I racconti della buonanotte

di Ila_Chia_Echelon
(/viewuser.php?uid=183169)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I wake up in a pool of blood ***
Capitolo 2: *** Vengeance & bones ***
Capitolo 3: *** Yellow fire ***
Capitolo 4: *** The Raven ***
Capitolo 5: *** LSD ***
Capitolo 6: *** Shadows ***



Capitolo 1
*** I wake up in a pool of blood ***


I wake up in a pool of blood

Mi risveglio in una pozza di sangue.

Non mi sorprende scoprire che è il mio: sgorga copiosamente da una ferita proprio in corrispondenza del cuore, macchiando di gocce scarlatte il mio abito bianco.
Aspetto che il dolore m'investa prepotentemente, ma tutto ciò che sento è stanchezza, come un lento svuotarsi dell'anima.

Mi alzo in piedi ed osservo la sala circolare in cui mi trovo: enormi porte di legno scuro finemente intagliato si stagliano lungo la parete, mi schiacciano con la loro imponenza, mi fanno sentire piccola.
Su ognuna di esse una scritta incisa.
Mi trascino alla mia destra, sono via via più stanca; la scia di sangue dietro di me sempre costante, sempre violentemente rossa sul pavimento marmoreo.
Sfioro la superficie della porta su cui è scritto: "Sweet memories".
Immediatamente caldi ricordi mi travolgono: i Natali passati in famiglia, i sorrisi dei miei amici, il primo amore, il primo racconto che ho scritto, la melodia della mia canzone preferita, il gusto della panna sulla cioccolata calda.
Mi ritraggo dal fiume d'immagini piacevoli e zuccherose. Comprendo di aver vissuto realmente quei momenti, ma adesso il loro calore viene sostituito da quello delle gocce che continuano a colare sulle dita dei miei piedi.
Vado verso la porta opposta a quest'ultima. Su di essa campeggiano in invitanti ghirigori gotici le parole: "Hidden secrets".
Poso il palmo destro sulla maniglia e vorrei non averlo mai fatto.
Il peso dei segreti è talmente opprimente, oscuro e distruttivo che per un attimo mi chiedo se Atlante provasse il mio stesso dolore nel sostenere la volta celeste. Sento le mie ossa comprimersi e frantumarsi, lacrime amare scorrere sulle guance. Quando finalmente riesco a liberarmi e a respirare nuovamente penso che almeno due centimetri della mia altezza siano andati perduti.
Mi accascio a terra stringendo la ferita al cuore. Deve smettere di sanguinare, deve smettere.
L'abito è ormai totalmente umido, il suo candore per sempre oscurato dalle macchie purpuree; le lastre bianche sotto di me ricoperte da striature dense che compongono un macabro disegno.
Non so dove sono, chi mi abbia ferita, devo uscire da qui o impazzirò.
Con la vista indebolita adocchio la porta più vicina e vi striscio letteralmente di fronte.
"Fear (take your choice)" dicono candidamente le lettere intagliate.
Poso l'orecchio sul legno gelido ma non odo suoni, non percepisco sensazioni di alcun tipo. Rifletto sul mio essere quasi morta e mi costringo ad alzarmi e fare l'unica cosa che potrebbe essermi utile: apro la porta.
Dietro di essa c'è una stanza circolare esattamente identica a quella da cui sono uscita, fatta eccezione per il freddo glaciale.
Trattengo a stento i brividi finchè un'ombra non si materializza al centro della stanza scatenando in me un terrore incontrollabile, freddo e pungente come schegge di ghiaccio.
I tremori mi scuotono come una foglia avvizzita in balia del vento, mentre immobile cerco di identificare ciò che mi sta davanti.
È una forma scura e spessa, di un nero anomalo, profondo, dalle sfaccettature cangianti e lucide. Ha vaghe sembianze umane che si mostrano nella linea del capo, nella curvatura delle spalle, ma non ha arti, solo una coda che si snoda e guizza nell'aria fredda della stanza, quasi fosse dotata di vita propria. Pare infinita, alimentata da ogni nuovo brivido che percorre la mia pelle, e le dimensioni dell'ambiente aumentano di pari passo a quelle dell'inquietante protuberanza.
Tuttavia la cosa più spaventosa è il volto della creatura, o almeno la superficie su cui il viso dovrebbe essere. Infatti è soltanto una sfera lucida e liscia, apparentemente viscida, vuota, e un conato di vomito mi assale quando mi pare di scorgere un cambiamento, una piega maligna lontanamente simile ad un sorriso che intacca le sfumature nere.
So che è rivolto a me, ma non voglio vederlo, non voglio affrontarlo. Mi accoccolo a terra avvolgendomi la testa con le braccia e chiudo gli occhi, e in quel momento so di aver fatto la mia scelta.
L'ombra malefica penetra nel mio petto ancora sanguinante e ne strappa il mio cuore; eccolo lì, nelle sue mani spuntate da chissà dove, ancora vivo e pulsante.
Un urlo quasi gutturale fuoriesce dalle mie membra e il viscido buio mi circonda e ne amplifica mille volte il suono, che sembra volersi impossessare del poco che resta di me.
Tutto è nero, tutto è freddo, sto vorticando all'interno della mia stessa paura ma all'improvviso, quasi impercettibilmente, avviene un cambiamento, una costante diminuzione di velocità e potenza, come se il mio corpo stesse lentamente tornando sotto il controllo della forza di gravità. Ed è così.
A pochi passi dalle mie mani una porta è incastrata in quello che è il pavimento bianco ancora macchiato del mio sangue che, me ne accrogo adesso, ha ripreso a scorrere costantemente dalla ferita come se niente fosse successo.
Osservo la porta e penso che, dopo tutto questo dolore, ho forse trovato l'uscita.
Anche qui c'è una scritta incisa: "Your mind". Non capisco cosa dovrebbe comunicarmi, ma in fondo niente può essere terribile quanto un cuore strappato; dunque sollevo la porta, che ricade dall'altro lato senza fatica. Vi infilo subito il capo, ed è il buio.
Mi risveglio in una pozza di sangue.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Vengeance & bones ***


Vengeance & bones

Stefano si buttò di peso sul letto e iniziò a piangere silenziosamente. Non avrebbe voluto, ma era pur sempre meglio farlo lì, in camera sua, che a scuola davanti a tutti.
L'ennesima, infernale giornata – una delle tante negli ultimi due anni – si era finalmente conclusa, lasciandolo affogare nella sofferenza che prepotentemente lo assaliva ogni volta.
Tredici anni, tredici orribili anni.
No. Si corresse, ricordava un'infanzia gioiosa, una famiglia amorevole, amici sinceri...ma tutto era cambiato.
Alle elementari non importava come si vestisse, cosa facesse nel tempo libero, che genere di musica ascoltasse. Tutto ciò che i compagni tenevano in considerazione nel giudicarlo ruotava intorno al fatto che fosse un bimbo gentile e, soprattutto, sempre pronto a giocare.
Ma si cresce, si cambia, a volte in peggio. Alle scuole medie non interessavano a nessuno il suo comportamento educato, la sua intelligenza; era un ragazzo silenzioso, amava leggere, e per questo una sola, umiliante etichetta gli era stata affibbiata dai compagni: sfigato.
"Sfigato, sei uno sfigato" gli ripetevano in continuazione, i volti distorti da ghigni derisori che gli riempivano la mente nei momenti più bui, non facendo che aumentare la sua voglia di vendicarsi e, allo stesso tempo, di sfogare l'umiliazione nel pianto.
Per questo nelle mattinate più terribili, dopo essere tornato a casa, si chiudeva in camera piangendo; dopodichè cercava di lavare via le lacrime come meglio poteva e si stampava in faccia il suo più luminoso e falso sorriso, a beneficio dei genitori distratti.
Una sola cosa lo spingeva ad andare avanti, un solo, bellissimo sogno che conservava gelosamente dentro di sè, finchè non sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbe avverato dando compimento a una sua speciale vendetta personale.
Sarebbe diventato uno scrittore, ma non uno scrittore qualunque. Sarebbe diventato un GRANDE scrittore, le morbide copertine dei suoi best-sellers avrebbero riempito le vetrine di ogni libreria, avrebbe guadagnato successo, stima e denaro, mentre i bulli che lo deridevano sarebbero rimasti nei loro squallidi uffici a sgobbare su un lavoro che non amavano nè avrebbero mai amato, ne era certo.
Mentre assaporava il dolce gusto della sua vendetta gli parve di sentire un rumore, uno schiocco sonoro proveniente dall'interno dell'armadio, dalla parte opposta della stanza.
Il torpore si era già impossessato delle sue membra e non aveva assolutamente voglia di alzarsi a controllare (probabilmente era semplicemente caduta una gruccia), ma sarebbe comunque dovuto scendere per il pranzo di lì a poco, dunque sospirò profondamente e si mise a sedere sul soffice materasso.
Si strofinò gli occhi arrossati e si alzò, lo sguardo vagamente puntato sull'armadio bianco.
Mentre posava i polpastrelli sull'anta per aprirla percepì un altro suono dietro di essa, e ciò lo spinse a ritrarsi per un attimo. Le grucce avevano deciso di cadere tutte quel giorno? Forse un insetto si era in qualche modo introdotto lì dentro e adesso tentava di uscire.
Scacciò ogni dubbio con una scrollata di spalle, e in quel momento una voce lo riportò alla realtà: «Stefano, è pronto! Vieni giù a mangiare!»
Sua madre lo chiamava e inoltre sentiva un certo languorino. L'armadio avrebbe aspettato.



