Lullaby

di aki_penn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mesi dopo ***
Capitolo 2: *** Preludio d'estate ***
Capitolo 3: *** Noi abbiamo un organo ***
Capitolo 4: *** L'incoerenza del suono ***
Capitolo 5: *** La strada lunga di Blair ***
Capitolo 6: *** Paura del buio ***
Capitolo 7: *** Fiori di luce ***
Capitolo 8: *** La dieta del cioccolato ***
Capitolo 9: *** Luci nel buio ***



Capitolo 1
*** Mesi dopo ***


Lullaby

 

Capitolo primo

Mesi dopo

 

 

Soul salì con un salto sulla panchina del parco dell’ospedale, agganciando la sacca della flebo a un ramo basso.

“Non capisco perché non hai voluto semplicemente portare l’apposito albero” chiese Maka, sedendosi, un po’ affaticata, sulla stessa panchina. Non voleva darlo a vedere, ma anche quei pochi passi la stancavano.

Soul sbuffò, impegnato ad appendere il gancetto, nello slancio di stare sulle punte, gli si era alzata di poco la maglietta e Maka poteva vedergli qualche centimetro della spina dorsale, in rilievo sulla schiena.

Chiuse gli occhi abbassando di poco la nuca, stancamente, mentre un filo di vento si infilava nella fessura della sua camicia da notte da ospedale.

“Io sono molto più cool di un qualsiasi bastone da flebo” commentò Soul, ridanciano, quando riuscì finalmente nel suo intento e a lasciarsi cascare sulla panca.

“Sicuro” ribatté Maka increspando le labbra, poco convinta, distogliendo di nuovo lo sguardo da lui.

Rimasero in silenzio, mentre lei si tormentava l’unghia rotta del pollice, con l’indice e Soul si metteva a gambe incrociate e braccia dietro la nuca, assolutamente rilassato.

Maka chiuse gli occhi, ondeggiando la testa.

“Vuoi un caffè? A quest’ora al bar non c’è tanta fila” fece lui, distratto. Faceva caldo e l’aria fresca che scompigliava i capelli di lei era piacevole.  La ragazza scosse la testa, increspando le labbra, per un secondo Soul pensò che fosse sul punto di vomitare.

“Non ci voglio più stare qui” pigolò, dalla voce avrebbe pensato che stesse piangendo, ma quando il suo sguardo incontrò nuovamente quello della ragazza poté trovare gli occhi di Maka asciutti e determinati.

“Non ci voglio più stare qui, diventerò pazza” sussurrò, con la fronte che quasi sfiorava quella del ragazzo.

Soul aprì la bocca per dire qualche cosa ed accennò a un mezzo sorriso.

“Se stai per dire che sono già pazza, te lo puoi risparmiare” aggiunse lei in fretta, allontanandosi di nuovo e mettendosi a braccia conserte a fissare il prato davanti a sé. A pochi metri di distanza l’infermiera Arisa stava facendo passeggiare il vecchio signor Mosquito, operato recentemente alla prostata.

Senti, Maka, non credo che…”

“Cosa non credi? C’è qualche cosa che gira in questo cacchio di ospedale e che non dovrebbe esserci. Non voglio più starci…” disse deglutendo.

Ma insomma, cosa vuoi che ci sia, Patty che fa le ombre cinesi sul muro e…” cominciò a dire Soul, cercando di sminuire la cosa. Avrebbe voluto continuare, ma un tremore di Maka lo fermò, stava sudando e tremando allo stesso tempo. Aveva la pelle d’oca.

“Stai qui ‘sta notte, e vedrai” disse increspando le labbra e stringendo i pugni. Soul poté vedere i tendini sui polsi tirarsi al massimo. Fece una smorfia “E’ una proposta sconcia?” commentò, con un sorrisetto.

“Non dire idiozie” sputò lei, rannicchiandosi più che poteva, finalmente lo guardò di nuovo “Non sto scherzando” sussurrò “Vieni a vedere che non sono pazza

Soul Eater alzò entrambe le sopracciglia “E sia

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Capitolo 2
*** Preludio d'estate ***


Lullaby

 

Capitolo secondo

Preludio d’estate

 

 

Soul se ne stava sdraiato placidamente sul suo letto con le cuffie nelle orecchie a volume massimo, fissando il poster dell’ultimo concerto del suo gruppo preferito. Faceva caldo e lui proprio non trovava un motivo valido per muoversi dal letto. Avrebbe dovuto studiare per gli esami della sessione estiva, ma non ne aveva alcuna intenzione. Il cuscino stava diventando caldo e l’unica cosa che gli dava un po’ sollievo era la mano penzolante, che toccava il pavimento in ceramica dello studentato.

Sobbalzò quando un sasso atterrò, con un botto, a pochi centimetri dal suo letto, dove stava sdraiato a pancia in giù, prossimo al sonno.

“Ma che…?!” esclamò, mettendosi seduto e correndo alla finestra, mentre le cuffie gli cadevano e rimanevano appese al suo collo.

“Ehi!” esclamò, svariati metri più in basso stava Liz, con il suo solito cappello da cowboy che lo guardava con aria di rimprovero.

“Che cacchio lanci i sassi? Potevi beccarmi in faccia!” sbraitò.

“Pensavo che il vetro fosse chiuso” commentò lei per nulla preoccupata.

“Avresti rotto il vetro e poi la mia testa!” ribatté lui. “Smettila di lamentarti e vieni giù, che cosa ci fai in casa…!?”

Soul sbuffò, ma dopo cinque minuti era seduto sul bordo della piscina vuota del campus. Erano anni che era in quelle condizioni, ma nessuno ci badava, qualcuno la usava per fare  skate e pattinaggio.

Liz aprì la sua birra calda, nonostante fossero le sei del pomeriggio e tutti quanti avrebbero dovuto studiare. Black*Star insultava la squadra maschile dei cheer leader “Io sono più bravo di voi a fare le capriole!”

Liz lo ignorò prendendo un sorso di birra  dalla lattina che aveva nella borsa, e Soul si chiese come facesse a non morire di caldo con tutti quei braccialetti, tutte le volte che muoveva il braccio tintinnavano. Una volta gli aveva detto che non se li toglieva mai, probabilmente a dividere il letto, o simili, con una tipa del genere, sarebbe diventato pazzo. Fortunatamente Soul non era tra gli uomini tipo di Liz e Liz non era tra le donne tipo di Soul. “Non hai abbastanza tette” aveva commentato una volta, e si era preso una sberla voltafaccia.

“Hai studiato ‘sta mattina?” domandò la ragazza, a Soul, ovviamente, Black*Star viveva nel suo mondo. Soul si mordicchiò l’interno delle guance “Mi sono svegliato all’una” commentò, e il resto della giornata era stato sdraiato a pancia in giù in bilico tra il sonno e la veglia. “Tu?” domandò poi, immaginando che la risposta sarebbe stata no, ma con qualche scusa più approfondita della sua, e infatti.

“Sono stata all’ospedale con Patty fino ad adesso” fece con fare pratico, dopo mesi che Patty viveva in ospedale, quella routine era ormai divenuta normale, per Liz. Ingollò un altro sorso di birra calda, desiderando ardentemente dei nachos.

“Credo che dovresti fare il volontario in ospedale, la dottoressa Nygus dice che ce ne sarebbe bisogno, tirano su di morale gli ammalati. A Patty non serve, lei è sempre contenta, ma stare tanto tempo in un posto del genere deprimerebbe chiunque” disse poi, apparentemente senza un filo logico. Soul inarcò le sopracciglia e la guardò perplesso “E perché mai dovrei farlo io, scusa? Non ne ho alcun interesse, ho da studiare all’università e per il conservatorio, perché non lo fai tu, dato che hai l’animo della crocerossina?!”

Liz sbuffò, come chi ha assolutamente ragione ed è costretto a dire ovvietà “Io non posso, cacchio, mi pare ovvio! Devo studiare e lavoro anche per mantenermi gli studi, le cure di Patty, l’affitto della mia stanza, il corso di aerobica e la ricostruzione delle unghie. E poi devo stare con Patty quando vado all’ospedale, mica mi posso vestire da pagliaccio ed andare a stare coi bambini di pediatria” esclamò.

Soul avrebbe voluto dire che si stupiva che Patty non fosse stata messa nel reparto pediatria, dove sarebbe stata da re, ma fece solo eco “Ricostruzione delle unghie?”

“Beh, dovrò pure essere carina!” brontolò l’amica, colpita sul vivo, bevendo un altro poco della sua birra, non era nemmeno abbastanza per sentirsi brilla.

Soul avrebbe voluto dire che i ragazzi non si preoccupavano molto delle unghie finte delle ragazze, ma sarebbe suonato strano, quindi se ne stette zitto.

“Mi ci vedi, comunque, a fare il pagliaccio?” continuò lui retorico, rubando la birra a Liz, ormai era finita.

“Beh, tu sai suonare il piano, puoi fare quello” sbottò Liz, come se fosse logico.

“Sì, portare un pianoforte in spalla è sempre un piacere, chiedilo a Black*Star che mi ha aiutato a fare il trasloco. E ringrazia che questo era a parete e non a coda come quello che ho a casa dei miei!” ribatté Soul, mentre l’amico si strappava la maglia in stile Hulk e si lanciava nella mischia coi giocatori di rugby, anche se il pro della baruffa non era chiarissimo.

“Al conservatorio ti hanno insegnato a suonare anche qualche altro strumento, no? Guarda che Patty, ai tempi, suonava la cornamusa, lo so questo!” lo rimbeccò puntando il dito.

Soul alzò gli occhi al cielo “Non ne ho voglia di andare a fare il volontario in un ospedale, ti basta come risposta, Liz!?” borbottò alla fine, sbattendo la lattina ormai vuota, sul pavimento di piastrelle della piscina, senza troppa enfasi “Ho un sacco di cose alle quali pensare e gli ospedali sono deprimenti”  concluse, alzandosi in piedi e dirigendosi verso casa, con tutta l’intenzione di mettersi a giocare a qualche videogame.

“Insensibile!” esclamò Liz, con voce più stridula del solito.

 

*

 

Maka, senza scendere dal letto, ripiegò un fazzoletto e lo infilò nel cassetto del suo comodino. Dentro c’erano le sue posate, una forchetta, un coltello e un cucchiaio.

Si grattò il naso, prima di afferrare il quotidiano, che le stava sul letto accanto a lei, e sistemarsi i cuscini dietro la schiena con tutta l’intenzione di leggerlo, quando si accorse di suo padre, seduto su uno sgabello, ai piedi del letto, che la guardava con l’aria un po’ persa.

Maka, dimmi la verità, è un terribile tentativo di suicidio?”piagnucolò. Maka strinse i denti e stropicciò il giornale, Spirit la faceva sempre arrabbiare.

“Ti sembro una che sta cercando di morire?” domandò, come una domanda retorica, stringendo il giornale con stizza, il signor Albarn poté notare il suo polso magro contrarsi, mostrando i tendini.

Spirit la guardò, non era mai stato un buon padre, ma era preoccupato per lei, davvero, soprattutto in quel momento, lei era finita in ospedale e lui non aveva notato nulla fino a che non l’avevano chiamato dal pronto soccorso, eppure vivevano insieme.

“Ho videochiamato la mamma, prima, ha detto che la conferenza in Austria è andata bene e che non potrà venire a trovarmi presto, se è fortunata riuscirà ad avere un paio di giorni di ferie per Natale” disse lei, cambiando discorso e cercando di togliere l’aria sgualcita al giornale.

“Spero che per Natale tua sia tornata a casa, tesoro” commentò Spirit, voltandosi a guardare la porta d’entrata. La stanza dove Maka era stata portata era doppia, ma non aveva ancora nessuna compagna di stanza, il condizionatore funzionava, ma Maka si era ingegnata per spegnerlo appena arrivata e aveva aperto la finestra, faceva caldo, ma entrava un po’ d’aria fresca.

“Per Natale spero di essere in Canada, per il master che ti dicevo” fece lei, passandosi la lingua sui denti e nascondendosi nuovamente dietro al quotidiano che stava leggendo, pareva che ci fossero dei grossi cambiamenti in borsa.

“Ancora studiare! Non ti permetto di studiare ancora! E’ sempre stato un problema per te!” piagnucolò. La ragazza si sbatté il giornale sulle ginocchia “Non dire queste cose! Quando mai sarebbe stato un problema? Mi sono fatta un po’ troppo prendere e…”

“Ti sei fatta un po’ prendere? Maka, ti ricordi di quando hai detto che ti saresti buttata dal balcone perché avevi preso un E nel compito in classe perché non ti eri accorta della seconda pagina?” esclamò il signor Albarn con enfasi, alzandosi di poco dallo sgabello.

Maka fece lo stesso, cercando di avvicinarsi il più possibile a suo padre, rimanendo seduta sul letto, alzando un ditino magro e sentenzioso “Avevo sette anni e l’ho solo detto! E poi chi è che mi faceva guardare film giapponesi dove tutti facevano Harakiri per trovare l’onore perduto?

Il signor Albarn deglutì e mandò giù il colpo, faticosamente, in effetti era colpa sua “Beh, lo facevo perché dicevi che ti sarebbe piaciuto conoscere qualche cosa di più sul paese della mamma – ah, me l’hai salutata?- non è poi per questo che ti sei laureata in economia in lingua giapponese?” cercò di giustificarsi l’uomo, che nonostante il caldo estivo, vestiva in giacca e cravatta.

Quello, invece, fu un colpo al cuore per Maka, invece, che si nascose nuovamente dietro al suo quotidiano.

“Quasi laureata” corresse stringendo con fin troppa forza il giornale, non lo stava leggendo, voleva solo nascondere e nascondersi da suo padre. “E comunque sì, te l’ho salutata e lei ha detto che sei un porco e che devi andare al diavolo

Il signor Albarn appoggiò la testa sul letto d’ospedale della figlia, di solito faceva scenate, strillava e si strappava i capelli urlando “Amore mio, lo sai che ti amo come se fossi l’unica” e altre rivoltanti idiozie. Quella volta, però, non fece nulla, solo gli si arrossarono gli occhi e strinse la mano attorno alla caviglia della figlia, da sopra il lenzuolo, poteva sentirle le  ossa, aveva l’impressione di poterla rompere solo stringendo troppo. Non aveva mai avuto quella certezza, che Maka si potesse rompere, era sempre stata magrolina, ma aveva la grinta di sua madre.

“C’è qualche cosa che vuoi che ti porti? Hai già tutto? Lo spazzolino da denti, le mutande, il cellulare…”

Snocciolò tenendo il tono di voce così basso che se ci fosse stato qualcun altro nella stanza solo sua figlia avrebbe comunque potuto sentirlo.

“Il saggio di economia di Richard Kent, dovrebbe essere sulla mensola del salotto, è quello che hai macchiato col vino” rispose lei pratica, dopo essersi incantata a guardarlo per un attimo, solo per un attimo. Per un secondo le era parso vecchio.

“Ti ho detto che non voglio che studi ancora! Ti devi riposare” sbottò il signor Albarn, ritrovando tutta la grinta perduta.

“Papà, mi voglio laureare il prima possibile, non se ne parla che stia lontana dai libri per più di tre giorni!” esclamò lei, tornando arrabbiata.

“Invece di studiare potresti, per esempio, fare due chiacchiere con un’esperta, il dottor Stein, che è più o meno mio amico, mi ha detto che c’è una dottoressa che potrebbe aiutarti e…”

“Se mi aiuta a laurearmi più in fretta, questo dottor Stein è il benvenuto, se no, che mi lasci in pace e che si sbrighi a farmi uscire di qui!” lo rimbeccò Maka, mettendosi a leggere il giornale, questa volta sul serio e ignorando tutti i seguenti tentativi di approccio di suo padre.

Fu così che il signor Albarn si appoggiò nuovamente con la testa al materasso, lasciando che il vento gli scompigliasse i capelli, tenendo stretta la caviglia di sua figlia, come per essere sicuro che non sarebbe volata via.

Maka non oppose resistenza, le sembrava di essere sicura di non poter volare via. Entrambi speravano che l’ora di cena non arrivasse mai.

 

 

 

Aki_Penn parla a vanvera:

Alla fine sono arrivata col secondo capitolo, ci ho messo un po’ ed è comunque corto, spero che vada bene lo stesso.

E’ la prima volta che mi metto a parlare di argomenti un pochino più seri, ovviamente le stupidaggini ci saranno, è risaputo che non possa farne a meno, ma diciamo che dovrò andare a toccare argomenti un po’ più complessi, spero quindi di non scivolare nel banale e nel piagnisteo.

Tra le altre cose, dato i commenti che mi avete fatto, vorrei precisare che non credo che si parlerà molto di sesso, sì, un po’, ma niente di speciale, ve lo dico in anticipo, per non deludere nessuno, mi piace scrivere lemon, eccetera, ma mi sembra di essere un po’ monotematica e questa storia si basa su ben altri argomenti. (E’ una SoMa, comunque, non temete, di loro si parlerà.)

Il primo capitolo era in realtà un prologo e nella linea temporale si posiziona alcuni mesi dopo questo secondo capitolo.

In ogni modo, ringrazio tutti per aver letto, recensito e preferito la mia storia, mi riempite di gioia, spero che il capitolo sia valso l’attesa, grazie mille!!

 

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Capitolo 3
*** Noi abbiamo un organo ***


Lullaby

 

Capitolo terzo

Noi abbiamo un organo

 

 

 

Soul venne svegliato di soprassalto dalla suoneria del suo cellulare, alle undici di mattina passate. Grugnì, sofferente, allungando la mano fino al comodino, nel tentativo di spegnere quell’aggeggio del demonio, ribaltando una lattina di Coca Cola vuota.

“Pronto” gracchiò, portando il telefono con lui, sotto il lenzuolo, dove ancora si nascondeva. Black*Star, del canto suo, russò più forte, come a dire che a lui non interessava una cippa di quello che succedeva nel mondo esterno.

“Soul!” chiamarono, con un filo di voce terrorizzata, dall’altra parte del telefono.

Liz” soffiò lui, dando finalmente un volto al suo disturbatore mattutino. Non aveva avuto la forza di aprire gli occhi e controllare il nome del suo interlocutore sul display del cellulare.

“Soul, mi devi aiutare” supplicò, lui non la poteva vedere, ma era in mutande rannicchiata dietro alla porta di una stanza da letto in disordine.

“Dove cacchio sei?” grugnì, senza davvero prestare attenzione a quello che l’amica gli avrebbe voluto dire.

“Non ne ho idea!” esclamò con un volume di voce fin troppo alto. L’uomo biondo che stava dormendo sul letto a pochi passi da lei si rigirò sotto le coperte. Si mise una mano sulla bocca e cercò di respirare il più silenziosamente possibile.

“Come sarebbe non ne ho idea, Liz?” domandò Soul, rizzandosi sui gomiti, a pancia in giù, ma comunque nascosto sotto il lenzuolo, faceva un gran caldo.

