto finiti. E loro sarebbero stati incoronati
vincitori. Presto, avrebbero potuto tornare a casa.
Immersa nei suoi pensieri, Clove quasi non si rese conto di essere
arrivata. Erano ad un bivio ora e lì le loro strade si sarebbero
divise: lei si sarebbe diretta verso il limitare della foresta, verso
la cornucopia; Cato avrebbe proseguito dritto, girando attorno alla
radura e portandosi il più vicino possibile al luogo dove si sarebbe
nascosto Thresh.
Si fermarono. Erano sicuri del loro piano, erano decisi, pronti e
combattivi. Letali e senza scrupoli. Ma in quel momento, in quel solo
momento, esitarono. Clove non avrebbe voluto dividersi da lui, ma
sapeva che era la cosa giusta da fare. Andare tutti e due alla
cornucopia sarebbe stata una follia. Thresh avrebbe potuto tendere loro
un’imboscata ed ucciderli. Dovevano
dividersi, non c’era altro modo.
Clove abbassò lo sguardo. «Allora siamo arrivati. Buona fortuna, Cato.»
Lui le si avvicinò e la costrinse a guardarlo. Le strinse le mani, i
loro volti erano così vicini che a lui bastò sussurrare per farsi
sentire. Clove ricordò quando le loro labbra si erano sfiorate, il
giorno prima. Era inesperta in materia, ma era stata una sensazione
magnifica, che l’aveva scaldata dall’interno. E ora il solo pensiero di
perdere Cato la faceva sentire come prima, come quando aveva paura del
futuro, quando pensava che avrebbe dovuto ucciderlo.
«Non abbiamo bisogno di fortuna, Clove.» Le sussurrò Cato. «Noi abbiamo
la forza e la tecnica. Non ci serve altro.»
Clove sorrise debolmente. Non voleva che Cato la vedesse tesa. «Ad ogni
modo, sii prudente.»
«Anche tu. Ma non preoccuparti, ci rivedremo presto. E a quell’ora i
Giochi saranno finiti e io e te saremo i vincitori. Ok?»
Clove annuì ma non riuscì a trattenersi e lo strinse per qualche
secondo in una abbraccio. Inspirò a fondo, cercando di assorbire la
forza e la sicurezza che l’abbraccio di Cato le trasmise. «Vai, ora.»
Lui si sciolse dall’abbraccio e le strinse la mano un’ultima volta.
Poi, dopo averla guardata bene, come se volesse imprimesi il suo volto
nella memoria, si voltò e si inoltrò nel bosco. Clove rimase qualche
istante ad osservarlo mentre si allontanava, fino a quando l’oscurità
lo inghiottì e lui scomparve nel buio. Allora prese un profondo respiro
e riprese la sua strada. Non poté evitare però di pensare ancora a
Cato. A come fossero cambiate le cose tra loro. Prima dei Giochi erano
solo conoscenti e niente di più. Ora invece... invece cos’erano? Amici?
Forse. Qualcosa di più? Clove non lo sapeva, sapeva soltanto di tenere
a lui più di ogni altra cosa al mondo. Ci teneva così tanto che il solo
pensiero di perderlo le faceva male.
Ma ora, pensò iniziando a intravedere la luce dell’alba e lo scintillio
della cornucopia, non poteva permettersi di pensare a lui. Doveva
concentrarsi sul presente, sul piano.
Doveva essere concentrata al massimo, non poteva permettersi di
fallire. Non ci sarebbero state altre possibilità altrimenti. Doveva
scacciare, sebbene a malincuore, tutti i pensieri su Cato. Lui la
distraeva, i ricordi le annebbiavano la mente, i sentimenti ancora
incompresi che provava per lui la rendevano debole. Doveva isolarli e
rinchiuderli in un recesso remoto della sua testa. Almeno per allora.
Doveva tornare ad essere Clove, la ragazza fredda e calcolatrice.
Letale e senza scrupoli. Strinse tra le mani un paio di coltelli e
subito il freddo famigliare del metallo le infuse forza e sicurezza.
Clove, la ragazza che non sbaglia mai il colpo.
Rimase in silenzio a lungo, acquattata nell’ombra, in attesa. Aveva
visto il lungo tavolo con gli zainetti adagiati sopra. Lì dentro
c’erano le cose delle quali ognuno di loro aveva disperatamente
bisogno; tra di essere, le loro armature. Erano quattro zainetti. Il
primo aveva sul davanti un grosso numero due. Il loro.
Il secondo aveva un cinque. Quindi il tributo di cui non si ricordava
veniva del Distretto 5. Probabilmente era la ragazza, ragionò Clove. Se
non ricordava male il ragazzo era morto nel bagno di sangue. Cercò in
ogni modo di ricordarsela ma aveva solo vaghi ricordi. Non era nulla di
eccezionale durante gli allenamenti. Non era una minaccia per lei.
Probabilmente era sopravvissuta grazie all’ingegno, molti altri tributi
l’avevano fatto in altre edizioni. Di fianco allo zaino con il numero
cinque ce n’erano due. L'undici, ovviamente, quello di Thresh e di
fianco quello del dodici, che doveva contenere la medicina del Ragazzo
Innamorato.
Clove rimase pazientemente in attesa fino a quando notò un movimento.
Ma, con sua grande sorpresa, non proveniva dalla foresta. Arrivava da
dentro la cornucopia.
Clove si mise sull’attenti, pronta a partire all’attacco. Ma poi si
fermò.
Era la ragazza del 5. Si era nascosta nella cornucopia e ora afferrava
velocemente il suo zaino e poi si dirigeva verso il bosco, correndo
rapida e senza mai voltarsi indietro. Dunque era davvero per questo che
era sopravvissuta. Astuzia e ingegno. C’erano molti tributi che
arrivavano vicino alla vittoria restando nascosti per tutti i Giochi,
senza uccidere nessuno, semplicemente sopravvivendo. Quella doveva
essere la tattica della ragazza dai capelli rossi del 5. Clove strinse
i pugni, costringendosi a stare ferma e a non attaccare. Un preda
scoperta come quella sarebbe stata facile da abbattere, anche perché
pareva del tutto disarmata. Ma non poteva fare nulla, doveva attenersi
al piano e aspettare che arrivasse la ragazza del 12.
Proprio mentre passava lo sguardo verso i boschi per capire se stesse
succedendo qualcosa, la vide. La ragazza in fiamme.
Si era fatta avanti dopo aver visto quella del 5 fuggire e ora si
guardava attorno, circospetta, indecisa sul da farsi. Non c’era traccia
del Ragazzo Innamorato. Clove indietreggiò tra gli alberi e quando fu
certa di non poter essere vista, iniziò a correre. Si portò in fretta
sul retro della cornucopia e corse allo scoperto. Ma da quella
posizione, 12 non poteva vederla. Rallentò la sua corsa solo quando le
sue mani si posarono sul metallo della coda della cornucopia. Riprese
fiato.
