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di Teikci Ni Kare Suh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** U.S.A. and Josh ***
Capitolo 3: *** I hate vodka ***
Capitolo 4: *** San Francisco ***
Capitolo 5: *** A little surpise ***
Capitolo 6: *** The meeting ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 Prologo

Era caldo.
Le persone mi spingevano da tutte le parti e non riuscivo più a capire dove andavo.
Cercai di farmi spazio e corsi avanti spintonando senza mezzi termini, chiunque si trovasse vicino a me.
Poi alzai la testa e lo vidi.
Il suo viso era serio, contratto in un'esspressione di preoccupazione; sembrava stesse cercando qualcosa, ma che non riuscisse a trovarla.<.
Poi il suo capo si voltò nella mia direzione e mi vide: le sue labbra i distesero in sorriso, ogni angoscia sembrò volatilizzarsi in un istante e i suoi occhi si illuminarono.
Anche io sorrisi.
Provai ad avanzare verso di lui, ma proprio in quel momento una folla mi trascinòvia, lontana da lui.
Cercai di gridare ma dalle mie labbra non usciva alcun suono, lui invece stava cercando di raggiungermi, ma invano.
Dopo qualche secondo fui letteralmente travolta dalla folla e il buio calò su di me.

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Capitolo 2
*** U.S.A. and Josh ***


                                                                                          U.S.A. and Josh

Mi svegliai più presto del solito.
Non era possibile che facessi lo stesso sogno tutte le notti.
Certo molte ragazze avrebbero pagato oro per poter vedere il proprio idolo nei sogni, ma dopo tutto era pur sempre un incubo.
Mi alzai svogliatamente, ma tanto valeva farlo, ormai ero completamente sveglia e quel giorno avevo un sacco di cose da fare.
Strascicai  le pantofole giù per le scale fino in cucina e mio fratello, probabilmente aveva fatto anche lui un cattivo sonno e non riusciva più ad addormentarsi, mi seguì.
Aprendo la porta vidi i miei genitori seduti allegramente a prendere il caffè.
Buttai un occhio all’orologio sulla parete: le 7.30 della mattina?
E non erano neanche in vestaglia.
Parlottavano allegri, ma quando ci videro entrare si zittirono e ci guardarono divertiti.
Che cosa poteva mai divertirli tanto?
Poi notai i sorrisetti (un po’ ebeti) che erano stampati sulle loro facce e la strana luce di gioia ed eccitazione insieme che brillava nei loro occhi.
“Cosa avete fatto?” domandai senza neanche salutarli, preoccupata da ciò che avevo osservato nei loro visi.
I due individui si lanciarono uno sguardo d’intesa che non mi piacque per niente, poi scossero entrambi il capo in segno si assenso e mia madre si rivolse a me e allo zombie – fratello che mi stava dietro.
“Beh, tuo padre e io abbiamo riflettuto a lungo. Voi siete usciti con ottimi voti quest’anno,” già anche mio fratello non era andato poi così male, non so come avesse fatto a non uscire dall’esame di maturità con un voto inferiore al 60 e che avesse utilizzato quel rimasuglio di materia grigia, che a mia insaputa, era sopravvissuta nella sua scatola cranica, “e siccome e da molto che non andiamo a fare una bella vacanza insieme, e non vediamo vostro fratello, avevamo pensato di fare un viaggio negli Stati Uniti”.
No, aspetta un secondo.
I miei che ci volevano portare negli Stati Uniti d’America?
Andava bene sognare, ma così tanto?
“Beh, non dite niente? Credevamo che sareste rimasti entusiasti dell’idea” disse mio padre un po’ deluso dalla nostra mancanza di gioia.
Io mi sedetti su una sedia davanti a loro e dissi balbettando “Negli Stati Uniti…non ci state prendendo in giro? Insomma, negli Stati Uniti…”
“Ma certo che non vi prendiamo in giro, basta solo scegliere l’itinerario e la durata del viaggio.”
Li osservai e capii che non scherzavano; mi misi a urlare e saltai al collo di mio padre.
Lui ne rimase sorpreso ma felice, mia madre sorrise, mentre mio fratello borbottò qualcosa come “Perché a me una sorella del genere?”
Poi mia madre si rivolse di nuovo a noi, ora più seria “Però dovrete farci il sacro santo piacere di venire alla festa di Joy”.
Ecco, lo sapevo.
Mi stavo domandano dove fosse la fregatura, era troppo strana la sua assenza.
Vedete io odio Gioia, denominata Joy, mia cugina.
E’ da circa qualche anno che accampiamo scuse, sia io che mio fratello, per non andare alla sua stupida festa di compleanno; una volta mi ero talmente arrabbiata, che per poco non le ficcavo in bocca la tartarughina di suo fratello in modo le la chiudesse una buona volta, invece di parlare sempre a vanvera.
Comunque acconsentii e costrinsi mio fratello a fare lo stesso, con un “leggero” pestone sul piede, che però non dovette sfuggire a mia madre.
Ci mettemmo subito a studiare un itinerario: saremo partiti il 2 agosto dall’aeroporto alle 6.00 della mattina, dopo circa nove ore l’aereo sarebbe atterrato a San Francisco dove avremo soggiornato per qualche giorno, poi preso un treno e viaggiato per circa 12 ore saremo arrivati a Los Angeles e ci saremo fermati anche li un po’ di giorni, dopo ci saremo diretti a Houston dove  successivamente avremo preso un altro aereo e arrivati a Washington avremo visitato la città.
Infine soggiornando a New York da mio fratello e avremo potuto vagare per la città e saremo ritornati a casa il 16 agosto.
Come programma era piuttosto pesante, ma eravamo pronti all’avventura e io soprattutto a incontrare il mio idolo.
Infatti avevo quasi costretto i miei genitori a visitare Los Angeles, dicendo che era un posto pieno di divertimenti, moderno e che io e mio fratello non ce lo saremo perso per nulla al mondo piuttosto che visitare Phoenix; mio fratello non obbiettò, probabilmente era troppo stanco per capire di che parlavamo o forse l’idea non gli dispiaceva affatto, e io ne fui felicissima perché, con un po’ di fortuna sarei riuscita a individuare la casa di Josh Hutcherson e magari a vederlo!
Avevo studiato attentamente su Internet  e su tutti quegli stupidi giornaletti per ragazzine ogni spostamento degli attori di Hunger Games, per l’uscita della prima parte del film Mockingjay.
Ma sarà meglio che vi parli un po’ di me e di lui, prima di andare avanti a raccontarmi la mia storia.
Immaginatevi una ragazza comune, capelli marroni mossi, occhi dello stesso colore, non troppo alta, magra di 16 anni.
Fatto?
Bene ora pensatela in una stanza, o in un prato se preferite, con un libro e magari della musica in sottofondo, quella che volete.
Bene eccomi.
A questa descrizione aggiungerei che sono piuttosto timida, ma basta conoscermi meglio e mi lascio andare, nonostante questo sono anche molto determinata e forte.
Ma non voglio annoiarvi oltre, per questo vi dirò che cosa mi ha portato a scegliere lui.
Lo avevo visto in altri film, prima di ammirarlo in Hunger Games, ma non gli avevo dato molta importanza.
Poi dopo aver visto quella pellicola, mi ero sempre più interessata a Josh e avevo cercato sempre più notizie su di lui.
Ok, forse penserete che sono solo una sciocca ragazza che si è presa una stupida cotta per un attore, ma se anche fosse?
Comunque, ogni volta che lo vedevo in una foto, un filmato o che pensavo al suo magnifico viso, sentivo le budella che mi si attorcigliavano e mi pareva che mi che mi stessi sciogliendo come la neve al sole.
La sua voce, quando la sentivo, era una melodia meravigliosa e ogni cosa che diceva mi sembrava giusta e intelligente, come agli Glaad Media Award 2012.
Ecco, ora sapete tutto su come iniziata la mia avventura.
 