Liz si toccò i capelli, imbarazzata “Ieri sono uscita…ho preso un paio di birre…e sai come finisce, con le birre…” piagnucolò “Non ho idea di chi sia,sto tipo, e poi ha uno strano piercing al naso”

Soul alzò con un braccio il lenzuolo per guardare l’orario. Gli scuri erano mezzi aperti perciò, nonostante lui e Black*Star fossero stati nel mondo dei sogni fino a un secondo prima, la stanza era illuminata a giorno.

Liz” fece il ragazzo “Mi avevi detto che oggi non riuscivi ad andare a trovare Patty all’ospedale perché volevi studiare per la sessione estiva degli esami e che quindi avrei dovuto andarci io” cominciò, e Liz presagì il peggio “Soul…” cercò di dire.

“Spero che la tua mattinata sarà prolifica, ora devo andare da tua sorella, è quasi ora di pranzo” concluse, mentre Liz piagnucolava, colpevole, il suo nome dall’altra parte.

L’energumeno biondo grugnì facendo sobbalzare Liz, ancora seduta, in mutande, sul pavimento. Il bellimbusto biondo, evidentemente, aveva chiuso la porta della stanza a chiave la sera prima, e lei non aveva idea di come fare per uscire da quel posto. Aveva già controllato, la finestra non era una buona idea, se si fosse buttata si sarebbe rotta, come minimo, tre costole e una gamba, ma di aspettare il risveglio del suo compagno di avventura, di cui non sapeva nemmeno il nome, non ne aveva proprio voglia. Sarebbe stata una giornata lunga.

 

*

 

Maka,  con gli occhi chiusi, sentiva Kid premerle sulle palpebre col pennello, era una sensazione odiosa, per questo non si metteva mai l’ombretto.

Kid, la possiamo piantare?” domandò, un po’ scocciata.

“Non dire così, che ti ho truccato un occhio solo e così sei asimmetrica, per essere belli bisogna soffrire” fece lui senza dare spazio ad altre repliche.

Kid” sospirò lei, ancora con gli occhi chiusi e con voce rassegnata “Sono in ospedale, non devo fare colpo sulle infermiere!” ribatté lei, un pochino acida.

“Bisogna essere sempre belli, per stessi” continuò Kid convinto.

Ma per piacere!” sbottò lei riaprendo gli occhi, il lavoro dell’amico era proprio appena terminato, perciò il gesto non ebbe conseguenze, ma fu solo una fortunata coincidenza.

Maka ricordava bene come era andata al loro Prom, la preparazione era stata più lunga del ballo.

“Vuoi che ti sistemi le sopracciglia?” domandò Kid, che, una volta che Maka ebbe aperto gli occhi, si presentò come un damerino in camicia e gilet, con tanto di papavero nel taschino.

“Non ti azzardare. Al massimo dovrò fare delle analisi delle urine, non una sfilata di moda” ribatté lei, sempre seduta, a gambe stese, sul suo letto.

Kid sospirò forte, in attesa che gli venisse in mente qualche cosa con cui ribattere. “Dovrai vedere uno psicologo, ha detto tuo padre” aggiunse poi “Non vorrai presentarti impreparata. Spero che tu ti sia fatta la ceretta!” aggiunse scandalizzato, prese da un atroce dubbio.

“Vuoi un cazzotto?” domandò Maka, che iniziava ad alterarsi. Kid tirò indietro e alzò le mani in segno di resa. “Come vuoi”

Maka si appoggiò nuovamente ai cuscini del letto, dai quali si era alzata per minacciare Kid.

“Non ho bisogno di uno psicologo” fece poi, con una vaga tristezza, senza guardarlo e tormentandosi le mani in grembo.

Kid, appollaiato su uno sgabello, con i piedi appoggiati alle gambe di questo, sembrando un po’ un pappagallo su un trespolo, la fissò coi suoi occhi gialli.

“Non c’è nulla di male, puoi giusto provare e vedere com’è, magari hai qualche cosa da dire con questa persona” fece lui, con voce piatta.

Maka alzò le spalle “Vorrei solo poter stare di più con mia madre e parlarne con lei” ammise con un sospiro, sempre senza guardarlo.

“Beh, potresti iniziare dicendo questo” aggiunse Kid, guardandola sottecchi.

Finalmente Maka alzò la testa e mosse la mano per aria come per scacciare una mosca, o come per dire “sciocchezze”, e infatti lo disse “Sciocchezze, piuttosto, mi hai portato il libro che volevo?” chiese, con aria di ordine.

“Ho cercato di infiltrarmi a casa tua con una scusa, ma tuo padre mi ha subito beccato che frugavo nei tuoi volumi dell’università e mi ha cacciato fuori a pedate e, non farmene parlare, mi ha rovinato il completo, l’ho portato in lavanderia

Maka sospirò rammaricata, sperando che l’amico non si mettesse a parlare della lavatura a secco, dei manichini e dei cartamodelli.

“Quindi non hai niente per me?” chiese poi speranzosa, magari un qualche giornale economico era riuscito a raccattarlo, in edicola.

“Un sudoku” fece lui, lanciandolo sul letto, a poca distanza dal ginocchio di Maka.

La ragazza appoggiò la testa ai cuscini e chiuse gli occhi, quella permanenza in ospedale sarebbe stata più dura di quanto non si aspettasse dall’inizio.

Fu in quel momento che, silenziosamente, entrò nella camera un’infermiera piuttosto minuta, con un vassoio che sembrava darle parecchi problemi. In cima c’era anche un papavero, assolutamente inutile, che somigliava pericolosamente a quello infilato nel taschino di Kid.

Il ragazzo trattenne un sospiro, con fatica, aveva pianificato di andarsene prima di pranzo, se se ne fosse andato in quel momento sarebbe sembrata una fuga, cosa che in effetti era.

“Ma si mangia alle undici e mezza in questo posto?” domandò, cercando di avere un tono di voce allegro.

“Come mia nonna!” fece Maka con un sorrisetto sghembo e le braccia incrociate. “E spengono le luci alle nove, devo usare la torcia se voglio leggere fino a tardi” aggiunse, guardandolo fisso negli occhi, come se l’infermiera canuta che portava il pranzo non esistesse.

Questa, che aveva scritto Elka Frog sulla targhetta del nome, appoggiò il vassoio del pranzo sul comodino, mentre i due continuavano a conversare amabilmente di come anche la nonna di Kid amasse cenare con le galline. L’infermierina, che era un tipo piuttosto piccolo e non troppo facile ai sorrisi, mosse il tavolo incorporato al comodino, fino a farlo finire nelle costole di Maka senza troppi complimenti, dicendo “Buon appetito” senza molti altri convenevoli e se ne stette lì ad aspettare, con le braccia che ricadevano lungo i fianchi, come se non fossero sue e non sapesse che farne.

“Sembra buono” commentò Kid, guardando il pesce bianco, e senza pelle, che stava nel piatto, adagiato affianco a una montagna di verdure. Maka annuì e fece un sorrisetto, ma a Kid ricordò l’espressione di uno che, in realtà, ha la nausea.

La prima cosa che aveva pensato quando aveva visto Elka Frog entrare nella stanza era stata è troppo. Non c’era stato bisogno di controllare meglio, uno sguardo fugace era bastato per rendere chiara la situazione, era troppo, nel suo stomaco non ci sarebbe mai stato, le sarebbe venuto male ovunque, avrebbe sentito la pelle tirare e avrebbe cercato di cambiare posizione, ma avrebbe continuato a sentirsi male e a voler vomitare. Forse avrebbe dovuto farlo, ma quella non era il tipo di reazione che avrebbe voluto mostrare a Kid, fu così che si mise a tagliare il pesce facendo pressione con la forchetta, dimentica del coltello. Elka Frog alzò un sopracciglio canuto, guardando i due.

“Sai vorrei proprio finire di leggere quel libro di cui ti avevo parlato, l’economia in oriente è un argomento particolarmente interessante. Avevo programmato di andare in vacanza con mia madre a Tokyo per il prossimo Natale, papà si troverà sicuramente una qualche ragazza facile che gli faccia passare una buona serata sotto al vischio. La mamma ha detto che potrei fare là qualche corso dopo che avrò finalmente finito il master, mi sembra una buona idea e non riesco proprio ad aspettare!” diceva quasi senza respirare e senza distogliere gli occhi da quelli gialli dell’amico, non voleva guardare il pesce, non voleva pensare che avrebbe dovuto mangiare tutta quella roba, non voleva pensare che sarebbe stata male. Vivere in quel posto era un inferno, voleva tornare a casa.

Kid la vide tagliare tutto in modo sempre più affrettato, più energico e disordinato, senza rivolgere al piatto nemmeno uno sguardo e parlando a raffica, di come se in realtà non stesse davvero dando importanza a quello che diceva, sembrava solo avesse voglia di parlare.

Alla fine, dopo aver preso un respiro veloce, di seguito a un’interminabile frase in apnea, si infilò la forchetta in bocca e mandò giù il boccone senza masticarlo.

“Buon appetito” si disse.

 

 

*

 

“Sei una cippa” esclamò Patty battendo le mani allegra. Soul suonò l’ultimo accordo con la sua chitarra e la guardò indignato “Senti non ho rischiato di morire su quella ghiaietta che avete in cortile per farmi insultare, mi stavo per ribaltare con la bici!” brontolò, afferrandole il braccio, piuttosto arrabbiato.

Patty se ne stava tranquilla seduta sul letto a gambe incrociate, indossando una maglietta con su scritto Datemi il cioccolato e nessuno si farà del male.

“Con quella ghiaia ci possiamo fare il presepe a Natale, secondo me si può trovare anche del buon muschio” disse, per poi urlare “Dottoressa Medusa, vero che dobbiamo raccogliere il muschio per il presepe?”

“Ne parlerò col primario” rispose la dottoressa con un sorriso un po’ tirato, senza poter far altro, dato che era stata intercettata proprio mentre passava davanti alla porta aperta della stanza dove stavano i due.

“Meraviglioso” commentò Soul, sarcastico.

“Tu non avevi una moto? Le moto sono fighe” aggiunse poi Patty, quando la dottoressa Medusa si fu fatta di nebbia sparendo nel gabbiotto degli infermieri.

“Me l’hanno rubata” ammise distogliendo lo sguardo, era un tasto dolente. Patty lo indicò e rise sguaiatamente. “Non c’è nulla di divertente in questo. Sai quanto è comodo portarsi una chitarra in bicicletta?

Sei caduto?” domandò la ragazzina, mordendosi il labbro, curiosa, e avvicinandosi a lui. Quella tipa non riusciva a stare ferma, gli metteva un po’ di angoscia.

“Quasi, nella ghiaia del tuo presepe” fece lui, guardandola fissa negli occhi. La stanza era luminosa e bianca, c’erano altri due letti, ma erano vuoti, sul tavolo lì vicino i piatti sporchi che erano rimasti dal pranzo della ragazza, di certo la degenza in ospedale non le aveva tolto l’appetito.

“Con la chitarra fai schifo” disse poi lei.

“Non è vero!” ribatté Soul, offeso. Non avrebbe dovuto dire a Liz che avrebbe fatto compagnia alla sua sorellina pazza.

“Lo direbbero anche le giraffe che vengono a trovarmi di notte” fece poi lei. Soul sentì il suo cuore perdere un battito. Quello era proprio un argomento che avrebbe sorvolato volentieri, cosa doveva dirle?

Liz sapeva come fare, era sua sorella, Liz continuava a fare le sue cose, a sistemarle le sopracciglia e metterle lo smalto e le diceva, senza guardarla, come per non dare importanza alla cosa, che non c’era nessuna giraffa che la veniva a trovare la notte.

“Non c’è nessuna giraffa che ti viene a trovare alla notte” fece lui, alla fine, col suo solito tono strascicato, guardandola fisso negli occhi, mentre sentiva il legno della chitarra appiccicarsi alle mani sudate.

Patty si avvicinò fino ad appoggiare la testa a quella del ragazzo, per poi sussurrare “Lo so che ti piacciono i pianoforti. Noi abbiamo un organo nella cappella dell’ospedale”.

Dieci minuti dopo Soul era lì, in una chiesa. Non gli piacevano molto le chiese, ma la mancanza di un prete rendeva vivibile la situazione, nonostante, appeso sopra alla sua testa, ci fosse un crocifisso di dimensioni umane.

Non era un pianoforte quello che aveva sotto le dita, ma un organo, non era la stessa cosa, ma poteva quasi andare. Patty si era detta stanca e si era sdraiata sul letto, mandandolo a suonare nella cappella, tanto con la porta della stanza aperta l’avrebbe sentito senza problemi. Il ragazzo l’aveva lasciata sola, con un po’ di disapprovazione, ma una volta che la sua musica gli  era entrata nelle orecchie era stato come trovarsi in un altro mondo. Si scordò di essere lì per Patty, si scordò del crocifisso dell’ospedale e del fastidioso odore d’incenso. C’era una tastiera sotto le sue dita e ciò era quello che contava.

Interruppe la melodia di botto, premendo troppo a lungo un sol, quando qualcuno entrò in chiesa.

“Ah, alla fine sei venuta” disse girandosi, sempre rimanendo a sedere sullo sgabello dell’organo. Rimase però sorpreso non vedendo Patty. Al posto della ragazzina ce n’era un’altra che, a prima vista, gli parve minuscola, aveva dei buffi codini e lo guardava fisso, tenendo la mano stretta all’albero della flebo.

 

 

 

Aki_Penn parla a vanvera:

Ci ho messo dei secoli, lo so e mi scuso. Spero che possiate apprezzarlo, anche se è corto.

Il ragazzo che si vede all’inizio con Liz è Giriko, tanto per farvelo sapere.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie mille per averlo letto. <3

 

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Capitolo 4
*** L'incoerenza del suono ***


Lullaby

Capitolo quarto

L’incoerenza del suono

 

 

“E tu chi saresti?” domandò Soul un po’ perplesso. Non voleva essere brusco, era solo stupito di trovarsi una ragazzina gracile con un trucco da modella e una camicia da notte da ospedale, che lo fissava, al posto della solita energica ed irruenta Patty.

Maka sbuffò, aveva seguito la musica dell’organo fino alla cappella dell’ospedale, non si aspettava di trovare un tipo così maleducato all’interno.

“Mi chiamo Maka, ho sentito una canzone strana e sono venuta a vedere cosa stava succedendo” spiegò seria.

“E’ tutto a posto, signor gendarme, non si preoccupi” ridacchiò Soul, rimettendosi seduto composto, ma con la testa sempre girata verso Maka.  La ragazza aggrottò le sopracciglia “Non stavo controllando, ero solo curiosa” disse,  tra lo spazientito e l’incerto “Non è proprio il tipo di musica che è solito sentire in chiesa, è…lugubre”

Soul fece un sorrisetto sghembo “Non sono qui per fare messa, è solo che stavano mettendo in dubbio le mie capacità di musicista, di là” spiegò, abbastanza divertito. Quella confessione fece capitolare Maka, la nota di antipatia che lo aveva contrassegnato appena si erano incontrati era svanita come una bolla di sapone, lasciando spazio alla curiosità che l’aveva investita quando aveva sentito quella  musica inusuale.

Si avvicinò facendosi avanti sul pavimento di marmo della cappella a piedi nudi. Era caldo, non le andava di mettersi le scarpe chiuse e quell’incompetente di suo padre si scordava sempre di portarle le infradito.

“Lavori qui?” domandò lei, alzando il braccio che aveva la flebo per grattarsi dietro al collo. Soul scosse la testa “Naaah. La sorella di una mia amica è ricoverata in psichiatria, sono qui a farle compagnia. In realtà credo che lei se la cavi alla grande anche da sola, ma la mia amica ci tiene. La stronzetta però dice che con la chitarra faccio schifo” spiegò Soul con un sorrisetto divertito e stava per aggiungere col piano, però, spacco il culo, ma Maka lo interruppe per chiedere “Quindi sei un volontario?”

Fu colto di sorpresa, quella cosa del volontariato non l’aveva presa proprio in considerazione, per quanto Liz ne avesse parlato e straparlato, gli sembrava noioso e una perdita di tempo e poi, cosa doveva fare? Travestirsi da pagliaccio e andare a ballare nel reparto pediatria? No, non era da lui.

Era lì solo per fare un favore a Liz e fare compagnia a Patty, per quanto non ce ne fosse assolutamente bisogno.

“Più o meno” disse infine. Maka annuì, facendosi sempre più vicina “E’ un’idea carina, credo che i bambini avrebbero bisogno di qualcuno che faccia loro compagnia, in pediatria ci va solo il signor B.J. che cerca di arrangiarsi con lo spettacolo dei burattini, ma non è molto bravo” spiegò.

“L’hai visto?” domandò lui, non aveva avuto il piacere di assistere a tale scempio, e se doveva essere sincero non voleva nemmeno vederlo. Non gli andava nemmeno di tornare in quel posto.

“E tu, invece? Non hai bisogno di compagnia?” chiese poi Soul, per togliere l’attenzione da sé stesso. la ragazza si appoggiò all’organo e alzò le spalle, mentre le ruotine arrugginite dell’albero della flebo ringhiavano.

“Io verrò dimessa presto, sono qui solo perché mio padre è sempre troppo apprensivo, mentre invece che guardare a me dovrebbe dare una regolata alla sua simpatia per gli alcolici e le donnine” brontolò lei, rendendosi conto solo in quel momento di star parlando male di suo padre con uno sconosciuto.

Non aveva mai molte remore a parlare di suo padre e descriverlo il peggio possibile, ma non aveva davvero idea di come si chiamasse quel tipo dall’aspetto così pittoresco con quale stava parlando. Capelli candidi, occhi rossi e sguardo strafottente, non era il tipo che passasse inosservato, nel bene o nel male. Uno con l’aria da teppistello ma che suonava l’organo come un mago, uno che poteva fare cose del genere di sicuro non era il tipo che andasse ad appiccar fuoco ai cassonetti, anche se se l’avesse visto in giro e non avesse avuto modo di stargli accanto e sentirlo all’opera, l’avrebbe pensato subito.

“Mi chiamo Maka” disse poi, per diminuire la loro distanza. Era convinta sarebbe stata dimessa presto, ma parlare di certe cose con qualcuno di cui conoscevi per lo meno il nome era un po’ meglio.

“Soul” disse lui, afferrando la mano che la ragazza gli porgeva.  La guardò negli occhi e sorrise sentendo la stretta delle sue dita sulle proprie. Il braccio era sottile, sembrava che attaccato all’osso vi fosse solo la pelle e le vene pulsavano sul polso.

Nonostante i piedi nudi sul marmo freddo della chiesa lei pareva avere caldo. La vide stringere le labbra bianche e le dita attorno all’albero della flebo, deglutendo. “Ti vuoi sedere?” chiese lui spostandosi da un lato sul panchetto dell’organo. Non era un sedile comodo, ma era meglio di niente. Maka annuì “Grazie”

E si accomodò seduta al contrario, con le gambe rivolte verso la navata, invece che verso l’organo.