E attese in silenzio. Poi sentì. Sentì i passi veloci di 12 che correva
sull’erba, dalla parte opposta a lei, dritta verso la bocca della
cornucopia. Clove non ebbe esitazioni.
Si buttò di lato e aspettò solo un frazione di secondo, per
identificare la posizione della sua preda. La vide, era lei. Questo le
bastò. Scagliò con furia il suo primo coltello.
La ragazza però riuscì a deviarlo e le sparò contro una freccia, dritta
verso il suo cuore. Clove si scansò veloce, ma non abbastanza. La
freccia arrivò sibilando e la colpì al braccio sinistro. Rallentò
l’andatura ed estrasse la freccia, gettandola a terra con rabbia e poi
lanciò il secondo coltello. Questa volta il colpo andò a segno.
Lo capì dal sangue che iniziò a fuoriuscire da una ferita superficiale
alla fronte di 12. Non era una ferita mortale, ma bastò a
disorientarla. Infatti quando lanciò un’altra freccia nella sua
direzione, fu facile per Clove evitarla. Approfittando della debolezza
del nemico, le si gettò addosso con furia e la forza dell’impatto le
fece cadere entrambe a terra.
La ragazza in fiamme sbatté la schiena con violenza e chiuse gli occhi
ma non si arrese e cercò in ogni modo di disarcionarla. Si ritrovarono
a rotolare sull’erba un paio di volte, combattendo con braccia e gambe.
Ma alla fine, ovviamente, Clove ebbe la meglio.
Con prontezza, si apprestò a bloccarle le ginocchia in modo che non
potesse più sfuggirle. Era sua ora, la preda era caduta nella trappola
della predatrice. E quella era un trappola senza vie di fuga, pensò
Clove con malvagità, stringendo la presa.
«Dov’è il Ragazzo Innamorato? È ancora in giro? Aspetta che tu gli
porti la medicina? Che cosa dolce.» Sussurrò Clove, la voce profonda e
carica di veleno mentre teneva bloccata la sua preda a terra. Guardò da
così vicino il volto della ragazza che tanto odiava per la prima volta.
Non era nulla di speciale, era solo una ragazza, una normale ragazza.
Ma Clove la odiava, perché li aveva presi in giro tante volte
nell’arena, le era sfuggita, aveva preso un voto più alto del suo alle
sessioni con gli strateghi. Aveva attirato tanti sponsor non per un suo
merito personale, ma solo grazie alle abilità del suo stilista e allo
show del Ragazzo Innamorato. Cos’aveva fatto di suo pugno? Cosa? Nulla.
Aveva solo accettato la fortuna che le era piombata addosso e usato
bene il suo maledetto arco. Tutti l’amavano già dal principio perché si
era offerta volontaria al posto della sorellina. La sua fama era
cresciuta dopo la sfilata, perché il suo stilista aveva deciso di
mandarle in fiamme il vestito. Poi c’era stata la volta delle sessioni
private. E poi alle interviste, dove si era messa a volteggiare in modo
così sciocco, mandando in fiamme anche quel secondo abito. E poi era
arrivata tutta quella balla colossale degli innamorati sfortunati.
Clove non metteva in dubbio il fatto che lui fosse innamorato di lei. Ma lei
non lo era. Non le importava niente di tutto quello show, voleva solo
tornarsene a casa. Ma non ce l’avrebbe fatta. Clove l’avrebbe impedito.
Avrebbe dimostrato che la fortuna non sempre può vince.
«Lui è la fuori. Sta dando la caccia a Cato.» Disse la ragazza,
guardandola con sfida. «Peeta!» Urlò poi. Clove le premette il gomito
sulla trachea, impedendole di urlare, poi si guardò attorno,
attentamente. Ma il Ragazzo Innamorato non si vedeva. Stava bluffando,
era ovvio. La cosa che odiava più di tutto, era la sua spavalderia. Ma
preso avrebbe perso anche quella. Presto avrebbe perso tutto.
«Bugiarda.» Le disse Clove sorridendo con aria di scherno. «Cato l’ha
colpito ed è un miracolo che sia ancora vivo. L’avrai lasciato da
qualche parte, morente, in attesa della sua medicina. Peccato che non
la otterrà mai.» La ragazza si aprì la giacca e afferrò un nuovo
coltello, piccolo e dalla lama ricurva. «Ho promesso a Cato che, se ti
avesse lasciata a me, avrei offerto al pubblico un buono spettacolo. Ma
la tentazione di eliminarti subito è forte.» Clove si mordicchiò il
labbro, indecisa. Si fermò ad osservare attentamente il viso della sua
nemica, a studiarlo. Ora capiva perché la odiava così tanto. Non lo
aveva mai realizzato perché per tutto quel tempo non aveva pensato a
Cato in quel modo. Ma ora
aveva capito che 12 e il suo compagno non erano i soli innamoratati
sventurati di quei Giochi. Anzi, non lo erano nemmeno per davvero. Lei
aveva solo sfruttato quella storia per ottenere sponsor. Non sapeva,
non lo sapeva cosa volesse dire vive ogni giorno nella disperazione
dovuta al fatto di sapere di dover perdere una persona così importante.
La certezza che uno dei due sarebbe morto, che per loro non ci sarebbe
stato un futuro. Non lo sapeva, perché per lei era solo una recita.
La rabbia le crebbe dentro ma poi si ricordò improvvisamente che c’era
stato qualcuno a cui aveva tenuto davvero. Qualcuno che poi aveva perso.
La ragazza in fiamme cercò inutilmente di divincolarsi e di liberarsi,
ma Clove strinse la presa su di lei, immobilizzandola. «Lascia perdere,
12.» E poi decise di attaccare e di farla soffrire in ogni modo
possibile. Era quello che si meritava, pensò Clove con cattiveria,
alimentata da una folle rabbia. «È tutto inutile. Ti uccideremo.
Proprio come abbiamo fatto con la tua amichetta. Come si chiamava? Rue?
Prima Rue, poi te e poi verrà il turno del Ragazzo Innamorato. Ma credo
che senza quella medicina non ci sarà nemmeno il bisogno di un nostro
intervento.» Clove ridacchiò, spietata. «Sarà meglio iniziare.»
