Quarantottesimi hunger games: fate il vostro gioco

di Unicorno Peloso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitoli perduti. ***
Capitolo 2: *** Capitolo otto, Silenzi. ***
Capitolo 3: *** Tra calliopi e farfalle meccaniche ***
Capitolo 4: *** Domani all'alba ***
Capitolo 5: *** La via più facile e immediata per impazzire ***
Capitolo 6: *** Amicizie pericolose ***
Capitolo 7: *** Pronti a morire ***



Capitolo 1
*** Capitoli perduti. ***


Buongiorno :)
Come alcuni di voi avranno certamente notato, la nostra storia è stata cancellata, perchè a quanto pare infrangeva il regolamento del sito. ( spigazioni infondo, lol. )
Abbiamo perciò deciso di ri-postare tutti i capitoli già pubblicati in questo maxycapitolo (?), per poi ricominciare ad aggiornare regolarmente.
Beene, dopo aver letto tutte le dovute spiegazioni, vi invitiamo a lasciarci una recensione piccina picciò, giusto per farci sapere che avete ritrovato la nostra storia.
Ovviamente non siete obbligati a rileggere la storia dal’inizio (santa pace, immagino che supplizio!). Detto questo...
Ci becchiamo infondo, bro. (?)

 
 

 
Prologo, le ventiquattro stelle.

 

Oh, adesso basta, pensò Jona, mentre cercava di farsi più alto mettendosi in punta di piedi. Aveva passato anni a pregare i genitori a portarlo alla sfilata dei tributi e, dopo una marea di rifiuti e di ramanzine, era finalmente riuscito a convincere il padre a indossare il suo completo migliore e ad accompagnarlo.
Quindi, dopo tutta quell'attesa, non poteva certo permettere ad una vecchia e ricca signora di Capitol City di oscurargli la visuale con quella sua orrenda parrucca giallo limone alta come minimo dieci centimetri. Jona sbuffò e iniziò a saltellare, sperando di riuscire a vedere qualcosa o di convincere la donna a cambiare posto infastidendola con le sue moine da "bambino curioso che per la prima volta incontra i tributi dal vivo". Ma la signora sembrò quasi non accorgersi di lui, intenta com'era a lisciarsi le pieghe dell'esagerato vestito color porpora e a sistemarsi il cappellino. Il bambino puntò i piedi, offeso dall'indifferenza della donna.
Possibile che i suoi concittadini fossero tutti così egoisti? Che preferissero avere un'ottima visuale su un evento visto decine e decine di volte piuttosto che lasciare un po' di spazio a lui, che non aveva mai assistito a niente del genere? Sbuffò nuovamente, questa volta in modo più rumoroso, tanto che finalmente il padre si accorse delle difficoltà in cui si trovava il figlio: circondato da persone molto più alte di lui e schiacciato dalle ampie gonne delle signore di Capitol City, veniva privato della possibilità di vedere la sfilata che sarebbe iniziata a breve. Sorrise a arruffò con la mano i capelli tinti di azzuro di Jona, prima di prenderlo in braccio e posizionarlo a cavalcioni sulle sue spalle. Il bambino si aggiustò i ciuffi ribelli e sorrise di rimando, perché era finalmente in grado di vedere l'ampio viale sul quale sarebbero scivolati i fantastici carri dei dodici distretti, ogni anno più belli. Dovette aspettare ancora qualche minuto, e nell'attesa iniziò a giocare con la parrucca della donna davanti a lui, troppo impegnata a civettare con un ragazzo molto più giovane di lei per accorgersi delle piccole manine di Jona che le increspavano i capelli sintetici.
Sinceramente non riusciva a capire il bisogno degli abitanti di Capitol City di utilizzare delle parrucche: non potevano semplicemente tingersi i capelli? Loro cambiavano spesso il loro colore, a seconda dell'umore o della stoffa del vestito; lui, invece, voleva rimanere fedele all'azzurro per sempre, in onore ai bellissimi riflessi del mare che non aveva mai visto, se non in foto o in televisione. Le mode della capitale lo facevano ridere, anche se probabilmente suscitare ilarità non era l'obbiettivo dei famosi stilisti che si occupavano di soddisfare le assurde richieste dei propri facoltosi clienti.
Finalmente la voci di Caesar Flickerman e Claudius Templesmith risuonarono chiare e forti nella strada affollata, nonostante le urla di esultanza del pubblico minacciassero di coprire i presentatori. Gli altoparlanti, disposti in ogni dove, annunciarono l'inizio della sfilata e, dopo pochi secondi, il carro del distretto uno fece il suo ingresso.
La prima cosa che Jona notò furono i costumi dei due tributi: luccicanti ed esagerai come i vestiti di Capitol City, ma belli nella loro assurdità. Entrambi dalla carnagione olivastra, muscolosi e imponenti, avvolti nei loro vestiti rossi arricchiti da splendidi brillantini dorati. Ogni volta che la ragazza muoveva la gonna del suo abito a sirena, la stoffa di raso brillava, ammaliando gli spettatori invidiosi. I capelli, neri come il carbone, le ricadevano dolcemente sulle spalle ed erano arricchiti con fili dorati e forcine brillanti piene di pietre preziose. Il ragazzo invece, aveva un completo dello stesso tessuto della sua compagna, e i gemelli che bloccavano i polsi della camicia si vedevano scintillare da lontano, abbaglianti come i fari di un hovercraft.
Jona si sporse in avanti, per vedere meglio i loro volti: nessuna emozione sembrava nemmeno sfiorarli, guardavano davanti a loro con aria sprezzante, e ciò sembrò scatenare un'ondata di adrenalina nel pubblico, le cui urla divennero quasi insostenibili. Il bambino fu costretto a porsi le mani sulle orecchie, infastidito: in televisione le grida degli abitanti di Capitol City si sentivano appena, come un piacevole sottofondo alle parole dei presentatori, che in quel momento erano quasi impossibili da udire.
Il primo carro fu seguito da quello del distretto due, che presentava i propri tributi come delle divinità. I loro vestiti erano semplici ma rendevano i tributi imponenti e marmorei, quasi come delle statue dell'antica grecia: consistevano in delle tuniche di un bianco lucente, con i bordi dorati. Il maschio era piuttosto alto e robusto, inoltre i suoi capelli biondi e gli occhi chiari, che lo facevano apparire incredibilmente bello, completavano il quadro del "tributo perfetto" agli occhi degli abitanti della capitale. Ma la ragazza non era da meno: i capelli, in netto contrasto con l'abito che lasciava scoperta una spalla e parte della schiena, erano di un rosso acceso, ricchi di sfumature e ribelli, come le fiamme.
-Papà!-urlò Jona, piuttosto scosso. -Quella ragazza ha i capelli in fiamme!- continuò, con lo stesso tono di voce. Il padre rise, divertito dalle insinuazioni del figlio, dopodiché gli strinse una mano.
-No Jona, ha solo i capelli rossi come la mamma-Il bambino continuò a guardare con sospetto i capelli del tributo, non totalmente convinto dalla spiegazione. Sua madre aveva si i capelli rossi, ma il loro colore, in confronto a quello della ragazza, appariva spento e scialbo, nonostante molte sue amiche li guardassero con invidia.
Jona spostò con fatica lo sguardo dal carro del distretto due, per passare al successivo. I tributi del distretto tre indossavano un'anonima tuta da elettricisti, fin troppo semplice per una parata. Infatti all'improvviso la ragazza appoggiò una mano sulla spalla del suo compagno, ed entrambi furono avvolti da una cascata di scintille dorate e ramate, che gli illuminarono il volto lasciando gli spettatori di stucco. La ragazza era molto bella ma non sorrideva, nonostante i visibili apprezzamenti del pubblico; il ragazzo, invece, esibiva un sorriso spento e poco sincero. Il quarto distretto propose due splendidi tributi vestiti di quella che sembrava acqua: ad ogni più piccolo movimento della coppia la stoffa si increspava in modo particolare, richiamando delle piccole onde.
Jona sarebbe rimasto ore e ore a guardarli, incantato dalla bellezza di quei ragazzi che, al contrario di lui, non solo avevano visto il mare e vi si erano tuffati chissà quante volte, ma lo stavano anche indossando. I tributi del quinto distretto, invece, brillavano di luce propria: il costume sembrava fatto di tante minuscole lampadine azzurrine, ma era impossibile distinguerle una ad una. Sembrava quasi che fossero vestiti di energia, tanto erano belli ed ipnotici i loro vestiti. Il ragazzo aveva degli splendidi occhi dorati, brillanti quasi quanto ciò che aveva indosso; la ragazza invece aveva i capelli stranamente corti, quasi come quelli del compagno.
Seguì il carro del distretto sei, i cui tributi indossavano delle aderenti tute nere che mettevano in risalto la muscolatura di entrambi. Tante piccole luci colorate e brillanti correvano lungo il loro corpo, forse a simboleggiare i mezzi di trasporto che venivano prodotti nel loro distretto. I loro copricapi (sorprendentemente discreti) lampeggiavano dolcemente, alternando dei colori caldi a quelli freddi. Il settimo, come sempre, vestiva i propri tributi da alberi, ma i loro costumi non sfiguravano accanto a quelli altrui. Assieme alle foglie di varie tonalità di verde che coprivano il petto di entrambi, ve ne erano altre d'oro, che donavano luce e vitalità ai vestiti. Inoltre la ragazza aveva una coroncina di rametti dorati posta sui capelli castani e lucenti, che sembravano arricciati per l'occasione.
Il distretto otto, invece, ostentava la ricchezza delle sue preziose stoffe con dei costumi che ricordavano quelli ricchi ed eleborati dei re e delle regine di secoli addietro. Jona pensò che la ragazza sembrasse una principessa, come quelle disegnate nei libri di fiabe che gli compravano i genitori, poi si fece distrarre dai suoi capelli: erano neri e ondulati, ma gli ultimi dieci centimetri erano colorati di vari colori e ricordarono al bambino un'arcobaleno. Aveva già visto qualcosa del genere addosso alle donne di Capitol City ma loro, come al solito, esageravano sempre e riuscivano a far sembrare orribile qualsiasi cosa.
Poi fu il turno del distretto nove, quello dei cereali. I due ragazzi avevano del grano nei capelli, e la ragazza reggeva uno splendido bouquet di spighe dorate. I loro vestiti, anch'essi del colore dell'oro, risplendevano alla luce del tramonto. La giovane donna faceva frusciare con grazia la gonna ampia, e quel movimento sembrava produrre lo stesso effetto del vento sui campi di grano. Il distretto successivo, quest'anno, proponeva uno stile diverso dal solito, che si discostava di molto dai soliti costumi da cowboy. Entrambi indossavano dei vestiti di pelle, ovviamente ottenuti dagli animali allevati nel loro distretto: un semplice ma elegante completo scamosciato per il ragazzo, ed una gonna corta e aderente accompagnata da una camicia senza maniche azzurrina che metteva in risalto il seno della ragazza. Il penultimo carro fece il suo ingresso, rivelando due ragazzi vestiti con delle tute da agricoltori bianche e dorate, impreziosite da gemme colorate che fungevano da bottoni. Come i tributi del distretto sette, anche loro indossavano delle particolari coroncine intrecciate, adagiate sui capelli scuri di entrambi.
Finalmente l'ultimo distretto, il dodicesimo, fece capolino e si aggiunse agli altri undici, che sfilavano davanti ad un pubblico particolarmente eccitato. I tributi indossavano delle tute da minatori con tanto di elmetto, ma non era una semplice lampadina quella che brillava al centro del casco di protezione: un topazio, gigantesco e luminoso, rifletteva la luce del tramonto e creava degli interessanti riflessi sui costumi altrimenti neri dei ragazzi. Gli abitanti della capitale esplosero con un boato, applaudendo, urlando e pestando i piedi per manifestare la propria approvazione ai tributi e per elogiare tutti e ventiquattro gli stilisti. Questa volta Jona non pensò nemmeno a caprirsi le orecchie, sembrava interessato solamente ai volti dei ragazzi che presto avrebbero intrattenuto l'intera Panem con le loro gesta o, più frequentemente, con le loro pubbliche morti.
Erano tutti così giovani, così forti e così belli, che il bambino non si azzardò nemmeno a fare un pronostico su chi avrebbe potuto essere incoronato vincitore, limitandosi a fissarli. Non si accorse del presidente Snow che si apprestava a fare il suo discorso, né del fatto che la luce rossastra e luminosa del tramonto stava scomparendo per lasciare spazio alla sera. Si rese conto del cambiamento solo quando vide i tributi stagliarsi su uno splendido sfondo blu notte, che faceva apparire i loro costumi ancora più luminosi. Erano delle stelle, delle stelle brillanti che costringevano il pubblico a stare con il naso all'insú e a rimanere con il fiato sospeso.
Prima di abbandonare la strada e tornare a casa accoccolato tra le braccia del padre Jona si concesse un ultimo sguardo a quei ragazzi e gli venne quasi da piangere, perché il più grande di loro poteva avere al massimo una decina d'anni più di lui.
Sarebbe stato questo il mio destino, se fossi vissuto in uno dei dodici distretti invece che a Capitol City? Pensò il bambino con amarezza e, per la prima volta nella vita, si sentì molto più grande dei suoi otto anni. Sospirò e incrociò lo sguardo di ognuna di quelle stelle, con la certezza che ventitré di loro si sarebbero presto spente per lasciare spazio ad un unico brillante vincitore. 



Capitolo uno, il migliore tra loro.
 

Atala parlava, spiegava come e cosa fare nell’ala dedita all’addestramento.

 
C’erano una ventina di postazioni, numero più, numero meno. Tecniche di sopravvivenza e armi varie.
 
Atala parlava, e parlava e parlava, più parlava meno si concentrava sul discorso, troppo presa nel giudicare i nuovi tributi: fortunatamente quasi nessuno scendeva sotto i quattordici anni, a esclusione della piccola Eleuthera.
 
Il monologo abbioccante di Atala poco importava. Quando ebbe fine, anche chi l’aveva ascoltata presto se ne dimenticò. C’erano tante di quelle armi, tante di quelle cose da imparare! E avevano solo tre giorni. Era meglio darsi una mossa.
 
Con un gesto di Atala, ventiquattro tributi si sparsero per la sala.
 
Il gruppo di favoriti raggiunse subito le postazioni d’armi: non sembravano interessati alle tecniche di sopravvivenza perché, effettivamente, non ne avrebbero avuto alcun bisogno. Inoltre quella era l’occasione giusta per mettere in mostra le proprie qualità, spaventando gli altri tributi e dimostrando di essere al pari dei propri alleati.
 
Cercando di evitare faccia a faccia con imponenti favoriti, Shaileen Turner, dal distretto 8, si diresse verso la postazione dedicata allo studio delle piante. Perché? Perché non ne conosceva nemmeno una. Era nata e cresciuta in un Distretto dedito alla tessitura. A differenza del suo compagno, Liach, il quale aveva avuto modo di apprendere qualche indicazione elementare e poteva districarsi meglio tra bacche e arbusti.
 
Così, Shaileen si fece largo tra i vari tributi.
 
La postazione piante-erbe-bacche sembrava totalmente vuota.
 
Shaileen ci s’avvicinò quasi in corsa. Era tenuta da un omino tutto occhiali, piccoletto, ben vestito. Le fece un sorriso, invitandola al banco, quando una vocina sottile, sconosciuta, parlò.
 
— Scusa, c’ero prima io.— Shaileen si voltò di scatto, incontrando lo sguardo deciso e leggermente seccato di una ragazzina piccola piccola, minuscola. Aveva un visino dolce, tanto carino, abbastanza ovale da far intendere un’età che forse l’altezza lascerebbe a desiderare.
 
Il suo nome era Cassya Reigo, dal Distretto 11. Shaileen l’aveva oltrepassata perché troppo minuta.
 
— Ops, perdonami, non ti avevo vista!— si scusò. Cassya scrollò le spalle.
 
La ragazza s’avvicinò al banco, senza prestare troppa attenzione all’omino degli occhiali, prese a individuare pianta dopo pianta nel test di preparazione.
 
Shaileen rimase particolarmente stupita. D’altro canto, pensò, Cassya proveniva dall’11, Agricoltura.
 
Quando venne il suo turno, non seppe proprio come muoversi tra nomi, foglie, bacche e rami.
 
L’omino occhialuto provò e riprovò a spiegarle come individuare le giuste sfumature di verde, il pericoloso blu scuro di bacche velenose, il luccicante cremisi di frutta buona. Niente da fare.
 
Dopo quindici minuti buoni di tentativi a vuoto, Cassya scoppiò. Quella ragazza profanava l’arte agricola e l’omino occhialuto non ci sapeva proprio fare.
 
Così, si mise lei stessa ad insegnare. E Shaileen trovò finalmente un metodo per imparare i fondamenti del mestiere.
 
Tra una bacca e un rametto scappò pure qualche battutina simpatica. Avevano entrambe diciassette anni, due caratteri complementari e una grandissima voglia di vivere.
 
E forse non erano più così sole.
 
Dall’altra parte della sala, Carol Todd si esercitava un po’ con i nodi.
 
Era un asso tra coltelli, lance e risse. E sapeva nascondersi davvero bene.
 
Però non era poi così ferrata con i nodi. Veniva dal Distretto 10, allevamento, conosceva tecniche all’avanguardia come l’ingegneria genetica, aveva avuto abbastanza tempo per squagliare carcasse ed esercitarsi, ma poco per annodare cavi.
 
Carol voleva imparare il più possibile. Doveva uscire dall’Arena per Tom, suo fratello, ucciso in un’edizione passata degli Hunger Games. Lui l’aveva addestrata. Lei ce l’avrebbe fatta.
 
Sfiorò con l’indice un braccialetto, indossato a suo tempo da Tom. Le ricordava chi era, cosa doveva fare.
 
A furia di fare nodi non intercettò subito lo sguardo interessato di un altro tributo, e quando se ne accorse finse di non prestarci la giusta attenzione. Era Cassian Brownleaf, suo compagno di Distretto.
 
Lui conosceva lei e lei conosceva lui, anche se solo di fama. Erano entrambi famosi per le loro doti manipolatrici. Lui forse era più discreto, un po’ introverso; lei era bella, di una bellezza dolce, e tanto bastava.
 
Cassian forse non apprezzava troppo questa parte di sé, ma riteneva utile il poter manipolare l’Arena. Forse non era il più forte dei tributi, o il più preparato, ma sarebbe sopravvissuto, supportato da nuove e invincibili invenzioni. Qualsiasi cosa nell’arena sarebbe potuta diventare una trappola.
 
Così stava lì a guardare Carol armeggiare lacci di corda, e pensava: pensava che se non c’era da fidarsi di un visino tanto dolce come quello della sua compagna, allora non ci si poteva fidare di niente e di nessuno.
 
Le sue occhiate insistenti, però, avevano iniziato a insospettire qualcuno, e questo qualcuno era Bryan Gregory, distretto 7. Un ragazzo bello, sicuramente, sensuale, alto e muscoloso.
 
Un ragazzo che aveva già strappato qualche bell’occhiata tra i tributi femminili.
 
Beh, si potevano dire tante cose di Bryan, ma non era possibile criticarne il sorriso. Bryan aveva un sorriso fantastico.
 
Così, col suo sorriso a illuminargli il volto, raggiunse il povero Cassian alla postazione “asce”, dove il tributo cercava di imparare qualcosa di utile.
 
— Stavi guardando la ragazzina? — chiese, ammaliante, mentre raccattava un’arma — È proprio carina.
 
— Sì, è carina, ma mai fidarsi del suo bel faccino. Una sua parola e casca il mondo.
 
Bryan rimase due secondi così, fermo. Sapeva di avere un certo talento per il doppiogiochismo e aveva una vaga idea di cosa volesse dire “manipolare”. Qualcosa, nel suo stomaco, gli ficcò il dubbio che forse Cassian non stesse propriamente cercando di metterlo in guardia.
 
— Perché, sei interessato a lei?— continuò il ragazzo del 10.
 
Bryan rise. Non era un donnaiolo, per quanto molte ragazze nel suo distretto finissero inevitabilmente con l’andargli dietro. No, Bryan non era quel tipo di ragazzo. Era bello, spontaneo e divertente. Un po’ doppiogiochista, da guardare con diffidenza. Peccato che pochi riuscissero ad ignorarne il sorriso.
 
Bryan sollevò l’ascia per poi scagliarla prepotente contro un paio di manichini, i quali si ritrovarono privati di teste e spalle.
 
Cassian, che non se l’aspettava, spalancò poco elegantemente la bocca.
 
— Allora non sei solo muscoli e sorrisi.
 
E mentre Bryan rideva di quest’affermazione, un terzo paio d’occhi s’aggiunse al duo. Erano quelli verdi smeraldini di Luke Rockford, favorito del Distretto 4.
 
Se ne stava per conto suo, tra spade e spadine. Era rimasto fastidiosamente colpito dal tiro di Bryan. Non che lui avesse mai avuto troppa dimestichezza con asce e roba varia, ma le lame erano territorio tipico dei favoriti. Pensò che forse anche Bryan – come lui e l’allegra compagnia – aveva avuto modo di allenarsi in vista dell’evento.
 
Luke era il mago delle spade e certo non si sarebbe fatto problemi nel momento in cui la sua preziosa lama avesse avuto modo di perforare qualche gabbia toracica.
 
Luke era quel genere di favorito senz’anima, cruento, ingannevole. Era un tipo solitario, scontroso, non troppo incline a stringere amicizie.
 
Luke era quel genere d’avversario che t’augureresti di non dover mai affrontare.
 
E, in quel momento, Luke stava guardando Bryan: aveva già individuato la sua primissima vittima.
 
— Quest’anno il gruppo di favoriti viene ridotto a cinque. — fece in un sussurro Ivy Moon, dal Distretto 1, nel sistemarsi distrattamente la coda.
 
— Che intendi dire?— rispose la ragazza del 2, Miranda. Erano entrambe uscite volontarie dall’estrazione. Per Ivy, poi, era stata una lotta: quell’anno dovette giocarsela contro quattro ragazze.
 
— La ragazza del 4, come si chiama…Yvonne. Beh, non si è allenata, non vuole combattere, è tutto fuorché cattiva o quantomeno disposta a uccidere freddamente il proprio avversario.
 
Miranda scrollò le spalle. Era contenta che almeno questa Yvonne ne fosse fuori. Aveva sicuramente vissuto anni felici e spensierati, lontana da stressanti allenamenti e odiosi insegnati.
 
Per lei, invece, le cose sembravano non andare troppo bene. Un tempo era stata tanto allegra, solare, felice! Prima d’essere mandata nell’Accademia di preparazione agli Hunger Games, dove aveva avuto modo di approfondire la sua predisposizione per l’omicidio.
 
Miranda era ancora allegra, ancora dolce, forse, ma il peso delle morti gravava prepotente, mentre qualcosa, nel suo stomaco, si ribellava.
 
Adesso era più solitaria, più scontrosa, un po’ stravagante, senza guastare. Le dicevano che era strana, ma Miranda amava essere considerata “diversa”: era un tipo particolare.
 
Avrebbe potuto farcela, forse, anche se forse sarebbe stato meglio per lei non offrirsi volontaria. Perché si rendeva conto che, nonostante tutto, uccidere non portava piacere.
 
Quindi apprezzava questa Yvonne, davvero, l’apprezzava.
 
Al contrario, Ivy non ci vedeva niente di così grandioso nella decisione di Yvonne. Non che sentisse d’aver bisogno di tanti alleati, sia chiaro. Al contrario, troppe persone finivano col sfiancarla, e poi diffidava della gente, sempre. Era una ragazza piuttosto guardinga.
 
Non che gli altri si sentissero sempre ben disposti nei suoi confronti. Era scontrosa ed esageratamente diretta, tanto da risultare pure vagamente antipatica, quando ci si metteva.
 
— Yvonne è la ragazza bassetta che sta prendendo a pugni quel manichino?— chiese Miranda.
 
Ivy volse lenta lo sguardo.
 
Sì, quella era Yvonne. La favorita- non favorita.
 
— Però, a me sembra brava.— continuò Miranda. Difatti Yvonne stava sì prendendo a pugni il manichino, ma adoperando tecniche sconosciute, esotiche. Ivy ricordava d’averne sentito parlare al centro d’Addestramento, si trattava di arti marziali, tecniche in voga ben prima della nascita di Panem.
 
— Forse non sarebbe così male, come favorita.
 
Yvonne aveva imparato quel che sapeva dal nonno, molto tempo prima. Non capiva ancora come facesse il vecchio ad aver appreso tante mosse d’arti marziali, ma poco importava.
 
Aveva passato la sua vita lavorando il doppio per lasciar libero suo nonno di riposare. Le ci era voluta una gran dose d’astuzia e prontezza mentale per ingannare così Capitol City, mentre adesso, se non fosse tornata, suo nonno si sarebbe ritrovato in guai seri. Lei doveva tornare. Lo doveva a quel magnifico uomo che per anni s’era preso cura di lei. Forse non era la più pronta tra i tributi e certamente avrebbe faticato un mondo contro qualcuno dei favoriti, ma Yvonne non avrebbe ceduto. Mai.
 
Saltò in aria ancora una volta, afferrando il manichino per un braccio, stringendolo e crollando così a terra. Aveva tanti motivi per tornare indietro. Sarebbe tornata.
 
Gaison Humphry, Distretto 2. Uno dei super-favoriti per la quarantottesima edizione.
 
Stava lì a lanciare lance, distrattamente. Tanto andavano tutte e segno.
 
Per lui era quasi una noia: anni e anni passati con l’allenarsi per gli Hunger Games davano una certa sensazione di routine a tutto ciò.
 
Comunque, lancia dopo lancia, presto finì col perdere la pazienza. Avrebbe preferito fare qualcosa di nuovo, qualcosa per cui magari non si sentiva troppo ferrato.
 
Il suo mentore era stato chiaro: dare bella mostra di sé.
 
Venne però fortunatamente distratto dal grido di Luke Rockford.
 
— Chiedimi subito scusa, razza di mostriciattolo! — stava urlando.
 
Eleuthera Libs, dal Distretto 5, era la vittima di tanta ira. L’unico tributo dodicenne dell’intera edizione.
 
— Perché dovrei chiederti scusa?— domandò, impudente, lei.
 
Luke si spazientì, afferrando la bambina direttamente per il colletto.
 
— Senti, piccola…
 
— Che stai facendo, non conosci le regole? Le risse prima dell’inizio dei giochi sono vietate!— lo riprese Gaison.
 
Sapeva che forse sarebbe stato meglio tacere. Non era conveniente schierarsi contro un proprio alleato, in particolar modo non era conveniente schierarsi contro l’irascibile Luke.
 
Però Gaison era così, aveva l’anima del cavaliere. Nemmeno la migliore delle sue “maschere” sarebbe riuscita a eliminare totalmente questa parte di sé.
 
Luke lo guardò storto un paio di secondi, poi lasciò perdere Eleuthera.
 
— Noi due ci ritroviamo nell’Arena— la salutò così, allontanandosi.
 
Gaison si perse nel fissare la bambina. C’era qualcosa, tra gli occhi grigi e i corti capelli scuri, a ricordargli terribilmente sua sorella.
 
— Che hai da fissare?— chiese, sistemandosi meglio la maglietta.
 
Gaison scrollò le spalle — mi chiedevo cosa avessi potuto fare per spazientire così Luke.
 
Eleuthera sorrise, un pochino.
 
— Mi aveva fregato distrattamente il coltello. Così gli ho detto “bestione, è maleducazione!”.
 
Gaison spalancò di poco gli occhi. Ci voleva coraggio, sicuro.
 
— Sei stata molto avventata.
 
— Lo ammetto, sono una persona impulsiva, poi però mi pento sempre.
 
Gaison, spinto da uno spirito cavalleresco, avrebbe preferito star vicino alla piccola Eleuthera e salvare la bambina da quest’istinto pericoloso. Il suo posto, comunque, era tra i favoriti.
 
Così si allontanò, senza nemmeno salutare.
 
Eleuthera rimase stupita da tanta freddezza, non che le importasse davvero, certo.
 
Era una ragazzina volenterosa, forte nella sua debolezza. Da quando sua madre era diventata paralitica, dovette rimboccarsi le mani e lavorare come elettricista porta-a-porta.
 
Non aveva davvero bisogno di nessuno, figurarsi se poteva rimanere male per un po’ di freddezza!
 
Dall’altra parte della sala, ignara di quanto stesse succedendo, a esercitarsi c’era Jude Wright.
 
Jude era una ragazza in gamba, sicuramente. Veniva dal Distretto 9, frumento.
 
Era forse leggermente robusta, ma bella, specie per i fluenti capelli biondo cenere e i profondi occhi verdi.
 
Si stava esercitando col lancio dei coltelli, sua specialità. Infilzava un manichino dopo l’altro, sorretta da due occhi glaciali, freddi e impenetrabili.
 
Elaine si domandava come potesse una persona essere tanto gelida. Lei, tributo del Distretto 7, era fondamentalmente allegra e solare. Ma Jude! Jude era tutt’altra storia.
 
Elaine non poteva certo sapere cosa fosse successo, tanto tempo prima, alla sorellina di Jude. In seguito alla sua morte la ragazza cambiò inevitabilmente.
 
Adesso Jude aveva un solo obbiettivo: tornare a casa, in onore di sua sorella, portare sua madre al villaggio dei vincitori, nella speranza che qualche volenteroso dottore si decidesse a curarla.
 
Elaine non poteva sapere tutto questo. Ricordava solo di aver riconosciuto Jude alla mititura.
 
Così decise di lasciar stare la ragazza, per concentrarsi al meglio su un’abilità che non sapesse ancora padroneggiare adeguatamente.
 
Per esempio, Elaine non era troppo ferrata per il tiro con l’arco. Non aveva mai avuto modo di lanciare mezza freccia.
 
Così s’avvicinò alla postazione, scelse la prima arma che le capitò a tiro e, sotto consiglio dell’allenatore, scagliò la prima freccia. Sbagliando clamorosamente.
 
Tentò una volta, due volte, tre volte, alla quarta ci andò vicino, alla quinta di nuovo niente.
 
Sbuffava ogni tre per due, spazientita. Non che le servisse davvero, comunque.
 
Elaine era forte in altre cose, come il lancio dei pugnali, scatti veloci, tecniche di sopravvivenza e lotte corpo a corpo. Però non sapeva tirare con l’arco.
 
— Oh, ma tanto nemmeno lo troverò mai, un arco!— affermò.
 
L’istruttore, un ragazzo simpatico, verdognolo e rovinato da spaventosi tatuaggi, ridacchiò.
 
— Non si sa mai, forse ci saranno solo e unicamente archi.
 
Elaine sorrise.
 
— Guarda, conoscendo la mia fortuna! Non solo ci saranno solo archi, ma le frecce dovrò costruirmele da sola!
 
Risero un po’, insieme.
 
La sua attenzione venne però catturata da un altro tributo, impacciato quanto poteva esserlo lei.
 
Non sapeva che il ragazzo in questione era il tributo del Distretto 9, Sam Dickson.
 
Sam non era quel genere di ragazzo nato per gli Hunger Games. Sapeva riconoscere alcune piante, ma per il resto…
 
Forse se la sapeva destreggiare un po’ su tutto. O semplicemente non gliene riusciva una.
 
Sam era un ragazzo segnato dal dolore di una vita difficile, privo di una madre e con un fratello costretto alla sedia a rotelle. Forse se la cavava meglio di altri, grazie comunque a una certa disponibilità economica.
 
Provava e riprovava a mettere bene quella maledetta freccia, senza successo, allora, preso dall’isteria, abbandonò lì l’arco e si allontanò, sotto lo sguardo stupito di Elaine e quello indifferente di un altro tributo, Liach Myrhall. Distretto 8.
 
A Liach non importava davvero cosa avesse spinto Sam ad allontanarsi così, rabbioso.
 
Era un ragazzo cresciuto nell’indifferenza di chi lo circondava, lasciato sempre un po’ da parte. A casa c’erano altri problemi, la malattia della piccola sorellina Anisha, per esempio, la scarsezza di denaro, i sadici Pacificatori.
 
Quindi, alla fin fine, cosa poteva davvero importagli se uno dei suoi avversarsi peccava d’impazienza e isterismo?
 
Si sistemò meglio i lacci delle scarpe, fece scrocchiare le ossa della schiena e, con uno scatto deciso, prese a correre in giro per la sala. Liach amava correre, sapeva d’essere veloce, non aveva forse troppe doti per vincere gli Hunger Games, ma fintanto che nessuno fosse riuscito a prenderlo, Liach non sarebbe potuto morire, giusto?
 
E poteva arrangiarsi col cibo: alcune piante le conosceva.
 
Correva così intorno alla sala, superando Cassya e Shaileen, e domandandosi quando quelle due avessero iniziato a conoscersi davvero.
 
Correva mettendoci l’anima.
 
Dopo due giri di campo, però, iniziò a sentire quel ritmato tic-toc di passi in corsa, passi leggeri, più leggeri dei suoi, passi sicuri. Volse di poco lo sguardo incrociando gli occhi scuri di Theia Johnson, del 6.
 
Come una lince Theia lo oltrepassò in corsa e Liach fu costretto a frenare. Pensava che forse nell’Arena avrebbe avuto a che vedersela con nuovi e temibili corridori.
 
Però ricordava di lei dalla Mietitura: era carina, forse, non propriamente bella, a colpire erano gli occhi, colmi di un’antica saggezza.
 
Theia frenò la sua corsa dopo poche centinaia di metri. Non voleva affaticarsi, né tantomeno mostrare ad altri tributi quanto scarsa fosse in resistenza.
 
Si diresse verso la postazione delle piante. Ci sapeva fare, senza dubbio, riconosceva abilmente una foglia dopo l’altra.
 
— Sei Theia, vero?— sentì qualcuno chiedere. Volse di scatto il capo scontrando il proprio sguardo con quello di un ragazzino un po’ sfigato, dall’aria sbandata. Aveva dei begli occhi, però: verdi, smeraldini.
 
— Mi conosci? — Ti ho visto alla Mietitura, tu…mi ricordi molto una persona.
 
— Chi?
 
Il ragazzo scrollò le spalle. — Una ragazza. Siete molto simili. D’aspetto, almeno.
 
Theia sorrise timida, chinando un po’ il capo.
 
— E tu chi saresti? — Mi chiamo Noah, vengo dal Distretto 3.
 
Theia dovette ammettere di non ricordare proprio chi fosse, Noah. Passava forse un po’ troppo inosservato.
 
Lo guardava armeggiare con un paio di rametti. Non sembrava volerli catalogare, intrecciava foglie e tagliava via bacche.
 
— Non mi vuoi dire chi era questa ragazza?— chiese, pentendosene un attimo dopo. Theia era una persona essenzialmente solitaria, o guardinga, come dir si voglia. Non dava troppe confidenze a sconosciuti e potenziali rivali.
 
— Si chiama Camille, le voglio molto bene.— e dopo aver detto ciò abbandonò la postazione. Senza una parola, senza una spiegazione, corse via. Theia lo vide arrampicarsi agilmente su per una partica.
 
Tornando a catalogare piante toccò distratta i rametti di Noah, scoprendoli abilmente intrecciati tra loro. Fissò ammirata la strabiliante creazione del ragazzo: era un elicottero, di quelli sui libri di storia, con tanto di elica girabile.
 
Allora Theia pensò che sotto quell’aria da sfigato forse si celava un avversario temibile quanto o più di molti altri.
 
Alwyn Bennett, dal Distretto 11, stava sotto la pertica di Noah. Non l’aveva notato, forse, o forse nemmeno gli interessava. Stava facendo flessioni lungo una barra di metallo. Sapeva di essere piuttosto agile, frutto d’anni d’addestramento.
 
Alwyn pensava d’essere anche abbastanza forte, grazie comunque a tutto il lavoro portato avanti fin dalla più tenera età.
 
Di colpo, la sua attenzione venne colta da un ragazzo, neanche troppo lontano, con la schiena appoggiata contro la fredda parete. Stava lisciando distrattamente un coltello.
 
Era Gore Mason, del Distretto 12.
 
Di solito da quelle parti non c’erano dei gran combattenti, ma quel Gore aveva un che di potente, nello sguardo. Era distante, indifferente.
 
E fu proprio con indifferenza che, d’improvviso, scagliò fulmineo il coltello contro uno dei manichini, piantandosi a pochi centimetri dal cuore.
 
Alwyn si bloccò d’improvviso.
 
I veri avversari sono quelli che non t’aspetteresti mai.
 
— Ciao Gore — Alwyn spalancò di scatto gli occhi.
 
Gore Mason, il forte e potente Gore, venne affiancato da una ragazzina piccola d’altezza.
 
Portava i capelli biondi, tanto rari tra i tributi del 12, e due splendidi occhi azzurri.
 
Era Sara Tompson, di quindici anni.
 
Gore alzò seccato un sopracciglio.
 
— Bel tiro— si complimentò, rigirandosi tra le mani un paio di cavi.
 
Gore continuava a non rispondere.
 
La ragazza, certamente non scoraggiata dall’indifferenza del tributo, continuava a sorridere.
 
Aveva uno sguardo intelligente, pronto.
 
— Che c’è, non parli? — Non ho niente da dire.
 
La ragazzina sbuffò, stizzita.
 
— Ti ho detto che hai fatto un bel tiro, potevi almeno ringraziare.
 
Gore, per tutta risposta, scrollò le spalle.
 
— Scusa ragazzina, ma ho altro da fare.
 
Sara scosse il capo. Essendo, i due, compagni di Distretto, Alwyn pensò che forse avevano già avuto modo di parlare. Non doveva essere poi così strano. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a collegare tra loro quei due tributi.
 
Si avvicinò lentamente alla ragazza, non davvero spinto dall’intenzione di parlare con lei.
 
Quando però se la ritrovò a pochi centimetri di distanza non riuscì a trattenere il commento.
 
— Non mi sembra davvero un ragazzo così amorevole e disponibile.
 
— Chi, Gore? È vero, sembra sempre tanto distante, ma poi è lo stesso ragazzo che si prende cura della propria sorellina come se fosse la cosa più preziosa del mondo.
 
Collegare quel pezzo di marmo ad un fratello gentile e amorevole fece sorridere Alwyn.
 
—Non si direbbe proprio.
 
E anche Sara sorrise, un po’ maligna, forse.
 
— Hai ragione, non si direbbe proprio.— e così si allontanò, veloce, su per una pertica.
 
Alwyn fissò stupito il punto in cui la ragazza era scomparsa.
 
Sovrappensiero fece distratto un passo indietro, calpestando erroneamente il laccio che Sara aveva fatto scivolare a terra.
 
Il suo piede venne rapidamente stretto in una morsa, quando scattante la fune si tese trascinandolo a terra.
 
Con un rapido movimento del busto – frutto di un allenamento sicuro e costante – Alwyn riuscì a liberarsi prima di finire spiaccicato contro la parete.
 
Stupito corse a ricercare lo sguardo di Sara.
 
I veri avversari sono quelli che non t’aspetteresti mai.
 
Kylar Tarsh era dotato di un’ incredibile memoria fotografica.
Vedeva una cosa e subito se la ricordava. Quindi era inutile cercare di dimenticare: si sarebbe ricordato a vita dei continui fallimenti tra spade e spadine. A mala pena riusciva a sollevarli! E poi la cicatrice al polso non permetteva nemmeno ampi movimenti.
 
Era assodato: Kylar Tarsh non ci sapeva proprio fare, con le spade.
 
I suoi continui fallimenti erano stati però tenuti d’occhio da un’altra persona, un tributo femmina piuttosto carina, alta, castana e illuminata da splendenti occhi azzurri.
 
— Non sei proprio bravo, sai?— e dotata di un’incredibile delicatezza, senza dubbio.
 
Kylar, solitario per natura, sollevò seccato il sopracciglio.
 
Emma Wilkinson, la ragazza del tre, stava lì a rigirarsi un coltello tra le mani. Seccata, aveva notato che quell’anno molti tributi sembravano particolarmente portati per le lame.
 
Kylar no. Kylar aveva altre specialità.
 
Sorrise anche nel notare che il ragazzo non sembrava intenzionato a rispondere.
 
D’altro canto, Kylar aveva imparato che meno si parlava meglio era.
 
— Che c’è, ti hanno mozzato la lingua?
 
Kylar continuava a mantenere un ostinato silenzio. Cercava di muovere la lama come prima il suo istruttore s’era premurato di mostrargli.
 
— Sei il compagno di distretto di Theia Johnson, vero? L’ho vista correre prima, e ho una domanda. Cosa sai dirmi di lei?
 
— Perché t’interessa?— Emma scosse le spalle.
 
— Non c’è un motivo. Sembra interessante, però.
 
Kylar alzò le spalle, tornando a ignorare bellamente la ragazza.
 
Emma guardò seccata il tributo.
 
Dal nulla comparve un nuovo ragazzo. Emma ricordava di lui dalla Mietitura: era il favorito dell’1, Larev.
 
Il ragazzo prese rapido una spada e iniziò a muoversi sulla pedana con destrezza disarmante.
 
Kylar sembrava totalmente indifferente al nuovo tributo, quando in realtà rodeva dentro.
 
— Non vedi che c’è già qualcuno, qua?— domandò seccata Emma.
 
Larev fissò stupito la ragazza.
 
— E con ciò?
 
— Dovresti aspettare il tuo turno.— Larev scosse il capo e fece come se niente fosse, tirando fendenti all’aria.
 
— Dì qualcosa, non vedi che quel bastardo ti sta ruban…— disse Emma rivolta a Kylar, che però non era già più lì.
 
Si stava allontanando verso una postazione in cui magari sarebbe riuscito meglio.
 
Emma sospirò rassegnata. Certa gente era troppo solitaria per i suoi gusti.
 
Un altro grande solitario era Rhys Jones, il ragazzo del 5.
 
Emma aveva provato più e più volte a interagire con lui, nella muta speranza di stringerci una solida alleanza. Per quel che aveva visto, Rhys sembrava avere tutte le carte in regola per vincere.
 
Era un abilissimo corridore.
 