“È tutto a posto?” domandò Soul.

Maka, seduta con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il viso sprofondato nelle mani, con la flebo che tirava, respirò profondamente, per mandar via la nausea e possibilmente i giramenti di testa.

“Non trovi che oggi faccia spaventosamente caldo, eh?” disse senza guardarlo.

“Un po’” ammise lui, che in chiesa cominciava quasi a sentire fresco.

Maka aspettò che il freddo del marmo le entrasse nelle ossa mentre Soul riprendeva a suonare, dato che da qualche stanza di distanza veniva la voce di una ragazzina che strillava “Fai schifo anche con l’organo, ricomincia a suonare!”

Ci volle un po’, prima che Maka si rialzasse, ma in quel momento Soul smise di nuovo di suonare per girare il busto e guardarla mentre si metteva in piedi. Sembrava dritta e controllata, nonostante quelle sue gambette magre sembrassero delle bacchettine cinesi e avessero tutta l’aria di potersi rompere da un momento all’altro.

Si guardarono per qualche secondo, temporeggiando su un Ci vediamo, piuttosto astratto per entrambi. Maka aveva intenzione di andarsene il prima possibile da quel posto e Soul, nel dubbio, non aveva intenzione di tornarci mai più.

Fu Soul, infine, a trovare il giusto compromesso “Ci si vede in giro, allora” Maka annuì “Ciao” e gli diede le spalle senza guardarlo più.

 

*

 

Maka se ne stava seduta al tavolo con la mano sulla bocca in muta attesa mentre la donna di bianco vestita si sistemava il vestito sotto il camice. Si sentiva un po’ spazientita, già non capiva che aiuto potesse a darle una sconosciuta, per di più una tizia che somigliava paurosamente a una di quelle donnine che suo padre apprezzava tanto.

“Bene, Maka, di cosa mi vuoi parlare?” domandò la donna coi capelli viola che stava dall’altra parte della scrivania. In un angolo disordinato del tavolo c’era un cartellino col suo nome, Blair Qualcosa.

Maka alzò le spalle “Niente, voglio solo tornare a casa” brontolò, doveva aver tenuto il braccio in una posizione sconsigliabile, dato che iniziava a perdere sensibilità alla mano che stava in corrispondenza della flebo.

“E pensi che sarebbe il caso di tornare a casa, per te?” chiese poi Blair, fissandola con sguardo ingenuo. Maka si accigliò.

“Certo, non ho nulla da fare qui” sbottò scorbutica. “E allora perché sei qui?” chiese poi la donna. Maka non poté fare a meno di fissarle il seno per un attimo, era il doppio, triplo, forse, del suo. Quando andava al liceo aveva un po’ di seno, ma in quel momento il suo petto era praticamente inesistente. Se avesse avuto tempo da dedicarvi forse avrebbe provato a metterci un po’ di gommapiuma, ma non aveva assolutamente tempo da perdere in quelle sciocchezze.

“Non ha letto la mia cartella clinica?” domandò la ragazza. Blair alzò gli occhi al cielo e si strinse nelle spalle, accentuando ancor di più il suo seno prosperoso. “Mi annoiano le cartelle, dimmelo tu” fece lei, un po’ come se stesse facendo le fusa. Maka arricciò il naso, colpita da una voglia incredibile di alzarsi e di andarsene.

“Sono qui…” cominciò, senza guardarla “perché ho avuto un calo di zuccheri prima di un esame e mio padre ha chiamato l’ambulanza. Nulla di preoccupante, potrei tornare a casa anche adesso” disse torcendosi le dita.

“Capisco. Calo di zuccheri. Cosa studi?” domandò poi, cambiando discorso.

“Economia, in lingua giapponese” spiegò. Le tremavano un po’ le mani. Non era nervosa, ma le capitava spesso, come se avesse fatto un grosso sforzo e i muscoli fossero ancora in tensione.

“Sembra noioso” commentò lei, candida, sfogliando un dépliant a caso sulla scrivania, che si dimostrò essere il menù di una rosticceria cinese take away. Maka si incupì e stava per ribattere in malo modo quando la sua interlocutrice la fermò con un’altra domanda a bruciapelo “Cosa vuol dire il tatuaggio che hai sul collo?” domandò, mentre decideva che il vitello alla cipolla sarebbe stato il suo pranzo.

Maka trattenne il respiro, prima di spiegare orgogliosa che l’ideogramma che aveva  dietro al collo, appena visibile sopra il colletto della camicia da notte, significava Determinazione.

Blair alzò la testa di scatto dal suo menù, con aria delusa “Ma come, mi aspettavo un tatuaggio dal sottintesi sexy!”

Maka scosse la testa, visibilmente in disaccordo “Che senso avrebbe?” chiese un po’ brusca.
“Non ce l’hai un ragazzo?” chiese poi Blair, tornando a guardarla negli occhi. “No” fu la risposta secca e scocciata di Maka, quella tipa le sembrava agli antipodi rispetto alla definizione professionale.  La psicologa annuì, guardando per aria “Ti piace il pesce?” chiese poi, completamente senza un nesso col resto.
Maka si morse un labbro “Non quello crudo” rispose la ragazza, un po’ come se non avesse voglia di fare mente locale. Le vongole e l’orata non le dispiacevano, però.
“Mi stai dicendo quindi che faresti prima a dirmi cosa non ti piace?” chiese Blair, sporgendosi un po’ oltre il tavolo. Maka indietreggiò, per quanto poteva, stando seduta. Stava iniziando a sentirsi un po’ debole, le spalle erano pesanti e le gambe le tremavano impercettibilmente.
“Era per dire. E’ la prima cosa che mi è venuta in mente” disse abbassando lo sguardo. Sapeva che ci avrebbe ricamato sopra, ma poi la donna si rimise seduta e incrociò le braccia “Ti piace cucinare?” domandò. Maka annuì con un gran svolazzare di codini. Le piaceva cucinare, quando non doveva studiare, ovviamente.
“Lo fai spesso?”
La ragazza parve pensarci “Quando non sono sola, se devo cucinare per mio padre lo faccio volentieri, se devo mangiare da sola va bene anche una scatoletta di tonno, è una perdita di tempo se no” disse con gli occhi spalancati e un’aria un po’ spaurita. Blair si strinse nelle spalle e sorrise.

*

“Non mi piace” disse Maka a Stein, seduto infondo al suo letto. “Immaginavo, ne hai mangiato pochissimo” commentò l’uomo annuendo, tranquillamente. Maka sbatté le palpebre non capendo subito. Fu come se nel cervello della ragazza si accendesse una lampadina “Non intendevo il pollo!” sbottò, tagliandone un piccolo pezzo e infilandoselo in bocca a dimostrazione. Mandò giù rischiando di strozzarsi e Stein fece finta di non vedere “Intendevo la dottoressa…Blair!” disse, per poi tossire. Il dottore le passò dell’acqua.
Mandò giù, tutto d’un sorso e gli ripassò il bicchiere “E’…” si guardarono, Maka arrossì un poco, prima di dire “una…beh…hai capito”
Stein ridacchiò “Non ho bisogno di parlare con qualcuno, devo solo andare a casa e laurearmi”
“Parlare va sempre bene, Maka” ribatté Stein pacato. Lei si rabbuiò “Allora perché non posso parlare con te?”
Lui la guardò sottecchi “Noi ci conosciamo. Mi racconteresti tutti i tuoi segreti? Sono amico di tuo padre” le ricordò. Maka arrossì un poco, per poi dire “Non ho segreti”
Il dottore alzò le spalle “Magari li hai e non lo sai”. La ragazzina scosse la testa “Bah!” e avrebbe continuato a lamentarsi se Stein non avesse indicato il letto accanto a quello dove stavano loro, con un cenno del capo “Chi è?” chiese con un tono di voce quasi impercettibile.
Maka scosse la testa, dimentica del loro discorso di poco prima e completamente concentrata sul bozzolo di coperte bianche che le stava accanto. Faceva un gran caldo, non avrebbe saputo dire come si potesse resistere tirandosi perfino il lenzuolo sulla testa.
“Non ne ho idea” bisbigliò lei “L’hanno portata ‘sta notte, hanno fatto un gran casino, ma non si è più mossa, non so, forse sta dormendo”
Stein fissò il fagotto di lenzuola come pensando che avrebbe fatto un salto in infermeria per dare un’occhiata alla sua cartella medica. Si alzò con uno scatto “Beh, credo sia ora di andare” annunciò alzando il vassoio di Maka per portarlo via. “Ma…” cominciò a dire lei, Stein la guardò “Avevi ancora fame?” chiese lui. Lei scosse la testa, gli era grata per la finta non curanza “No, è a posto”. Lo guardò uscire e si lasciò cadere sui cuscini con la mano sulla pancia. Era piena, forse, non lo sapeva, le faceva un po’ male lo stomaco.
Sentì una scarica elettrica quando nel silenzio della stanza si fece strada una musica un po’ lugubre, conosciuta. Non avrebbe saputo dire perché, ma si trovò a sedere con le gambe penzolanti sul letto alto. Strinse la mano, piantandosi le unghie nel palmo, mentre sentiva la testa girarle per essersi alzata troppo velocemente. Vide nero per un attimo, sospirò e appoggiò i piedi alla barra fredda del letto dell’ospedale, finché non riebbe una vista normale. Il braccio della flebo formicolava. Si passò una mano sulla fronte, sudando. Faceva troppo caldo.
Saltò giù dal letto e per un secondo sentì le ginocchia cedere, ma rimase in piedi. Afferrò l’albero della flebo e si avviò cigolando verso la porta della stanza, diretta in corridoio, quando qualcuno piagnucolò “Resta qui”
Maka si immobilizzò sotto la porta: il bozzolo di lenzuola aveva parlato.
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto mi odio molto per questo ritardo, ma ci sono state davvero tante cose, il trasferimento, la ricerca di lavoro, il lavoro, le vacanze e il temibile CBL, che mi mette sempre alle strette. So che questo non scusa tutto il tempo che è passato (non oso guardare, ma temo più di un mese), spero che mi perdonerete, mi impegnerò ad aggiornare in tempi umani il prossimo capitolo. Grazie per aver letto fino a qui. <3

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Capitolo 5
*** La strada lunga di Blair ***


Lullaby

Capitolo quinto

La strada lunga di Blair

 

 “Resta qui”
Maka si immobilizzò sotto la porta: il bozzolo di lenzuola aveva parlato e le aveva detto di non andare via. Rimase ferma a guardare la figura sul letto affianco a lei, senza avanzare per uscire dalla porta e nemmeno avvicinandosi alla compagna di stanza. Nonostante l’ordine perentorio sembrava che avesse cercato di dirlo il più dolcemente possibile, era quasi una supplica.
“Oh, sì” rispose Maka, un po’ incerta. Avrebbe voluto andare a sentir suonare di nuovo quel ragazzo con l’aria da teppista, ma il fatto che la sua compagna di stanza avesse parlato era un  avvenimento di una certa importanza.
Rimasero in silenzio, con il fagotto assolutamente immobile, come se fosse paralizzato, sotto il lenzuolo e Maka indecisa sul da farsi, a piedi nudi nel bel mezzo della stanza. Ci volle un po’, prima che l’infagottata chiedesse “Sei ancora qui?”
Per Maka fu un po’ come svegliarsi da un sogno “Oh, sì, sono rimasta qui. Comunque, mi chiamo Maka, tanto piacere”
“Sì, ho sentito il dottore che ti chiamava così. Io sono Tsubaki, piacere” rispose la voce morbida da sotto le coperte.
“Oh, scusami se ti abbiamo svegliato” proferì Maka, sinceramente dispiaciuta. Tsubaki scosse la testa, Maka lo capì perché il lenzuolo si mosse in corrispondenza del cuscino.
“Non stavo dormendo, è dalla notte scorsa che non riesco a dormire” rispose Tsubaki, calma.
Maka aggrottò le sopracciglia, come per spremersi le meningi e darle un buon  consiglio “Se chiedi alle infermiere, forse ti possono dare delle gocce per dormire, o, alla peggio, della camomilla”
“Sì, magari sì” fu la risposta non troppo convinta. Sembrava quasi che non avesse davvero voglia di dormire.
“Non hai caldo?” chiese poi, avvicinandosi di qualche passo al letto della ragazza. Sul comodino c’era una bottiglia d’acqua naturale e nient’altro.
“Un po’” ammise Tsubaki, ma non aggiunse niente, fu quindi Maka a continuare “Forse se ti togliessi le coperte di dosso forse staresti meglio, no?” propose. Immaginava che fosse un pensiero non troppo complesso, ma sperava che almeno le venisse dato un indizio sul perché se ne voleva stare così, sembrava di aver accanto una mummia.
“E’ a posto così” disse invece Tsubaki, senza aggiungere altro sull’argomento coperte.
“Io invece ho un gran caldo, sto proprio sudando. Nella chiesa dell’ospedale è un pochino più fresco, c’è il pavimento in marmo. Vuoi venire?” domandò, senza chiedersi se la compagna ne fosse in grado o meno di spostarsi dal letto.
“Beh, no…va bene così, davvero. Tu stavi andando là?” domando Tsubaki, che evidentemente si sentiva un po’ in colpa nell’averla fermata mentre andava a rinfrescarsi le idee in chiesa.
“Oh, beh, sì” fu la risposta di Maka, che si rese conto del tono di voce colpevole della sua interlocutrice.
“Beh, se…se dovevi accendere delle candele, preg…” cominciò Tsubaki, con quello che sembrava un grosso sforzo.
“Oh, no” si affrettò a ribattere lei, muovendo le mani con disapprovazione, nonostante Tsubaki da sotto la coltre di lenzuoli, non potesse vederla  “E’ che, l’altro giorno, c’era un tipo che suonava l’organo e…era una musica piacevole!” spiegò, stupendosi di dire sinceramente che voleva tornare alla cappella per veder suonare uno sconosciuto.
Fu in quel momento che nella stanza entrarono un signore e una signora dall’aria distinta. Entrambi sorrisero “Buongiorno signorina” disse l’uomo, allungando la mano per stringere quella di Maka. La ragazza l’afferrò senza pensarci, anche se un po’ presa alla sprovvista “Io sono il papà di Tsubaki, piacere di conoscerti”
“Maka” rispose semplicemente lei. La signora, che immaginò essere la mamma, si era già accomodata su uno sgabello accanto al letto della figlia e le stava accarezzando un fianco. Sobbalzò, rendendosi conto di essere stata poco cortese “Ciao” disse quindi, con un sorriso, rendendosi conto solo in quel momento della presenza di un’altra ragazza oltre alla figlia. Sembravano tipi gentili.
“Maka, senti, non ti voglio trattenere, vai pure ad ascoltare il tuo concerto d’organo” fece poi Tsubaki, con voce flebile.
“Sicura? Non hai bisogno di nulla?” domandò Maka, ma stava già facendo due passi verso la porta.
“Davvero, è tutto a posto adesso. Grazie per prima”
Maka avrebbe voluto dire che in realtà non aveva fatto proprio nulla, ma si limitò a sorridere per poi uscire dalla camera, trascinandosi dietro l’albero.
Non aveva capito cosa aveva quella Tsubaki, ma si sentiva come un topo con il pifferaio magico, voleva sentire di nuovo suonare l’organo, da vicino.
Allungò il passo, accompagnata dal consueto cigolio, seguendo il suono dell’organo. A volte la musica si interrompeva, lasciando spazio a schiamazzi di vario genere, più si avvicinava più riusciva a identificare voci. Riconobbe quella del ragazzo con gli occhi rossi – si chiamava Soul, se la memoria non la ingannava- e poi altro ragazzo e una ragazza, o forse due o tre.
Era a metà del corridoio che l’avrebbe portata alla cappella quando, praticamente dal nulla, spuntò un volto conosciuto “Kid!” esclamò Maka.
“Ciao” fece lui “Sono venuto a trovarti” appositamente dopo pranzo, aggiunse tra sé. Maka sorrise, vedere Kid era sempre un piacere, non come suo padre, che l’ultima volta che era passato si era presentato con una maglia con su scritto Sex Instructor – La prima lezione è gratis, davvero di gusto pessimo.
“Ti va di fare un giro fuori?” domandò lui, vestito di tutto punto, nonostante il caldo, con tanto di gilet. Maka boccheggiò, indecisa. Soffocò il desiderio di raggiungere la chiesa, sarebbe stata una richiesta strana “Va bene”
Rimasero seduti su una panchina, godendosi la brezza, che era di poco conforto, dato il caldo. Kid non era riuscito, ancora una volta, a recuperare nulla di interessante da sottoporle. Sembrava che la sua laurea si allontanasse sempre più.
Strinse un po’ gli occhi, per la luce, guardando lontano, stancamente. Stava sudando, fu allora che, nel suo campo visivo entrarono tre ragazzi che camminavano a passo svelto in direzione dell’uscita. Una ragazza alta con i capelli lunghi e una maglia che lasciava scoperto l’ombelico, un ragazzo un po’ più basso con i capelli azzurri, che faceva un gran chiasso, e un altro tipo, con i capelli bianchi e un’aria un po’ strafottente.
Rimase imbambolata a guardarli, finché, l’ultimo ragazzo non si voltò per caso nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono. Lui se ne andò lasciandola solo con un sorrisetto un po’ strafottente.
Kid stava parlando di come la fruttivendola si vestisse come uno spaventapasseri, ma Maka non lo ascoltava più dall’apparizione dei tre “Senti, torniamo dentro?”. Kid sobbalzò, interrotto “Come vuoi”

***

“Non è colpa mia!” esclamò Liz esasperata, mentre Black*Star, seduto al bancone accanto a lei, tracannava birra.
“A no?” domandò Soul. Liz scosse la testa “No, assolutamente no. Sono una vittima, di gente che si approfitta di me perché sono ubriaca” spiegò, compunta, annuendo per dare più credibilità alle sue parole.
“Secondo me, sei una vittima della birra” commentò Soul, alzando le sopracciglia, scettico.
“Beh, può darsi” acconsentì Liz, che anche quella mattina si era svegliata in un letto che non era il suo ed era scappata dalla finestra. “Comunque” iniziò, prima di sussurrare un grazie al barista che le porgeva la sua birra “prometto che non lo faccio più”
Soul alzò le spalle “Per me non è un problema, a noi uomini fa piacere che ci siano ragazze sportive come te, l’importante è che non mi svegli perché non sai come uscire dalle camere chiuse”
“Non si deve neanche azzardare a svegliare il sottoscritto mentre dorme!” esclamò Black*Star, sbattendo la sua bottiglia di birra vuota sul bancone, l’aveva bevuta tutta d’un fiato.
“Tanto tu non ti svegli nemmeno sotto un bombardamento. Piuttosto, mi sono vergognato da morire oggi, con tutto quel casino che hai fatto in chiesa. Con quella dottoressa che è venuta a sgridarci perché facevamo fracasso in un luogo di culto. Non è per niente cool farsi sgridare, neanche avessimo sette anni”
“Non è colpa mia” cominciò Black*Star con aria seria “E’ che sono davvero troppo affascinante e quella psicologa è crollata di fronte al mio charme” disse, alludendo alla dottoressa Blair che, in realtà, si era strusciata addosso a Soul tutto il tempo. Soul non fece notare la cosa e si voltò verso Liz, con l’intenzione di domandare anche a lei di tenere a freno l’entusiasmo di Black*Star e Patty “E anche tu, Li..” ma non fece in tempo a finire la frase perché, alla sua sinistra, Liz era seduta sul bancone intenta a baciare appassionatamente un barista che stava dall’altra parte. “Ma insomma! Liz!”