Il giorno seguente, appena dopo la scuola, lo accolse in camera un altro di quei suoni bizzarri dei quali constatò di essersi completamente dimenticato, soprattutto perchè non si erano più ripetuti.
Ovviamente aveva aperto l'armadio per prendere i vestiti che indossava, ma non aveva notato niente di anomalo.
Stavolta i rumori erano ravvicinati tra loro, rapidi e brevi, quasi insistenti.
Senza alcun indugio Stefano si avvicinò all'armadio e l'aprì.
Ciò che si trovò davanti fu tanto stupefacente da far finire il ragazzo per terra, il quale poi si trascinò repentinamente sulle mani finchè non urtò la sponda del letto e dovette arrestare la sua spaventata corsa.
Ora capiva perfettamente l'origine di quegli schiocchi, così secchi e particolari, così simili al rumore che aveva fatto un osso della sua gamba quando se l'era rotta 7 anni prima.
Cosa ci faceva quella..quella cosa nel suo armadio?
La risposta non avrebbe tardato ad arrivare, si disse, poichè poco dopo una voce, se così la si poteva considerare, iniziò a risuonare nella stanza, provocandogli un brivido lungo la spina dorsale.
Ciò che ne scaturì suonò davvero assurdo, pronunciato da quel sibilo scivoloso e freddo, quasi una cupa cascata di cristalli ghiacciati che grattassero la gola dello strano individuo.
«Ciao...non avere paura, ok? Sono lo scheletro del tuo armadio e..ehm, immagino che tutti ne abbiano uno no?»
«C-che cosa sei?»
«Uno...scheletro?» gli dissero due orbite vuote, fissandolo con un che di scettico.
«L'ho capito! Vattene! Vattene! Sei solo un incubo, adesso chiudo gli occhi e tu sparirai! Ecco...» Stefano abbassò le palpebre, ma quando le riaprì si ritrovò davanti un ossuto sorriso che, per quanto cercasse di apparire amichevole, non faceva altro che sortire l'effetto contrario.
«Oh, cazzo...»
«Va bene, va bene! Adesso mi allontano, calmati. Sono tuo amico, te lo vuoi ficcare in quella stupida testa da essere vivente?!» sbottò lo scheletro, poggiandosi all'anta del guardaroba.
"Ok, Stefano, adesso tu respiri, respiri profondamente e se dio vuole questo coso non ti ucciderà non ti ucciderà non ti ucciderà non.."
«Allora! C'è qualcosa che vorresti chiedermi?»
"Parla, Stefano, parla se non vuoi farti ammazare..."
«Be'...vediamo...perchè vivi nel mio armadio? E cosa sei, nello specifico? Sul serio, sei un fantasma, uno zombie o che so io?» disse con voce tremante, senza muoversi di un millimetro.
«Diciamo che sono, come dire, il frutto delle tue sofferenze...è come se..come se fossi stato consumato da tutto ciò che provavi. Penso di essere qui per consolarti, in un certo senso.»
«Ok, e come pensi di farlo?» chiese il ragazzo, non molto convinto.
«Be', direi...parliamo?» Il mucchio d'ossa si sedette a gambe incrociate accanto a Stefano, aspettando che iniziasse a sfogarsi.
Dopo i primi tentennamenti il ragazzo gli raccontò di come andavano le cose a scuola, di quanto desiderasse una vendetta, di quanto volesse farsi capire dagli altri. Era una situazione totalmente assurda e Stefano si disse che in fondo quello strano personaggio sembrava ascoltarlo veramente, come nemmeno i suoi genitori erano mai riusciti a fare, e in quel momento pensò di essere sul punto di impazzire.
Al momento di andare a dormire credette quasi di percepire la fuggevole illusione di aver trovato un amico, un amico non tradizionale, ovviamente, ma pur sempre una persona disposta a consigliarlo e incoraggiarlo, soprattutto perchè conosceva meglio di lui il suo stesso dolore.
Forse era tutta un'allucinazione, forse stava realmente andando fuori di testa, e mentre lo scheletro si coricava nel suo armadio Stefano capì che, qualsiasi cosa fosse, l'avrebbe scoperto l'indomani.

 

Stavolta, rientrato da scuola, corse dritto verso l'armadio; era un'altra di quelle giornate terribili e aveva decisamente bisogno di qualcuno con cui sfogarsi.
Scostò l'anta e trovò lo scheletro seduto lì dietro, calmo e pacifico ad aspettarlo. Gli disse di sedersi accanto a lui e Stefano accettò. Da piccolo aveva fatto dell'armadio il suo personale rifugio dal mondo e vi si nascondeva spesso e volentieri. Crescendo aveva perso quell'abitudine, ma adesso non gli sembrava una cattiva idea riprenderla.
Riversò nello spazio angusto e buio (aveva richiuso l'anta) tutto il suo odio per un suo compagno, un certo Michele, che era il più agguerrito dei suoi persecutori, e non faceva altro che vomitargli addosso insulti dalla prima all'ultima ora. Lui era troppo timido per difendersi, non ne aveva il coraggio, e così la sua frustrazione non faceva che aumentare, di pari passo con gli insulti.
Lo scheletro, da Stefano soprannominato TJ (non aveva idea di cosa T e J dovessero significare, ma il nome gli suonava bene) gli disse che quel ragazzo si sarebbe davvero meritato una lezione, che tutto si sarebbe sistemato prima o poi, che non doveva preoccuparsi. Stefano non era tanto sicuro che le cose sarebbero cambiate; comunque continuò a parlare con TJ, raccontandogli del suo sogno di scrittore, della sua passione per la lettura.

 

Il giorno dopo tornò a casa totalmente sconvolto, e non per i soliti motivi.
TJ! TJ! Iniziò a gridare appena entrato in casa (i suoi non c'erano).
S
palancò con violenza l'anta bianca e afferrò lo scheletro per il polso ossuto. Il contatto lo fece rabbrividire ma non ci fece molto caso, preso com'era dalla collera.
«Sei stato tu! Sei stato tu vero?»
«Cosa?! Che c'è?»
Le lacrime iniziarono a scorrergli lungo le guance. «Lo sai benissimo, TJ. Dimmi la verità! Perchè l'hai fatto?»
«Pensavo che ne saresti stato felice! Non era questo che desideravi? Non avresti voluto che smettesse di prenderti in giro?!»
Lo sapeva. Inizialmente non ci aveva pensato ma era stata una coincidenza troppo grande, troppo immediata per essere, appunto, una vera coincidenza.
«Tu non capisci! Ti rendi conto di quello che hai fatto?! Io volevo che mi lasciasse in pace, volevo dargli una lezione, ma non volevo fargli del male! Ciò che hai fatto è irreparabile! Pensa a quante persone staranno male, adesso! Pensa a tutti i suoi amici, i suoi famigliari...Non hai fatto altro che peggiorare la situazione!»
Stefano era fuori di sè, sconvolto al pensiero di ciò cui aveva assistito pochi minuti prima.
Era in giardino con la sua classe, facevano lezione di arte in cortile, come spesso capitava nelle giornate più calde e luminose. La professoressa era rientrata nell'edificio scolastico per una telefonata.
Michele aveva improvvisamente abbandonato il disegno a cui stava lavorando e si era diretto in un angolo del cortile. Aveva afferrato la corda che vi era posizionata – le bambine delle elementari (la loro scuola era annessa alle medie) la usavano spesso per saltare all'intervallo – e si era arrampicato sull'albero che svettava al centro del cortile.
Tutti pensavano scherzasse – non era insolito da parte sua organizzare certe scene per attirare l'attenzione su di sè – finchè non aveva annodato la corda al ramo più robusto, aveva fatto un cappio all'altra estremità e se l'era messa al collo, gettandosi poi nel vuoto.
Tutti i ragazzi erano stati mandati a casa in anticipo con i genitori, anche se ormai mancavano pochi minuti al suono dell'ultima campanella, e Stefano era tornato a casa da solo, come sempre, poichè i suoi erano via per lavoro e non aveva nessun altro, all'infuori di loro.
Il viaggio in autobus non gli era mai sembrato così lungo.
Ora il ragazzo singhiozzava rumorosamente, e TJ cercò di consolarlo senza risultati. Come poteva non rendersi conto di ciò che aveva fatto? Stefano non capiva nemmeno come fosse stato in grado di farlo. Non gli importava più di tanto, stava pur sempre parlando con uno scheletro che gli rispondeva e si muoveva, doveva aver usato un qualche tipo di magia, la magia esisteva.
Comunque almeno per il momento non voleva sentire una sola sibilante parola uscire da quell'involucro vuoto, voleva solo dormire e non svegliarsi per molto tempo, se possibile.
Cacciò TJ fuori dalla camera e si chiuse nell'armadio a piangere.

 

La sera dopo avevano fatto pace.
Nemmeno Stefano si capacitava di come fosse successo, ma si era ripetuto che TJ era ingenuo, non capiva del tutto quello che faceva, era come un neonato che doveva essere educato, "questo è giusto, questo non si fa". Aveva cercato di spiegarglielo, era sicuro avesse capito, era buono, era un buon amico, il suo unico amico. Non poteva permettersi di perderlo per una...sciocchezza.
Ed era convinto non si sarebbe mai più ripetuta una cosa del genere.