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Capitolo 3
*** I hate vodka ***


I hate vodka

Vi risparmierò quello che accadde nei giorni successivi, le prenotazioni, le infinite ansie di mia madre sui vestiti da mettere in valigia, quelle di mio padre per i ritardi degli aerei, il gran silenzio di mio fratello e la mia indecisione su quale libro portare durante il viaggio.

Di certo non mancarono le ricerche su Josh, sulle varie presentazioni del film e sul tour del cast.
Il giorno prima della partenza ci recammo alla festa di Joy, da cui poi sarei scappata, per recarmi dalla mia migliore amica, Elena, per un ultimo saluto e scambio di pettegolezzi.
Verso le undici eravamo già a casa della festeggiata; indossavo una semplice camicia bianca, le maniche tirate su e rigorosamente fuori dai jeans, leggermente strappati, le Nike e dei polsini porta fortuna, sperando che mi aiutassero a non combinare nessun casino, cosa per cui ci sarebbe voluto un miracolo, che com’era prevedile non avvenne.
Anzi, per poco non mandavo a monte il viaggio.
Come mi aspettavo, appena mi vide, Jody iniziò a criticare il mio orribile abbigliamento, a sommergermi di tutte le sue assurdità sulla moda e a lamentarsi per il comportamento dei suoi ex, così fui letteralmente subissata dalla sua instancabile parlantina.
Dopo…beh, non so esattamente dopo quanto, mi sembrava avesse parlato per ore, cambiò letteralmente argomento.
“Allora, domani partite per gli Stati Uniti”
Non era una domanda, ma un’affermazione.
Mi diressi verso uno dei tanti tavoli vicino alle pareti, pieni di ogni sorta di cibarie e bibite, presi una bottiglia di vetro con dell’acqua e mi versai il contenuto in un bicchiere piuttosto elaborato.
“Si, non vedo l’ora di partire. Sarà una bellissima esperienza” le risposi con una certa soddisfazione e aria di... superiorità nella voce.
 “Già..” disse servendosi anche lei una bibita, dall’aria tutt’altro che innocua.
Guardai la bottiglia che posò sul tavolo.
Non mi ero sbagliata per niente, era un superalcolico.
“Però, non scherzi con l’alcool” le dissi stupita.
Lei guardò prima il mio bicchiere e poi me con fare di sufficienza.
Bevetti qualche sorso e per poco non mi strozzai.
Dio, ma che acqua era?
Aveva un sapore strano, un po’ forte, ma dopo averlo bevuto qualche volta non era male.
Me ne versai qualche altro bicchiere e Jody mi squadrò con uno sguardo in cui il disprezzo e la sorpresa erano una sola cosa.
Che aveva da guardare? Stavo solo bevendo un po’ d’acqua.
Ok, acqua un po’ strana.
Poi m’illuminai.
“Scusa un secondo, Jody. Devo andare a chiedere una cosa a mia fratello”.
Versai ancora un po’ di bevanda nel bicchiere e uscii per andare alla ricerca del troglodita.
Ebbi parecchia fortuna, perché lo trovai in giardino a scolarsi una bottiglia di birra, e non sarei stata capace di proseguire la ricerca, a causa dell’orribile mal di testa che mi stava venendo.
Mi avvicinai a lui, gli ficcai il bicchiere in mano e gli dissi
“Toh, dimmi cos’è”
Lui gli diede un’occhiata veloce, e mi rispose:
“Ma è ovvio”
“Cosa?”
“E’ ovvio che è vodka, scema!”
Mentre io assimilavo la notizia, lui si scolò il bicchiere.
“Non è possibile…”
“Che c’è?”
Seguono improperi che è preferibile non citare.
“Si può sapere che diavolo hai? Sembri quello di Quattro matrimoni e un funerale, quando si alza in ritardo la mattina di un matrimonio.” mi disse guardandomi come se fossi una pazza.
“Me ne sono scolata qualche bicchiere. Ho un mal di testa pazzesco e..oh caz…mi gira tutto!!!”
Mi sedetti a terra e mi appoggiai alla muretto che segnava la fine del giardino, con le mani sulla faccia.
“Non dirmi che non l’avevi capito? Ahaha! Cosa credevi che fosse? Acqua? Ahahaha!”
Lo fulminai con lo sguardo, ma tutto ricominciò a girare, cosi che richiusi gli occhi e appoggiai la testa alle ginocchia.
Dopo qualche minuto però non riuscii più a sopportare quell’umiliazione, e mentre mio fratello si sganasciava, mi sorpresi di non vederlo rotolare per terra, entrai barcollando in casa.
Mi diressi verso il bagno, cercando di mantenere un minimo di equilibrio e dignità, cosa molto difficile, visto che riuscivo a malapena a capire dove mi trovassi.
Gli effetti della sbronza stavano peggiorando, ma arrivai miracolosamente al bagno e successivamente anche alla tazza del water, a cui lasciai un piccolo ricordo.
Riemersi con la faccia dal quel buco puzzolente pieno di bile e tirai lo sciacquone.
Ora andava un po’ meglio, anche se mi sentivo ancora piuttosto inebetita e non credevo che sarei riuscita a fare un qualsiasi discorso con qualche senso.
Sono sicura che chiunque stia venendo a conoscenza di questi fatti, si stia chiedendo come non sia riuscita a distinguere l’acqua dalla vodka, e che io sia un perfetta deficiente.
Ebbene, non posso dare alcun torto a chi la penserà cosi, perché non so neanch’io come o fatto a scolarmi otto bicchieri, ebbene si, otto, di quella stramaledetta bevanda, ma posso giustificarmi nel dire, che non avevo mai bevuto bevande alcoliche in vita mia, a parte una volta, in cui bevvi di nascosto con una cannuccia del vino dalla damigiana di mio padre, quand’ero piccola.
Mi chiedo ancora perché lo feci.
Uscii dal bagno che ancora barcollavo e mi imbattei in Jody, che mi guardò divertita.
“Tuo fratello mi ha detto tutto. Oh, povera cara, non sei abituata all’alcool. Ma stai tranquilla, avrai tutto il tempo che ti serve per abituartici. Soprattutto dopo quando il tuo caro idolo non ti baderà neanche di uno sguardo.”
Poi si mise a ridere di gusto.
Eh no, va bene ridere perché non  reggo l’alcool e tutto il resto, ma insultarmi sul fronte Josh non è assolutamente tollerabile, e mio fratello lo sa, perché divento una bestia.
Quella volta l’alcool aumentò il tutto.