***

“Quindi, quando eri all’università, frequentavi qualcuno?” domandò Blair, con le gambe accavallate sotto la scrivania.
“No. Cioè, in che senso? Avevo qualche amico, ma, se intendi un ragazzo, no, te l’ho già detto.” Brontolò Maka. La tapparella dell’ufficio era quasi chiusa e all’interno era piuttosto buio.
“Nessuno, nessuno?” insistette Blair, facendosi più vicina. Maka si domandò se, da un momento all’altro, non si sarebbe messa a chiedere informazioni sui dettagli più intimi, le sembrava che quella donna sapesse parlare solo di cose del genere.
“Qui non ci sono tabù” aggiunse. Maka arricciò il naso, cedendo alle domande “Sono uscita una volta, con uno, ma forse non era nemmeno un appuntamento galante, siamo andati a cena e abbiamo parlato di economia. Non ci siamo piaciuti, cioè, è un tipo carino, usciamo tra amici, a volte. È venuto a trovarmi una volta in ospedale, con Kid, e basta. Non chiedermi se ci ho fatto sesso, per favore” sbottò, esasperata. Blair sembrò un po’ delusa “Quindi, niente di niente, eh?”
“NO” fu la risposta secca di Maka. “E perché?” la ragazza si fece prendere il contropiede “Perch…perché no! Insomma, non ho tempo per ‘ste cose. Mi devo laureare e diventare come mia madre!” fece seria, guardandola negli occhi.
“E a tua madre non piacevano i ragazzi? Non ti ha avuta da giovane? Tuo padre sembra giovane, è il tipo con i capelli rossi e quella maglia così divertente, vero?”
Quello fu un po’ un colpo, deglutì, senza nemmeno pensare al fatto che Blair avesse notato l’imbarazzante maglietta di suo padre. “Mi ha avuto quando aveva diciotto anni” fece, abbassando lo sguardo.
“Ma se l’è cavata alla grande, nonostante mio padre fosse un demente e lei dovesse lavorare, studiare e occuparsi di me” disse a voce alta, alzandosi dalla sedia per l’enfasi.
Blair la guardò sbattendo le palpebre “Davvero una donna con gli attributi” commentò. Maka non riuscì a capire se si trattasse di una presa in giro o meno.
Si risedette, imbarazzata dall’essersi infervorata tanto. “Credo che sia meglio fare i figli quando si ha finito gli studi, ci si è sposati con un uomo per bene” avrebbe voluto aggiungere non come mio padre, ma non lo fece “ e si ha un buon lavoro. Così è meglio”
“Perché dici che per tua madre è stata una sfida davvero difficile?” domandò Blair, con aria comprensiva. Maka s’incupì “No, lei se la cava sempre alla grande e…”
“Non credi che tu ci riusciresti?” chiese Blair a bruciapelo, era proprio una provocazione.
“Certo che ci riuscirei, io diventerò come mia madre, non vedo solo perché far passare ai miei figli un’inf…” si fermò e chiuse la bocca, guardando in basso.
“Non vuoi che i tuoi figli passino un’infanzia come la tua?” la incalzò Blair.
“Non farmi dire cose che non penso” disse secca, senza guardarla, rimanendo col collo piegato in avanti. il braccio della flebo formicolava e le gambe le tremavano, forse per l’adrenalina, forse per la stanchezza.
“L’hai detto tu”
“Non è vero. Stiamo parlando di cose che non c’entrano nulla. Voi dovreste aiutarmi a stare meglio, non farmi domande stupide su mia madre o se frequento con qualcuno o che cosa studio a scuola!” urlò Maka.
“E cosa dovremmo risolvere della tua situazione, secondo te?” chiese Blair, non si capiva se era una domanda retorica o un vero quesito.
“Perché non riesco a mangiare” biascicò Maka “Cosa diamine c’entra mia madre, se quando mangio sto male?” e avrebbe voluto piangere forse, ma non lo fece, anche se le lacrime pizzicavano da dietro le palpebre.
Blair non rispose e invece appoggiò il gomito alla scrivania, guardandola sottecchi con aria comprensiva “Per oggi, magari, finiamo qua”.
Maka annuì, avrebbe voluto ribattere che voleva una risposta, ma ciò che desiderava di più in quel momento era uscire da quella stanza. Si alzò veloce, mentre la vista le spariva per qualche secondo e tornava lentamente a partire dal centro, fino agli angoli. Sentiva la faccia calda.
“Tutto a posto?” chiese Blair, da dietro, notando la sua immobilità e la mano contratta intorno al braccio della flebo.
“Sì” rispose lei, sudata, uscendo a passo di marcia, nonostante le sue gambe fossero macigni e l’equilibrio scarso.
Fuori dall’ufficio la luce era accecante, si appoggiò alla porta con la schiena respirando ad occhi chiusi.
“Ah, adesso sei qui!” esclamò una voce. La ragazza aprì gli occhi e ci mise un attimo per distinguere la figura di Soul, con una lattina di Coca Cola in mano.
“Ciao” sospirò Maka, con le gambe molli. Probabilmente non era il tipo di accoglienza che lui si aspettava, ma era comunque la migliore disponibile.
“Vuoi?” chiese, offrendole la lattina. Maka la studiò per qualche secondo, l’unica parola che le venne in mente fu zuccheri.
“Sì, grazie”
 
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Questo aggiornamento “veloce” (si fa per dire) è per scusarmi di tutto il tempo che ho impiegato a scrivere quello scorso. In realtà sarebbe potuto essere pronto anche prima se un blackout non avesse perso la metà del capitolo che avevo già scritto. Al momento della riscrittura salvavo ogni tre righe. XD
Non sono sicura che questo capitolo sia un granché, non succede niente ma, allo stesso tempo, non potevo saltarlo. Avrei voluto che Soul e Maka si vedessero un po’ di più, ma avevo altre cose da scrivere prima. Giuro che il prossimo capitolo sarà meglio, dal punto di vista dei contenuti.
Prima che qualcuno me lo faccia notare vorrei dire che Tsubaki e Maka, in teoria, non dovrebbero stare nello stesso reparto, ma ce le ho infilate per infimi motivi di trama, spero che la cosa non vi arrechi troppo disturbo. Per tutto il resto cercherò di essere il più obbiettiva possibile, non sono un medico, ma farò il possibile. Mi scuso se il carattere è un po' piccolo, ma purtroppo ho sempre i soliti problemi con l'editor di EFP.  Spero che il capitolo vi sia piaciuto almeno un po’, grazie mille per aver letto fino a qui!!

 

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Capitolo 6
*** Paura del buio ***


Lullaby

Capitolo sesto

Paura del buio

 
Maka piegò all’indietro la testa, aspettando che l’ultima goccia di Coca Cola scivolasse, ormai tiepida, nella sua gola. Appoggiò la lattina su un ginocchio, tenendola comunque stretta nella mano, mentre respirava.
Si erano seduti su una panchina nel parco, trasportare l’albero della flebo sulla ghiaia era stato un compito ingrato, ed era toccato tutto a Soul, dato che Maka sembrava troppo presa dalla sua Coca Cola.
Gliela aveva offerta pensando se ne sarebbe presa solo un goccio, ma l’aveva finita. La guardò, sembrava sollevata “Che sete, eh?” fece un po’ strafottente, mentre Maka lo guardava, rendendosi conto solo in quel momento di aver completamente finito la bibita di un semi sconosciuto, ma Soul si affrettò ad aggiungere, pratico “Se hai ancora sete ti posso dare…” disse infilando una mano nel proprio zaino, per poi girarsi di nuovo verso la ragazza “Ho solo una birra calda, se ti può andare bene, è di Liz”
La ragazza scosse la testa decisa, con un gran svolazzare di codini “No, no, non bevo la birra. Non mi piace. Non lo bevo spesso, ma preferisco il vino” replicò.
“Oh, sei una fighetta” commentò Soul. Maka arrossì, un po’ offesa “Non sono una fighetta!”
“Beh, la birra è una cosa da uomini duri!” sbottò lui, strafottente, mostrando il braccio teso, in posa per far vedere il bicipite. In realtà non c’era nulla di così portentoso da notare, ma sicuramente non era nemmeno come il braccino tutt’ossa di lei.
La ragazza non si degnò nemmeno di guardarlo “Ma per favore!” sbuffò. “Chi è Liz? Uno degli uomini duri che hai per amici?” chiese poi, incuriosita dal fatto che in quel commento ci fosse poi proprio un nome di donna.
“Amica” disse Soul, richiudendo lo zaino “E’ per lei che sono qui” spiegò, chiudendo lo zaino, per poi fermarsi e dire “Hai fame? Ho delle merendine con la marmellata” disse. Maka scosse la testa “Non mi piace la marmellata” commentò.
“Non sai cosa ti perdi, con pane e burro è una meraviglia” disse lui, chiudendo definitivamente la propria sacca e cacciandola sotto la panchina.
“Come va la tua vita da volontario?” domandò poi lei, con le spalle un po’ curve in avanti. La camicia da notte ospedaliera era una fregatura, si allacciava sulla schiena con due nastrini, ma nello spazio tra un lembo di stoffa e l’altro le si vedevano le mutande. La cosa buona era che da quello spazio entrava uno spiffero d’aria fresca che le rinfrescava la colonna vertebrale e che la faceva stare meglio, anche se stava sudando per il caldo.
Soul alzò le spalle, appoggiandosi tranquillamente allo schienale della panchina di legno dove stavano seduti “Non sono un vero e proprio volontario, non so se te l’ho spiegato per bene, quando ci siamo incontrati. La sorella di una mia amica non sta bene, quindi passo qui ogni tanto. Lei voleva che suonassi l’organo” fece con uno sbuffo finale, ricordandosi delle prese in giro ricevute riguardo al suo suonare la chitarra.
Maka annuì “La ragazza che era con te e quel ragazzo rumoroso, l’altro giorno?”
“Liz, appunto, quella della birra. Viene all’università con me” spiegò. Rimasero un po’ in silenzio, mentre il vento caldo scompigliava i capelli a entrambi “Avevi detto che stavi per uscire”
Maka annuì di nuovo, stancamente, mentre il braccio iniziava a formicolarle. Lo tirò su, mettendoselo in grembo e appoggiandosi allo schienale, come il ragazzo accanto a lei.
“Sì, infatti non capisco perché mi trattengono” fece lei, vaga.
“Vai dallo psicologo?” domandò poi Soul, e per Maka fu un po’ come una doccia fredda. Non lo guardò e rimase a fissare il sentierino polveroso, senza riuscire a rispondere. Il silenzio imbarazzante durò poco, perché Soul ricominciò a parlare col suo tono deciso. “Probabilmente è per quello che ti vogliono tenere un altro po’. E poi hai ancora la flebo” non sembrava per nulla colpito dalla cosa, era di un disinteressato rassicurante.
La ragazza deglutì e si riavviò una ciocca di capelli sfuggita all’elastico, dietro all’orecchio “ho qualche esame sbagliato. Non so, ora come ora, quanto resterò” ammise, un po’ riluttante “Trovo anche abbastanza inutile mandarmi dallo psicologo, quella tipa è strana, mi chiede insistentemente se ho un fidanzato e secondo me in un’altra vita, o forse in questa, faceva la baldracca” disse, con un po’ di risentimento.
Soul ghignò “Ho conosciuto una psicologa particolare, in effetti, stando qui” ridacchio, mentre Maka alzava lo sguardo su di lui. Aveva i denti straordinariamente bianchi.
“E in effetti ha chiesto anche a me se avevo una ragazza. Per poi strusciarsi su di me” ridacchiò ancora “Forse ci sta solo provando con te”
Per tutta risposta si prese uno spintone, meno forte di quanto la ragazza avrebbe voluto, ma che comunque lo lasciò piuttosto sorpreso.
“Cretino” borbottò Maka, dimentica del formicolio dovuto dalla flebo, incrociando le braccia.
“Quindi, cosa ci fai qui? Blair a parte.” Ci aveva azzeccato, era proprio Blair, le diede un po’ fastidio che la conoscesse e che sapesse che era la sua psicologa. Si era rimesso a sedere composto.
“Ho dei problemi di digestione, male allo stomaco, cose così. Faccio un po’ fatica a mangiare”
Inaspettatamente Soul si mise a ridere, Maka sobbalzò, lo trovava quanto mai irrispettoso. “Dovrei presentarti Black*Star” fece poi lui, cercando di darsi nuovamente un contegno “credo non abbia mai avuto un mal di stomaco in vita sua. Mangia anche i sassi. Diventereste amici” disse, ed era chiaramente una presa in giro.
Maka sbuffò, infastidita, ma Soul continuò “L’altra sera si è mangiato tre pizze, quattro hamburger e poi ha fritto dei cioccolatini e…non lo so cos’era…un cuore di coniglio…” spiegò, coprendosi il volto con la mano, pure lui era vagamente schifato dalla cosa.
A Maka veniva da vomitare “Ma che…che schifo” fu il commento di lei, che si strinse le mani sullo stomaco, le stavano venendo i conati, il cuore di che?
Soul si mise la mano sulla bocca, cercando di smettere di ridere, l’ipotetico incontro tre lei e quel fantomatico Black*Star doveva essere davvero spassoso, Soul era arrossito dalle risa.
“Lo so, cavolo”
“Ma mangiate sempre ‘sta roba?” chiese poi lei, un po’ schifata, respirando forte e stringendosi le ginocchia al petto.
Soul scosse la testa “Non quella roba, ma soprattutto pizza e rosticceria cinese da asporto” fece lui con un sorrisetto. Maka fece una smorfia “Non cucinate proprio mai?”
Soul scosse la testa “Ogni tanto Liz fa lo sformato di cavolfiore, ma per il resto no, quando vivevo coi miei avevamo un cuoco, io non so cucinare” affermò “Tu cucini?” chiese, indugiando, forse un po’ troppo, sulla coscia magrissima di lei, rimasta scoperta quando aveva alzato le gambe.
Maka annuì “A volte, ma non quando sono da sola. A volte non mangio. È triste cucinare solo per sé stessi” fece poi. Soul non commentò la cosa, per poi chinarsi ad estrarre la birra dallo zaino “È calda e fa schifo, ma ho sete”
Lei fece una smorfia “Cavolo, è pomeriggio” lamentò. Soul annuì “Lo so”
“E poi, boh, la birra è così…boh…il vino è molto meglio, ha una preparazione interessante, ho letto vari libri a riguardo” spiegò.
“E’ interessante perché l’hai studiato sui libri?” domandò lui, scettico.
“La  raccolta, la lavorazione, la distillazione…tutte cose interessanti…” spiegò lei contando le cose che aveva detto sulle dita della mano.
Soul alzò le sopracciglia “E il sapore…ti piace…?” domandò scettico.
“È…interessante” rispose lei, un po’ faticosamente, cercando di non dire una bugia, ma non dargliela neanche vinta.
“E non ti sei neanche mai ubriacata” aggiunse. Lui era abituato a Liz, non era possibile, nella sua ottica, conoscere qualcuno che non bevesse o che bevesse poco.
“Certo che no!” esclamò lei, ringalluzzendosi. Soul prese un sorso della sua birra.
“E comunque non ho più molto tempo per andare a studiare il vino, mi sto per laureare” boffonchiò.
“Potresti studiare, in modo approfondito, il vino per la tua festa di laurea. Hai un’aria un po’ stressata” commentò lui, divertito. Maka aveva capito cosa intendeva e ribatté, piccata “Assolutamente no! Non ho tempo per festeggiare la laurea, cavolo, devo studiare per il master. E, non vedo nessuna utilità nel riempirsi d’alcol fino allo spasmo” ribatté con una vena che le pulsava sulla tempia e  le mani tese, febbrili. Era tesa come una corda di violino, Soul la guardò divertito mettendosi a sedere ancora più svaccato, divaricando un po’ le gambe. “Non ho detto questo. Penso che tu ti debba rilassare, sei un pezzo di legno. Davvero” commentò. Vide Maka arrossire offesa. Era buffa, forse non gli dispiaceva, anche se era tutta un fremito. Si immaginò, per un secondo, come avrebbe potuto essere con lei, in un’altra situazione, ma scacciò subito quel pensiero, un po’ imbarazzato.
“Certo che sono stressata, odio questo posto e mio padre se ne va in giro con una maglietta con su scritto Sex Istructor e non vuole farmi avere i libri su cui studiare per il mio ultimo esame…diamine. Come faccio a rilassarmi” strillò, perdendo la pazienza.
Soul la guardò per qualche secondo, reggendo a mezz’aria la birra, prima di dire “Magari è proprio perché prendi tutto così sul serio che sei stressate e sei qui”
Maka scosse la testa “Sciocchezze” i codini sferzarono l’aria calda.  
Soul le sorrise alzandosi “Beh, allora, senti, dato che io sono fin troppo rilassato è ora che torni a studiare allo studentato, se non voglio trovarmi fuori corso”
Maka annuì “Ci si vede” disse lui, un po’ indeciso se andarsene o meno.  La risposta di Maka si fece attendere un po’ “Sì, tanto credo che dovrò rimanere qui ancora un po’…” ammise in fine. Soul sorrise e girò i tacchi, andandosene.
 