 

Una sera di qualche giorno dopo Stefano aveva appena finito l'usuale chiacchierata con TJ (qualche volta giocavano persino a carte o ascoltavano qualche canzone) e si stava rimboccando le coperte, ma qualcosa gli impediva di addormentarsi.
Leggermente intontito dal sonno, iniziò a grattarsi freneticamente il polpaccio destro; pensò a una puntura di zanzara, anche se di solito non si facevano vive in quel periodo. Continuava a grattare e scorticare la pelle, il prurito era insopportabile, e non smise finchè non sentì i polpastrelli ricoperti da qualcosa di caldo e terribilmente viscido. Terrorrizzato, scalciò le coperte di lato e accese la luce.
Le sue mani e gran parte del materasso erano ricoperti di sangue, la ferita – perchè ormai di questo si trattava – era un'orribile grumo di sangue, pus e pelle strappata.
Corse in bagno e con grande difficoltà esaminò meglio il taglio.
La cosa strana era che non sentiva alcun dolore; tuttavia era pur sempre la cosa più orribile e rivoltante che avesse mai visto.
Cercò di disinfettarla, la fasciò alla bell'e meglio e tornò in camera, dove cambiò le lenzuola molto approssimativamente (sua madre sarebbe davvero servita, in quel momento), e si rimise a letto.
Faticò ad addormentarsi a causa del pensiero, sempre vivo e pulsante, di quell'orrenda cosa sulla gamba, ma dopo un'oretta cadde nel mondo dei sogni, o meglio, degli incubi.

 

La mattina dopo, al risveglio, il ricordo della sera precendente lo colpì come un proiettile in pieno stomaco e, con paura e speranza mescolate assieme, decise di togliere la fasciatura e controllare se la situazione fosse migliorata.
Non lo era affatto.
Dovette cambiare la garza, ormai inutilizzabile, e con un sospiro pregò che tutto si sistemasse. Era quasi completamente solo, aveva paura, e soprattutto non voleva andare in ospedale. Odiava i medici.
Si accostò al rubinetto del bagno per lavarsi il viso e un urlo soffocato gli uscì dalla gola quando vide il suo riflesso nello specchio sopra di esso.
Un orribile squarcio, simile a quello sulla gamba, gli sfregiava la guancia sinistra dallo zigomo fino al mento. La carne rosea aveva un aspetto malato, marcio, e Stefano non osò nemmeno sfiorarla.
L'unica cosa che fu in grado di fare fu correre più veloce che poteva dal suo migliore amico, nonchè verso il suo unico rifugio, l'unico luogo in cui si sentisse al sicuro.
«TJ! TJ aiutami! Non so cosa siano questi tagli, ho paura, aiutami ti prego aiutami ho paura...» disse Stefano allo scheletro, la voce spezzata dai singhiozzi.
Entrò nell'armadio e l'amico lo sfiorò con le fredde falangi.
«Stai tranquillo. Non senti dolore, sono solo dei tagli innocui. Non ti succederà niente di male...»
Le parole scorrevano come miele nelle orecchie di Stefano, che cominciava a sentirsi meglio.
«...Non pensarci, ci sono qui io ad aiutarti..pensa solo a riposarti, a sognare, a dormire...pensa a dormire.»
Il torpore iniziò ad avvolgere il suo corpo in una confortevole nebbia, tutte le preoccupazioni, le paure sembrarono scivolare lentamente in un qualche tipo di gas anestetico e, un attimo prima di cadere nel buio più buio che avesse mai visto, nel nero più profondo e irraggiungibile che avesse mai conosciuto, a Stefano parve di scorgere la sfavillante oscurità di una fiamma negli occhi dello scheletro, una fiamma guizzante e dolce come la vendetta.

 

Due giorni dopo.

Simona aprì la porta di casa e con un sorriso soddisfatto lanciò borsa e giacca sul divano del salotto, finalmente libera di fare ciò che voleva. I viaggi di lavoro erano sempre stressanti e parevano infiniti, ma non c'era niente come il momento in cui tornava nella sua tana confortevole, respirando già l'aria di relax e svago del weekend in arrivo.
In casa c'era un silenzio non inusuale; Stefano era un ragazzo silenzioso e diligente, sicuramente se l'era cavata benissimo in quei pochi giorni di solitudine, anzi, probabilmente era stato felicissimo di rimanere per un po' senza il controllo dei genitori.
«Stefi? Tutto bene amore? Sono tornata!»
Nessuna risposta. Simona sorrise, chiedendosi quale libro catturasse l'attenzione del figlio in quel modo.
Salì con calma le scale che portavano alla sua camera, esaminandosi nel frattempo le unghie. "Qui urge una bella manicure" si disse.
«Allora? Non vuoi nemmeno salutare la mamma?» parlò ridendo all'aria.
La porta della cameretta era stranamente aperta. Simona entrò ma non vide nessuno.
«Ti nascondi anche adesso? Sai che non mi piace essere presa in giro!» gridò, ma continuava a ridere.
Decise di stare al gioco del figlio: cercò in tutte le camere, nei bagni, scese persino in cucina e in cantina, ma niente. Adesso iniziava a preoccuparsi. Si chiese dove potesse essere andato; doveva per forza essere in casa, non usciva praticamente mai, soprattutto negli ultimi tempi, che passava sempre più spesso rinchiuso in camera.
«Stefano? Stefano vieni fuori adesso! Sono stanca, vuoi un bel castigo?!» urlò, la voce leggermente isterica. Tornò di corsa alle camere e, rientrando in quella del figlio, le parve di percepire uno strano odore. Le fece arricciare il naso e corse ad aprire la finestra.
Si aggirò per la camera cercando di capire da dove provenisse, e un'insana paura si fece strada nella sua mente quando individuò l'armadio come l'origine del fetore.
Aprì l'anta tappandosi il naso e urlò senza quasi sentire la sua voce per quanto era forte.
Svenne con ancora l'immagine impressa sotto le palpebre, l'immagine del corpo orribilmente putrefatto di suo figlio accanto ad un mucchietto di lucide ossa su cui svettava, in tutta la sua cattiveria, un teschio vuoto e paurosamente sorridente.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Yellow fire ***


Yellow fire

Carol Even, alla rispettabile età di 68 anni, si rigirò nel letto per l'ennesima volta, forse l'ultima, e osservò il corpo disteso accanto a lei, appartenente a sua nipote Elisabeth, una dolce ragazzina di 12 anni dai lineamenti delicati e l'incarnato roseo.
Sorrise, nonostante fosse vedova da anni i suoi nipoti gareggiavano per passare una notte dalla nonna e lei si ritrovava a dormire sola raramente.
Diede un'ultima occhiata alla sveglia, che segnava le 23:46, e poi, finalmente, si addormentò.

***

Le luci della strada filtravano dalla tapparella lasciata rara, il calore percorse il suo intero corpo, risalendo dalle gambe fino alla fronte, e Carol realizzò che qualcuno cercava di attirare la sua attenzione scuotendola leggermente all'altezza della spalla sinistra.
Con la mente annebbiata dal sonno, il suo pensiero si rivolse ad Elisabeth e, spaventata dall'idea che stesse male, ruotò rapidamente su sé stessa.
Andò a scontrarsi, prima con lo sguardo e poi col viso, con qualcosa di candido e morbido, che risaltava nell'oscurità.
All'inizio l'impatto fu piacevole, fresco e vellutato, ma dopo pochi secondi le parve di affogare.
Di colpo totalmente sveglia, tentò di scostarsi tirandosi indietro, ma due mani l'afferrarono costringendola in quella infelice posizione.
Non respirava.
Gridò, ma tutto quello che le uscì fu un unico, debole, sussurro soffocato.
Scalciò, ma le sue gambe magre avvolte nelle lenzuola colpirono l'aria.
Tentò di artigliare e graffiare le mani che l'avevano afferrata,si accorse che erano piccole e morbide, ma tutto ciò che ottenne fu di sentire la loro presa farsi ancora più ferrea.
Morire arrendendosi a una fine buia e terribile o morire combattendo per una fine in ogni caso buia e terribile?
Si accasciò, rassegnata, chiuse gli occhi e spirò, rivolgendo un ultimo pensiero al marito morto nel sonno in un afosa notte di luglio, tanti anni prima.

