Do you know about swallows?

di Noth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Do you know about swallows? ***
Capitolo 2: *** I knew I missed it. ***
Capitolo 3: *** I had to get used to it. ***
Capitolo 4: *** Something's wrong.. ***
Capitolo 5: *** I know how it is. ***
Capitolo 6: *** It was better this way. ***
Capitolo 7: *** As lucky as I never will. ***
Capitolo 8: *** Unexpected. ***
Capitolo 9: *** I'd be a butterfly. ***
Capitolo 10: *** Lights in the sky. ***
Capitolo 11: *** Are you in love? ***
Capitolo 12: *** Not you, no. ***
Capitolo 13: *** You're welcome. ***



Capitolo 1
*** Do you know about swallows? ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 1-










Le strade erano la mia casa. Quell’odore di smog soffocato, il vento impervio che trascina con sé la pioggia ed il senso di vuoto che precedeva l’assenza di traffico che, a New York, era più un miracolo che una realtà, li sentivo quasi come miei. Le panchine erano le mie migliori amiche, assieme ai piccioni con i quali intavolavo discorsi al pari di un filosofo. Il freddo della notte non mi aveva mai fermato, anche se penetrava oltre il colletto del vecchio cappotto scuro e mi solleticava la barba che non avevo mezzi per tagliarmi e rimaneva ispida ed incolta come quella di uno di quei cantanti rock degli anni settanta. I capelli erano già ricci e disordinati senza l’aiuto del vento e dei cartoni scomodi sui quali dormivo, ora si potevano definire più un nido di qualche animale che doveva essere stato molto coraggioso se aveva deciso di crearsi una casa del genere.

Okay, okay, va bene magari non era proprio un’opera d’arte.

Bastava solo un po’ di immaginazione e di conoscenza dell’astratto, sono sicuro che qualche autore del passato, almeno uno, avrebbe giudicato quel casino aggrovigliato una scultura di inestimabile
valore.

O almeno credo.

Le giornate non erano poi così monotone, in quella vita da nomade. Okay, nemmeno nomade era esattamente il termine più adatto, ma lo preferivo a barbone. Dopo tutto quella vita me la ero scelta, e
non era affatto male. Certo, se non si contavano le pulci, il tempo atmosferico ed i ragazzini che la mattina non si accorgevano che ci fosse qualcuno sotto ai giornali e ci si sedevano beatamente sopra,
non creando di certo un gran risveglio.

Quella giornata non si stava evolvendo troppo bene. Era pomeriggio ed cielo era nuvoloso, il che, secondo il mio infallibile istinto di uomo di strada – o meglio senza un tetto sopra la testa – significava
che entro la giornata avrebbe piovuto e che io non avrei avuto un riparo e che sarei dovuto andare ad imbucarmi a Central Park alla ricerca di un albero che fosse abbastanza generoso da farmi da
ombrello.

Inoltre avevo perso i cinque dollari che avevo nella tasca del giubbotto, soldi che avevo trovato dentro un cassonetto in una vecchia scatola da scarpe, visto che la giornata da musicista non era stata
troppo fruttuosa.

Eh, sì, avevo l’abitudine di rovistare tra i rifiuti ma, a lungo andare, si era rivelato più interessante che disgustoso. C’erano un sacco di cosa che la gente buttava che, in realtà, erano terribilmente
interessanti. Lettere strappate che non si voleva ricordare, lacci colorati per le scarpe solo un po’ passati di moda, biglietti dell’autobus usati che potevano benissimo venire riutilizzati, vista la
mancanza di controlli che veniva fatta su quei mezzi.

Era interessante, non era monotono, nella mia vita qualsiasi cosa la smuovesse anche solo un po’ era incredibilmente eccitante.

In realtà ero un po’ come un bambino: mi ci voleva poco per divertirmi ed ancora meno per smontarmi, ma il mio entusiasmo era sempre stato inesauribile, ed amavo l’idea di ridere e di muovermi,
mentre detestavo il pensiero di stare fermo ad aspettare e, per mia fortuna, New York era la città che non dormiva mai.