Detto questo, calò il suo coltello, ma a pochi centimetri dal suo viso
si bloccò. «Vuoi mandare un ultimo bacio al Ragazzo Innamorato? Ti
conviene approfittarne, non credo che avrai molte altre occasioni
simili, dopo.» La ragazza iniziò a divincolarsi, cercando di
gridare, rabbiosa. Ma non c’era nulla che potesse fare. Clove posò la
lama sulla sue pelle, sul bordo delle sue labbra e aprì un piccolo
taglio.
Un sorriso folle, malsano le si dipinse sulle labbra sottili. Non era
più in lei, l’odio e la frustrazione accumulata in tutti quei giorni
nell’arena stavano ottenendo il proprio sfogo in quel momento.
Allontanò il coltello dalle labbra di 12 e prese la mira, pronta a
mettere fine alla sua vita una volta per tutte.
Ma il suo colpo non calò mai. Qualcosa la afferrò da dietro. Clove fu
colta totalmente alla sprovvista mentre una forza a lei sconosciuta la
sollevava da terra. Il coltello le sfuggì dalle mani e un flebile grido
le sfuggì dalle labbra. No,
non è possibile.
Ora vedeva il volto del suo aggressore. La teneva sollevata da terra,
soffocandola. Clove scalciò nel vano tentativo di liberarsi, ma era
tutto inutile. Thresh l’aveva presa.
Che cosa era successo? Cato avrebbe dovuto occuparsi di Thresh. Le
guardava le spalle, in attesa di vederlo arrivare. Thresh aveva forse
ucciso Cato? Impossibile, nessun cannone aveva sparato. Allora la
ragazza arrivò alla conclusione più ovvia: Thresh non era arrivato da
dove loro si aspettavano che arrivasse. Veniva dalla foresta. Gli era
piombato alle spalle ma lei, troppo presa com’era nella sua vendetta,
non lo aveva sentito.
E ora Cato era lontano, dalla parte opposta della radura, ad aspettare
un nemico che non sarebbe mai arrivato. Perché aveva già raggiunto il
suo obiettivo.
La faccia scura di Thresh era colma di rabbia, la sovrastava, era
grosso e possente e la teneva sollevata da terra senza il minimo
sforzo. Poi, senza preavviso, la lanciò in aria. Clove cadde a terra,
gemendo, e un terrore senza precedenti invase ogni nervo del suo corpo
mentre cercava di rialzarsi, senza riuscirci. Gattonò all’indietro,
senza capire più nulla. Non sapeva cosa fare, sembrava quasi che la sua
testa si fosse svuotata. Tutto ciò che aveva imparato all’Accademia, i
suoi coltelli... tutto andato, perduto.
«Cosa hai fatto a quella ragazzina? L’hai uccisa? L’HAI UCCISA?!» Tuonò
lui e il suono della sua voce, profonda e graffiante, risvegliò in lei
una paura che non aveva mai provato.
«No!» Esclamò Clove, rimettendosi in piedi a fatica. «No!»
«Hai detto il suo nome! Era il suo nome!» Urlò lui, avvicinandosi con
impeto a Clove.
«No! Non sono stata io!» Ma lui avanzò ancora e la inchiodò contro la
cornucopia, senza lasciarle via di scampo. E fu in quel momento che
Clove vide cosa Thresh stringeva in una mano. Un sasso, una grande
sasso grigio.
No no no no no. Oh, ti prego, no!
Quella visione risvegliò Clove all’improvviso. Non poteva arrendersi
così, senza lottare. Non poteva andarsene, non ora. Aveva promesso a
Cato di tornare. Cato...
«Cato!» Urlò, ricordandosi del ragazzo. «CATO!» Il suo urlo riecheggiò
nella radura, straziante, carico di terrore.
«Clove!» La risposta di Cato le arrivò alle orecchie, infondendole una
debole luce di speranza. Non voleva ammetterlo a sé stessa ma dentro di
lei lo sapeva già: la sua voce era troppo lontana. Lui non sarebbe mai
arrivato in tempo.
Clove scalciò, cercando di allontanare da lei quel gigante
dall’espressione folle, ma era tutto inutile. Non era abbastanza forte.
Cato. Cato. Cato! Era tutto
quello a cui riusciva a pensare, l’unico appiglio che trovò in quel
mondo di terrore. L’unico nome che le impediva di impazzire.
Ma di nuovo, fu tutto inutile. Chiuse gli occhi quando vide il braccio
di Thresh alzarsi e calare il masso verso di lei, veloce e letale.
Il dolore esplose veloce come uno sparo di cannone. Non aveva mai
sentito niente di più terribile. La testa le esplodeva, sangue caldo le
colava tra i capelli corvini mentre senza forze si accasciava a terra.
Aumentava sempre di più, facendole lacrimare gli occhi che, tuttavia,
non riusciva a chiudere. Credeva che se l’avesse fatto non li avrebbe
mai più potuti riaprire. E c’era ancora una cosa che voleva fare, prima
di andarsene.
Le immagini ora le arrivavano sfocate, ma vide il suo assassino e 12
che parlavano. E capì che per lei era finita. Capì che i Giochi le
avevano portato via tutto, persino la sua sanità mentale e la sua
umanità. L’avevano resa un animale, le avevano fatto uccidere altri
ragazzi. Le avevano fatto perdere tutto e lei se n’era accorta soltanto
ora.
Pensò a suo padre, a casa. Pensò a lui mentre la guardava spegnersi
nello schermo. Lo aveva lasciato solo, solo in quell’universo di dolore
che ora non avrebbe fatto altro che ingrandirsi e inghiottirlo ancora
di più. Pensò a sua madre, che non avrebbe mai voluto questo per lei.
Non avrebbe mai voluto vedere la sua famiglia andare a pezzi. Pensò a
Damien, che aveva finalmente ottenuto la sua vendetta. Sarebbe stato
felice, ora? Nel vederla a terra? Non avrebbe mai scoperto se la sua
storia era vera, se erano veramente fratello e sorella. Non l’avrebbe
mai saputo. Mai...
Vide l’immagine sfocata di due ragazzi che correvano via. Cercò ancora
di parlare, di gridare, ma dalle labbra le usciva solo un rantolo
incomprensibile e doloroso. Allora era così che se ne sarebbe andata?
La ragazza letale dei Distretto 2, quella che non sbaglia mai. Bé, questa volta hai sbagliato. E ne
pagherai le conseguenze. Il male che sentiva era così forte che
anche pensare le risultava doloroso. Ma allora perché non finiva? Perché sono ancora qui?
Ma lo sapeva, perché era ancora lì. Non se ne voleva andare, non
ancora. Non ancora.
«Clove!» La voce che la chiamava era più vicina adesso. Ed era colma di
dolore. Qualcuno le si inginocchiò vicino. Sentì il rumore di qualcosa
che cadeva, poi un volto apparve nel suo campo visivo. Quel volto. Le strinse forte una
mano, ma lei lo sentì appena.