***

Elisabeth si stropicciò gli occhi con le mani e si stiracchiò la schiena allungando le braccia. Solo allora si guardò intorno e notò che la nonna se ne stava distesa accanto a lei, rannicchiata sul fianco sinistro, dandole le spalle. Sorpresa -Carol si alzava sempre molto prima di lei- diresse lo sguardo verso la sveglia alla sua destra. Erano le 9:30. Sua nonna non dormiva mai fino alle 9:30.
Eccitata, balzò giù dal letto e corse in cucina. Finalmente avrebbe potuto usare quel delizioso vassoio che aveva scovato in un armadietto per portare la colazione a letto alla nonna!
Sistemò il caffè, un'arancia e una brioche sul piano decorato del vassoio e tornò in fretta in camera, timorosa che Carol si svegliasse.
Raggiunse il lato del letto vicino alla finestra, chiamando nel frattempo la nonna. Si chinò su di lei, ma a ricambiare il suo sguardo gioiosa non trovò altro che due occhi sbarrati, rivolti al cielo e terribilmente privi di vita.
Il vassoio cadde a terra, la tazzina si frantumò, il liquido bollente le bruciò i piedi nudi; si portò una mano alla bocca, in un tipico gesto di stupore.
L'orrore subentrò al contatto con la sua pelle fresca.
Che cosa aveva fatto...
Quelle mani che aveva sempre odiato, perchè troppo piccole e paffute, ora le parvero mostruose, intrise di sangue, maledette.
Finì contro al muro e quel contatto la scosse un poco, ma cercare di dare un senso alla situazione non poteva che gettarla nel panico.
Decise di non farlo.
Corse fuori dalla stanza, lasciandosi alle spalle quell'orribile puzzo di morte che aveva avvertito guardando sua nonna negli occhi vitrei, sentendo qualcosa attanagliarsi profondamente nella sua gola, e non si fermò finchè non fu fuori da quella casa.
Era sola, un singhiozzò le sfuggì, mentre esaminava il cortile come mai prima di allora.
Era sola, o forse no?
Appena sveglia, aveva dimenticato la forza misteriosa che l'aveva spinta a soffocare Carol contro il cuscino, ma ora ricordava, ricordava ogni cosa, non solo quella notte.
Ricordava il giorno in cui aveva percorso le imponenti navate di quel tempio sotterraneo a fianco di suo padre, il modo in cui lui le parlava, con voce sommessa, carezzevole, dopo averla fatta sedere in un angolo appartato, su morbide e basse poltrone.
Le diceva di stare tranquilla, ma lei, che avrebbe giurato sul fuoco di aver visto una luce giallastra brillare nei suoi occhi, non ci sarebbe mai riuscita.
Lui se ne era accorto e, prendendole una mano, l'aveva scortata in una stanza meravigliosa, fatta interamente di specchi. Cominciò a giocherellare, fingendo di parlare con decine di persone uguali a lei, che la comprendevano, come solo suo padre sapeva fare. George non l'aveva sgridata come la mamma quando aveva decapitato le sue bambole, anzi si era trovato d'accordo con lei sul fatto che era molto più divertente che limitarsi a vestirle. Non si era arrabbiato nemmeno quando l'avevano sorpresa a giocare con la carcassa di un istrice, cosa che lei considerava perfettamente normale, ma che evidentemente per sua madre era sconvolgente.
Avrebbe potuto citare centinaia di episodi simili ed in sostanza l'eroe era sempre suo padre. Era il suo eroe.
Così, quando lui la guidò vicino ad uno specchio, non oppose resistenza, nonostante avrebbe preferito continuare i suoi giochi.
"Guardati Elisabeth, sei bellissima, lo sei ogni giorno di più." Lei arrossì di piacere e sorrise. Ma poi il suo papà aggiunse qualcos'altro.
"Guarda i tuoi occhi Elisabeth." Lei lo fece, convinta di trovarci la solita sfumatura grigio-verde, ma quel che vide le fece ghiacciare il sangue.
La stessa fiamma che ardeva nello sguardo attento di suo padre ora si trovava anche nei suoi occhi, se possibile ancora più viva e terribile.
Rimase per un attimo paralizzata da quella scoperta traumatica, poi, prendendo a poco a poco coscienza del suo corpo, girò lentamente la testa verso il viso di suo padre.
"Papà, cos-cos'è?"
"Lo scoprirai a tempo debito piccolina, lo scoprirai."
In quel momento Elisabeth pensò che non era proprio sicura di volerlo sapere ed ora, seduta a gambe incrociate nell'erba fresca, la testa appoggiata al palo dell'altalena, era certa di non essersi sbagliata.
Si alzò con lentezza e, non vedendo altre soluzioni, si costrinse a rientrare in casa per impossessarsi del cellulare di Carol.
Compose il numero di suo padre, lui avrebbe capito.

***

Seduto su una panchina della gremita piazza del paese, George aspettava l'arrivo di sua figlia con più tranquillità di quello che aveva previsto per quel fatidico giorno. Ma quando la vide arrivare, i capelli leggermente scarmigliati, gli occhi vacui, provò una profonda pena per lei e il senso di colpa lo invase. Dio, era solo una bambina!
Non avrebbe mai dovuto avere figli, ma Rose li desiderava così tanto..e lui amava Rose, era la sua salvezza e ogni giorno che passava la consapevolezza di questo cresceva in lui a pari passo con i suoi sentimenti.
Le sorrise rassicurante, ma lei non si buttò tra le sue braccia farneticando parole sconclusionate, né cominciò a piangere disperata. Il suo atteggiamento apparentemente distaccato un po' lo sorprese.
"Sai papà..-attaccò-mi sento una persona orribile, sono una persona orribile. Ma non sono la sola, vero? Era questo che dovevo scoprire?"
George, non riuscendo a sostenere il suo sguardo, finì a rimirare la punta delle sue scarpe, spiazzato.
"Che cosa sono, che cosa siamo, papà!?" incalzò Elisabeth, appoggiandogli le mani sulle ginocchia.
Non poteva spiegarle tutto lì, in mezzo a tutti.
"Vieni." Le disse semplicemente.

***

Arrivarono al tempio in cui era stata due anni prima a notte inoltrata. Era stata una giornata estenuante, Elisabeth si era sentita costantemente sull'orlo delle lacrime mentre raccontava al gentile poliziotto chiamato da George quel che era successo. O meglio, quello che avevano deciso di raccontargli dopo aver eliminato tutte le prove, in primis il cuscino che giaceva ai piedi del letto. Fortunatamente il suo aspetto da bambina dolce ed indifesa aveva aiutato, e non poco. Arrivati a casa avevano cenato in un silenzio angosciante e suo padre aveva annunciato a Rose che avrebbe portato Elisabeth da sua zia in campagna, per aiutarla a riprendersi dallo shock, cosa che sicuramente avrebbe fatto, dopo averla portata a quel misterioso santuario. Finalmente.
Ci si arrivava scendendo da una scalinata pubblica e imboccando uno stretto cunicolo che pareva non portare a niente, ma che nascondeva una botola quasi invisibile perchè semi ricoperta dall'erica che ricadeva da una delle pareti di roccia.
Suo padre la ricondusse nella stanza degli specchi, forse per farla sentire a suo agio, e si sedettero proprio nel centro.
Per un lungo istante la guardò negli occhi ed Elisabeth vide che era sinceramente preoccupato per lei, che non sapeva come affrontare l'argomento proprio perchè dubitava della sua reazione. Gli mise una mano sul braccio e quel gesto era una rassicurazione ed un invito a parlare al tempo stesso.
"Elisabeth..ti sei guardata intorno?"
"Si papà." rispose aggrottando le sopracciglia, non capiva cosa c'entrasse.
"Non ti sei mai chiesta come faccio a conoscere questo luogo? Perché ti ho portata qui la prima volta?"
Lei rabbrividì, ricordando la luce che aveva visto negli occhi di suo padre..e che vedeva anche ora, si rese conto sbalordita.
"Beh, in effetti si-rispose, deglutendo rumorosamente-ma forse non ho mai voluto sapere davvero la risposta."
George sospirò, scostandole una ciocca di capelli castani che le era ricaduta sul viso e portandogliela dietro l'orecchio.
"Elisabeth vedi...la nostra è una famiglia antica, antichissima. Quello che ti sto per far leggere è un manoscritto di un nostro antenato, risalente a centinaia di anni fa."
Si alzò e andò a recuperare una teca di cristallo da dietro uno specchio, che si apriva spingendolo contro la parete e rivelava una piccola conca segreta.
Lo passò a Elisabeth, chiedendole di maneggiarlo con cautela e tornò a sedersi davanti a lei, aspettando con aria rassegnata la sua reazione.
Il manoscritto riportava quanto segue:

"Scusandomi per il carattere prettamente riassuntivo del mio scritto, ieri sera ho preso in cuor mio la decisione di lasciare ai posteri un accenno di spiegazione alle domande che certamente si porranno in seguito a eventi tristemente e inevitabilmente catastrofici, ed è per questo che ora mi accingo a narrare la mia storia, o meglio quella di mio padre, nonostante l'irrazionale terrore di venir scoperto mi spinga a tagliare molte parti e a rinunciare alla mia solita scrittura elegante.
Questi dovrebbero essere tempi gioiosi nella mia umile dimora, ma avvenimenti accaduti molti anni or sono affievoliscono fino a renderla pallida la felicità che dovrebbe conseguire la nascita di un erede maschio, soprattutto da parte mia.
Ventinove anni fa nacqui io, figlio di un uomo arricchitosi con il commercio e di una donna di nobili natali, rigettata però dalla famiglia per aver osato sposare colui verso il quale si dirigeva il suo amore, ma di cui, scioccamente, non aveva ritenuto necessario informarsi sulle faccende passate, bevendo come acqua di sorgente i racconti di mio padre, sussurrati a mezza voce al calore di un fuoco peccaminoso.
Forse sono stato un po' troppo duro con mia madre, dopotutto mio padre sapeva far molto bene il suo lavoro, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la sua ingente fortuna non derivasse da quello ed, effettivamente fu proprio vendendo qualcosa, o qualcuno, che ottenne tutto ciò che aveva.
Ma per rendere comprensibile questo scritto che già sta diventando quanto mai confuso, sono costretto a fare un passo indietro.
Emmett Lewis nacque in una famiglia di poveri contadini, ma ben presto la sua indole lo portò ad allontanarsi dal luogo in cui aveva visto per la prima volta la luce e ad imbarcarsi in imprese a dir poco dubbie, sperperando al gioco i poveri guadagni di una giornata, che questi derivassero da onesti lavoretti raccattati al ciglio di una strada polverosa o da “mestieri” molto meno onesti.
Nonostante non fosse affatto stupido, a lungo andare il volersi misurare con giocatori molto più esperti di lui lo portò ad indebitarsi fino al collo e Dio solo sa quanto gretti e crudeli potessero essere i frequentatori di tali osterie del malaffare.
Uno di questi cosiddetti gentiluomini, in una gelida notte di dicembre, non si fece alcun scrupolo nel farlo picchiare dai suo sgherri fino a ridurlo ad un ammasso di carne sanguinolenta, a depredarlo di tutto ciò che aveva con sé che potesse avere un valore ed infine ad abbandonarlo in un boschetto isolato, frequentato soltanto da qualche prostituta da quattro soldi il cui accompagnatore non si potesse permettere una squallida camera di una locanda malfamata.
La versione giovane e in fin di via di mio padre era ben consapevole che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvarlo, ma sapeva anche che, fosse stato nei panni di Dio, nemmeno lui si sarebbe scomodato ad aiutare un personaggio della sua levatura.
Decise di lasciare il mondo crogiolandosi in dolci pensieri, il sorriso di sua madre, la manina della sua sorellina che si agitava in segno di saluto mentre lui si accingeva a partire, quando percepì qualcuno soffiargli sul collo, producendo un brontolio simile a un ringhio.
Ruotò faticosamente sulla schiena, cosa che gli provocò non poco dolore, cercando di identificare la fonte di tale insolito rumore.
Lo vide e sorrise, certo che si trattasse di un'immagine causatagli dal delirio, e si ritrovò a fissare quello strano e orribile essere grassoccio, che conservava dei tratti umani, nonostante i terribili occhi gialli e porcini, la bocca enorme distorta in un ghigno diabolico che lasciava intravedere carnivori denti aguzzi e la puzza di morte emanata dalla carne purulenta.
Chi sei?” domandò Emmett, ora diviso tra la certezza che quell'essere fosse frutto della sua mente e l'idea che potesse essere lì per cibarsi di lui.
La creatura lo fissò per qualche secondo prima di parlare, e quando rispose lo fece con una voce che sembrava provenire dai recessi più bui e misteriosi della Terra, spaventosa, ma nonostante tutto leggermente intrigante.
Non sono il prodotto dei tuoi incubi sciocco.- si interruppe per emettere una risata sadica- Anzi, proprio il contrario. Sono stato evocato dalle tue azioni e dai tuoi pensieri più oscuri, sono ciò che ti meriti come compagnia negli ultimi istanti della tua vita a causa di tutto ciò che hai fatto e a cui ormai non potresti più rimediare se io non avessi deciso diversamente. Potrei offrirti un'altra possibilità.”
Un'altra possibilità?- domandò mio padre con voce roca e debole- In che senso, come?”
La possibilità di continuare a vivere, idiota! Posso darti tutto quello che fin ora non hai mai avuto, ricchezza, una donna da amare e che ricambi il tuo ardore, una famiglia, dei figli!”
Che cosa vuoi in cambiò?” chiese Emmett, diffidente.
L'anima dei tuoi discendenti.”
L'anima..” cercò di articolare una domanda, ma un dolore atroce al petto lo lasciò senza fiato.
Devi deciderti Emmett, ormai la vita ti sta abbandonando.” sentenziò quell'orribile essere, l'invito sottinteso nel tono di voce.
Accetto-disse a fatica- accetto l'accordo, ma a una condizione, permetterai loro di donarla a quella persona che ameranno e che ricambierà il loro amore completamente.”
Una risata sarcastica si levò dalle labbra enormi della creatura.
Va bene, sappiamo quanto questo sia quasi impossibile, dopotutto.”
Nell'istante dopo aver udito queste parole, Emmett si ritrovò seduto ad uno scrittoio, pronto ad amministrare il suo patrimonio creatosi dal nulla e ad iniziare un'esistenza completamente nuova.
Così, fu in quel tragico frangente che mio padre sperimentò per la prima volta le sue abilità di venditore, non capendo la posta in gioco, ma riuscendo comunque ad accaparrarsi condizioni favorevoli, anzi salvifiche potrei direi senza allontanarmi dalla realtà delle cose.
Se state leggendo questo scritto, non credo serva chiarire il significato della richiesta di quella malefica creatura, ma per fugare ogni dubbio confesserò di aver ucciso per la prima volta all'età di tredici anni, sotto il potente effetto del suo allucinogeno possesso. Gli scintillii giallastri che forse un giorno noterete specchiandovi non sono altro che le impronte del suo maledetto passaggio, il segno indelebile della sua presenza, resteranno sempre, anche dopo aver messo la vostra preziosa anima nelle mani della persona che amate e che vi ama, come resteranno i ricordi, i sensi di colpa.
Mi sono dilungato fin troppo, la tremolante luce della candela sta quasi per svanire e la frenesia dello scrivere si è consumata: non mi resta che lasciarvi.
Conserverò nelle mie stanze questo manoscritto rivelatore finchè mio figlio non sarà disgraziatamente abbastanza grande e consapevole per capire, dopo di ché sarà lui a dover trovare un luogo adatto perchè sia tramandato alle successive generazioni.

Firmato: Charles Emmett Lewis.

 

Elisabeth rimase a fissare a lungo il foglio attraverso la teca anche dopo aver concluso la prima lettura. La realtà era che non sapeva come reagire. Charles aveva scritto di aver ucciso per la prima volta a tredici anni, lei a dodici, e quella non sarebbe stata l'unica, soltanto il principio di una lunga serie di furie omicide. Le sembrò d'un tratto di avere centinaia di anni a gravarle sulle spalle, centinaia di vite da redimere, centinaia di modi per poter uccidere. Perché in qualunque modo la si mettesse, lei doveva e voleva uccidere. Una strana eccitazione si impossessò di lei mentre quest'ultimo pensiero le sfiorava la mente, alzò lo sguardo dal manoscritto e lo puntò su suo padre.
Nessuno avrebbe salvato lei, ma chi mai aveva detto che voleva esserlo?
Sollevò il braccio destro, mirò lo specchio più vicino a lei e scagliò la teca contenente il manoscritto verso di esso. Il vetro si frantumò e schegge tagliente si depositarono tutt'intorno ai suoi piedi.
Elisabeth si chinò velocemente a raccoglierne alcune. Suo padre forse le stava dicendo qualcosa...ma le parole arrivavano smorzate e confuse ai suoi orecchi e lei, pregustando il momento di gloria suprema, non se ne curava affatto.
Successe tutto in un solo istante. Proiettili luccicanti saettarono dalle sue mani verso il petto di George, raggiungendolo ovunque cercasse di scappare, creando piccoli laghi cremisi.
Elisabeth rise, cibandosi della sua stessa risata, morendo e rinascendo attraverso di essa.
Era una persona nuova ora e non avrebbe permesso a nessuno di cambiarla, di smorzare il fuoco che ardeva dentro di lei.
Si avvicinò al corpo di suo padre, finendolo con un taglio netto alla carotide e bagnandosi le mani di quel liquido rosso che bramava come fosse nettare degli dei.
La nuova Elisabeth uscì dalla stanza e si allontanò dal tempio, pronta ad affrontare il mondo e a conquistarsi il suo più puro e tetro terrore.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** The Raven ***


Nota dell'autrice: inizialmente doveva essere un horror (come richiede questa raccolta d'altronde), ma a mio parere ha finito per non avere un granchè di questo genere. Lo pubblico comunque e spero lo apprezziate nonostante i pochi brividi di terrore che causerà. Sotto con le opinioni (sì anche gli insulti se volete)! xD

The raven

 

Dark in their hearts,
I can feel it burn inside of me
Tormented young with no souls, haunting me
Pain in their lives all they know is misery
Take these chains away that are holding me down
-
Eternal rest, Avenged Sevenfold

 

La terra è fredda sotto le ginocchia.
Le mani giunte, le dita strette tra loro quasi convulsamente.
Le nocche bianche per la stretta o per il gelo, chissà.
Le labbra rosee si muovono in un impercettibile sussurro di preghiera: una preghiera tutta mia, un'inutile invenzione...non ti riporterà indietro.
“A chi è rivolta?” mi chiedo.
Non credo in niente.
Le uniche cose a cui posso aggrapparmi in questo momento sono le macchie di terra sui miei jeans, il nero della matita intorno ai miei occhi, l'azzurro scuro di una ciocca che mi sfiora la guancia.
Esse sono vive e pulsanti, mi parlano. Sono ciò che mi tiene aggrappata qui, a questo terreno in cui affondo rabbiosa le unghie, in cui sono racchiuse tutte le mie lacrime per te, in cui vorrei talvolta sprofondare.
Ma scavare non serve a niente. C'è solo terra e terra e terra. E la tua lapide.
La tua fottuta lapide che mi fissa con quel suo sorriso lucido e bianco, quel ghigno che nemmeno con montagne di fiori multicolori sono riuscita a nascondere.
Ci sputo sopra ma niente riesce ad incrinarne la brillantezza, quasi fosse sempre lì ad urlare per me, a ricordarmi ciò che ho perduto.
Ah-ah-ah.
Perché non riderci sopra? Ti combatto con la tua stessa arma e rido, rido sguaiatamente al cielo plumbeo; qualche goccia di pioggia inizia a cadere sul mio viso e in bocca e l'acqua fresca sulla lingua mi fa ridere ancora di più e non sento altro che la mia risata e non ho mai riso così tanto in vita mia.
Ridere è bello, vivere è bello, si dice.
Io sono pazza.
Perché rido e non vorrei altro che morire.