Che ci faceva uno come me a New York? Bè, tante cose.

Per iniziare ci avevo passato buona parte della mia vita a causa del lavoro dei miei, che poi avevano deciso di ripudiarmi come figlio a causa della mia omosessualità e, bè, andarmene era stata la scelta
migliore della mia vita. Avevo preso il portafoglio mezzo vuoto e la chitarra. Avevo detto addio a tutto e tutti, avevo salutato per sempre Paul, Adrianne e Cooper Anderson.

Ora ero solo Blaine. Un cognome non mi serviva e non volevo averlo.

Che me ne facevo di un cognome?

Sicuramente non potevo mangiarlo.

Era incredibile come avessi sempre la custodia della chitarra in spalla, mentre dormivo addirittura, ed avevo anche trovato un modo efficace di chiuderla così che nessuno, a parte me, riuscisse ad
aprirla e quindi rubarmela. Poi, solitamente, mi mettevo agli angoli delle strade e cantavo, suonando un po’, allietando il mondo con le mie storie da vagabondo e da conoscitore dei posti più strani della
città. Chi se non un uomo come me che non aveva una fissa dimora poteva dire di aver girovagato più o meno per l’intera Grande Mela?

Magari non tutta ma... buona parte.

Avrei dovuto smetterla di correggermi, e lasciare quelle frasi ad effetto che mi facevano sembrare molto figo e misterioso, ma temevo di non esserlo.

Fingiamo che lo fossi.

Come volevasi dimostrare le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere dal cielo, macchiandomi il cappotto e mettendomi subito alla ricerca di un riparo mentre correvo per le strade di Manhattan.
Non avevo paura della pioggia, ma non mi metteva di buon umore. Faceva calare una cappa di freddo e di fretta sulla città. Tutti correvano ancora più del solito ed erano il triplo più maleducati.

Mentre le gocce si facevano più grosse e più fitte pensai che non potevo entrare in un negozio perché, in quelle condizioni, mi avrebbero sbattuto fuori, e non scorgevo supermercati o Music Shops
sgangherati che avrebbero preso la mia mancanza di stile per il tentativo di emulazione di qualche cantante di stile vintage o grunge.

Con la custodia a tracolla che mi sbatteva sulla schiena, come sempre, mi alzai il colletto nel tentativo di coprirmi la testa, ma poi a che serviva se non avrei mai avuto l’opportunità di asciugarmi sul
serio? Sarei comunque stato fradicio.

I lati negativi dell’essere un senzatetto/vagabondo/nomade/barbone.

Con la coda dell’occhio, quando la visuale si era oramai fatta nebbiosa e poco distinta, scorsi un bar scalcinato che sembrava abbastanza mediocre da accettare la mia presenza, e poi la pioggia sarebbe
stata una scusa per spiegare il mio aspetto precario.

Attraversai la strada, facendomi quasi investire da un taxi sparato a tutta velocità, e spalancai la porta del bar che, con mia grande sorpresa, era semi vuoto. Dentro c’era solo il barista, una ragazza
bionda con un corpetto molto scollato e dei pantaloni della tuta che non si abbinavano per nulla, un vecchio signore in giacca e cravatta ed un ragazzino che avrà avuto sedici anni, seduto accanto ad
una vecchia signora con tanto di scialle e cappello in tinta con i guanti.

Di colpo mi assalì un dubbio: con cosa avrei comprato da bere? Se non prendevo nulla sarei stato costretto ad uscire di nuovo sotto l’acquazzone, e mi corse un brivido lungo la schiena al solo pensiero.

Mi sentivo un cane bagnato e mi dovetti trattenere dall’impulso di scuotermi per schizzare l’acqua che avevo addosso tutt’intorno a me.