«Clove! Oddio, Clove. Ti prego, resta con me. Ti prego. Ti prego.»
Lei provò a ricambiare la stretta sulla sua mano, ma non ci riuscì.
Provò a parlare, ma anche quella semplice azione le parve un’impresa
impossibile. Era come se si stesse spegnendo e nulla avrebbe potuto
cambiare ciò che stava accadendo. Era troppo tardi.
«Ca...to...» Riuscì a sussurrare, con voce rotta e tremante.
«Stai con me Clove, ti prego. Andrà tutto bene. Staremo bene.» Ma
quando lo disse, Clove capì che non sarebbe stato così. Non c’era più
speranza per lei, non poteva essere salvata, lo sapeva. Avrebbe voluto
dire a Cato di essere forte, di lottare, di farlo anche per lei. Di
vincere per entrambi. Ma non ne ebbe la forza. Il dolore alla testa
iniziò a diminuire, finalmente. La percezione del suo corpo divenne
sempre più vaga. Solo la voce di Cato, così vicina, così calda, la
legava ancora al mondo circostante. Vedeva i suoi occhi, azzurri come
il cielo e freddi come il ghiaccio e per un momento le parve di essere
tornata bambina. Ma solo per un momento.
«Resta con me, ti prego.» Ma anche la voce di lui ormai era solo un
flebile sussurro, una litania ripetuta all’infinito. Dentro di essa non
vi è più speranza. Solo dolore.
Malgrado tutto, Clove fu felice di aver resistito ancora per qualche
minuto. Fu felice di avere davanti agli occhi il viso di Cato. Fu
felice di vederlo per l’ultima volta, di osservare i suoi occhi
luminosi prima di emettere il suo ultimo respiro.
Lui continuava a parlarle, ma le sue parole si persero nel nulla. Gli
occhi di Clove vedevano solo oscurità e sebbene Cato continuasse a
chiamarla, lei se n’era già andata, troppo lontana per poterlo sentire.
***
«No. NO!»
Cato urlò, gridò con tutta la forza della sua disperazione. «Clove!
Clove!» Ma gli occhi della ragazza si erano già velati e non potevano
più vedere il suo volto. Non vedevano più niente. Lui lasciò la mano
fredda di Clove, lanciò lontano la spada, continuando a gridare. Batté
i pugni a terra. Pianse lacrime di disperazione. Non aveva mai pianto,
nemmeno da bambino, ma ora lo fece. Non poteva essere successo. Non
poteva essere. No.
Lei non poteva essere morta. Non poteva essere morta. Non così. No.
L’aveva tenuta tra le braccia e l’aveva vista andarsene. E non aveva
fatto niente. Non era arrivato in tempo. Mentre lei lottava per la sua
vita, lui era lontano e il nemico che aveva l’incarico di braccare era
spuntato da un’altra parte e anziché sfidare lui, si era preso lei.
Cato strinse gli occhi, serrando le mani a pugno. Dalle sue labbra
usciva un rantolo disperato mentre sentiva un colpo di cannone sparare.
Urlò di nuovo tutta la sua disperazione. Quel colpo era per Clove.
La guardò. Il suo volto era di un pallore mortale e la luce che aveva
da sempre visto nei suoi occhi scuri e vivi si era spenta. Le strinse
di nuovo la mano, la sollevò e l’abbracciò, come aveva fatto prima di
lasciarla, quando si erano promessi che si sarebbero ritrovati e che
avrebbero vinto. Non avrebbe mai dovuto lasciarla andare da sola. Era
tutta colpa sua. Era colpa sua se ora stringeva il suo corpo senza vita
tra le braccia. Colpa sua, perché non era arrivato in tempo. Non aveva
corso abbastanza velocemente. E ora l’unica ragione che lo aveva tenuto
sano di mente, l’unica ragione per cui avrebbe voluto tornare a casa,
se n’era andata. E con lei tutta la speranza. Cosa gli restava ora?
Cosa?
Niente.
Anzi no, una cosa soltanto.
Cato posò delicatamente il corpo di Clove a terra e le abbassò le
palpebre. Lasciò scorrere la mano sulla sua guancia fredda,
delicatamente, come una carezza. Non poteva restare lì per sempre. Lei
non lo avrebbe voluto.
«Ti vendicherò, Clove. Lo giuro. Fosse l’ultima cosa che faccio. Ti
vendicherò.» Si asciugò gli occhi con rabbia e, faticosamente, si
rialzò. Il suo sguardo non riusciva a lasciare il volto di Clove,
immobile. Senza vita. Ma si costrinse a farlo. Prese dei lunghi,
profondi respiri. Recuperò la spada. Non si girò più indietro. E iniziò
a correre.
Chiunque l’avesse uccisa, chiunque l’avesse fatta soffrire in quel
modo, aveva i battiti del cuore contati. Non gli avrebbe permesso di
vivere un istante di più. L’avrebbe ucciso. Quando riaprì gli occhi,
essi erano asciutti e brucianti d'odio e di una determinazione quasi
folle. Iniziò a correre, distruggendo qualsiasi cosa intralciasse il
suo cammino. «Ti troverò! Ovunque tu sia!» Gridò con furia, recidendo
una ramo con un solo colpo di spada.
Cato correva, correva veloce. Una furia cieca lo guidava e gli indicava
la via. La voglia di uccidere, la sete di sangue erano le uniche
ragioni che gli impedivano di tornare indietro, di tornare da lei. Il ricordo di Clove che se ne
andava tra le sue braccia lo perseguitava come un fantasma. La realtà
lo investiva come un’onda di fuoco, bruciandolo vivo senza che potesse
opporvisi. Anche se avesse vinto, lei non ci sarebbe stata più. Questa
era la cruda verità.
Si fermò in una radura spoglia. Si guardò attorno. Sentì un
rumore.
«Vieni fuori! So che sei qui! È inutile che ti nascondi, tanto ti
troverò!» Il suo grido riecheggiò tra gli alberi, facendo fuggire gli
uccelli dai propri nidi. «Vieni fuori, vigliacco!»
Sentì il rumore di un ramo spezzato e si voltò. Alle sue spalle, lo
vide.
«Non sono un vigliacco.» Tuonò Thresh, avanzando lentamente. Sulla
schiena portava due zainetti. E improvvisamente Cato si ricordò del
perché Clove si trovava sola a fronteggiare quel gigante. Il festino,
gli zainetti. Per quello era morta. E ora quel mostro, oltre ad averle
rubato la vita, le aveva anche sottratto ciò che di diritto apparteneva
a loro.
«Non mi importa quello che pensi di essere o no. So solo che presto
sarai morto.» Detto questo, Cato partì all’attacco. La sua spada però
cozzò contro una spessa lama argentea che Thresh estrasse velocemente.