“Senti sfigatella da quattro soldi! Io non saprò reggere l’alcool come fai tu, ma non ti permettere di insultare il mio idolo. Sarà anche irraggiungibile e tutto quello che vuoi, ma almeno io lo amo e mi piace. Io non vado in giro con il primo che mi sbava dietro e non lo lascio quando non mi garba più! Non mi sbronzo ogni sabato sera per tornare a casa alle sei della mattina in condizioni pietose, e non penso in ogni singolo attimo della mia vita alla moda, a differenza di te. Stupida gallina bionda!”
E le mollai un sonoro ceffone, che le fece perdere l’equilibrio.
Guardai gli ospiti che mi osservavano increduli.
Poi vidi mia madre che aveva il viso pieno di sconcerto.
Mi diressi in giardino, scansando chiunque fosse sul mio passaggio; raggiunsi mio fratello che mi chiese
“Che è successo? Ti ho sentito urlare”
“Niente di che. Ho solo espresso a Jody la mia opinione su di lei. Di a ma e pa che vado da Elena a piedi…anzi no, digli che vado a fare una passeggiata nel parchetto qua vicino.”
“Ma sei completamente ubriaca, non puoi andare in giro in queste condizioni!”
“Allora mi accompagni tu da Elena?”
Lui mi guardò spazientito.
“Non è meglio se ti accompagno a casa e le telefoni? Sai non credo che sua madre sarebbe contenta di vederti in questo stato entrare in casa sua.”
In effetti aveva ragione.
“D’accordo. Ma muoviti, prima che i vecchi si accorgano che abbiamo preso la macchina.”
“Oh, tanto se ne accorgeranno comunque e mi toccherà venire a prenderli” disse sogghignando.
Scavalcammo il muretto e corremmo verso la macchina.
Mentre mio fratello avviava il motore, vidi i nostri genitori uscire dalla porta d’ingresso e guardarci scioccati.
Durante il viaggio mi appoggiai al finestrino e osservai le case e i campi che superavamo ad alta velocità.
Ad un certo punto il mio compagno di viaggio mi passò uno strano sacchetto
“Dai, tirati su con questo”.
Guardai il sacchetto con aria sospetta, poi mio fratello, che però era concentrato sulla strada, e aprii cauta il sacchetto.
Un dolce odore usciva dal sacchetto e cauta ne guardai il contenuto.
“Guarda che non ti mangia mica, caso mai il contrario” disse sarcastico.
Feci finta di non averlo sentito e mi concentrai sul sacchetto.
“Ma è…cioccolata!”
“Al latte. Perché, cosa doveva essere, scusa?” mi guardò con aria perplessa.
“Niente. Assolutamente niente.”
Aprii meglio il sacchetto e mi tuffai nella cioccolata.
“Non è che ne avresti di fondente?” gli chiesi mentre affondavo i denti in un blocchetto dall’aria invitante.
Lui mi lanciò un’occhiataccia, che sottintendeva tutto.
“Ok, ok. Chiedevo soltanto”.
Mi voltai dall’altra parte e rimanemmo in silenzio fino a casa, dove mi lasciò.
“Vado a prendere i vecchi. Preparati ciccia, perché sei in guai seri.”
“Lo so. Comunque anche tu non te la passerai bene. Mi hai portato qui. Sei mio complice” e gli faccio una linguaccia.
“Già…” disse rassegnato.
Poi mi salutò col capo e partì veloce.
Presi le chiavi di scorta che tenevamo nel vaso dei garofani e aprii la porta.
In casa faceva fresco, e mi sentii come rinata.
Andai in cucina, con il mal di testa che non accennava a diminuire, presi un bicchiere di latte freddo con cacao, un vasetto di nutella, il telefono di casa e mi diressi in camera, dove mi chiusi a chiave.
Composi il numero di Elena e parlammo a lungo di quello che era successo.
Strano che Thomas ci mettesse così tanto ad arrivare, probabilmente non aveva spinto con  l’acceleratore per darmi qualche minuto in più di tregua, almeno così pensavo.
“Beh, ora sarà meglio che vada. Tra un po’ arriveranno i miei e se mi trovano al telefono mi faranno ancora più storie”.
“Si, hai ragione. Allora buona fortuna, incrocerò le dita per te. E portami un souvenir dagli United States of America!”
“Se mai ci arriverò, Ele. Se mai ci arriverò”.
Lei rise e chiudemmo la chiamata.
Mi stesi sul letto, chiusi gli occhi e cercai di dormire.
La telefonata ad Elena, aveva placato il mal testa, che ora però tornava ad assalirmi.
I giramenti erano finiti, ma il cioccolato non era servito a farmi tornare in forze, perché mi sentivo ancora piuttosto debole.
Stavo quasi per dormire quando sentii un urlo provenire da sotto.
“Non cercare di calmarmi! Adesso la sistemo io!”
Passi leggeri ma decisi salirono le scale e sentii che qualcuno stava cercando di aprire la porta.
“Ersilia Lunetti, apri immediatamente questa porta!”
Mia madre.
Com’era prevedibile venne a sgridarmi lei, mentre mio padre cercava di calmarla e cercare di risolvere il tutto in modo più tranquillo.
Mi avvicinai alla porta, ma non l’aprii.
La furia di mia madre può essere devastante e avevo paura che se avessi girato la chiave e abbassato la maniglia, mi sarebbe saltata letteralmente addosso.
“Preferirei parlare così, finché non abbassi la voce,” le risposi.
“Cara lascia fare a me” le disse mio padre.
Credo che lo fulminò con lo sguardo, perché non lo sentii fiatare.
“Ersilia,” mi disse, anzi per meglio dire mi urlò “ti rendi conto di quello che hai fatto?”
“Ho solo espresso la mia opinione sullo stile di vita della mia cara cuginetta. Tra l’altro, dopo che lei mi aveva insultato. Non sono stata neanche troppo volgare. Mi sembra di essere stata fin troppo gentile, mamma. Di cosa ti lamenti?”
Probabilmente non sapeva che rispondermi, perché passò un po’ di tempo prima che parlasse di nuovo
“I tuoi zii sono rimasti sconvolti. Hai fatto vergognare tutta la tua famiglia. Mia sorella mi odierà”.
“Credo che odierà di più me” non che me ne importasse molto, in fondo.
“Non ci parlerà per mesi.”
Sai che perdita, la zia si faceva sentire solo ogni tanto, ogni volta che c’era un problema.
“Ma, senti. La zia la senti poco, non sarà così drammatico. Vedrai che tutto passerà”.
“No, non passerà affatto. Devi scusarti con tua cugina.”
“Non lo farò mai!”
“Beh, allora credo che domani potrai restare anche qui, visto che non hai neanche la forza di prendere il telefono e chiamare tua cugina.”
Cosa? Restare qui e non vedere Josh? Per nulla al mondo vi avrei rinunciato.
L’orgoglio poteva andare a farsi friggere.
“D’accordo. Lo farò”
“Ho la tua parola?”
“Croce sul cuore” dissi con una smorfia.
Lei sembrò soddisfatta e si allontanò.
Passai il resto della giornata a maledire la stupida gallina bionda.