« ‘Giorno. » mormorai, pulendomi le scarpe sul tappeto a terra, ed avanzando verso il bancone, maledicendo il momento in cui avevo perso quei maledetti cinque dollari.

Il barista, che puliva un bicchiere e metteva in mostra la sua testa lucida che rifletteva la luce delle lampadine a basso consumo, alzò lo sguardo distrattamente e sorrise illuminando gli occhi chiari.
Sembrava uno di quegli uomini che avrei voluto diventare un giorno, con il sorriso di un bambino e gli occhi di un padre che non ha ancora smesso di sognare.

« Ragazzo mio, per la miseria, sei zuppo come un cencio. » borbottò, e si appoggiò al bancone, guardandomi ed attendendo che ordinassi.

« Ecco io... Mi dispiace, signore, non ho un soldo. Sono entrato per ripararmi dalla pioggia. » spiegai, imbarazzato, facendo spallucce innocentemente.

L’uomo alzò un sopracciglio, e parve che il bar diventasse ancora più silenzioso. La ragazza smise di parlare al telefono, la vecchietta si zittì nel raccontare al sedicenne chissà quale incredibile
esperienza e il tipo in giacca e cravatta smise di borbottare tra sé, o magari all’auricolare bluetooth.

« Dimmi un po’, specie di vespaio vagante, mica ce l’hai una casa? » chiese mettendosi le mani sui fianchi come una di quelle donne di colore delle serie televisive che guardavo da piccolo.

Sospirai.
« No, signore, vivo per strada. »

« Hai perso il lavoro? »

« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »

L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.

« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.

Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.

« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.

Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.

« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.

Alzai lo sguardo dal legno lucido e, per la prima volta in vita mia, mi domandai perché il resto del mondo non potesse pensarla allo stesso modo.

Incontrai gli occhi chiari dell’uomo e, per un secondo, mi parve di vedere una scintilla di affetto nelle sue iridi. Una scintilla che non vedevo da secoli e che mi mancava molto.

« Dai, ragazzo, offro io questa sera. Prendi quello che vuoi. » disse, e non ebbi il coraggio di rifiutare. Mi avventai sui salatini e chiesi un paio di bottiglie di birra. Mi sentivo un approfittatore, ma la
fame e la sete erano dure da placare, e sentivo il bisogno dell’alcool nelle vene per sopportare quella che sarebbe di sicuro stata una nottata piovosa.

L’uomo non mi fece pensare che chiedessi così tante cose, sembrò intenerito dalla mia storia e, anche se non era mia intenzione quella di suscitare pena, gli sorrisi. Non sembrava nemmeno pena quella
che gli brillava negli occhi.

Gli guardai il nome cucito sulla camicia che indossava e, nonostante dopo le prime due bottiglie di birra la mia vista iniziasse già a farsi più sfuocata, riuscii a scandire il suo nome.

« Burt. » biascicai, appoggiando i gomiti al bancone mentre lui ridacchiava allegramente.

« Già, l’ha cucito mia moglie prima di morire. » spiegò, poggiando il bicchiere che si ostinava a pulire.

Deglutii un sorso della mia terza birra, con la vista annebbiata ed il mondo che girava a colori accesi mentre sorridevo fuori luogo.

« Avevate figli? » domandai, cercando di distrarre il discorso dalla moglie defunta.

L’uomo sospirò ed annuì, guardandomi con un’espressione così paterna che dovetti distogliere lo sguardo. Era chiaro che avevano avuto figli, e da quell’espressione dovevano anche averli amati molto.

Fui subito molto invidioso e poco controllato a causa dell’alcool.

« Sì, avevate figli. » borbottai con un insensato tono acido.

Lui rise e mi poggiò una mano sulla spalla.

« Ragazzo, i figli vanno amati in ogni caso. Credo che i tuoi non fossero semplicemente bravi a fare i genitori. »

Grugnii infelice, incassando la testa tra le spalle. Male, l’alcool stava finendo sul cuore invece che sulla testa. Con la testa avrei mandato quel discorso a farsi fottere, ma con il cuore bruciava ancora.