Cato attaccò ancora, facendo arretrare l’avversario. Lo colpiva senza
sosta, senza dargli il tempo di contrattaccare ma solo di difendersi,
mettendolo in difficoltà. La sua furia passava dalle sue mani alla
spada, che fendeva l’aria veloce e letale, bramando il sangue del
nemico.
Il colpo successivo fu talmente forte che fece quasi perdere
l’equilibrio a Thresh. Il ragazzo venne sbalzato all’indietro e
inciampando cadde a terra.
«Fine dei Giochi.» Sussurrò Cato, con voce folle e spietata,
avventandosi su di lui. Ma Thresh balzò in piedi velocemente,
liberandosi allo stesso tempo del peso degli zainetti, che restarono a
terra. Lo sguardo di Cato fu per un istante attirato da un luccichio.
Lo zaino con il numero due si era aperto e qualcosa vi era fuoriuscito.
Le sue labbra si dischiusero per la sorpresa quando riconobbe
l’oggetto. Perché lì, sulla terra brulla dell’arena, c’era il coltello
che aveva regalato a Clove. Quello che le aveva donato sul tetto
dell’Accademia. Il suo primo coltello, quello che lei aveva portato a
Capitol City perché non aveva cuore di separarsene. E ora era lì,
nell’arena, a pochi centimetri da lui. Ma lei non c’era più.
Mentre Cato era distratto Thresh gli piombò addosso. Lo mandò a
sbattere a terra e non perse tempo. La sua enorme lama puntava dritta
alla sua testa quando calò il colpo, ma Cato riuscì a spostarsi di poco
e quella incise la carne della sua guancia, aprendo una ferita
superficiale. Il sangue iniziò a sgorgare. Cato perse la ragione.
Con la sola forza delle gambe spinse via Thresh, facendolo volare in
aria. Mollò la spada e si gettò in avanti, verso gli zainetti. Strinse
tra le mani il coltello di Clove e per un istante gli sembrò quasi che
lei fosse lì, con lui. Al suo fianco.
Mentre Thresh si gettava ancora su di lui, abbassandosi quel tanto che
gli serviva per conficcargli la lama nel cuore, Cato alzò il braccio,
stringendo con forza il manico del coltello mentre la lama penetrava
nella carne del ragazzo fino al manico. Lui spalancò le labbra,
sorpreso, facendo cadere la sua arma.
Cato si alzò e lo spinse a terra, sovrastandolo.
In quel momento, iniziò a piovere. Thresh era ancora vivo, respirava a
fatica, rantolando e lo guardava con gli occhi sgranati, carico d’odio.
«Tu hai ucciso lei. Ora io ammazzerò te. Avresti dovuto saperlo che
sarebbe andata così.»
Lui ridacchiò, sputacchiando sangue. «Lei?» Chiese con voce roca. «Lei
aveva ucciso Rue. Meritava di morire.»
Un ringhio gutturale salì per la gola di Cato mentre lui affondava
ancora di più il coltello. Thresh strinse i denti, impedendosi di
urlare.
«Non dire un’altra parola.» Ringhiò Cato pieno di odio e di ribrezzo.
«Allora ti importava... di lei.» Disse Thresh con enorme fatica, quasi
soffocato dal suo stesso sangue. «Credevo che ai Favoriti non
importasse di nessuno.» Cercò ancora di ridacchiare, ma finì per
tossire.
«Ti sbagli. Era la sola cosa che mi importava. Saremmo dovuti tornare a
casa assieme. È tutta colpa tua. Pagherai per questo. La vendicherò.»
Lui fece per replicare, ma ormai non riusciva più a parlare. Cato
estrasse con un colpo secco il pugnale e Thresh sussultò, in preda a
spasmi di dolore. Cato sentì di essere stato fin troppo misericordioso
quando, guardando il nemico negli occhi, calò su di lui il suo ultimo
colpo. Dritto nel suo cuore.
Quando Thresh morì, la pioggia iniziò a scrosciare sempre più forte,
diventando un vero temporale. Un possente tuono accompagnò il colpo di
cannone.
Cato estrasse il coltello dal cadavere del ragazzo e lo strinse forte
tra le dita, mentre si chinava a terra, con i gomiti affondati nel
fango e le mani che stringevano i capelli biondi fino a fargli male. Il
suo grido si confuse con il fragore di un tuono. Le poche lacrime di
rabbia che riuscì ancora a versare si confusero con la pioggia e con il
sangue che colava dalla ferita che aveva sul viso. Ma non gli
importava, nulla gli importava. Aveva vendicato Clove, aveva ammazzato
colui che le aveva tolto la vita e il suo corpo sanguinante era a pochi
centimetri da lui. Ma nulla di quello gli diede pace.
Il dolore era troppo grande. La disperazione lo attanagliava in una
ferrea morsa. La perdita che aveva subito stava facendo riaffiorare la
pazzia che lo aveva perseguitato durante tutti gli Hunger Games.
Strinse forte il coltello nella mano, fino a che la lama non gli
intaccò la pelle del palmo. Ma nemmeno questo gli importava. Nulla
aveva più senso. Cato si strinse a quell’oggetto come se ne andasse
della sua vita. La lama gli tagliava la pelle, ma non vi badò. Non
poteva lasciarlo andare, non poteva farlo nemmeno per un secondo.
Perché quel coltello era tutto ciò che gli restava di Clove. Assieme al
suo ricordo.
E così sarebbe stato per sempre.
SPAZIO AUTORE
Ok. Bene. Eccomi qua.
Il fatidico capitolo è arrivato. È normale sentirsi male leggendo il
proprio lavoro?? No perché... ok, la smetto. Sto bene. Sto bene.
Ho appena ucciso uno dei miei personaggi preferiti della trilogia con
le mie stesse parole, ma sto bene D: Alcuni lettori si chiedevano se
magari avessi potuto scrivere un “finale alternativo”, sapete, per non
distruggerci i feelings di nuovo etc etc...
E anche io ci avevo pensato. Ma poi mi sono detta... stai scrivendo la
vera storia di Cato e Clove. O almeno, la mia versione della loro vera
storia. Non posso cambiare il finale se sono partita da questo
presupposto. Quindi credetemi, avrei voluto farlo, ma non ho potuto. Ad
ogni modo, spero non mi odierete per questo! E, più di ogni altra cosa,
spero di aver reso bene questo momento, che a parer mio è uno dei più
intensi di TUTTA la trilogia ç______ç
Non so che altro dire, sono abbastanza depressa *masochismo mode on*
quindi lascio a voi la parola, sperando non mi malediciate x''D No
davvero, ci tengo a sapere che ne pensate, quindi resto in attesa di
commenti ;) ♥
E vi ringrazio, ringrazio tutti voi, che seguiate la storia qui da efp
o da facebook, per avermi seguita fino a questo punto! Senza di voi
probabilmente mi sarei fermata molto prima, ma, anche se mi sono
trovata a scrivere cose mooolto difficili a livello emotivo, sono
felice di essere arrivata fino a qui, e di aver dato una storia ai miei
personaggi preferiti :')
Ok, ora taccio davvero!