Dotato di un’incredibile intelligenza.
 
Sapeva distinguere tutti i tipi di erbe.
 
Fantastico tra le lame dei coltelli.
 
Insomma, uno che avrebbe potuto farcela davvero. Solo che se ne stava sempre per conto suo, lontano.
 
I suoi occhi sembravano illuminarsi solo nelle vicinanze di Eleuthera, amica della sua sorellina.
 
Rhys, nella sua freddezza, fece rapido un giro della sala.
 
Vide Cassya e Shaileen porre i fondamenti per una buona alleanza.
 
Luke fissare determinato Bryan, che fissava stupito Cassian, che fissava pensieroso Carol.
 
Ivy e Miranda allenarsi tra i coltelli e Yvonne, lontana, dare sfoggio delle proprie qualità.
 
Vide Gaison lanciare occhiate sfuggenti alla piccola Eleuthera.
 
Jude allenarsi ed Elaine riuscire, finalmente, nel tiro con l’arco.
 
Sam tentare di annodare cavi, Liach correre su e giù per la sala.
 
Theia far roteare bastoni, Noah giocare con gli esplosivi.
 
Alwyn massaggiarsi stupito una gamba, fulminando iracondo Sara, che invece sembrava completamente assorbita da Gore.
 
Kylar allontanarsi dalla pedana su cui Emma e Larev sembravano litigare.
 
E mentre vedeva tutto ciò pensava che come primo giorno non era andata per niente male.
 
Almeno non era morto nessuno. Ancora.
 
  



Capitolo due, Buona fortuna.
 

Caesar guardò nuovamente il suo riflesso nello specchio, aggiustandosi per l'ultima volta quegli stravaganti capelli verde mela. Il primo anno aveva deciso di osare con i colori, per fare in modo che la gente si ricordasse di lui. Infatti tutti parlarono per mesi di Caesar Flickerman, il nuovo presentatore degli Hunger Games con un look fresco e stravagante. Poi però, fu costretto a cambiare il suo colore ogni anno, perché gli abitanti di Capitol City volevano essere stupiti, non amavano la monotonia.
Insomma, si era ritrovato ad essere mai uguale a sé stesso per quato riguardava i colori,  ma allo stesso tempo tutti volevano che il suo aspetto non variasse mai, perché le rughe non erano indice di successo. Così, da quindici anni a quella parte, ogni volta che si guardava allo specchio la sera delle interviste vedeva un uomo che gli somigliava, ma che non era realmente quello che aveva sbaragliato la concorrenza aggiudicandosi il ruolo di presentatore anni addietro.
Caesar sospirò, e lasciò che una giovane donna del suo staff di preparatori gli applicasse sulle labbra un rossetto in tinta con i capelli verdeggianti. Se non altro era conosciuto in tutta Panem e, ad essere sinceri, conciarsi in quel modo gli sembrava un prezzo equo da pagare per la sua popolarità. Fin da piccolo aveva desiderato farsi conoscere, non voleva passare la sua vita nell'ombra come il resto della sua famiglia. E quale modo migliore per mettersi in luce che diventare il presentatore degli Hunger Games? Quei giochi erano guardati dagli spettatori di tutto il paese, volenti o nolenti. Ovunque sarebbe andato le persone lo avrebbero riconosciuto e indicato, guardandolo con ammirazione.
Ed in un certo senso era riuscito a realizzare i suoi sogni. Certo, era riconosciuto da tutti, ma non sempre ammirato. Dopo anni e anni passati ad interagire con i tributi e con i loro mentori, aveva capito che molti lo consideravano un burattino nelle mani di Capitol City, e in passato alcuni concorrenti non erano nemmeno impegnati troppo nel nascondere la riluttanza che nutrivano nei suoi confronti. Ma non forse ragione?
Insomma, persino lui dopo un po' aveva smesso di amare il suo lavoro. Perché c'era una grande differenza tra il vedere un uomo in televisione che intervistava i tributi, e il parlare personalmente con loro. Ad alcuni si affezionava addirittura, nonostante avesse modo di interagire con loro solo per pochi minuti. E poi erano tutti così giovani, troppo giovani, per morire. L'unica cosa che poteva fare era cercare di metterli in luce in tutti i modi con le parole, l'unico mezzo a sua disposizione. Provava a renderli simpatici o interessanti agli occhi delli sponsor, in modo tale da facilitargli la vita una volta nell'arena. Ma era tutto inutile, perchè sapeva benissimo che dei ventiquattro bambini che intervistava, solo uno sarebbe tornato vincitore e si sarebbe seduto nuovamente su quella poltrona. E non sarebbe più stato un bambino.
-Tra cinque minuti in onda!- disse una donna vestita di tutto punto, bussando alla porta di Caesar. Lui sospirò, dopodiché si guardò un ultima volta allo specchio e sfoderò il sorriso più brillante e convincente che possedesse.
Raggiunse i suoi assistenti, i quali gli spiegarono nuovamente da dove entrare e cosa dire, inoltre gli ripetettero i punteggi di tutti i ragazzi in gara quell'anno. Erano tutti così alti... Caesar pensò che il paese avrebbe nuovamente perso molti validi elementi, le cui capacità avrebbero potuto essere impiegate in altri modi.
La donna vestita di rosa ricomparve e, mentre gli appuntava un minuscolo microfono sul colletto della camicia, lo informò che era in momento di salire sul palco. Caesar sorrise nuovamente e accese il piccolo dispositivo, che avrebbe amplificato la sua voce portandola nelle case degli abitanti di tutta Panem.
Prese un respiro profondo e si avviò sul palco a passo sicuro, accompagnato dall'esperienza di chi calca la scena ormai da anni. Venne accolto dalle urla e gli applausi del pubblico in sala, che da più di un anno non aspettava altro che l'inizio di questi giochi. Era curioso il modo in cui gli abitanti della capitale dipendessero dai distretti non solo per  i beni che gli fornivano, ma anche per i tributi designati che venivano inviati annualmente a Capitol City per prendere parte agli Hunger Games.
Salutò animatamente tutti gli spettatori, e si concesse anche qualche battuta per scaldarli e prepararli all'ingresso dei favoriti, da sempre i più acclamati.
Pronunciò come al solito un discorso sull'importanza degli Hunger Games, accompagnato da un filmato sui giorni bui, il quale veniva mostrato ogni anno. Sembrava quasi che gli organizzatori dei giochi temessero una presa di coscienza da parte del pubblico, infatti continuavano a mandare in onda quel filmato con il solo scopo di far accrescere il senso di superiorità degli abitanti di Capitol City nei confronti dei distretti.
A video concluso, Caesar poté finalmente iniziare con le interviste, ed il pubblico esplose nuovamente in un boato. Si avvicinò alle due poltrone al centro del palco poste l'una difronte all'altra e chiamò la ragazza del distretto uno, Ivy Moon.
Lei si avviò svogliatamente verso la sua poltroncina e, dopo aver stretto la mano di Caesar senza entusiasmo, rivolse un breve cenno di saluto al pubblico, il quale sembrò notare solo la perfetta muscolatura della ragazza e non il suo comportamento irrispettoso. Dopo qualche breve scambio di convenevoli, il presentatore scoprì che la ragazza si era offerta volontaria, ma la cosa non lo stupì più di tanto: solitamente la maggior parte dei favoriti lo erano. Quell'anno ce n'erano di meno, ma si poteva comunque leggere nei loro occhi la determinazione e la voglia di vivere.
Per cercare di rendere la conversazione più interessante, fece notare al pubblico una piccola fedina d'argento posta al dito della ragazza, e le chiese se fosse fidanzata.
Lei arricciò le labbra e si studiò le dita affusolate, un po' infastidita dalla domanda. -Diciamo solo che tengo ad una persona, tutto qui.- Replicò freddamente, senza sforzarsi di mascherare la sua riluttanza a rispondere. Caesar tossí e poi riprese il controllo della situazione, abituato agli "ossi duri" come Ivy.
-E per quanto riguarda il tuo sette in addestramento? Mi è giunta voce che non eri troppo soddisfatta del giudizio degli strateghi.- Riprovò Caesar, cercando di mostrarsi dalla sua parte. La ragazza scrollò le spalle, indifferente. -Non credo che abbiano apprezzato troppo il fatto che non li abbia calcolati per la maggior parte del tempo. Ma non riuscivo a smettere di fissare il lavoro eccellente che i miei preparatori hanno fatto con le mie unghie- Un ghigno sprezzante fece capolino sul suo volto, e il pubblico riprese ad applaudire e a ridere mentre le telecamere inquadravano la perfetta manicure della ragazza. Caesar la congedò con un sorriso e chiamò sul palco il secondo tributo, il compagno di distretto di Ivy, un certo Larev.
-Dev'esserci un errore, perché sulla mia cartellina non è stato riportato il tuo cognome- Osservò l'uomo dopo qualche chiacchiera inutile sul vestito del ragazzo.
Lui scosse il capo.-Nessun errore, Caesar- rispose senza scomporsi. -Essendo cresciuto in un istituto non ho mai saputo il mio vero cognome.-
Alcune persone tra il pubblico sospirarono affrante, ma il presentatore capì che calcare su quell'aspetto della vita del ragazzo lo avrebbe messo in luce. -E non hai idea se ti rimanga qualche parente? Sei sempre stato solo?- domandò con fare paterno.
Larev si accigliò preparandosi a raccontare di sé. -No. Mia sorella è morta qualche anno fa in orfanotro per una malattia irreversibile, e da allora io sono tutto ciò che rimane della mia famiglia.-
Molti spettatori iniziarono a singhiozzare, altri manifestarono la loro ammirazione alla forza d'animo del ragazzo con fischi ed applausi.Curioso come gli abitanti della capitale si mostrassero sensibili alle storie dei ragazzi, e poi si dimenticassero di tutto in nome di un po' di sano divertimento. Il segnale acustico li informò che il tempo a disposizione del tributo era finito, e Caesar lo salutò dopo essersi congratulato per il suo nove in addestramento, frutto del suo talento con le spade.
Senza nemmeno aspettare di essere chiamata, Miranda Prisly del distretto due fece il suo ingresso, indossando un sorriso mozzafiato che sembrò incantare tutti, replicando il successo dei suoi capelli fiammeggianti durante la sfilata. Caesar le strinse la mano e lei si accomodò sulla poltroncina, entusiasta. Fece delle battute sui suoi capelli facendo ridere il pubblico, ma lei non sembrò mai offendersi. Anzi: replicava a tono lodando il colore capigliatura del presentatore e conquistò cosí tutti i presenti.
-Allora... Tu saresti la "tigre del due"-disse Caesar, girandosi verso il pubblico e imitando il fiero animale ringhiando e mostrando i denti. Miranda scoppiò a ridere, seguita a ruota dagli spettatori. -Così dicono- Replicò con un sorriso. -Credo che sia per il fatto che le lame dei miei coltelli sono affilate come gli artigli di una tigre-
-Quindi ecco svelato il tuo dieci in addestramento- disse l'uomo tirando le somme.
La ragazza annuì, tra gli applausi del pubblico. Caesar fece frusciare alcuni fogli della sua cartellina con le informazioni di tutti i tributi e si soffermò su un punto che gli sembrava interessante. -Noto che tua nonna ai suoi tempi vinse un edizione degli Hunger Games- Il pubblico si fece attento, e Miranda annuì vigorosamente. -Oh, è vero. Ma nonostante sia successo parecchi anni fa, lei non ha mai messo da parte la sua vittoria. Prima di andare a dormire mi raccontava della sua avventura, diciamo che sono cresciuta a pane ed Hunger Games.-
Il presentatore sorrise augurandole di replicare il successo della nonna, e la ragazza uscì soddisfatta accompagnata dalle grida del pubblico.
Poi fu il turno di Gaison Humpry, anch'egli del distretto due. Il ragazzo, uno dei tributi più acclamati, fu accolto da un boato, a cui rispose con un sorriso. Salutò Caesar e prese posto,  e i due aspettarono che le urla si spegnessero prima di iniziare a parlare. Inizialmente chiacchierarono del più e del meno, come sempre, poi il presentatore prese le redini della conversazione cercando di rendere il ragazzo ancora più brillante di quanto già non fosse.
-Allora Gaison, mi hanno detto che sei il figlio del sindaco del tuo distretto. Dev'essere una professione di grande responsabilità.- disse il presentatore con un sorriso. -Pensi che un giorno prenderai il suo posto?- domandò curioso.
L'idea di un vincitore sindaco di un distretto allettava molte persone, quindi se fosse uscito vivo dall'arena, non sarebbe stato un problema convincere chi di dovere a eleggerlo.
Gaison alzò un sopracciglio e fece una smorfia, quasi fosse disgustato dalla proposta. -Oh no, devo dire che non ne ho la benché minima intenzione. Sarei troppo... Sotto pressione, fare il sindaco non fa per me- rispose, cercando le parole adatte. -Sinceramente preferirei passare il resto della mia vita nel villaggio dei vincitori, magari con una bella ragazza- disse, ammiccando in direzione del pubblico. Molte delle signore in sala sospirarono, incantate dall'innegabile bellezza del tributo e gli uomini lo guardarono invidiosi, perché in caso di vittoria non avrebbe certo faticato a trovare una moglie. Caesar rise, divertito dalle reazioni del pubblico in sala. -E dicci, hai già un'idea di chi potrebbe essere questa ragazza?- chiese, avvicinandosi al ragazzo e fingendo di essere solo con lui. Lui si torturò le mani, in imbarazzo. Si vedeva che non ne aveva mai parlato con nessuno, ma Caesar non avrebbe ceduto tanto facilmente: sapeva benissimo che le storie d'amore frastagliate erano oro per gli abitanti annoiati della capitale. -Stai tranquillo, manterremo il segreto!- lo spronò facendogli l'occhiolino. Il pubblico e il ragazzo stesso risero, e finalmente Gaison si decise a parlare.
-In effetti una ragazza ci sarebbe... Ma non si è mai accorta di me, ed intendo vincere per lei-confessò con decisione. Dagli spettatori si levarono delle grida di incitamento, ma il segnale acustico interruppe bruscamente l'intervista. -Buona fortuna Gaison, dato il punteggio che hai ottenuto sono certo che non sarà difficile impressionare la tua futura moglie!- Scherzò l'uomo, congedandolo.
Gaison fu velocemente sostituito da Emma Wilkinson, la bellissima ragazza dagli occhi di cielo del distretto tre. Caesar la fece accomodare e si congratulò con lei per il suo costume della sfilata, il quale era praticamente "esploso" in una marea di scintille. Dopodiché si mise a spulciare la documentazione su ogni tributo contenuta nella sua pratica cartellina da presentatore e poi sorrise, individuando la pista giusta per la conversazione.
-Qui c'è scritto che tuo padre partecipò agli Hunger Games... Doveva essere molto giovane quando tua madre rimase incinta.-disse realmente dispiaciuto, con un tono molto comprensivo. Emma annuì tristemente. -Già. Io e mio fratello gemello dovevamo ancora nascere quando successe. Fu un duro colpo per nostra madre vedere il ragazzo di cui era innamorata morire in diretta tv a causa delle punture degli aghi inseguitori- Caesar fece qualche rapido calcolo e poi annuì, ricordando il tributo maschile di quell'edizione. Anche il pubblico sembrò ricordarsene, perché di fatto la sala fu percorsa da brevi mormorii e singhiozzi. Il padre di Emma era stato un tributo davvero promettente, molto amato dal pubblico. -Mi dispiace molto- si limitò a dire il presentatore, quasi pentito di aver toccato quel tasto dolente. -Non preoccuparti, è successo molti anni fa- rispose sbrigativa la ragazza, tentando di cancellare il suo momento di debolezza.
-Mi sembra di aver capito che anche tu, come tuo padre, abbia qualcuno da cui tornare. O sbaglio?-domandò Caesar alludendo a quel ragazzo che la aveva abbracciata alla mietitura, prima di lasciarla salire sul palco. La ragazza rise imbarazzata, mentre il pubblico inneggiava chiedendo i dettagli. -È solo il mio migliore amico- disse, cercando di giustificare la sua presenza. -Si, certo- le concesse il presentatore, facendo l'occhiolino al pubblico che iniziò a ridere e a tifare per la giovane innamorata, dimenticando per un attimo il suo quattro in addestramento. Emma arrossì, ma in realtà fu molto felice del fatto che l'uomo avesse trovato il modo per farla amare dal pubblico: fingendo di essere un incapace sperava di sorprendere i suoi nemici una volta nell'arena, ma sapeva benissimo che, così facendo, avrebbe allontanato tutti gli sponsor. Si alzò di scatto non appena sentì il "bip" che annunciava la fine della sua intervista, e salutò il pubblico con un rapido inchino, continuando ad ostentare la sua falsa timidezza.
Chi invece non si stava dimostrando affatto timido era Noah Garrison, il tributo maschile del distretto tre. Da quando era arrivato sul palco, non aveva fatto altro che parlare animatamente delle sue invenzioni e della singolare professione del padre, coinvolgendo il pubblico. -E così tuo padre è un inventore. Immagino che tu gli dia una mano, giusto? Mi sembri un ragazzo molto intelligente- disse Caesar, cercando di metterlo ancora più in mostra. Il ragazzo annuì. -Esattamente, più che altro lo aiuto a... Sperimentare le sue invenzioni- rivelò un po' incerto. Il presentatore pensò che probabilmente la cicatrice che spiccava sulla sua fronte fosse frutto di qualche esperimento fallito, ma preferì non parlarne non far prendere una piega drammatica alla conversazione. Così spostò la sua attenzione sulle mani del ragazzo, che torturavano un elastico per capelli di seta verde.
Caesar sorrise soddisfatto. -A quanto pare in questa edizione tutti hanno qualcuno da cui tornare, e tu non sei da meno- disse, cercando di nascondere l'amarezza. Chissà quanti cuori infranti ci sarebbero stati...
Il ragazzo arrossí, e sul suo viso comparve un sorriso da innamorato. -Si, ecco, io...- balbettò imbarazzato. Dal pubblico si levarono dei gridolini e delle risate, mentre aspettavano tutti una risposta. -Allora?- chiese l'uomo, ammiccando.
-In effetti una ragaza c'è-disse radioso. -Vogliamo il nome- lo spronò Caesar, con un tono che fece ridere gli spettatori e lo stesso Noah.
-Si chiama Camille, ed è una persona fantastica- In molti sospirarono, contenti del fatto che qual ragazzo così talentuoso, che aveva ottenuto un brillante nove in addestramento, avesse qualcuno da cui tornare.
Poi fu il turno di Yvonne Komova, la favorita con il punteggio più basso. Caesar decise di evitare di parlare del suo sei, e si concentrò invece su ciò che sapeva avrebbe potuto metterla in luce. -Mi è stato detto che durante l'addestramento hai spiazzato tutti gli aiutanti delle postazioni, nessuno sapeva dove collocarti tra i vari generi di lotta- rise il presentatore, contagiando il pubblico. Anche la ragazza sorrise orgogliosa, prima di dare spiegazioni a riguardo. -Già, ma alla fine ho trovato il modo di esercitarmi con dei manichini indifesi- disse ridacchiando. Caesar si fece attento, deciso a farsi rivelare i dettagli. -E dicci, come si chiama la tua tecnica di lotta?-
-Sono le arti marziali, me le insegnò mio nonno tempo fa per autodifesa, non avrei mai pensato che avrebbero potuto tornarmi utili nell'arena- spiegò sincera, con gli occhi un po' lucidi. L'uomo annuì. -Hai voglia di farci vedere qualcosa?- chiese, allegro.
Yvonne arricció le labbra indecisa, ma poi il presentatore si offrì da cavia per la sua dimostrazione... E lei non poté rifiutarsi. -Va bene Caesar, cercherò di non farti troppo male- disse alzandosi e facendo ridere il pubblico. Anche lui si alzò dalla sua poltrona, e si piazzò di fronte alla ragazza. Yvonne ringraziò mentalmente i suoi stilisti di averle fatto indossare dei pantaloni di raso e non un vestito, dopodiché si allontanò di qualche metro.
Decise di dare bella mostra di sé: fece un paio di salti mortali stupendo il pubblico e poi, dopo aver confuso il suo "nemico" con dei movimenti rapidi, gli afferrò un braccio e glielo immobilizzò dietro la schiena, stando attenta a non torcerlo troppo. Poi, sempre facendo leva sul braccio del presentatore, lo fece cadere in ginocchio, senza applicare la forza necessaria per fargli davvero male. Caesar si lasciò sfuggire un mugolio di sorpresa, e Yvonne rise aiutandolo ad alzarsi. Il pubblico era in delirio, strabiliato dall'agilità della ragazza, la quale si esibì in un paio di inchini. L'uomo applaudì piacevolmente sorpreso, e pensò che forse la femmina del distretto quattro, a dispetto del suo punteggio, non sarebbe stato un avversario poi così facile da abbattere.
 
-Buonasera Luke-disse Caesar salutando il compagno di distretto di Yvonne dopo che il pubblico si fu calmato. Lui fece un breve cenno con la testa, ricambiando il saluto ed eccitando visibilmente il pubblico. Ecco un altro simpaticone come la ragazza dell'uno, pensò Caesar. -So che tua madre vinse gli Hunger Games. Credi di avere tutte le carte in regola per replicare il suo successo?- domandò il presentatore dopo qualche tentativo di conversazione andato a vuoto: nonostante cercasse il tutti i modi di farlo parlare, lui si limitava a rispondere ad ogni domanda a monosillabi.
-Si, farò anche meglio-replicò un po' scocciato. Beh, se non altro ha detto quattro parole: stiamo facendo passi avanti, si consoló Caesar. L'uomo cercò di dargli un aspetto più "umano" e sensibile parlando del fratello, morto in una precedente edizione, ma il ragazzo si limitò a stringere i baccioli della sua poltroncina con forza, per scaricare la sua rabbia. -Lo vendicherò- disse dopo qualche secondo di silenzio.
Ma, nonostante il suo essere di poche parole, il pubblico era affascinato dalla freddezza di Luke Rockford, che si era aggiudicato un posto tra i super-favoriti grazie al suo punteggio.
Nemmeno la piccola Eleuthera Libs, la dodicenne del distretto cinque nonché il tributo più giovane dell'edizione, si dimostrò troppo socievole. Ma lei, se non altro, rispondeva alla domande di Caesar non solo a monosillabi, forse spinta dal suo mentore. Ogni volta che veniva interrogata, tendeva ad aggirare la domanda e a cambiare discorso, cercando di non rivelare mai troppo di se. Il presentatore pensò che quello fosse uno strano comportamento per una dodicenne, ma non poté fare a meno di affezionarsi alla piccola
Eleuthera. Così, per spingerla a rivelarsi un po', le chiese del suo punteggio.
-Non dovrebbe essere un segreto?-domandò lei con un finto tono di rimprovero che fece ridacchiare gli spettatori. -E a te non hanno insegnato che non si risponde ad una domanda con un'altra domanda, signorinella?- rispose lui con il suo stesso tono agitando l'indice nella sua direzione. Il pubblico e la ragazzina scoppiarono a ridere, divertiti dall'imitazione di Caesar. -Ma tu lo hai appena fatto!- lo accusò Eleuthera, incrementando l'euforia del pubblico. Il presentatore alzò le mani, in segno di resa. -Lo ammetto, mi hai colto con le mani nel sacco.-
Alla fine, poco prima di lasciare il palco, la ragazzina si decise a giustificare il suo sei, un punteggio di tutto rispetto per un tributo della sua età. -Potrei aver armeggiato con il quadro di controllo delle luci dell'intero centro di addestramento- disse, strascicando la voce sulla prima parola. Il pubblico rise e Eleuthera uscì tra gli applausi, mentre sul palco si preparava a salire Rhys Jones, il suo compagno di distretto. Erano diversissimi fisicamente: lei bassina e robusta, lui muscoloso e slanciato. Ma, dal punto di vista caratteriale, non si dimostrarono poi così diversi.
Dopo la morte dei genitori Rhys era diventato piuttosto freddo e distaccato, seppellendo il suo carattere solare sotto spessi strati di dolore e nostalgia. Però, nonostante la poca vivacità, il ragazzo era uno dei beniamini del pubblico per il suo bell'aspetto e il suo alto punteggio in addestramento. Caesar si congratulò con lui del nove ottenuto e poi passò alle domande, sperando di "scongelare" il giovane seduto di fronte a lui e, dopo qualche tentativo andato a vuoto, fece finalmente centro colpendolo dritto al cuore. -La bambina che hai salutato alla mietitura era tua sorella, immagino. Sembravi molto legato a lei, o sbaglio?- domandò con dolcezza. Rhys annuì, facendosi sfuggire un breve sorriso che compariva sul suo volto ogni volta che parlava della sorellina. -Nessuno sbaglio. Sarah ha undici anni e, assieme ai miei zii, è tutto ciò che rimane della mia famiglia- disse, cercando di non far trapelare altre emozioni. Caesar non riuscì a trattenere la domanda indiscreta che aveva sulla punta della lingua. -E i tuoi genitori sono...-
-morti tempo fa-concluse Rhys, cercando di portare la conversazione su altri binari. Il presentatore annuì dispiaciuto, poi lo stupì con una domanda insolita. -Hai un portafortuna?- disse dopo qualche secondo di silenzio, facendo sussultare il ragazzo. Rhys annuì e sbottonò i primi bottoncini della sua camicia, mostrando una collana con un piccolo amo dorato. -I miei genitori amavano pescare e mi hanno trasmesso la loro passione, questo amo apparteneva a mio padre.- spiegò, rigirandosi la collana tra le dita.
Alcuni spettatori sospirarono tristemente, pensando a quel ragazzo la cui infanzia era finita troppo presto. Il presentatore, felice di aver coinvolto il pubblico, congedò il tributo. -Buona fortuna Rhys, sicuramente grazie al tuo talento riuscirai a pescare molti sponsor!- Nonostante la battuta un po' fiacca, il pubblico rise ugualmente e il ragazzo uscì di scena, lasciando spazio al distretto sei.
 
Theia Johnson sedeva difronte a Caesar, cercando di abbattere la sua timidezza per convincere qualcuno a scommettere su di lei. E ci stava riuscendo: la sua determinazione aveva avuto la meglio sul desiderio di dare le spalle al pubblico e a fuggire da tutte quelle persone che sembravano lì unicamente per giudicarla.
Sapeva che la determinazione sarebbe stata la sua arma vincente: proveniendo da una comune famiglia del distretto sei, non aveva storie strappalacrime da raccontare, né poteva vantare di essere imparentata con un vincitore, e nemmeno contare su abilità fuori dal comune, come altri concorrenti. Però, quando Caesar le chiese perché avesse così tanta voglia di tornare a casa, diede una risposta che fece trapelare la sua vera personalità, quella che sapeva avrebbe catturato il pubblico.
-Ho sedici anni, Caesar, e non ho nemmeno iniziato a vivere la mia vita. Voglio tornare a casa, riabbracciare i miei genitori e morire anziana sul terrazzo della mia casa dei vincitori, solo allora potrò dire che ho veramente vissuto.-Parole di una ragazza innegabilmente intelligente, che si insinuarono nel cuore dei presenti. E loro? Nonostante non fossero più ragazzini, potevano davvero vantarsi di aver vissuto davvero? Theia lasciò il palco soddisfatta, contenta di essere riuscita a farsi notare, e lasciò il posto al suo compagno di distretto, Kylar Tarsh.
Un ragazzo piuttosto cupo, magro e ubbidiente, che rispondeva con sincerità ad ogni domanda gli venisse posta. Eppure, nonostante la disponibilità del ragazzo, Caesar non riusciva a trovare una crepa nella sua corazza, un qualcosa che permettesse al pubblico di vedere aldilà della sua personalità non brillante, plasmata da chissà quale trauma. Quando però gli chiese se avesse fratelli o sorelle, la voce di Kylar sembrò incrinarsi. -Mia sorella è morta durante i giochi di qualche anno fa- disse a fatica. -E mio fratello... Lui morì di cause naturali poco dopo- mentì il ragazzo, scatenando un'ondata singhiozzi tra il pubblico. Non poteva certo dire che era stato fucilato perché aveva protestato per l'estrazione della sorella il giorno della mietitura. Non in diretta nazionale, dove tutta Panem avrebbe potuto sentire. Non con la consapevolezza che se lo avesse fatto sarebbe stato punito, o peggio, avrebbero ucciso i suoi genitori.
Da quel fatidico giorno Kylar era sempre stato così: rispettava le regole, ubbidiva agli ordini dei pacificatori, lavorava sodo e parlava poco. Se anche lui fosse morto non ci sarebbe stato nessuno a tenere uniti i pezzi della sua famiglia, sgretolatasi dopo la morte dei suoi fratelli. Ed era per questo che Kylar voleva tornare a casa a tutti i costi, nonostante le sue abilità con le armi lasciassero parecchio a desiderare. Però, in compenso, era dotato di una memoria fotografica, che costituiva un grande vantaggio. Perché, anche se le immagini della morte dei suoi fratelli gli sarebbero rimaste marchiate a fuoco nella mente, la stessa cosa sarebbe successo ad ogni più piccolo dettaglio giudicato interessante dal ragazzo. Kylar lasciò il palco poco dopo, sperando che gli spettatori si sarebbero ricordati di lui nel caso si fosse trovato in difficoltà nell'arena. Lui, di certo, non li avrebbe dimenticati.
Dopo Kylar la ragazza del distretto sette, Elaine Evelyn, prese possesso del palcoscenico, incantando il pubblico con la sua bellezza e il suo carattere solare. Sembrava quasi illuminare il palco, con risate e battute che contagiavano il pubblico. Era difficile trovare una persona così socievole e allegra tra i tributi, perché molti si lasciavano divorare dalla tensione e dalla paura. Ma lei no: lei sapeva che quello sarebbe stato il suo punto di forza, voleva che qualcuno si accorgesse di lei, voleva riuscire a tornare a casa dalla madre e dai fratelli. La conversazione prese una piega più toccante quando Caesar le chiese cosa facesse nel tempo libero, e lei non esitò a rispondere.
-Faccio spesso volontariato in un orfanotrofio, vicino a casa mia. Gioco con loro, porto del cibo... Credo che tutti i bambini abbiano il diritto di crescere felici, anche se non hanno più i genitori-disse, facendo commuovere qualche spettatore.
Il presentatore sorrise. -E immagino che in caso di vittoria...-
-Si, devolverò buona parte della mia vincita all'orfanotrifio. Ho visto i vincitori del mio distretto: hanno più soldi di quanti ne possano gestire- concluse allegra. -Inoltre a me piace lavorare, non voglio passare il resto della vita con le mani in mano a godermi la mia ricchezza.- Il pubblico applaudì colpito, anche se nessuno di loro sembrò capire fino in fondo le parole di Elaine. Gli abitanti di Capitol City amavano condurre le loro esagerate e vuote, dove la cosa più eccitante era spettegolare degli altri o tatuarsi la fronte. Ma il tono della ragazza fu così convincete, così pieno di voglia di vivere, che non poterono trattenersi dal continuare a chiamare il suo nome anche quando si fu allontanata dal palco.
 
Ma a quanto pare, quell'anno, Elaine non era l'unico tributo esuberante per il distretto sette.
Si scoprì che Bryan Gregory, uno dei ragazzi più grandi, belli e preparati di quell'edizione, sapeva essere anche divertente, simpatico e affascinante. Dopo qualche battuta sulla bellezza del ragazzo e sul suo costume da albero della parata (che Bryan sembrò trovare molto divertenti), Caesar si decise a parlare di ragazze.
-Immagino che tu abbia una marea di ragazze che fanno la fila per uscire con te. Dico bene?-lo stuzzicò dandogli di gomito e facendo ridere il pubblico. Anche Bryan rise, divertito dal tono di voce del presentatore. -Beh... Può darsi- ammise il ragazzo, ridacchiando.-Ma per adesso preferisco concentrarmi sugli Hunger Games, e non vedo l'ora di mettere in atto anni di allenamenti- concluse sempre con il sorriso sulle labbra, tra gli applausi scroscianti del pubblico. L'uomo si congratulò con lui anche per il suo impressionante undici in addestramento, uno dei punteggi più elevati. -Mi sento pronto. Voglio tornare a casa e continuare a vivere, possibilmente dopo aver traslocato con i miei genitori nel villaggio dei vincitori.- Disse, mentre gli spettatori ruggivano di approvazione per il loro beniamino.
Bryan fu velocemente sostituito da Shaileen Turner, la ragazza del distretto otto con i capelli tanto ammirati dalle signore di Capitol City. Fece la sua entrata con un passo leggero, ma al contempo desiderosa di raggiungere il centro del palco per raccogliere gli applausi del pubblico.
-Ciao Shay. Posso chiamarti Shay?-domandò Caesar, euforico. La ragazza rise divertita.
-Certo, ma solo se io posso chiamarti Caes.-si impose Shaileen, facendo ridere il pubblico. Si dimostrò una ragazza molto aperta e solare, disposta a rispondere con il cuore ad ogni domanda. -Molti si staranno chiedendo il perché della colorazione dei tuoi capelli. Dicci, c'è una storia dietro oppure segui solo una moda particolare?- chiese il presentatore, e il pubblico si fece subito attento. La ragazza scosse la testa, e la sua voce si velò di tristezza. -Mia madre e mia sorella furono uccise molto tempo fa-
Dalla folla si levarono dei gridolini indignati e spaventati, accompagnati da un coro di singhiozzi. Shaileen li ignorò e proseguì il suo racconto, ma saltando a piè pari la parte centrale, quella che più avrebbe impressionato il pubblico. Suo padre era un inventore e, a quanto pareva, i suoi esperimenti iniziavano a dare fastidio a qualcuno. Così un giorno, rincasando, la ragazza e suo padre trovarono la sorellina e la madre di Shaileen al piano superiore. Morte. E, cosa più importante, una rosa bianca sul comodino.
La ragazza rabbrividì al ricordo, ma riprese il suo racconto dicendo che, anni dopo, aveva trovato una foto della madre sorridente con la faccia ricoperta di pittura, e da allora i colori avevano rappresentato la felicità. Il suo racconto fece commuovere molti spettatori e Caesar stesso, che la congedò con gli occhi lucidi. -In bocca al lupo, Shay!-
-Che crepi, Caes-aveva replicato Shaileen tristemente. Non aveva idea di come sarebbe sopravvissuta nell'arena, perché uccidere era sbagliato, lo sapeva. Per lei ogni vita era importante, e non intendeva macchiarsi con il sangue degli innocenti, come pretendeva Capitol City.
Liach Myrhall, invece, si rivelò di tutt'altra pasta. Rispondeva anche alle domande più superficiali controvoglia, non voleva aprirsi con il pubblico e non intendeva fornire spiegazioni riguardo al suo sette in addestramento.
Insomma, un vero disastro per Caesar, a cui sembrava di parlare con un sasso. L'uomo stava andando nel panico, perché non voleva, non poteva permettere che quel bel ragazzo dai capelli di grano lasciasse al pubblico l'impressione del ragazzo schivo e asociale che si stava cucendo addosso! Allora girò i fogli della sua cartellina velocemente, sperando di trovare qualcosa di adatto a mettere in luce Liach. -Vuoi parlarci della tua famiglia, Liach?- domandò il presentatore nervoso.
Certo che no, avrebbe voluto rispondere il ragazzo. Ma era abbastanza intelligente da capire che, se avesse continuato a fare scena muta, il pubblico si sarebbe annoiato e lui non avrebbe attirato nemmeno uno sponsor. Così sospirò rassegnato e iniziò a raccontare, controvoglia. Raccontò della sua famiglia, che si allargava mentre i soldi diminuivano. Dei suoi genitori, spesso assenti perché troppo impegnati a lavorare per mantenere i numerosi figli. Dei suoi cinque fratelli e sorelle, e soprattutto della piccola Anisha, la quale aveva una malattia che nessun medico era ancora riuscito ad identificare e curare. E del fatto che desiderava tornare a casa proprio per loro, per quei bambini che avevano ancora bisogno del "fratellone" per tirare avanti.
Perché lui amava la sua famiglia, e se per tornare da loro avrebbe dovuto raccontare i fatti suoi a degli stupidi sconosciuti di Capitol City e, tramite le telecamere, a tutti gli abitanti di Panem, lo avrebbe fatto. Una cose decisamente poco allettante per Liach, ma che fu necessaria, perché riuscì a conquistare il pubblico con la sua storia. Così se ne andò tra gli applausi, continuando però a disgustare quei giochi e quella stupida città, che voleva a tutti i costi tenerlo in pugno. Ma che non sarebbe mai riuscita ad averlo veramente.
Jude Wright si dimostrò caratterialmente simile a Liach, data la sua riluttanza a parlare di sé. Era una bellissima ragazza, e anche piuttosto abile con i coltelli, come dimostrava il suo otto in addestramento. Al pubblico ciò sembrava bastare, e non si preoccuparono più di tanto del fatto che Jude aggirasse vistosamente la maggior parte delle domande. A Caesar però la cosa non piaceva, pertutti i ragazzi dovevano lasciare il segno, e se lei avesse continuato così nessuno l'avrebbe ricordata se non per la sua freddezza. Così, essendo a conoscenza del fatto che sia il nonno che la sorella avevano perso la vita nei giochi, le chiese a chi avrebbe dedicato la sua eventuale vittoria.
Jude non ebbe esitazioni, e quella che pronunciò sembrò la prima risposta sincera dall'inizio dell'intervista. -Mia sorella. Era una ragazza fantastica, troppo giovane per  morire- disse, con un tono di voce aspro. Non le importava se Capitol City le avrebbe reso la vita un inferno, non le importava se sarebbe stata giudicata fredda e spietata, Jude non aveva paura. Dopo la morte del padre e della sorella, e la malattia degenerativa della madre che l'aveva costretta a prendere le redini della famiglia, sapeva che niente avrebbe potuto fermarla. Sopravvivere era un obbligo, un dovere al quale avrebbe dovuto adempiere per onorare la sorella, uccisa da Capitol City. Non avrebbero avuto anche lei, non sarebbe tornata a casa in un'anonima cassa di legno come la sorella. Non avrebbe dato quell'ennesimo dispiacere alla madre.
 
Sam Dickson, invece, più che freddo si dimostrò piuttosto iracondo, il che stonava terribilmente con i suoi occhi blu mare e il suo volto all'apparenza gentile. Aveva i nervi a fior di pelle e, ogni volta che Caesar cercava di scherzare con lui, si ritrovava inchiodato alla sua poltroncina da uno sguardo inquisitorio e sprezzante. Era imbarazzante per il presentatore, perché quel ragazzo sembrava restio anche a farsi aiutare, cosa di cui aveva molto bisogno dato il suo cinque in addestramento. Per l'ennesima volta, Caesar, si ritrovò a pensare che quel carattere doveva essere stato plasmato da una situazione familiare difficile, e così decise di chiedergli di parlare della sua vita nel distretto nove. -Allora, Ehm...- iniziò l'uomo detergendosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto. -E così sei il figlio del sindaco del tuo distretto-
Sam arricciò le labbra, infastidito. -Già- Era sempre stato "il figlio del sindaco", mai Sam, il ragazzo che odiava il ruolo ricoperto da padre, il quale non era altro che uno stupido burattino. E chi muoveva i fili? Capitol City, ovviamente. Era disgustato dal suo essere legato a quell'uomo, e faceva di tutto per allontanarsene. Inoltre lo accusava di tutte le disgrazie che avevano colpito la sua famiglia: per Sam il padre era diventato una specie di capro espiatorio. La morte della madre? Colpa sua.
La malattia che aveva costretto il fratello sulla sedia a rotelle? Sempre colpa sua.
E non lo avrebbe perdonato, mai. Nemmeno adesso, che lo stavano mandando al macello, non poteva dimenticare il suo comportamento.
L'unica cosa di cui si permise di parlare apertamente fu il fratello Erick, che stava sicuramente guardando il programma, per fargli capire che non lo avrebbe dimenticato. Perché, quel bambino sulla sedia a rotelle, era l'unico di cui gli importasse veramente. E quello fu l'unico argomento di Sam che riuscì a coinvolgere davvero il pubblico, perché era il solo che lo toccasse davvero.
 
Poi toccò a Carol Todd, la ragazza del distretto dieci. Nonostante si stesse dimostrando molto simpatica e disponibile, non riuscì ad ingannare l'occhio attento di Caesar, che di ragazzi ne aveva visti molti. Ogni tanto intravedeva delle crepe nella sua corazza, e qualche frase veniva macchiata da una nota di freddezza e acidità, che probabilmente facevano parte del suo vero io. Ma al presentatore non dispiaceva, perché il pubblico sembrava non accorgersene e gli spettatori non accennavo a smettere di ridere alle battute della ragazza.
Parlava di sua volontà, senza il bisogno di essere stimolata dalle domande di Caesar, e passava dagli argomenti più leggeri, come il suo lavoro, al suo bisogno di vendicare il fratello, morto in una precedente edizione.
-Tom era tutto per me, è stato lui ad insegnarmi tutto ciò che so sul combattimento- disse, appoggiandosi una mano sul cuore e catturando il pubblico con la sua abilità, che ormai si era rivelata agli occhi di chi non si era fatto incantare da quel bel visetto.
-Vincerò per lui e lo vendicherò, statene pure certi- concluse, stringendo un lembo del suo vestito. Era riuscita a manipolarli, farsi amare dagli spettatori, cosa che forse non le sarebbe riuscita se non avesse preso il controllo della situazione. Così Carol se ne andò soddisfatta, agitando le braccia e mandando baci in direzione degli spalti, avvolta dalle urla e dagli applausi della folla in delirio. Aveva tutti i mezzi per tornare a casa, e un carattere a dir poco perfetto per farsi valere nell'Arena. E sarebbe stato proprio grazie alla sua determinazione e alla sete di vendetta che avrebbe trionfato sugli avversari,perché lei lo voleva, lo voleva davvero.
Anche Cassian Brownleaf, il compagno di distretto di Carol, dimostrò abilità similari a quelle della ragazza nel manipolare il pubblico. Lui però le metteva in atto con maggiore discrezione e, inoltre, sembrava quasi sempre pentirsi delle sue rare bugie, anche se innocenti. Pur essendo meno spigliato di Carol, riuscì ugualmente ad incantare il pubblico con la sua bellezza e la sua apparente simpatia. Inoltre gli spettatori sembravano impazzire per gli occhi di Cassian, così belli nella loro unicità. Uno blu ed uno verde, dotati della tipica innocenza adolescenziale, nonostante i suoi diciott'anni. Era piuttosto introverso ma, grazie alla sua intelligenza, riusciva quasi ad ipnotizzare il pubblico con la sua espressione assorta e le considerazioni sugli avversari. Caesar, con un po' d'insistenza, riuscì anche a farlo parlare della sua famiglia.-Vivo con mia madre e le mie sorelle, Ambrose ed Aredhel- spiegò. -Beato tra le donne- scherzò il presentatore, facendo ridere il pubblico.
Cassian sorrise, allegro. -Già! Aredhel si è aggiunta da poco, ed è adorabile- aggiunse, quasi con una punta d'orgoglio.
-È appena nata?-domandò Caesar curioso. Il ragazzo scosse la testa, sempre con il sorriso sulle labbra. Sembrava quasi avesse la testa altrove, ma dopo qualche attimo di silenzio si affrettò a rispondere. -No, è un'orfana, abbiamo deciso di adottarla- rivelò, tra lo stupore e l'ammirazione del pubblico che, dopo il segnale acustico, esplose in un applauso per quel ragazzo così timido ma al contempo così generoso.
 