« Sì, e per colpa della loro inettitudine io devo sentirmi una specie di merda ambulante che si guadagna a malapena quello che mangia con la sua stupida chitarra che non fa altro che ricordargli ogni
giorno quanto amato fosse prima che... »

« Stop. » Burt si girò di scatto, bloccandomi a metà del discorso. « Figliolo, vedila come un’opportunità, non un errore. Insomma, stai sperimentando sulla tua pelle una vita interessante. Nessun
padrone, nessun dovere, nulla di nulla. Sei libero. È un’opportunità, questa. »

Ridacchiai in modo stonato, e solo allora notai che la vecchia signora si era avvicinata alle mie spalle.

« Su con la vita, ciccio, senza legami si sta più che bene. Si ricomincia da zero, si da il via ad una nuova vita. Sei stato fortunato ad avere questa seconda opportunità, non buttarla ai cani come se non
fosse niente, per l’amor di Dio. » brontolò, come una normale anziana che si rispetti. Era evidente che aveva ascoltato tutto il mio discorso con il barista.

Pagò Burt che la ringraziò con un sorriso e la chiamò “Signora Dulain”, prima di salutarla ed aspettare che uscisse dalla porta dalla quale ero entrato.

Finii la mia quarta bottiglia di birra ed il bar iniziò ad ondeggiare pericolosamente.

« Lo sa... lo sa qual è la cosa peggiore? » biascicai, ridendo, anche se non c’era niente da ridere.

Burt mi guardò curioso.

« Che... che credevo davvero mi volessero bene. Ma chi se ne frega. Affanculo questa città, affanculo loro e affanculo la schifosa vita che conducevo. Perché io ora sono libertino. »

« Volevi dire libero? »

Liquidai il discorso con un gesto della mano.

« Stessa cosa. » cantilenai, e mi appoggiai sul bancone con le braccia mentre ridevo come un idiota, nel mezzo di un bar nel quale, prima che potessi rendermene davvero conto, ero rimasto solo io.

« Che silenzio. » gridai, facendo riecheggiare la mia voce per tutte le pareti.

Odiavo il silenzio, ero arrabbiato con il silenzio, perché a casa mia era tutto quello che avevo ricevuto dopo aver fatto coming-out.

Affanculo anche il silenzio.

Inizia a cantare una canzone che avevo sentito più volte da piccolo, una canzone che non credevo di ricordare che parlava di un palloncino che andava sempre più in alto e, alla fine, scoppiava perché si
era spinto troppo in là.

Ma non mi importava ciò che stavo cantando, perché in quel momento era tutto troppo divertente, troppo colorato per rattristarmi sul serio. Continuavo a ridere e non mi importava più del resto.

« Amo questo bar! Amo... io amo questo bar! Lo sai Burt? Lo sai che lo amo? Ed amo anche te e quella tua testolina lucida e quegli occhi pieni di sogni e speranze che si infrangeranno. Già, li amo
davvero. E amo New York! Che è grande e dove... dove c’è sempre tutto. A proposito, lo sapevi che le rondini migrano e poi tornano quando il clima è meglio per loro? » blaterai.

« Volevi dire migliore? » mi corresse.

Sbuffai.

« Comunque sì, lo so, quando non si sta bene in un posto è normale scappare. » aggiunse.

« Ma non è normale tornare. » puntualizzai puntandogli un dito contro e chiudendo un occhio, mentre mantenevo un sorriso ebete sul volto.

« Perché no? Le cose cambiano, a volte diventano migliori. »

Scossi la testa,

« No, no no. Burt non cadere nella trappola dell’uomo medio! Le cose non cambiano mai, prima o poi ritornano comunque com’erano una volta. È un circhiolo. »

Lui sospirò. « Intendevi cerchio? »

« Cerchio, cosa ho detto io? Alla fine dopo la primavera e l’estate torna comunque il gelido inverno, e non tutti possono fare spola come le rondini. Non tutti possono volare. » spiegai, cercando di bere
un’altra sorsata, ma Burt mi fermò, guardandomi con aria triste.