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  Angolo dello scrittore

Spero mi perdonerete per il vergognoso ritardo della pubblicazione, ma per circa un mese non ho avuto tempo o internet a disposizione.
Spero che il nuovo capitolo vi piaccia e buona lettura, al prossimo capitolo,
                                                        

                                                                          Vostra Teikci
 

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Capitolo 4
*** San Francisco ***


San Francisco - Part 1


Adoro gli aeroporti, sono così…pieni di vita.
Luoghi in cui mille storie, emozioni, s’incontrano per poi dividersi.
Non ero mai stata in molti aeroporti, ma ricordo particolarmente bene quello di Madrid.
Ciò che mi aveva colpito di più, era la varietà di colori usati negli architravi, i colori dell’arcobaleno.

***
Aprii gli occhi di scatto e mi tirai su.
Era il grande giorno, finalmente saremmo partiti.
Mi vestii in tutta fretta, e corsi di sotto a fare colazione, anche se non avevo alcuna fame.
Stavo finendo di affogare gli ultimi cereali nel latte, quando scese il resto della mia truppa.
Avevano tutti l’aria piuttosto sconvolta, e non avrei potuto dargli torto visto che erano solo le due di notte.
Dopo aver ricontrollato le ultime cose, caricammo le valigie nell’auto.
Quando mio padre pigiò sul pedale dell’acceleratore e vidi la mia casa scomparire dietro di me, nella tiepida notte, chiusi gli occhi e una strana sensazione mi pervase
“USA, stiamo arrivando. Josh, sto arrivando” .
Ero così eccitata al solo pensiero di poterne vedere gli occhi, il sorriso, sempre dolce e solare, ahh che beatitudine.
“Lia…hai della…”
“Che cosa??”
Ero stata bruscamente risvegliata dalle mie fantasie da quello zotico di mio fratello, che mi guardava divertito.
“Che vuoi?”
“Hai della bava che ti scende dalla bocca” riuscì a biascicare con un sogghigno.
Cercai di non dare importanza alla cosa e tirai l’insulso liquido lontano dalle mie labbra, mentre mio fratello cercava di trattenere una risata.
Cercai di ignorarlo per il resto del viaggio, durante il quale mi lanciò delle occhiate tra il divertito e lo scioccato.
Arrivammo in aeroporto dopo appena trentacinque minuti, grazie al poco traffico delle tre di notte.
Il nostro aereo sarebbe dovuto partire verso le sei, perciò dovevamo arrivare in aeroporto con due ore di anticipo; saremmo poi giunti in a San Francisco alle tre del pomeriggio, ore sei della mattina, orario americano.
Perciò avrei cercato di dormire durante il volo, per mantenere un po’ di forze per la giornata che mi aspettava.
Dopo il check-in, in cui tutti tremammo al solo pensiero che potessero esserci delle complicazioni a causa del bagaglio di mia madre, poiché sembrava che si fosse portata dietro mezza casa, ci sedemmo ad aspettare che chiamassero il nostro volo.
Girovagai un po’ per l’aeroporto, fermandomi nei negozi, provando scarpe con tacchi troppo alti per me e vestiti troppo costosi, tanto per passare il tempo; dopo aver comparato un panino con pancetta pepata me ne stavo per tornare alla sala d’attesa, quando vidi un immenso cartellone che prima non avevo assolutamente notato.
Il viso di tre figure giovani, si stagliavano imponenti e sul vestito della ragazza era posata una spilla d’oro: una ghiandaia imitatrice.
Osservai il viso del giovane accanto a lei, con la fronte coperta da qualche ciuffo biondo e sorrisi.
Portai le mie dita sulle labbra e alzando il braccio, salutai i tre giovani con il saluto del distretto 12.
Qualcuno mi guardò stupito, qualcun altro sorrise, guardando il cartellone.
Poi me ne tornai, con ancora più buon umore alle file di sedie vicino all’imbarco e immersi nel mio manga preferito, QandA.
 