 

Ricordo perfettamente quell'afosa sera d'agosto, lo squillo del telefono, il ticchettio dei tacchi di mia madre sul pavimento del salotto, la voce indistinta proveniente dal ricevitore, il pianto della mamma, il rumore sordo della cornetta che torna al suo posto, il ronzio della TV.
E il pulsare del sangue nelle orecchie, la sensazione di sapere cosa stesse per dirmi quella maschera di trucco sbavato e lacrime che si era appena seduta accanto a me, il constatare che il presentimento, quel presentimento che mai si sarebbe dovuto avverare, non era che la realtà.
E il pensiero che tu fossi morto, quel sentimento che non si insinuò immediatamente dentro di me ma rimase per un po' un sussurro lontano, come la stretta di due mani intorno alla gola, tanto che il pianto tardò ad arrivare e per qualche giorno rimasi semplicemente...immobile.
Dopodiché dovetti fare i conti con tutto ciò che mi circondava, perché ogni cosa, senza mio fratello, senza la persona che consideravo una parte di me, quasi un mio prolungamento, sembrava enorme e incontrollabile, ma soprattutto perché nessuno conosce il valore del silenzio e le persone non facevano altro che parlare, parlare, parlare.
D'altro canto non assorbivo una parola di ciò che dicevano, mi limitavo ad annuire e nel frattempo mi chiedevo cosa sarebbe successo se avessi deciso di morire anch'io, in quel preciso istante.
Adesso mi ritrovo a vagare in questo cimitero quasi ogni giorno, e come un fantasma non trovo pace.
L'unica consolazione, che mi si presenta ogni volta che attraverso questo luogo, è che un cimitero è pur sempre meno vuoto di casa.

 

Il cielo è rossastro sopra di me.
Il crepuscolo è così cupo, così pesante, così esageratamente sfumato d'arancio scuro. E' una coltre esageratamente calda posata sul mio capo in fiamme, ed è troppo stretta.
Un tempo il cielo era libertà, voglia di vivere, adesso mi pare solo una ferita profonda sulla pelle dell'atmosfera.
Ricordo quando i cumuli di nubi erano cibo per la mia fantasia, gli uccelli leggiadri animali che allietavano con il loro canto, il vento un soffio pieno di soddisfazione e puro sogno.
Ma ora dov'è, quel sogno?
Il vento, il vento maledetto l'ha portato via con sè, ma non lo biasimo poiché l'ha protetto dal buio di una mente ormai vuota e priva di passioni, una catacomba desolata e spoglia, piena di silenziosa polvere.
Infine sono morta.

Lo scricchiolio delle foglie cadute mi tiene sveglia e tiene così lontana la morte fisica, quella vera.
Non è assurdo che io la desideri e allo stesso tempo non abbia il coraggio di affrontarla?
Mi trovo davvero bene qui, in questo eterno purgatorio, in questo vagare tra le lapidi alla ricerca di un'anima vera?
Poiché la mia è andata perduta da molti mesi, forse è proprio qui, sepolta da qualche parte accanto ai tanti corpi che popolano questo luogo.
Non ho trovato niente, finora, se non i ricordi di dolorosi passati o vite felici, il giocattolo lasciato da un bimbo, la lettera mai letta abbandonata sul marmo freddo.
Passo accanto a un enorme mausoleo, dentro di esso i visi tristi di un'intera generazione. Dalla parte opposta scorgo la minuscola tomba di una ragazzina sorridente.
Si può incontrare ogni genere di persona qui dentro e si può parlare con tutti. Loro sanno cos'è il silenzio, quello eterno, e sanno farti capire il loro messaggio, se hai la sensibilità necessaria a percepirlo. Loro ti sanno guidare.
Per questo attendo e cammino, cammino finché non mi porteranno alla mia anima o morirò nel cercarla.

 

Mi accoccolo dietro la tomba della bambina e poggio la schiena sulla dura pietra, le foglie portate dal vento formano un morbido tappeto su cui sedersi. Indosso le auricolari e ascolto la mia canzone preferita, è forse una delle poche cose che ancora riesce ad emozionarmi.
Penso alla prima volta in cui sono venuta qui, con mia madre, mio padre e i miei famigliari. Le loro facce scure mentre la piccola bara veniva sepolta per sempre. Il mio corpo in balia della brezza e delle loro mani. Il mio sguardo assente.
Ricordo quando, alla fine del funerale, mi rintanai dietro un alto cipresso ad osservare le lapidi e vidi un corvo sfrecciare via dalle fronde sempreverdi. Avevo deciso che quello era il luogo giusto in cui perdermi, poiché il silenzio era saturo di memorie e le mie erano rinchiuse nell'angolo più remoto della mente, quindi mi ero alzata e avevo iniziato a vagare tra le tombe senza una meta, leggendo le incisioni e immaginando le storie dietro di esse.
Mi ero fermata a qualche metro dalla foto di una nonnina, non tanto perché avesse qualcosa di familiare o interessante, ma poiché di fronte ad essa c'era un bambino che piangeva, un bambino che era riuscito a conservare il suo dolore e che ancora soffriva, e che per questo mi aveva in qualche modo colpito. Avevo aspettato che se ne andasse e mi ero inginocchiata di fronte alla lapide, ma non avevo sentito niente.

 

La canzone finisce e torno alla realtà. Metto via l'iPod e quando alzo lo sguardo dalla tasca mi rendo conto con sorpresa che il dolce sorriso della vecchina è proprio qui, di fronte a me.
Mi metto a carponi per raggiungerla e quando sono a qualche centimetro da lei capisco che cosa mi ha colpito così tanto.
La tomba non era qui. Nei miei ricordi il bimbo stava pregando di fronte a una lapide, una lapide che si trovava esattamente dalla parte opposta del cimitero.
Osservo attentamente la foto ma ne sono sicura, è lei. E allora perché si trova qui?
Giro intorno alla lastra di pietra e mi pare non ci sia niente di strano, finché non mi accorgo che dietro di essa ci sono parecchi metri di prato e poi, su per una collinetta, intravedo i contorni di un'altra lapide.
Inspiegabilmente attratta da essa, scatto in piedi e mi avvio verso il rilievo, mentre si fa strada in me la consapevolezza di non aver mai visitato questa parte di cimitero, nonostante fossi pienamente convinta di non aver lasciato un solo angolo inesplorato.
Arrivata in cima alla collina riesco a distinguere meglio i dettagli della lapide: è candida e pulita, come se non fosse qui da molto.
Ora riesco a leggere chiaramente il nome inciso su di essa, Eveline Wright.
Mi siedo a terra e continuo a fissare la scritta.
Potrebbe essere un semplice omonimo. Un'antenata. Una parente sconosciuta un errore di stampa (esistono errori di stampa sulle lapidi?!) una e di troppo un cognome diverso uno scherzo sono io.
Sono io.
Sono io.
Riflettendoci meglio, la cosa non dovrebbe sorprendermi. So da tempo che una parte di me, una grande parte di me, è andata perduta. Eppure trovarsi di fronte alla prova concreta della sua morte mi infligge qualcosa di molto simile al dolore, una sorta di sensazione d'inesorabile fine.
Forse è davvero arrivato il momento di arrendersi alla fine stessa. È così, ho trovato la mia anima, ma non ho alcuna speranza di riaverla.
“Addio” sussurro sfiorando la pietra liscia.
Sento un verso acuto e un dolore lancinante mi trafigge la schiena, sono chissà come appiccicata al tronco nodoso di un albero (ma da dov'è spuntato?) e tenuta bloccata da una mano ferma sul collo.
Non ho avuto nemmeno il tempo di rendermi conto di che cosa mi abbia sollevata da terra con tale forza, ma ora due occhi verdi e determinati sono fissi nei miei, così come i capelli azzurri sono talmente vicini da solleticarmi la gola.
L'Eveline che mi trovo davanti ha un ghigno a metà tra il felice e l'amareggiato, non parla, non si muove, ma ha una luce negli occhi tanto prepotente e tanto simile a quella che giaceva nei miei tempo fa da costringermi a distogliere lo sguardo, mentre una lacrima silenziosa mi scorre lungo la guancia.
Continua a fissarmi come se ne andasse della sua stessa vita, ma, pensandoci meglio, non dovrebbe essere già morta? E' coperta di terra, sembra essere appena riemersa dall'erba sotto cui era sepolta.
«Tu..mi hai...abbandonato!» Mormora voltando repentinamente la testa di lato, in un gesto che comunica una sola cosa: frustrazione.
Il suo petto si abbassa e si alza ritmicamente, spinto dalla collera che vedo nelle sue pupille.
«Mi hai lasciato..a marcire sottoterra!» dice aumentando la presa sulla mia gola.
«Non hai fatto altro che vagare qui, cercandomi, ma perché? Perché rincorrere una cosa che si ha deciso di lasciare andare? Avrei dovuto aspettare di vederti morire, avrei dovuto abbandonarti in questo freddo cimitero in cui prima o poi avresti lasciato andare te stessa, proprio come hai fatto con me. Ma sai una cosa? Sono troppo buona. Sono troppo piena di pensieri e ricordi e paure per non desiderare un corpo in cui sopravvivere. Sono troppo te.
La verità è che ho bisogno di te. Perché tutto ciò che mi hai scaricato addosso decidendo di perdermi mi logora dall'interno, mi affoga in un mare di sofferenza e di pianti trattenuti che non posso allontanare, perché sono la condanna della mia esistenza, perché sono la mia essenza. Ho bisogno di un corpo con cui condividerli.»
Respiro a fatica, ma so di non poter scaricare la colpa sulla sua mano.
«E se io non ti volessi?»
«Cosa?» I suoi occhi sono pozze smeraldine cariche di sorpresa.
«Se io avessi capito che non voglio più un'anima? Che non voglio assolutamente condividere il tuo dolore? Ci sarà pure un motivo se ti ho abbandonata.»
Si allontana di un passo. «No. Non avresti perso le tue giornate a cercarmi. Come io necessito del tuo corpo, tu sai di aver bisogno di me.»
Ha ragione. Ma all'improvviso non sono più sicura di volerla con me.
Tornerei a vedere i colori.
Saprei di nuovo piangere, e sorridere. Ma soprattutto piangere. E' questo che voglio?
Riavere la mia anima comporta anche il ritorno, sulle mie spalle, di quell'enorme peso per cui l'avevo sepolta tra queste lapidi.
«Non ti voglio.»
«Morirai.»
«Morirò.»
Abbasso lo sguardo sui piedi e l'ultima cosa che mi passa per la mente è che lei non ha un'ombra.
Poi lo scintillio di una lama e il mio stomaco trafitto con forza. E quella sensazione: non di svuotamento, non di sangue che sgorga, ma di una nuova pienezza che come puro sole scintillante mi scorre nelle vene.
Mi accascio ai piedi dell'albero e sento di nuovo quel gracchiare acuto: sollevo lo sguardo e tra le foglie scorgo gli occhietti vispi di un corvo. Sorrido debolmente e poi svengo.