« Direi che per oggi basta. » mi ammonì, togliendomi la bottiglia di mano. « Come può un ragazzo come te essere stato ferito così profondamente? » chiese, e prima che potessi rispondere caddi dallo
sgabello, sbattendo la spalla a terra e cominciando a ridere sguaiatamente.

« Perché... perché alla gente non frega niente di chi ferisce! Lo... lo fa e basta! » dissi, nel mezzo della risata, senza sapere se Burt avesse capito o no.

Burt mi raggiunse e mi afferrò per la spalla non dolorante, issandomi in piedi, sorreggendomi.
« Qual è il tuo nome, ragazzo? » domandò.

Prima di poterci pensare risposi:

« Blaine. »
Lui annuì.

« Bè, Blaine, questa notte vieni a casa mia. Non ho intenzione di farti uscire dal bar in questo stato. In primis per la reputazione di questo posto, e per secondo perché ti investirebbero subito. » annunciò, appoggiandomi al bancone mentre chiudeva il bar.

Quanto tempo ero rimasto là dentro se era già notte fonda? Non volevo saperlo.

Quando spense le luci iniziai a gridare.

« Non posso lasciare la mia chitarra! La mia... la mia chitarra! »

Lui mi afferrò e mi portò verso una porta nel retro che dava su una rampa di scale. Probabilmente abitava appena sopra il bar. Comodo, utile, meno dispendioso. Intelligente.

« Non ti preoccupare, ragazzo, domani sarà ancora là. Nessuno entra nel mio bar, te la riprenderai dopo una bella dormita, va bene? » domandò.

Biascicai qualcosa in risposta e, senza rendermene conto, eravamo già nell’appartamento. Era buio e non vedevo niente. Inoltre continuava a girare tutto.

Svoltammo dentro un corridoietto che dava su una stanza, e Burt mi appoggiò a terra mentre si dirigeva verso quello che sembrava un grande letto ad una piazza e mezza.

Lo sentii bisbigliare confusamente.

« Ehi. Kurt, ehi... ragazzo ubriaco... problemi familiari... vagabondo... stare qui con te... questa notte? »

Un mugugno lamentoso di assenso in risposta e due braccia mi sollevarono da sotto le ascelle gettandomi poi su un letto morbido, profumato, soffice. Un letto che sognavo da mesi. Sospirai
piacevolmente ma non riuscii ad intravedere il mio compagno di stanza. Era troppo buio.

« Piacere, sono... sono un ubriaco e sto occupando... occupo metà del tuo letto.. » biascicai, cercando di non ridere e respirando a fondo per combattere la nausea da sbornia.

« Sono contento, ed ora dormi, okay? Domani starai meglio. » rispose l’altro in un sussurro. La voce era molto acuta, poteva effettivamente essere una donna, ma il profumo era inconfondibilmente quello
forte di un uomo.

Avvolto in quella fragranza agrodolce, appoggiato su un materasso che non vedevo da mesi e completamente ubriaco sprofondai in un mondo fatto di nuvole di zucchero, prendendo sonno e pensando
che, per la prima volta da tanto tempo, mi sentivo amato ed a casa.  


























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Spazio Autrice:
Lo so, lo so scusatemi pensavo sarebbe stata una one-shot ed invece era diventato molto/troppo lunga, e ho voluto continuarla.
Quindi sarà una long.
NOn so di quanti capitoli.
La concilierò con Nobody Said It Was Easy, ovviamente!
Spero vi piaccia. A me, stranamente, piace.

Vostra,
Noth

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Capitolo 2
*** I knew I missed it. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 2-

 









La prima cosa che pensai fu che doveva avermi preso fuoco la testa nel sonno, magari mi ero addormentato in quel quartiere dove c’era quella banda di ragazzini con vaghi istinti piromani.