Cassya Reigo, la diciassettenne del distretto undici, sembrava quasi sparire tra i cuscini morbidi posti sulla poltroncina, tanto era piccola e minuta. Suscitava tenerezza tra gli spettatori, nonostante l'espressione determinata che aveva sul volto. Gradiva le attenzioni di Caesar, e sembrava fossero in sintonia: rispondeva alle sue domande con il giusto mix di spontaneità e irriverenza, rideva alle sue battute e stava sempre allo scherzo. Una ragazza molto solare, ma che sapeva anche essere fredda e distaccata con chi non le andava a genio. Questo lato del suo carattere, però, era ben celato dal suo aspetto dolce ed inoffensivo, dietro il quale era riuscita a nascondere gran parte delle sue abilità: aveva infatti deciso di utilizzare la stessa tecnica della ragazza del distretto tre, ma a lei sembrava riuscire anche meglio.
-Immagino che tu abbia molti amici nel tuo distretto-disse Caesar con un sorriso, alludendo alla sua gentilezza e vitalità. Cassya sorrise a sua volta.
-Si, stiamo spesso insieme perché lavoriamo tutti nel frutteto... Comunque ho un ottimo rapporto anche con mia madre e mia sorella, ed è proprio per loro che voglio tornare a casa- rispose, facendo dondolare i piedi che non toccavano terra a causa della sua altezza piuttosto ridotta. Lo fece per intenerire ancor di più il pubblico, infatti in molti sospirarono incantati dalla sua innocenza. Il presentatore le augurò buona fortuna e diede il benvenuto al suo compagno di distretto, così alto e muscoloso che sembrò eclissare Cassya quando le passò accanto.
Si chiamava Alwyn Bennett e, pur non essendo troppo alto, compensava in muscoli. Era deciso a mettersi in mostra, e non gli dispiaceva rispondere alle domande di Caesar e sorridere alle sue battute. Così parlò della sua famiglia, composta dalla madre, due sorelle, e un padre piuttosto anziano che, a seguito di un incidente avvenuto l'anno prima, faticava a riprendere il lavoro. Lasciò anche perdere l'inutile modestia su cui avevano puntato molti tributi, specialmente nelle scorse edizioni, e disse che era lui a fare buona parte del lavoro, portando a casa i soldi necessari alla famiglia per tirare avanti.
-Ti sei offerto volontario-disse Caesar e Alwyn, nonostante non fosse troppo intelligente, capì che quella, pur non essendo una domanda, necessitava di una spiegazione.
-Si, mi allenavo da anni e mi sentivo pronto per gli Hunger Games-replicò, nonostante avesse ottenuto solo un misero sei in addestramento. Certo, si era allenato, ma nel suo distretto aveva trovato solo dei coltelli per esercitarsi. Il pubblico lo guardò curioso e sopreso, perché non accadeva quasi mai che ci fosse un volontario nei distretti più remoti. -Intendo dimostrare che il distretto undici non è poi così debole e marginale, e inoltre vorrei portare un po' di soldi e di fama alla mia famiglia- aggiunse, a mo di spiegazione. I presenti apprezzarono molto la determinazione di Alwyn e il suo coraggio, infatti lo ricoprirono di applausi sentiti e lui sorrise compiaciuto. Sarebbe tornato a casa, e avrebbe dimostrato a tutti di che pasta era fatto. Ne era sicuro, era una promessa.
 
Sara Tomphson fece il suo ingresso tra gli applausi del pubblico, salutando con un sorriso tirato. Le era ancora difficile credere che lei, una delle poche ragazze ricche del suo distretto, fosse stata bruscamente strappata dalla vita che conduceva nel dodici. Ma, nostante lo shock, sapeva che non era il caso di farsi prendere dal panico, piuttosto doveva mostrarsi forte agli occhi del pubblico. E così fece: si sedette al suo posto con decisione e rispose ad ogni domanda del presentatore con sincerità e allegria. L'unica cosa che non confessò fu il suo essere "sensitiva", ovvero il fatto che sognasse la notte ciò che sarebbe avvenuto il giorno seguente. Aveva paura di venire considerata una pazza, oppure una bugiarda, e poi avrebbe avuto un vantaggio sugli avversari, tenendoli all'oscuro. Però, quando Caesar le chiese se fosse fidanzata, lei arrossì ma disse la verità.
-Hem... Si-ammise tra i cori di incitamento del pubblico. -E intendo tornare a casa non solo per lui, ma per la mia famiglia e i miei amici. Proveniendo da una famiglia benestante non ho mai avuto davvero "fame", ma di questi giochi ne so qualcosa, e voglio uscirne a testa alta- concluse. Gli spettatori quasi impazzirono di fronte alla determinazione di quella ragazza, e a quella frase seguì un boato che fu interrotto solo dal segnale acustico. Caesar guardò felice l'ultimo tributo che andava verso di lui, sperando che gli facilitasse il compito sfoderando la grinta della sua compagna di distretto. Purtroppo, quello che si ritrovò davanti fu un ragazzo con lo sguardo perso nel vuoto, che squadrava con diffidenza il pubblico che lo acclamava con enfasi.
Gore Mason prese posto e continuò a guardarsi attorno, con aria indifferente. Le urla degli spettatori, dovute al suo dieci in addestramento, non sembravano toccarlo minimamente e anzi, sembrava piuttosto infastidito. Caesar sorrise forzatamente, pensando che quel ragazzo gli avrebbe dato del filo da torcere.
E infatti Gore si rivelò un osso più duro del previsto. Freddo come il ghiaccio e dotato di una schiettezza fuori dal comune, ascoltava a malapena le domande del presentatore e spesso, in risposta, si limitava a scrollare le spalle.
-Puoi dirci qualcosa della tua famiglia?-chiese Caesar, esasperato dal comportamento del ragazzo. Gore sbuffò ed incrociò le braccia, scocciato. -Stanno tutti bene, grazie dell'interessamento- rispose sarcasticamente, facendo scoppiare a ridere il pubblico nonostante non fosse sua intenzione. Il presentatore iniziò a tranquillizzarsi e si asciugò nuovamente il sudore dalla fronte con il fazzoletto. -E su quella brutta cicatrice?- domandò curioso indicando un segno bianco e irregolare che prendeva anche l'occhio del ragazzo. -Ma non ce la fai proprio a farti i cavoli tuoi?- disse Gore di rimando, inarcando un sopracciglio. Il pubblico rise nuovamente, forse credendo che stesse scherzando. Ma non era affatto così: era quello il vero Gore, quello spietato e infastidito dai rapporti sociali. La cicatrice gli era stata inferta da un cane selvatico, durante una delle sue battute di caccia nei boschi del distretto dodici. Cacciava per mantenere il suo anziano padre e la sorellina, l'unica con cui riuscisse a mostrare un lato più dolce e premuroso di sé.
Così, tra applausi e risate inaspettate, anche l'ultimo tributo abbandonò il palco, lasciando Caesar solo con gli spettatori. Dopo un rapido discorso di chiusura, dichiarò la fine delle trasmissioni e diede un appuntamento al pubblico, sapendo benissimo che non lo avrebbero mancato.-Ci vediamo domattina nell'arena, e buonanotte a tutti!- concluse, con finto entusiasmo. Per lui era orribile, vedere i ragazzi appena conosciuti andare al macello, ma ancor peggio era commentare la loro morte cruenta ed ingiustificata in diretta nazionale. Perché non se ne accorgeva nessuno? Erano solo bambini!
 
Buona fortuna tributi, pensò una volta nel suo camerino trattenendo le lacrime. 
Capitolo due, Buona fortuna.
 



Capitolo tre, che i 48esimi Hunger Games abbiano inizio!
 

 
Ciascun tributo stava indossando la propria tuta. Quell’anno era di un elegante blu scuro, rifinita da splendidi ghirigori argentati. In tinta con le scarpe da corsa.
 
Ormai c’erano quasi: ancora pochi secondi e il segnale acustico avrebbe segnalato l’inizio dei quarantottesimi Hunger Games.
 
Salutarono i loro stilisti, infilandosi nella capsula.
 
Vennero catapultati in aria, fin sopra la terra ferma. Chi prima aveva chiuso gli occhi subito li spalancò, per valutare l’Arena.
 
Quell’anno gli Strateghi avevano ideato qualcosa di originale. Niente tundre gelate o foreste d’abeti.
 
Stavano tutti galleggiando sul pelo dell’acqua. Non era un fiume, un lago, o un mare: si trattava di una piscina, dentro la quale si erigeva imponente la Cornucopia. Nella bocca di questa chiunque poteva vedere armi di vario genere, da un tridente, a un arco, a una katana. Sull’acqua galleggiavano poi altri oggetti di gran valore: cibo, coltelli, sacchi a pelo…
 
La piscina sembrava essere perennemente rifornita da uno squarcio sul soffitto, da cui scorreva l’acqua che bagnava la Cornucopia prima di fluire nella vasca.
 
Anche chi non sapeva nuotare, però, poteva comunque tagliare la corda: bastava infatti voltarsi e fare un misero saltello per atterrare sul pavimento piastrellato dell’enorme sala. Perché, e qui stava la particolarità, quell’anno gli Strateghi avevano ideato, come arena, un enorme edificio.
 
Chiunque a Capitol City sarebbe riuscito a riconoscerlo: era la riproduzione di un vecchio centro commerciale abbandonato, strutturato come il Colosseo e provvisto di più piani.
 
Infatti lungo tutte le pareti si trovava quel che rimaneva di alcuni negozi, le vetrine cadevano a pezzi e l’intonaco cascava a blocchi.
 
Alcuni tributi fissavano stupiti l’Arena, altri determinati la Cornucopia.
 
Lungo il pavimento gli Strateghi avevano disposto alcuni oggetti di scarso valore che anche i non favoriti sarebbero riusciti a prendere. Liach e Theia pensavano di poter sfruttare la loro velocità per afferrare qualche zaino.
 
Tutti i favoriti avevano già gli sguardi puntati sulle armi nella Cornucopia. Incredibilmente, non solo loro.
 
Gore Mason fissava voglioso quell’arco, l’arma che l’avrebbe reso invincibile.
 
Sara aveva intercettato lo sguardo, cercò di avvertirlo con un cenno del capo: non era una buona idea. Gore, però, non le stava prestando la giusta attenzione.
 
Anche Gaison cercò una persona, nel mucchio, e questa persona era Eleuthera. La vide, piccolina, neanche troppo distante da lui, fissare vogliosa uno zainetto da cui spuntavano invitanti alcuni cavi elettrici e degli strani utensili, si trovava abbastanza distante dalla piscina e, disgraziatamente, piuttosto lontana anche da qualsiasi rampa di scale.
 
Gaison imprecò mentalmente. Quella si sarebbe messa nei guai, sicuro.
 
Ormai mancavano davvero pochissimo secondi.
 
Cinque.
 
Jude fissava la lama splendente di un coltello neanche troppo lontano.
 
Quattro.
 
Kylar si guardava ben attorno, così da memorizzare fotograficamente ogni singolo achero di polvere.
 
Tre.
 
Alwyn pensava a come muoversi più agilmente verso il piano superiore.
 
Due.
 
Emma aveva già preso lo slancio.
 
Uno.
 
Fischiò l’inizio e ventiquattro tributi presero subito le loro strade.
 
Cinque si buttarono in acqua, gli altri presero a correre disperatamente per l’intera sala.
 
Theia afferrò il primo zainetto che le venne a tiro, senza neanche domandarsi cosa contenesse, fu la prima e sparire su per una rampa di scale.
 
Noah non si preoccupò nemmeno di fermarsi a raccogliere qualcosa, Sara filò via come una freccia.
 
Era tutto un caos! Ovunque tributi che correvano, ovunque grida di disperazione, tutti sapevano che ormai mancava poco tempo prima che i favoriti afferrassero un’arma e iniziassero la carneficina.
 
Eppure, c’era ancora un tributo che non s’era mosso.
 
Rhys Jones era forse uno dei più forti nell’Arena, ma, in seguito a un incidente avvenuto molto tempo prima ai suoi genitori, aveva sviluppato un’incredibile, viscerale fobia per l’acqua. E ci si ritrovava sopra, così. Non riusciva a muoversi.
 
Intanto accaddero tante cose contemporaneamente.
 
Shaileen filò via dritta verso una rampa di scala, seguita a ruota da Cassya. Disgraziatamente questa, non avendo visto uno zainetto abbandonato tra le piastrelle, in preda alla corsa sfrenata, finì con l’inciamparci sopra.
 
Cassya cadde atterra, Shaileen si voltò. La ragazza provò a raggiungerla, ma ormai era tardi: Ivy Moon, il tributo femmina dell’1, era riuscita a salire sulla cima della Cornucopia, sotto il getto d’acqua, brandendo un arco. Le bastò tendere la corda per scoccare una freccia dritta tra le spalle di Cassya.
 
— No! Cassya!— gridò disperata Shaileen, improvvisò due passi avanti, ma Cassya, con le ultime forze sollevò la mano e gridò, con quanto fiato aveva in gola: — Va via, subito! Corri!
 
Shaileen, quasi in trance, iniziò a muoversi, ma dal nulla comparve Liach, che correva disperato verso la stessa rampa di scale. Cassya non avrebbe permesso a quel ragazzo di far del male a Shaileen, anche se morente, anche se sanguinante, afferrò d’improvviso la gamba di Liach.
 
Lui cadde a terra, quasi rotolando.
 
Non aveva alcuna intenzione di ferire la ragazza, avrebbe solo voluto mettersi in salvo.
 
A volte, però, il destino ha ben altri progetti.
 
Cadendo a terra divenne un facile bersaglio per l’arco di Ivy, che si tese una seconda volta, e per la seconda volta colpì.
 
Centro.
 
A Liach non furono concessi nemmeno quei due minuti di dolorosa sopravvivenza che sembravano appartenere a Cassya. Lui chiuse gli occhi, quasi addormentato, e non si risvegliò più.
 
Contemporaneamente a tutto ciò, Jude era riuscita ad afferrare il coltello. S’era poi diretta in gran corsa verso uno bellissimo zainetto, grande, da cui spuntava invitante un’utilissima borraccia piena d’acqua.
 
C’era quasi, le mancava davvero poco. Quando riuscì a prenderlo, però, s’accorse di non essere sola: davanti a lei, con una mano sullo stesso zainetto, c’era Elaine.
 
Le due si guardarono per un paio di secondi, poi Jude, ripresasi subito, brandì il coltello e tentò un affondo.
 
Disgraziatamente per lei, Elaine riuscì a evitare agilmente il colpo, mollando lo zaino ma agguantandola per una manica della felpa. Con uno strattone la fece cadere a terra, Jude, però, riuscì a stringerla per un polso facendo precipitare entrambe.
 
Subito si tirò su di un lato, quando Jude tentò un nuovo affondo con il coltello. Questa volta la ragazza non riuscì a salvarsi completamente: la lama graffiò superficialmente il braccio destro.
 
Nonostante il dolore Elaine riuscì a tirarsi su, sfruttando la scomoda la posizione di Jude – mezza seduta, mezza accucciata – l’afferrò per il collo tirandole un calcio appena sotto una gamba.
 
Jude perse l’equilibrio e finì completamente distesa sul pavimento, perdendo il coltello.
 
Elaine l’afferrò fulminea e, con un colpo secco, senza realmente pensare a cosa stesse succedendo, la trafisse per la gola.
 
Quando s’assicurò che Jude non fosse più in grado di muoversi prese lo zaino, il coltello e corse via, ferita nel corpo quanto nell’anima.
 
Intanto i favoriti erano impegnati alla Cornucopia.
 
Larev, afferrata una lancia sulla cima della Cornucopia, guardò fisso Rhys. Il ragazzo, percependo il pericolo, grazie a non si sa bene quale strano processo mentale, riuscì finalmente a muovere un passo.
 
Se solo lo avesse fatto prima!
 
Ormai per Larev non ci volle niente: un tiro, uno soltanto, e lo trafisse. Non era forse abile quanto poteva esserlo Gaison, ma si trattava un bersaglio talmente elementare che non avrebbe potuto sbagliare.
 
Rhys cadde a terra, morto, ucciso tanto dalla lancia quanto dalle acque. Come suo padre e sua madre prima di lui.
 
In effetti poteva essere strano che Gaison non avesse raggiunto la lancia prima di Larev. Il motivo, di fatto, era semplice: Gaison non si era mai nemmeno buttato in acqua.
 
Aveva visto un tributo correre nella stessa direzione di Eletuhera.
 
Eleuthera, così simile alla sua sorellina, non ci aveva nemmeno prestato caso: voleva solo agguantare quello zaino.
 
Il tributo nemico non era altro che Sam, il ragazzo che non ci sapeva troppo fare con l’arco. E Gaison non era assolutamente intenzionato a lasciarli far del male ad Eletuhera.
 
Sam in realtà non mirava proprio a ferire la bambina. Voleva solo prendere uno zaino nella stessa direzione.
 
Comunque, se se la fosse ritrovata davanti, non avrebbe esitato a uccidere.
 
Gaison allora corse nella sua stessa direzione, afferrò un coltello e non si fermò.
 
Fortunatamente, quando tutti e tre i tributi si trovavano abbastanza vicini tra loro, Sam percepì il pericolo e si voltò. Notando lo sguardo determinato di Gaison e l’arma pericolosa che brandiva tra le mani, si spaventò e, rinunciando allo zaino, corse via.
 
Eletuhera, che ormai si ritrovava sola con il favorito, si portò entrambe le mani alla testa come per proteggersi, terrorizzata.
 
— Va via — le disse però Gaison. — E vedi di fare più attenzione, ragazzina! Eleuthera, incredula, afferrò lo zaino e se ne andò, voltandosi solo una volta per sussurrare, riconoscente, “grazie”.
 
Comunque, mentre Gaison era impegnato a salvare Eleuthera, un altro tributo si stava cacciando nei guai. E questo tributo era Gore Mason.
 
Gore era sicuro di poter afferrare quell’arco prima di chiunque altro. Prima di Ivy, soprattutto.
 
Era certo di essere più veloce nel nuoto, così si tuffò senza pensarci troppo.
 
Disgraziatamente, per quanto fosse più veloce di Ivy, non aveva messo in considerazione la possibilità di essere più lento rispetto ad altri tributi. Tributi come Miranda, la ragazza dalla chiama rosso fuoco.
 
Miranda e Gaison arrivarono praticamente insieme, lui prese subito tra le mani un arco, lei afferrò l’ascia. Non era forte, non era particolarmente preparata, ma con un bersaglio tanto facile non ci sarebbero stati problemi. Sollevò l’arma e l’abbatté sul rivale, mirando alle mani.
 
Gliele mozzò.
 
Gore emise un grido disperato, sollevando le braccia ora monche. Intanto Ivy riuscì ad arrampicarsi sulla Cornucopia, afferrando l’arco.
 
Miranda con un calcio fece cadere Gore in acqua, poi afferrò il tridente e, con un colpo secco, lo trapassò. La piscina prese a tingersi di un inquietante rosso scuro, quasi a decretare il reale inizio degli Hunger Games.
 
Il suo volto non trasmetteva null’altro che freddezza, quando dentro un oscuro pentimento le contorse le viscere.
 
Il corpo martoriato di Gore Mason andò lentamente a fondo mentre nel Distretto 12 piansero il loro primo caduto. Che, incredibilmente, non era Sara.
 
Ormai alla Cornucopia non rimanevano altro che i cinque favoriti. I caduti vennero in qualche modo raccolti e i tributi superstiti si erano dispersi per tutto l’edificio.
 
I ragazzi avevano allontanato cibi e armi dalla Cornucopia per posarli sotto l’unico, maestoso albero che sorgeva selvaggio all’interno della sala.
 
Era stato certamente un ricco bottino.
 
La scorta di provviste sarebbe bastata sicuramente, c’erano degli indumenti più pesanti in previsione di notti gelate, delle coperte e una miriade di armi letali.
 
Si stavano dividendo parte del bottino, riposando poco guardinghi sotto la frescura dell’albero.
 
— Alla fine ci sono stati pochissimi morti, rispetto al solito — commentò Ivy — due li ho uccisi io, uno Miranda e uno Larev. E poi quell’altra, la ragazza del 9, che non so nemmeno come sia morta.
 
— Aveva preso anche otto all’esame.— rispose Larev.
 
A Miranda tutto ciò non interessava. Guardava sospettosa Luke e Gaison, gli unici favoriti a non aver ucciso nessuno. Cosa piuttosto insolita.
 
Da una parte si domandava come fosse possibile che un grande combattente come Gaison non avesse attaccato nessuno, dall’altra notò con una certa stizza che di Luke, nonostante tutto, non ne sapeva niente.
 
Non si era mai completamente mostrato, non aveva mai dato sfoggio delle proprie abilità.
 
E se ne stava sempre così distante che alla fine le dava quasi l’impressione che provasse repulsione verso tutti i favoriti.
 
— Bene, ecco fatto. Ognuno ha le sue armi e le sue provviste nello zaino in caso di necessità. Adesso che si fa?— disse Gaison.
 
Ivy si rigirò una spada tra le mani, lasciando che la lama riflettesse la luce del sole.
 
Aveva un sorriso sinistro, quasi, maligno.
 
— Ora si va a caccia.
 
 
 
 
 
 

Capitolo quattro, i dodici livelli.

 
-Dividiamoci-disse Ivy, risoluta. Si era improvvisata capo del gruppo, e la cosa non piaceva a nessuno ma, per il momento, non intendevano contraddirla. Sapevano che la sua carica avrebbe avuto breve durata, ma i suoi alleati si astennero dal farglielo notare.
-Dobbiamo esplorare almeno questo piano e il superiore, per avere un'idea di dove ci troviamo-spiegò. Gli altri annuirono, mostrandosi d'accordo. Avevano bisogno di cibo, dato che alla cornucopia avevano trovato solo una gran quantità di armi ma pochi generi alimentari, che sarebbero bastati solo per un giorno o due. Forse i viveri gli erano stati sottratti da qualche avversario, oppure gli strateghi ne avevano forniti in piccola quantità. In entrambi i casi, avrebbero dovuto andare in esplorazione. -Mi offro per andare al primo piano- disse Luke, che fino a quel momento era rimasto in disparte. Non vedeva l'ora di abbandonare quel gruppo disorganizzato e iniziare la carneficina, eliminando velocemente quanti più avversari possibili. -Non da solo- rispose la ragazza, acida.
-Non mi sembra di aver bisogno di una balia-sputò Luke tra i denti.
-Ah già, visto il lavoro eccellente che hai fatto alla cornucopia immagino che per te non sarà un problema!- disse Ivy, ridacchiando. Il ragazzo digrignò i denti infastidito: come aveva potuto insinuare che lui non fosse capace di difendersi? L'unica ragione per cui non aveva ancora ucciso nessuno, era che non gli piacevano gli scontri così aperti. Insomma, che gusto c'era a buttarsi nella mischia alla cieca uccidendo rapidamente i più deboli? No, quella roba non faceva per lui. Luke preferiva scegliere con cura le sue vittime, strappargli lentamente ogni residuo di vita e di coraggio.
-Sempre meglio che nascondersi dietro un arco e mirare da lontano a perdenti- sibilò con rabbia, appoggiando una mano sul fodero della sua spada. Ivy strinse gli occhi riducendoli a due fessure e si preparò allo scontro, estraendo a sua volta la lama.
Gaison scattò in piedi e si frappose tra i due, irritato. -Fermi, abbiamo di meglio da fare che litigare- disse il ragazzo del distretto due, cercando di riportare la calma. Non gli sarebbe importato assolutamente nulla se si fossero uccisi a vicenda, ma sapeva benissimo che al gruppo serviva qualcuno da mandare in esplorazione.
-Ha parlato il difensore delle bambine incapaci-lo schernì Luke, con fare canzonatorio. Gaison fece di tutto per non saltargli addosso ma, probabilmente, se Miranda non fosse intervenuta non sarebbe riuscito a trattenersi.
-Basta, ognuno ha i suoi motivi per agire- disse spazientita. -Vedete di piantarla e decidiamo cosa fare- concluse, tentando di riportare l'ordine.
Il suo compagno di distretto sospirò, accorgendosi della veridicità delle sue parole. Il ragazzo del quattro, invece, si voltò dando le spalle a tutti, tentando di nascondere la sua irritazione. Finalmente si decise a parlare anche Larev, che fino ad allora si era limitato ad affilare due coltelli da lancio in solitudine. -La rossa ha ragione- disse, interrompendo bruscamente il suo lavoro ed alzando il capo. Miranda arricciò il naso, poco lusingata dell'appellativo riservatole dal ragazzo. -Facciamo così: il distretto due esplora questo piano, voi andate al livello superiore- concluse indicando Ivy e Luke con un cenno della testa. -Mi sembra un'idea a dir poco insensata- protestò Gaison pacato. Era assurdo accoppiare quei due, che sembravano in procinto di azzannarsi da un momento all'altro, ma Ivy lo liquidò con un'occhiataccia.
-No, va bene. Sono in grado di difendermi da lui-disse risoluta, spostando lo sguardo su Luke e tentando di incenerirlo. Lui sorrise sprezzande e si alzò rapidamente dirigendosi verso le scale, seguito dalla ragazza.
-Tu rimani qui?-domandò Gaison a Larev, che aveva rispreso la manutenzione delle sue armi. Il ragazzo scrollò le spalle e rispose con indifferenza. -Qualcuno deve assicurarsi che non ci rubino le armi- per lui non era mai stato facile rapportarsi con gli altri, e non aveva nessuna intenzione di iniziare a conoscere meglio una persona che probabilmente avrebbe dovuto uccidere.
I tributi del distretto due lo salutarono rapidamente e si allontanarono in direzione del limitare della piazza, in cerca di qualcosa di utile. L'intonaco si staccava a grandi pezzi dal soffitto, cadendo ai loro piedi, i mattoni del muro erano in bella vista e il pavimento era disseminato di detriti di varie dimensioni. Da molte fenditure tra i lastroni della pavimentazione si ergevano dei piccoli viticci e dei cespugli selvatici, che gli intralciavano il passaggio. Dopo qualche minuto di cammino Gaison e Miranda si trovarono davanti ad un supermarket dall'insegna scolorita e decadente.
-Facciamo la spesa-scherzò la ragazza, raggiante. Apoggiò una mano sulle porte scorrevoli, che rimasero fermamente al loro posto. Il suo compagno fece qualche passo avanti, estrasse la spada infilandola tra una porta e l'altra e face leva, cercando di farle aprire per entrare. Miranda lo aiutò e, insieme, riscirono a creare una fessura di qualche centimetro, che i ragazzo allargò con le mani sfruttando i muscoli delle braccia. Quando lo spazio fu abbastanza largo per passare, i due si addentrarono nel negozio buio, con gli scaffali ricoperti di polvere e terra. -Andiamo- disse la ragazza, muovendo i primi passi all'interno di quel luogo.
 
Luke saliva i gradini a due a due, incurante delle imprecazioni di Ivy, la quale cercava di obbligarlo a rallentare o per lo meno a fare meno rumore. La scala era piuttosto accidendata, e il marmo di cui era fatta era stato intaccato dal tempo, rendendola pericolosamente instabile. Quando il tributo del distretto quattro ne raggiunse la cima, si meravigliò del repentino cambiamento di ambiente: la luce luminosa del piano inferiore era improvvisamente sparita, lasciando spazio al buio più totale. L'unica fonte d'illuminazione era costituita da alcune fiaccole assicurate a dei sostegni lungo il muro, che avevano un raggio d'azione piuttosto ridotto. Tutto era ricoperto da uno spesso strato di polvere nera, che si sollevava ad ogni passo ma che tornava velocemente al suo posto, senza lasciare traccia del loro passaggio. Non appena Ivy lo raggiunse si sentì gelare il sangue, spaventata da tutta quell'oscurità opprimente: non le erano mai piaciuti gli spazi bui e angusti, anzi, le facevano paura. Così si affrettò a prelevare una torcia dal suo sostegno e ad usarla come guida, per riuscire a vedere dove mettesse i piedi.
-È polvere di carbone-sussurrò Luke all'improvviso, dopo averne presa un po' in mano.
Ivy era a dir poco a disagio e, improvvisamente, si pentiva di essersi addentrata in quel luogo con quel ragazzo, del quale non sapeva assolutamente niente. -Andiamocene- propose con un filo di voce.-Qui non c'è nessuno- riprese con più convinzione.
Luke si voltò lentamente, con un ghigno stampato sul volto. -Ti sbagli: se fossi stato ferito alla cornucopia mi sarei nascosto qui, nel buio più totale. E noi stiamo cercando proprio i sopravvissuti, giusto?- domandò con fare retorico.
Ivy arricciò le labbra, sperando che il buio celasse la sua paura. -Ho detto che dobbiamo andarcene. Proviamo al piano superiore, qui non sento né vedo nessuno- replicò duramente. L'insolenza di quel ragazzo la irritava, e non poco.
Lui continuò a camminare, senza degnarla di una risposta. Ascoltava le sue lamentele distrattamente, cercando di concentrarsi sui deboli fruscii che avvertiva in lontananza.
-Vuoi stare zitta, dannazione?- inveì, quando gli sembrò di averla sopportata abbastanza a lungo. -Non osare, razza di incapace!- urlò lei, strattonandolo per una spalla e costringendolo a guardarla. Fu un attimo.
Gli occhi di Luke si accesero di una furia omicida e sguainò la spada, ferendo la ragazza al braccio che teneva la fiaccola, e Ivy la lasciò andare in un riflesso involontario con grido di dolore. Dopodiché il ragazzo gettò la spada a terra e le si scagliò addosso, coltello alla mano. Subito la lama si tinse di un rosso cremisi, e le urla agghiaccianti di Ivy sgretolarono la quiete apparente che regnava in quel posto.
 
Alwyn, intanto, giaceva accanto alle radici di un albero, al secondo livello. Era riuscito a sottrarre un set di coltelli da lancio alla cornucopia ma, purtroppo, mentre attraversava il primo piano era caduto con tutte le scarpe in una trappola piazzata dagli strateghi, anche piuttosto rudimentale. Aveva semplicemente messo un piede su una mattonella diversa dalle altre, provocando un sonoro "click" e una pioggia di scheggie taglienti di vetro e metallo. Era riuscito a ripararsi il volto dietro le braccia muscolose, ma purtroppo non tutto il suo corpo era stato così fortunato: oltre ad avere molte schegge conficcate un po' ovunque, una ferita non troppo superficiale correva sulla sua coscia destra, e il sangue aveva rapidamente imbrattato la tuta. Era riuscito a fare un bendaggio d'emergenza, utilizzando delle garze trovate in un armadietto di pronto soccorso, nella toilette di quel piano. Purtroppo però, dai rubinetti era uscito solo un rivolo d'acqua sporca e terra, poi più niente. Così si ritrovava assetato e ferito, ma non affamato: le piante di quel posto somigliavano terribilmente a quelle del suo distretto, e non aveva fatto fatica alcuna ad evitare quelle velenose. Ma, nonostante questo colpo di fortuna, gli era comunque difficile muoversi, nonostante utilizzasse un bastone ricavato da uno spesso ramo di un'albero. Il problema maggiore era arrampicarsi. Solitamente si muoveva agilmente tra i rami, dato che lavorava in un frutteto, ma, a causa della ferita, farlo gli causava un dolore lancinante.
Così era costretto a starsene a terra, in attesa dell'arresto dell'emorragia, impaziente di esplorare quel livello. Rimase acquattato nell'ombra per ore, finché non scorse un'ombra venire verso di lui e si costrinse ad ignorare il dolore e a salire su un albero, dato che un combattimento nelle sue condizioni era impensabile.
Un ragazzo piuttosto magro girò l'angolo, e Alwyn lo identificò come il tributo del distretto tre. Noah teneva tra le mani una spoletta che avava trovato in un negozio di articoli sportivi a cui era avvolto un lucente filo di nylon, e sembrava ne stesse valutando la resistenza. Ogni tanto si fermava a raccogliere qualche ramo o un frutto e lo studiava per un po', valutando se infilarlo o meno nella capiente borsa che teneva a tracolla. Prima che Alwy potesse estrarre un coltello e mirare al sottile collo del ragazzo, notò che questo era già corso via, attratto da chissà cosa.
Noah era un po' inquieto, e si concesse di salire ancora di un livello raggiungendo il terzo, prima di confermare la sua teoria sulla conformazione dell'arena.
 
Luke recuperò la spada e ripulì il coltello su ciò che rimaneva sulla tuta di Ivy, ormai ridotta a brandelli. Sorrise soddisfatto e si allontanò di qualche metro dal cadavere, curioso di scoprire come il corpo sarebbe stato rimosso: di certo non c'era abbastanza spazio per far calare un braccio meccanico da un hovercraft. Si sedette in un angolo e iniziò a tamburellare le dita sul pavimento ricoperto di polvere, impaziente.
Dopo qualche secondo, da uno dei negozi fuoriuscì un piccolo robot alto circa un metro, dotato di quattro arti con il corpo non dissimile da quello di un ragno. Si muoveva con grazia, e raggiunse velocemente il cadavere della ragazza. Si aprì uno sportellino sul suo ventre e ne uscì un sottile braccio meccanico, poco più piccolo di quello di un normale hovercraft. L'artiglio afferrò la ragazza per la vita e la sollevò di qualche metro, poi tornò da dove era venuto e la porta del negozio si richiuse rapida dietro di lui. Luke si alzò e tentò di abbassare la maniglia per seguire il robot, ma questa non si spostò di un millimetro. Stava giusto valutando se sfondare il vetro con un colpo di spada, quando avvertì il lieve brusio di un hovercraft poco distante. Si guardò attorno e, non trovando niente, si avvicinò ad un lastrone di vetro sul muro, che fungeva da finestra. Tolse un po' di polvere con le mani per riuscire a vedere meglio, divorato dalla curiosità. Sotto di lui vide un giardino che circondava il centro commerciale, anch'esso decadente, e si soprese nel vedere il piccolo robot che avanzava verso il braccio calato di un hovercraft. Questo prese con malgrazia il corpo di Ivy e lo trascinò via, mentre il gigantesco "ragno" rientrava nell'edificio.
Luke era così rapito dalla scena che non si accrose dei passi dietro di lui finché Sam non mise un piede in fallo, rivelando la sua posizione. Il ragazzo si voltò di scatto brandendo la spada, e si ritrovò faccia a faccia con il tributo del distretto nove, che reggeva in una mano una fiaccola e nell'altra un'ascia. Sam provò ad attaccarlo con tutta la forza che aveva nelle braccia, ma Luke riuscì facilmente a parare il suo affondo utilizzando la spada, nonostante le sue mani tremassero per la potenza del colpo. Il ragazzo tentò più volte di ferirlo, ma la sua inesperienza con l'ascia non giocava certo a suo favore. Così, mentre l'avversario continuava a parare nascondendosi dietro alla lama della spada, gli tirò addosso la fiaccola, bruciando parte della sua tuta e provocandogli delle scottature su un fianco. Luke urlò, spaventato da tutto quel calore e da quelle fiamme danzanti e cadde in ginocchio, tentando di spegnere la stoffa che stava diventando cenere.
Sam si avvicinò per dargli il colpo di grazia, ma Luke, senza la distrazione delle fiamme tanto temute, non si fece cogliere alla sprovvista: ferì il ragazzo ai tendini delle caviglie, e lo costrinse a cadere accanto a lui.
Entrambi ansimavano, incapaci di rialzarsi e continuare a combattere. Luke continuava a darsi dello stupido e tentava di tornare in piedi utilizzando la spada come sostegno, ma la ferita sul fianco tirava così tanto da trascinarlo giù. Così, dopo quanche tentativo andato a vuoto, si arrese ed iniziò a tenere d'occhio Sam, il quale fissava allibito il suo stesso sangue.
Fu proprio Sam ad avere l'idea: raccolse tutto il suo coraggio e tese debolmente una mano sporca di sangue verso l'avversario, illuminato solamente dalla debole luce delle fiamme. Luke lo guardò di sottecchi, ma si decise a stringergliela solo quando notò che il ragazzo si stava lentamente riprendendo, ed era ormai in grado di tenere in mano l'arma.
-Alleati-si affrettò a dire, irritato dall'esito dello scontro. Aveva lasciato un gruppo di idioti per allearsi con un altro cretino, che per giunta non era nemmeno un favorito.
Sam arricciò le labbra, neanche lui troppo soddisfatto dell'accordo. Quel Luke non gli piaceva affatto, ma era abbastanza furbo da capire che se avessero continuato lo scontro non sarebbe stato un bene per nessuno dei due.
-Alleati-ripetè con freddezza.
 
Miranda e Gaison stavano tornando da Larev, quando sentirono il colpo di cannone dovuto alla morte di Ivy. La ragazza sorrise sprezzante e si voltò verso il compagno di distretto.-Avevo ragione! Dammi quel coltello, sù- disse euforica, tentando di riscuotere il premio della loro scommessa.
-No, non puoi sapere se il colpo fosse per lei!-protestò il ragazzo. Lei scosse la testa, senza smettere di sorridere. -Andiamo, mi sembri abbastanza sveglio da capire che ho ragione- lo rimproverò dandogli di gomito. Gaison sbuffò ed alzò gli occhi al cielo, ma poi le allungò l'arma, tentando di nascondere un sorriso. Avevano scommesso sulla sorte di Ivy e, a quanto pareva, Miranda aveva avuto la meglio. Iniziò a fischiettare e ripose in una borsa di juta tutto il cibo che avevano recuperato dagli scaffali polverosi: crackers, alcune bottiglie d'acqua da due litri, merendine dall'aspetto stantio, frutta secca e caramelle.
-Questa roba non ci permetterà di sopravvivere nemmeno un giorno-protestò Gaison, arricciando il naso. La ragazza alzò le spalle, incurante. -Ho visto delle piante commestibili mentre venivamo, inoltre vicino agli alberi ci sono delle tracce lasciate da dei piccoli animali- disse lei, senza perdere il buonumore.
-Te lo concedo-bofonchiò il giovane, sollevando la sacca con il cibo. Lei sorrise nuovamente, rigirandosi tra le mani la sua vincita. Camminarono ancora per qualche minuto, poi scorsero una vecchia croce verde, in procinto di staccarsi dal muro.
-Una farmacia!-urlò Miranda entusiasta, riponendo il coltello nel fodero e avvicinandosi alle porte, sperando di trovare qualcosa di utile. -Ti ho già detto che i miei genitori hanno una farmacia?- domandò, voltandosi verso il ragazzo.
-Fammici pensare-disse lui, esibendosi in una finta smorfia di concentrazione. -Direi circa un milione di volte... Negli ultimi cinque minuti- concluse, facendola ridere di gusto.
 
 
Noah si guardò attorno, spaventanto: il terzo piano consisteva in una piccola steppa delimitata dai ruderi di vecchi negozi e popolata da tori, buoi e ogni genere di bestia da allevamento. Nessun animale sembrava molto contento di vederlo: avevano tutti gli occhi inniettati di sangue, e un piaio di loro lo avevano già puntato. Ogni piano corrisponde a un distretto, quindi ci sono dodici livelli, pensò, inchiodato al suolo dalla consapevolezza della sua scoperta.
 
  

Capitolo cinque, Cala il sipario.
 

Noah fissava sconvolto il muso poco amichevole di un bue rabbioso. Lo scrutava così, inferocito.
Aveva appena compreso la realtà sull’Arena: 12 livelli più il piano terra, uno per ogni distretto.
Non solo: le difficoltà sembravano aumentare livello dopo livello. Il piano del carbone era banalmente invaso da sporco, buio e scarafaggi. Al secondo livello, piante assassine. Al terzo, animali inferociti.
Così, in un certo senso, Noah sapeva che cercare rifugio su di un piano superiore sarebbe stato qualcosa di particolarmente stupido. In quel momento però poco importava.
Quando si è inseguiti da una bestia incattivita controllata da sadici strateghi, la mente cede spesso spazio all’istinto. In quel momento l’istino sembrava gridare a gran voce “scappa!”.
Noah, ubbidiente, era partito in quarta. Temeva di essere sopraffatto.
In prossimità della scala comprese che non c’era più molto da fare. Se avesse tentato di salire al piano superiore quella bestia l’avrebbe certamente raggiunto, ma Noah ebbe quel genere di colpo di fortuna che permette di districarsi nelle faccende più complesse: vide un tubo sul soffitto. Largo, perfetto.
Facendo leva sulla maniglia di una porta riuscì ad arrampicarcisi sopra. Si trovava giusto uno o due metri più in alto del bue. Ora doveva solo trovare un modo per andarsene da lì.
Lo sguardo cadde però su un’altra persona, ferma come lui sul tubo.
Dentro di sé sorrise, riconoscendo Theia Jhonson, la ragazza che gli ricordava in modo tanto impressionante la sua Camille.
Theia sollevò un braccio, invitandolo così a seguirla. Noah la guardò storto, incerto se fidarsi o meno.
Theia si alzò in piedi e prese a correre attraverso la rete di tubi, allontanandosi, allora Noah non ebbe più troppo tempo per riflettere.
La seguì come meglio poté, non era veloce quanto poteva esserlo lei, però. A un certo punto la vide prendere uno slancio e saltare: anche lui allora notò dei tubi più sottili, arrugginiti, un tempo forse celati da legno e calcestruzzo.
Theia ci si aggrappò e iniziò a muoversi abbastanza agilmente: penzolando sopra una mandria di tori, cercò di agguantare sempre tubi sufficientemente sicuri da non rischiare di crollare così, nel vuoto. Tubo dopo tubo finalmente riuscì a raggiungere la scala, ci si gettò sopra e si voltò.
Noah era ancora parecchio distante, ma sembrava cavarsela. Lui le sorrise e mimò un “grazie” con le labbra. Allora Theia chinò in capo, in un cenno di saluto, e corse via.
Primo giorno nell’Arena e già aveva salvato una persona. Mica male.
 