Al prossimo capitolo... ♥
~ C
|
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Capitolo 20 *** 20. Into the Dark ***
20. Into the Dark
Till your last breath
CAPITOLO 19
IINTO THE DARK
Corri. Corri. Corri.
Era tutto quello che gli passava per la mente in quel momento. Correre era tutto quello che poteva fare. Che doveva fare. Correre via, scappare, lontano da quegli occhi.
La sua mente non ragionava ma le sue gambe lo guidavano al posto suo.
C’era solo un luogo in tutta l’arena in cui avrebbe potuto rifugiarsi e
il suo subconscio lo stava conducendo lì, in una corsa disperata, che
lo stava lentamente uccidendo. Le gambe gli dolevano per lo sforzo, per
la prima volta nell’arena. I polmoni andavano in fiamme a furia di
pompare ossigeno, così velocemente. I piedi si incastravano in rametti
appuntiti e radici sporgenti, ma strappavano via tutto e
proseguivano inesorabili nella loro corsa. Non poteva fermarsi. Se
l’avesse fatto, sarebbe morto.
Sentiva i passi delle bestie alle sue spalle. Sentiva il loro respiro
affannoso e il loro ringhiare sommesso sembrava uscire da un incubo.
Era come se si chiamassero a vicenda, sentendo che la loro preda era
sempre più vicina, più debole. Cato sentiva il loro fiato caldo sul
collo, talmente tanto si erano avvicinati. Per la prima volta nella sua
vita, era la preda e non il cacciatore.
La spada gli batteva ripetutamente contro coscia durante la corsa
frenetica. Avrebbe tanto voluto impugnarla e uccidere le bestie, una ad
una, ma quelle erano un intero branco contro un solo ragazzo. Non
poteva farcela. E poi non aveva più il coraggio di voltarsi. Non
avrebbe sopportato ancora il peso di quegli occhi. Solo la loro vista
lo aveva fatto impazzire di dolore e per poco, a causa di quella
piccola esitazione, non venne ucciso.
Quando sentì le forze venirgli meno e la speranza di farcela lo stava
lentamente lasciando, vide finalmente la cornucopia, al di là degli
alberi.
Ancora un sforzo. Un piccolo sforzo. Fallo per lei.
E Cato corse, corse veloce per tutta la radura, con le belve fameliche
che lo seguivano, compiendo lunghi balzi e cercando di azzannarlo ogni
volta che si avvicinava abbastanza. Arrivato alla cornucopia sfruttò lo
slanciò della corsa e saltò. Arrivò in cima senza nessuna fatica. Si
trascinò al centro della cornucopia ed estrasse la spada, pronto a
colpire i mostri, ma quelli si erano fermati e lo scrutavano con quei
loro grandi occhi umani. Poi, con un lungo latrato, si voltarono e
corsero verso i boschi.
Cato si lasciò cadere in ginocchio, riponendo la spada e prendendo
fiato. Non riusciva quasi più a respirare, i crampi lo piegavano in
due.
Si portò una mano alla giacca ed estrasse un piccolo oggetto che
strinse con forza tra le mani, aggrappandosi ad esso come se ne andasse
della sua vita. Se il suo viso era ancora incrostato di sangue, il
coltello era lucido e affilato come non mai. Lo aveva ripulito,
cancellando ogni singola goccia di sangue che aveva macchiato la sua
lama, e lo portava con sé. Sempre. E in momenti come quello lo tirava
fuori e lo stringeva fino a farsi male. Perché quella era l’unica cosa
che gli restava di Clove e ad esso si aggrappava per non perdere la
speranza. E per non perdere sé stesso. Perché erano gli occhi di Clove,
quelli che aveva visto nel corpo di una bestia. I suoi occhi, i suoi
occhi scuri e brillanti. Vivi. Ma Clove se n’era andata. Cosa le
avevano fatto? Cosa le avevano fatto?
Cato continuò a ripeterselo, chiudendo gli occhi e respirando a fatica,
stringendo il coltello, lama e manico, nelle mani tremanti. Non solo
l’avevano uccisa, ma quei pazzi maniaci di Capitol City le avevano
rubato anche gli occhi? Il
pensiero lo mandò fuori di testa, lo fece arrabbiare, lo fece tremare
d’ira e d’angoscia, fino a fargli salire lacrime brucianti agli occhi.
Perché lei doveva essere lì con lui, al suo fianco fino alla fine.
Invece i suoi occhi erano imprigionati nel corpo di un mostro.
Dopo una quantità di tempo indefinita Cato sentì degli urli provenire
dalla foresta. Ignorando i crampi balzò in piedi, riponendo con cura il
coltello in una tasca interna della giacca, vicino al cuore. Scrutò
l’orizzonte. E li vide.
Gli ultimi due tributi rimasti. Quelli del 12.
E il branco di ibridi che li seguiva da vicino. Si prese qualche
istante per osservare il branco. Ora che li vedeva da lontano, si
accorse che apparivano spaventosamente umani. Non solo per gli occhi,
ma anche il loro corpo. Quelli in testa al gruppo si alzavano sulle
zampe posteriori ed usavano quelle anteriori quasi come braccia, come
se stessero indicando agli altri la direzione. Fortunatamente Cato
aveva già appurato che non erano in grado di arrampicarsi.
Indietreggiò, cercando di rendersi invisibile. Fuori era buio, la sera
stava lentamente lasciando il posto alla notte, e non fu difficile per
lui passare inosservato. Soprattutto perché i due ragazzi che si
stavano arrampicando sulla cornucopia avevano ben altri problemi per la
testa. Non lo avevano nemmeno notato.
I mostri, gli ibridi,
tentarono si balzare sulla cornucopia, lanciandovisi contro con impeto.
Cato approfittò del rumore stridente che producevano i loro artigli
quando strisciavano sul metallo per avvicinarsi di soppiatto. Cercò di
non pensare a loro, agli ibridi. Agli occhi di Clove. Al fatto che lì
in mezzo dovevano esserci anche Marvel e Glimmer e tutti gli altri che
erano morti.