Poi ricordai.

E probabilmente fu la mancanza di odore di fumo e pipì di cane che mi suggerì che non potevo essere in strada, assieme alla morbidezza del cuscino nel quale affondavo la testa e dal quale non la volevo alzare. Dovevo ammettere che non era per niente male, e che mi era mancato parecchio. Non feci subito caso al fatto che faceva troppo caldo per avere addosso solo un lenzuolo ed un copriletto, almeno così sembrava e, mentre i miei sensi si disinibivano – fatta eccezione per la testa che sembrava essersi staccata ed avere vita propria, mi accorsi di avere un corpo schiacciato addosso. Cercai di riunire i pezzi alla meglio e, grazie a qualche flash confuso, riuscii a ricordare qualcosa. Il corpo doveva essere del figlio di quello strano e gentile barista che mi aveva salvato dalle intemperie, perché ricordavo, più o meno, che mi avesse proposto di stare a casa sua per la notte. L’immagine che avevo in mente però lo ritraeva con un tutù azzurro di tulle, e dubitavo fosse andata veramente così. Scavai ancora un po’ più a fondo e sfidai il mio mal di testa per trovare invidia, affetto, nostalgia e rondini.

Rondini?

Che diamine c’entravano le rondini con la serata?

Visto che non riuscivo a ricordarlo mi arresi e sospirai, massaggiandomi le tempie nel tentativo di alleviare la sensazione di caos alla testa. Era
come se la avessero inserita in una campana e dei gargoyle si stessero divertendo a sbatterci i martelli contro per creare un fracasso infernale.

Terribile.

Dovevo ammettere che Sean – o forse era John, ma cominciava con la B… - comunque il barista, era stato molto gentile ad ospitarmi per la notte. Per quanto ne sapeva potevo essere un malvivente, non che non ne avessi l’aspetto, oppure avere la sifilide, o la febbre gialla o chissà quale infezione, eppure di aveva accolto, e gli ero davvero grato per questo. Probabilmente se fossi uscito dal bar nello stato in cui ero mi avrebbero veramente investito, o magari derubato, anche se, a dirla tutta, la cosa più preziosa che possedevo erano le mie Converse bucate e la mia chitarra che nessuno avrebbe mai toccato. Non se ero ancora vivo ed in grado di mordere.

A proposito di chitarra…

Il corpo accanto a me si mosse lentamente, accompagnato da un verso soddisfatto di stiracchiamento, mentre guardava la sveglia ed imprecava.

« Oh, merda. » disse, e si alzò in piedi di colpo, levandomi la coperta di dosso ed incespicando al buio fino ad arrivare all’interruttore per accendere la luce. Il lampo luminoso mi ferì gli occhi come fuoco, e lui non appena si accorse di me si lasciò sfuggire un verso quasi sorpreso.

« Oh, ciao. Scusami l’irruenza, ma sono in ritardo. » aggiunse a mo’ di spiegazione, aprendo l’armadio e frugandoci dentro alla ricerca di vestiti.

Cercai di mettermi seduto, ma la testa pesava come un macigno e feci un verso lamentoso. Cercai di tenere gli occhi aperti e mi voltai verso la
sveglia: erano le sei e mezza del mattino quindi, se mi era andata bene, avevo dormito forse tre o quattro ore.

« Sono le sei e mezza, porca miseria, nemmeno dormendo a Central Park mi sveglio così presto. » bofonchiai, mentre lui si girava e mi
squadrava. Ora che potevo vederlo bene aveva qualcosa, nell’aspetto, che faceva pensare agli angeli. I suoi capelli erano morbidi e castani,
scompigliati ma in maniera quasi ordinata, non come i miei che se ci avessi ficcato in mezzo una forchetta, probabilmente mi ci sarebbero volute
sei ere geologiche per estrarla. La pelle era decisamente più chiara della mia, un po’ come quella di Biancaneve, ma di sicuro non per via del
bisogno di fiaba, di sicuro non in un mondo consumista come quello in cui vivevamo. L’attenzione non poteva trattenersi dallo schizzare agli
occhi, che erano chiari, limpidi, di un colore che non riuscivo a definire, da quella distanza ed in quello stato, se fossero verdi, grigi o azzurri.