Se Theia scese le scale, Kylar le aveva salite. Portava in spalla uno zainetto malandato, neanche troppo capiente. Cercava un posto tranquillo dove ispezionarlo quando, oltrepassato il piano col bestiame, raggiunse il quarto livello. E ne rimase davvero impressionato.
Vedeva benissimo i negozi, ma questi sembravano praticamente irraggiungibili: ovunque vi era frumento. Piante esageratamente alte, geneticamente modificate, sicuramente.
La cosa davvero impressionante era una sorta di entrata: uno spazio in cui si poteva passare liberamente.
Colto da uno strano presentimento, ci si inoltrò dentro. Iniziò a correre per i primi cinquanta metri, poi notò uno svincolo, un bivio. Prese una strada a caso e continuò a camminare, quando nuovamente la via si divise. Allora Kylar rise di gusto.
Un labirinto.
Aveva finalmente trovato il suo piano! Un ragazzo con una memoria fotografica infallibile come la sua avrebbe sicuramente potuto districarsi egregiamente là dentro.
Kylar si lasciò cadere a terra, felice. Iniziò così tranquillamente a ispezionare il contenuto dello zaino. Vi erano una torcia, gallette, una scatola piena di caramelle, una maglietta extra e una borraccia piena d’acqua. Il che gli ricordò che doveva cercare dell’acqua.
Improvvisamente sentì un grido.
Spaventato sollevò di colpo il capo, ma comprese che, qualsiasi bestia avesse ruggito in quel modo, non ce l’aveva con lui. Il gridò si ripeté e questa volta capì che la “bestia” era umana.
Incuriosito si mosse attraverso il labirinto.
Era una ragazza.
Quando la raggiunse vide che correva terrorizzata tra uno svincolo e l’altro. Allora comprese, malignamente felice, che se per lui un simile piano era qualcosa di incredibilmente conveniente, per qualcun altro il non riuscire a districarsi liberamente era orribile e angosciante. Quella ragazza, comunque, era Emma. Si era stupidamente inoltrata nel labirinto e ora non sapeva come uscirne. Le aveva provate tutte, ma niente! A un certo punto, però, sentì l’impetuoso scroscio dell’acqua. Incuriosita cercò di raggiungerlo passando per un paio di vie.
Quel che vide aveva dell’incredibile: da uno squarcio sul soffitto calava impetuosa una miriade d’acqua, che scendeva al piano inferiore tramite un secondo squarcio, sul pavimento.
Emma ricordava la piscina, rifornita dall’acqua che calava dal soffitto.
— Quindi passa per tutti i piani…— sussurrò.
Kylar l’aveva seguita, incuriosito. Comprese d’aver agito giustamente quando notò l’acqua: finalmente poteva bere.
Vide la ragazza accarezzare con le mani la cascata, incerta. Poi assistette alla manovra più rischiosa, geniale e incosciente mai congeniata: Emma si gettò nella cascata! L’acqua la fece precipitare fin giù, al piano inferiore, liberandola dal labirinto.
Kylar trattenne il fiato in uno spasmo involontario. La disperazione, la voglia di libertà, portava a compiere azioni rischiose e incoscienti.
Comunque, felice d’aver trovato finalmente una fonte d’acqua, si voltò per tornare a immergersi nel labirinto. Camminando tranquillamente su e giù tra le spighe di grano, sentì qualcun altro tentare di districarsi tra bivi e crocevia. Incuriosito dal nuovo arrivato, tento di raggiungerlo.
Un nuovo sospiro trattenuto gli morì in gola: questa volta l’intruso non era umano, era bestia. Una bestia mezzo uomo mezzo toro, per la precisione.
Kylar fuggì dal Minotauro, prima d’essere visto.
 
 
Cassian aveva predisposto la trappola. Un’intricata rete di cavi che avrebbe immobilizzato la preda al pavimento.
Si trovava al secondo livello, nascosto all’interno di un’ex erboristeria. La vetrata era andata in frantumi e la porta serrata, il bancone ormai appena stava in piedi, ma qui e là aveva trovato anche qualche residuo di prodotti naturali.
All’esterno aveva sistemato il complesso ingranaggio. Ora mancava solo la preda.
In quel preciso istante nei paraggi c’erano però solo due persone.
La prima era Sara. Nascosta dietro vecchi scatoloni posti sopra un armadio di metallo, aveva assistito alla preparazione della trappola con crescente curiosità.
La seconda era Shaileen.
La ragazza vagava ancora scombussolata dalla morte di Cassya. Semplicemente non stava prestando troppa attenzione al luogo. D’altra parte, anche se avesse avuto tutti i sensi in allerta, sicuramente avrebbe inciampato sull’invisibile filo di nylon.
Shaileen precipitò sul pavimento attivando l’intricato congegno di Cassian. Una rete finì col coprirla, allora la ragazza prese a muoversi disperatamente come per liberarsi, quando Cassian decise di uscire allo scoperto.
Vide la ragazza dai capelli multicolore agitarsi terrorizzata, come un pesciolino nella trappola. Quando notò il ragazzo s’immobilizzò di colpo.
Cassian estrasse un coltello, andandole incontro. La scena era quasi raccapricciante.
Shaileen che perdeva quell’espressione terrorizzata per assumere un atteggiamento di coraggio.
Sara, dall’alto del suo armadio, che vide in quella ragazza una determinazione senza pari, pronta anche alla morte.
Cassian, col coltello in aria, che la guardava, indeciso. Lui non voleva uccidere. Doveva, ma non voleva.
E poi, la lacrima. Una lacrima sola, trasmetteva rassegnazione alla morte, desiderio di vivere, rimpianto. E la lama di Cassian rimase sospesa in aria mezzo secondo di troppo.
Sara era rimasta tanto colpita da quella lacrima da decidere, così, su due piedi, che non era giusto. Rovesciando tutti gli scatoloni si gettò addosso a Cassian, facendolo precipitare a terra.
Neanche mezzo secondo dopo Cassian cercò di spingere via la piccola furia che, con un grido, lo aveva travolto.
Riuscì a liberarsi quei due secondi necessari a colpirla quando, sconvolto, comprese di aver perso il coltello. Si girò di scatto nella direzione in cui sarebbe dovuto cadere, ma fu inutile: il coltello ce lo aveva Sara. Con un colpo diretto glielo conficcò al collo.
Cassian prese ad annaspare disperato, muovendo sofferente le mani. Sara estrasse il coltello dalla carne della vittima, per conficcaglielo una seconda volta in pancia. Il colpo definitivo.
Un colpo di cannone. Cassian era morto.
Sara sospirò, ma rimase paralizzata.
Aveva ucciso.
Aveva ucciso un ragazzo. Davvero.
Poi guardò fisso Shaileen che fissava la scena ammutolita. Le si avvicinò e con il coltello tagliò via la rete.
Le due si guardarono per qualche secondo, entrambe stupite da quanto successo, entrambe annientate da un primo giorno infernale.
— Io sono Sara— si presentò la quindicenne del dodici. — Tu devi essere Shaileen.
L’altra annuì. Ora fissava Cassian.
— Meglio allontanarci.— disse. Le due si nascosero all’interno dell’ex-erboristeria. Dal nulla apparve un piccolo robot a forma di ragno, che agguantò tramite un braccio meccanico il corpo martoriato di Cassian, trascinandolo poi all’interno di un negozio. Pochi secondi dopo udirono l’hovercraft.
Rimasero in silenzio, l’una vicino all’altra, ancora sconvolte, ancora distrutte.
— Che ne è stato della tua alleata?— chiese Sara, d’improvviso.
— È morta del bagno di sangue. Tu invece? Non avevi nessuno?
— No, nessuno.— due secondi di pausa. Due secondi per riflettere. — Vuoi diventare tu la mia alleata?
No. No, a dire il vero no. Dopo la morte di Cassya, Shaileen non sarebbe riuscita a reggere un simile dispiacere due volte. Non avrebbe voluto affezionarsi tanto a qualcuno che comunque sarebbe morto.
D’altra parte vedeva in Sara una seconda chance. Non era riuscita a salvare Cassya, avrebbe protetto lei. Fino alla morte.
— Certo, alleate.— e nel momento in cui le due mani si strinsero tra loro dal soffitto precipitò a sorpresa un paracadute argentato. Shaileen lo raccolse, rigirandosi tra le mani la borraccia d’acqua.
— Devono essere i tuoi sponsor— disse Sara — se ti hanno già mandato qualcosa devono essere proprio tanti!
— Speriamo sia vero, intanto abbiamo dell’acqua.
Sara annuì vigorosamente, poi sembrò rifletterci.— Beh, abbiamo una borraccia, visto che, alla fin fine, l’acqua piove dal soffitto.
— Che intendi?
Sara le spiegò l’ingranaggio dello squarcio tra pavimento e soffitto, all’interno del quale scorre acqua non propriamente pulita, ma sempre potabile.
— Allora saremo a posto per un bel po’.
— Non proprio— disse però Sara.— Non abbiamo cibo.
 
Bryan aveva ispezionato tutto il primo e il secondo piano.
Cercava un posto sicuro dove riposare, quella notte: ormai il sole era calato, ma alcune luci sul soffitto rimanevano sempre accese.
Al secondo piano, però, vide finalmente qualcuno.
Forse, visto com’era andata quella giornata, se fosse stata una persona qualsiasi avrebbe rinunciato, ma era impossibile dimenticarsi la chioma color miele, la corporatura esile e il viso dolcissimo di Carol Todd.
Bryan era curioso. Semplicemente curioso.
Dopo quel che gli aveva detto Cassian sulla piccoletta del ’10, voleva davvero sapere qualcosa in più su di lei.
Certo, ormai sapeva che bisognava sempre diffidare: Carol era regina nella manipolazione.
Però, insomma, era magnetica. Bryan non riusciva ad ignorarlo.
Così le si avvicinò, incerto, indeciso su come comportarsi. Per un po’ la fissò da lontano, poi si avvicinò di più, sempre di più.
Quando ormai la stava scritando da una colonna lì a fianco, Carol lo notò.Una persona qualsiasi si sarebbe spaventata, forse, ma lei sapeva che per gestire al meglio la situazione non serviva impanicarsi, ma dimostrarsi affascinate. E Carol era molto, molto affascinante.
Così, racimolando quanta più calma poté, sorrise. Un sorriso dolce, dolcissimo, che sprizzava bontà. Chiunque sarebbe morto per un sorriso del genere.
Bryan vide quel visino incredibilmente dolce, quel sorriso così diverso dal suo, ma tanto seducente. Seducente in maniera differente, comunque: il suo era sensuale, sicuro, quello di Carol era sincero e amabile.
Bryan vide tutto questo e si domandò come potesse una persona all’apparenza così incredibilmente bella e dolce essere una perfida manipolatrice.
Lui sapeva che Carol era qualcuno da guardare con diffidenza, ma forse poteva scambiarci due parole. Non sarebbe potuto succedere niente, per un paio di parole.
— Ciao Bryan— lo salutò lei, per prima. — Ti va un pezzo di pane?
Così dicendo porse la pagnotta, procurata nella corsa dalla Cornucopia, e lo fece sempre quel sorriso così incredibilmente falso e al contempo tanto adorabilmente sincero, che Bryan non poté tirarsi indietro.
Le si avvicinò esitante, ripetendosi mentalmente a mo’ di mantra “ non farti manipolare, fa attenzione, non farti manipolare, fa attenzione”.
Prese la pagnotta tra le mani tirandone un morso. Era dura.
— Siediti, avanti— lo invitò Carol.
— Ti ho vista da lontano— rispose lui, sedendosi, prendendo in mano le redini del discorso. 
— E non mi hai voluto uccidere?— per un attimo Bryan fece silenzio, fissando il lampadario luminescente penzolare dal soffitto. 
— Per un momento sì. In realtà ti voglio ancora uccidere. Tu sei pericolosa.
Carol sollevò falsamente stupida un sopracciglio. Aveva visto lui e Cassian parlare all’addestramento, sapeva cosa si erano detti. Sapeva che lui sapeva.
— Che intendi dire?
— Sei una manipolatrice.— allora Carol scoppiò in una finta risata. Era però così falsamente spontanea, così allegra, contagiosa, che pensare a un inganno sarebbe risultato impossibile per chiunque. Anche per Bryan.
“No! No Bryan concentrati, lei vuole ingannarti.”
— Sono voci che girano per il distretto, sì! Deve avertene parlato Cassian. Non dico di essere una Santa, ma da qui a ritenermi una manipolatrice…tanti cuori infranti, però. Sai, brutte dicerie.
E lo disse in un tono così convincente, così sicuro, che Bryan dovette attingere a tutto il suo autocontrollo per non cascarci. Invece si ripeteva ancora, continuamente “non fidarti”.
La realtà era che Carol era una ragazza molto pericolosa. La verità era che Bryan avrebbe dovuto ucciderla.
Alla fin fine, però, Bryan non voleva ammazzarla. Voleva conoscerla. Conoscerla per quel che era.
Bryan era curioso: patologicamente curioso di Carol Todd.
La cosa davvero assurda è che se da una parte Bryan voleva restare con Carol, Carol voleva che Bryan restasse.
Lei sapeva di non essere eccessivamente forte. Certo, ce l’avrebbe potuta fare anche da sola, era abile nella lotta corpo a corpo e nel lancio dei coltelli, ma un alleato, qualcuno da manipolare perché facesse gran parte del lavoro, era praticamente indispensabile.
Lei da sola bastava a sopravvivere, con qualcun altro poteva vincere.
Così, pur non amando troppo l’idea – non era esattamente l’essere adorabile che mostrava di essere -, il fatto che Bryan potesse diventare suo alleato l’allettava. Correva semplicemente il rischio di affezionarcisi. Come sempre.
“Non ti ci affezionerai, Carol. Basta che presti attenzione”.
— Ehi Bryan, ho una proposta. Visto che mi ritieni pericolosa per qualsiasi avversario, perché non ci alleiamo? Potrei esserti d’aiuto.
Ci pensò su per una decina di secondi.
Normalmente avrebbe subito risposto “no”, per poi pugnalare la ragazzina prima di correre rischi concreti. Poi però ci riflettettè.In realtà non sarebbe stato un vero problema rapportarsi con Carol, ora che sapeva quanto pericolosa poteva essere. Al primo segnale d’incertezza avrebbe comunque potuto ucciderla. 
Sì, ce l’avrebbe fatta. Ce l’avrebbe fatta.
— Ci sto, alleati— disse quindi.
Si strinsero la mano, ma era una stretta di mano strana, particolare: una voleva dire “non mi farò manipolare”, l’altra “non mi affezionerò a te”. E ci credevano entrambi.
Improvvisamente iniziò a risuonare l’inno e dei monitor, sparsi per tutto il piano, si accesero.
Questi mostrarono le morti di quel giorno.
Ivy Moon, Distretto 1. Miranda si rigirò soddisfatta il coltello tra le mani.
Rhys Jones, Distretto 5. Eleuthera ricordò rammaricata il fratello della sua amica.
Liach Murhall, Distretto 8. Theia pensò al velocissimo ragazzo dell’addestramento.
Jude Wright, Distretto 9. Elaine s’accarezzò dispiaciuta la ferita al braccio.
Cassian Brownleaf, Distretto 10. Carol fissò stupita il volto del suo compagno di Distretto.
Cassya Reigo, Distretto 11. Shaileen sentì una morsa al petto.
Gore Mason, Distretto 12. Sara sospirò rassegnata alla perdita di un valido combattente.
I monitor riferirono la morte di sette tributi, sette ragazzi, sette validissimi giocatori. E qualcuno pianse, per loro. Qualcuno piange ancora, per loro.
 
Bryan non riusciva ad addormentarsi. Guardava sconsolato una falena librarsi in aria. 
Vicino a lui Carol stava riposando, accucciata nell’impolverato sacco a pelo che Bryan le aveva gentilmente concesso.
Improvvisamente sentì un rumore. Come un sasso calciato casualmente contro il muro.
Si sollevò di scatto a sedere, guardando fisso il buio.
Vedeva chiaramente una sagoma mimetizzarsi nell’ombra, ma non riusciva a distinguere bene i contorni.
— Chi sei?— chiese, afferrando il coltello.
La sagoma fece due passi avanti, fin sotto la luce. Aveva lunghi capelli castani raccolti in una treccia, due occhi tra il verde e il grigio e un pugnale tra le mani. Bryan si rilassò di colpo.
— Elaine.
La ragazza aveva uno sguardo seccato e rammaricato che Bryan non riusciva a spiegarsi.
— Ciao Bryan.
— Che ci fai qui?— Elaine fissò Carol dormire. Due occhi dispiaciuti, un po’ stizziti.
— Ti cercavo. Volevo proporti un’alleanza, ma vedo che sono arrivata tardi— Elaine e Bryan erano stati compagni di distretto. Non si poteva certo dire che si conoscessero, ma durante il viaggio in treno e in tanti giorni d’addestramento Elaine aveva imparato ad apprezzare Bryan come tributo, ma soprattutto come uomo. Avrebbe voluto battersi con lui. Aveva imparato a vedere in Bryan un ragazzo fantastico, un degno vincitore.
Ci si era quasi affezionata.
— Già…
— Non farlo. Vieni con me. Mi conosci, sai che non ti tradirei, sai che voglio davvero averti come alleato. Lei ti farà del male.
— Come fai a dire questo?
— Ho sentito Cassian. So che Carol non è ciò che sembra. Ti manipolerà.— Bryan sbuffò seccato.
— Non essere sciocca! So difendermi da solo. Posso riuscire a resistere benissimo, devo solo prestare molta attenzione e mettere in dubbio tutto quello che dice. Non mi manipolerà mai.
Elaine spalancò un secondo la bocca, fissando scocciata Carol, dispiaciuta Bryan.
— Ma non lo vedi?— chiese nel tono più sinceramente convincente che le uscisse— Ti sta già manipolando.
— Cosa?
— Ti ha costretto ad allearti con lei.
Bryan scoppiò a ridere piano, quasi nervoso. 
— Mi sono alleato con lei perché era quello che volevo.— Volevi davvero? Quando l’hai vista, volevi allearti?— Bryan stette due secondi fermo, come impietrito. Lo sguardo gli cadde sulla piccola Carol, così dolce, così letale.
Improvvisamente un moto di rabbia lo invase, rabbia non scaricabile sulla piccoletta, ma facilmente indirizzabile verso Elaine.
Afferrò il coltello, rivolgendolo falsamente provocatorio verso la ragazza.
— Vattene Elaine, o non sarò pietoso nemmeno con te.
La ragazza guardò rattristita la scena, poi si voltò, sinceramente dispiaciuta. Prima di immergersi nelle tenebre sussurrò, triste: “meriti di meglio, ma se tu sei contento così, felici Hunger Games, Bryan”.
E così scomparve, nel buio.
Carol, socchiudendo leggermente gli occhi, sorrise.
 
Yvonne aveva assistito interessata al discorso.
In realtà a lei Elaine piaceva: ne apprezzava il carattere solare e l’umanità dimostrata nell’intervista. La dolcezza coi bimbi dell’orfanotrofio, le abilità in campo.
Sì, a Yvonne una come Elaine piaceva proprio.
Con un sospiro si allontanò, sapendo bene che, comunque, non avrebbe avuto modo di allearsi con lei. D’altra parte nemmeno la conosceva davvero: cosa le assicurava che non sarebbe stata tradita?
Con un’agilità che solo le arti marziali possono conferire, Yvonne camminò in bilico su per una pertica del soffitto, allontanandosi vagamente rattristita, con lo zainetto in spalla e una borsetta piena di biscotti a tracolla.
Aveva con se anche dei cerotti, alcune gallette, una mela, del calzini, una fionda e un po’ d’acqua. Niente di troppo utile, nulla che volesse snobbare.
S’allontanò quindi con la testa piena di domande, senza percepire lo sguardo spaventato di un’altra persona.
Eleuthera se ne stava rannicchiata sotto degli scatoloni, poco distante da alcuni ratti, attratti dal pane che stava mangiucchiando.
Non aveva trovato altro che uno zainetto con gli attrezzi da lavoro, ma alcuni sponsor caritatevoli le avevano mandato abbastanza soldi da permettere a Roxar, la sua mentore, di inviarle del cibo.
Dei panini al prosciutto e una cesta con banane, pesche e mele: quelle che preferiva.
Era sopravvissuta al primo giorno, fortunatamente, ma la sfida era appena cominciata.
Ancora sedici concorrenti da battere. Ancora sedici possibilità di essere uccisa.
  



 

Capitolo sei, Trappole.
 

 

Luke si alzò di buon ora, infastidito dal respiro pesante del suo nuovo alleato. Non era abituato a sentire una presenza costante sempre al suo fianco, lui che era sempre stato solo. Mentre valutava se uccidere il ragazzo nel sonno o se sfruttarlo ancora per un po', Sam spalancò gli occhi ed estrasse l'ascia, sentendosi osservato. Riuscì a calmarsi solamente quando vide Luke in piedi davanti a lui, colto alla sprovvista dalla sua reazione. Sospirò e ripose l'arma, passandosi una mano sugli occhi.

-Che ore sono?-domandò, mettendosi seduto. Luke fece una smorfia ed alzò un sopracciglio. -Ti sembra che io abbia scritto in faccia la parola orologio?-
-E ti sembra che io abbia scritto in faccia "idiota patentato"?- rispose Sam, con rabbia. Il suo nuovo alleato sembrò non capire, e si limitò a fissarlo con la sua solita aria di superiorità. -Come se non mi fossi accorto che stavi cercando di uccidermi- spiegò, alzando gli occhi al cielo.
Luke sorrise sprezzante, colpito dall'acume di Sam. -Forse non sei così stupido come pensavo, ragazzino- disse, sfiorandosi la bruciatura per controllarne le condizioni. Una profonda ed estesa striatura rossa aveva sostituito la sua pelle altrimenti liscia e pallida. Fu subito costretto a ritrarre la mano, perché il solo contatto gli procurava molto dolore.
-Sam, mi chiamo Sam-lo corresse il ragazzo, infastidito da quello stupido appellativo affibiatogli da Luke. L'altro alzò le spalle, senza prestargli troppa attenzione.
-Si, certo. Come vuoi, ragazzino- disse con un gesto di noncuranza. Sam strinse i pugni, ma si astenne dal rispondergli a tono per non irritarsi ulteriormente. -In ogni caso, direi di lasciare questo stupido piano e salire al prossimo livello, dato che non abbiamo provviste e qui sembra esserci solo polvere di carbone- disse invece, indicando le scale poco distanti. Luke annuì e fece strada, e Sam si affrettò a seguirlo, cercando di ignorare il dolore alle caviglie ferite e malamente fasciate.
Però, a circa metà della scalinata, inciampò in una delle radici che erano comparse misteriosamente e sentì che non sarebbe riuscito a rialzarsi. Grugnì rumorosamente, e il suo lamento fece voltare Luke, che aveva già il suo bel daffare con la sua ferita.
-Che c'è adesso?-ruggì il ragazzo, voltandosi di scatto e toccandosi il fianco che sembrava urlare di dolore. -Senti, è colpa tua se sto così, ti ricordo che mi hai quasi tagliato i tendini- rispose Sam sbuffando. -Aiutami- ordinò, tendendo una mano verso Luke, il quale arricciò il naso. -E io cosa ci guadagno?- domandò, incrociando le braccia sul petto.
Ovvio,pensò Sam, uno come lui non fa mai niente per niente.
-Se troveremo delle erbe sarò in grado di curare le ferite di entrambi-propose, cercando di mostrare una calma che non possedeva. Luke sorrise, contento di aver soddisfatto il proprio tornaconto. -Muoviamoci, allora- disse, stringendogli la mano e preparandosi a sorreggerlo per il resto della salita.
 
I due ragazzi raggiunsero il secondo livello circa dieci minuti dopo, sotto lo sguardo attento di Alwyn, che imprecò sottovoce. Aveva dormito su un albero, ma era stato svegliato da una voce maschile, che si lamentava del peso di quello che sembrava il suo alleato. Il tributo del distretto undici strinse i denti e iniziò a volare da un ramo all'altro, cercando di essere il più silenzioso possibile. La ferita alla gamba gli doleva molto, ma sapeva benissimo che non sarebbe stato in grado di affrontare quei due ragazzi, nonostante non sembrassero nel pieno delle forze.
Così li vide con la coda dell'occhio gettarsi a terra accanto a dei cespugli di bacche e erbe curative, e avanzò imperterrito finché le loro voci non scomparvero del tutto. Si infilò nel primo negozio che gli capitò a tiro e, senza preoccuparsi di esplorarlo, afferrò un sacchetto di stoffa mezzo mangiato dai topi e uscì rapidamente, temendo di incrociare qualche altro avversario. Strappò qualche foglia che conosceva e sapeva avrebbe potuto tornargli utile e raccolse qualche frutto, cercando di sbrigarsi. Mise la borsa a tracolla e riprese la sua corsa verso il piano superiore, attento a non ledere la gamba ferita compiendo movimenti troppo ampi o bruschi.
Una volta raggiunto il terzo livello, però, capì che non era affatto un posto in cui avrebbe potuto guarire in pace. A parte i numerosi bovini ancora per poco dormienti, scorse anche le tracce del passaggio di diversi tributi, e notò che c'erano decisamente pochi posti per nascondersi. Inoltre non c'erano alberi, ma solo qualche cespuglio quà e là. Così il ragazzo sospirò e, cercando di fare meno rumore possibile, iniziò a farsi strada tra tutti quegli animali dall'aspetto feroce. Dopo circa un'ora di slalom tra essi riuscì a raggiungere la base di una nuova scalinata e salì i gradini cercando di mantenere la calma, nonostante fosse terrorizzato dalle insidie degli strateghi.
Che cosa gli avrebbe riservato il quarto livello?
 
Tre ore. Alwyn vagava senza sosta da tre ore, cercando di andarsene da quel maledetto labirinto. Eppure, ogni volta che gli sembrava di essere vicino all'uscita, un nuovo altissimo muro di frumento si ergeva davanti a lui, costringendolo a fare marcia indietro.
Gli pareva di essere ormai prossimo alla pazzia, quando udì dei passi pensanti dietro di lui. Dovette aspettare ancora qualche secondo, per avere la conferma di non averli sognati e, nel silenzio assordante, li udì nuovamente.
Il cuore di Alwyn fece una capriola perchè, anche se il nuovo arrivato lo avesse  attaccato, avrebbe almeno avuto la certezza che tutto ciò era reale e non era in realtà frutto di uno spiacevole incubo. Trattenne il fiato e sguainò il coltello, per evitare di farsi cogliere impreparato. Ma, nonostante la sua accortezza, niente avrebbe potuto prepararlo allo spettacolo agghiacciante che prese vita davanti ai suoi occhi.
Un gigantesco mostro dalle grandi corna girò l'angolo, fiutando l'aria: era un minotauro dagli occhi rossi come il sangue, che lo guardavano chiedendo morte.
Alwyn si lasciò sfuggire un urlo di terrore, e rimase incollato al suolo, incapace di muoversi. Però, non appena vide il mostro avanzare nella sua direzione, capì che doveva scappare se non voleva essere fatto a brandelli. Così le sue gambe scattarono verso l'ignoto, incoraggiate dal ruggito disumano della bestia. Il ragazzo, pur essendo ferito, riusciva a correre mosso dal terrore ma, in compenso, non sapeva dove stesse andando. Come se non bastasse, il taglio sulla gamba si era riaperto nel momento meno oppurtuno. Alwyn imprecò, sentendo le zampe taurine del minotauro farsi sempre più vicine. Improvvisamente scartò di lato, gettandosi in una delle tante pareti di frumento. Sperava che, così facendo, il mostro avrebbe perso le sue tracce e lo avrebbe lasciato vivere.
Ma le sue speranze si rivelarono mal riposte: quelle spighe immense lo ostacolavano, e gli frustavano i viso e le braccia ad ogni passo. Inoltre, grazie alla sua mole il mostro stava letteralmente abbattendo tutti quegli ostacoli, guadagnando terreno. Alwyn capì di essere spacciato quando un respiro caldo e umido gli accarezzò il collo, e sentì il morso di un paio di enormi fauci andare a vuoto ad un niente dalla sua testa. Stava per arrendersi e lasciarsi cadere a terra, quando intravide un corridoio libero dalle spighe, e subito vi si fiondò. Ironia della sorte, si trovò davanti un Kylar ancora mezzo intontito, che era stato svegliato dai ruggiti della bestia. Il ragazzo spalancò gli occhi e iniziò a correre verso l'uscita senza preoccuparsi di raccogliere le sue poche cose. Aveva solo qualche metro di vantaggio su Alwyn, il quale, non appena ebbe intuito che Kylar conosceva la strada, lo seguì arrancando, con il mostro ormai vicinissimo a lui.
Nel momento in cui scorse le scale che portavano al piano superiore, l'istinto di sopravvivenza agì al posto suo, facendolo correre ad una velocità che non avrebbe mai nemmeno sperato di poter raggiungere. Superò Kylar in poche falcate, cercando di ignorare la ferita che ruggiva di dolore, e arrivò al primo gradino una manciata di secondi prima della sua "guida", che ora cercava disperatamente di salvarsi la pelle.
Di nuovo, l'istinto di Alwyn agì per lui. Alzò il braccio destro, che non aveva mai lasciato il coltello da lancio, e mirò all'addome di Kylar sperando che la sua morte avrebbe distratto il minotauro.
E, per una volta, il ragazzo del distretto undici ebbe ragione sul fato. La lama si conficcò in profondità nel petto di Kylar, che cadde in ginocchio sputando sangue.
Il cannone sparò all'improvviso, e ad Alwyn sembrò che il tempo si fosse fermato.
Guardò con orrore il mostro fiondarsi sul ragazzo, e gli parve che sul volto dalle fattezze animalesche fosse dipinta una smorfia di soddisfazione. Spalancò le fauci e, con uno strattone, staccò la testa al ragazzo. Il mostro si accanì su ciò che rimaneva del suo corpo mutilato e gli azzannò il petto, con rabbia. Il suo muso grondava di sangue e gli occhi sembravano ardere di una primitiva gioia, derivata dalla morte del giovane.
In pochi assalti il mostro aveva ridotto il corpo della sua vittima a brandelli e, alla vista della carne viva tra le zanne della creatura, Alwyn si riscosse e iniziò a salire con foga le scale, sperando che quel mostro si occupasse solo del terzo livello.
 
Si buttò a terra non appena mise piede al piano successivo. Sentiva le forze venirgli meno, e il sangue viscoso colava copioso sulla sua gamba. Riuscì ad avvicinarsi ad un muro e si tirò su aggrappandosi ad uno strano drappo che pendeva dal soffitto e, in pochi istanti, fu in piedi. Sapeva benissimo di non poter rimanere così allo scoperto: doveva assolutamente trovare un riparo se non voleva essere attaccato. Così si passò una mano sul volto detergendosi il sudore e alzò la testa, per riuscire a vedere meglio il quarto piano. Non appena vide tutta quella ricchezza, Alwyn pensò di essere impazzito, oppure di stare sognando.
Non sembrava affatto un'arena, e quel piano era così diverso dagli altri che sembrava appartenere ad un altro mondo: drappi rossi e rosa pendevano dal soffitto, e accarezzavano le spalle del ragazzo ad ogni passo. Il muro era immacolato, ricoperto da una carta da parati che sembrava quasi stoffa, e gli stessi negozi non trasudavano più il senso di abbandono che il ragazzo aveva già avuto modo di vedere. Le finestre che davano sull'esterno e i monitor che trasmettevano le comunicazioni di Capitol City erano coperti da tende di velluto rosso, e la luce che riusciva a filtrare appariva rossastra e inquietante. Ma la cosa più incredibile era il pavimento: interamente ricoperto da una passiera rosso sangue, decorata con splendidi arabeschi dorati. Alwy dimenticò per un attimo la stanchezza e il dolore, e iniziò a camminare su quel maestoso tappeto. Davanti a lui si srotolavano figure dorate, raffiguranti la morte in ogni sua forma. Cavalieri in battaglia feriti da spade o lance, degli uomini che lottavano brandendo dei coltelli, altri con dei lacci per strangolare, altri ancora giacevano agonizzanti nei propri letti. Erano realizzati in modo così accurato che Alwyn poteva quasi vedere il sudore imperlare la fronte dei soggetti, e fiutarne la paura. Si inginocchió difronte a quello che sembrava un plotone d'esecuzione e sfiorò con le dita i soldati in procinto di sparare, affascinato.
Si accorse della trappola solamente perché al primo piano era caduto in un tranello simile, che gli aveva provocato la ferita alla gamba. Si appiattì contro il pavimento, coprendosi il volto con le mani, prima che una pioggia di aghi da cucito di abbattesse sul lato sinistro del suo corpo.
 
Miranda sedeva a gambe incrociate e fissava il vuoto davanti a se, maneggiando con noncuranza i suoi coltelli. Alzò il braccio di scatto e iniziò a tirarli contro il legno di un albero, facendoli conficcare tutti con precisione nella corteccia. Gaison la fissava interessato, stradiato a terra supino. -Per caso ti annoi?- domandò retoricamente, rotolandosi sul pavimento per riuscire a guardarla negli occhi.
Lei ridacchiò, preparando dei nuovi coltelli in fila davanti a sé. -Scommettiamo che prendo quella foglia che cade?- chiese, indicando una foglia marroncina che si era appena staccata dal ramo. Gaison annuì, e iniziò a tenere d'occhio il percorso dell'oggetto della loro scommessa. Miranda attese ancora qualche secondo, dopodiché mirò alla foglia e la arpionò al tronco, sorridendo sprezzante all'indirizzo del ragazzo.
Lui le fece la linguaccia, fingendosi offeso. -Scommettiamo che non riesci a colpirmi?- ritentò, balzando in piedi. Lei si alzò lentamente, afferrando uno dei suoi coltelli più affilati. -Se perdi mi dai il pugnale, e non ti metti a piangere se ti colpisco- disse, con una serietà incredibile. Gaison sorrise-hai una così scarsa considerazione di me? Comunque se non mi colpisci mi ridai il coltello che hai vinto l'ultima volta- rispose, aggiustandosi i capelli con una mano. Miranda sorrise, mostrandosi d'accordo. Fece scattare la mano in un attimo, e il pugnale volò in direzione del cuore di Gaison. Lui estrasse la spada, pronto a deviarne la traiettoria con un semplice tondo.
Però, quando l'arma fu a pochi metri dal ragazzo, un nuovo coltello spuntò dal nulla, intercettando la lama. Gaison e Miranda fecero una smorfia, abbassando le armi.
-Larev, perché devi sempre rovinare tutto?-disse la ragazza delusa, voltandosi in direzione del loro alleato. Lui la fulminò con lo sguardo e spostò la sua attenzione su Gaison, sperando di trovare in lui l'immagine di una persona seria. Il ragazzo, però, lo guardò con occhio critico e incrociò le braccia, cercando di farlo sentire in colpa.
Larev alzò gli occhi al cielo, andando a recuperare il suo coltello e quello di Miranda. Lo lanciò nella sua direzione e lei lo afferrò senza difficoltà per il manico, riponendolo nella cintura. -Andiamo ad esplorare piano superiore, così la smettete di cercare di uccidervi- disse, raccogliendo dalla cornucopia delle armi che avrebbero potuto tornargli utili. I due ragazzi annuirono, e si prepararono a loro volta a lasciare la "base" portando con sé le loro poche provviste. Prima di iniziare a salire le scale, Gaison si voltò verso la compagna, tendendole una mano. -Non mi hai colpito- la canzonò, sfoderando un larghissimo sorriso. Lei lo guardò di sottecchi, bofonchiando qualcosa che il ragazzo non riuscì a capire, ma poi gli allungò il coltello controvoglia.
 
Quando i favoriti raggiunsero il primo livello, si stupirono del fatto che il buio regnava sovrano. Procedettero a tentoni, finché Larev non trovò una fiaccola e la staccò dal sostegno, che fece uno strano rumore. Gaison si voltò di scatto, preoccupato per il sonoro "click" che aveva emesso quello strano anello di ferro. Miranda guardò in alto, attirata da un'insolito fruscio proveniente dal condotto dell'aria.
Una strana nebbia densa e grigia iniziò a fuoriuscire dalla grata posta esattamente sopra di loro, e li avvolse rapidamente. -È gas!- urlò la ragazza, non appena riuscì ad avvertire l'odore della sostanza. Gli occhi di Larev si fecero grandi di paura, e rimane incollato al suolo con la fiaccola stretta nella mano destra. Gaison, invece, fu più rapido.
Afferrò Miranda per un braccio e iniziò a correre. Poi, quando ebbe percorso una decina di metri, si voltò verso Larev, che non aveva avuto la prontezza di seguirli. La ragazza riuscì nuovamente ad articolare i pensieri, nonostante l'odore del gas le avesse annebbiato la mente. -Butta la fiaccola!- gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, tendendo una mano in direzione di Larev. Lui sembrò svegliarsi da un lungo sonno e finalmente scosse la testa, rendendosi conto che il pericolo non era solamente il gas.
-Muoviti o saltiamo tutti in aria!- aggiunse Gaison, dando voce ai suoi timori. Larev la gettò verso le scale e si buttò a terra tappandosi le orecchie con le mani, imitato dai suoi alleati.
Ci fu un esplosione.
Un esplosione forte, che fece tremare il pavimento e crollare parte del controsoffitto addosso ai ragazzi, i quali tremarono per il contraccolpo. Sentirono una scossa percorregli tutto il corpo, e seguì un boato che per poco non li assordò.
La prima a riemergere dalla polvere fu Miranda, che si tolse lentamente dei frammenti di intonaco dai capelli, scossa. Si mise a sedere tossendo e pulendosi la faccia con la manica della tuta. Allungò una mano in direzione di Gaison afferrandolo per una spalla e, quando lo sentì respirare sotto la sua stretta, tirò un sospiro di sollievo.
Lo scosse con entrambe le braccia, e fu addirittura costretta a tirargli uno schiaffo per fargli aprire gli occhi. Il ragazzo girò la testa di lato e parve incapace di riprendere a respirare, tanto che Miranda dovette aiutarlo a mettersi seduto e gli allungò la borraccia con l'acqua. Quando Gaison fu in grado di bere da solo, la ragazza si alzò barcollando per andare in cerca di Larev, che però la anticipò venendole incontro. Camminava a fatica e doveva appoggiarsi al muro per non cadere, ma se non altro era vivo. Miranda si abbandonò nuovamente a terra, prendendosi la testa tra le mani. Larev le appoggiò una mano sulla spalla cercando di consolarla, ma riuscì soltanto a farla rabbrividire. Sospirò e raggiunse Gaison, che adesso sembrava più lucido.
-Gaison, mi senti?- domandò, sperando che non fosse diventato sordo. Il ragazzo annuì, ricominciando a tracannare l'acqua dalla borraccia. -Miranda?-
La ragazza alzò la testa timidamente, asciugandosi le lacrime. -Tutto bene- rispose con voce tremante. -Perfetto, allora dai un'occhiata al mio orecchio- disse, cercando di nascondere la paura e indicando l'orecchio destro. Non appena Miranda vide il sangue trasalì, ma si affrettò a recuperare garze e erbe che aveva trovato nella farmacia dalla sua borsa di canapa.
 
-Credo che sia una perdita d'udito momentanea-disse quando ebbe finito di fasciare e disinfettare l'orecchio di Larev. -Dall'altro ci senti?- domandò preoccupato Gaison, sporgendosi da dietro le spalle della ragazza.
Il ragazzo del distretto uno lo fulminò nuovamente con lo sguardo, inarcando un sopracciglio. -No, sto rispondendo a caso alle vostre domande da mezz'ora- disse, con la voce grondante di sarcasmo. Miranda tossì soffocando una risata e Gaison si unì a lei, sotto lo sguardo severo di Larev che li ignorò deliberatamente.
-Dobbiamo andarcene, e direi che sotto non possiamo tornare- osservò, indicando la scala bloccata dai detriti alle sue spalle. Gaison si avvicinò alla frana, e riuscì a trovare una fenditura stretta e scomoda, ma dalla quale avrebbero potuto  passare. -Un modo ci sarebbe, ma credo sia inutile scendere alla cornucopia- rispose, ritrovando la serietà.
-Allora andiamocene, qui non mi piace per niente.-
I due ragazzi si voltarono verso Miranda, che non sembrava essersi rispresa del tutto dall'esplosione. Larev le tese una mano, aiutandola ad alzarsi.
-Ha ragione lei, andiamo via prima che questo posto ci uccida.- 



Capitolo sette, regno legnoso.
 