***
Alice nel paese delle meraviglieera la lettura più intellettuale che era riuscita a ottenere da suo padre, l’aveva già letto due volte, ma era meglio di niente. Accarezzò la copertina, prima di appoggiarlo sul comodino e allungarsi per spegnere la luca che stava sul suo letto. Tsubaki non si era mossa per tutta la sera e aveva detto solo poche parole, ma lei non l’aveva voluta disturbare.
La sentì rantolare nelle coperte come se non riuscisse più a respirare, mentre si agitava nel lenzuolo.
“Tsubaki?” chiamò Maka, sdraiandosi su un fianco, aveva appena spento la luce e ci avrebbe impiegato un po’, prima di abituarsi all’oscurità. “Maka” rispose la ragazza, col fiato mozzo “Po-potresti riaccendere la luce?” chiese, con agitata. Maka obbedì, cercando a tentoni l’interruttore che aveva appena premuto, e poco dopo ci fu nuovamente luce nella stanza. La ragazza vide il corpo di Tsubaki rilassarsi da sotto il lenzuolo, che la rendeva quasi una mummia.
“Cos’è successo?” domandò. Tsubaki scosse la testa “In realtà…nulla” ammise. Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Tsubaki si rese conto che non poteva non dare nemmeno una spiegazione, anche misera, di quello che era appena successo.
“Ho paura del buio” disse. Maka si puntellò sui gomiti per guardare l’ammasso di lenzuola accanto a lei.
“Del buio?” domandò.
Tsubaki sospirò, era difficile “Non del buio in sé per sé. È che…mi da fastidio non sapere cosa c’è nel buio. Mi hanno picchiata” fece poi, sputando tutto d’un colpo il suo problema.
“Picchiata?” ripeté Maka incredula, sbarrando gli occhi.
“Per rubarmi la borsa. Ho un po’ di ossa rotte. E non mi piace non sapere chi ho attorno” spiegò. Maka avrebbe voluto chiedere un sacco di cose, ma alla fine chiese solo “Ma, scusa, hai un lenzuolo sulla testa, come fai a vedere?”
“Vedo le ombre. La tua la riconosco dai codini” spiegò semplicemente.
La ragazza rimase un po’ a fissare la coperta di Tsubaki, mordendosi la lingua, per poi afferrare il libro che stava leggendo e chiedere “Vuoi che legga ad alta voce per te?”
“Lo faresti?”
“Se non dobbiamo dormire, perché no?”
Tsubaki sorrise dolorosamente da sotto il lenzuolo.
 
 
 
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Sì, sono in ritardo, ritardissimo, ritardissimissimo. Mi scuso. La prima pagina della fic l’avevo già scritta tempo fa, ma poi mi sono intestardita a voler scrivere una lemon di Natale (perché poi) e ho perso un secolo. Chiedo perdono, chiedo perdono e spero che questo capitolo vi sia piaciuto anche se non succede nulla ed è un po’ smorto. Quando sono tornata a scriverlo dopo tanto tempo per un secondo mi sono scordata cosa doveva succedere.
A presto e grazie per essere così stoici da leggere ciò che scrivo!
 

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Capitolo 7
*** Fiori di luce ***


Lullaby

Capitolo settimo

Fiori di luce

 

Maka si svegliò per il dolore al braccio, l’aveva tenuto per ore appoggiato al comodino, tra la posizione scomoda e il solito ago piantato nella carne le sembrava di non aver più sangue nella mano e le dita erano più che mai intorpidite, seppur ancora intrecciate a quelle della ragazza che dormiva accanto a lei. Se lo ricordò solo in quel momento, quando prese di nuovo coscienza di tutti i suoi arti, di essere intera.
Quello era stato l’unico modo per spegnere la luce senza che Tsubaki si agitasse. Era stato strano, non l’aveva neanche mai vista in faccia, ma aveva dormito tutta la notte con la sua mano tra le dita.
Si vergognò un po’, ripensando al fatto che quando Tsubaki aveva tirato fuori il braccio dalle lenzuola, solo quello, l’aveva studiato attentamente, prima di spegnere la luce, per vedere se c’erano dei segni. E ce n’erano. Due o tre lividi scuri, tra braccio, avambraccio e gomito, la mano invece era indenne anzi, mostrava una incredibile cura, a giudicare dalle unghie era una che si faceva la manicure una volta a settimana. Provava una certa antipatia nei confronti delle fighette cotonate che giravano per l’università di economia, bardate come se fosse la settimana della moda di Milano, Tsubaki non le sembrò di quel genere, ma cosa ne poteva sapere, aveva visto solo il suo braccio, mentre il resto rimaneva sotto le coperte.
Ritrasse il braccio e se lo accarezzò da sotto il lenzuolo. Batté le palpebre un paio di volte e fissò il muro di fronte a sé, gli occhi erano abituati all’oscurità e dalla finestra semiaperta filtrava un po’ di luce. In lontananza si sentiva il rombare sordo e solitario di qualche automobile.
Si voltò a guardare Tsubaki, o meglio, il braccio di Tsubaki, ancora appoggiato lungo disteso sul suo comodino. Si sarebbe svegliata indolenzita pure lei, Maka ne era certa. Fu mentre la osservava che percepì qualche cosa con la coda dell’occhio. Si voltò verso la finestra.
Nell’angolo più lontano della stanza, sul muro di fronte a lei, c’era una luce. Proprio sullo spigolo, avrebbe potuto essere una luminosa paillette dorata.
Strizzò gli occhi e rimase a fissare quel puntino, forse era una lucciola, ma era bizzarro vederne una. Il punto luminoso si sciolse però in una striscia dorata che scese sinuosa lungo il muro per una ventina di centimetri. Maka trasalì e si mise a sedere continuando a guardare lo strano fenomeno. Era come se una pennello invisibile avesse lasciato una scia di luce dorata sulla parete. Si guardò intorno alla ricerca di qualche cosa che potesse creare un simile riflesso, ma quella cosa sembrava brillare di luce propria.
La scia di luce continuò a scendere lungo il muro come un fiumicello scintillante e Maka non poté far altro che saltar giù dal letto. Il letto cigolò, liberato dal suo peso. Non perse neanche per un attimo il contatto visivo con la scia di luce che scendeva come un’edera luccicante. Fu quando vide i fiori che le si mozzò il fiato. Erano fiori dorati, piatti sul muro, che si aprivano piano e continuavano a sbocciare mal mano che la pianta rampicante di luce scendeva.
Avanzò nel buio a passo deciso, finché non sentì il braccio tirare e si ricordò di essere ancora attaccata al bastone del letto. Tornò sui suoi passi e sganciò la sacca della flebo. Non voleva usare l’albero, il cigolio delle rotelline avrebbe svegliato sicuramente Tsubaki, il cui sonno era stato così agognato che portarla via da esso era davvero una cattiveria, per di più, lei aveva già abbastanza fantasmi con cui combattere, non servivano anche dei fiori di luce.
Con il sacchetto in braccio si avvicinò alla parete, cercando di guardare da sotto i fiori. Sembravano disegnati come se un pittore fosse passato e gli avesse dipinti, ma erano proprio sbocciati, non nati aperti e per di più non c’era nessun pittore in quella stanza, solo lei, Tsubaki e il buio. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e si affacciò per vedere se c’era qualche cosa che poteva produrre un riflesso del genere, ma il parco dell’ospedale era vuoto, illuminato a chiazze dai lampioncini tondi, nemmeno un’anima a vagare per i sentierini. Ritrasse la testa e guardò di nuovo i fiori dorati. Erano sempre lì, scintillanti di luce e più irreali che mai.
Prese la sua decisione e girò i tacchi, diretta verso il corridoio scuro. A ogni passo sentiva una scarica elettrica partire dai piedi e arrivare alla spina dorsale, per via del pavimento freddo.
Per un secondo si chiese cosa avrebbe potuto dire un’infermiera se l’avesse disturbata nel suo stanzino per dirle che c’erano dei fiori dorati sul suo muro, ma il dubbio di star prendendo le cose troppo sul serio evaporò all’istante. Uscì dalla stanza, silenziosa come un fantasma immergendosi nell’oscurità del corridoio.
La visibilità era decisamente minore, ma era chiaro che il corridoio fosse vuoto. Si voltò ancora verso la porta della sua stanza, dalla porta filtrava un po’ di luce, ma doveva essere sicuramente quella che proveniva dalla finestra, i fiori rilucevano solo per loro stessi.
Si voltò di nuovo, intenzionata ad arrivare al gabbiotto delle infermiere, ma sobbalzò finendo per fare un passo indietro. Davanti a lei stava un ragazzo – o era una ragazza? Difficile dirlo- coi capelli grigio chiaro, e una camicia da notte come la sua, che la guardava con gli occhi sgranati.
Maka boccheggiò, sembrava quasi un fantasma, ma dopo la questione dei fiori sulla parete non era troppo vogliosa di pensare a fantasmi e spiriti, era già, di per sé, una questione abbastanza spinosa.
“Ehm…” cominciò, volendo spiegare il motivo per cui era lì.
“Chi sei?” domandò il ragazzino, piegando la testa da una parte. Probabilmente se l’avesse visto alla luce sarebbe sembrato più inquietante, con la poca a disposizione non poteva vederlo bene, ma teneva gli occhi così aperti che faceva un po’ paura.
“Mi chiamo Maka, e tu?” domandò, parlando a bassa voce. Il ragazzino scosse la testa di qua e di là, senza guardarla negli occhi, fece un sorrisetto, ma non sembrava felice.
“Perché vai in giro di notte? Sei un fantasma?” chiese.
Maka arrossì, anche se il suo interlocutore non poteva vederla in faccia e sbottò, in tono più alto di quanto avrebbe voluto “Certo che no!” e si mise una mano sulla bocca, rendendosi conto di aver quasi urlato.
Il ragazzino in camicia da notte avanzò di un passo e per un secondo, quasi, i loro nasi si toccarono, ma lei si ritrasse.
“Non saprei come comportarmi coi fantasmi” disse lui, poi indicò il sacchetto pieno di liquido che aveva in braccio e chiese “Questa è la tua anima?”
Maka scosse la testa “No” sussurrò “E’ la mia flebo”
“Stai per morire?” domandò poi, a bruciapelo.
“No” ribatté Maka in quello che avrebbe potuto essere un grido sussurrato.
“Allora perché sei qui?”
“Diciamo che non sto molto bene”
Il ragazzino si ritrasse a sua volta e si strinse nelle spalle “Perché vai in giro di notte? Non c’è mai nessuno di notte, qui”
Maka indugiò, dirgli o non dirgli dei fiori di luce?
“Ci sono strane cose, nella mia stanza…volevo dirlo alle infermiere” ammise infine, abbassando lo sguardo.
Il ragazzino fece un sorrisetto e si toccò la tempia col dito “L’inferno è nella testa!” poi, con lo stesso dito, indicò la porta della stanza da dove la ragazza era venuta e lei, quasi inconsciamente, si voltò a guardare. Non c’era nulla di sconosciuto, era sempre la solita porta, ma quando si voltò di nuovo verso il ragazzino quello era sparito.
Volatilizzato, veloce come era apparso.
Rimase qualche secondo a fissare il corridoio buio, se ci fosse stato qualche cosa non avrebbe potuto vederlo. Si sentì come Tsubaki, per un secondo, e indietreggiò veloce, fino alla sua camera.
Rimase ferma  dopo qualche passo, mentre la sacca della flebo cadeva per terra con un rumore umido. I fiori di luce erano scomparsi.

 
***
 

“Dimmi” cominciò il gigantesco inserviente, appoggiato alla scopa “cosa ne pensi dei lupi?”
Elka Frog, l’infermiera, con venticinque campioni d’urina sul vassoio, lo guardò con un misto di insofferenza e curiosità.
“Lupi?” domandò, nonostante iniziassero a farle male le braccia per il peso di tutti quei contenitori. “Sì, stavo pensando che mi piacciono proprio. Credo di averne visti aggirarsi per il parco, questa notte” asserì. Elka Frog scosse la testa “Siamo in città! Non possono esserci dei lupi!”
Free, l’inserviente, scosse la testa “Posso giurare di averne visti”
“Secondo me era cani randagi, non potevano certo essere lupi!” ribatté lei, mentre i campioni traballavano pericolosamente.
L’uomo gigantesco stava per ribattere, ma fu in quel momento che si presentò una ragazzina fin troppo esile e con delle evidenti occhiaie. I tre si guardarono “Salve” esordì Maka, un po’ agitata, con la mano sudata ad afferrare l’albero della flebo, come sempre.
“Volevo chiedere…” boccheggiò, cercando le parole giuste “Se c’era un ragazzo, in una di queste camere”
Elka alzò le sopracciglia “Ce ne sono parecchi. Come si chiama quello che cerchi tu?” domandò l’infermiera, stringendosi al petto il vassoio.
Maka scosse la testa, non lo sapeva.
“Puoi almeno descrivermelo?” domandò Elka, guardandola dal basso. Maka aprì la bocca decisa a darle una descrizione dettagliata del ragazzino, per poi rendersi conto che non la sapeva dare. Nel buio non era nemmeno riuscita a distinguere il colore dei capelli, ma solo una sfumatura di grigio e, a essere sincera, non era nemmeno così sicura che fosse un maschio.
“Ehm” masticò l’interno delle guance, si sentiva debole, non era riuscita a dormire fino a tardi e aveva saltato la colazione. Faceva un gran caldo e agognava una doccia. “Ha il caschetto” disse infine. Elka rimase in silenzio, in attesa di qualche cosa d’altro, che non arrivò.
“Nient’altro?”
La ragazza sospirò “No…ma va bene, è lo stesso. Scusatemi…” disse, un po’ a disagio. Sospirò, le veniva da vomitare, lo stomaco era più vuoto che mai, quasi da far male. Non che non fosse abituata a non mangiare, ma in quel momento era doloroso. Si voltò, con passo pensante, mentre Elka sbatteva contro a Free, il gigantesco inserviente, ribaltando tutti i campioni d’urina, tra le bestemmie di lui e le lacrime di lei.
Alzò lo sguardo dalle sue infradito solo per un secondo, il tempo di vedere, in fondo al corridoio, un volto conosciuto. Soul Eater la salutava, avanzando col suo solito passo strascicato.
Maka si appoggiò ancora di più all’albero della flebo, mentre una folata fresca le scompigliava i capelli. Pensò che non voleva farsi vedere da Soul con i capelli sporchi, avrebbe voluto lavarseli, ma alla fine lo aspettò, senza fare un passo avanti, ne indietro.
“Ciao” disse con un sorriso affaticato.
“Qualcuno ha fatto la pipì in corridoio?” chiese Black*Star arricciando il naso, mentre l’inserviente passava lo straccio sul laghetto nauseabondo. Soul e Maka non ci fecero caso e si guardarono senza dire niente.
“Credo di dovermi sdraiare. Mi fanno male le gambe” disse. Non era propriamente vero. Le facevano male le gambe, i polmoni, lo stomaco e per un secondo vide tutto nero, mentre sentiva i succhi gastrici risalire dal basso, mal voluti.
“Va bene” disse Soul, rimanendo immobile, in mezzo al corridoio.
Maka schiocco la lingua, compiendo qualche passo verso la sua stanza “Puoi venire con me, se ti va” fece poi, per un secondo si chiese se fosse come invitare un ragazzo a salire, quando ti accompagna a casa la sera, ma si disse di no. Era un paragone stupido. Se non avesse avuto la pressione così bassa a causa del caldo probabilmente sarebbe arrossita dei suoi stessi pensieri.
“Se non hai da fare” aggiunse. Soul alzò le spalle e fece una smorfia mentre Black*Star discuteva con Elka, in preda a un’evidente crisi di nervi (“Come si fa a produrre così tanta pipì?” “Ma non è mica stata una persona sola! E poi tu chi sei? Cosa vuoi?).
“Non c’è problema, tanto abbiamo accompagnato la nostra amica, ma lei e sua sorella stanno discutendo di mostri marini e altre cose piuttosto noiose” disse lui, per nulla esaltato alla prospettiva di un discorso del genere.
Maka sorrise, avviandosi a passo lento verso la sua stanza, Soul non si soffermò troppo sulle caviglie sottili di lei, per chiudere gli occhi e godersi qualche momento di aria fresca. Si era creata corrente, per il corridoio.
Black*Star trotterellò dietro all’amico, mentre Elka veniva sgridata da una dottoressa bionda, per la sua sbadataggine.
Maka non lo vide entrare, perché era intenta a issarsi sul letto, mettendo prima un piede sullo scheletro di metallo del giaciglio. Esalò un sospiro di sollievo quando su finalmente seduta con i piedi nudi penzolanti. Odiava che cose così semplici dovessero essere così faticose. Forse era ora di accendere l’aria condizionata, faceva fatica a fare tutto con quel caldo.
Fu solo in quel momento che si accorse di Black*Star, che la guardava accigliato “E questa chi è?” domandò lui. Soul poté vedere una vena pulsare sulla tempia di Maka, era chiaro che già non si piacevano “Io sono Maka. Questa è la mia stanza, chi sei tu, piuttosto?” ribatté lei, guardandolo minacciosa, come se avesse avuto intenzione di sbattergli in testa l’albero con sacchetto della flebo ancora attaccato.
“Io sono il grande Black*Star, ovviamente” rispose tronfio.
“E’ il mio compagno di stanza allo studentato” mise in chiaro Soul, con sufficienza. Maka lo guardò sottecchi, non troppo sicura che le andasse bene che Soul si portasse in giro certi animali azzurri, o almeno, non in giro nella propria stanza.
“Va meglio, ora che sei seduta?” chiese lui facendo qualche passo, era un po’ strano, un po’ meno familiare di quando si erano ritrovati seduti insieme nel parco. Un po’ perché Maka si sentiva scivolare via, sempre col rischio di perdere i sensi, da un momento all’altro, un po’ perché Black*Star la innervosiva. Soul se ne accorse.
“E questa cos’è? Una mummia?” domandò Black*Star, già disinteressato a Maka, fissando il cumulo di coperte sul letto affianco alla ragazza.
“Oh, lei è Tsubaki” disse Maka, con un po’ di risentimento, quel tipo non aveva un minimo di educazione.
“Ciao” salutò timidamente Tsubaki, con la mano che usciva dal lenzuolo, quella che Maka aveva stretto tutta la notte.
“Cosa ci fai lì sotto? Non hai caldo? Non vuoi vedere il grande Black*Star?” domandò, tronfio e un pochino mal disposto nei confronti di qualcuno che si nascondeva sotto le coperte senza guardarlo.
“Oh, e… sto bene così, non mi va molto di scoprirmi…ehm e chi sarebbe questo grande Bl…” Maka aveva distolto lo sguardo, per lamentarsi senza emettere un solo rumore, mentre Soul le leggeva il labiale e ridacchiava.
Entrambi si voltarono, sobbalzando, quando Tsubaki emise un urlo. Maka si voltò con un frusciare di capelli biondi, mentre si teneva al materasso con le mani.
Le coperte erano cadute dal letto, Black*Star aveva ancora in mano un lembo. “Ehi!” strillò Maka, come rimproverò, ma non fece altro, anche lei finì per fissare la ragazza stesa sul letto, che non portava la camicia da notte come gli altri. Doveva soffrire un bel caldo sotto le lenzuola, tutto il tempo.
Maka la guardò, mentre cercava di coprirsi come poteva. Deglutì faticosamente, quando si rese conto che la gamba destra della ragazza era ingessata dal piede fino quasi all’incavo dell’inguine. L’altra era piegata e con quella, Tsubaki, cercava di nascondere al meglio la vista di sé. Era piena di lividi pure quella e tre dita erano fasciate. Salì con lo sguardo, le veniva da vomitare e non sapeva perché, forse il caldo, forse il poco cibo o forse l’angoscia.
Non poteva vederle la faccia, perché se l’era coperta con il braccio, ingessato anche quello, col gomito bloccato in una elle bianca.  L’indice e il medio erano steccati insieme. Aveva lividi anche sul petto e sulla pancia, non servì a molto il tentativo di Tsubaki di coprirsi con la mano sana.
“Piantala!” sbottò allora Maka, anche se solo dopo aver studiato per fin troppo tempo i lividi della ragazza. Black*Star la ignorò bellamente, sembrava indispettito. “Mi vuoi guardare, sì o no?” sbottò, afferrando con due dita il gesso di Tsubaki, come se scottasse, costringendola a spostarlo da una parte.
La ragazza lo guardò circospetta, ritraendosi più che poteva, come se avesse avuto paura di essere picchiata ancora.
“Non sei tu…non voglio che vedi me…” disse faticosamente, girando di poco il viso “La mia faccia” biascicò. Maka aprì la bocca, intenzionata a dire qualche cosa, ma non ne venne fuori niente, in compenso Black*Star sbottava infastidito “Che ha la tua faccia?”
Tsubaki alzò le sopracciglia, per poi riportarle al loro posto addolorato, mentre indicava un cerotto che copriva evidentemente dei punti, che le erano stati cuciti sul sopracciglio sinistro, tagliato. Avrebbe potuto indicare anche l’occhio nero, il segno viola sotto gli occhi, che stava lì a indicare una botta al naso, e il labbro spaccato, ma la reazione di Black*Star sarebbe stata sempre la stessa, un po’ scimmiesca e intontita, di uno che è stato preso di sorpresa.
“Ah” fece “Non l’avevo notato. Ti stavo guardando le tette”
Tsubaki fece un altro urletto e si tirò le coperte fin sulla testa, di nuovo.
Black*Star fu colpito da un vaso di fiori, con tanto di acqua e papaveri all’interno “Cafone!” urlò Maka.
 