***
Appena fummo decollati, posai il manga nella mia borsa, presi il mio Mp4 e chiudendo gli occhi cercai di riposare, ascoltando Susan Boyle, in Enjoy The Silence.
Dopo qualche minuto caddi nel mondo dei sogni.
Mi sentivo tutta intorpidita dopo circa cinque ore di sonno in quel sedile piuttosto stretto.
C’era chi dormiva della grossa, quali il troglodita, il cui “soave e lieve” respiro riempiva l’aereo.
Cercai di alzare il volume della musica, ma mi accorsi solo allora che l’apparecchio era spento.
Probabilmente Tarzan aveva ben pensato di spegnerlo dopo che mi ero addormentata: dovevo ammettere che a volte aveva delle belle pensate.
Passai il resto del lungo viaggio a leggere manga e ascoltare musica, finché il mio MP4 non diede forfè.
Dopo un atterraggio, non proprio dei migliori, scendemmo e recuperammo i bagagli.
Appena usciti dall’aeroporto inspirai a fondo.
America.
L’aria era fresca, non c’erano più di 20 gradi sicuramente, il cielo era terso e non si scorgeva nemmeno una nuvola.
Mio padre chiamò un taxi, e caricate le valigie, partimmo per raggiungere il nostro albergo.
Abbassai il finestrino e guardai fuori.
Ci immettemmo in una stretta strada a lato della U.S. 101, e la percorremmo a lungo.
Sui lati non c’era un gran panorama, solo piccole costruzioni e camion, ma all’orizzonte si potevano scorgere colline verdi e lussureggianti.
Mano a mano che avanzavamo, gli edifici aumentavano, ma erano solo fabbriche o aziende, e qualche albero che emergeva ai lati della strada.
Dopo numerose curve la strada divenne dritta e alla nostra destra apparve una strana superfice azzurra che riluceva: la baia di san Francisco.
Le sfumature si alternavano spesso e la brezza increspava quel perfetto specchio.
“Attenta a non caderci dentro”
Mi voltai verso mio fratello e gli risposi con una smorfia.
Poi tornai al panorama, ma dopo qualche minuto mi ritrovai a osservare di nuovo la terra ferma.
Oltre vidi apparire all’orizzonte, un numero enorme di case ed edifici che iniziarono a circondarci, e da cui eravamo separati da un’alta siepe e un muro.
Passammo in un intrico di strade e cavalcavia, mentre una nebbiolina, tipica della città in estate, ci avvolgeva mentre ci avvicinavamo alla parte settentrionale della città.
Poi lasciammo l’enorme strada per immetterci nelle vie della città, ed nel cuore della città: enormi palazzi si stagliavano nel cielo, giganteschi cartelloni pubblicitari ricoprivano intere facciate di edifici, ma c’erano anche case dall’aria graziosa.
La gente camminava tranquilla, qualcuno correva in bicicletta, ma non c’era un gran via-vai, visto l’orario.
Notai anche un palazzo piuttosto strano, altissimo e con tante vetrate, sembrava una montagna.
Non mi accorsi neanche che eravamo arrivati all’hotel.
La facciata non era un granchè, c’era un enorme tettoia di vetro, o almeno di quello sembrava fatto, due colonne greche stavano ai lati dell’entrata, ma nei piani alti si trovava una scala di ferro, avete presente quelle che si vedono nei film, che di solito vengono “scalate”?
Come quella nel finale di Pretty Woman.
Beh, non donava per niente all’edificio.
Entrammo e devo dire che mi ero sbagliata sull’hotel, non era affatto male.
Salimmo nelle nostre camere, che come il resto dell’albergo erano caratterizzate da una mobilia elegante e da colori caldi, come oro e marrone.
“Bene ragazzi sono circa le sei e tre quarti, avete un’oretta per prepararvi e poi..” mio padre tirò fuori un taccuino e lo sfogliò, mentre mio fratello gli si avvicinava e sul suo viso prendeva forma una faccia terrificata.
“Non vorrai dirmi che hai pianificato tutto nei minimi dettagli?” gli chiese, aspettandosi senza tante speranza una risposta negativa.
“Ma certo, ho calcolato quanto durerà ogni visita, quanto potremo riposarci, in quanto mangia..” fu interrotto da uno scatto di mio fratello, che gli rubò il taccuino e andò in bagno chiudendo la porta.
“Tom, che diavolo stai facendo?” disse mio padre mentre batteva sull’uscio del bagno.
Sentimmo un inconfondibile scorrere d’acqua e poi il rumore di qualcosa che si chiudeva, poi mio fratello uscì raggiante
“Mi sono sbarazzato della nostra fonte di noia. Dai pa, ci divertiremo un mondo!”, e detto questo si stese su uno dei due letti singoli.
Mio padre andò a dare un’occhiata al water, visibilmente disperato, intendo mio padre, non il water ovviamente, mentre io e mia  mamma ci mettemmo comode.
Dopo un’oretta scendemmo a fare colazione e quando finimmo di rimpinzarci facemmo il punto della situazione
“Questa mattina dobbiamo andare all’Exploratorium, un museo di scienza” disse mio padre.
“Oddio no! Un museo” sussurrò mio fratello mettendosi una mano sulla fronte.
“Oh, ti divertirai anche tu, che lo voglia a no” disse mia madre con fare autoritario.
L’Exploratorium si trova all’estremo nord di San Francisco e in taxi ci si mette solo qualche minuto dall’hotel dove alloggiavamo.
Entrammo e ne rimanemmo assolutamente entusiasti, persino mio fratello si divertì, malgrado tutto, nelle quattro ore che passammo lì, senza neanche riuscire a vedere tutto.
E’ un edificio diviso in due piani in cui si possono trovare ogni tipo di invenzioni, c’era addirittura un creatore di tornadi!
Purtroppo c’erano troppi bambini che urlavano, spintonavano e si eccitavano alla vista di ogni nuova cosa da provare.
Quando uscimmo eravamo stravolti, ma contenti, così ritornammo all’hotel per mangiare e riposarci un po’.
Mi stesi sul letto e in prima che potessi accorgermene dormivo.
Sognai di trovarmi in un deserto, ero senz’acqua e il sudore mi bagnava tutta la maglietta.
La gola secca non smetteva di farsi sentire, ed ero troppo stanca, tanto che caddi a terra distrutta.
Qualcosa però attrasse la mia attenzione.
Vidi una figura non troppo alta, slanciata e in perfetta salute, al contrario di me: mi sorrise.
E solo allora riconobbi chi era.
Josh.
Tese un braccio e mi fece segno di avvicinarmi con la mano, ma qualcosa non andava.
Mi avvicinai a lui
“Josh, c’è qualcosa che non va. Dobbiamo metterci al sicuro” dissi, anche se non sapevo come avremo fatto.
“No, è tutto a posto. Vieni, fidati di me.”
Mi avvicinai a lui un po’ timorosa, ma rassicurata in parte dalla sua presenza.
Poi quando mi trovavo a qualche metro capì.
Il suo sorriso assomigliava più a un ghigno che a una dimostrazione di felicità.
In quel preciso momento mi sentii affondare, ero su delle sabbie mobili!
“Josh, ti prego aiutami!” gridai disperata.
Lui si avvicinò a me mi sfiorò la guancia con la mano e mi mise un dito sulle labbra
“Shh. E’ tutto a posto, fidati di me” e sogghignò.
Poi si allontanò un po’ per vedermi affondare da più lontano.
Intanto però si stava avvicinando un tornado.
Disperata, sia in vista della mia sorte che di quella di Josh, visto che il tornado veniva dalla nostra parte, cercai di avvertirlo e salvarlo.
Ma lui non mi ascoltò.
Ero ormai affondata fino alle spalle, quando lui finalmente si accorse del tornado, ma ormai era troppo tardi e lo vidi mentre veniva trasportato via e il suo viso era attraversato da una smorfia di orrore.
“No!” gridai, mentre i miei occhi venivano privati della luce del sole, per sempre.
Mi alzai completamente sudata.
Mio fratello sedeva accanto a me, preoccupato.
“Sempre lo stesso sogno?” mi chiese.
In camera non c’era nessuno.
“Dove sono mamma e papà?”
“Sono giù al bar. Tranquilla, siamo soli”.
Rassicurata gli raccontai del mio sogno.
Lui mi abbracciò
“Se a Los Angeles trovò quel farabutto gli spacco il naso, magari gli passa la voglia di uccidere la mia sorellina. Che dici?”
“Dico che se lo fai, potresti anche tu ritrovarti con qualche problema al naso” gli risposi divertita.
Dopo che mi fui cambiata e lavata via il sudore dal viso, mio fratello parlò di nuovo
“Sarà meglio che scendiamo, pa ci vuole far fare il visita della città. Poi sta sera andiamo a Chinatown e ceniamo lì”
Feci una faccia che marcava il mio disappunto
“Sa che non amo la cucina cinese e che..”
“Preferiresti una bella porzione di onigiri. Si, lo so anch’io. Dai scendiamo”
E così ci avviamo al bar

 
                                                                                     ---------------------------------------------------
 
                                                                                  Angolo scrittrice
                                                                                  Spero che anche sta volta mi perdonerete per la lunga assenza, ma volevo che la descrizione di San Francisco fosse il più possibile realistica, e ho voluto fare alcune ricerche.
Josh non apparirà ancora nel prossimo capitolo, che auspico arrivi presto.
Ringrazio chi mi segue, o anche da solo un’occhiata a questa fan fiction che mi prende sempre di più, si noti che in ogni capitolo scrivo un po’ di più. *Faccia soddisfatta*
Mi raccomando recensite, per me è molto importante! Potrò così capire cosa migliorare e cosa invece è meglio accentuare.
A presto, teikci
 
P.S. Per chi non lo sapesse, gli onigiri sono un tipico piatto giapponese di polpette di riso. La protagonista è infatti un’appassionata del Giappone, passione segnalata anche dalla presenza di manga, fumetti giapponesi che si leggono all’incontrario.