Ma in quel momento, mentre era pronto a colpirli alle spalle, i due si
voltarono. Cato non perse tempo. Si avventò sulla ragazza, scagliandola
di lato. Lei scivolò sul metallo, ma non cadde giù. Il Ragazzo
Innamorato gli fu subito addosso, ma lui lo respinse. Faceva fatica a
muoversi, i muscoli gli dolevano. La grande quantità di sangue che
aveva perso dal taglio sulla guancia ancora incrostato di sangue si
faceva sentire e quella lunga corsa per sfuggire agli ibridi lo aveva
distrutto. Ma non si sarebbe arreso. No, non poteva lasciarli vincere.
Individuò di nuovo la sua preda, la ragazza, e l'afferrò. Lei cercò di
liberarsi, cercò di strangolarlo ma le sue mani non lo ferirono
nemmeno. Lui la buttò a terra, spingendola verso il baratro. Gli ibridi
cercarono di saltare più in alto, guaivano e latravano in attesa di
affondare le loro zanne affilate nella carne umana. Quelli non potevano
essere gli altri tributi. Non potevano. Quella bestia non poteva essere
Clove.
Qualcosa lo afferrò da dietro e lui fu costretto a mollare la presa
sulla ragazza. Il Ragazzo Innamorato lo aveva sollevato e lo aveva
gettato di lato. Era forte certo, ma se Cato fosse stato nel pieno
delle sue forze non sarebbe mai riuscito a sopraffarlo. Con la coda
dell’occhio, vide la ragazza armare il suo arco, pronta a trafiggerlo
con una freccia. No, oh no. Non sarà così facile liberarti di me.
Pensò Cato, in preda a una folle ira. La ferita sulla guancia si era
riaperta di poco, riprendendo a sanguinare. Senza esitare, si gettò
addosso al Ragazzo Innamorato e gli bloccò le braccia. Poi lo trascinò
fino al margine della cornucopia. Strinse un braccio attorno al suo
collo, soffocandolo. Lui lottava per liberarsi e per respirare, ma era
tutto inutile. La ragazza restò immobile, davanti a loro, con la
freccia pronta per essere scoccata.
No, non li avrebbe lasciati vincere. Pensò Cato con risolutezza. O
almeno non entrambi. Lei poteva ucciderlo, ma se Cato fosse caduto, il
Ragazzo Innamorato sarebbe venuto giù con lui. Non avrebbe permesso che
vincessero entrambi. Lui e Clove dovevano vincere. Lui e Clove dovevano
essere incoronati vincitori. Non loro! Non loro!
Avrebbe ucciso il ragazzo. L’avrebbe fatto per Clove. Certo, avrebbe
preferito ucciderli entrambi o uccidere lei ma non aveva possibilità di
scelta. Sapeva soltanto che doveva farcela. Per lei. L’avrebbe
vendicata ancora. La morte di Thresh non era bastata a colmare la sua
furia e il vuoto che gli era rimasto dentro.
«Uccidimi.» Disse con voce debole ma allo stesso tempo decisa.
«Uccidimi e lui viene giù con me.» Una risata soffocata gli uscì dalle
labbra insanguinate. «Che cosa aspetti? Spara. Moriremo entrambi e tu
vincerai.» Ma la ragazza rimase immobile. Cato poteva sentire la sua
mente macchinare, pensare a tutta velocità, cercare una scappatoia. Ma
non c’era. Se avesse scoccato la freccia, sarebbero caduti entrambi. Se
avesse aspettato, il Ragazzo Innamorato sarebbe morto di soffocamento.
Cato rise di nuovo, una risata cupa, spettrale, senza un minimo di
allegria. Solo rabbia, rancore e rimorso.
A cosa gli sarebbe servito vincere, dopotutto? Non avrebbe comunque
riportato indietro Clove. Cosa restava al Distretto 2 per lui? Niente.
Non gli restava niente. E in quell'istante, si rese conto che la morte
non appariva più come una grande disgrazia. Ma lui non poteva
arrendersi, no. Doveva resistere, doveva vincere, doveva vincere per lei. Non poteva arrendersi, non poteva farlo.
Lei non l’avrebbe fatto. Non poteva lasciarsi andare... non poteva...
«Forza, cosa aspetti?» La esortò lui, mentre le parole gli uscivano
dalla labbra senza che lui se ne rendesse conto, come se non fosse lui
a pronunciarle. «Sono morto comunque.» Esclamò ridendo. Era folle,
folle di rabbia ed era stanco, stanco di soffrire, stanco di pensare.
La morte di Clove aveva distrutto la poca integrità mentale che gli era
rimasta.
E ora aveva capito che non aveva mai veramente avuto possibilità di
vincere. Non dopo la sua morte. Era stato tutto deciso, lo aveva capito
solo adesso. Il cambiamento delle regole, il fatto che in due potessero
vincere. Era stato fatto per loro,
perché la loro storia aveva commosso Capitol. L’esito di quei Giochi
era già stato deciso in partenza. Ma lui e Clove... insieme avrebbero
potuto farcela. Cos’avevano in meno di quei due individui? Niente.
Potevano vincere. Ma ora era tutto inutile, tutto perduto.
«Lo sono sempre stato, non è così? L’ho capito solo ora.» Sentì in
bocca il ferroso sapore del sangue, ma non vi fece caso. «È questo
quello che volete, vero?» Urlò istericamente, rivolto alle telecamere.
«Mi spiace, ma non lo avrete!» Spostò le braccia attorno al collo del
ragazzo, nella posizione che, lui lo sapeva bene, gli avrebbe
consentito di spezzargli il collo con un solo, semplice gesto. Poteva
ancora farlo, e lo avrebbe fatto. Non li avrebbe lasciati vivere
entrambi. Non avrebbe lasciato vincere nemmeno Capitol City. Sapeva
che, una volta morto il ragazzo, lei lo avrebbe ucciso. Ma non gli
importava, non gli importava più. Questo era quello che gli avevano
insegnato all’Accademia. Ad uccidere, a colpire nel posto giusto, un
solo colpo letale. Non gli avevano mai insegnato a vincere, solo ad
uccidere. Portare onore al suo Distretto. Questo era tutto quello che
contava.
Prima di aver trovato Clove. Lei gli aveva fatto capire che la vita non
era solo questo. Gli aveva fatto capire che c’era dell'altro. Ora
rivedeva il suo passato, i lunghi giorni trascorsi in Accademia ad
allenarsi, per compiacere suo padre. Suo padre, che voleva che fosse il
migliore in tutto. Suo padre, al quale non importava nulla di lui.