 
 
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Spero bene di essere stata un pelo meno ritardataria, ‘sta volta. Questo capitolo è stato un’agonia, mi si è parzialmente cancellato tre volte, immaginatevi il nervoso. XD Spero comunque, che nonostante le mie peripezie, il risultato non sia troppo male. Volevo mettere anche Liz e Patty in questo capitolo, ma slitteranno al prossimo, nel frattempo finalmente…CRONA!
A proposito di questa parte e di quelle che seguiranno ci tengo a dire che certe cose vengono scritte per mie esigenze di trama. Il mio unico ricovero in ospedale è durato solo una settimana, ho avuto il tempo di capire che di notte le luci dei corridoi rimangono accese, chiaramente se fossero state accese anche qui il tutto sarebbe stato diverso, per quanto riguarda cose come le docce o altri aspetti della vita quotidiana di chi è costretto a un ricovero più lungo non so nulla, quindi me lo inventerò, non vogliatemene per questo.
(Free me lo immagino un pochino come l’inserviente di Scrubs, anche se so che non è al suo livello, ma amo quel telefilm.)
Ultimo ma non ultimo ne approfitto per farvi sapere che Mimi18 ha indetto unContest in tema SoMa sul forum di EFP (http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10473460) , dateci un’occhiata!
Grazie a tutti per aver letto fin qui, non saprò mai come ringraziarvi. Mi rendete davvero felice! <3

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Capitolo 8
*** La dieta del cioccolato ***


Lullaby

Capitolo ottavo

La dieta del cioccolato

 
Liz mise i piedi sulla lunga panca di legno, incurante del fatto che potesse esserci qualcuno intenzionato a sedersi. Il pub era gremito e la maggior parte degli astanti sorseggiava birra. Soul e Black*Star facevano lo stesso, seduti al bancone. Black*Star aveva tirato uno spintone amichevole a Soul, il quale era quasi caduto e aveva ribaltato la sua pinta sul pavimento di legno. Liz si premette un dito nell’orecchio sinistro e cercò di ascoltare con maggiore attenzione quello che la sorella le stava dicendo al telefono.
“Patty, non mi fare la ramanzina sul fatto che vado a letto con chi mi capita quando sono ubriaca. È successo solo qualche volta” bofonchiò, offesa. “Ah…non era quello il problema? Come sarebbe a dire che dovrei fare loro una foto mentre dormono nudi…ma…Patty!” sbottò. Qualcuno si voltò a guardarla alzando le sopracciglia, incerto, ma poi la ignorò di nuovo. Una tipa che parlava al telefono in un angolo di un pub irlandese occupando un’intera panca non aveva l’aria di essere disponibile a farsi abbordare.
“Patty?” rimase in silenzio per qualche secondo. Faceva caldo e indossava un top che le lasciava scoperto l’ombelico. Patty possedeva la stessa maglia, ma le stava meglio. In quel momento però, Patty, indossava una maglietta con Spongebob che usava come pigiama e stava fissando un varano azzurro che strisciava lentamente sul pavimento della sua camera.
“Non c’è nessun coccodrillo nella tua stanza, Patty” disse Liz con la voce ferma. Doveva concentrarsi nel pensare che sua sorella la stava prendendo in giro, che non le vedeva davvero certe cose, se no si sarebbe messa a piangere. “Se ci fosse ti mangerebbe”
“Lo so. Infatti è andato via. Ma prima c’era” fece la ragazzina bionda, seduta in ginocchio nel buio della sua stanza. Liz sospirò, fu un sospiro faticoso.
“Mi manchi sai, Patty” disse sua sorella. “Sono qui” rispose semplicemente sua sorella, forse però era triste anche lei. Si divertiva a sbucare dagli angoli quando Elka Frog portava in giro i campioni delle urine e per lo spavento ribaltava tutto, o a pattinare quando l’inserviente Free metteva apposta troppo sapone sullo straccio per pulire i pavimenti, ma non era come stare a casa, le mancava il suo appartamento caotico, ed era preoccupata per Liz, più che per il coccodrillo. Era sparito, lasciando il pavimento, si stava arrampicando sul soffitto. A Liz non l’aveva detto, l’avrebbe presa male.
“Scusami, devo andare!” esclamò allarmata Liz dall’altra parte e la stanza d’ospedale diventò di nuovo silenziosa come era sempre stata. Fissò il coccodrillo e si chiese se il fantasma coi capelli rosa sarebbe passato a salutarla quella notte.
“SOUL!” sbraitò Liz, correndo accanto all’amico, come una furia e fermandosi di botto. Un improvviso rompersi di vetri aveva fatto accorrere tutti i presenti nel locale in quel punto. “Che…che cacchio è successo?” chiese con voce stridula. Soul era a bocca aperta e inebetito a guardare Black*Star che faceva a botte con un tizio, sul marciapiede, esattamente fuori dalla vetrina rotta.
“Non ne ho idea” ammise, ed era vero. Liz si mise le mani sugli occhi, mentre Black*Star si rotolava violentemente sul selciato con un tipo sconosciuto addosso.
“Toccherà a noi ripagare quella finestra, vero?” chiese Liz, sconsolata. Soul annuì sconsolato “Temo di sì”
 
 
 
“Hai finito, Maka? Devi incontrarti con la dottoressa” fece Elka, distratta, ripiegando la camicia da notte pulita su un ripiano del bagno. Maka le dava la schiena, da dentro la doccia. Le avevano staccato la flebo, senza togliere l’ago dal suo braccio e l’avevano coperto di scotch. Si morsicò il labbro pensando a quanto sarebbe stato doloroso strapparlo via poi. Anche se i peletti biondi sulle sue braccia erano invisibili, lei era sicura che avrebbero fatto male. Respirò forte, tenendo gli occhi chiusi, sotto lo scroscio dell’acqua bollente. Era un gran caldo fuori, ma sentiva i brividi, appena si bagnava e cercava di stare con tutto il corpo sotto al getto d’acqua.  Chinando la testa in avanti si guardò i piedi e le gambe. Sospirò, sembrava tanto che la pelle le fosse stata attaccata alle gambe come carta velina con la colla vinilica. Quando era piccola le facevano fare creazioni del genere all’ora di Arte. Lei in Arte non era mai stata un granché.
“E poi ti deve anche pesare” continuò Elka continuando a scrollare abiti. Maka fece un sorrisetto e l’infermiera vide la sua spina dorsale, sotto la pelle, fin troppo visibile, raddrizzarsi “Non ce n’è bisogno. Lo posso dire anche io quanto peso” sbottò Maka con un aria che poteva sembrare divertita, ma che non lo era affatto.
“E quanto?” chiese Elka, con sufficienza, rimettendosi a piegare.
“Poco” fu la risposta sintetica. Elka alzò gli occhi al cielo “Quello è chiaro” sussurrò senza farsi sentire.
 
 
“E vissero tutti felici e contenti!” concluse Kim, chiudendo il libro che aveva in mano. Il signor Mosquito, per il quale stava leggendo, si tirò a sedere sbuffando come una locomotiva “Signorina, non mi prenda in giro, se c’è una storia che non finisce con e vissero felici e contenti quella è Romeo e Giulietta!”
“E invece si sbaglia. Gliel’ho appena letto!” ribatté stoica la ragazza coi capelli rosa, all’ospedale per fare volontariato. “Guardi che io insegnavo lettere alle superiori, prima di andare in pensione!” ribatté lui, piccato.
“Lei ha l’Alzheimer” fu la risposta della ragazza. Elka Frog passò sospirando. Non capiva perché Kim si ostinasse a proporsi di leggere qualsiasi cosa i pazienti volessero, se poi quando un libro non le piaceva lo storpiava a suo piacimento. Si infilò la mano in tasca e non ritrovò più la penna che si ricordava di aver messo proprio lì qualche minuto prima. Si grattò la testa. Nell’ultimo periodo le sembrava di perdere molte più cose del solito. Sospirò, troppo lavoro, quello era il problema. La dottoressa Medusa non le dava respiro, Free faceva il demente e i pazienti erano dei rompiballe. Sarebbe diventata pazza.
 
 
Maka si stava grattando la spalla, cercando di non dare troppa attenzione alla dottoressa che le stava davanti. Come nell’ufficio di Blair, la tapparella era in parte abbassata, in quei giorni faceva un caldo infernale, e per tenere lontano il caldo tutti cercavano di stare il più possibile al buio. Fortunatamente la stanza di Maka e Tsubaki era posta a nord, perciò non avevano mai la luce diretta del sole a infastidirle.
La dottoressa Gordon scribacchiò qualche cosa sulla sua cartella medica, prima di rivolgersi a Maka gentilmente, guardandola dritta negli occhi. “Non ci sono stati miglioramenti da quando sei qui. Non sei riuscita a mangiar nulla di più del solito, nonostante la dieta. Condisci sempre quello che ti diamo? Se no dovrò dire a Elka di farlo per te” disse la donna. Era educata e apparentemente premurosa, ma quell’ultima sua frase le fece capire che la vedeva poco collaborativa. Sembrava quasi una minaccia. Credeva che si divertisse a stare in quel posto, con uno stupido ago piantato nel braccio? Strinse le dita attorno al bracciolo della sedia, irritata e sudata. La frescura data dalla doccia si era subito trasformata in sudore.
Si morsicò il labbro per non risponderle male, non era mica una di quelle modelle anoressiche se non mangiano per sentirsi più belle. Non se ne faceva niente di un fisico del genere, non aveva la forza di fare niente, forse, se suo padre si fosse degnato di portarle i libri, non avrebbe neanche più avuto la forza di studiare economia. Quel pensiero la prese come un pugno nello stomaco, doveva laurearsi. In quel momento era in corso la sessione d’esami e a lei ne mancava solo uno prima della laurea.
“Trentaquattro chili” aggiunse poi Medusa, giocherellando con la sua treccia bionda. “Condisco sempre il pranzo” rispose poi Maka, cercando di essere il più naturale possibile e appoggiandosi allo schienale, cercando di distendere i nervi più che poteva. “Ma a volte…faccio fatica. Mi sembra di esplodere e mi fa male lo stomaco e la schiena e…mi viene da vomitare…” spiegò, cercando di essere il più sincera possibile. Probabilmente aveva molte più probabilità di trovare aiuto nella dottoressa Gordon che si occupava della sua dieta, piuttosto che in Blair.
“Vedi regolarmente la tua psicologa, vero?” chiese poi Medusa, come se le avesse letto nel pensiero. Maka annuì, avrebbe voluto dire che non era troppo convinta della validità della terapia, ma se ne rimase zitta.
“E come ti senti?” domandò poi la donna. La ragazza si chiese davvero perché le venissero fatte certe domande così stupide.
“Uno schifo” rispose, forse meno cortese di quanto avrebbe voluto essere.  Medusa fece un sorrisetto che avrebbe potuto essere comprensivo ma anche strafottente.
“La dottoressa ti ha mai proposto di prendere degli psicofarmaci? In molti casi come il tuo sono di grande aiuto. Ovviamente ne dovrei parlare sia con lei che col dottor Stein e…” cominciò, ma Maka la interruppe “No. Non se ne parla. Non sono interessata!”  sbottò e non provò neanche ad essere gentile.
La dottoressa Gordon sobbalzò presa alla sprovvista, Maka aveva un’aria così pacata che quell’uscita l’aveva stupita.
“Oh, sì, certo. Forse bisognerebbe aspettare che le tue sedute procedano. È troppo presto” capitolò, ma Maka scosse ancora una volta la testa “No, no, no, non ci siamo capite. Io non ho nessun maledettissimo problema psicologico. Vorrei tanto che provaste a farmi altri esami. Sono assolutamente sicura che il mio problema sia di natura fisica. Non ho davvero alcun problema di altro genere! Non capisco nemmeno perché mi vogliate mandare da una psicologa” disse, tutto d’un fiato, quasi senza respirare.
Medusa annuì senza guardarla.
“Chiaramente faremo altri esami, signorina Albarn, ma, spesso e volentieri, questo tipo di patologie sono di origine psicologica. Lei lo sa, vero?” fece poi, avvicinando il viso a quello della ragazza. Maka annuì, volgendo lo sguardo da un’altra parte.
“Lo so ma…davvero, io non sono così, non me ne frega niente di essere bella e magra e…stavo bene prima…Sono sicura che si tratti di altro. Non è il mio mestiere ma…non so, un’allergia” provò a supporre per cavarsi d’impiccio.
Medusa annuì “Contatterò l’allergologo. Ti farò fare anche gli esami per la celiachia, per essere sicuri. Hai delle coliche, ultimamente?” chiese poi la donna.
Maka scosse la testa e la dottoressa ne prese atto “Se non esce niente da qui, credo proprio che dovremmo continuare con la psicologa. E magari prendere in considerazione gli psicofarmaci”
La ragazza si passò la lingua sui denti guardandosi le ginocchia “Okay” acconsentì sottovoce “Non può esserci nient’altro?”
“Direi di no, ti abbiamo già fatto un sacco di esami, quando sei arrivata”
Maka annuì.
“C’è qualche cos’altro che vorresti dirmi?” chiese poi Medusa, cogliendola di sorpresa. La ragazzina scosse testa e codine, non comprendendo a pieno cosa lei intendesse. Medusa sorrise “Allora siamo a posto, per oggi”
 
 
 