 

Al mio risveglio è ormai mattina, erano mesi che non facevo una dormita del genere.
Il sole mi ferisce gli occhi, per cui li tengo socchiusi un altro po', finché un lieve pizzichio all'indice della mano sinistra non mi costringe ad aprirli.
Mi metto comoda contro la ruvida corteccia e scopro che sul mio dito è posata una minuscola farfallina verde brillante.
Non ne avevo mai viste di questo colore, ed è bellissima, mi dico.
Prima che possa fermarmi scoppio in un pianto silenzioso, e l'animaletto è sempre lì, che mi sbatte in faccia la sua minuscola maestosità.
Forse avevo davvero bisogno di un'anima.

 

 

 

 


 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** LSD ***


Piccola noticciola: Qualche tempo fa, leggendo un raccondo di E.A.Poe, mi è capitato di chiedermi se l'assunzione di droghe da parte di questo grande genio influisse in modo consistente sui suoi scritti. Mi spiego meglio: gli allucinogeni creavano mondi totalmente nuovi oppure fungevano solamente da passepartout per le idee più profondamente nascoste nella sua mente? Sono piuttosto propensa per la seconda ipotesi (e non ho affatto voglia di fare ricerche ^^) anche grazie a questo racconto, che è appunto stato scritto sotto l'effetto di un potente allucinogeno: l'apatia post rabbia che annuncia una prossima e alquanto vicina tristezza. Quindi questo racconto è davvero molto intriospettivo, oltre che nonsense.
L'unica cosa che ho fatto io e non il mio cervello in crisi è stato quello di modificare la droga in questione; ho scelto l'LSD perchè è forse l'allucinogeno più conosciuto.
Adesso concludo e la smetto di stufare.
Grazie a chiunque leggerà!
Ilaria.



LSD
Le astrazioni dipinte sui muri cambiano, varia la loro forma, il colore, la misura. Resto incantata dal loro mutarsi, osservarne le evoluzioni è un complicato esercizio di tenacia e concentrazione, ma vinco il mal di testa a favore dell'arte.

Quando la stanza prende a vorticare acquistando sempre più velocità, però, diventa troppo complesso per me restare incatenata sui miei piedi a guardare, perciò mi siedo abbracciandomi le ginocchia.

Sorriso scoprendo di cominciare a girare io stessa, fondendomi con il pavimento della stanza e diventando parte di essa, finchè non mi vomita con un suono gutturale, grottesco, sparandomi verso l'alto.

Mentre mi creò un varco nell'aria vibrante, l'oscurità cala le sue fauci su di me e su ciò che mi circonda. Mi spaventa. Non avevo mai dato una spiegazione alla mia irrazionale paura del buio, ma ora la mia mente pare aprirsi, le membra che costituiscono il mio corpo staccarsi le une dalle altre, rinasco in un'entità virtualmente reale.

Comprendo che il buio è denso, ripiegato su sé stesso, riesco a tastarne la consistenza con le mani e le mie dita si ingarbugliano tra trame di fili scuri e ruvidi. Sono storie sconosciute, mai raccontate, che in qualche modo sento appartenermi.

Ai miei lati vedo fluttuare decine di versioni di me stessa, ma nel momento stesso in cui me ne accorgo implodono, ripiegandosi e aprendo la bocca quanto basta per lasciar fuoriuscire scintille infuocate.

Appena queste toccano terra si trasformano, resto a osservarne l'evoluzione come ho fatto poco prima con le decorazione sulle pareti.

Sbigottita, mi rendo conto che stanno prendendo l'aspetto di zanzare grandi cento volte più del normale e inizio a scappare, ma i miei movimenti sono rigidi, non ho più il controllo completo del mio corpo e quando capto dei clangori metallici provenire da quelle che avevo scambiato per le mie gambe credo che il mio cervello sia stato asportato a favore di una qualche forma di robot.

Non riesco nemmeno più a piangere.

Forse non ho più sangue.

Non smetto di cercare di correre.

Giungo infine ad una porta, mentre i ronzii si fanno sempre più forti ed insistenti, e la spalanco.

Ciò che vedo mi sorprende.

La stanza in cui mi trovo ora ospita un podio vuoto che pare attendere un importante oratore e di fronte ad esso, a meno di 5 metri di distanza, noto che il pavimento si piega in una discesa che crea un'apertura a ferro di cavallo e su cui sono sistemate delle sedie imbottite.

Su di esse siedono persone vestite di veli, volti familiari, mi sorridono.

Che siano maledetti, li odio tutti quanti e mi crogiolo nella mia perfetta misantropia.

Ricomincio a correre, ma il controllo delle mie gambe viene meno del tutto quando sto per superare

il punto in cui l'apertura si piega e precipito.

Atterro con uno schianto e non avverto dolori.

Mi rialzo e mi passò una mano nei capelli. Le mie dita incontrano qualcosa di viscido.

Davanti a me compare uno specchio e con orrore constato che un quarto del mio cranio e ciò che contiene è ridotto ad una poltiglia grigio-rossastra.

Mi passa nella mente per un istante che dovrei essere morta, ma cancello quel pensiero immediatamente.

È evidente che qui non vigono le stesse leggi del posto in cui provengo. Come è chiaro che non so da dove vengo.
Perché non volare allora? Punto un pugno in alto, il braccio destro alzato e i miei piedi si staccano da terra. Che bella sensazione, di leggerezza, libertà.
Ma non dura.
Mi ritrovo in uno spazio angusto, soffocante, ma non è questo ciò che conta. Dalle piccole pareti emergono spuntoni di ferro non altrettanto piccoli. Sono vicinissimi, ho la sensazione che potrebbero infilzarmi se soltanto avessi il coraggio di respirare. Lotto con me stessi, con i miei polmoni che hanno ormai preso fuoco, il desiderio di immettere aria dentro di me è fortissimo, devastante, ma io resisto anche quando sento la vita scivolare via.
Poi, soltanto nebbia.
Mi risveglio con un forte mal di testa e un bicchiere in mano. 
 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Shadows ***


Nda. Rieccomi, scusate l'attesa, ma l'ispirazione è sempre molto, molto lenta. Come al solito il racconto non fa paura.
Nonostante io mi sforzi, finisco sempre per scrivere qualcosa di abbastanza introspettivo (non quanto il precedente però xD) e al massimo leggermente inquietante. E poi ho questa fissa per i significati impliciti..scusate, ma è più forte di me. Vi auguro una buona lettura e spero di ricevere qualche opinione, che è sempre ben accetta ;)
Chiara.


 

Shadows

 

One more nail in the coffin, one more foot in the grave
One more time I'm on my knees and I'm trying to walk away
How has it come to this?