Emma si era trascinata faticosamente nel negozietto di alimentari.
Per sfuggire al labirinto aveva dovuto tentare la pericolosissima esperienza di buttarsi nel getto d’acqua, finendo però con l’essere trascinata fin sopra la cornucopia, contro cui aveva sbattuto prepotentemente il bacino.
Per un paio di minuti credette di morire. Le sembrava d’aver smesso di respirare, come se la caduta le avesse sfracellato i polmoni. Con fatica aveva ripreso a muoversi regolarmente, non fosse per il terribile dolore al bacino: qualche costola ro tta ce l’aveva di sicuro.
Ora se ne stava lì, rintanata nell’alimentare, sotto un tubo gocciolante. Doveva bendarsi.
Trascinandosi a fatica riuscì a ispezionare ogni singolo armadio del negozio. Per lo più vi trovò conserve ammuffite. In uno degli ultimi, però, c’erano dei vestiti che, con un sospiro sollevato, riuscì a strappare e a legarsi stretti stretti intorno al bacino.
Non si trattava certo di un gran prodigio medico, ma meglio che niente.
Dovendo riprendere le forze si nascose sotto il banco degli alimentari e lì s’addormentò, così, esausta.
Venne svegliata quando percepì l’esplosione proveniente dal piano superiore. Fece un tal baccano da mandarle il cuore in gola.
Avrebbe voluto allontanarsi, ma era troppo stanca, anche se il dolore sembrava essere fortunatamente diminuito. Così Emma rimase lì, sotto quel bancone, senza né acqua né cibo.

Yvonne invece sembrava stare bene.
Dopo aver assistito la sera prima al litigio tra Bryan ed Elaine, aveva inconsciamente seguito le orme della ragazza. Elaine aveva trovato in un negozio di dolciumi alcune caramelle e in una macelleria della carne ancora incredibilmente conservata da una cella frigorifera.
Quell’anno gli Strateghi non sembravano voler morti di fame, preferendo incentrare la loro edizione sull’assassinio nudo e crudo dei tributi.
Da una parte Yvonne ne era sollevata, dall’altra spaventata.
Così, mentre Elaine raccoglieva della carne nella cella frigorifera, Yvonne aspettava pazientemente che arrivasse il suo turno.
D’un tratto sentì il debole squittio di alcuni topi. Prima sembrava un lontano ronzio di sottofondo, poi si fece sempre più vicino, sempre più insistente.
Improvvisamente nella macelleria iniziarono a entrare alcuni ratti, grandi, enormi, passando dalle vetrate e dalle fessure nelle pareti, e diventarono sempre di più, sempre di più! Come un fiume grigio scorsero all’interno del negozio, verso la ragazza, che, spaventata, gridò.
E fu un grido talmente agghiacciante, talmente acuto, che Elaine non poté fare a meno di sentirlo.
Sollevò di colpo il capo aspettandosi il peggio, quando vide correrle incontro una ragazza apparentemente disarmata, inseguita da una mandria di ratti feroci, gettarsi nella cella frigorifera e serrarsi dietro la porta blindata.
All’inizio ci furono solo secondi colmi di silenzio, dove Elaine fissava scioccata Yvonne, mentre da fuori proveniva il costante rosicchiare di topi mutanti.
Improvvisamente la temperatura, già bassa di per sé, calò.
Ora si guardarono seriamente.
Elaine estrasse un coltellino, fissandola battagliera, e Yvonne, comprendendone le intenzioni, fece appena in tempo a sussurrare un debole “no” che si ritrovò a scansare il primo affondo.
— Aspetta— disse, ma Elaine non le diede ascolto, tentando nuovamente di colpirla.
Yvonne fece un salto ai limiti del possibile, roteando in aria e atterrando dietro Elaine, che però non si fece ingannare, e, voltandosi prontamente, tentò un nuovo affondo.
A vuoto.
Questa volta ci mancò realmente un soffio. Yvonne allora decise di passare al contrattacco, mirando alle gambe, ma Elaine riuscì a saltare appena in tempo.
Yvonne si alzò di slancio, prendendone un braccio e bloccandoglielo attorno al collo, quasi a strozzarla, ma Elaine era più forte e, con una gomitata, le prese lo stomaco.
Yvonne allentò la presa quel poco che bastava ad Elaine per liberarsi, ma quando questa tentò un nuovo attacco si beccò un calcio perfettamente assestato contro al fianco sinistro e cadde a terra.
Yvonne stava per colpirla con un pugno dritto in faccia, quando Elaine scansò di poco la testa sollevando rapida una gamba in un calcio che prese solo in parte lo stomaco dell’avversaria. Per quanto Elaine fosse più forte di Yvonne e altrettanto veloce, le mosse della ragazza erano più tecnicamente precise. Se n’era resa conto.
In più sembrava che la temperatura calasse di secondo in secondo, tanto che le manovre delle combattenti divennero sempre più rigide e lente.
Quando Elaine si ritrovò con la schiena contro il portone tentò di aprire la serratura, che, incredibilmente, sembrava essersi bloccata.
Allora s’irrigidì.
Yvonne vide sul volto della ragazza un’espressione talmente terrorizzata che non poteva avere nulla a che fare con il combattimento.
— È bloccato…— la sentì sussurrare.
Yvonne spalancò la bocca e, avvicinandosi alla ragazza, prese a battere prepotentemente contro il portone invocando aiuto, spaventata dal gelo crescente. Nessuna delle due si sentiva sicura al fianco dell’altra, ma condividevano lo stesso viscerale terrore di morire per ipotermia.
— Là! Guarda!— disse a un tratto Yvonne, indicando un antico condotto d’areazione che, probabilmente, produceva aria gelida.
Entrambe ci si fiondarono sopra, poi Elaine, con il coltellino, ne svitò le viti.
— E ora?— fece Yvonne.
Elaine teneva ancora tra le mani il coltello, indecisa: da una parte si sentiva quasi tentata di scappare con lei, era lo sguardo di Yvonne, la sicurezza che aveva nel non volerla uccidere in quel determinato momento, come se la ragazza non avesse mai avuto intenzione di attaccarla, come se volesse altro da lei. D’altra parte credeva che fosse meglio ammazzarla subito.
Era un avversario temibile e chissà come avrebbe potuto attaccarla non appena le avesse voltato le spalle.
Yvonne, comprendendone i pensieri, sospirò seccata.
— Senti— disse spiccia— tu non mi conosci, ma io conosco te. E siccome ci tengo ad uscire viva da qui è meglio se chiariamo subito. Sono Yvonne Komova, vengo dal Distretto 4. Non ho mai avuto una vita facile, io. Ho lavorato per proteggere mio nonno e, come avrai capito, ho imparato le arti marziali. Per qualche strano e malato caso del destino mi sono ritrovata a combattere in una cella frigorifera contro l’unico tributo dell’intera edizione degli Hunger Games che io apprezzassi e stimassi. Ti ho vista allenarti e mi sei subito sembrata fortissima, ogni parola che sentivo uscire dalla tua bocca era pregna di simpatia e vivacità. L’intervista non ha fatto altro che accrescere la mia stima nei tuoi confronti con quella storia del volontariato. Quindi, adesso che sai chi sono e cosa penso di te, decidi: mi vuoi morta subito o preferisci discuterne fuori da qui?
Elaine, stupita dal discorso veloce ma sicuro di Yvonne, si decise: rinfoderò il coltello e, avvicinandosi alla bocca del condotto, ci si chinò sopra.
— Usciamo di qui.
— Vuoi passare per là dentro? Non sappiamo nemmeno se c’è una via d’uscita. Probabilmente terminerà con una ventola che soffia aria gelida.
— Dobbiamo almeno provarci. Io vado avanti, tu seguimi.
Con queste parole Elaine prese a gattonare nel condotto.
Era fortunatamente abbastanza largo da permettere di muoversi liberamente, ma il freddo divenne tanto pungente da rendere faticoso ogni singolo passo.
Elaine e Yvonne si mossero caute e tremanti per il condotto, quando videro la ventola al termine della via.
Elaine stava proprio per proporre di tornare indietro, quando notò sotto di sé una seconda bocca d’areazione dare sul bancone di un negozietto al primo livello.
Con il coltello fece pressione per liberare il condotto, ma le sue mani erano talmente congelate da non riuscire a muoversi liberamente. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto lasciò cadere frustata l’arma.
Incredibilmente questa venne raccolta da Yvonne, che continuò il lavoro lasciando una stupita Elaine ad assistere. Finalmente l’ennesimo tentativo andò a segno e le due ragazze poterono calarsi tra polvere e carbone.
La prima a scendere fu Yvonne, che prese a tossire per il troppo sporco, poi toccò a Elaine che si tirò immediatamente su soddisfatta con un sorriso incoraggiante a illuminarle il viso.— Ce l’abbiamo fatta!— esultò portando entrambe le mani al cielo. Poi rise per la faccia nera di fuliggine che Yvonne non si era nemmeno accorta di avere.
— Allora, che ne dici?— fece lei.— continuiamo ora il combattimento o la finiamo qui?
Elaine, per tutta risposta, le porse un fazzoletto.


— E se poi i favoriti se la sono portata via, questa tua ascia?
— Allora torniamo indietro. Rilassati.
Carol non era rilassata. Avrebbe preferito tenersi a debita distanza dal regno dei favoriti. Invece Bryan insisteva per recuperare l’ascia della Cornucopia, in mano ai nemici.
La paura rendeva Carol ansiosa, e l’ansia portava a risposte acide molto poco adatte al suo ruolo nella recita. Quando succedeva che al continuo farneticare di Bryan, la ragazza rispondesse stizzita e inacidita, lui sorrideva sempre. In genere apprezzava quando Carol si scoperchiava un po’ e se la ragazza era disposta a lasciar trasparire una parte di sé, ne era solo che felice.
Avevano passato insieme l’intera giornata girovagando per il secondo livello, indecisi se scendere o tentare la salita, quando poi Bryan aveva ricordato l’incredibile arma della Cornucopia.
Ed ora eccoli lì, sulle scale, a pochi metri dall’inferno.
Quando videro che effettivamente non c’era nessuno, Carol si rilassò visivamente e iniziò a scendere più tranquilla la scalinata.
— Che strano però— disse Bryan — com’è che i favoriti non ci sono?
— Avranno nascosto le armi da qualche parte.— rispose Carol— magari hanno fatto scattare loro l’esplosione di prima. Magari è morto qualcuno.
— Non ho sentito colpi di cannone.
— Ovviamente, con tutto il frastuono che c’è stato!
Bryan scosse le spalle. Lui non temeva i favoriti. Era sempre stato un valido combattente, uno di quelli che poteva uscirci davvero, dall’inferno degli Hunger Games.
Iniziarono a perlustrare i vari negozi. Una farmacia, un negozio di vestiti, uno di scarpe, un paio di profumerie.
Alla fine fu Carol a trovare tra i libri di una biblioteca le cianfrusaglie abbandonate dai favoriti. L’ascia, una katana, l’arco, due sacchi a pelo e un paio di borracce. Tutte cose inutili, per loro.
— Chissà perché si sono portati via tutto quanto…— sussurrò Bryan.
— Magari non hanno trovato molto alla Cornucopia.— rispose Carol — e si sono portati dietro le provviste. Un vero peccato, speravo di trovarle. A noi non resta molto da mangiare.
Bryan propose di cercare nei negozi qualcosa da mettere sotto i denti. Iniziarono a ispezionare una piccola rosticceria – perché in quel centro commerciale c’era davvero di tutto – per poi proseguire con il controllo di una pasticceria. Gli unici residui di cibo commestibile sembravano essere ammuffiti.
Per ultimo vollero controllare in un’alimentare.
In realtà era piuttosto piccolo, un bancone con degli armadi, ma entrambi preferivano tentare.
Carol si avvicinò per prima alla cassa, poco guardinga.
Sotto gli occhi stupiti di Bryan, dal nulla volò un coltello, diretto alla fronte di Carol. Questa però, con un’agilità che nessuno le avrebbe attribuito, schivò prontamente il colpo afferrando al volo il manico del coltello.
Poi, con un sorriso, parlò.
— Ehi Bryan— disse infatti — guarda cos’ho trovato.
Il ragazzo le si avvicinò, trascinandosi dietro l’ascia come fosse un peso piuma.
Vide per terra, sotto il bancone, una ragazza. Non ricordava molto di lei, non sapeva che quella fosse Emma, il tributo femmina del 3.
Aveva dei begli occhi, tra il verde e l’azzurro, una pelle chiara, chiarissima.
Guardava fisso i suoi nemici con un luccichio nello sguardo che stava a dire “non mi arrenderò così”.
— Cosa ne facciamo di lei?— chiese, sapendo bene che comunque, se avesse voluto vincere, Emma sarebbe dovuta morire, prima o poi. — la uccidiamo?
Carol annuì, voltandosi. — Vediamo quanto bravo sei con quell’ascia.
Bryan sollevò in aria l’arma e mimando un “mi dispiace” con le labbra l’abbatté sulla ragazza.
Emma, con quel po’ di energie che riuscì a racimolare, si scansò per evitare il colpo fatale, che però s’abbatté sulla gamba, mozzandogliela.
Gridò di un grido assordante, denso di dolore e rabbia.
Carol, che si stava allontanando per non assistere al macello, quando sentì l’urlo si voltò di scatto.
— Ma che fai?— gridò — Una morte veloce, perché farla soffrire?
Bryan, per mettere fine a quello scempio, colpì una seconda volta la ragazza, mirando però meno superficialmente e centrando il collo del tributo, anche se Emma tentò di scansarsi.
Glielo mozzò, così: la sua testa rotolò sul pavimento, gli occhi ancora iniettati di sangue.
Bryan vide Carol socchiudere gli occhi e allontanarsi definitivamente dal negozio, strascicando i piedi sul terreno.
E quando raggiunse la piscina della Cornucopia prese a fissare il proprio riflesso nelle acque, quando questo tremò.
Alzando di poco lo sguardo, vide la terra franare.

Shaileen e Sara non avevano niente da mettere sotto i denti.
Grazie alla borraccia mandata dalle mentore di Shaileen erano riuscite e procurarsi dell’acqua, ma ciò di cui avevano davvero bisogno, roba da mangiare, non sembrava esserci da nessuna parte.
Stavano tentando l’esplorazione del primo livello, per quanto scarse fossero le probabilità di trovare qualcos’altro, oltre che polvere e carbone, quando Sara mise un piede in fallo cadendo in avanti. Tentò di aggrapparsi a un appiglio sulla parete, finendo però col tirare giù la maniglia di un negozio.
La porta di aprì.
Sara si tirò su appena in tempo per iniziare a correre, quando dal negozio iniziò a fuoriuscire una valanga immensa di terra.
— Corri!— gridò a Shaileen.
La ragazza dai capelli multicolore si voltò solo un attimo, poi scappò. Shaileen era velocissima, un razzo, imprendibile.
Sara non era così veloce, però. Fortunatamente sembrava che la terra scorresse lenta.
Raggiunsero la scalinata per il piano inferiore, prendendola senza ripensamenti, iniziarono a correre giù, sempre più velocemente.
Nessuna delle due prestò però attenzione a Carol. Tutte e tre erano scappate verso l’altra sponda della piscina, per non essere travolte.
Il tributo del ’10 si ritrovò così separato da Bryan, chiuso ancora nel negozio dell’altro lato della “collina terrosa”.
Quando la valanga fu arrestata, si voltò di scatto nella direzione delle intruse.
Erano due ragazze armate contro lei sola. Se si fosse passato al combattimento le sue chance non sarebbero state poi così buone.
Ma Carol non era tipo da farsi prendere dalla paura: la sua arma migliore stava sempre con lei.
— Ehi, state bene?— chiese, con la voce più preoccupata che le uscì.
Lentamente la polvere si diradò e riconobbe nelle due ragazze il tributo del 12 e la chioma multicolore di Shaileen.
Si avvicinò a lei, mettendole una mano sulla spalla ed aiutandola ad alzarsi, mentre questa tossiva.
— Niente di rotto?— chiese ancora, convincente. Shaileen si voltò, fissando il suo sguardo nelle iridi di Carol. Vi lesse dentro una sincera preoccupazione, un sincero desiderio che lei stesse bene. E in quella stretta, così sicura, la voglia di dare una mano.
Lesse in quello sguardo quel che era lei: una ragazza che non avrebbe mai fatto del male a nessuno. Perché Shaileen aveva imparato da suo padre che la sua vita valeva tanto quanto quella degli altri. Che nell’Arena avrebbe dovuto fare di tutto, fuorché uccidere.
Sara, una volta ripresasi, sfoderò il coltello puntandolo subito contro Carol. Aveva percepito il pericolo in un lampo e, con uno scatto, le andò addosso. Tentò un affondo che Carol riuscì a evitare facilmente, quando al secondo venne fermata dall’alleata.
— Fermati!— la riprese Shaileen. — Che stai facendo? — Elimino un nemico! — Nemico? Ma non lo vedi che ci stava aiutando?— Carol annuì rapidamente.
— Non voglio farvi del male.
Sara si ritrovò coinvolta dal tono sincero di lei. La ragazza era però ancora molto diffidente, non le piaceva Carol, non le piaceva quest’improvviso aiuto del nemico. Anche Shaileen era sospettosa, ma riconoscente. Di solito era un’attentissima osservatrice, riusciva a cogliere la realtà dove altri fallivano, ma quella volta la sua attenzione venne messa in secondo piano di fronte al desiderio di trovare, in quell’Arena di crudeli assassini, un’anima buona. Quello sguardo era lo stesso che aveva sempre lei negli occhi. Uno sguardo difficile da trovare. Uno sguardo unico.
— Allontanati— disse Sara alla ragazza.
Carol si mosse indietro, tenendo le mani alzate.
— Carol!— sentì gridare qualcuno dall’altro lato della valanga. — Carol, dove sei?
— Cercano me— disse lei. — È stato un piacere, davvero. A presto Shaileen. Ciao Sara.
Si voltò lentamente, fintamente disinteressata alle altre due. In realtà stava prestando attenzione ai loro movimenti, nel timore che l’attaccassero.
Ma né Shaileen né Sara fecero niente, videro semplicemente la ragazza allontanarsi, entrambe indecise su cosa fosse meglio fare.
Ma Shaileen era rimasta incantata da quella luce negli occhi.
Sara, invece, dalle sue sincere parole.



Theia aveva quasi interamente esplorato ogni singolo piano, fino al quinto. Cercava la terra adatta a lei. Il suo preferito era senz’altro il secondo livello, ma aveva quasi rischiato di essere mutilata da una pianta assassina, quindi niente.
Il primo livello sembrava abbastanza sicuro, ma era troppo buio, troppo sporco.
Il terzo, poi, dopo l’entusiasmante esperienza con la mandria di tori, aveva lasciato perdere.
Il quarto semplicemente l’aveva superato, appena compreso che fosse un labirinto.
Il quinto l’aveva controllato tutto, interamente, ma ogni passo poteva essere l’ultimo, ogni tappeto calpestato, ogni stoffa sfiorata.
Così aveva ripreso la scalata. Ormai il trucco dei dodici livelli l’aveva capito anche lei.
Teoricamente quello doveva essere il livello 7, con i piani che scorrevano all’inverso. Teoricamente il piano del suo Distretto era di due livelli più alto, ma non voleva rinunciare alla possibilità di valutare bene il settimo piano.
Così, armata di coraggio e buona volontà, terminò la scalinata. E si bloccò stupita.
Era fatto tutto di legno. Il pavimento, il soffitto, le porte, le vetrine, perfino, per quanto impossibile fosse da immaginare.
I lampadari sul soffitto erano di legno, le sculture per i corridoi erano di legno, l’aria sapeva di legname.
La ragazza entrò nel regno, incredula e meravigliata.
Su dei tavolini di legno c’erano dei vasi di legno contenenti fiori di legno. Senza colore, così, al naturale.
Camminò per i corridoi facendo scricchiolare il pavimento sotto i suoi piedi.
S’avvicinò ad una porta, una qualsiasi, e l’aprì: non conteneva altro giocattoli intagliati, un bancone per la vendita, degli scaffali. Theia accarezzò la parete del negozio, felicemente meravigliata.
Nel momento in cui sfiorò il legno, però, una scheggia le si conficcò nella mano. Ritrasse di scatto il braccio, fissando la punta legnosa conficcarsi sempre più nella pelle, come se avesse vita propria. Ora sentiva un dolore lancinante al dito indice, là dove la scheggia s’era conficcata.
Non bisognava mai toccare niente, nel regno legnoso. Ecco la legge del sesto livello.
Theia guardò fissò un punto qualsiasi del negozio, nella speranza di essere inquadrata.
— Mi serve qualcosa per togliere questa scheggia, fa malissimo e non riesco più a muovere bene il dito. Per favore Fides987! Per favore, sponsor!
E lo disse nella speranza di esserci riuscita, a conquistare qualche sponsor. Lo disse perché ci credeva davvero.
Si tolse le scarpe e le calze, facendo attenzione però a non sfiorare coi piedi nudi il pavimento. Poi si mise i calzini alle mani. Se il pericolo del sesto livello era l’impossibilità di toccare alcunché con la pelle nuda, allora questo poteva fare per lei. Non era una ragazza distratta, sarebbe riuscita a non commettere falli.
Però Theia sapeva anche che non sarebbe mai stato davvero così semplice, che gli strateghi avevano certamente ideato qualche altro malvagio trabocchetto. Ora non restava altro che scoprire cosa.


Eleuthera Libs sapeva di essere comparsa poco, sugli schermi. Certo, era solo il secondo giorno, però questo non avrebbe aiutato nella caccia agli sponsor.
Una dodicenne come lei aveva comunque pochissime chance di piacere al pubblico.
Si era trovata un piccolo cantuccio sicuro al secondo livello, dietro una pila si scatoloni, ma sapeva che non sarebbe potuta rimanere lì in eterno. Presto o tardi gli Strateghi avrebbero ideato qualcosa che per farla venire allo scoperto.
D’altra parte i bambini piacevano, negli Hunger Games. Rendevano tutto più interessante: un dodicenne morto suscitava tristezza a prescindere. La tristezza portava ascolti. Gli Strateghi vivevano d’ascolti.
Quindi, Eleuthera stava pensando a cosa fare per piacere al pubblico, per trovarsi qualche sponsor, per non essere presa di mira dagli Strateghi. E pensando, pensando e pensando, non le venne in mente nulla.
Avrebbe potuto creare un cortocircuito, ma a che scopo? Nessuno.
L’altra alternativa era tentare la salita, o quantomeno la discesa. Il giorno dopo ci avrebbe pensato meglio. Il giorno dopo avrebbe fatto qualcosa, per il pubblico.
Improvvisamente iniziò a risuonare l’inno e i monitor per il centro commerciale si accesero. Quel giorno mostrarono due sole foto: Kylar Tarsh ed Emma Wilkinson. Qualcuno li stava piangendo, a Panem, qualcuno forse rimpiangeva quei due giovani andati a morire per il divertimento di alcuni potenti.
Forse Alwyn non si sentiva in colpa per la morte di Kylar, forse Bryan non era dispiaciuto per il decesso di Emma, forse gli Strateghi anche se la ridevano, travolti dal lusso di un mondo colorato. Ma a Eleuthera dispiaceva. Perché poteva esserci lei, in quello schermo.
Socchiuse gli occhi, determinata. Se era suo destino che qualcuno vedesse la sua foto tra i monitor dell’Arena, ben venga: ma non avrebbe ceduto senza combattere. Vero, all’inizio, appena estratta, aveva soppesato l’idea di lasciarsi morire. Per poi cambiare idea.
Era rimasta viva per due giorni, due giorni in cui erano caduti nove tributi su ventiquattro.
Magari poteva farcela davvero. Magari poteva provarci.
E ci avrebbe provato. D’altra parte, che aveva da perdere? Niente.
Ed Eleuthera sorrise.
 
 
 
 
 
My space:
 
Woooooh.
Il capitolo più lungo nella storia dell’umanità.
Scommetto che non è mai esistito niente del genere, nei millenni trascorsi dalla fondazione di ef....
Ok, la smetto.
Come vi dicevo, abbiamo deciso di ri-pubblicare tutti i capitoli, in modo che ognuno possa rileggere la propria “parte preferita” e che i nuovi lettori riescano ad orientarsi, dando un’occhiata ai capitoli precedenti.
Poi! La storia è stata rimossa perchè il primo capitolo con le istruzioni non era regolamentare, ovvero non era un prologo ma bensì una lista di punti da seguire per partecipare alla storia. Mah.
Vi invitiamo caldamente a lasciarci un commento, per farci sapere se avete ritrovato la storia e se avete bisogno di eventuali chiarimenti.
Inoltre... sapete che vi dico? Potete sponsorizzare il vostro preferito e noi terremo conto del vostro voto, anche se magari avevate già recensito prima della rimozione e noi lo avevamo già contato.
Vedetelo come un bonus per il vostro preferito (?) hahahaha vabbeh, è una specie di incentivo, lol.
Grazie per aver letto, e scusate il disagio creatosi per la nostra ignoranza riguardo alcune norme del regolamento di efp cwc
Il prossimo capitolo (che ho finito di scrivere ieri) verrà pubblicato non appena riusciremo a ritrovare almeno parte dei nostri lettori, speriamo presto :’)
E la drabble di Emma appena ho un attimo,  lol.
A presto e scusateci ancora!
 
 
-NiallsUnicorn 

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Capitolo 2
*** Capitolo otto, Silenzi. ***




Capitolo otto, Silenzi.

 

 
 

Noah si svegliò di soprassalto, sentendosi mancare l'aria. Si era addormentato su dei morbidi cuscini di seta rosa in un negozio del quinto livello e, essendo stremato, non si era preoccupato più di tanto di esaminare il suo provvisorio giaciglio. Aveva vagato per i piani sottostanti per l'intera giornata, deciso a trovare qualcosa di adatto a lui. Aveva deciso deciso a fermarsi lì per la notte non solo perché era stanchissimo, ma anche perché aveva notato che più saliva e più le tracce del passaggio degli altri tributi diminuivano. Ma, nonostante la sua incredibile intelligenza, si era dimenticato che quei ragazzi dallo sfortunato destino non erano i suoi soli avversari.
I cuscini avevano improvvisamente preso vita, e si stavano stringendo attorno al suo collo e al suo viso in una soffice ma letale morsa. Subito iniziò a tossire, e cercò di strapparseli di dosso con le mani, che vennero immediatamente immobilizzate da due lembi di tessuto della vicina tenda in velluto. Quando Noah si sentì sollevare da terra per i polsi, iniziò a farsi prendere dal panico. Fece per urlare, ma un nuovo cuscino volò sulla sua bocca, minacciando di soffocarlo. Il suo volto si fece paonazzo e, d'istinto, morse con forza la seta e la strappò, facendo cadere al suolo una pioggia di piume nere come la pece, che si sciolsero in macchie nere ed oleose appena toccarono terra.
Con un gesto disperato diede uno strattone con il braccio destro e riuscì ad allentare la presa della tenda, afferrando a fatica un piccolo coltello affilato appeso alla cintura. Lo conficcò con rabbia nel cuscino avvolto attorno alla sua gola, che si sciolse in una e gli scivolò lento lungo il petto. Sempre con il coltello, recise con un rapido gesto la tenda stretta attorno al polso sinistro. La stoffa si sfilacciò e i fili si contorsero ancora per qualche secondo, prima lasciarsi cadere finalmente senza vita.
Noah cadde in ginocchio nel liquido nero, tossendo e massaggiandosi il collo.
Estrasse una piccola borraccia e bevve tutta l'acqua in un sorso, prima di alzarsi faticosamente e riprendere la sua scalata verso i piani superiori.
 
Superò il sesto livello senza troppe difficoltà, stando attento a tenersi alla larga da quel magnifico lavoro di falegnameria operato su muri, pavimenti e suppellettili. Tutto lì sembrava urlare "pericolo", e il piacevole odore di pino non compensava la totale mancanza di cibo. Così decise di continuare a salire, perché sapeva che quel posto così suggestivo non avrebbe potuto ospitare altro se non terribili trappole.
Giunse al settimo piano circa un'ora dopo, rallentato da un specie di trappola posta alla base della scalinata, rigorosamente in legno. Si trattava di una specie di un imponente portone, con un piccolo meccanismo posto nel mezzo. Noah era riuscito a farlo scattare aggiungendo al posto giusto una delle tante rotelline di legno incastonate accanto ai battenti, e le porte si erano aperte scricchiolando, richiudendosi velocemente al suo passaggio. Il ragazzo rabbrividí, ma continuò a salire le scale sperando in un repentino cambiamento di ambiente.
Era ormai al piano dedicato al distretto sei, quello dei trasporti, e ciò che si trovò davanti lo spaventò e lo affascinò al tempo stesso. Il pavimento era nero, così come le pareti, il soffitto e le porte dei negozi. Non riuscì a vedere ad un palmo dal suo naso, finché non mosse i primi passi in avanti. Le piastrelle si illuminarono al contatto con le suole delle sue scarpe, e una luce violetta invase quel posto altrimenti cupo e inquietante. Subito delle sfere nere si staccarono con grazia dai loro sostegni e iniziarono a fluttuare sopra di lui accendendosi di una luce dorata, forte e brillante. Continuò a camminare, incerto, e le sfere lo seguirono silenziosamente. Quel posto cominciò ad illuminarsi sotto il suo sguardo attonito, e un vento piuttosto freddo e impetuoso iniziò a soffiare. Fu costretto a ripararsi il volto con le mani, per evitare che le raffiche gli ferissero gli occhi: a Noah sembrò di essere tornato al giorno della mietitura, nel momento in cui il treno che doveva portarlo a Capitol City era arrivato con una tale velocità da costringerlo ad arretrare per lo spostamento d'aria. Avanzò a fatica, sempre seguito dalle sfere luminose che non avevano alcun problema con quel vento.
Dopo qualche minuto, scorse due deboli bagliori in lontananza e aguzzò la vista, per cercare di capire cosa fossero. Le luci, che sembravano uguali a quelle che gli fluttuavano attorno, si avvicinarono ad una velocità inaudita, fendendo l'aria con un fischio leggero. Noah si accorse della loro reale pericolosità solo quando furono a pochi metri da lui, e si sentì in procinto di essere investito. Scartò di lato e si buttò a terra giusto in tempo, per evitare di essere travolto da quelli che sembravano i fari di un'automobile. Non fece in tempo a rialzarsi che delle nuove luci dorate girarono l'angolo in tutta fretta e gli passarono accanto, sollevandogli i ricci bruni dalla fronte.
Devo andarmene di qui,pensò tremante.
 
-Ho fame- si lamentò Miranda, mettendo il broncio. Gaison alzò gli occhi al cielo, ma Larev non fece una piega, continuando ad affilare i suoi coltelli. -Ho fame- ripeté la ragazza, vedendo che nessuno le prestava attenzione. -Mangia una merendina- le suggerì il suo compagno di distretto, spostando la torcia verso di lei e illuminandole il volto. Miranda fece una smorfia e arricciò il naso, contrariata. -Punto primo: sanno di muffa- esordì, svendolando un pacchetto trasparente contenente una poltiglia da un colore indefinito. -E secondo... Siamo i favoriti, ragazzi! Si chiamano "giochi della fame", ma non mi risulta che in cinquant'anni i tributi dei nostri distretti l'abbiano mai sofferta!- concluse, battendo un pugno sul pavimento ricoperto di polvere di carbone e sollevandone un po'.
-Infatti ci stiamo preparando per andare a caccia-le fece notare Gaison, indicano il compagno seduto a gambe incrociate con gli occhi socchiusi, che stava cercando di concentrarsi.
Miranda afferrò le sue armi, miracolosamente intatte dopo l'esplosione, e si infilò velocemente il gilet con i coltelli da lancio. -Sono pronta, andiamo?- domandò, saltando in piedi. Il ragazzo del distretto uno sbuffò e si alzò con lentezza, seguito da Gaison che si aiutò con la sua lancia: non si erano ancora completamente ristabiliti e, nonostante fossero in grado di difendersi da eventuali attacchi, non erano al massimo delle loro forze.
Si guardarono attorno un po' spaesati e notarono che, durante la notte, avevano perso l'orientamento. Si erano allontanati rapidamente dal luogo dell'esplosione, imboccando un corridio dopo l'altro senza sapere dove stessero andando. Poi si erano addormentati senza nemmeno cenare, ed ora non avevano la più pallida idea di dove si trovassero.
Larev prese un profondo respiro e, recuperando la sua tipica freddezza, iniziò a calcolare le varie possibilità. -Questo livello non è infinito, quindi non sarà difficile trovare l'uscita. Dobbiamo solo capire di quanto ci siamo allontanati dal punto di partenza, e per farlo dobbiamo rimetterci immediatamente in cammino-
Gaison si accarezzò il mento, pensieroso. -Da che parte pensi che dovremmo andare? Le orme si cancellano immediatamente da questo pavimento, non vedo come potremmo tornare sui nostri passi- disse, senza nascondere la sua ansia dovuta alla possibilità di non trovare la via d'uscita.
-Durante la seconda parte del traggitto ho capito che ci stavamo allontanando troppo, così ho strusciato un coltello contro la parete. Immagino cheabbiate notato il rumore che facevo- replicò, avvicinandosi al muro e tastando il profilo dei mattoni, in cerca di un graffio. Larev sorrise, incontrando con le dita un piccolo solco.
-E per la prima parte come facciamo?-domandò Miranda, iniziando a rimuovere la polvere dal muro per rendere visibile la linea sottile ma utilissima tracciata dal ragazzo. Lui si morse l'interno della guancia, indeciso. -Per adesso seguiamo questa pista, poi vedremo-
 
Erano appena giunti ad un bivio, quando la linea si interruppe di colpo. Miranda passò la manica della sua tuta ovunque scoprendo il muro dai contorni irregolari ma privo di graffi, nonostante dentro di sé sapesse già di essere giunta  alla fine. -È inutile, non c'è altro- confermò Larev, squadrano quel posto con occhio clinico. A destra c'erano fiaccole poco luminose, poste ad intervalli regolari per rischiarare quel buio altrimenti completo. Dalla parte opposta, lo stesso identico panorama. Gaison tacque, e si avvicinò con passo deciso ma felpato al corridoio di sinistra. -Credo che sia da questa parte- commentò, appoggiando una mano sul muro.
-Come fai ad esserne così sicuro?- domandò Miranda, con la voce sporcata dal dubbio. Lui alzò le spalle.
-Non saprei, me lo sento. Cosa abbiamo da perdere?-
-Uhm, non saprei... Forse la nostra vita?-rispose la ragazza cercando di assumere un cipiglio severo, ma fallendo miseramente nell'intento. Gaison sorrise, divertito dalla sua smorfia. -Dividiamoci- propose, avvicinandosi alla prima torcia del corridoio e staccandola dal sostegno. -Vi faccio notare che l'ultima volta che ci siamo divisi Ivy è morta e abbiamo perso Luke- protestò, cercando di far ragionare i due ragazzi e indirizzando a Larev uno sguardo accusatorio.
-Loro non erano necessari, li ho accoppiati proprio perché sapevo che avrebbero fatto quella fine. Nel caso tu temessi per la tua incolumità, ti faccio notare che sei l'unica in grado di riconoscere le erbe e produrre unguenti vari, e quindi di curarmi- rispose a tono, indicando il suo orecchio ferito. Gaison gli diede ragione, e il suo sostegno sembrò tranquillizzare un po' Miranda, che restò comunque molto scettica.
-Facciamo così, se hai ragione tu questa volta ti regalo ben due coltelli- disse il ragazzo ammiccando, strappandole un sorriso tirato. Larev si massaggiò le tempie con le mani, rassegnandosi all'evidente incapacità dei suoi compagni di rimanere seri.
-Ci sto. Ma adesso muoviti, prima che cambi idea e decida di prenderti a calci-replicò Miranda, cercando di nascondere il nervosismo e facendogli un breve cenno di saluto. Gaison sorrise e fece per andarsene, ma Larev lo afferrò per un braccio. -Chi trova per primo l'uscita fischia, siamo intesi? Qui c'è molta eco, non dovrebbe essere un problema sentirsi- si impose, serio come non mai. Il ragazzo annuì, dopodiché si liberò dalla stretta dell'alleato e proseguì per la sua strada.
 
Eleuthera era inginocchiata nell'ombra, pronta a scattare come una molla al più piccolo rumore. Non aveva margine di errore, non poteva assolutamente permettersi di sbagliare, oppure la sua trappola non avrebbe funzionato e lei sarebbe morta.
Era un meccanismo piuttosto semplice, eppure per lei avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e la morte. Aveva trovato una bacinella in un negozio abbandonato e polveroso, e la aveva riempita d'acqua più volte, rovesciandola sul pavimento. Dopo aver creato una pozza abbastanza estesa, si era occupata della parte legata all'elettricità, quella a lei più congeniale. Non era stato facile trovare un posto dove collegare i cavi trovati nello zaino, dato che lì il sistema d'illuminazione consisteva semplicemente in qualche fiaccola quà e là. Ma, dopo tanto cercare, aveva finalmente trovato il quadro di controllo di quel piano in un bagno, ed era riuscita a riattivarlo sfruttando le sue conoscenze.
Le era stato molto utile anche il coltellino svizzero inviatole dal suo mentore quella mattina stessa: proprio grazie a quel dono si era decisa ad uscire dall'ombra.
Guardò un'ultima volta la pozza e i cavi nell'acqua, e attese il momento giusto per spostare la leva su "on" e attivare la corrente. La sua prima vittima sarebbe morta con i fuochi d'artificio, poco ma sicuro.
Non sapeva cosa avrebbe provato vedendo un ragazzo morire folgorato.
Paura, forse? Orrore per sé stessa, magari.
Di certo vedere la pelle friggere e sfrigolare non sarebbe stato un bello spettacolo, ma era ben consapevole del fatto che, in un corpo a corpo, non satebbe ma riuscita ad avere la meglio. Quindi lei, la più giovane dell'arena, avrebbe trovato un modo tutto suo per farsi valere.
Eleutera sorrise nell'ombra e si appiattì ancora di più al muro, sentendo dei passi in avvicinamento. Erano passi incerti di chi non sapeva dove andare, certo, ma erano anche passi smorzati, segno che di lì a poco avrebbe ucciso un bravo combattente. Si concesse giusto un po' di curiosità, e dischiuse di qualche millimetro la porta del bagno accanto all'interruttore. Non appena la torce illuminarono il volto del malcapitato, però, Eleuthera si sentì gelare il sangue.
Gaison. La bambina deglutì, ma cercò di portare ugualmente la mano all'interruttore.
Ancora qualche passo e sarebbe morto.
Ancora qualche passo e il ragazzo che le aveva salvato la vita sarebbe stato ucciso, da lei.
Bel modo che hai di ripagarlo,si disse tristemente.
Guardò il suo volto disteso, la sua espressione perplessa non appena i suoi piedi toccarono l'acqua. Si avvicinò ancora di più a lei, posizionandosi esattamente al centro della pozza per cercare di capire da dove provenisse tutta quell'acqua. Era il momento giusto, non avrebbe avuto occasioni migliori per far scattare l'interruttore e ucciderlo.
Sarebbe morto. Il suo salvatore sarebbe morto, e non avrebbe mai più avuto modo di ringraziarlo. Scosse la testa e si concesse tre secondi per attivare la trappola: se avesse aspettato troppo tutti i suoi sforzi sarebbero stati vani.
Uno.
Gaison notò che la porta del bagno era aperta, e si accigliò inclinando la testa di lato.
Due.
Si avvicinò a lei, pur rimanendo con i piedi nell'acqua.
Tre.
-Levati di lì, per l'amor del cielo- disse Eleuthera, sospirando e spostando la mano dalla leva dell'interruttore. Il ragazzo sobbalzò e la bambina aprì la porta, svelando la sua identità. Lui sbarrò gli occhi e fece un passo indietro, capendo finalmente la finalità dell'acqua sul pavimento.
-Tu mi hai salvato...- disse il ragazzo, in un sussurro.
-Tecnicamente ho anche cercato di ucciderti, ma... Si, ti ho salvato dalla mia stessa trappola. Ora, se non ti dispiace, uccidimi in fretta, non vorrei soffrire troppo- disse Eleuthera, stringendo i pugni lungo i fianchi e serrando le palpebre.
Lo sapeva, sapeva che sarebbe finita così. Puoi sperare nella generosità di una persona una volta, ma poi basta.
Soprattutto nell'arena, dove ogni buona azione è una condanna a morte.
Però, invece del freddo dell'acciaio, Eleuthera si sentì toccare la spalla da una mano grande e calda, con una stretta sicura. -Non ti ucciderò, non posso- un tono di voce amaro e velato di tristezza, per delle parole che alla bambina parvero insensate.
Aprì gli occhi e li puntò in quelli azzurri di Gaison, sostenendo il suo sguardo non senza difficoltà.
-Certo che puoi. Hai una spada, una lancia, dei coltelli. Sei il doppio di me, potresti strangolarmi anche con una mano sola- rispose Eleuthera, cercando di tenere a bada il tremito della sua voce. Lei era forte, lei non era solo una stupida bambina tra tante, lei non sarebbe morta con le lacrime a rigarle il volto. Ignorò il bruciore agli angoli degli occhi e deglutì, per evitare di mettersi a piangere.
Gaison sorrise tristemente, rafforzando la sua presa sulla spalla di Eleuthera. -Non è semplicemente una questione di poterlo fare. Hai ragione, potrei ucciderti in almeno un centinaio di modi diversi- la bambina deglutì, preparandosi al peggio.
-Ma non vedo perché dovrei farlo-proseguì invece Gaison, lasciandola di stucco. La rabbia però prese presto il posto della gratitudine, ed Eleuthera si sentì presa in giro.
-Perché dovresti? Ma fai sul serio? Forse perché questi sono gli Hunger Games, forse perché tu sei un favorito, forse perché una dodicenne non potrebbe vincere in alcun modo, tanto vale farmi fuori subito!- urlò gesticolando. Ma perché non le era capitato un avversario come gli altri? Perché quel ragazzo si ostinava a proteggerla? Perché non poteva semplicemente ucciderla e farla finita con quella farsa del ragazzo "buono e gentile"?
Gaison fece un passo indietro, colpito dall'incredibile forza d'animo di quella ragazzina così piccola eppure così determinata. Cosa le avrebbe risposto? Che a lui non piaceva uccidere, per poi guadagnarsi così lo scherno degli abitanti della capitale? Assolutamente no, non avrebbe gettato in quel modo tutti i suoi sforzi per apparire forte ai loro occhi. Gli serviva una scusa plausibile, un qualcosa che lo facesse apparire buono, ma non debole.
-Non uccido le persone che non costituiscono una minaccia. Non credo che tu in questo momento possieda i mezzi per attentare alla mia vita, giusto?-domandò. Eleuthera fu costretta ad abbassare lo sguardo, e Gaison sorrise. Rimasero in silenzio per qualche secondo, ognuno perso nei propri pensieri, quando il rumore di un fischio lontano echeggiò tra quelle mura sporche e silenziose. Il ragazzo si riscosse, ricordandosi che i suoi alleati lo attendevano, e puntò nuovamente i suoi occhi in quelli confusi di Eleuthera.
-Cosa sta succedendo?- domandò la bambina, guardandosi attorno e temendo di essere caduta in una trappola. -Niente, ma devo andare- rispose Gaison nervoso, voltandosi verso il corridoio da cui era venuto. -Hai del cibo?- aggiunse rapidamente, senza nemmeno darle il tempo di dubitare delle sue parole. Eleuthera scosse la testa, e lui si sfilò in fretta e furia lo zaino dalle spalle, estraendo una confezione di biscotti dall'aspetto decisamente poco gustoso. -So che non è molto, ma prendila- sussurrò, piazzandole il pacchetto tra le mani. La bambina inarcò un sopracciglio, fissando la carta colorata e le scritte sulla confezione. -Scherzi, vero?-
-Assolutamente no. Rimani in zona, così che io possa trovarti nel caso dovessimo rivederci- rispose serissimo, con un aria cospiratoria che quasi fece ridere Eleuthera.
Si, stava scherzando. Oppure era impazzito, poco ma sicuro.
-Gaison, non costringermi a venire lì!-la voce di Miranda rimbalzò per tutto il piano, giungendo al diretto interessato forte e chiara.
-Devo andare-ripeté il ragazzo, stringendo una mano alla bambina che lo guardava shockata. -Arrivo!- urlò, facendo dietrofront e mettendosi a correre per raggiungere i compagni il prima possibile. Eleuthera rimase sola nell'ombra, con il pacco di biscotti acora stretto in mano. Gaison sarà anche stato pazzo, ma per lei la sua pazzia si era rivelata provvidenziale.
 