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Capitolo 5
*** A little surpise ***


A little surprise

 
  Salimmo per il treno diretto a Los Angeles e ci stendemmo sulle nostre rispettive cuccette.
Non riuscivo a dormire.
Il pensiero di lui mi trafiggeva e non potevo toglierlo dalla mia mente.
Dal mio cuore.
Forse lo avrei visto o forse no.
Negli ultimi due giorni avevamo visitato San Francisco con molto entusiasmo e c’eravamo divertiti molto ma…io ero sempre assorta nei miei pensieri e non credevo di aver assaporato fino in fondo la visita alla città.
Cercai alla ceca il mio MP4, lo accesi e iniziai ad ascoltare un po’ di musica e tentai di svuotare la mente.
Dopo poco mi addormentai.
 ***
 
“Ehi, piccola”
Aprii gli occhi a fatica e vidi mio padre vicino a me.
Mi strofinai gli occhi e mi accorsi di avere il viso bagnato, dovevo aver pianto mentre dormivo.
“Dev’essere un po’ di stress pa, niente di che” dissi mentre cercavo di rassicurarlo sorridendo.
Probabilmente però feci più una smorfia che un sorriso, perché lui non sembrò convinto.
“Cerca di dormire ancora un po’. Non manca molto” mi baciò sulla fronte e scese la scaletta, ritornando alla sua cuccetta.
Ovviamente non riuscii a dormire e aprii il finestrino vicino a me.
L’aria mi svegliò completamente e dopo qualche ora eravamo arrivati a Los Angeles.
Partimmo come previsto per il nostro hotel, le case sfilavano in gran ordine e i quartieri si susseguivano infiniti.
Arrivati salimmo nelle rispettive camere, e mi affacciai al balcone della mia.
Passarono pochi minuti quando sentii il mio cellulare vibrare.
Mi avvicinai al comodino controvoglia e presi il cell.
I messaggio era di io padre che si trovava con mia madre nella stanza accanto alla quella mia e di mio fratello.
Papà: Avete la mattinata libera. Vi vogliamo all’entrata dell’hotel alle 13.0 in punto. Papà
Sorrisi. Avevo tutta la mattina per me, avrei solo dovuto convincere mio fratello a lasciarmi girovagare da sola.
“Chi è?”
“Era papà. Abbiamo del tempo libero fino all’una” gli risposi.
“Benissimo” si alzò dal letto sfregandosi le mani “Immaginò che  però non dovrò perderti di vista un solo secondo” aggiunse sbuffando.
“A proposito di questo, non è che potrei farmi un giretto per conto mio?” gli chiesi speranzosa.
Lui mi fissò
“E me lo chiedi anche? Basta che ogni tanto mi mandi un messaggio per dirmi dove sei, e anche per accertarmi che respiri ancora, chiaro? Se no i vecchi mi uccidono veramente sta volta, e non è uno scherzo” mi rispose, anche lui in parte sollevato.
“Perfetto, grazie fratellone” gli stampai un bacio sulla guancia e mi preparai la roba da portare con me durante la visita della città.
Poi controllai che i miei non fossero nel corridoio e mi fiondai giù per le scale dell’hotel, rischiando di andare a sbattere contro una coppia di vecchietti che imprecarono contro di me.
Uscita dall’hotel svoltai a caso in qualche strada tanto per allontanarmi, poi mi fermai e tirai fuori dalla borsa una mappa.
Avevo visto un piccolo parco da qualche parte a nord della città.
Poi ripensandoci, rimisi nella borsa la mappa e decisi che avrei prima girovagato un po’ per la centro a casaccio, per dirigermi dopo un po’ al parco.
La città brulicava di vita, e la sentivo scorrere in me, mentre percorrevo le grandi vie piene di gente indaffarata.
L’aria non era certo delle migliori, visto il grande numero di veicoli, ma non potevo lamentarmi.
Mi fermai a comprare degli Yakitori, spiedini di pollo tipici giapponesi, e chiesi informazioni a una ragazza, per chiedere di quel parco.
Lei mi guardò stupita e disse che non sapeva di cosa stessi parlando, poi tirò dritto senza più darmi retta.
Risentita verso la ragazza, camminai ancora un po’ e trovai un anziano seduto su una panchina e gli posi la stessa domanda.
Lui mi sorrise benevole e mi chiese di dove fossi.
“Sono italiana, signore” gli risposi
“Bel posto l’Italia. Sai, non si direbbe che sei di lì, hai un ottimo accento inglese. Ma c’è qualcosa nel tuo viso e nei tuoi occhi che dici che non sei di qui e che sei speciale”
Io sorrisi un po’ imbarazzata e lo ringrazia, poi mi indicò dove fosse il parco.
Mi disse che era poco conosciuto e perciò non avrei trovato molta gente, era un posto tranquillo.
Lo ringraziai ancora e mi diressi spedita verso il parco.
Arrivai a un piccolo muretto mal messo che separava una strada di periferia da una distesa d’erba.
Lo oltrepassai e mi diressi verso il centro.
Non c’era nessuno e regnava il silenzio più assoluto.
Sgranocchiai il mio ultimo yakitori, alla ricerca di una panchina.
Ne trovai una all’ombra di un albero, che doveva essere una quercia vista la forma delle foglie.
Mi sedetti e cercai di fare il punto della situazione: erano le 10 e io avevo ancora tre ore di tempo.
Bene.
Tirai fuori il libro che alla fine avevo deciso di portare con me Mockinjiay.
Lo strinsi forte al petto.
Mi dava un senso di pace averlo con me, come se qualcosa di casa mi avesse seguito e mi proteggesse dal mondo che non conoscevo.
Lo aprii al punto in cui ero arrivata e mi immersi nella lettura.
Dopo circa mezz’oretta accadde qualcosa.
Me ne stavo seduta su quella scomoda panchina con le gambe incrociate e il naso nel libro.
Poi un imprecazione volò nell'aria e io alzai gli occhi.
Lui era lì, il volto contratto in una smorfia, gli occhiali da sole sui capelli arruffati e gli occhi pieni di disappunto.
Stava osservando qualcosa, ma io avevo occhi solo per lui...Josh Hutcherson.
Chiusi il libro piano e lo riposi nella borsa.
Mi alzai lentamente, quasi avessi paura di cadere o fare rumore.
Continuai a guardarlo sbalordita.
Lui stava guardando il suo cellulare.
L’espressione sul suo volto era piuttosto infastidita.
Feci un passo avanti e accidentalmente spezzai un rametto, che si ruppe in due con un rumore secco.
Lui si voltò sorpreso e mi fissò.
“Who are you?” mi chiese
Poi io caddi.
  
 
 

Angolo autrice
 
Contrariamente a quanto avevo preannunciato ecco Josh!!! Lo so che il capitolo non è lunghissimo, e a ciò rimedierò, ma sono soddisfatta di averne scritto uno abbastanza in fretta rispetto agli altri.
Spero che questo vi sia piaciuto, alla prossima.
E mi raccomando, recensite!
Teikci
 

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Capitolo 6
*** The meeting ***


The meeting

 