 
Soul, con le mani in tasca, avanzò lungo il corridoio. Si sentiva un po’ un idiota nel star cercando una ragazza che conosceva appena in un ospedale così grande. Prima di tutto si chiedeva cosa avrebbe potuto dire Maka se l’avesse visto piombare così in camera sua, secondo, non era sicuro di riuscire a tornarci. Quel posto era un labirinto, fino ad allora si erano incontrati sempre per caso. Forse avrebbe dovuto andare a salutare Patty, prima, ma non andava di andare là a tenerle testa, si sarebbe messa a cianciare a proposito del fatto che gli avevano rubato la moto e cose così, e poi anche Liz era in giro.
Si grattò un occhio e continuò a camminare per il corridoio, incrociando per caso l’infermiera che qualche tempo prima aveva rovesciato tutti i campioni d’urina per terra. La donna si irrigidì vedendolo, e si distese di nuovo quando notò che Black*Star non era con lui.
“Senta…stavo cercando una persona” esordì. Elka lo guardò male, quella richiesta significava dover andare fino al gabbiotto e spulciare la lista dei pazienti, e si sperava che quel tipo almeno sapesse il nome di chi stava cercando.
“Sai almeno come si chiama questa persona?” domandò, abbastanza scocciata. In quel posto sembrava che tutti lavorassero per darle fastidio, a parte l’inserviente, quando non parlava di lupi mannari.
Soul alzò le sopracciglia “Beh…il cognome non me lo ricordo…o forse non lo so…si chiama Maka…ha i codini” cercò di spiegare, preso alla sprovvista. Elka alzò gli occhi al cielo, esasperata. In quel posto tutti pretendevano che lei sapesse tutto, per caso si ricordava chi fosse quella Maka, l’aveva aiutata a farsi la doccia, quella mattina. “Si chiama Albarn, di cognome, per una prossima volta. Una biondina un po’ rigida, no? Stanza 401” la indicò col dito e poi si congedò, nemmeno troppo gentilmente.
Soul schioccò la lingua, molto meno preoccupato. Perché avrebbe dovuto sembrare strano? Lui era un volontario all’ospedale, andare a trovare i pazienti era proprio il suo lavoro.
Infilò la testa nella stanza che gli era stata indicata, trovandosi nel bel mezzo di un inaspettato capannello. Alzò le sopracciglia, nel sentire tutto quel chiacchiericcio. Ma ci volle solo un secondo perché Maka, seduta sul letto con le gambe stese e senza coperta, lo notasse.
Anche il ragazzo con cui stava parlando, un tipo con degli occhiali strani che aveva tutta l’aria di uno che se ne stesse andando, lo guardò. “Salve” fece Soul, con il suo solito tono strascicato. Maka gli sorrise.
“Come va?” domandò lei, mentre il ragazzo con gli occhiali rimetteva alcuni libri nello zaino e ne depositava un discreto mucchio sul comodino di Maka.
“Alla grande, non supererò mai la sessione d’esami, nemmeno se studio giorno e notte. E comunque non lo sto facendo” rispose lui, entrando baldanzoso e mollando per terra lo zaino, senza troppi riguardi. Non aveva chiuso occhio quella notte, e aveva un disperato bisogno di dormire.
“Non dovresti dire così. Potessi studiare io per te!” rispose lei, un po’ inacidita, era un tasto dolente. “Se potessi farlo te lo lascerei fare. Alla grande!” ribatté lui, accomodandosi sul letto. Fu allora che il ragazzo con gli occhiali ricordò a tutti la sua presenza dicendo “Beh, allora io vado” e Maka si rese conti di essersi assolutamente dimenticata di lui “Oh” sobbalzò “Sì, Ox e…”
Ox aggrottò le sopracciglia “Vero, ero venuto apposta per portarti questa!” esclamò lui, andando a raspare di nuovo nel suo zaino per estrarne una torcia e porgerla a Maka, che sorrise e la poggiò sul comodino, accanto a Guerra e Pace.
“Allora, ci vediamo. Ho un esame dopodomani, devo prepararmi!” e sgattaiolò via veloce, mentre Soul pensava che anche lui aveva un esame in due giorni, ma che aveva passato una notte insonne e in quel momento gozzovigliava nella camera d’ospedale di una quasi sconosciuta.
Fu proprio allora che Tsubaki emise un urletto sofferente e Soul si accorse solo in quel momento che quello che sedeva sul letto della ragazza non era un infermiere, ma un tizio che la stava truccando. Lo riconobbe, era il ragazzo che quel giorno nel parco era seduto sulla panchina insieme a Maka.
Lui lo guardò, gentile ma serio “Ciao” disse solo, Tsubaki, provvista di camicia da notte usa e getta, come quelle di Maka, salutò con la mano, tenendo gli occhi chiusi.
“Su, Tsubaki, per esser belli bisogna soffrire!” disse Kid risoluto, ricominciando a spargere fondotinta sulla garza di Tsubaki, senza tanti riguardi. “Potresti almeno non spingere sulla ferita, con quel pennello?” domandò lei, strizzando l’occhio sano, sotto al taglio che Kid martoriava senza pietà.
“Stavo pensando: se usassimo della carta velina e te la attaccassimo su tutta la fronte con la colla poi non si vedrebbe più neanche che hai una garza” esclamò Kid, che non l’ascoltava neanche per sbaglio, in preda a un impeto di creatività.
“Ma guarda, Kid…” cominciò la ragazza, che era di natura gentile, soprattutto con chi non conosceva, ma che proprio non aveva voglia di farsi truccare coma una modella o una prostituta, a seconda dei punti di vista. “Io non avrei molta voglia di esser truccata. Sto bene così, vorrei solo che mi si cicatrizzasse la ferita, forse se ci metti sopra il fondotinta non è molto salutare, no?” domandò timidamente, muovendo il braccio ingessato per avere l’attenzione del ragazzo, che gliene dava davvero poca.
“Sono anche capace di farti sparire le sopracciglia, con colla e fondotinta. Diglielo Maka!” esclamò Kid reclamando la conferma dell’amica, senza distogliere gli occhi dalla ferita di Tsubaki.
Maka annuì “Sì, me le hai coperte per Halloween dell’anno scorso”
“Ti odio per quello. Dopo che ti ho truccata di-vi-na-men-te hai deciso di stare a casa a studiare. C’è un girone dell’inferno per quelle come te, che vanno in giro sempre struccate e con i calzini bianchi coi mocassini”
Maka chiuse gli occhi e si appoggiò al cuscino, non particolarmente preoccupata per la cosa e Soul si accorse che anche lei era truccata, ma non più di tanto. Era chiaro che Kid fosse entusiasta del suo nuovo giochino, Tsubaki.
Fu in quel momento che entrò in camera un rumoroso Black*Star. Tutti sobbalzarono, il ragazzo non era tipo che potesse sopportare di passare inosservato. Kid lo guardò male, per poco non aveva infilato il pennello nell’occhio di Tsubaki con quel trambusto.
“E’ arrivato il RE!” strillò il ragazzo, seguito a ruota da una vergognosa Liz, e tutti ebbero modo di notare che anche lui aveva un braccio ingessato.
“Tsubaki!” esclamò per prima cosa, come se lui e la ragazza fossero vecchi amici “Adesso abbiamo lo stesso braccio!” Kid si spostò un po’ per guardare meglio il nuovo venuto e anche Tsubaki ebbe modo di vederlo per bene.
“Oh, ti sei rotto il braccio anche tu?” chiese lei, un pochino preoccupata. Anche il suo era tutto ingessato, gomito compreso.
Black*Star annuì “Ma guarirò in un baleno”
“Non credo che la rigenerazione delle tue ossa vada di pari passo col tuo ego” disse da dietro Liz, infastidita. Avevano passato una notte insonne sia lei che Soul per colpa di quel cretino azzurro.
“Ti sei vestita!” esclamò poi Black*Star, stupito. Tsubaki annuì. Una volta che lui l’aveva brutalmente scoperta aveva accettato l’idea che la gente la vedesse, anche se era conciata piuttosto male, e di conseguenza aveva dovuto mettersi qualche cosa di decente addosso.
“Beh…” cominciò lei, imbarazzata, distogliendo lo sguardo “insomma, non potevo stare in reggiseno!”
Black*Star sbuffò, contrariato, mentre Liz si metteva una mano sulla faccia “Io voi ragazze non vi capisco proprio. Il bikini sì e il reggiseno no. Che differenza fa?”
Tsubaki divenne fucsia e Maka stava per dire qualche cosa quando entrarono l’infermiera Elka e l’inserviente Free che aveva rubato un camice a qualcuno.
“Signorina Nakatsukasa, dobbiamo portarti a controllare i punti. Oddio cosa ti è successo in faccia?” iniziò calma, per finire strepitando.
“E’ la mia arte!” strepitò Kid di rimando, offeso. “Per la miseria, dovremo farle il bagno nello struccante! Su Free, prendi la…ma…”
Free che avrebbe dovuto semplicemente spingere la sedia a rotelle della paziente la stava prendendo in braccio per portarla via così.
“Free!! La sedia!” sbraitò la povera Elka, che sembrava portare sulle spalle il peso del mondo.
“Le sedie sono per le persone pigre!” disse Free, che già se ne stava andando e comunque non aveva capito il senso del discorso. Tsubaki, del canto suo, era impietrita dalla sorpresa.
“Ehi, non rubarmela!” sbottò Black*Star, che non tollerava che gli togliessero da sotto al naso gli interlocutori.
“Se hai finito con quel braccio tornatene a casa!” sbottò Elka, già abbastanza esasperata, correndo dietro a Free.
Kid sbuffò, mettendosi a tracolla la borsa “Dato che hanno rubato la mia opera me ne posso andare” fece, depresso “Oppure vuoi farti truccare?” chiese poi a Maka, con gli occhi lucidi. Maka alzò la mano come per fermarlo e fece un sorriso tirato “Sono a posto, grazie”
Kid sospirò, deluso, girando i tacchi, e trovandosi di fronte a Liz per la prima volta, la quale stava a cavallo della porta. Si guardarono negli occhi per qualche secondo poi Kid disse, serio “Hai delle gran belle sopracciglia. Dovremmo uscire una volta” e così dicendo la superò e sparì nel corridoio. Liz boccheggiò, per poi seguirlo con lo sguardo e voltare i tacchi a sua volta per seguirlo. Nessuno tra Black*Star, Soul e Maka vide se l’avesse raggiunto o avesse desistito, sta di fatto che Black*Star si sgranchì le ossa come poteva, nonostante il gesso, e disse “Beh, io vado a dormire. Vieni?”
Soul fece una smorfia “Ti raggiungo dopo. Forse dovrei studiare”
“Bah” e così se ne andò, senza neanche salutare Maka.
La ragazza, che nel frattempo si era tirata di nuovo su, incrociò le braccia e si lasciò nuovamente andare tra i cuscini “Quel tipo è proprio un cafone!” esordì, non lo sopportava dal primo momento in cui l’aveva visto. Soul alzò le spalle e si mise a sedere a gambe incrociate sul letto della ragazza.
“Ehi! Non con le scarpe sporche!” strillò lei, cercando di spostargli i piedi. “E non rompere” fu il commento laconico di lui e Maka sbuffò distogliendo lo sguardo.
“A che serve la torcia? Hai paura del buio?” chiese lui, strafottente, ricordandosi cosa le aveva dato Ox. Maka si sentì vibrare e fece una smorfia, tornando a guardarlo “Non dire sciocchezze! È perché, di notte, se devo andare in bagno non voglio dar fastidio a Tsubaki!”
Soul ghignò, come se non ci credesse, ma non disse niente e tirò fuori del cioccolato dal suo zaino “Vuoi?” chiese. Era un po’ sciolto, ma il cioccolato è sempre un piacere.
“Non posso. Ho una dieta precisa da rispettare” fece lei, distrattamente. Soul aggrottò le sopracciglia “Ma per favore! Se la tua dieta non contiene la cioccolata mi sembra davvero una cavolata. Non credo che abbiano intenzione di farti dimagrire ancora” sbottò quasi infastidito e Maka s’irrigidì. Non lo conosceva e si permetteva di mettersi a fare discorsi del genere, non doveva proprio permettersi di fare certe constatazioni.
“E allora dammela” sbottò, prendendo la barretta. “Ehi, metà è mia!”  ribatté Soul, strappandogliela nuovamente di mano e spezzandola a metà.
Maka se la infilò in bocca e la sentì sciogliere, dolce sulla sua lingua, quasi bruciante. Sentì la faccia andare a fuoco. Non era il miglior cibo estivo che potesse scegliere, ma non ne mangiava da un po’. Quando hai male allo stomaco la cioccolata non è la prima scelta. Soul sempre seduto a gambe incrociate sul lenzuolo, mangiò l’altra metà. “Com’è?”
“Brucia”
“Eh?”
“Niente. Cosa ci fai qui così presto?” domandò, non troppo desiderosa di continuare a parlare di cibo. Soul si passò una mano sulla faccia “Black*Star ha fatto a botte con un tipo, l’altra sera” esordì.
“E si è rotto il braccio?”
“No, se l’è rotto inciampando mentre tornavamo a casa e abbiamo passato tutta la notte a discutere perché lui non voleva ammettere che si era fatto male e aveva bisogno di essere ingessato”
“E’ un cretino” fece Maka, senza paura di insultare un amico del suo interlocutore.
“Vero” disse semplicemente Soul. Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi Soul si sdraiò deliberatamente per la parte sbagliata del letto con le gambe a dondolare. Era distrutto.
“Hai un sacco di libri” constatò poi, guardando il comodino della ragazza.
“Me li ha portati Ox. Alcuni parlano di fantasmi. Tu ci credi?” domandò lei.
“No. Tu?”
“Figurarsi!”
 
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Ed eccomi con un altro capitolo. Non sono molto contenta della parte SoMa, faccio un po’ fatica a scriverli qui. Sarà che, a parte in Lullaby, non ho mai parlato di due Soul e Maka che non si conoscono e mi trovo un po’ in difficoltà a vederli in questa situazione. Spero non si noti troppo.
In questo capitolo non si parla molto della parte sovrannaturale, ma anche quella tornerà presto. Grazie mille per aver letto fino a qui! 

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Capitolo 9
*** Luci nel buio ***


Lullaby

Capitolo nono

Luci nel buio

 
Tsubaki sobbalzò, nel sonno, quando il cellulare di Maka suonò, d’un tratto, nel bel mezzo della notte.
“Oh” boccheggiò “co-cos’è?” domandò, con la voce impastata dal sonno.
“Niente, niente, è tutto a posto” la tranquillizzò Maka, fin troppo sveglia, per essere una che si era appena ridestata dal sonno. Schiacciò un pulsante del cellulare, bloccando il suono della sveglia che lei stessa aveva puntato.
Tsubaki gemette, coprendosi la testa con il lenzuolo, per nulla vogliosa di rimanere desta a lungo. Maka si grattò le testa, mettendosi su un fianco, mentre scrutava l’albero della flebo.
Il punto debole del suo piano era sicuramente Tsubaki, sperava di non svegliarla, aveva ancora qualche problema col buio e con le lenzuola, ma comunque le era sembrava abbastanza intontita da potersi riaddormentare subito, e così infatti fece.
Maka rimase seduta sul letto per qualche secondo, meditando sul da farsi. L’albero era, come sempre, un problema. Lo guardò, gli occhi erano abituati alla penombra e quel palo appariva grigio nel buio, ma ben delineato. Doveva staccarsi il tubino dal braccio o portarsi dietro il sacchetto di plastica. Aveva visto Elka fermare il flusso del liquido e togliere il tubicino dall’ago piantato nel suo braccio, ma non se la sentiva di farlo da sola, al buio per di più.
Chiuse gli occhi e sospirò, si sarebbe portata la sacca appresso. Si alzò e l’afferrò, prima di infilare la mano sotto il cuscino e prendere la torcia che le aveva portato Ox.
Con passo leggero si diresse verso il bagno, cercando di non far cigolare troppo la porta, il sonno di Tsubaki le stava ancora a cuore.
Appoggiò la torcia  e il sacchetto della flebo sul muretto vicino al lavandino, sul quale Elka appoggiava sempre le cose, senza preoccuparsi di accendere la luce, e aprì l’acqua, intenzionata a lavarsi la faccia, era sudata anche se era notte. Mise le mani a conca sotto il getto scrosciante dell’acqua e si beò di quella frescura ancora prima che l’acqua le arrivasse in faccia.
Si passò le mani sugli occhi, per portar via le ultime gocce che erano rimaste impigliate alle ciglia, prima di riaprirli.
Rimase a fissare il proprio riflesso scuro nello specchio, o meglio, ciò che stava dietro al proprio riflesso. C’era qualche cosa che si muoveva, ma non era nulla di umano o animale, era…Maka fece una smorfia iniziando a respirare forte: sembrava che le piastrelle, di due grigi diversi, si stessero sciogliendo su sé stesse. Sembrava che il muro sudasse e si contorcesse su sé stesso, e per un secondo Maka ebbe davvero paura di venir inghiottita da quella roba.
Afferrò la torcia con tanto entusiasmo che fece cadere per terra il sacchetto della flebo, l’ago strattonò dolorosamente il suo braccio, ma un occhio di bue illuminò il muro del bagno. Piastrelle gialle e nere, al loro posto, tanti piccoli quadratini ordinati sistemati l’uno affianco all’altro, come una scacchiera in verticale.
La ragazza sospirò e diresse il fascio di luce a illuminare tutto il bagno. Era tutto in ordine, niente piastrelle che si scioglievano, niente marea di ceramica grigia. La doccia era al suo posto, il water pure.
Si passò una mano sulla fronte. Quella volta non era stato come coi fiori, ma molto più veloce, allo stesso tempo non poteva certo dire che fosse stata un’illusione ottica, era rimasta a guardare il riflesso nello specchio per molto più di una frazione di secondo.
Spense la torcia e si guardò in giro, tutto pareva di nuovo calmo e normale, ma il cuore le batteva in petto come se fosse dovuto spuntare dal nulla un fantasma.
Raccolse la sacca e se la mise sottobraccio, uscendo dalla porta del bagno. La gomma delle sue infradito scricchiolava a contatto col il pavimento liscio. Tsubaki stava dormendo con il lenzuolo sopra la testa, l’amica la guardò per qualche secondo, chiedendosi se non fosse il caso di seguire il suo esempio e mettersi a letto.
Si morsicò l’interno delle guance: no, non se ne parlava, almeno un giretto di ricognizione per il corridoio lo doveva fare e se avesse incontrato di nuovo il tipo strano l’avrebbe accecato con la torcia e l’avrebbe costretto a dirle il suo nome.
Varcò la soglia della camera e si inoltrò nel corridoio buio, la sacca stretta al petto, premuta sul suo seno inesistente e la torcia stretta nell’altra mano. fece qualche passo un pochino intimorita, il buio era sempre più fitto, man mano che si allontanava dalla porta aperta della sua stanza. La maggior parte delle camere di degenza erano chiuse, ce n’erano solo un altro paio lasciate spalancate, ma non riuscivano a illuminare abbastanza il corridoio, dato che si trovavano proprio in fondo. Maka allungò il passo, più tranquilla e più convinta, doveva solo attraversare il buio, non c’era nulla in mezzo. Camminò ancora con gli occhi fissi sulla macchia di luce in lontananza, forse si sbagliava, ma era abbastanza sicura che si trattasse del gabbiotto delle infermiere.
La porta si chiuse, come per un colpo di vento, non aveva visto nessun’ombra oscurare la scia di luna sul pavimento, prima che la porta sbattesse. Di vento però non ce n’era, era la serata più calma che si vedesse da un po’. Faceva sempre un gran caldo, ma quella notte, in particolare tutto era fermo. Maka deglutì, dicendosi che probabilmente una delle infermiere era arrivata da dietro e aveva fatto sbattere l’uscio. Ciò, però, non le dava più alcun punto di riferimento, non sapeva dove si stesse dirigendo, avrebbe potuto accendere la torcia, ma non le pareva il momento.
Si voltò indietro, trovando di nuovo lo spiraglio di luce proveniente dalla propria camera. Per un secondo temette che qualche forza avesse chiuso anche quella porta, e invece no, era ancora lì aperta come lei l’aveva lasciata. Non doveva lasciare spazio a quei pensieri da film horror.
 Si voltò di nuovo verso il corridoio buio, decisa a procedere, quando per poco non le arrivò in faccia una carpa, o era una trota o qualsiasi altra cosa, era un maledettissimo pesce, un pesce dorato che nuotava fluttuando nel corridoio buio, brillando solo per sé stesso. Maka trattenne il fiato e scansò il banco di triglie che le si avventò contro, volteggiando per aria e boccheggiando, un pesce sega per poco non le sfiorò la camicia da notte, Maka sussultò chiedendosi cosa le sarebbe successo se l’avesse toccata, quel secondo di distrazione durò abbastanza da non permetterle di accorgersi che un paio di salmoni le stavano arrivando addosso, li notò quando erano ormai a un soffio dal sul petto, aprì la bocca come per urlare, ma non ne uscì alcun suono e i due pesci si infilarono letteralmente dentro di lei, senza che lei potesse presagirne la presenza. Si guardò alle spalle, per vedere se le erano passati attraverso come dei fantasmi –erano fantasmi? Era la prima cosa che le era venuta in mente – ma non c’era niente, sembrava che i pesci fossero stati risucchiati dal suo sterno. Tornò per l’ennesima volta al corridoio buio, per vedere che altri pesci non le passassero attraverso, ma ciò che vide era soltanto buio, di nuovo.
Affondò le unghie nella sacca della flebo e per poco non la ruppe, che cavolo era quella storia? I fiori, il ragazzino, le piastrelle che si sciolgono e i pesci volanti, che storia era mai quella?
Fece qualche passo in avanti e d’un tratto quello che ebbe davanti fu un viso spiritato, non l’aveva riconosciuto, ma capì subito che si trattava del ragazzino di qualche notte prima. Saperlo non le impedì di ribaltarsi all’indietro ed emettere un urletto di paura.
Sbatté duramente il sedere sul pavimento e probabilmente in quel momento sentì tutta l’assenza del grasso sul suo corpo, più che mai, dolorosamente, sull’osso che cozzava sul marmo. Strinse la torcia nella mano e la accese, allungando il braccio in avanti. Per poco non colpì il ragazzino sul naso, ma il dolore che sembrò provare fu lo stesso.
Il ragazzino, che ora Maka poteva vedere, aveva i capelli rosa, si rannicchiò contro il muro gemendo sofferente.
“La luce mi da fastidio agli occhi” piagnucolò.
Maka si alzò da per terra con una smorfia di dolore, mentre cercava di tenere con una mano sola sia la torcia che la sacca della flebo, per nulla intenzionata a distogliere il fascio di luce dal ragazzino.
“Chi cacchio sei tu?” chiese, in un sussurro, avvicinandosi di un passo. Il ragazzino ebbe un sussulto e si raggomitolò ancora di più, se era possibile.
Maka avrebbe voluto massaggiarsi il sedere, ma non le sembrava il momento, doveva torchiare quel tipo strano. Lo scrutò, con gli occhi ridotti a due fessure. Indossava un pigiama chiaro e lungo, non di quelli dell’ospedale, aveva qualche macchia e qualche buco, lei arricciò il naso e notò anche due pesanti pantofole di peluche a forma di coniglio. Il tutto era grottesco, notò con un brivido che non doveva essere molto più grasso di lei.
“Come ti chiami?”
“Sposta quella luce” piagnucolò lui, senza farsi vedere in volto.
“Prima il tuo nome” ordinò Maka, perentoria, non era tipo da mettere a stretto le persone a quel modo, ma tutta la situazione in sé per sé era quanto mai inquietante.
“Crona…” gemette poi, lui, dopo aver tirato sul col naso e frignato per qualche minuto.
Maka si morsicò il labbro, intenerita, ormai era davvero vicina a lui, e se ne stava chinata, con le ginocchia quasi poggiate a terra.
“Io sono Maka” si presentò in un sussurro.
“La luce” frignò lui “Avevi promesso. Maka non mantieni le promesse?”
La ragazza boccheggiò “Sì, sì, ecco…sì” fece incerta, prima di spegnere la torcia. Il buio fu di nuovo pesto, non era più abituata all’oscurità.
Non ebbe il tempo di emettere un grido, perché Crona le aveva già infilato una mano in bocca, letteralmente, mentre le balzava sopra con tutto il suo peso. Sbatté la testa e la schiena, duramente sul pavimento, di nuovo troppe ossa e poca carne. Strinse i denti attorno alle dita di Crona, le veniva quasi da vomitare, Crona non sembrò avvertire alcun dolore anche se Maka avrebbe potuto tagliargliele via di notte coi denti.
Le stava a cavalcioni addosso e lei poteva vedere la luce riflettersi nei suoi occhi lucidi. La pupilla era dilatatissima, per permettergli di vedere nel buio, meglio che potesse.
Il ragazzo avvicinò il viso a quello di Maka e si mise un dito davanti alla bocca facendo “Sshh, ti porto in un posto…” e così dicendo tolse le dita bagnate di saliva dalla bocca di Maka, che tossicchiò e lo guardò alzarsi da lei. Sentire il suo peso che la abbandonava fu un sollievo. Era magrolino, ma aveva la netta sensazione che se avessero dovuto accapigliarsi lui avrebbe avuto sicuramente la meglio.
Le porse una mano, che Maka afferrò, non senza prima pensare a quello che era appena successo. Raccattò anche la sacca della flebo, che ormai era stata sballottata fin troppo, e la torcia di Ox.
“Di qua” la tirò, e più velocemente di quanto avrebbe mai creduto arrivarono alla fine del corridoio, per poi cominciare a salire una delle scale principali, Maka si domando se sarebbe mai riuscita a tornare indietro. Grazie al cielo in quella parte c’erano parecchie finestre e la luce della luna e dei lampioni le permettevano di non inciamparsi negli scalini.
“Dove andiamo?” chiese la ragazza, ma Crona non rispose e la trascinò ancora oltre una porta che delimitava un reparto dall’androne delle scale. Superarono cinque o sei porte e a un tratto Crona virò a sinistra infilandosi in una stanza illuminata dalla luna.
“Oh, siete qui!” esclamò una ragazzina con i capelli a caschetto, seduta a gambe incrociate sul letto, fin troppo sveglia, per essere una che accoglie gente in piena notte.
Crona saltò sul letto come avrebbe potuto fare un gatto e le molle di questo gracchiarono indispettite, dall’altro lato della stanza giunse un grugnito.
“Scusa Hero, facciamo poco rumore adesso” disse la ragazza col caschetto, con una risatina che faceva esattamente presagire il contrario.
“Io sono Patty!” esclamò lei allegra, sedendosi sul cuscino, in modo da lasciare spazio anche a Maka.
“Maka, piacere” fece lei, timidamente, avvicinandosi al letto. “La vuoi una caramella?” offrì Patty, senza curarsi di abbassare la voce. Maka scosse la testa “No, è piena notte”
Patty alzò le spalle “E’ sempre l’ora delle caramelle” e ne lanciò una a Crona, che la prese in bocca come se fosse stato un cane al circo.
Maka la guardò fissare qualche cosa alle sue spalle e si voltò di scatto. Dietro di lei c’era solo la porta che dava sul corridoio buio. Si rigirò a guardare la ragazzina e questa fece un sorrisetto “E’ andato”
“Che?” chiese ancora Maka, Hero grugnì dal suo gomitolo di coperte, era piena notte, d’altronde.
Patty alzò le spalle “Niente”
“Da quand’è che siete qui?” chiese poi Maka, senza nemmeno accorgersi della domanda che aveva appena fatto.
“Da marzo, quando mi hanno operata di appendicite…e Crona da…due anni credo. Prima stava in un ospedale in Florida. Allora la vuoi una caramella?” chiese poi, con un sorriso fin troppo smagliante.
Maka sorrise “Va bene”. L’avrebbe messa in bocca e sputata in una pianta appena avesse potuto.
 