Sam e Luke sedevano accanto ad un falò improvvisato al secondo livello, e il primo cambiava il bendaggio all'irascibile compagno.
-Devi proprio masticare quella roba prima di mettermela addosso?-si lamentò Luke, gemendo ogni volta che Sam toccava la sua scottata. Lui alzò gli occhi al cielo, voltandosi verso il fuoco e girando un pennuto che erano riusciti a catturare il pomeriggio stesso. Non sarebbe certo stato un pranzo da Re, ma non erano ancora in condizione di spostarsi per andare a caccia. Sam si controllò nuovamente le ferite alle caviglie e cambiò il bendaggio dopo averle disinfettate, sperando di riuscire a guarire più in fretta grazie alla sua conoscenza delle erbe. Nonostante fossero più gravi di quanto si aspettasse non aveva alcuna intenzione di gettare la spugna, tanto meno di dire a Luke che non si sentiva in grado di rimettersi in marcia. Lo avrebbe ucciso seduta stante, non appena avesse capito che gli era più utile morto che vivo.
-Direi che potremmo provare a raggiungere il piano superiore tra un paio giorni- disse, cercando di non incontrare lo sguardo del compagno.
-Va bene anche domani, non sto così male-protestò Luke, notando un leggero tremore nelle mani del compagno. -Ho detto dopodomani- ribattè Sam acido, fingendo un interesse morboso per la cottura dell'uccello.
Il compagno lo osservò con occhio critico, dopodiché iniziò a fissare le goccioline di sudore che gli colavano lungo le tempie. -Hai la febbre?- domandò, con fare minaccioso.
Sam non rispose ed aggiunse un rametto al fuoco, fingendo di non averlo sentito. Luke sbuffò rumorosamente. Silenzio.
-Perché non mi dici come ti senti!-ruggì il ragazzo, infastidito. Sam, questa volta, fu costretto ad alzare lo sguardo e a guardare l'alleato, controvoglia. -Si, ho la febbre- confessò freddamente. -Ma dura già da ieri, quindi dovrei guarire a breve- concluse, prendendo la sua ascia e osservando i giochi di luce che le fiamme creavano sulla lama.
Luke cercò di mantenere la calma e prese un respiro profondo, per evitare di prenderlo a schiaffi. -Avresti potuto dirmelo-
-Scommetto che non avresti gradito- rispose Sam, tornando a guardare le fiamme.
Luke inarcò un sopracciglio e sospirò, dopodichè si unì al compagno nella contemplazione delle fiamme.
Mangiarono in silenzio, con la mente altrove, pensando al futuro di quell'alleanza praticamente morta in partenza. Solo un patto di convenienza, ecco cos'era. Si parlavano lo stretto necessario, si toccavano solo per curarsi, si guardavano a malapena; ma la cosa che più infastidiva Sam era il silenzio.
Non tanto perché fosse una persona loquace, più che altro perché tutti quei rumori come lo sfrigolare del fuoco e il frinire dei grilli, facilmente copribili con un semplice scambio di parole, lo irritavano. E lui, da sempre arrabbiato con il mondo, non era ciò che si definirebbe una persona paziente e capace di sopportare in silenzio.
Iniziò ad agitarsi, guardarsi attorno, fare rumore di proposito con un bastoncino, sotto lo sguardo attonito di Luke. -Ma cosa diavolo stai facendo?- domandò, inarcando un sopracciglio. Sam borbottò un "niente" con noncuranza e, dopo qualche minuto di silenzio, iniziò a fissare il suo compagno, sperando di distrarsi.
Lo vide sbadigliare, grattarsi la schiena, rabbrividire e stringersi una coperta consunta attorno alle spalle, ma non avvicinarsi al fuoco. Inclinò la testa di lato, e iniziò a tracciare un profilo del carattere del compagno, cercando di ricordare tutto ciò che sapesse di lui.
-Perché hai paura del fuoco?-domandò all'improvviso, facendolo sobbalzare. Luke strinse le labbra e lo incenerì con lo sguardo, mettendolo a disagio. -Non ho paura del fuoco.- 
Sam sorrise mesto e scosse la testa, esibendo una smorfia di superiorità. -Bugia- cantilenò.
Il ragazzo tacque e strinse le palpebre. Non puoi ucciderlo, lui sa curarti. Non puoi ucciderlo, lui sa curarti. Non puoi ucciderlo, lui sa...
-Allora?- ripeté Sam, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
-Non sono affari tuoi- rispose in un soffio, gelido come il vento d'inverno. Non poteva dirglielo, non avrebbe capito. Per Luke, Sam non era altro che un montato, il ricco figlio del sindaco che passava le giornate a oziare nella sua villa del distretto nove.
Per Sam, invece, Luke era una specie di assassino senza cuore, al quale non importa nulla di niente e nessuno, il favorito perfetto.
Nessuno dei due riusciva a vedere oltre la facciata, non che si sforzassero più di tanto. Due caratteri così chiusi, così scontrosi, così simili, erano impossibili da conciliare.
-Cosa nascondi?-insistette Sam, canzonandolo. Frono proprio il suo tono di sfida, la sua aria di superiorità e la sua insolenza, a far esplodere Luke.
-Sei un'idiota!-urlò, saltando in piedi. -Mi sorprende che tu sia rimasto vivo tanto a lungo! Vuoi sapere perché non amo il fuoco? Va bene!- Sam sbarrò gli occhi e lo invitò a sedersi e smettere di urlare, cercando di essere il più delicato possibile. Luke lo guardò furente ma acconsentì a tornare seduto, capendo che, se avesse continuato in quel modo, sarebbero stati scoperti. Dopo qualche secondo di silenzio si decise a continuare, giusto per far sentire in colpa l'alleato. -Ricordi che fine fece il ragazzo del distretto quattro l'anno scorso?- chiese, facendo scrocchiare le nocche. Sam ci pensò per qualche secondo. -Intendi quell'idiota che si è dato fuoco per sbaglio cercando di accendere... Oh- l'espressione del ragazzo divenne immediatamente triste, e si sentì mortificato. Luke rimase in silenzio e riprese a fissare le fiamme, in balia dei ricordi.
-Era tuo fratello, giusto?- chiese cauto, ricordando l'intervista di Luke.
Silenzio.
-Senti, mi dispiace. Non avrei dovuto mettermi a fare domande inopportune- si scusò Sam, sincero. Non chiedeva scusa da molto, troppo tempo, quindi Luke avrebbe dovuto farsi andare bene quelle poche parole. Il ragazzo però sorrise sprezzante, alzando lo sguardo. Le fiamme si riflettevano nei suoi occhi, facendoli sembrare di brace e, alla luce della sera, il favorito sembrava ancora più inquietante del solito. -Immagino quanto il povero figlio del sindaco possa essere dispiaciuto. Tieniti la tua pietà e lascia il rammarico a tuo padre, perché di lacrime ne piangerà abbastanza per entrambi quando morirai- sputò con disprezzo. Sam ricambiò lo sguardo e ridusse gli occhi a due fessure, offeso. -Per tua informazione, non vedo mio padre da anni. E non credo che quel bastardo piangerà, quando non mi vedrà tornare.-
Luke rimase spiazzato, e il ragazzo continuò a fissarlo con odio. Ancora silenzio.
Sam sospirò, e lasciò perdere il rancore. -Non so che idea ti sia fatto di me, ma sappi che è sbagliata. Ti ho offerto le mie scuse, accettale e basta.-
Luke arricciò le labbra ma sentì la sincerità nelle parole del ragazzo, che iniziava a compatire. -Va bene- disse infine, senza tradire alcuna emozione.
-A questo punto dovresti dire che dispiace anche a te- lo informò Sam, inarcando un sopracciglio. -Non esageriamo- replicò l'altro, lasciandosi sfuggire un sorriso che somigliava più ad un ghigno.
Sam sorrise a sua volta, prima di gettare altra legna nel fuoco.
 
 
 
 
 
 
My space:

Buh!
Finalmente un capitolo di una lunghezza accettabile HAHAHAHAHAHA beh, più o meno.
Se non altro è meglio del precedente, lol.
Comunque! Sorpresa sorpresina, non muore nessuno. *risata sadica* ma credo che ci rifaremo nel prossimo capitolo. In realtà non abbiamo ancora deciso chi fare fuori D: ma un morto ci sarà. Forse. (?)
Pooooi... Ecco come al solito la lista degli sponsor!
 
1. Larev : 1 sponsor
2. Miranda Prisly : 12 sponsor
2. Gaison Humphrey : 21 sponsor (wow!)
3. Noah Garrison : 10 sponsor
4. Luke Rockford : 4 sponsor
4. Yvonne Komova : 10 sponsor
5. Eleuthera Libs : 2 sponsor
6. Theia Johnson : 19 sponsor (wow di nuovo) (?)
7. Elaine Evelyn : 9 sponsor
7. Bryan Gregory :
8. Shaileen Turner : 15 sponsor
9. Sam Dickson :
10. Carol Todd : 2 sponsor
11. Alwyn Bennett : 9 sponsor
12. Sara Tompson : 1 sponsor
 
Alcuni di voi ci hanno chiesto anche la lista delle vittime di ognuno, ma è ancora in lavorazione lol. Quindi pazientate ancora un pochetto!
Grazie a tutti quelli che hanno letto/recensito il primo maxycapitolo, e grazie anche alle persone che hanno inserito nuovamente la storia tra le seguite/preferite/ricordate :)
Graaaazie di cuore.
A presto!
Ah, e ricordatevi di passare dalla drabble di Emma! 


     
Bascii, medusa c:
 


-Scritto da NiallsUnicorn 

 

ps. non so perchè l'interlinea è così alto. Probabilmente è uno dei misteri di efp che rimarranno irrisolti.

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Capitolo 3
*** Tra calliopi e farfalle meccaniche ***



 

                                                                        Calliopi e farfalle meccaniche




Theia Jhonson aveva visto giorni migliori.

Appollaiata com’era in un negozietto di – guarda che novità – legno, stava cercando di estrarre dal suo dito quel coso, tramite la bellissima pinzetta che Fides987 le aveva gentilmente inviato.

La scheggia si era conficcata ancor più profondamente nel dito e le era parso quasi di sentire dei tentacoli avvolgersi attorno all’osso. Con brivido e dolore, aveva compreso quanto la scheggia stesse lentamente stritolando la falange, sempre più in profondità: sembrava volersi espandere per l’intera mano.

Senza farsi prendere dal panico, Theia riuscì a ad agguantare la scheggia. Iniziò a tirare, sperando che i tentacoli non si spezzassero all’interno del dito.

Invece percepì distintamente quegli orrori quasi viscidi ritirarsi dall’osso, man mano che estraeva la scheggia.

Theia riuscì a liberare totalmente l’orrore, con un sospiro di sollievo. Ora il dito non faceva più male.

Portò la mano destra davanti a sé, cercando di muovere le dita. L’indice restava fermo.

Era riuscita a salvare la mano, ma perdendo un dito.

Theia sospirò. Almeno, se fosse riuscita a vincere, Capitol City glielo avrebbe risistemato.

 

Ancora fermi al secondo livello, che ormai conoscevano a menadito, Carol e Bryan si stavano rifornendo d’acqua alla “fonte”. Ancora non riuscivano a spiegarsi da dove venisse, come potesse quel flusso fuoriuscire da un foro del soffitto.

D’altro canto, avevano altro a cui pensare. O meglio, Bryan aveva altro a cui pensare, ovvero come fare a salvaguardarsi dagli abili trabocchetti di Carol. Metteva in discussione tutto ciò che diceva, dal “buongiorno” mattutino al “buonanotte” serale.

Carol cominciava a perdere la pazienza, e l’impazienza le faceva rispondere acidamente. E Bryan rideva, sempre, quando lei si scoperchiava un po’. Ormai la ragazza aveva praticamente rinunciato alla recita, non ne sentiva più il bisogno. Bryan sembrava più legato a lei quando rispondeva sarcastica, che quando sorrideva falsamente contenta.

Ciò che la faceva impazzire, però, era quel maledetto soprannome.

— Biondina, hai finito? Ho sete.

— Smettila di chiamarmi Biondina, razza di deficiente!

Bryan ridacchiò, avvicinandosi all’acqua. A lui Carol piaceva. Anche se poteva finire nella sua trappola un secondo sì e l’altro pure, la trovava quasi divertente, in gamba. Era una buona alleata, fintantoché non avesse cercato di ucciderlo. Non si era ancora pentito di quella scelta, nonostante la scenata di Elaine.

Un po’ gli dispiaceva, sì, anche Elaine gli stava simpatica, ma Carol era più interessante.

Elaine era essenzialmente una persona buona, forte, ma buona. Carol aveva una serie di sfumature, talvolta anche paurose, che la rendevano semplicemente unica.

E poi amava stuzzicarla. C’era da ridere.

— Muoviamoci, oggi vorrei provare a salire.— disse Carol, rigirandosi tra le mani un coltello.

Bryan smise di bere, fissando Carol, sospettoso.

— E perché vorresti salire?— chiese in tono incerto, molto cauto.

— Perché magari è più interessante che qui, okay?

— Cosa c’è al piano di sopra?
— Non lo so.

— Stai cercando di mettermi in trappola?

Carol gridò portandosi entrambe le mani al volto. Non lo sopportava quando faceva così. Lei voleva soltanto salire al piano di sopra.  

Maledetto Cassian per avergli detto quanto pericolosa fosse. Maledetto. Ora Carol non poteva dire quasi niente senza che il suo alleato s’insospettisse.

— Rilassati Biondina.

— Non chiamarmi così!

Bryan sorrise ancora.

— Beh, io ho fame— disse. — prima mangiamo, poi ci pensiamo.

Carol annuì spazientita. Aveva fame anche lei, ma, disgraziatamente, il cibo dovevano andare a procurarselo.

Lei e Bryan presero a camminare per il secondo piano. La sera prima avevano trovato sostentamento in certe bacche, bluastre, succose, ai limiti del piano. Invece, a lungo andare, trovarono di meglio.

Uno splendido albero sconosciuto, per quanto ormai il secondo livello lo conoscessero a memoria, sulla cui cima crescevano degli strani frutti rossicci.

— Sono calliopi! Nel mio distretto li mangiamo sempre. Frutti geneticamente modificati. — disse Carol, meravigliata. Gli strateghi avevano deciso di far loro una sorpresina.

Disgraziatamente il ramo più basso era ugualmente piuttosto alto. Per raggiungerlo, Carol dovette salire sulle spalle di Bryan.

Si mise in ginocchio, reggendosi con una mano sulla testa del ragazzo, mentre l’altra si protese verso il primo frutto. Quando riuscì ad afferrare anche il secondo, però, si tese eccessivamente in avanti e crollò a terra.

Bryan non fece in tempo a frenare completamente la caduta che Carol sbatté prepotentemente il capo contro il pavimento.

— Carol!— gridò il ragazzo, chinandosi su di lei. Sperando stesse bene, le sollevò mesto la testa. Carol socchiuse leggermente gli occhi, mugugnando dolorante.

— Che botta…— sussurrò, massaggiandosi il capo.

Bryan sospirò sollevato, alzandosi in piedi.

— Biondina, sembrerai anche uno scoiattolo, ma in quanto ad agilità non ci siamo proprio.

— Non chiamarmi Biondina! Ti piacerebbe se io ti soprannominassi “Moro Bluastro?”

Bryan rise di gusto. — Moro Bluastro ?— chiese.

— Per i capelli neri dai riflessi blu, ovvio! Che deficiente…

Bryan non sapeva se essere più colpito dal fatto che Carol l’avesse notato, o più stizzito dal soprannome idiota.

In entrambi i casi, la sua attenzione era interamente rivolta ai calliopi.

Carol li raccolse entrambi da terra, ispezionandoli. Uno era in buone condizioni, l’altro invece per metà immangiabile. Così le venne in mente un’idea simpatica. Tenne il frutto ammaccato nella mano destra, coprendo il più possibile il lato scuro, e porse a Bryan quello sano.

Il ragazzo guardò sospettoso il frutto. Sapeva che Carol stava organizzando qualcosa, ma non si sarebbe fatto ingannare.

— No. Dammi l’altro.

Carol finse stupore. Un’espressione da Oscar.

— Perché? Non ti piace questo?
— Dammi l’altro.

Carol, falsamente reticente, gli lanciò il frutto ammaccato. Bryan sorrise soddisfatto, fino a che, rigirandoselo tra le mani, non notò il lato completamente nero.

— Ma cosa…?

Carol rise di gusto, esibendo in aria il calliope intatto.
— Hai visto?— disse poi — Se sei così tanto sospettoso, per me è più facile ingannarti. E se avessi voluto farti fuori l’avrei già fatto, quindi rilassati, una buona volta, e smettila di rendermi impossibile la vita. Non ti uccido, promesso. E ora prendi, che il tuo stomaco è da ‘sta mattina che brontola!

Carol gli lanciò il calliope sano, sorridendo. Chissà che non avesse finalmente imparato la lezione.

— Grazie mille, Biondina.

— E non chiamarmi Biondina! 

 

E mentre Carol e Bryan discutevano di soprannomi e calliopi vari, Sara e Shaileen tentarono un esperimento.

Dopo aver compreso che i piani del centro commerciale erano divisi per distretti, Shaileen aveva provato l’immensa curiosità di scoprire come fosse strutturato il suo livello, ma, raggiunto il piano-tessuti e trovato questo paurosamente letale, ignorarono la cosa e tentarono la salita.

Sara aveva suggerito di oltrepassare il piano di legno, ma, raggiunto il settimo livello, furono inseguite da un treno in corsa, per cui decisero semplicemente di salire ancora.

— A me non sembra una buona idea— aveva detto Shaileen.— più si va avanti più la cosa si fa pericolosa.

Ma alla fine erano entrambe curiose di scoprire cosa mai avessero ideato gli Strateghi per un Distretto che si occupava di energia.

Effettivamente, però, “energia” non era affatto rassicurante come termine.

Una volta affacciatasi sul piano, videro com’era strutturato.

Completamente azzurro lungo le pareti e sul soffitto, a stonare erano alcuni tasselli del pavimento. Certe mattonelle sembravano in tinta col resto della sala, di un azzurro quasi brillante, altre, invece, erano rosse cremisi.

Sara stava già per fare un passo in avanti, quando Shaileen la fermò trattenendola per un braccio. Staccando dalla parete della scala pezzi di intonaco li lanciò sul pavimento del bellissimo livello. Toccando terra, alcuni vennero colpiti da ondate di elettricità, altri no.

— Le mattonelle azzurre sono cariche di energia, quelle rosse invece sembrano sicure. — disse Sara, stupita. Poi, facendo un salto, atterrò sulla prima mattonella rossa.

— Ma cosa fai?— chiese Shaileen, spaventata.

— Vado a vedere cosa c’è di là, seguimi!— le rispose quella, continuando a saltellare tra una mattonella e l’altra. Shaileen, reticente, prese a seguire l’alleata.

Saltellarono come pazze, rischiando spesso di perdere l’equilibrio, fino a che non raggiunsero la fonte d’acqua. Con estremo stupore, videro che il foro sul soffitto era più ampio del solito e, incredibilmente, attraverso l’ondata d’acqua potevano quasi scorgere una rete.

— Che cosa strana.— disse Sara. — che ci sarà al piano di sopra?
— Non lo so— rispose Shaileen.— Ma non sono così convinta di volerlo scoprire.

Sara e Shaileen rimasero così un paio di minuti, nell’ispezionare il soffitto. Sarebbero state curiose di scoprire anche cosa contenessero i vari negozi, ma temevano che le stesse maniglie fossero elettrificate, quindi rinunciarono.

Saltellando ripercorsero la strada all’inverso, meno concentrate di quanto fossero prima. Fu proprio per un secondo di distrazione, un misero movimento brusco, che dalla tasca di Shaileen precipitò una farfallina meccanica.

La ragazza vide con orrore il suo preziosissimo portafortuna precipitare tra le piastrelle elettrificate. In un gesto involontario dettato dal desiderio di salvare qualcosa di tanto prezioso come il ricordo di sua sorella, si piegò in avanti per frenare la caduta. Non toccò direttamente la mattonella, ma la farfalla sì. Si propagò attraverso le ali del portafortuna una scarica che le elettrificò l’intero corpo: fu uno choc. Le immobilizzò il corpo nel dolore più lancinante che Shaileen avesse mai provato. Stringeva ancora tra le mani la farfalla, calda come caldo stava diventando il suo corpo, man mano che la scarica in sé passava, percepiva ancora quel senso di dolore totale, quell’energia stravolgerle l’anima. Perse l’equilibrio. Sara urlò. Shaileen cadde contro la porta di un negozio, e in quel momento tutto s’immobilizzò. Attesero la scarica elettrica che avrebbe segnato la fine di Shaileen, Sara gridò, lei chiuse gli occhi.

Niente.

Nei due secondi in cui il tempo sembrò essersi fermato non accadde nulla. Il cuore di entrambe riprese a battere freneticamente in un tum-tum sollevato. Le porte non erano elettrificate.

Siccome Shaileen si sentì improvvisamente debolissima, ripercorse la strada reggendosi alle porte dei negozi, in uno sforzo di volontà quasi impressionante. Una volta giunta sulla scala si lasciò cadere a terra.

 

Quando rinvenne, Shaileen si trovava distesa su di un giaciglio improvvisato tra le foglie del secondo piano. Sara l’aveva trascinata attraverso tutti quei livelli fin dentro un negozietto disastrato.  

Aprendo gli occhi vide la sua giovane alleata seduta contro la parete, con davanti a sé la farfalla meccanica, svolazzante. Rivide in quell’immagine la se stessa di molti anni prima. Le parve quasi sentir risuonare la delicata ninna nanna.

— È bellissima— disse Sara, senza nemmeno assicurarsi che Shaileen si fosse effettivamente svegliata, lo sguardo perso alla farfalla. — Dove l’hai presa?
— L’ha fatta mio padre.— sussurrò lei, cercando di mettersi seduta. La voce era uscita particolarmente rauca.

— Era per Sophie— continuò.— mia sorella.

Sara annuì, mentre il giocattolo prese a volteggiare verso Shaileen. Lei lo raccolse tra le mani.

— Non sapevo che avessi una sorella.

— Ce l’avevo. È morta quando aveva un anno. Lei e mia madre, insieme, non so perché.

Ma Sara percepì in quella frase una sfumatura di dubbio, una nota dolente.

— Com’è successo?— chiese.

Shaileen chinò il capo. La farfalla sbatteva ancora animatamente le ali meccaniche. Come quando suo padre lasciava che volteggiasse attorno alla culla di Sophie. Come quando era tanto felice. Come prima che accade.

— Io e mio padre eravamo fuori, in giardino.

La farfalla che vola. Lei chinata sui fiori. La risata di suo padre.

— Poi c’è stato un urlo.

Forte, sofferente.

— Lui è corso a vedere. Mi ha detto di non seguirlo.

La preoccupazione, la fretta.

— Io non l’ho ascoltato.

Passi veloci. Passi ansiosi.  

— E c’erano loro. Morte.

Sangue.

Rosso.

Sangue.

— E un petalo bianco sotto il comodino.

Shaileen non aggiunse altro e Sara pensò bene di non insistere, ma le si fece vicina, chinando il capo sulla spalla della ragazza, in un gesto di affetto.

Non dissero più niente. Fu solo silenzio. Un silenzio ricco di parole gentili, discorsi toccanti e rivelazioni, un silenzio che celava all’udito degli altri i segreti di due nuove amiche. E la farfalla, intanto, sbatteva ancora le ali.

 

 

Elaine era stanca. Dopo aver marciato un’intera giornata era davvero stanca. Fortunatamente la ferita al braccio provocata da Jude il giorno del massacro aveva smesso totalmente di farle male, per quanto già da tempo non ne percepiva più alcun fastidio. 

Ugualmente, però, era tutto il pomeriggio che pensava a quella ragazza, la sua prima vittima. Sperava che i bambini dell’orfanotrofio non avessero guardato la televisione, quel giorno. Si ritrovò ad invidiare Yvonne per non aver ancora ucciso nessuno, per non aver ancora assaggiato il dolore dell’omicidio. Più volte la sua alleata aveva cercato di distrarla, consolarla, ma niente: Elaine, in genere così allegra e solare, quel pomeriggio l’aveva passato a metabolizzare la cosa.

E, alla fin fine, giunse a una sconcertante rivelazione: non era la fine del mondo. Non era la fine del mondo.

— Non è la fine del mondo— disse ad un tratto, fermandosi. Yvonne, sollevando stupita il sopracciglio, si voltò.

— Cosa?
— Non è la fine del mondo. Non l’ho uccisa perché sono un mostro io, ma perché mi ci hanno obbligata. Non è la fine del mondo. Lei probabilmente sarebbe morta ugualmente. Non è la fine del mondo. — e il suo volto si illuminò di un sorriso sollevato. — Finché ucciderò qua dentro, e finché non sarà per divertimento, non sarò mai un mostro. Vero?
Yvonne, sorridendo, annuì. Era tutto il pomeriggio che la sua alleata farneticava su “mostri”, “ignobili azioni” e “bambini traumatizzati”. A nulla erano serviti i suoi rimproveri, i suoi consigli, ma forse il dolore provato nel piantare un coltello nel corpo di un essere umano può venir superato solo da se stessi.

— Finalmente ci sei arrivata! Ma si può sapere com’è che oggi ti è venuto da pensare a questa storia? Sono passati giorni dal bagno di sangue.

Elaine sollevò le spalle. Semplicemente non aveva avuto troppo tempo per riflettere, prima.

— Che importanza ha? Ora sto molto meglio!

— Bene, e allora muoviti, dai, che siamo quasi arrivate al sesto livello.

— Pietà!— chiese Elaine — E da prima che camminiamo. Riposiamoci un attimo qui, sulla scalinata.

Yvonne scosse il capo, discorde. — Sta calando il sole: penso sia meglio trovare un posto sicuro dove dormire.

— E perché non sulle scale? Che ti hanno fatto di male?

Intanto però Yvonne vide Elaine sfilarsi una scarpa. Il piede era gonfio e rosso.

— Che ti sei fatta?

— Abbiamo camminato tanto, ‘sta tranquilla che fra un po’ mi passa.

— Va bene, ho capito.— disse Yvonne.— tu rimani qui a riposare, grida se hai bisogno di aiuto. Io intanto vado a controllare il piano di sopra, torno appena trovato il posto giusto.

— Sissignora! — rispose lei in tono falsamente serio. Intanto si lasciò cadere a terra, sulla scalinata, a massaggiarsi il piede dolorante.

 

Yvonne si ritrovò nel piano del legno. Era splendido. Tutto decorato con legname finemente lavorato: la metteva quasi in soggezione.

A ogni suo passo il pavimento scricchiolava, ma poco importava: era come se nessuno si fosse fermato a riposare, lì. Lei l’avrebbe fatto.

Stava giusto per tornare indietro a prendere Elaine, che scorse un’ombra, dietro un angolo, correre via. Yvonne la seguì, così, istintivamente, sfoderando il coltello.

Una volta raggiunto l’angolo si voltò di scatto, già pronta a una manovra di difesa. Davanti a lei, completamente disarmata, stava solo una ragazza dai capelli scuri, legati, esile. Carina, non certamente bella. Qualcuno che Yvonne ricordava di sfuggita.

Theia, perché di Theia di trattava, aveva appena avuto un’idea geniale: dimostrare quanto valeva grazie alle sue conoscenze del piano di legno.

Una delle assi del pavimento, lì, era parzialmente rotta: pestandola era quasi precipitata a terra e, se non avesse avuto i calzini alle mani, probabilmente sarebbe stata aggredita da molte altre schegge stringi-ossa.

Yvonne fece un passo avanti. Quelli erano gli Hunger Games, lei voleva sopravvivere. E se voleva sopravvivere era meglio eliminare qualche avversario, a cominciare da un avversario disarmato.

D’improvviso fece uno scatto, prese a correre nella sua direzione, veloce, fulminea. Nella corsa, però, pestò l’asse sbagliata: questa, parzialmente inclinata, la fece cadere a terra, a pochi centimetri da Theia.

E le schegge la trafissero.

Sentì distintamente quelle cose perforarle la pelle: erano tante, migliaia, prima sulle mani, poi, scivolando, anche sul collo e sulla faccia. Le stringevano le ossa, si espandevano, alcune vene scoppiarono, le sentii sui denti, nel naso, negli occhi. Quelle cose le avvolsero il bulbo oculare, stritolandolo, dissanguandolo, in un dolore lancinante. Gridò. Gridò come una forsennata, disperata. Gridò così forte che Elaine la sentì.

Si stava rimettendo bene la scarpa, quando percepì l’urlo. Comprese subito, neanche a rifletterci, che a gridare fosse Yvonne. Prese a correre su per la scalinata e poi in direzione delle urla, dietro l’angolo.

— Yvonne!— gridò.

Era distesa sul pavimento, contratta da spasmodici movimenti, sanguinante, con gli occhi bianchi, la mascella spalancata e dei tentacoli a fuoriuscirle dalle gengive.

Fece per chinarsi quando Yvonne gridò, terrorizzata: — Non toccarmi!

Elaine si ritrasse di scatto, spaventata, e intanto l’alleata continuava a chiedere di non essere toccata.

— Fossi in te le darei ascolto.

Voltandosi vide Theia Jhonson, una di quelle che Capitol City sembrava apprezzare maggiormente già dalle interviste.

— Tutto in questo piano è fatto di schegge che ti perforano la pelle se solo osi sfiorarle. La tua amica è caduta e guarda un po’ cosa le è successo. Vuoi per caso fare la stessa fine?

Elaine non rispose, scioccata.

Theia estrasse un coltello, il coltello di Yvonne, ed Elaine si mise scattante sulla difensiva. Ma Theia aveva già ucciso a sufficienza per non dormirci la notte, quel giorno, e far fuori anche Elaine non era nei suoi piani. Le lanciò il coltello dritto tra le mani.

— Sta soffrendo molto, morirà. Decidi te se aspettare che ciò avvenga o se darle una mano. Ti saluto. E possa la buona sorte essere sempre a tuo favore.

E se ne andò, così, correndo.

Elaine rimase sola con Yvonne, indecisa, a rigirarsi il coltello tra le mani.

— Fallo!— gridò Yvonne— Fallo, ti prego, fallo!

Ed Elaine versò un’unica lacrima mentre, soffrendo, perforò la sua alleata con la lama di un coltello.

 

Non si sa bene come, ma Bryan e Carol si ritrovarono a gareggiare su chi lanciava i semi di calliope più lontano.

Erano seduti entrambi contro la parete, tiravano morsi ai frutti, riempiendosi la bocca di tanti piccoli semi. Poi, al tre, sparavano il più lontano possibile.

Al terzo round Bryan e Carol tirarono un nuovo morso, lui con me mani indicò la partenza e i due tirarono.

— Ho vinto!— esultò Carol, portando le mani fin sopra la sua testa.

— Ma che dici? Non vedi quanto ti ho superata?
— Non raccontarmi balle, lo vedono tutti che ho vinto. E adesso tocca a te subire la punizione.

Bryan non tentò nemmeno di replicare. Erano due volte che vinceva lui e per due volte aveva costretto Carol a subire le sue penitenze.

— Va bene Biondina. Dimmi tu, che cosa devo fare?
— Non chiamarmi Biondina! E per punizione voglio che tu risponda a una domanda: quante ragazze hai avuto?

Bryan, per tutta risposta, prese a ridere. — Perché vorresti saperlo?
— Così, per curiosità. E visto che hai perso devi rispondere.

— Non molte a dire il vero.— disse lui. — Ho passato la mia vita ad allenarmi con l’ascia, ma ogni tanto qualcuna mi ha fatto cadere un po’ in tentazione. Un vero amore, però, mai.

Carol afferrò un nuovo calliope e se lo portò alla bocca. Voleva allontanare un po’ quella discussione imbarazzante. Questa volta fu lei a dare il segnale, quando anche Bryan morse il frutto.

La vittoria del ragazzo fu lampante. Il suo seme superò di gran lunga quello di Carol.

— No!
— Ho vinto di nuovo, sono un genio!

— Va bene, genio dei miei stivali, qual è la punizione questa volta?
E Bryan, sorridendo, rispose: — Anche tu ora devi rispondere a una mia domanda.

Carol se l’aspettava, ma se aveva davvero intenzione di scoperchiare un po’ la sua vita amorosa si sarebbe ritrovato davanti a una bella delusione.

— Perché ti sei offerta volontaria?

Lei spalancò di scatto gli occhi: non se l’aspettava. Nemmeno Caesar ne aveva fatto parola, all’intervista , poiché Carol era riuscita a tenere il discorso lontano da argomenti tanto spinosi.

Invece Bryan l’aveva notata già dalla Mietitura. Se non fosse sempre, in qualunque circostanza, padrona di sé, forse sarebbe arrossita.

— Non ho voglia di parlarne.

— Devi, hai perso.

— Ho detto che non ne ho voglia! E fatti i fatti tuoi, una buona volta!— lo riprese lei, tornando acida e scontrosa.

Bryan perse così il sorriso. Odiava quanto l’alleata si chiudeva a riccio, ogni ostacolo, con lei, diventava insormontabile.

— L’hai fatto per tuo fratello?— chiese.— Per Tom? Ne hai perlato all’intervista.

Carol strinse in pugni, raccogliendo tra le braccia le ginocchia e poggiandoci sopra il capo. Per qualche secondo rimase così, quasi tremante, poi di scatto sollevò il braccio, su cui splendeva il bracciale in pelle di suo fratello.

— Lo porto sempre con me, sempre. Mi ricorda di Tom e di ciò che hanno osato fargli, di come hanno osato uccidere l’unica persona che amassi al mondo!— prese un profondo respiro, carico di rabbia — Mi hanno tolto tutto, ma io mi ero allenata, mi ha allenato lui e ora lo vendicherò, costi quel che costi!

Bryan guardò seriamente la sua piccola alleata. Per la prima volta capì quanto doveva aver sofferto, quanto dolore stesse dietro il suo essersi offerta volontaria.

Le si avvicinò fino quasi a sfiorarla, per poi posare la mano destra tra i capelli biondi di Carol. Lei sollevò la testa, stupita.

Rimasero così per un po’, fino al risuonare dell’inno, quando i monitor per la sala di accesero mostrando il volto sorridendo di Yvonne Komova.

— Un solo morto, oggi— sussurrò lui.

— Un avversario in meno.— rispose lei, impassibile, tornando a mangiare il calliope.

 

 

Bacheca dell’autrice

 

Devo dire due cose importanti.

La prima è che Yvonne non doveva morire. Sì, avete capito bene, lei non doveva morire. Non sappiamo perfettamente come andranno le cose, né chi vincerà, ma io e NiallsUnicorn ci siamo ovviamente inventate qualche vicenda e abbiamo un’idea generale sul futuro dei vostri tributi.

I veri Hunger Games avrebbero dovuto iniziare nel prossimo capitolo, dove i tributi che voi avete fatto in tempo ad apprezzare ed amare nei nove capitoli precedenti avrebbero preso a morire davvero, dentro e fuori.

Invece molti sponsor si sono giustamente lamentati perché nello scorso capitolo non succede niente di interessante, nessun morto. Teoricamente non avremmo dovuto uccidere nessuno nemmeno in questo capitolo, ma ovviamente ci siamo ritrovate a sottostare alle vostre richieste: voi siete Capitol City, noi scriviamo per voi, e se è un morto che volete, un morto avrete. Ed ecco Yvonne.
Ciò non toglie che qualche altro capitolo senza morti ci sarà, in futuro: non possiamo finire gli Hunger Games in una sola settimana!

Yvonne sarebbe dovuta sopravvivere ancora per un bel po’, secondo i nostri piani. Ovviamente a noi la cosa non cambia molto, se abbiamo deciso di ucciderla è perché nel nostro piano è sostituibile.

 

Ben venuti agli Hunger Games! È così che funziona, qui.

 

Detto ciò, la seconda cosa da dire è che ho dovuto spezzare il paragrafo di Carol e Bryan in due, perché era venuto troppo lungo, ma questo l’avrete capito anche da soli.

 

Devo dire una cosa: sono scomparsi alcuni mentori, come il mentore di Shaileen, ad esempio. Il ché è un problema visto che senza mentori nessuno potrà decidere cosa mandare ai propri tributi. Siete quindi pregati di farci un fischio e dirci subito se ci siete o no, quelli che mancheranno all'appello verrano poi contattati. 

 


Ed ecco l'elenco delle vittim e di chi le ha uccise. 

u 1. Larev : Rhys Jones.

u 2. Miranda Prisly : Gore Mason.

u 2. Gaison Humphrey :

u 3. Noah Garrison :

u 4. Luke Rockford : Ivy Moon.

u 5. Eleuthera Libs :

u 6. Theia Johnson :

u 7. Elaine Evelyn : Jude Wright, Yvonne Komova.

u 7. Bryan Gregory : Emma Wilkinson.

u 8. Shaileen Turner :

u 9. Sam Dickson :

u 10. Carol Todd :

u 11. Alwyn Bennett : Kylar Tarsh.

u 12. Sara Tompson : Cassian Brownleaf.

 

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Capitolo 4
*** Domani all'alba ***



Domani all'alba




Alwyn Bennet sapeva di non trovarsi in una bella situazione.

Da quando due giorni prima era caduto stupidamente in quella trappola del quinto livello che gli aveva tappezzato il lato sinistro del corpo di aghi, non era più riuscito a muoversi come avrebbe voluto. Ma la verità, Alwyn lo aveva capito ormai da tempo, era che quelli non erano semplici aghi da cucito, nonostante gli somigliassero molto in forma e consistenza.

L'aveva immaginato fin da quando aveva visto quella cascata argentata venirgli incontro, eppure non aveva potuto far altro che provare a limitare i danni.

Aveva sempre saputo che i tributi erano nelle mani del pubblico e degli strateghi, ma non immaginava che, una volta dentro, sarebbe stato così inerme.

Lui, che si era offerto volontario come tributo per il distretto undici e la cui determinazione non aveva mai vacillato, durante il delirio si ritrovò a valutare più attentamente la sua decisione, che ora gli sembrava avventata. Perché, quando rimani immobile due giorni su un divanetto rosa attendendo la morte o un'improbabile salvezza, non puoi far altro che rimuginare sulle scelte e gli errori compiuti in passato.

Quando finalmente riuscì a muovere le gambe e a stare in piedi, seppure fosse molto debole, fu quasi grato agli strateghi per averlo bloccato con il temibile veleno degli aghi inseguitori o una sostanza molto simile ad esso, in quanto, più che allucinazioni quel composto gli aveva provocato l'immobilità degli arti, cosa che sotto alcuni punti di vista poteva essere considerata addirittura peggiore.

Certo, aveva evitato la febbre e il delirio causati dalle punture degli aghi inseguitori, ma aveva comunque passato più di quarantott'ore pietrificato a soffrire la fame, nella speranza che nessuno passasse di lì e decidesse di approfittare della sua condizione di vegetale.

Fortunatamente non era stato notato da nessuno, e aveva avuto il tempo di riflettere sulla sua strategia, dapprima inesistente. Ormai gli era chiaro che offrisi volontario per redimere il proprio distretto senza avere un piano per uscirne vivo era stata una mossa piuttosto stupida, e avrebbe tanto voluto poter tornare indietro per studiarne uno.

Ma purtroppo non era possibile, quindi dovette spremersi le meningi come mai aveva fatto e vagliare tutte le possibilità, sperando in un colpo di genio.

Non era il più intelligente di Panem, e nemmeno del suo distretto (poco ma sicuro), ma poteva contare su una grande resistenza e una forza fisica invidiabile, delle qualità decisamente non comuni. Così, radunate le sue cose e consumate le ultime provviste, si preparò a tornare ai piani inferiori per fare rifornimento.