Tutto era buio.
Mi sentivo confusa, non capivo cosa stava succedendo.
Mi sentii sollevare delicatamente e posare su qualcosa di duro e sconnesso.
Qualcuno stava parlando, ma non riuscivo a intendere ciò che diceva.
Sentii dei rumori, e poi qualcosa di fresco mi si posò sulla fronte, poi sulle guance e infine sul collo.
Faceva caldo, e quel piccolo refrigerio mi fece sentire meglio.
Decisi finalmente di aprire gli occhi.
Un albero mi faceva ombra con i suoi lunghi rami, mentre io ero distesa su una piccola, e alquanto scomoda, panchina verde.
Mi tirai su a sedere, e qualcuno mi aiutò.
Mi voltai verso quella persona e sbarrai gli occhi.
Allora era tutto vero!
Non era stato un sogno, e non me l’ero immaginato!
“Ti prego, non svenire un’altra volta!” mi disse lui un po’ preoccupato, ma con un accenno di sorriso sul volto.
Notai che teneva un braccio attorno alle mie spalle, per sorreggermi.
Diventai subito rigida, non sapevo cosa fare, e soprattutto cosa dire.
Avevo sognato tante volte quel momento, certo nei miei sogni io non svenivo, ed era così patetico ora il mio comportamento!
“Cavolo dì qualcosa! Non startene lì impalata come uno stoccafisso!”disse una vocina nella mia testa.
“E’ quello che sto cercando di fare!”le risposi.
“Ah, sì? Non si direbbe…”disse con fare ironico.
La ignorai.
Avevo già troppi pensieri per conto mio, figuriamoci se dovevo anche badare alle bizze del mio inconscio.
“Ti senti bene?”
“Cosa?”
Oh, miseriaccia!
Che figura da perfetta imbecille.
Ero talmente assorta nei miei pensieri, da non sentire più nulla.
Maledetta psiche!
“Come ti senti?” ripeté lui paziente.
“Dì che stai male!”gridò la vocina.
“Mi sento confusa” risposta neutra.
Beh, d’altronde era vero.
“Forse è meglio se stai un po’ seduta. Permetti?” mi chiese avvicinandosi.
Non sapevo cosa volesse fare, ma annuii.
Lui mi si avvicinò ancora di più, scostò una ciocca dei miei capelli e…posò le sue labbra sulla mia fronte.
Le posò delicatamente, quasi avesse paura di farmi male.
Poi si allontanò e sorrise.
“Non hai la febbre, Forse sei svenuta per colpa del caldo.”
“Se… il caldo. Come no.”sussurrò la voce.
“Sì, lo so. Ma ti vuoi levare dai cosiddetti? Insomma, questo è il mio momento!”le gridai nella mia mente.
“Ok, d’accordo. Me ne vado. Che gente suscettibile”bofonchiò.
Tornai con il pensiero a lui.
“C’è qualcosa che non va?” mi chiese.
“No, assolutamente” dissi, cercando di sorridere.
Ero talmente tesa da non sapere più sorridere?
Poi lui fece un’espressione contrariata.
“O mio dio, non mi sono neanche presentato! Io sono Josh Hutcherson” disse tendendomi la mano.
Io la osservai, e poi gli porsi la mia
“Ersilia Lupetti” dissi titubante.
Rimanemmo per un po’ in silenzio, poi lui mi chiese
“Ti va di mangiare qualcosa?”
“Sì, forse mi farebbe stare meglio” acconsentii.
In realtà non avevo fame, grazie allo spuntino giapponese, ma come si dice…bisogna raccogliere la palla al balzo.
“Beh, allora dimmi cosa ti piacerebbe mangiare. Lo ordino e lo vado a prendere subito.
Non mi fido a farti muovere,” disse con disappunto “ e poi mangiare in pubblico…beh, sarebbe un po’…seccante per me” mi disse, quasi imbarazzato.
Annuii.
Poi riflettei.
Doveva andarsene?
No, no, no assolutamente no!
Non avrei potuto lasciarlo andare così, e se mi avesse abbandonato?
Il mio cuore non avrebbe retto.
Mentre lui s’incamminava, mi alzai di bottò
“Non andare…ti prego!” gridai.
Si voltò e mi guardò stupito.
“Perché?”
“Ho...ho paura di non vederti più tornare” dissi con gli occhi bassi..
Le sue dita mi presero il mento, e fecero in modo che lo guardassi dritto negli occhi
“Non potrei mai abbandonare una fanciulla bisognosa d’aiuto” disse in modo serio e compito.
Io continuai a guardarlo estasiata, annegando in quegli occhi…
“Visto che sei in forze, vieni con me” disse facendo ricomparire il suo sorriso e prendendomi la mano.
Ci dirigemmo camminando velocemente e in silenzio verso l’uscita del parco, poco lontana.
Parcheggiata davanti al muretto c’era una moto, che prima non avevo assolutamente notato.
Ehi, da dove erano spuntati quei palazzi?
Non ricordavo che ci fossero prima.
Poi vidi un cartello:
“Entrata Ovest”
Ahn, ecco perché non avevo visto la moto.
L’entrata era diversa, da quella da cui ero venuta.
Joshua si avvicinò al mezzo e io lo seguii.
Tirò fuori due caschi e me ne porse uno nero, con scritto Freedom sulla parte posteriore.
“Ne tengo sempre uno di scorta” mi disse sorridendo “Te la senti, vero, di salire? Sei mai andata in moto?”
“No” risposi un po’ confusa.
Lui fece una faccia divertita
“No, non te la senti, o no non sei mai salita?”
“La seconda” gli risposi ricambiando il sorriso.
Lui salì sulla moto, l’accese e mi fece cenno di accomodarmi sul posto dietro.
“Dove andiamo?” gli chiesi mentre prendevo posto, alquanto incerta.
“A casa mia” mi rispose, e diede gas.
Senza neanche che me ne accorgessi, mi ritrovai catapultata per le mille strade di Los Angeles, in moto, abbarbicata, come una cozza su uno scoglio, a Josh, per paura di cadere.
Cercai di ricompormi e di approfittare di quel momento per riflettere.
Di certo però, Sfiorare con le dita i muscoli di Josh, che riuscivo a sentire sotto la maglietta bianca aderente, e il suo profumo, non aiutavano molto a concentrarsi su qualcosa di razionale e che non fosse sconcio.
Perciò mi concentrai sul suo profumo.
Era talmente sfaccettato, se si può usare il termine, formato da tanti odori diversi…
Creava una certa, assuefazione.
Mi avvicinai leggermente di più e riuscii a riconoscere un odore.
Pane.
Subito la mia mente si riempì di tante immagini e di una sola parola.
Peeta.
Fui risvegliata dai miei pensieri, da una brusca frenata.
Eravamo arrivati di fronte a una villetta.
Scesi dalla moto, mi tolsi il casco, e osservai l’abitazione.
Era abbastanza grande, bianca, con un grazioso giardino attorno.
Era una casa semplice, almeno per gli standard di Los Angeles.
“Allora, che ne dici?” mi chiese Joshua.
“E’ veramente bella” gli risposi.
“Bene” sorrise e aprì il cancello “Prima le signore” disse lasciandomi passare.
Entrata in casa, stavo dando una superficiale occhiata all’interno, quando qualcuno mi rivolse bruscamente la parola
“E tu chi sei?” guardai dietro di me, ma Josh era sparito.