Voleva solo che portasse onore al suo nome. Si rese conto di aver
buttato via la sua vita. Suo padre gli diceva che non poteva
permettersi distrazioni. Quella ragazza sarebbe diventata una
distrazione per lui, se non l’avesse lasciata subito andare. E lui gli
aveva dato retta. Perché tutto quello che gli importava era quello che
gli avevano sempre insegnato: portare onore e gloria al Distretto
2, anche a costo della propria vita. Aveva vissuto come un automa,
aveva donato la sua vita a una causa che non gli apparteneva. L’aveva
buttata via e se ne accorgeva solo ora. Ora che era troppo tardi. Anche
se avesse vinto gli Hunger Games, aveva comunque perso Clove. Non c’era
modo di riscattare la propria esistenza. Aveva sbagliato, ma non c’era
più il tempo per redimersi. Perduto, era tutto perduto. Sparito quando
il cuore di Clove aveva battuto il suo ultimo battito e l’ultimo, lieve
respiro le era sfuggito dalle labbra dischiuse.
E ora lui era lì, pronto ad uccidere ancora una volta, come gli avevano
insegnato a fare. E lo avrebbe fatto. Lo avrebbe fatto. Se solo la
freccia non gli avesse perforato la mano.
Cato mollò la presa sul ragazzo e mentre lui lo spingeva giù, il tempo
parve rallentare. Stava cadendo, cadeva lentamente di sotto, tra le
grinfie dei predatori.
Quando il suo corpo si schiantò a terra e il fiato gli uscì dal corpo
per la forza dell’impatto, il tempo tornò a scorrere normalmente. E in
meno di un respiro, il branco gli era addosso. Cato urlò, o forse non
lo fece, non avrebbe saputo dirlo. L’armatura che indossava sotto i
vestiti non era abbastanza robusta per resistere ai loro morsi e alle
loro zanne. Dopo un paio di tentativi, si ruppe e i loro denti affilati
gli dilaniarono la carne.
Le sue armi erano irraggiungibili. La spada era caduta da qualche
parte, fuori dalla sua portata. Sentiva il coltello di Clove premergli
contro il petto, ma non poteva prenderlo. Non poteva nemmeno stringerlo
tra le mani come aveva fatto poco prima. I mostri lo stavano facendo a
pezzi, lo distruggevano e non c’era nulla che lui potesse fare per
impedirlo.
Poi rivide gli occhi. Gli occhi di Clove.
E ricordò. Ricordò lei, quando era ancora una bambina. La ricordò in
cima al tetto dell’Accademia, mentre cercava di nascondere le lacrime.
La vide prendere tra le mani il suo coltello e i suoi occhi brillare.
La vide allenarsi sola all’Accademia, con determinazione e precisione
letale. E poi la vide pronunciare la frase che l’aveva condotta lì, nei
Giochi, durante la mietitura. La vide alla sfilata, splendida nella sua
armatura dorata, così bella e fiera da fargli male al solo ricordo. La
vide alle interviste, con quello sguardo misterioso e il fare
impacciato mentre si sistemava le pieghe del vestito. E poi la vide
nell’arena, mentre gli stringeva la mano, mentre lo abbracciava...
Mentre gli prometteva che sarebbero tornati a casa. Assieme.
Gli occhi di Clove, intrappolati nel corpo dell’ibrido, occuparono
tutto il suo universo. Furono tutto quello che vide. Il dolore
lancinante del suo corpo straziato iniziava ad allontanarsi, come gli
ululati gutturali delle belve. La sua mente si svuotò piano e sentì
come se stesse per volare via, lontano da quel mondo di dolore e
sofferenza, lontano in un posto sconosciuto, dove però sapeva ci
sarebbe stata Clove ad aspettarlo. Sarebbe tornato da lei, alla fine.
Questi furono i suoi ultimi pensieri, perché poi arrivò la freccia. Le
sue urla si spensero all’istante, il suo corpo non provò più dolore, i
suoi occhi smisero di vedere e tutto si fece scuro. Ma poteva ancora
scorgere qualcosa, qualcosa che lo guidava via, lontano dall’arena,
lontano dagli Hunger Games e da Capitol City. Lontano da tutto. Nel
nulla placido e mortale nel quale era caduto, era ancora in grado di
provare qualcosa.
E tutto ciò che vedeva erano gli occhi di Clove nell’oscurità.
***
SPAZIO AUTORE
Ed
eccoci qua, miei cari lettori e lettrici. Non credevo che questo giorno
sarebbe alla fine arrivato. Ci ho messo molto a pubblicare questo
capitolo, a dire la verità, credevo che non lo avrei mai caricato.
Perché, sebbene non sia proprio l'ultimo, è la vera conclusione della
vicenda. E che conclusione, direi... giuro che nel rileggerlo per
l'ultimo controllo mi si è spezzato il cuore ç____ç E a volte penso che
sono stata davvero sadica e masochista a scrivere questa storia, perché
essendo una fanfiction avrei potuto benissimo mandare a quel paese la
trama e farli vivere! Ma no, ho voluto scrivere la loro vera storia,
quindi eccoci qui, con il cuore spezzato per la fine di Cato....... Ma
sebbene sia molto, molto triste, sono anche molto, molto contenta per
essere arrivata fino a qui, per aver concluso la fanfic, per aver dato
loro la mia versione della storia. Cato e Clove sono personaggi molto
sottovalutati, incompresi, che spesso vengono bollati con la parola
“cattivi” e fine della storia. Io ho sempre visto qualcosa di più oltre
a questo, sarà solo la mia mente malata, ma ci credo davvero e spero
con tutto il cuore di aver reso bene, con questa storia, tutto ciò che
secondo me c'era dietro a questi due personaggi.
E, ultimo ma non meno importante, vorrei ringraziare tutti, ognuno di
voi, che avete speso qualche minuto per leggere questi venti capitoli,
per aver dedicato un po' del vostro tempo a leggere le mie parole e per
averne trovato anche un po' di più per scrivermi un commento. Non
sapete quanto questo mi sia stato d'aiuto per arrivare fino in fondo!
Ma ora non vi annoio più con il mio lungo e tedioso discorso depresso
xD Alla fin fine, ci sarà un altro capitolo, un epilogo, tanto per non
chiudere con questa scena così triste ç___ç Lascerò gli addii per quel
momento xD Che poi, chissà, non sarà un vero addio, perché spero di
tornare ancora a scrivere su Cato e Clove, visto l'amore che provo per
loro. E chissà, forse in una futura storia potranno avere, finalmente,
il loro lieto fine u.u
Okay, ora chiudo per davvero. Un GRAZIE di cuore ancora a tutti voi,
spero di non avervi delusa con questo ultimo/penultimo capitolo perché
per me è uno dei più importanti dell'intera storia <3
Bene dunque, alla prossima! E questa, oddei, è l'ultima volta che posso dirlo :'(
Con tanto affetto,
~ C
|
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