Sperava anche di trovare qualche tributo da abbattere, visto che intendeva dimostrare al pubblico la sua vera forza e le sue abilità.

Lui non combatteva per sé stesso, ma per l'orgoglio delle migliaia di persone residenti nel distretto undici. E sempre per loro avrebbe vinto, poco ma sicuro.

-Credo di aver trovato una "piccola" falla nel programma di addestramento del distretto uno- disse Miranda ridacchiando, osservando delle minuscole goccioline di sudore imperlare la fronte di Larev. Lui, in tutta risposta, grugnì e riprese a sfregare due bastoncini l'uno contro l'altro, nella speranza di riuscire a far scaturire anche una minuscola scintilla.

-Seriamente, come diavolo fate a sfornare in media un vincitore ogni cinque anni se non sapete nemmeno accendere uno stupido fuocherello?- domandò con fare retorico, convinta di ricevere l'appoggio del compagno di distretto.

Questo, però, si grattò la testa, sovrappensiero. Da quando la giovane Eleuthera gli aveva salvato la vita, sentiva che era avvenuto un grande cambiamento nella lista delle sue priorità: se prima scherzare con Miranda gli sembrava la cosa più giusta da fare per catturare sponsor, ora capiva che affezionarsi ad una persona praticamente già morta non era l'ideale. Perché se lui fosse davvero riuscito a vincere, lei sarebbe morta, poco ma sicuro. E lui non solo non avrebbe avuto modo di salvarla, ma, se avessero tirato quell'alleanza troppo per le lunghe, magari gli sarebbe anche toccato ucciderla.

La ragazza, vedendolo perso nei suoi pensieri, gli passò una mano davanti al volto per richiamare la sua attenzione. Gaison sobbalzò e guardò i volti dei suoi compagni, che lo fissavano accigliati. -Che c'è?- domandò, forse più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Se doveva tagliare i ponti, era meglio farlo il prima possibile.

Larev sembrò irritarsi ancora di più, e gli gettò addosso i rametti che non riuscivano a scaldarsi. -C'è che da quando siamo arrivati al livello due, non hai fatto altro se non fissare il vuoto e borbottare frasi senza senso. Ora, se non ti dispiace, accendi questo stupido fuoco prima di farci morire congelati, visto che a quanto pare i tributi del distretto due godono di una preparazione migliore della mia- sbottò, incrociando le braccia al petto e lanciando un'occhiata carica di disprezzo a Miranda, che arricciò le labbra e voltò la faccia.

Gaison sospirò affranto, decisamente poco sorpreso dal cambiamento avvenuto nei loro rapporti. Gli Hunger Games non erano un reality per persone in cerca di amici, e purtroppo stavano entrando nel vivo della battaglia.

Gli bastò sfiorare il legno per capire quale fosse il problema. -È umido- disse, alzandosi per cercare degli altri rametti. Miranda e Larev lo seguirono con lo sguardo, senza muovere un muscolo. Dopo qualche minuto il ragazzo si arrese, tornò dai compagni e afferrò uno zaino e un paio di lance.

-Dove vai?- domandò Miranda, quasi spaventata. Il ragazzo del distretto uno tese l'orecchio, rimanendo di spalle agli alleati e fingendo disinteresse. -Questa legna é tutta bagnata, anche se sembra assurdo anche a me- spiegò, alludendo al fatto che la pioggia non potesse cadere all'interno di quell'arena. -Quindi vado al piano di sotto e prendo una fiaccola, visto che quella che avevamo preso prima si è spenta tre ore fa- concluse, stringendo le cinghie dello zaino.

Larev si voltò, con gli occhi ridotti a due fessure. -Come mai tutto quell'equipaggiamento?- chiese tagliente, accarezzando il coltello appeso alla cintura. Gaison sostenne il suo sguardo, glaciale. -Nel caso crolli una parete e rimanga intrappolato, non voglio morire di fame- replicò, preparandosi a scendere. Miranda si morse l'interno della guancia, rischiando di farlo sanguinare. -Torni?-

Una sola parola. Una parola capace di far scendere il silenzio, e ghiacciare a Gaison il sangue nelle vene.

Rimase girato di spalle e non si voltò, quasi per paura di incontrare gli occhi della sua compagna di distretto, che aveva stupidamente considerato un'amica per troppo tempo.

-Certo- disse, con poca convinzione. Nemmeno lui sapeva cosa intendeva fare, e dare spiegazioni a Miranda in quel momento gli risultava davvero difficile.

Così, senza ulteriori indugi, prese la via delle scale e i suoi compagni lo guardarono sparire in silenzio.

-Non tornerà- disse Larev dopo qualche minuto, quando Gaison non fu più a portata d'orecchio. Miranda si riscosse e inarcò un sopracciglio, sorpresa e leggermente indignata. -Ha detto che lo farà- replicò, con la voce velata di incertezza. Il ragazzo rise amaramente, iniziando ad affilare dei coltelli da lancio come faceva ogni volta che pronunciava un discorso serio. -Non credergli, e piuttosto ringrazia che non abbia deciso di attaccarci. Siamo in un punto cruciale dei giochi, ucciderlo ci sarebbe costato tempo e fatica. Ovvio, un favorito fuori dalla nostra alleanza non è certo un vantaggio, ma...- Larev lasciò cadere la frase, dando il tempo alle sue parole di insinuarsi nel petto della ragazza. -Ne parli come se fosse già tutto deciso, come se fosse inevitabile. Ma chi ti garantisce che Gaison non tornerà?- domandò Miranda deglutendo e passandosi rapidamente una mano tra i capelli fiammanti, parecchio nervosa.

Povera illusa, pensò Larev. Per lui tutta quella farsa era durata fin troppo, ed era il tempo di farla finita. Così, sfoderando una falsa espressione innocente, tentò nuovamente il "trucco" che aveva usato il primo giorno per liberarsi di Ivy e Luke.

-Niente è deciso, ovvio- replicò, fingendosi comprensivo. -Semplicemente, non credo sia una buona idea lasciarlo andare da solo. Potrebbe cadere in una trappola, potrebbe capire che sta meglio senza di noi, potrebbe addirittura scegliersi un nuovo alleato. Non dico che se ne sia andato con queste intenzioni, ma sai com'è... l'occasione fa l'uomo ladro- disse citando un antico proverbio, senza darle la possibilità di replicare. La convinzione di Miranda iniziò a vacillare, e si sentì improvvisamente tradita dal compagno di distretto, nonostante non fosse stata totalmente convinta dalle parole di Larev. Eppure le sembrava tutto così terribilmente plausibile, tutto così ovvio, che non poté non insospettirsi.

-Quindi cosa proponi?- domandò guardinga, fiutando l'odore di una trappola. Il ragazzo alzò le spalle, sorridendo dentro di sé. -Non saprei, qualcuno di noi potrebbe seguirlo per scoprire cos'ha in mente...- ipotizzò, passandosi una mano sul viso. -E poi?- lo incitò Miranda, ormai irritata dal tentativo di Larev di apparire misterioso.

-E poi, se proprio ci accorgiamo di averlo perso, lo uccidiamo- disse, con il tono di chi racconta una piacevole scampagnata agli amici.

La ragazza trasalì e prese a fissare il vuoto, inconsapevole dello sguardo attento del compagno pronto a fiutare ogni minimo segnale della riuscita del suo piano.

Dopo un po', Miranda scosse la testa e guardò Larev negli occhi, più determinata che mai. -Secondo me ti sbagli- disse, scattando in piedi.

-Dimostramelo- replicò lui, cercando di non far trasparire la sua impazienza. -Vai a cercarlo e dimostrami che mi sbaglio- ripeté, un po' irritato. La giovane si passò nuovamente una mano tra i capelli e, in silenzio, afferrò il suo set di coltelli. -Tornerò presto, e vedrai che con me ci sarà anche Gaison- disse a mo' di giustificazione, procedendo per la strada presa dal compagno di distretto.

Non appena gli diede le spalle Larev ghignò e realizzò che, una volta tolti di mezzo gli ultimi favoriti, la sua vittoria non era poi così lontana.

Gaison vagava da una decina di minuti, quando si accorse di essere giunto nel punto esatto dove il giorno prima aveva incontrato la giovane Eleuthera. Esitò per qualche secondo dopodiché, ricordandosi che le aveva promesso che sarebbe tornato a portarle del cibo, iniziò a chiamare il suo nome a bassa voce sperando di essere sentito.

Fortunatamente Eleuthera sbucò dalla porta di un bagno poco dopo, piuttosto stupita del fatto che il ragazzo avesse mantenuto la promessa.

-Sei tornato- disse con un tono di voce diffidente. Le riusciva ancora difficile individuare il motivo della spontanea simpatia di Gaison nei suoi confronti, ma aveva deciso di non contraddirlo e non fare domande finché la avesse aiutata.

Il ragazzo sorrise e annuì, sfilandosi lo zaino dalle spalle e appoggiando a terra una delle due lance per avere una maggiore capacità di movimento. -Ho portato il cibo- disse, mostrandole una specie di scoiattolo dalle dimensioni esagerate ancora crudo.

Eleuthera si voltò verso il muro e fece per afferrare una fiaccola, decisa ad accendere un piccolo falò per cuocere l'animale. Gaison però la trattenne, costringendola a riporre lo strumento nel suo sostegno. -Non adesso. Fallo più tardi in un posto più appartato, quando me ne sarò andato- la ammonì, sforzandosi di sorridere.

La bambina inarcò un sopracciglio, assumendo un'espressione adulta che spiazzò Gaison. -Credevo che saresti rimasto questa volta- ribadì, con voce dura e tagliente. Iniziava a darle fastidio il fatto che andasse e venisse, e le sembrava quasi che tenesse un piede in due scarpe. -Non mi serve che ti presenti quando hai tempo, mi dai del cibo per non sentirti in colpa ad abbandonare una dodicenne con un piede nella fossa e poi te ne torni dai tuoi amici del cuore a discutere di quanto siano noiosi per voi questi giochi- disse con rabbia, nonostante non fosse poi così adirata. Sentiva semplicemente il bisogno di sfogarsi, di prendersela con qualcuno per la sua nomina agli hunger games. Voleva tornare a casa e riprendere a fare il suo lavoro, non mangiare scoiattoli giganti nascosta in un bagno ricoperto di polvere di carbone.

Gaison vide il dolore nei suoi occhi e, senza pensarci troppo, la stinse in un breve abbraccio ingessato. Una stretta tra due persone che non si conoscono, ma che sentono di poter fare tanto l'una per l'altra.

Eleuthera deglutì, cercando di ricacciare quel groppo in gola che minacciava di farla piangere. -Resta- propose con voce incerta, pentendosi quasi subito delle sue parole.

Ma cosa si era messa in testa? I favoriti non si alleavano con le dodicenni del distretto cinque, ma le uccidono alla cornucopia. Avrebbe voluto sgattaiolare via e scappare con lo scoiattolo, ma sentiva che non era la cosa giusta da fare, specialmente perché Gaison stava seriamente riflettendo sulla sua proposta.

Certo, durante l'addestramento aveva sempre immaginato che avrebbe rotto l'alleanza con i favoriti una volta rimasti in cinque, dopodiché avrebbe aspettato che gli altri si facessero fuori a vicenda e si sarebbe limitato ad uccidere l'ultimo rimasto in gara, aggiudicandosi la vittoria. Ma ormai si era reso conto che negli hunger games niente andava nel modo in cui lo si era pianificato, e così si ritrovò a valutare i vantaggi di quella proposta decisamente assurda.

Ormai l'alleanza con i favoriti stava diventando insostenibile, e se fossero andati avanti così probabilmente si farebbero uccisi a vicenda prima dell'alba del giorno successivo. Ad essere sinceri gli dispiaceva lasciare quei ragazzi che aveva imparato ad apprezzare e a sostenere, ma vedeva perfettamente quanto tutto ciò fosse assurdo.

Se solo Larev fosse nato nel suo distretto, forse sarebbero diventati amici.

Se solo lui e Miranda si fossero conosciti prima, e se non avessero avuto entrambi qualcuno da cui tornare.

Se solo non fosse stato estratto alla mietitura, tutto sarebbe andato diversamente.

Ma lui sapeva che non si sopravvive di possibilità, ma di certezze. Cos'altro aveva da spartire a quel punto con Larev e Miranda? Niente.

Anzi, ultimamente era più probabile ritrovarsi un coltello tra le scapole durante il sonno che ricevere man forte in battaglia. Gaison fece una smorfia e si passò una mano sul volto contratto.

-Non sarò un peso, te lo prometto- lo rassicurò Eleuthera, quasi offesa da ciò che probabilmente stava pensando Gaison. -Ho un piano, ma mi serve il tuo aiuto- lo incitò, sperando di convincerlo.

-Che piano?- domandò lui, curioso. La bambina sorrise mesta, guardandolo dritto negli occhi. -Devi prima promettere che resterai- patteggiò con una calma glaciale, ignorando il fatto che Gaison fosse il doppio di lei e che fosse armato di una terrificante lancia.

-Resto- disse il ragazzo, con convinzione. Eleuthera sorrise nuovamente, preparandosi a giocare un brutto tiro agli strateghi e agli abitanti di Capitol City.

Miranda strinse con rabbia il manico del coltello e digrignò i denti, cercando di trattenersi. Si sentiva offesa, tradita, pugnalata alle spalle da un amico.

Era assurdo, in quanto sapeva che prima o poi si sarebbero separati, eppure sperava che sarebbe accaduto diversamente. Non avrebbe mai immaginato che la avrebbe abbandonata con una scusa qualsiasi, per allearsi con una bambina.

Certo, forse lei aveva più bisogno dell'aiuto di Gaison, eppure non riusciva ad accettare il suo abbandono. Perché il problema non era tanto il fatto che se ne fosse andato, ma che le avesse mentito. Davvero credeva che lei non lo avrebbe accettato? Pensava seriamente che lei avrebbe cercato di trattenerlo con la forza o peggio, che avrebbe tentato di ucciderlo? Era offensivo, e si sentiva denigrata.

Poi però c'era stato quell'abbraccio. Quel gesto che loro non avevano mai condiviso, forse perché non aveva mai davvero avuto bisogno di conforto nell'Arena. Al contrario di lei, a quella bambina serviva protezione, e forse un punto di riferimento.

Così Miranda deglutì silenziosamente e si sforzò di sorridere per le telecamere, perché se per caso lei fosse morta e Gaison avesse vinto, nel filmato dei giochi avrebbe visto che aveva compreso il suo gesto nonostante non fosse riuscita ad accettarlo pienamente.

Si morse un labbro ed estrasse un coltello, quello che aveva vinto a Gaison, e lo lasciò a terra, ai piedi al muro dietro cui si era nascosta per origliare.

Se ne andò senza guardarsi indietro, senza dargli l'addio che avrebbe voluto, senza poterlo nemmeno ringraziare per tutto ciò che aveva fatto per lei. Girò l'angolo a testa bassa, sgattaiolando silenziosamente verso il piano superiore e sperando che prima o poi quel senso di abbandono se ne sarebbe andato.

Larev stava radunando tutte le provviste e le armi da lui utilizzabili, preparandosi a lasciarsi alle spalle quell'alleanza. Non si sentiva in colpa, no.

Si diceva che quella strana sensazione di malessere era legata a qualcosa che aveva mangiato, oppure al clima a lui non congegnale. Certo, doveva essere così, non c'era altra spiegazione.

Si passò una mano tra i capelli e sospirò, dopodiché iniziò ad indossare le armi. Era così sovrappensiero che non si accorse della chioma rossa e spettinata di Miranda che spuntava dalle scale e che gli veniva incontro. Si rese conto della sua presenza quando si trovava ad un centinaio di metri da lui, ma cercò di mantenere la calma.

-Allora?- domandò, allacciandosi sul petto un gilet foderato di coltelli. La ragazza sollevò gli occhi sorpresa, quasi non si fosse accorta di essere arrivata a destinazione.

-Allora cosa?- chiese spaesata, sollevando la testa. Larev si sedette a terra, riprendendo ad affilare i suoi coltelli cercando di essere naturale. -Volevo sapere se hai trovato Gaison- spiegò, senza guardarla negli occhi.

Miranda lo squadrò diffidente, incerta. -No- mentì lei, risoluta. -E tu cosa fai, parti?- aggiunse velocemente, tentando di sviare la conversazione. Larev rimase in silenzio per qualche secondo, e il rumore dei suoi coltelli che strusciavano l'uno contro l'altro si diffuse nell'ambiente. -Tu menti- disse, osservandola negli occhi.

Miranda strinse i denti con fastidio. -Non sono cose che ti riguardano, piuttosto dimmi perché tutte le nostre cose sono radunate qui- insistette, indicando con un gesto circolare del suo braccio tutte le provviste e le armi che erano state infilate in più zaini.

-Invece mi riguarda- la ignorò Larev, alzando lo sguardo e interrompendo il suo lavoro.

-Perché la nostra roba è per terra!- urlò la ragazza, sbarrando gli occhi. -Mi sono stufata dei tuoi tranelli, delle domande invadenti, del tuo essere così misterioso. Devi mettere le carte in tavola, se non vuoi che questa alleanza vada a puttane!- continuò, trasudando rabbia e nervosismo da tutti i pori. Aveva il fiato grosso, e riusciva quasi a sentire la vena sulla sua tempia pulsare dolorosamente. Era esplosa, alla fine.

Il petto di Larev prese ad alzarsi ed abbassarsi ad un ritmo più rapido, e i suoi movimenti divennero rapidi e irrequieti. I due ragazzi presero a fissarsi in silenzio, a denti serrati. Miranda provò a calmarsi passandosi una mano sul volto, ma il compagno equivocò il suo gesto e scattò in piedi brandendo un coltello da lancio.

La giovane lo guardò stupita in quanto non pensava che sarebbero arrivati a tanto, ma si mise ugualmente in posizione di difesa, con la fronte aggrottata e le mani sudate. Bastò un rumore, un movimento di più da parte di Miranda, e Larev le si scagliò addosso, temendo per la sua incolumità.

In verità non voleva farlo. Se solo lei non fosse tornata o avesse ucciso Gaison, le cose sarebbero sicuramente andate molto diversamente. Se solo non fossero in qualche modo diventati amici, nessuno dei due avrebbe provato quella sensazione di oppressione che ci perseguita quando facciamo qualcosa di sbagliato.

Miranda intercettò la lama del primo coltello che le era stato lanciato e ruotò su se stessa, evitando un colpo diretto al fianco destro. Larev grugnì e tentò un altro colpo, ma riuscì solamente a recidere una ciocca di capelli all'agile tigre del distretto due.

Miranda sfruttò quel momento di distrazione e gli sferrò un calcio nell'addome che lo fece indetreggiare e piegare su se stesso e, in quell'attimo, scattò all'indietro ed afferrò a caso uno degli zaini che Larev aveva preparato per la partenza. Il ragazzo si ricompose e lanciò un nuovo coltello, che questa volta la colpì alla spalla sinistra.

Lei urlò e, con movimenti freddi e rapidissimi, si estrasse il coltello e lo lanciò contro il proprietario, che riuscì a scansarlo senza troppe difficoltà. Larev iniziò a correre verso di lei brandendo una nuova lama e Miranda seguì l'istinto e decise di spostare lo scontro, saettando agilmente con lo zaino in spalla.

Il ragazzo riuscì presto ad accorciare la distanza e si fece sfuggire un piccolo ghigno, cercando di affrettare il passo. Ma Miranda, quando lui si trovava ormai ad un soffio dalle sue spalle, si voltò di scatto e tentò di affondargli un coltello nel fianco, con rabbia. Larev cadde a terra e la trascinò con se, schivando a fatica il colpo e tenendola ancorata al suolo premendo sui fianchi. La ragazza, nonostante la posizione svantaggiata, sorrise soddisfatta notando un segno rosso disegnatosi sulla tuta del ragazzo, che si lasciò sfuggire un'imprecazione. Larev tentò di prendere il coltello e darle il colpo di grazia, ma lei continuava ad agitarsi sotto le sue mani, rendendogli impossibile qualsiasi movimento.

Avevano raggiunto una situazione di stallo, quando Miranda vide alla sua destra un irto cespuglio di rovi e bacche all'apparenza velenose. Urlò nuovamente e, ignorando il dolore alla spalla, diede uno strattone al braccio di Larev, facendogli perdere l'equilibrio. Sempre da sdraiata, gli sferrò un calcio dritto nel fianco destro, e il ragazzo non poté fare altro se non cadere dritto tra le spine, che gli ferirono immediatamente la pelle.

Miranda balzò in piedi con un ghigno che non le apparteneva dipinto sul volto e un coltello tra le dita sporche di sangue, pronta a uccidere quello che fino a poco prima considerava una specie di amico. Gli si avvicinò a passo lento, quasi godendo dei suoi gemiti di dolore soffocati a stento. Lo guardò dall'altro verso il basso sorridendo e, trasformandosi improvvisamente nell'arma forgiata da anni di addestramenti, gli sferrò un calcio dritto sulla trachea, che lo fece sputare sangue e boccheggiare in cerca di aria.

Fu proprio la sua tosse a riportare Miranda alla realtà, quasi si fosse appena resa conto della gravità delle sue azioni.

Si portò una mano alla bocca e quasi si fece sfuggire il coltello di mano, vedendo Larev incastrato in un cespuglio pieno di spine tossire sangue e respirare a fatica.

-Mi dispiace- mormorò sull'orlo di una crisi di panico. -Scusami Larev, io non...-continuò balbettando, in cerca di una via di fuga. Mosse qualche passo indietro e afferrò lo zaino con le mani tremanti, cercando di ignorare il sangue che le colava sui vestiti.

Come hai potuto fare questo ad un amico? Si chiese, senza smettere di fissarlo.

Lei non era così. Lei uccideva nel modo più rapido possibile, lei non infieriva sulle sue vittime. Ma soprattutto, le non uccideva gli amici.

Quanto finalmente riuscì a distogliere lo sguardo da Larev, il quale sembrava essersi in parte ripreso e cercava ora di divincolarsi, capì che era arrivato il momento di levare le tende e sbriciolare ciò che rimaneva del gruppo dei favoriti.

-Addio- disse con la voce colma di tristezza, prima di iniziare a correre e lasciare il compagno per sempre.

-Hai fame?- chiese Luke a Sam, mentre questo controllava le ferite di entrambi che si erano ormai rimarginate. Il ragazzo scosse la testa, tornando a sedersi accanto al fuoco.

Da quando avevano avuto quella discussione, sentivano che qualcosa tra loro era cambiato. Ovviamente non potevano definirsi amici in quanto erano bel lontani dall'esserlo, ma se non altro avevano imparato a sopportarsi e rispettarsi a vicenda.

Fu proprio durante uno di quei lunghi silenzi che gli schermi ronzarono e si illuminarono improvvisamente, rischiarando gran parte del secondo piano. Luke e Sam si guardarono stupiti, e vi si avvicinarono sospettosi.

-Porgo i miei più sinceri complimenti ai ragazzi rimasti in gara, che quest'anno sono ben tredici! Mi congratulo con voi, le vostre abilità si sono rivelate a dir poco sorprendenti.- La voce di Claudius Templesmith risuonò in tutta l'arena, catturando l'attenzione di tutti i tributi. -Come avrete ormai capito, vi invitiamo a partecipare ad un festino, il quale sarà diverso dal solito. Infatti vi verranno forniti non cibo e acqua, bensì degli elementi che d'ora in poi saranno indispensabili per la sopravvivenza. L'evento si terrà domattina all'alba alla cascata e mi raccomando, siate puntuali!- detto questo, gli schermi tornarnono improvvisamente bui e lasciarono i ragazzi in balìa dei propri dubbi.

-Secondo te cosa intendono per cascata?- domandò Sam, aggrottando le sopracciglia. Lucke chiuse gli occhi, cercando di fare mente locale. -Dev'essere un posto noto a tutti, dove siamo già stati. Direi che per ora l'unica cosa riconducibile ad una cascata è quell'immensa quantità d'acqua che cade dal soffitto e si riversa sulla cornucopia- disse, compiaciuto dalle proprie capacità di deduzione. Sam però rimaneva scettico, e continuava a chiedersi perché gli avessero indicato come posto "la cascata" e non "la cornucopia", che sarebbe stato sicuramente molto più chiaro. Il ragazzo del distretto quattro mise però a tacere i suoi dubbi, e gli pose la domanda fatidica. -Ci andiamo?-

Sam ci pensò ancora qualche secondo, prima di dirsi d'accordo. -Direi che non abbiamo scelta, hanno detto che ci forniranno un elemento indispensabile per la nostra sopravvivenza- disse, citando le parole del presentatore.

Luke annuì e sbadigliò, nonostante non fosse poi tanto stanco. -Andiamo a dormire e prepariamo le armi, domani ci aspetta un bagno di sangue.-

Nessuno di loro si era accorto che c'era un errore nel numero: i tributi rimasti in gara erano quattordici e non tredici.

Era ormai notte fonda, quando Sara si svegliò urlando. Shayleen accorse e le scostò i capelli dalla fronte sudata, preoccupata. -Che succede?- chiese, con la bocca impastata e la voce tesa come una corda di violino. La ragazza continuò a fissare il vuoto per qualche secondo, dopodiché si voltò verso la compagna con occhi terrorizzati.

-Moriremo- disse, quasi piangendo. -Moriremo, è una trappola.-



My space

Innanzitutto vorrei scusarmi per il colossale ritardo e dirvi che è tutta colpa mia, la povera gattapelosa ha fatto il suo lavoro sollecitandomi a scrivere spesso.

Il fatto è che questo è un periodo davvero orrendo: sono nervosa, piena di compiti e lievemente depressa (non so nemmeno io il perché). Quindi ho fatto davvero taaanta fatica a finire questo capitolo, ma ieri notte ho finalmente messo quel cazzutissimo punto. WAAAAAAAAAAAH. (?)

Non ho nemmeno avuto tempo di aggiornare la lista degli sposor cwc credo che lo farò in settimana e poi la aggiungerò qui sotto, perché adesso devo ancora studiare matematica. #fuck

Grazie mille per la vostra pazienza e scusate ancora per il ritardo, non volevo farvi aspettare così tanto!

Spero che almeno il capitolo vi piaccia, anche se non ci sono morti e si rompe un'alleanza importante...

Insomma, succedono un po' di cose. Spero di aver creato un po' di suspense nell'ultima parte muhahahahahahaha ok, no.

A presto :D

Bascii, medusa c:

(SCUSATE SE NON HO RISPOSTO ALLE RECENSIONI AL CAPITOLO PRECEDENTE, MA HO DATO LA PRECEDENZA AI COMPITI E AL CAPITOLO wztcibogewxvohte PERDONATEMI)



Gattapelosa aggiunge:

Posso auto-pubblicizzarmi? Sto scrivendo una raccolta di drabble: a ogni personaggio associo un colore. Per ora ho pubblicato solo la prima, su Cato. Se vi va di darle un'occhiata vi metto il link (per quel che il portatile permette, scusate la scarsa raffinatezza, ma il computer è bacato e io sono una frana con 'ste robe)


*NiallsUnicorn si prende la libertà di rimettere il link per farlo attivare*



Basta cliccare sul banner per arrivare alla storia :)

Inoltre vorrei pubblicizzare una mia one shot appena pubblicata, è la mia prima "storia originale" e mi piacerebbe ricerevere qualche parere :D



poi posso finalmente aggiungere la lista aggiornata degli sponsor!

1. Larev = 1
2. Miranda = 18
2. Gaison = 29
3. Noah = 14
4. Luke = 4
5. Eleuthera = 4
6. Theia = 27
7. Elaine = 13
7. Brian = 1
8. Shayleen = 20
9. Sam = /
10. Carol = 4
11. Alwyn = 13
12. Sara = 3



- Scritto da Niallsunicorn


 

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Capitolo 5
*** La via più facile e immediata per impazzire ***






La via più facile e immediata per impazzire





La trasmissione si era appena conclusa, Claudius Tlempesmith aveva lasciato gli schermi.

Eleuthera si allontanò dal monitor con le mani strette a pugno librate al cielo, trionfale.

— Ce l’ho fatta, hai visto?
— Sei un genio.— le rispose Gaison— altro che elettricista.

— Sono solo un paio di giochini che qualunque buon maestro è in grado di insegnare giù, dalle mie parti, quando si manovrano spine e roba varia.

— Adesso non dobbiamo fare altro che aspettare.

— Non scendiamo?
— Non essere precipitosa. Ascolteremo tutto da qui. Lasciamo che se la vedano da soli.

Eleuthera sorrise.

 

 

La notizia del festino aveva mandato in crisi un po’ tutti, nell’Arena. Forse se Claudius non avesse assicurato la presenza di un oggetto tanto indispensabile alla sopravvivenza, molti avrebbero glissato elegantemente l’invito.

Invece c’era chi aveva paura. Elaine aveva paura: da sola e senza questo miracoloso oggetto, non avrebbe avuto chance di tornare.

Theia aveva paura perché, diciamolo, la cosa puzzava proprio, e lei se n’era resa conto. In compenso temeva il sadismo di certi strateghi, tanto da decidere comunque di assistere, ben nascosta.  

Larev e Miranda avevano paura perché feriti, ma ugualmente intenzionati ad accaparrarsi il premio. 

Quella più terrorizzata di tutti, comunque, era Carol: lei al festino non era assolutamente intenzionata ad andarci. C’era qualcosa sotto, qualcosa di terribile, ma se anche si fosse trattato di un banalissimo ritrovo di agguerriti tributi lei non sarebbe corsa in braccio alla morte così, di sana pianta.

Il problema, però, era quel troglodita montato del suo alleato: Bryan era seriamente intenzionato a partecipare, e ce la stava mettendo tutta per convincerla.

— Scordatelo! È esattamente il modo migliore per morire, quello!

— Non sto dicendo che voglio che tu venga, ci vado io.

— E cosa cambia? Sei il mio alleato: ti vorrei tutto intero. — Bryan sbuffò, raccattando l’ascia e rispecchiandosi sulla lama.

— Rilassati Biondina, vado, vinco e torno.

— Non chiamarmi Biondina! E torna con i piedi per terra, deficiente schizzato, che quelli, lì, ti fanno a fette. E non ci sarò io a proteggerti!

Carol stringeva i pungi e sbraitava, infuriata. Provava l’urgenza disperata di convincere quel mentecatto del suo alleato a rinunciare.

Ce la stava mettendo tutta, senza riflettere, così, d’impulso, ma niente: lui era irremovibile.

Forse se si fosse calmata sarebbe riuscita a convincerlo. Carol era la migliore, in questo.

In quel momento, però, era troppo agitata.

— Non ho bisogno di te per uccidere qualche avversario. — la voce si fece dura, pesante — Senza quell’oggetto, mi spieghi come faremo a vincere? Ne abbiamo bisogno! Io ci vado, punto, e non riuscirai a convincermi del contrario questa volta.

Carol, rossa di rabbia e con i pugni serrati, si voltò di scatto. Poi, con lentezza quasi snervante, si sedette sul pavimento, rivolta alla finestra.

— Bene— disse, senza guardarlo.— Va pure, ma ricorda che io ti avevo avvisato.

Bryan fece un paio di passi verso le scale, poi, sospirando, abbandonò lì l’ascia e tornò indietro. Raggiunse Carol da dietro, poggiandole una mano sulla spalla. Lei si voltò di scatto, stupita.

Lui le carezzò la nuca, passando lento una mano tra i capelli, sorridendole rassicurante.

— Tornerò, è una promessa.— ma lo sguardo di Carol non abbandonò il dolore, la tristezza e il rancore di una tale delusione. Anzi, indispettita si sottrasse nuovamente al suo tocco.

— Carol…— lei non si voltò. Allora Bryan avvicinò le labbra al suo orecchio, sfiorandole la pelle, lasciando scivolare la bocca un po’ più giù, quasi sul collo. Un braccio le cinse la vita, l’altro le carezzò una guancia, da dietro.

Carol spalancò gli occhi stupita, ma non si sottrasse. Le piaceva sentire le labbra di Bryan sfiorarle la pelle come in un delicatissimo bacio.

— Non ti abbandonerò, Carol— sussurrò, in una nota sofferente— Ma ti prego, ti prego, guardami e augurami buona fortuna.

Carol non si mosse.

— Per favore— tentò ancora. Bryan non se la sentiva di andarsene lasciando lì Carol così arrabbiata. Non voleva rischiare la morte col peso di un litigio in cuore, non voleva.

Ma Carol non si voltò, né disse alcunché. Lui aspettò ancora, aspettò finché il braccio non prese a formicolare, poi fu costretto a ritrarsi, lasciando libero l’esile corpicino della sua alleata.

Alzandosi riprese in mano l’arma, caricandosela sulle spalle.

— Perdonami Carol.— disse, così che lei potesse sentirlo— Ma devo farlo, è la nostra unica possibilità. Ti prego, non essere arrabbiata con me, non voglio che tu sia arrabbiata con me.

Siccome la ragazza persisteva nel suo macabro silenzio, Bryan fu costretto ad allontanarsi. E Carol pianse una lacrima densa di paura e tristezza.

 

Cinque minuti all’alba.

Bryan s’era nascosto nell’alimentare di Emma, Theia su per una scalinata, Elaine tra le fronde dell’albero, Luke e Sam dietro macerie, Larev e Miranda ai rispettivi opposti della sala, Alwyn nella farmacia. Erano lì, in fermento, nell’attendere.

Gli altri, sparsi per l’edificio, aguzzarono l’udito nella speranza di sentir rimbombare i cannoni dei nemici caduti.

Poi, col rischiararsi al primo accenno d’alba, uno zainetto, sulla cima della Cornucopia, prese a brillare. E fu guerra.

Elaine saltò giù dall’albero e prese a correre nella direzione della Cornucopia, sperando di non incappare in spiacevoli scontri. Invece, poco dopo, si ritrovò davanti un Alwyn terribilmente determinato armato di coltello.

Ci fu un terribile fragore di lame, quando i due nemici presero a combattere. Lei scartò di lato evitando il primo affondo, poi tentò un colpo che mozzò l’aria, quando Alwyn si scansò un’istante prima d’essere trucidato. Questo tentò di piantarle l’arma in mezzo al petto, ma il massimo in cui riuscì fu un leggero taglietto sulla spalla, quando Elaine si piegò sganciando un manrovescio che destabilizzò appena Alwyn sul posto quei due secondi necessari a tentare l’ennesimo affondo. Alwyn parò il colpo bloccandole il braccio e storcendo l’arto, Elaine gridò; subito, per far precipitare l’avversario, tentò di portare un piede dietro la gamba dell’altro in un maldestro sgambetto. Alwyn, preso di sorpresa, non cadde, ma allentò la preso quel tanto che bastava ad Elaine per scappare.

Quando il ragazzo stava giusto per riprendere anch’egli la corsa, si ritrovò contro Bryan armato di una tale ascia che i suoi coltelli non sarebbero mai stati in grado di reggere il confronto.

Mentre ancora era indeciso se tentare la sorte o scappare il più velocemente possibile verso la Cornucopia, l’attenzione di Bryan si spostò da Alwyn a Luke, il quale sembrava avere tutte le intenzioni di eliminarlo. I due ingaggiarono una terribile lotta ai limiti delle capacità umane, ascia contro spada.

Intanto Elaine, sfuggita alla furia di Alwyn, si ritrovò contro Miranda. Stava già iniziando a salire su per la Cornucopia, bagnata fradicia.

La Rossa aveva ben pensato di contrastare la scalata di Elaine cercando di piantarle un coltello nel collo, ma questa aveva finito solo col perdere l’equilibrio e precipitare in acqua.

Le due intrapresero una lotta sottomarina: senza nemmeno preoccuparsi di riprendere fiato, Miranda ed Elaine tentarono affondi su affondi, colpi su colpi. Nonostante la lesione alla spalla, Miranda non perse di precisione e potenza, mentre l’acqua ne rallentava i movimenti. Alla fine riuscì nell’intento di colpire Elaine, la quale venne ferita ad un braccio e iniziò a perdere molto sangue. L’acqua si tinse di un rosso opaco che rese ad entrambe difficile la vista.  

Miranda dovette trattenersi sotto quei cinque secondi necessari per recuperare il coltello scivolatele dalle mani. Inutilmente.

Quando ritornò a galla Elaine era già in procinto di ritentare la scalata. La Rossa comprese così che non c’era più nulla da fare, dolorante e disarmata, fu costretta a ritirarsi.

 

 

Lo stesso non poteva dire Larev, coinvolto in una lotta corpo a corpo con Alwyn. Già prima aveva avuto il suo bell’incontro con Sam, ma il ragazzo era stato coinvolto da Luke nella battaglia contro Bryan, quindi Alwyn, approfittando della situazione, aveva cercato di colpirlo.

Un affondo dopo l’altro i due tributi avevano iniziato un lento gioco di massacro, per il quale finirono col perdere ingenti quantità di sangue.

Larev dovette sentirsi praticamente tagliar via un dito, fortuna vuole che fosse riuscito ad evitare un colpo al tendine, mentre Alwyn percepiva già le orecchie impastate di sangue. La volontà di entrambi, però, era ferrea: continuavano a tentare colpi su colpi, tagli su tagli.

Larev schivò per un pelo l’ennesimo affondo, cercando di trapassare col coltello il collo dell’avversario, il quale, prevedendone la mossa, si spostò di lato. Il colpo finì ugualmente col tagliarli via mezza manica lasciando incisa una ferita che presto avrebbe avuto modo di rimarginarsi, se solo ne fosse uscito vivo.

Alwyn tentò un nuovo attacco, mirando in basso, ma ancora una volta Larev previde il movimento spostandosi fulmineo e lasciando cozzare nuovamente la sua lama contro quella del nemico. Il movimento aveva destabilizzato Alwyn, il quale finì col cadere a terra: il primo, grande passo falso.

Larev non ci pensò mezzo secondo, sollevò il coltello e mirò alla testa. Alwyn riuscì a spostare il capo quel po’ che era sufficiente ad evitare il colpo fatale ma l’orecchio, già dolorante, non si salvò: percepì distintamente la lama trapassargli la cartilagine. Spaventato compì un movimento eccessivamente brusco; la lama, impiantata tra orecchio e pavimento, rimase impalata lì mentre il ragazzo finì con il strapparsi la carne liberando l’organo dall’arma a dal pavimento.

Il dolore fu talmente accecante che Alwyn non riuscì nemmeno a percepire Larev, sopra di lui, che sollevando il coltello già tentava l’ultimo, misericordioso affondo.

Forse fu l’istinto a concedergli di bloccare con le mani il colpo: rimasero così, Alwyn disteso a terra con Larev seduto su di lui, mentre questo cercava di colpirlo con la lama di un coltello e il ragazzo che, impugnandone i polsi, faceva leva affinché non lo beccasse.

Dopo secondi di pura agonia, la paura, l’adrenalina, il desiderio di vivere, corsero in soccorso ad Alwyn, il quale riuscì a fare leva sulla schiena lasciando cadere a terra Larev.

Lui non se l’aspettava, come non s’aspettava l’arma di Alwyn che, raccolta da terra, gli passò attraverso la gabbia toracica. Un colpo non fu sufficiente a placare la furia omicida del ragazzo: piovvero coltellate su coltellate, sangue su sangue, anche quando ormai Larev era morto, anche quando il cannone aveva già decantato la sua fine. Ma Alwyn lo colpì ancora e ancora, questi sono gli Hunger Games:  la via più facile e immediata per impazzire.

 

 

Carol non era preoccupata. No, non lo era.

Cosa poteva importarle poi se Bryan stava giù a farsi ammazzare da sadici tributi assetati di sangue?

No, Carol non era preoccupata. E non voleva assolutamente dire niente il fatto che se ne stesse lì, camminando su e giù per la stanza, a rimuginare. Solo che non aveva voglia di stare ferma, ecco, solo questo. Solo questo. E intanto lanciava improperi e maledizione verso il moro bluastro con la faccia tosta di andare ugualmente a morire.

Quando percepì il colpo di cannone, però, poco importava come e perché si sentisse tanto irrequieta: prese a correre a basta. 

Ogni passo era una speranza in più, filava spedita rampa dopo rampa, col cuore a mille e una voglia matta di uccidere lei stessa quel gran cretino. Sentiva ancora rimbombarle in testa il colpo, quell’unico colpo che razionalmente poteva appartenere a chiunque, ma tanto doloroso e persistente da farle presagire il peggio.  

Era spinta dalla disperazione, solo dalla disperazione. Nella sua testa rigiravano le immagini di Bryan al loro ultimo saluto. La sua promessa di tornare.

Finalmente raggiunse la fine della penultima rampa di scale, dalla cui cima, affacciatasi alla ringhiera, fu in grado di scrutare l’intera sala.

C’era sangue ovunque, l’acqua stessa tinta di un rosso opaco, ragazzi che si ammazzavano a vicenda. La sua attenzione venne però catturata da tre ragazzi, appena sotto di lei, che combattevano gli uni contro gli altri.

Bryan.

Fu come una ventata d’aria gelida, una felicità improvvisa e disarmante.

Sei vivo.

In un altro momento avrebbe pianto di sollievo, invece era già là che rifletteva su come sarebbe riuscita a fargliela pagare per lo spavento.

Bryan non s’accorse di lei per interi minuti, troppo preso nella lotta corpo a corpo con Luke e Sam. Il primo sferrava colpi micidiali, il secondo tentava di seguire l’alleato.  

Per un momento, un momento soltanto, pensò che forse sarebbe stato meglio se avesse dato ascolto a Carol. Pensò che forse sarebbe stata tutta colpa sua se, alla fin fine, lui non fosse riuscito a tornare. Invece, voltandosi appena, se la ritrovò lì, a guardarlo.

Fu una sorpresa: prima si sentì stupito, poi euforico. Ma la vista di Carol, così inaspettata, lo distrasse mezzo secondo di troppo.

Non vide né Luke né la sua spada mentre questa finiva col trapassargli l’intestino. Sentì solo un improvviso silenzio accompagnare il dolore lancinante.