Tornai a guardare davanti e vidi una signora bionda, non troppo alta, formosa e…aveva uno sguardo piuttosto…ostile.
“Io…ehm…io sono”
“Lei è una mia amica, ma’” disse Josh, apparendomi alle spalle “Ersilia”
“Ah.” Rispose lei alquanto dubbiosa.
“Beh, noi andiamo in cucina.” Disse lui, imbarazzato.
“Io devo uscire, starò fuori qualche ora. Tuo padre e tuo fratello sono…in giro.”
“Va bene.”
La donna mi lanciò un ultimo sguardo assassino che diceva “Tocca mio figlio e sei morta”.
Io seguii Josh alquanto stupita.
La cucina era enorme con  penisola e tavolo al centro piuttosto grande.
“Allora, che ti piacerebbe mangiare?” mi chiese Josh, risvegliandomi dai miei pensieri.
“Non saprei, quello che c’è a disposizione”
“Guardiamo che c’è” aprì la credenza e…vidi che era praticamente vuota
“Oh, cavolo”
Ecco perché era uscita sua madre, la spesa.
Poi mi venne un’idea.
Mi avvicinai alla credenza, tirai fuori della farina e trovai un sacchetto di zucchero in fondo.
Josh mi guardava stupito, ma mi lasciò fare.
Cercai altri ingredienti, tra cui uova, non mi aspettavo di trovarne, e burro.
“Bene” dissi “Prendi due grembiuli, una bilancia e una terrina che ti insegno un po’ di cucina”
Lui sorrise e tirò fuori quello che gli avevo richiesto.
“Sei proprio grazioso con il grembiule” gli dissi
“Lo so, me lo dicono tutti” mi rispose ridendo “Cosa ci propone il nostro chef?”
“Biscotti al cioccolato!” dissi imitando l’accento francese
“Allora mettiamoci al lavoro!”
Iniziammo così a impastare, mescolare e divertirci come matti.
Ad un certo punto, mentre stavo spiegando come impastare la pastafrolla…
“Vedi, devi formare una specie di pal…Ehi, ma!”
Mi arrivo in piena faccia della polvere bianca.
Farina.
“Sei più bella a pois!” disse Josh sbellicandosi dalle risate
“Ah, così mi prendi in giro? Ragazzo del Pane?” e mi avvicinai a lui con una bella manciata di farina e rimasugli di uovo crudo con cui gli impiastriccia la faccia.
Ci rincorremmo per tutta la cucina a suon di farina e gusci d’uovo.
“Ok, ora basta. Sono esausto” disse con il fiatone.
“Uno a zero per la ragazza dei biscotti!” esultai.
Poi con della pellicola trasparente misi la pasta in frigo.
“Dovrà rimanerci per mezz’oretta. Intanto ci conviene pulire, o tua madre ci ucciderà sul posto” Consigliai.
“Aspetta un attimo” disse, e andò al piano di sopra.
Tornò dopo cinque minuti
“Sali, seconda porta a destra.”
“Ma cosa?”
“Vai, su”
Mi tolsi il grembiule e corsi di sopra.
Appena entrata nella stanza, fui pervasa dall’odore di mandorla.
Una vasca piena di schiuma era preparata e un asciugamano era appeso vicino.
Mi spogliai e mi immersi nella vasca.
Mi levai la farina e ciò che rimaneva delle uova, poi uscii, un po’ di malavoglia dalla vasca.
C’erano dei vestiti appoggiati sul mobile degli asciugamani: dei pantaloni corti elasticizzati e una maglietta azzurra.
Mi stavamo un po’ larghi, ma non eccessivamente.
Mi asciugai un po’ i capelli e scesi.
La cucina era immacolata.
“Finalmente. Credevo fossi affogata” disse Josh con tono scherzoso.
“Non dubitare che avrei potuto farlo. Allora i nostri biscotti?”
“Ecco” disse porgendomi la pasta.
Con delle formine  facemmo i biscotti che ponemmo poi nel formo.
“Ora dobbiamo solo aspettare?” mi chiese.
“Si, non ci vorrà molto”
Silenzio.
Eravamo seduti uno di fronte all’altro.
“Dimmi qualcosa di te”
“Io?”
“Vedi qualcun altro qui?”
Sorrise.
“Beh, allora…io studio lingue europee”
“Davvero?”
“Si, spagnolo, tedesco e francese. Oltre ovviamente all’inglese”
“Wow! Dimmi qualcosa in tedesco” mi chiese incuriosito.
“ich heiße Ersilia”
“O mamma. Non ho capito niente!” disse ridendo
“Io mi chiamo Ersilia” dissi sorridendo.
“Cavolo, dev’essere interessante!”
“Moltissimo”
Continuammo a parlare.
“Hai un fratello, una sorella?”
“Due fratelli: Thomas ha 19 anni ed è in viaggio con me, mentre mio fratello Luca ha 28 anni e vive a New York” risposi.
“Sono grandi!”
“Già molto.”
“E tu sei fid…”
Fu interrotto dal suono di una campanella che segnava la fine della cottura.
Prendemmo i biscotti e ne mangiammo qualcuno.
“Sono ottimi!”
“Batti cinque, ragazza dei biscotti!” mi disse.
E così esultammo.
Diedi per caso uno sguardo all’orologio: 12.45.
“Oh, miseriaccia!” gridai con metà biscotto in bocca, rischiando di soffocarmi.
Devo tornare subito all’hotel dove alloggio! I miei si arrabbieranno se ritardo!”
“Ti ci porto io in moto” mi propose
“Grazie” dissi rincuorata.
Mise un po’ dei biscotti che rimanevano in un sacchetto e me lo porse
“Te li sei meritati”
Uscimmo di corsa e salimmo sulla moto.
Dopo appena una decina di minuti eravamo praticamente arrivati.
“Accosta pure qui” gli dissi.
Scesi e gli porsi il casco.
Lui si levò il suo.
Aveva un’aria triste.
“Allora ci dobbiamo lasciare” disse
Io non risposi.
“Hai da fare, domani? Dopo pranzo?” chiese speranzoso.
“No” il mio viso si illuminò, e anche il suo tornò sereno.
“Allora ci vediamo domani, ragazza dei biscotti” e mi baciò la guancia.
Poi partì e io rimasi lì.
Iniziai a camminare verso l’hotel, gli occhi sognanti e una mano sulla guancia.
Solo allora le mie emozioni mi si riversarono addosso.
Avevo visto Joshua Hutcherson.
Ci avevo passato del tempo insieme.
Mi aveva baciato sulla guancia.
E avevo un appuntamento domani con lui.
Mi sembrava un sogno e avevo paura di dovermi svegliare.
Raggiunsi l’hotel e vi trovai i miei all’entrata.
“Ersilia, ma dove sei stata?” mi chiese mia madre, con disappunto.
“Eh?”
“O santo cielo, siamo in ritardo!” disse mio padre.
“Ersilia, dove hai preso quei vestiti?” chiese ancora mia madre.
“Cara, vogliamo andare” insisté mio padre.
Mia madre lasciò perdere e ci dirigemmo verso un taxi, fuori dall’hotel.
Saliti, partimmo per la visita di chissà quale museo.
“Cos’è questo odore?” mi chiese mio fratello.
“Probabilmente dei biscotti al cioccolato che ho” gli risposi distrattamente.
“Non è che me ne daresti uno?”
Gliene porsi un po’-
“Buoni, dove li hai presi?” mi domandò.
“Li ha fatti il ragazzo del pane” sussurrai.

 

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Angolo autrice

Eccomi ancora qui!!!!
Ho cercato di scrivere il prima possibile il nuovo capitolo e direi che sono abbastanza soddisfatta ù.ù
Sper veramente che vi piaccia.
Mi raccomando, recensite e fatemi sapere le vostre opinioni.
Hasta luego, Teikci






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