 
Quando Stein entrò nel proprio ufficio trovò una sorpresa sulla scrivania. La sorpresa era bionda e portava un camice.
“Ciao” salutò, con un sorriso che non preannunciava nulla di buono. Il dottor Stein si grattò la testa e sospirò, sapeva che la cosa si sarebbe protratta per le lunghe. Avere Medusa come fermacarte era sempre sinonimo di perdere del tempo, ma a volte non gli dispiaceva uscire dagli schemi.
“Come mai qui?” chiese, facendo finta di niente. Di solito i colleghi si sedevano sulla sedia degli ospiti, di fronte alla sua scrivania, non sulla scrivania. Si accomodò sulla propria poltrona a rotelline e la guardò, con sguardo stanco.
“Sai che non ho niente sotto il camice, potrei togliermelo” disse tranquillamente lei, e appoggiò i piedi sulla sua coscia. Il tacco della scarpa piantato nella carne era abbastanza fastidioso, ma lo ignorò.
“Non ti conviene, c’è l’aria condizionata in funzione, ti prenderesti un accidente” disse calmo, indicando il climatizzatore. Medusa fece un sorrisetto e piegò la testa da una parte “Oh, grazie per avermelo fatto notare, non ci avevo proprio pensato. Sei sempre così premuroso”
Stein annuì “Sei qui per dirmi che hai dimenticato la biancheria a casa, o ci sono altre novità?” domandò poi lui, guardandola dritta negli occhi, mentre le afferrava la caviglia e stringeva forte. Medusa accavallò le gambe e roteò gli occhi, liberandosi dalla presa di Stein “Sono venuta per Maka Albarn”
Stein si morsicò il labbro “Sono un chirurgo, taglio la gente. Non credo che ci sia granché da tagliare addosso a  Maka Albarn” commentò lui. Medusa ridacchiò, senza essere davvero felice. “Lo so, ma tu sei amico di suo padre, sai…”
“Sei tu la sua dietologa” aggiunse poi Stein, senza guardarla.
“Pesa trentatré chili e mezzo”
“Non te l’ho chiesto, dovrebbero essere cose private. Non dovresti dirle a me” ribatté Stein, duro. Medusa fece una smorfia e scese dalla scrivania, per andarsi a sedere sul ginocchio destro di lui “Ti sto chiedendo un consiglio. Sai, credo che abbia bisogno di psicofarmaci…credo che dovrei parlarne con suo padre” fece appoggiandosi alla sua spalla, per poi piantargli a tradimento il tacco nella gamba sinistra. Stein fece una smorfia.
“Rimane il fatto che non dovresti parlarne con me”
Medusa si alzò indispettita e si rimise appoggiata alla scrivania, seria “Credo che bisognerebbe fare qualche cosa. Il dottor Shinigami ha vinto un premio per la sua scoperta in campo medico. Credo che bisognerebbe sfruttare questa cosa”
“Di certo Maka Albarn non ha bisogno di un farmaco come quello che ha inventato il primario” ribatté Stein secco.
Medusa si morsicò la lingua “Forse Maka no, ma mio figlio sì”
Fu il momento di Stein per alzarsi “Non sono fatti miei questi” e così dicendo si avviò verso la porta e Medusa ritrovò il suo sorriso.
“Allora sei così preoccupato per la mia salute da non volere che mi tolga il camice?” domandò, mentre lui le dava le spalle.
“Sono pur sempre un medico” le ricordò, lei fece un sorrisetto, guardandolo uscire, sbattendo la porta dove stava appeso il suo nome dopo il titolo Medico Chirurgo. Ebbe solo il tempo per un sospiro, perché la porta si riaprisse e Stein rientrasse chiudendo a chiave l’uscio e spegnendo il condizionatore, prima di guardarla. Si fissarono per un secondo e Medusa ebbe il tempo di mostrargli tutti i propri denti in un sorriso soddisfatto “Beh, ho cambiato idea” commentò lui, per nulla a disagio.
 
 
 
Maka se ne stava sdraiata sul suo letto a sentire il respiro di Soul, sdraiato accanto a lei, con una delle sue codine sugli occhi, come se potesse ripararlo dalla luce e permettergli di dormire.
Era entrato e l’aveva salutata di sfuggita, cacciando lo zaino sotto il letto, la custodia della chitarra al muro e si era sdraiato con un salto sul letto, accanto a lei. Maka non avrebbe saputo dire perché, ma le sembrava quasi familiare la presenza di Soul dormiente accanto, e non aveva detto niente. Era quasi rilassante sentire le loro braccia che si sfioravano appena, per sbaglio.
Ci volle un quarto d’ora perché Soul si degnasse di aprire gli occhi e guardarla.
“Sono esausto” proferì, un po’ scocciato, come se fosse colpa di Maka.
La ragazza alzò le sopracciglia “Gli esami?” Soul annuì “Saranno la mia rovina” disse, chiudendo di nuovo gli occhi.
“Prima è passato Black*Star e si è portato via Tsubaki, non sono molto tranquilla” disse poi Maka stiracchiando le gambe nude sul letto. Le lenzuola erano umide, non c’era sollievo dal caldo afoso. Soul fece un gesto di disinteresse “Sì, li ho visti, si stanno scrivendo sui gessi a vicenda. Sono in una botte di ferro”
Maka alzò le sopracciglia, scettica “Non mi piace molto”
Soul fece una smorfia “Lo vedo, ma non è cattivo. ‘Sta mattina mi ha chiesto perché non ti portavo del gelato e io gli ho detto che dovevi seguire una dieta e che probabilmente non potevi mangiarlo, allora si è arrabbiato e ha detto che non gli sembravi una che avesse bisogno di stare a dieta. Quindi forse ti porterà del gelato, sciolto probabilmente, ma te lo porterà”
Maka non poté fare a meno di ridacchiare. “Non so se posso mangiarlo, ma lo mangerei, del gelato. Magari un cucchiaio” Soul la guardò con lo sguardo serio, tanto che il sorriso di Maka si spense all’istante. Distolse lo sguardo, anche se non sapeva perché.
“Perché la chitarra?” domandò  poi Maka, fissando il soffitto. “Conservatorio” rispose lui sintetico, per poi aggiungere “come se l’università non fosse abbastanza”
“Pensavo che suonassi l’organo” aggiunse lei, perplessa. Soul aveva chiuso gli occhi e si mise a suonare una tastiera immaginaria “Pianoforte” la corresse lui “Non è molto differente, in effetti, ma l’organo è più scomodo, devi premere di più i tasti” spiegò, tranquillo, prima di girarsi dalla parte di lei, per vederla in faccia. Maka fece lo stesso “Sono un pianista. La chitarra non mi piace granché. Ad esser sincero” ammise. Maka fece un sorrisetto, prima di mettersi a fare vento a entrambi con il suo giornalino del sudoku “Forse dovrei leggere qualche cosa a riguardo”
Soul fece di nuovo una smorfia “Non è il tipo di cosa che devi studiare, la musica, cioè, non in senso così stretto” fece lui e a lei sembrò quasi un rimproverò. Gonfiò le guance e si mise di nuovo sdraiata sulla schiena.
“Senti” esordì poi Soul, per nulla preoccupato per il fatto che Maka potesse essersi offesa “Non che io sia un pettegolo, ma sono venuto qui in ospedale con Liz, la mia amica”
Maka si voltò di nuovo a guardarlo incuriosita “Quella alta?” domandò, tanto per certezza, e Soul annuì con un sorrisetto “Lei. È andata da sua sorella, lei sta al piano di sopra e sono passato anche io a salutare e Liz si è messa a strillare cose stupide sul tuo amico” concluse poi alzando le sopracciglia e fissandola con gli occhi cremisi. Maka si accigliò. “Chi, Kid?”
“Il damerino” fu la risposta poco cortese di Soul, che l’aveva visto fin troppo impettito per i suoi gusti. “E?” domandò Maka, indispettita, stavano parlando male di Kid?
Soul gongolò “Liz si è messa a dire che ‘sta sera escono insieme e che è preoccupata perché di solito un ragazzo per diventare carino ai suoi occhi deve farle bere almeno tre birre, mentre lui è carino già così. Ci metteranno davvero poco dal pub al monolocale di Liz” ridacchiò ancora, pensando alla faccia di Liz che si rotolava sul letto della sorellina dicendo che il suo appuntamento sarebbe durato pochissimo perché gli si sarebbe fiondata addosso. Patty non si era più di tanto scomposta.
Maka alzò un sopracciglio e Soul continuò “Com’è Kid?”
Maka fece una smorfia, guardando altrove, pensierosa “Fissato” fu quello che le venne da dire come prima cosa.
“Liz fa casino e simpatizza parecchio per gli alcolici”
“Kid è astemio” lo rimbeccò Maka
“Cacchio, sarà un disastro!” ridacchiò Soul passandosi una mano sulla fronte sudata.
Fu allora che notò l’assenza del trespolo per la flebo “Ti hanno tolto l’appendice” disse.
“Che?”
“La flebo, stai meglio?” chiese, a rigor di logica. Maka si strinse nelle spalle “Come al solito. In realtà peso un po’ meno dell’ultima volta che l’avevano controllato, ma non ho bisogno della flebo. Me l’hanno messa quando mi hanno ricoverata”
“Perché sei qui?” chiese poi lui, a bruciapelo. Maka lo guardò, lui stava più in basso di lei, senza usare il cuscino, sdraiato al suo fianco, questo le dava la sensazione di guardarlo dall’alto in basso e la faceva sentire incredibilmente vulnerabile.
Prese fiato “Sono svenuta il giorno dell’ultimo esame. Te l’ho detto, dovrei laurearmi a breve. Ero preparatissima, avevo bevuto un sacco di caffè per stare sveglia la notte e studiare, potrei darlo adesso se un professore venisse a interrogarmi. Mi piace davvero fare quello che faccio”
Soul la scrutò dal basso “Ma non avevo mangiato. Intendo, da un giorno e mezzo. Ero così presa da quello che dovevo fare che mi sembrava una perdita di tempo fermarmi per mangiare, avevo lo stomaco chiuso e non mi andava”
Soul si morsicò il labbro “Hai mai pensato a fare qualche cosa d’altro nella vita? A parte studiare…”
Maka s’accigliò “Non è vero che non ho altri interessi. Ho studiato i vini e anche botanica”
Soul sbuffò “E sei mai andata a piantare le begonie in giardino?” sbottò, mettendosi le braccia dietro la testa. Maka arricciò il naso “No!”
“Beh, allora non vale” si guardarono negli occhi per qualche secondo “Quando esci di qui ti porto in enoteca e all’orto botanico, e guai a te se ti azzardi a portarti dietro una guida!”
 
 
 
“E quindi ti hanno visitata di nuovo, ‘sta mattina?” domandò la signora Albarn dallo schermo del portatile che Maka teneva sulle ginocchia. La ragazza annuì
“E come va?” chiese ancora la donna “Meglio” mentì sua figlia. Spirit, fuori dal campo della webcam si irrigidì, aveva parlato con Stein. Anche se aveva detto che non gli interessava finiva comunque con lo spifferare tutto a Spirit prima che lui avesse modo di chiederlo alla figlia. Un po’ odiava Medusa, ma era abbastanza sicuro che Maka non avrebbe mai manifestato qualche debolezza dinanzi a Spirit. Il giorno del suo ricovero era stato già troppo imbarazzante per lei.
“E il ciclo?” domandò poi la donna, Maka si grattò la testa, tesa. Se qualcuno l’avesse vista da fuori, qualcuno che non fosse Spirit, avrebbe pensato che quello fosse un interrogatorio “Non ce l’ho, te lo avevo detto. Ma la dottoressa Gordon mi ha detto che se riesco a prendere un po’ di peso potrebbero indurmelo con dei medicinali” spiegò, sudava, il computer sulle sue ginocchia era caldo e le lenzuola del suo letto particolarmente umide.
“E quanto dovresti pesare per prendere queste medicine?”
“Non lo so”
“Non gliel’ho chiesto?”
“Non ci ho pensato”
“Avresti dovuto” commentò la signora Albarn, e Maka la vide lambiccare distrattamente con dei fogli fuori dal suo campo visivo. Spirit distese le gambe e incrociò le braccia, seduto su una sedia vicino alla finestra.
“Comunque stavo dando un’occhiata per quel master di cui avevamo parlato prima di questo inconveniente” esordì la donna e Spirit poté vedere gli occhi di sua figlia illuminarsi “Ti manderò i dati via mail, così potrai darci un’occhiata. Adesso credo che sia meglio che vada. Il fuso orario della Tailandia mi sta uccidendo”
Il petto di Maka si sgonfiò allo stesso modo in cui si era gonfiato, ma la signora Albarn non lo vide perché stava risistemando una risma di fogli.
“Allora ci sentiamo presto?”
“Certo, ti mando una mail dopo la mia conferenza”
“Grazie” la schermata si chiuse con un blob e Maka si lasciò andare, sudata, sui cuscini.
“Papà?” chiamò “Mi hai portato quello che ti avevo chiesto?” domandò, esausta.
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Sono di nuovo qui, con un altro ritardo mostruoso, lo so, lo so, sono orribile. In questo capitolo è tornato il sovrannaturale, che io odio con tutta me stessa, perché quando si scoprirà che cos’è mi darete delle stupida, ne sono certa. >.< Poi beh, c’è Crona, che sembra un po’ Gollum, o almeno, così me lo immagino, ma con le pantofole a forma di coniglio. Non amo particolarmente il suo personaggio, perciò ho imprecato parecchio per scrivere il capitolo.
Ci sono anche Medusa e Stein, non credo che saranno ancora molto presenti, in realtà, mi piacciono, ma in questa storia non credo che abbiano molto altro da fare insieme. <3
(Il titolo del capitolo è pessimo, ma non mi veniva in mente nulla di migliore!!)
In ogni modo, grazie per la pazienza di aver seguito e letto la storia fin qui. A presto! 

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