Poi tutto fischiò, la vista s’annebbiò, le gambe cedettero. Bryan cadde a terra, in ginocchio.

Guardava ancora Carol. Pensava a quanto strano fosse il fatto che lei fosse lì. Pensava a quanto lei avesse insistito perché non partisse. Pensava a quanto poco convincente fosse stata.

Pensava anche a tutte le volte in cui – ora se ne rendeva conto – lei era riuscito ad ingannarlo. Pensava che se lo avesse davvero voluto sarebbe riuscita a trattenerlo dal partire. Pensava che forse era stata proprio lei a spingerlo nelle fauci della morte.

Pensava anche a Elaine, e a quella volta in cui aveva tentato d’avvertirlo.

Pensava che forse avrebbe preferito una morte veloce piuttosto che tutti quei secondi di tempo in cui morire col peso del tradimento.

Il colpo di cannone che seguì la fine dei suoi pensieri rimbombò nella mente di Carol come una condanna, persistente, tenace. Le sue gambe presero a tremare, fece ugualmente qualche passo indietro, incerta. Si lasciò scivolare contro la parete, col respiro corto, le mani tremolanti. Se le portò davanti al volto e le guardò stupita, incapace di comprendere appieno l’immagine di Bryan trapassato dalla spada di Luke. Sanguinante. Disteso a terra. Morto.

Gridò, gridò con quanto fiato avesse in gola, le mani tra i capelli, il respiro accelerato, il cuore che batteva a mille. Gridò nonostante il pericolo che qualcuno, scoprendola, andasse a prenderla.

E pianse, soprattutto pianse. Pianse il dolore della morte di Bryan, il ricordo dell’ultimo saluto. Pianse lo squallore degli Hunger Games: la via più facile e immediata per impazzire.

 

E mentre Luke e Sam si piegarono stremati per la fatica di sconfiggere Bryan, doloranti e stanchi, Elaine era riuscita a prendere tra le sue mani lo zainetto. Riusciva con fatica a muovere il braccio dove Miranda era riuscita a ferirla in acqua, ma il desiderio di poter finalmente tornare a casa le fece ugualmente raggiungere la cima.

Tempo d’afferrare il bottino, però, che ancora una volta si ritrovò davanti ad Alwyn.

Questo sembrava più un ammasso informe di sangue, ma Elaine ebbe paura, tanta paura: negli occhi di Alwyn c’erano rabbia e dolore.

Elaine si caricò lo zainetto in spalle, estraendo il coltello. Non avrebbe ceduto senza combattere, lì, su quella Cornucopia.

Ma Alwyn era una bestia: le si scagliò contro in un ruggito tremendo e lei fece appena in tempo a spostarsi per evitare l’affondo che subito ne tentò un altro. Elaine non riuscì mai a contrattaccare, sempre sulla difensiva, ma Alwyn finì col spingerla all’estremità della Cornucopia, un pelo sopra il vuoto.

Finì col fare un passo di troppo, già sentiva l’aria sotto i piedi, che la sua caduta venne frenata da Alwyn. Questo le aveva afferrato con una mano lo zainetto, con l’altra brandiva ancora il pericoloso coltello, grazie al quale sperava di uccidere una volta per tutte le ragazza del sette.

Fu questione di pochi secondi. Elaine si perse con lo sguardo nell’orrore della sala: piscina impastata di sangue, macchie rossicce ovunque, un cadavere mutilato orrendamente, due ragazzi, vivi, sporchi e doloranti, Bryan trapassato da una spada.

Bryan. Il suo compagno di distretto, Bryan.

E il coltello di Alwyn mancò il colpo, perché Elaine, rinunciando allo zainetto, se ne liberò precipitando in acqua.

Una volta riemersa dallo schifo della piscina corse via, dolorante, corse il più velocemente possibile, corse con il cuore a mille, quando sentì d’essere sufficientemente distante dallo scempio del piano terra s’aggrappò a una parte e vomitò l’orrore di quell’immagine, di quella giornata.

Vomitò il dolore per la morte di Jude, che non conosceva ma che, in realtà, era avvenuta per mano sua.

La sofferenza per la caduta di Yvonne, trapassata da tante spine mutanti, a cui lei stessa era stata costretta a porre rimedio.

Tutto quel sangue. Tutto quel dolore. Tutte quelle morti.

La rabbia negli occhi di Alwyn, la follia della loro battaglia.

Ti prego, fa che i bambini non stiano guardando.

Ed Elaine rimase contorta su se stessa a vomitare lo schifo degli Hunger Games: la via più facile e immediata per impazzire.

 

 

Luke e Sam non raggiunsero la Cornucopia prima che Alwyn riuscisse a svignarsela con il bottino.

Lui, ancora in piedi, raggiunto l’angolo più angusto del primo livello, finalmente si liberò in una risata isterica e sollevata, sollevando al cielo lo zainetto.

Poi con foga e impazienza lo aprì, felice di poter essere l’unico vincitore della quarantottesima edizione.

Una volta aperto, però, il sorriso gli morì sulle labbra, sostituito da un’espressione scandalizzata. Rovesciò a terra tutto ciò che questo conteneva, sperando di sbagliarsi, pregando di sbagliarsi.

Polvere. Tanta polvere.

Frugò con insistenza il contenuto dallo zaino, senza trovarvi altro. Gridò. Gridò disperatamente.

E Theia, nascosta dietro la prima colonna, sorrise.

 

 

Eleuthera e Gaison se ne stavano seduti tranquillamente nel loro angoletto del secondo livello, ad attendere pazienti i successivi colpi di cannone.

Due. Solo due.

Eleuthera si sollevò irrequieta, prendendo a camminare.

— Perché tanto nervosa?— chiese Gaison— il piano è stato un successo. Poi mi devi spiegare come ci sei riuscita.

— Non è stato difficile— rispose— ho solo rubato dal server principale degli Strateghi un vecchio filmino in cui Claudius Templesmith invitava gli altri tributi ad un festino, per poi mandare il tutto sugli schermi.

— Sì, questo l’avevo capito. Ma chi te l’ha insegnato?
Eleuthera scosse le spalle. In realtà era qualcosa che molti sapevano, giù dalle sue parti, ma era forse meglio evitare di spiegare esattamente chi avesse avuto l’idea di insegnarglielo.  

Aspettarono ancora un po’, mentre Eleuthera diventava sempre più irrequieta.

Poi, ad un tratto, si fermò. Aveva gli occhi spalancati, le mani che tremavano.

— Cosa mi sta succedendo…?— chiese, spaventata.

Gaison preoccupandosi le corse incontro, facendola sedere contro la parete, domandandole ripetutamente se stesse bene.

— Sono morte due persone— disse lei.— ho ucciso due persone. Sono un mostro!

Gaison, che sapeva sarebbe arrivato anche quel momento, le cinse le spalle con un braccio, posandole un delicato bacio sulla fronte.

— Stai tranquilla.— la consolò — Non sei stata tu ad ucciderli: hai fatto quel che dovevi fare per tornare indietro. Non sei un mostro.

— No! No, tu non capisci! Io non sono triste perché ho ucciso due persone. Io sono triste perché ne ho uccise solo due!— si portò le mani al volto, disgustata. — Speravo nel macello e invece ne sono morte solo due. Ho ucciso due persone e rimpiango che non siano state di più! Sono un mostro!

E Gaison, spaventandosi, comprese quanto lui stesso si sentisse deluso dalla scarsezza di morti. Capì quanto mostruosi erano di diventati. Capì quanto gli Hunger Games riescano a rendere folli gli uomini. 





Bacheca dell'autrice


Non mi piace. Lo ammetto, non mi piace affatto come capitolo. Dopo una rilettura...mah.
La scrittura non mi convince e il titolo fa schifo, ma non potevo certo scrivere "il falso festino", troppo rivelatore. 
Quindi scusate davvero, una parte tanto importante fatta un po' così, alla come viene. 

La storia di Carol è quella che mi convince meno. Doveva venire qualcosa di bello, ma temo d'aver forzato un po', spero che i mentori non se la prendano...

Solo due vittime. Abbiamo pensato ad altro per gli altri. Un saluto alle mentori di Larev e Bryan, grazie per averci donato due splendidi tributi, si sono meritati una vita lunga che, purtroppo, ora è dovuta cadere. Non importa più davvero chi hanno come sponsor, chi li segue, chi li acclama. Ora è guerra, e che guerra sia.

Almeno si sono risparmiati la follia che sembra iniziare a contaggiare i vivi. Cosa che a me diverte moltissimo, devo dire....non uccidetemi, sono pur sempre di Capitol City!

Mentori, se i vostri poveri tributi sembrano star per morire, forse penso sia il caso di attingere un po' alle vostre risorse. Spero che ne abbiate ababstanza.

Scusate anche i possibili errori grammaticali, non sono mai stata un asso in questo!

Che altro dire...buona fortuna, gente. E ben tornati ai quarantottesimi Hunger Games. 


Scritto da Gattapelosa


 

 

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Capitolo 6
*** Amicizie pericolose ***


Angolo autrice:
Lo so, lo so.
Faccio più schifo di quel budino al cioccolato spiaccicato sul sofitto della mia classe.
Il fatto è che, come molti di voi, sono incasinatissima con la scuola, e questa settimana è un suicidio sociale.
ok, la smetto di parlare di me.


Scusatemi per l'immenso ritardo, merito di pestare una cacca di cane. (?)
Comunque spero che il capitolo vi piaccia, perchè a me piace... e boh.
Non so più cosa dire HAHAHAHAHAHA ci vediamo infondo :')





Non appena Sara aveva avuto la premonizione, lei e Shayleen avevano fatto i bagagli raccogliendo le poche cose in loro possesso e avevano iniziato a salire di livello in livello, per allontanarsi il più possibile dal luogo della carneficina.
All'alba, nonostante fossero molto più in alto della cornucopia, riuscirono ugualmente ad udire le urla strazianti dei ragazzi che venivano uccisi, e i gridi di battaglia di coloro che combattevano. Camminavano in silenzio, al ritmo dei loro respiri, ognuna persa nei propri pensieri.
Shayleen continuava a portarsi le mani sulle orecchie, per impedire con scarsi risultati al suo subconscio di ricollegare quelle grida ai lamenti di sua madre e sua sorella mentre venivano uccise.
Sara, invece, cercava di trattenersi dallo scoppiare a piangere. Si era categoricamente rifiutata di raccontare alla compagna ciò che aveva visto nella premonizione, rimanendo molto sul vago e tentando di eludere le sue domande su cosa comportavano generalmente le sue visioni.
Aveva detto "moriremo", ma in realtà la ragazza che aveva visto morire al festino per mano di Sam era lei. Si era letteralmente vista mozzare la testa con un'ascia, quasi guardasse la scena dall'esterno. Nella visione Shayleen si trovava poco più indietro ed urlava terrorizzata, ma era viva. Nessuno faceva caso alla giovane con i capelli colorati sull'orlo di una crisi di panico, disarmata e incapace anche solo di muoversi.
A quel punto si era svegliata, ma sentiva che qualcosa non andava. Quel senso di morte e annullamento portato dal sogno continuava a perseguitarla, e la vista del suo sangue e della sua testa che ruzzolava sul pavimento le davano la nausea.
Ma ciò che le impediva di concentrarsi era una domanda terribile, che le ronzava nella testa come un ape arrabbiata. Era possibile sfuggire alla morte?
Non andando al festino aveva cambiato il corso degli eventi, ma continuava a temere che la morte la aspettasse dietro l'angolo e che le riservasse una lenta agonia come punizione per la sua insolenza.
-A che piano pensi di arrivare?-domandò Shayleen all'improvviso, più per coprire i rumori della battaglia che per vera curiosità. Sara scosse la testa, un po' intontita.
-Ho bisogno di acqua- disse semplicemente, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica della tuta. Notò con orrore che, nonostante stesse sudando, i denti stavano iniziando a batte gli uni conto gli altri per il freddo.
Shayleen la squadrò con aria critica, preoccupata.-Ce la fai a continuare?- chiese, cercando di non mostrarsi troppo ansiosa. La ragazza annuì debolmente, sebbene fosse sul punto di svenire. -Arriviamo al piano del distretto quattro, ho bisogno di acqua- ripeté massaggiandosi le tempie e chiudendo gli occhi.
 
Noah aveva avuto la stessa idea di Sara e Shayleen e aveva deciso di allontanarsi il più possibile dalla cornucopia, raggiungendo il nono livello all'alba.
La storia del festino lo lasciava a dir poco perplesso, soprattutto perché il numero dei tributi pronunciato dal presentatore non era quello giusto. Un'errore piuttosto grossolano, considerando che gli hunger games erano seguiti in tutto il paese e vi erano giri di scommesse di milioni su chi avrebbe vinto e chi sarebbe stato il prossimo a morire. Probabilmente, se avesse chiesto ad un abitante di capitol city quanti tributi erano rimasti in vita, questi non solo avrebbe dato la risposta esatta ma sarebbe stato capace anche di dirne i nomi e il distretto di provenienza. Continuava a non capire chi ci fosse sotto, ma era convinto che quel festino fosse falso.
Per questo aveva deciso di stabilirsi ad uno dei piani più alti, sperando di trovare un ambiente a lui affine. Aveva fatto rifornimento di viveri e piccoli congegni che sarebbero potuti tornargli utili mentre saliva di livello, e aveva deciso di stabilirsi in quel regno marino perché lo incuriosiva incredibilmente.
Nel momento in cui il suo piede era entrato in contatto con l'acqua scura che bagnava l'intero corridoio, la sua bocca si era spalancata dallo stupore e non si era più richiusa. Il livello appariva come un posto piuttosto sinistro e scuro, ma era proprio quello a conferirgli il suo fascino.
Le striature dell'acqua si riflettevano sulle pareti in vetro scure e ricche di incrostazioni, e un silenzio tombale avvolgeva quel luogo. L'unico rumore che Noah riusciva ad udire era quello dei suoi passi strascicati, che increspavano debolmente la superficie di quell'acqua altrimenti completamente piatta.
Dal soffitto pendevano molte reti da pesca logore, e sembravano posizionate a formare un fitto reticolo di amache sospese.
Il ragazzo, incuriosito, si avvicinò con cautela alla vetrina del negozio più vicino a lui e rimosse la sporcizia da questa con un braccio. Appoggiò le mani sul vetro per impedire al suo riflesso di limitargli la visuale e premette la fronte contro il vetro.
Quello che vide lo sconvolse e lo lasciò senza fiato, tanto era assurdo. La vetrina non era altro che una gigantesca vasca piena d'acqua, in cui nuotavano almeno una decina di squali di dimensioni anomale apparentemente poco socievoli.
Nuotavano in circolo, quasi tentassero di azzannarsi l'un l'altro, e nonostante la distanza Noah riusciva chiaramente a scorgere più file di denti lunghi e aguzzi pronte a uccidere.
Si allontanò spaventato e si lasciò cadere nell'acqua, con gli occhi che quasi tremavano per l'agitazione. Poi, all'improvviso, il suo volto si distese e recuperò la solita espressione calma e controllata, tipica di chi è padrone della situazione.
Finché ci sarebbe stato il vetro quei mostri non avrebbero potuto fargli del male.
Finché il più intelligente nell'arena fosse stato lui, nessuno avrebbe potuto fargli del male.
 
Quando Sara e Shayleen arrivarono, la trappola di Noah era già stata piazzata. Si era limitato a fare ciò che gli riusciva meglio, ovvero costruire ordigni esplosivi.
Era un meccanismo piuttosto semplice che sfigurava terribilmente davanti alle sue solite creazioni, ma per costruirlo aveva dovuto accontentarsi di ciò che era riuscito a trovare in giro. Consisteva in un piccolo ordigno molto potente posto alla base di una di quelle numerose pareti di vetro, che si sarebbe attivato non appena qualcuno vi fosse passato vicino.
In realtà Noah non intendeva uccidere nessuno, ma desiderava semplicemente sentirsi tranquillo. Tra una cosa e l'altra quella notte non era riuscito a chiudere occhio, inoltre aveva marciato fino allo sfinimento: dire che era stanchissimo era un eufemismo.
Così, solo ed unicamente per difesa, attivò l'ordigno e si arrampicò a fatica su una delle amache pendenti dal soffitto, pronto a concedersi il meritato riposo.
Gli sembrò di aver appena chiuso gli occhi quando un rumore incredibilmente forte lo fece sobbalzare. Noah diede una testata sul soffitto ricco di muschio e melma prima di riuscire a svegliarsi del tutto e rendersi conto di cosa stesse accedendo.
Credeva che sarebbero andati tutti al festivo, che la sua trappola non si sarebbe mai e poi mai attivata. La aveva innescata per difendersi da eventuali mostri marini e altre creature terrificanti che avrebbero potuto popolare quel luogo, non di certo da due ragazzine impaurite e spaesate.
Quando al passaggio di Shayleen e Sara la bomba esplose sprigionò un'esplosione che le scaraventò contro la parete di fronte. Ma il peggio arrivò qualche millesimo di secondo dopo: un enorme quantità di acqua salata le travolse, spingendole in due direzioni opposte. Shayleen venne trascinata verso la scale che conducevano al piano superiore, mentre Sara venne catturata da un piccolo ma potente vortice d'acqua formatosi a seguito dell'esplosione.
Entrambe urlarono al fine di localizzarsi reciprocamente ma, non appena sentirono l'acqua invadergli i polmoni, si limitarono a tentare di sopravvivere contando sulle proprie forze, mettendo la compagna in secondo piano.
Fortunatamente, Shayleen riuscì a trovare un appiglio e si avvinghiò al corrimano della scala che conduceva al decimo livello. Sara, invece, tentò di aggrapparsi ad un grosso chiodo arrugginito e incrostato attaccato al muro, ma ottenne come unico risultato un grosso e profondo taglio sulla mano destra.
La ragazza guardò il proprio sangue mescolarsi all'acqua per qualche secondo reprimendo i conati di vomito, prima di sentirsi afferrare una gamba e trascinare verso il basso. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, e le sue corde vocali produssero un urlo agghiacciante e disumano che fece gelare il sangue a Noah.
Solo lui, dall'alto, riuscì a vedere quella scena raccapricciante attraverso l'acqua scura.
Solo lui vide uno di quegli ibridi dalle fattezze simili a quelle di uno squalo afferrare la ragazza e staccarle la gamba sinistra con un solo morso, facendo tingere l'acqua di un rosso scuro e minaccioso.
Solo lui vide un'altro mostro azzannarle un fianco e strattonarla, facendola sbattere contro una parete.
Solo lui vide la vita svanire dagli occhi di Sara, e gli ibridi giocare con il suo cadavere.
Solo lui, dopo qualche minuto, si accorse di Shayleen che singhiozzava in un angolo, in preda alla disperazione.
 
Dopo ore ed ore passate a discutere con Gaison della strategia che avrebbero dovuto seguire, Eleuthera si concesse finalmente un po' di riposo. Il compagno era riuscito a farle capire che averne eliminati un paio era già un bel passo avanti, e che se non li avesse uccisi coloro di cui aveva avuto pietà non ci avrebbero pensato su due volte prima di piantare un coltello nel cuore di una dodicenne.
Così, tra futili giustificazioni e discorsi strategici, Gaison era quasi riuscito a farle passare i sensi di colpa. La sua compagnia riusciva a farla stare bene, in quanto il ragazzo sembrava averla avvolta con la sua positività e allegria.
La sua risata la faceva tornare indietro nel tempo a quando sua madre non aveva ancora avuto quell'incidente, e lei non era altro che una bambina innocente e spensierata.
Così, senza nemmeno accorgersene, iniziò a cantare una vecchia ninna-nanna che i suoi genitori le cantavano sempre prima che iniziasse a lavorare. L'ambiente fu subito riempito dalla sua voce dolce e ancora infantile, che fece immediatamente ammutolire Gaison.
                                                                              
Dormi bimba dormi nel verde di un prato fiorito,
sogna bimba sogna di un mondo più buono e pulito
senza dolore né violenza,
senza morte e prepotenza.
 
Lui conosceva quella canzone.
Pensò che forse, se fosse rimasto al distretto e non fosse stato estratto per gli hunger games, avrebbe potuto sposarsi, trovarsi un lavoro modesto e cantarla ai propri figli, per metterli in guardia dall'orrore dei giochi.
Ma oramai era tardi. Era pienamente consapele del fatto che quella vita non sarebbe mai stata sua, quello non sarebbe potuta essere il destino di un morto né tanto meno di un vincitore.
Guardare ragazzi morire o diventare dei mostri,ecco come si sarebbe ridotta la sua vita nel caso fosse sopravvissuto.
 
Dormi bimba dormi chiudi gli occhi per non guardare
come ciò che ti circonda non è ciò in cui puoi sperare.
 
Sospirò e cantò con Eleuthera l'ultima strofa, quella che da sempre lo aveva affascinato e gli aveva dato speranza.
 
Sogna bimba sogna una vita anche migliore,
puoi essere felice in un sogno ammaliatore.
 
La bambina, quando sentì la voce del compagno unirsi alla sua ammutolì, in quanto non si era accorta di stare cantando a voce alta. Fece per richiudersi in sé stessa, ma Gaison le riservò un sorriso ampio e sincero, accompagnato da uno sguardo addolorato.
Eleuthera, stupita, ricambiò il gesto con sincerità e lo prese per mano, con l'affetto e la delicatezza che avrebbe dedicato ad un fratello.
-Posso dirti una cosa?- disse dopo qualche secondo di silenzio, sforzandosi di rimanere seria. Gaison annuì, inclinando la testa lateralmente.
-Lo sai che canti proprio male?-confessò Eleuthera, ridendo a crepapelle per l'espressione delusa disegnatasi sul volto del ragazzo. Lui si grattò la testa e finse uno sguardo assassino, che fece aumentare l'ilarità della compagna.
-Guarda che se non avessi scelto di allenarmi per i giochi e avessi coltivato il mio talento, a quest'ora starei cantando in qualche locale di Capitol City-disse Gaison, tentando di sembrare offeso.
Eleuthera si asciugò le lacrime e gli diede una pacca sulla spalla, reggendosi a lui per non cadere a terra dal ridere. -Certo, e io sono la nipote del presidente Snow. Guardatemi, vivo a Capitol e dispongo di un patrimonio così ingente da non sapere più dove mettere i miei diamanti!- replicò lei, imitando il più ridicolo accento che potesse esistere e facendo salire la propria voce di un ottava. Gaison rise nuovamente e si appoggiò una mano sulla pancia, iniziando a sentire un leggero dolore alle costole.
-Madamigella gradisce mezzo panino dall'aria stantia e un frutto che non sembra velenoso?-disse con un inchino, fingendo di togliersi un inesistente cappelo.
-La ringrazio mio caro maggiordomo, ho giusto un certo languorino- rispose Eleuthera, afferrando il cibo avvolto nella carta stagnola che le veniva offerto da Gaison.
-Queste sono le nostre ultime provviste?-domandò, improvvisamente seria. Il giovane del distretto due annuì gravemente, addentando un frutto il cui succo rossiccio iniziò a scorrergli lungo il braccio come sangue.
Eleuthera osservò le piccole goccioline bordeaux infrangersi sul pavimento con tristezza, cercando di non pensare a quanto il rapporto che si andava creando tra lei e Gaison fosse sbagliato e deleterio.
 
-Sembrano tutte molto superficiali, credo che guariranno a breve-disse Sam, dopo aver controllato proprie ferite e quelle riportate dal compagno. Luke grugnì e piantò la spada nel tronco di un albero del secondo livello, in cui si erano affrettati a tornare dopo il finto festino. -Ci hanno ingannati!- ruggì, mostrando al compagno un espressione colma di furia animalesca.
-Lo so-rispose Sam, stringendo i pugni e guardando a terra. Entrambi tacquero per qualche minuto, cercando di sbollire la rabbia accumulata. Luke fu il primo a parlare e, sorprendentemente, si dimostrò il più ragionevole.
-Se non altro ne sono morti due-disse, sospirando rumorosamente. Sam rimase ostinatamente in silenzio, ancora offeso per l'affronto ricevuto. Chi poteva avere fatto una cosa del genere? Ma soprattutto, come era stato possibile?
Capitol City non era certamente la responsabile dell'accaduto, in quanto non vi erano precedenti nella storia degli hunger games: se loro promettevano un banchetto, il premio c'era, senza se e senza ma.
Sobbalzò quando Luke gli mise una mano sulla spalla, sorpreso da quel contatto così inaspettato. -Grazie per avermi coperto le spalle- lo ringraziò il ragazzo, sebbene fosse un po' riluttante. -Sei stato... Bravo- concluse, voltandosi immediatamente e tornando alla propria espressione truce, fingendo che nulla fosse successo.
Sam sorrise compiaciuto a testa bassa, lanciando uno sguardo fugace a quel ragazzo che finalmente iniziava a considerare un vero compagno. 






Secondo angolo autrice, ancora più inutile del primo:
Graaaaazie per aver letto tutto :')
Allora, per prima cosa devo ringraziare gattapelosa per aver scritto la ninna nanna. io non sono brava in queste cose, qui l'addetta alle rime è lei (?) HAHAHAHAHAHAHA lol
Comunque! Lo so, non abbiamo ancora pubblicato le drabble di Larev e Brian. Ci scusiamo pubblicamente anche per questo.
Promeeeetto che mi impegnerò a scriverne almeno una, giurin giurello.
Poi... ah, volevo chiedere scusa alla mentore di Sara per la morte atroce che le ho riservato. Non avrei dovuto guardare quel documentario sul modo di cacciare delle orche assassine...
Però devo ammettere che la colpa non è tutta mia, in quanto i nostri lettori *passa una balla di fieno* amano particolarmente le morti cruente lol.
Ok, io devo scappare kwfgkqwjgfqlwegqelhgv
La lista degli sponsor devo ancora aggiornarla, ma credo che la aggiungerò al capitolo tra poco, quando mi verrà in mente un titolo decente per sostituire questa schifezza.
a presto :D
Bascii, medusa c:

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Capitolo 7
*** Pronti a morire ***





 

Pronti a morire.


Noah non avrebbe dimenticato tanto facilmente il suo primo colpo di cannone. Sapere che qualcuno era morto per mano sua. Sapere che poteva davvero arrivare a tanto, sapere di essere veramente in grado di uccidere.
Noah non avrebbe mai dimenticato il suo primo colpo di cannone, e neppure Shaileen, che ne aveva già viste tante che la metà era troppa.
Cassya. La sua amica Cassya, la ragazza cui aveva giurato solidarietà eterna prima dell’inizio dei giochi, morta alla Cornucopia il primo giorno. E ora Sara, a cui doveva la vita, che l’aveva salvata da Cassian, con cui si era confidata, la sua amica Sara. Morta nel colpo di un cannone, sepolta dall’acqua degli strateghi e orribilmente sbranata da uno squalo ibrido.
Non si era neppure soffermata ad osservare il volto del suo assassino. Non aveva la minima idea di chi avesse ordito un simile piano: se solo avesse conosciuto il colpevole, per la prima volta dall’inizio dei giochi, avrebbe desiderato averlo sottomano per poter uccidere.
E si spaventò davvero per la mostruosità di questo pensiero, suo padre aveva sempre cercato di insegnarle che mai, per nessuna ragione al mondo, bisognava voler ammazzare qualcuno. Era sempre stata una sua convinzione: entrare nell’Arena e combattere fino alla morte, senza cedere mai, e senza mai privare l’avversario della propria vita.
In quel momento, ancora bagnata per l’ondata d’acqua che la travolse, rinunciò a tutti i buoni propositi e pregò per la morte dell’assassino della sua migliore amica.
Poi pianse. Pianse per lo schifo. Pianse per Sara. Pianse davvero tanto.
Si lasciò scivolare sugli ultimi gradini della scala, lontana dal cadavere mutilato di Sara. Appoggiò la testa contro la parete, le mani sugli occhi, e gridò: gridò quanto schifo faceva Capitol City, quanto quei giochi inumani fossero da barbari, quanto meritassero la morte tutti coloro che permettevano un tale scempio. Probabilmente gli Strateghi non permisero mai che quelle parole venissero mandate in onda, ma tutti, da casa, non poterono che pensare le stesse identiche cose.
Lasciare che una ragazza venisse tranquillamente mutilata da uno squalo è bestiale. E bestiale è soprattutto chi ne gode.

D’altra parte, se tutti da casa piangevano quel colpo di cannone, lo stesso non si poteva dire per i concorrenti ancora in gara. Un colpo di cannone equivaleva a un passo in più verso la propria famiglia.
Tra tutti, però, Elaine non aveva proprio voglia di festeggiare. Era rimasta così provata dal festino da desiderare solo che i giochi finissero presto. Si era trovata un angolino sicuro nel secondo livello, tra le rovine di un alimentare, per lasciarsi scivolare a terra, contro le pareti spoglie.
La ferita procuratele da Miranda non faceva neanche più male. Forse la rassegnazione aveva banalmente offuscato il dolore.
La cosa davvero assurda era che Elaine non stava lì a pensare a Yvonne o a Jude, della cui morte si sentiva responsabile. E nemmeno ad Alwyn o alla sua furia omicida.
Elaine pensava al corpo trafitto di Bryan.
Erano stati compagni di distretto, un tempo, e per quanto non avessero mai avuto modo di interagire molto, quel periodo tra il campo d’addestramento e il viaggio in treno aveva dato loro una certa speranza d’amicizia. E invece Bryan aveva deciso di rifiutare il suo invito all’alleanza per unirsi a Carol. E ora era morto.
Per colpa di Carol lui era morto.
Non riusciva a incolpare nessuno per la caduta di Yvonne o Jude, se non se stessa, ma per Bryan sì. Esisteva un corpo verso cui far convergere tutti i suoi dolori e le sue sofferente.
La rabbia di Elaine aveva finalmente trovato il suo capro espiatorio.


Alwyn era tutt’altro che triste. Forse stava cominciando a farsi sempre più folle, ma quel colpo di cannone l’aveva risollevato dal flop del festino. Erano comunque morte tre persone, quel giorno, qualcosa di buono ne era uscito, e che contavano poi le ferite procuratogli da Larev? Sarebbero guarite, prima o poi.
L’unico problema riguardava il fatto che, per gli svariati dolori, non era in grado di andare a caccia. L’orecchio ormai era stato orridamente mutilato, la gamba destra praticamente zoppa e il braccio sinistro solcato da una spaventosa ferita orizzontale. Senza contare gli innumerevoli tagli sparsi vistosamente per il resto del corpo.
Aveva cercato di curarsi con un bendaggio di fortuna, fatto di foglie e piante secche.
Così, mezzo dolorante ma ugualmente esaltato, decise che forse sarebbe stata una buona idea procurarsi un po’ d’acqua. Giusto quel che bastava per non morire disidratato.
Si trovava ancora al primo livello, non essendo riuscito a salire più in alto, neanche troppo lontano dalla cascata. Nonostante la gamba sinistra dovesse essere praticamente trascinata a forza, Alwyn si dimostrò sufficientemente veloce. Doveva ammettere di aver avuto un po’ di paura alla prospettiva di lasciare il suo nascondiglio: dopo il festino tutti i tributi sarebbero sicuramente rimasti nei paraggi.
Invece non aveva trovato nessuno.
Euforico, strisciò fin dietro l’angolo. Udiva consolatorio l’acqua scivolare giù per la cascata. Lasciare definitivamente il proprio nascondiglio voleva dire esporsi al pericolo più di quanto la sua gamba malata volesse concedergli, ma alla sete non c’è paura che tenga.
Sporgendosi un poco verso la fonte, però, scorse qualcosa di ben più prezioso che banale acqua: un possibile quarto colpo di cannone.
Theia Jhonson se ne stava là, accovacciata, abbeverandosi frettolosamente, conscia di non essere sola al primo livello e ben intenzionata a spicciarsi.
Alwyn sorrise crudele, nel fissare la schiena tesa di Theia. Estrasse il coltello. Un solo tiro, uno solo, ed ecco la quarta vittima, sarebbe stato facile. Fortuna vuole che il braccio destro non facesse neanche troppo male, sicuramente sarebbe stata una passeggiata far fuori anche Theia.
Si posizionò al meglio, goffo com’era per i terrificanti dolori, e prese bene la mira. Ma i movimenti lenti e imprecisi fecero urtare accidentalmente un sasso, rumore leggero, forse, ma abbastanza assordante per le orecchie vigili di Theia.
Il coltello volò quando ancora la ragazza non aveva fatto in tempo a scansarsi, ma il colpo si era dimostrato leggermente più impreciso del solito, e Theia limitò i danni con un leggero strattone.
Sentì ugualmente la lama impiantarsi nella coscia. Uno di quei dolori atroci, sofferti, la lama si era fissata in profondità, fin quasi all’osso. Theia gridò. Gridò e si strappò di colpo il coltello, squarciandosi la carne. Avrebbe voluto correre, correre via, il più velocemente possibile. Avrebbe voluto salvarsi, ma non riusciva a muoversi.
E Alwyn stava lì. Malato, dolorante, annientato, ma stava lì, in piedi, più forte di lei. Le si avvicinava, armato di una tavola chiodata strappata via da chissà quale negozio. Si trascinava su una gamba, ancora mezzo sanguinante.
E questo dovrebbe essere più forte di me?
La follia rende grandi, più di quanto la realtà lascerebbe immaginare. E Alwyn era folle, ma ferito. Più ferito di Theia.
Lei fece il possibile per sollevarsi in piedi: semplicemente, era assurdo che quell’ammasso di carne squarciata e sangue colante fosse più potente di lei, che doveva rinunciare a una sola gamba.
Tutti i buoni propositi dovevano però scontrarsi con la dura realtà: non poteva correre, né fare pressione per sollevarsi.  
Poi guardò la mano: stringeva un coltello. Piccolo e insignificante se paragonato alla mazza chiodata, ma sempre letale.
Alwyn le si dirigeva incontro il più velocemente possibile, esaltato: un gattino spaurito, solo, insignificante e incapace di combattere. La preda perfetta. Lei se ne stava lì, accovacciata a terra, davanti la cascata, con il coltello tra le mani e uno sguardo spaurito come se neanche sapesse cosa farsene, dell’arma. Quando le fu abbastanza vicino alzò la mazza in aria e colpì. Theia si scansò velocemente, evitando l’impiantarsi dei chiodi nella carne, ma percependo distintamente il legno frustarle la schiena.
Si mosse di lato, allontanandosi dalla cascata, e ancora una volta ecco il colpo della mazza: questa volta uno dei chiodi le perforò leggermente la schiena, ma il dolore non poteva essere lontanamente paragonato alla gamba squarciata.
— Che fai, fuggi?— gridò Alwyn, sempre più su di giri, tentando un nuovo colpo. Ancora una volta, Theia evitò solo quanto necessario per non morire, strisciando sul pavimento.
— Paura? Fai bene! È giunto il momento per te di morire!
E ancora un colpo, ancora un dolore, ancora un veloce spostamento. Dopo l’ennesimo scansarsi, Theia si ritrovò accovacciata proprio ai piedi di Alwyn, dritto con le spalle alla cascata.
— Pronta a morire?— e fece per colpire ancora, sollevando la mazza, ma Theia fu più veloce. Con un sorriso cattivo, impiantò veloce il coltello sul piede buono di Alwyn. Lui gridò, il dolore gli fece perdere l’equilibrio. Cadde indietro, dentro la cascata, aggrappandosi proprio per il rotto della cuffia al bordo del foro sul pavimento.
Aveva l’acqua che lo sommergeva, ma resisteva eroicamente, cercando di risollevarsi, di non cadere, di non morire.
Theia gli si avvicinò. Gli sfiorò le dita.
— Pronto a morire?— raccolse la mazza chiodata e fece ben attenzione a impiantargli profondamente un chiodo sulle dita. Alwyn scivolò fin sopra la cornucopia, e così morì la quarta vittima.

Il quarto colpo di cannone sconvolse un po’ tutti. La giornata stava ormai volgendo al termine, chi ancora era in gara stava preparandosi per la notte.
Carol non aveva voglia di preparare proprio niente. Sola al secondo piano in un negozietto, faceva quanto possibile per evitare di scoppiare in urla dense di odio e rabbia.
Si detestava. Si detestava per esserci cascata ancora. Già è pazzo di per sé legarsi a qualcuno, farlo in un’Arena, poi, è semplice follia. Frustata prese una cassa a calci e si lasciò scivolare contro il bancone.
— Muori, muori, muori— continuava a ripetere, rabbiosa, in un sussurro soffocato. Chi dovesse morire, non lo capiva nemmeno lei. Forse Luke, o forse qualcuno di più importante, a Capito City. Forse chiunque avesse avuto l’idea di cominciare gli Hunger Games, perché qualcuno c’era stato, sicuro, e aveva fatto fuori Tom e Bryan.
— Perché? Perché?
— Perché cosa?— fece una voce.
Carol si bloccò di colpo, guardandosi attorno.
— Chi ha parlato?
— Sono Miranda. Distretto 2. Tu?
Carol si alzò di colpo, impaurita. — Dove sei?— chiese, fintamente calma.

— Non te lo dico. Tu dove sei?
— Non lo sai?

— No. La tua voce viene da un punto indefinito.
Carol aguzzò l’udito. Sì, la voce di Miranda non sembrava provenire da nessuna parte. Gli Strateghi avevano combinato qualcosa con l’acustica.
— Carol. Io sono Carol.
— Quella del Distretto 10?
— Te lo ricordi?
— Sì. Cosa stavi dicendo, prima?
— Niente, mi lamentavo soltanto.

— Chi è che deve morire?
Carol stette zitta, pensierosa. Tutti dovevano morire. Tutti quanti.
— Nessuno, mi stavo solo lamentando. Perché mi parli? Non vieni dal Distretto 2? Dovresti darmi la caccia e uccidersi.
— Oggi no, magari domani. Oggi è un giorno diverso.
— Cos’ha di diverso?
E toccò a Miranda tacere due secondi, a riflettere. — È diverso e basta. Sono stanca, stanchissima, non vedo l’ora che tutto finisca. Tu mi darai la caccia e mi ucciderai?
— No, oggi no.

— Perché?
— Perché sono molto più stanca di te. Oggi ho perso tutto ciò che avevo e non penso di poterlo più riavere indietro.
— Che cosa?
— La persona che amavo, semplice.

Miranda sospirò sconsolata e si portò una mano al volto. — Questi Hunger Games sono inumani. Oggi ho definitivamente perduto gli unici due amici che io abbia avuto qua dentro. Non sarà come vedersi strappar via la persona amata, ma mi sento improvvisamente sola…non vedo l’ora di tornare a casa.
— Sembri piuttosto sicura di riuscirci.— sussurrò Carol, rimettendosi seduta. Teneva lo sguardo vigile, nel timore di sentirsi avvicinare l’avversaria.
— Sono sicura di potercela fare. Riuscirci, invece, è tutt’altra storia. Ma infondo siamo arrivate fin qui, no?
— Non vuol dire niente. Anche la bambina di dodici anni è ancora viva.

— Eleuthera? Non parlarmi di lei, per favore. Se sono sola è soprattutto colpa sua. — il silenzio di Carol indusse Miranda a proseguire. — Non so come abbia fatto, ma si è alleata con il mio amico.
— Vuoi ucciderla?
— Voglio tornare a casa, e questo è quanto. Anche Gaison deve morire, anche tu, tutti. E odio da morire tutto ciò.

Carol annuì, tra sé e sé. Odiava gli Hunger Games, odiava tutto il male che comportavano.  
— Eppure mi sento così sola…
— È un modo carino per chiedermi di allearmi con te?
— Neanche per sogno— rispose subito— Appena sarà l’alba ti ucciderò. Le alleanze portano solo dolore.

Carol sospirò, socchiudendo gli occhi e trattenendosi dall’impulso di piangere. Prima che potesse aggiungere altro, però, prese a risuonare l’inno e i monitor dell’intero centro commerciale s’illuminarono.
Sfilarono i volti di quattro tributi: a cominciare da Larev, un colpo al cuore di Miranda, per poi passare a Bryan, e il singhiozzo strozzato di Carol. Alwyn, accompagnato dal sorriso nascosto di Elaine, e Sara, nella disperazione di Shaileen.
Quando tornò il silenzio, né Carol né Miranda presero a parlare. Carol s’alzò, raccogliendo quel po’ che ancora possedeva, e si allontanò verso l’uscita. Non sarebbe voluta rimanere nei pressi di Miranda, al sorgere del sole.
Nell’allontanarsi, però, l’occhio cadde oltre una vetrina, e vi scorse la chioma rossiccia del tributo. Rimase ferma lì a fissare la bella nemica, pensierosa, quando questa si voltò.
I loro occhi s’incatenarono in uno sguardo triste, privo di rabbia o paura. Entrambe armate, entrambe pronte alla guerra, rinunciarono a qualsiasi rivalità, per quella notte. Accompagnata da un cenno di saluto, Carol s’allontanò definitivamente.





Gattapelosa:

Due mesi. Lo so, lo so, lo so, sono passati due mesi, chiedo perdono! Ho avuto moltissimi problemi, sono caduta in depressione, a malapena mi alzavo dal letto, scrivere era assolutamente impossibile! E avevo anche quasi finito di scrivere il capitolo, a dire il vero.

Ora siamo tornate, per chi ancora c'è, e mi dispiace moltissimo per la prolungata assenza, spero che non succeda più!

Alwyn è morto. La storia qui si inceppa un po', direte voi, perché a parte questo non succede nulla di scioccante, ma abbiamo programmato un po' di cosette future, e presto riprenderà al meglio. Si spera.

Mi dispiace molto, davvero, scusate!




Niallsunicorn:

Mi scuso anche io, seppur questo capitolo non toccasse a me. 
in ogni caso a me piace molto, e spero vivamente che continuerete  seguirci nonostante la pausa.
SIAMO VIVE, DIFFONDETE LA VOCE. (?)
basta.
Spero di riuscire a scrivere in fretta il prossimo capitolo, buonasera a tutti!

Ps. il titolo non ha senso, lo so. Infatti l'ho scelto io adesso, perchè gattapelosa non mi aveva lasciato istruzioni a riguardo.
grosso errore gatta, grosso errore.

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