 
-It never ends, Bring me the horizon

 

 
Chi se ne frega della claustrofobia, questa stanza è troppo grande.
Le pareti bianche sembrano prolungarsi per uno spazio troppo ampio, quasi non riuscissero a rincongiungersi tra loro, così alterno il mio sguardo dall'unica, alta vetrata a sinistra della parete di fronte a me all'anonimo, polveroso parquet che riveste il pavimento.
E mi piace rinchiudermi su me stessa contro quell'angolino di muro che mi trafigge piacevolmente la schiena.
C'è odore di vecchio, qua dentro. Odore di libri mai letti e malinconici silenzi. Riesco quasi a immaginare quell'uomo e quella donna, seduti ai lati opposti di quel tavolo che un tempo giaceva al posto della sagoma nera che ora interrompe il cadere della polvere. Non hanno il coraggio di guardarsi né di parlare, forse perchè ormai non hanno più niente da dire.
C'è odore di vuoto.
Abbiamo appena traslocato, e già mi ritrovo rinchiusa da qualche parte. Lo so che non dovrei comportarmi così. Tendo ad isolarmi o ad esprimere le mie opinioni con troppa aggressività. E va bene, tendo a voler avere sempre ragione.
Ma i miei potrebbero darmi una possibilità, una volta tanto. Potrebbero ascoltarmi (nonostante io sia un caso senza speranza) invece che sbattermi direttamente in camera mia. Che poi questa non è camera mia. E' solo una vecchia stanza putrida ed enorme, e non sarà mai la mia stanza.
Vorrei tanto avere uno di quei bellissimi pennarelli indelebili. Così potrei iniziare a svuotarmi la mente e riempire le pareti. Potrei disegnare un'onda di parole, quelle che troppo spesso mi scivolano giù per la lingua per poi raccogliersi nell'oceano di quelle che non avrei mai dovuto pronunciare.
Arrotolo svogliatamente una ciocca di capelli intorno a un dito. E' un gesto assurdo, pensandoci. Inutile. Tanto non si arricceranno, rimarrano sempre corvini e io sarò sempre io e la mia vita sarà sempre la stessa.
Sta iniziando a piangere. Oddio ho pensato veramente piangere? Piovere, volevo dire.
"It never ends, it never ends.." Canticchio, mentre poso una mano a terra per alzarmi.
Il rumore della pioggia ha un che di melodioso, scostante. Sembra che ogni goccia riverberi all'infinito tra le pareti, ma è piacevole. Pensare che una cosa così minuscola produca un bellissimo suono, un suono potente, se unito a tanti altri...
Un tuono poderoso mi giunge improvvisamente alle orecchie, insieme al lampo che momentaneamente mi abbaglia.
E che cazzo, non si può stare un attimo in contemplazione, qui dentro.
Odio già questa casa.
Poggio la schiena sul muro a fianco della finestra, sbuffando.
Con la coda dell'occhio scorgo un ciuffo di capelli che mi infastidisce, e cerco invano di soffiarlo via. Provo a scacciarlo con la mano, ma nel momento in cui la alzo, non sento niente.
Mi volto e scopro che non è una ciocca di capelli, ma un'ombra. Un'ombra che si protende fuori dal muro. Ma che..?!
La cosa torna al suo posto, ma inizia a sfilacciarsi in una miriade di nastri neri e fluenti. Essi si intrecciano tra loro, corrono sul muro e scivolano come acqua. E' bellissimo, e al tempo stesso spaventoso.
Si incontrano e si scindono, scavalcano le irregolarità della parete e spiccano piccoli balzi al di fuori di essa, superano gli angoli tra un muro e l'altro con agilità, finchè non hanno percorso interamente i quattro lati. In quel momento si ricongiungono. Alcuni cominciano a ritirarsi lentamente, lasciando un grumo di oscurità che si accartoccia e dà pian piano forma a quelle che riconosco come lettere.
L..I..E...Lie. Bugia?
Un secondo dopo le lettere esplodono in minuscole goccioline d'inchiostro, che a loro volta iniziano a scorrere verso il basso, come pioggia nera.
Alcune si aggregano e diventano più grandi, fino a raggiungere la dimensione del pugno di un bambino. A quel punto dalle piccole forme fuoriescono come dei tratti, dei bastoncini, delle zampe. Zampe.
Appena lo comprendo gli insetti (no, me lo sto immaginando. È impossibile, non è vero. Non è vero, non è vero..) si staccano dalle pareti con un suono fin troppo reale.
Inizio ad urlare e mi porto al centro della stanza, perchè da ogni parte le zampe iniziano a ticchettare sul pavimento, dirigendosi verso di me.
"Tictictictictic.." Ho visto ragni, scorpioni, scarafaggi ed ogni genere d'insetto, anche sconosciuto.
Ma ora non li vedo più, perchè ho chiuso gli occhi. Con le mani di fronte al viso continuo ad urlare – Mamma! Mamma, papà, vi prego! Aiuto! Aiuto.. – ma nessuna risposta. Inizio a singhiozzare, mentre il ticchettio si fa sempre più vicino. Sobbalzo sentendo qualcosa che mi si arrampica su per la spina dorsale, e riprendo ad urlare, talmente forte da assordarmi, nel momento in cui gli animaletti scuri iniziano a ricoprire interamente il mio corpo.
Grido fino a sentire la voce che raschia la gola, perchè non voglio sentire il loro rumore assordante. Grido, finchè non sento nient'altro, finchè non mi accorgo che la mia pelle è ancora lì, rosea come prima, tesa sulle mie nocche chiuse l'una sull'altra a proteggere qualcosa. Non mi ero accorta di aver spostato i palmi dal viso, e immediatamente li apro. Su di essi è posato sì un insetto, ma qualcosa di delicato e leggero e fragile. È una farfalla, le ali nere e frastagliate che vibrano impercettibilmente.
Mi infonde una strana tenerezza. Calore, quasi.
Si alza in volo, sospinta da chissà quale corrente, e io rimango al centro della stanza, incantata dal suo battito.
A pochi millimetri dalla parete, cade. Precipita come se un'infinita pesantezza gravasse sulle sue ali sottili.
«NO!»
Mi sento svuotata, ferita, quella farfalla era importante. Non so neanche perchè ci tengo così tanto. Non so niente. Cos'è tutto questo? Perchè adesso l'ombra nera della farfalla si dilata e si modifica, perchè scorre sulla superficie candida come se possedesse una vita propria?
Si ferma esattamente al centro e poi si ingrandisce; esattamente come prima si infrange sulle quattro pareti, proprio come un onda.
Sono terrorizzata e mi accascio immobile sul pavimento, aspettando chissà quale altra terribile visione.
Tremante osservo i filamenti trasformarsi di nuovo. Sono ora una macchia indefinita di sostanza ombrosa. Non capisco.
Un lampo fugace illumina la stanza e l'ombra assume ai miei occhi un colore rossiccio.
"Sangue" penso immediatamente. Oh mio dio. Come ho fatto a pensare a una cosa del genere?
"Cosa è successo qui?" mi dico subito dopo. Non sono sicura...Non sono più certa di essere me stessa. Strani pensieri si rivelano nella mia mente, ma non sono io a richiamarli. Non sono la mia memoria.
La macchia di sangue, l'ombra, attinge nutrimento dal mio stesso prolungamento sul pavimento.
Esso si allunga e oscilla, fino a raggiungere il muro e unirsi alla macchia.
Di nuovo una parola prende forma: HATE.
E di nuovo un brivido mi scuote.
Le lettere si trascinano orizzontalmente e verticalmente, si dividono e un vortice di parole più piccole inizia a soffiare per tutta la stanza, persino sul parquet. Mi alzo di scatto e giro in tondo, cercando di leggerne il più possibile.
Mutano repentinamente, a volte interi testi si presentano davanti ai miei occhi.
Sono parole d'ogni genere: amore, odio, compassione, riso e pianto, dolore, uno sprazzo di felicità, un abbraccio, uno schiaffo; Poi immagini: la penna che verga una lettera mai spedita, un tazza di tè, lo scodinzolare di un cane, un bacio d'addio.
Quante vite scorrono su queste pareti?
Si susseguono scene atroci e spaventose, attimi di tenerezza o passione.
Fatico a seguire la scia e vengo all'improvviso travolta dalla debolezza che quelle visioni mi portano. Le pupille continuano a muoversi repentinamente tra gli spazi bianchi e neri, ma sono troppe le informazioni che raccolgono. Troppe le memorie, troppe le vite passate.
Un giorno farò parte di questa bellissima e terrificante composizione?
Da un secondo all'altro le parole iniziano a scorrere verso l'alto a una velocità sorprendente, fino a raccogliersi su un'unica parete.
Rami nodosi si originano da esse, e le parole stesse vengono racchiuse dalle forme ovali delle foglie.
Infine sull'intera superficie si definisce l'immagine di un albero, un albero dai rami profondamente intricati e carichi di foglie scure.
Ha smesso di piovere e la luce del pomeriggio invade il pavimento, creando ombre attorcigliate, ma immobili.
Me ne sto a terra, ansimante e ad occhi sgranati, a fissare l'imponente albero che mi sovrasta. I rami ricoprono anche il soffitto.
La porta della stanza si apre bruscamente e mia mamma fa la sua comparsa, pronta a buttarmi fuori.
Si ferma dopo pochi passi, portandosi una mano alla bocca, con un rantolo soffocato.
«Ma che hai fatto?!»
«Non voglio vivere qui, mamma.» sussurro fissando ricordi lontani.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1128425