Mi squadravano curiosi e svegli, con un sopracciglio alzato in segno di scetticismo.

« Probabilmente perché tu non devi andare ad insegnare canto in una clinica per bambini, al contrario di me. » rispose, e continuò la sua ricerca
estraendo un maglione grigio fumo con scollo a V dall’armadio con aria vittoriosa.

« No, immagino di no. » sospirai, e cercai di far passare il mal di testa con qualche respiro ma, com’era ovvio per tutte le mie brillanti idee, non
funzionò. Chiusi e riaprii gli occhi e vidi il giovane che si infilava dei pantaloni saltellando su un piede solo e cercando di non cadere. Mi
concentrai sull’idea di non arrossire come uno sfigato e mi voltai verso la finestra con le tende serrate.

« Dai, alzati, dobbiamo andare. » disse, portandosi le mani tra i capelli e mettendoli miracolosamente in ordine con un paio di movimenti di polso
e della lacca a nuvola spruzzata sulla testa.

« Dobbiamo? » domandai confuso. Non sapevo chi era, non sapevo come si chiamava, non sapevo bene dov’ero ed ora dovevo seguirlo? Io
avevo pensato di ringraziare per l’ospitalità e darmela a gambe prima di diventare dipendente dal mio spasmodico bisogno di affetto che Sean –
o forse John o qualcosa con la B… Burt!

Eccolo là, sapevo che mi sarebbe venuto in mente.

« Sì, dobbiamo. Ieri sera papà mi ha detto di volerti parlare ed ora è sicuramente fuori a passeggiare, quindi dovremo tornare dopo. Mi chiedo
se quell’uomo sia un vampiro, a volte, non dorme mai. » commentò, dandosi una lunga occhiata di approvazione allo specchio e voltandosi.

Dalla sua carnagione chiara non avrei bocciato subito l’idea che fosse figlio di un vampiro, ma i vampiri procreavano solo in Twilight, quindi
scossi la testa per scacciare l’assurdo pensiero.

« Non posso andare per i fatti miei e tornare questa sera a ringraziarlo? » chiesi, anche se in realtà, dopo un breve riassaggio della vita
mondana, non avevo voglia di lasciarla andare di nuovo per del tutto.

« Non direi. Ieri eri ubriaco fradicio e non mi fido di te, quindi ti terrò d’occhio per mio padre. » disse, e poi mi squadrò con aria critica. « Vieni
vestito così, tu? »

Mi misi finalmente a sedere, ignorando il conato che ne provenne, e mi guardai: il giaccone stropicciato ed i vestiti sempre uguali. Per non parlare dell’odore di smog che emanavo.

Il ragazzo roteò gli occhi ed aprì la porta, indicandomi di seguirlo. Mi guardai i piedi e notai che nessuno mi aveva tolto le scarpe, quindi ci avevo
dormito e chissà che macello avevo creato sotto le lenzuola. La voce del giovane riecheggiò per l’appartamento.

« Adesso ti do qualcosa per il mal di testa e la nausea, poi scendiamo al bar a fare colazione. » gridò, e chiusi gli occhi per come l’urlo rimbombò
nella mia testa.

Che cavolo, pensai, arrivo.

Mi tirai in piedi e mi scossi per liberarmi dall’intorpidimento generale del miei nervi, cercando di camminare nonostante ogni passo mi
rimbalzasse dolorosamente nel cranio.

« Tizio ubriaco con un nido in testa? Ti muovi? » strillò, e quasi mi venne un infarto.

« Arrivo, cavolo, arrivo! Un secondo! Devo prima ricordarmi come si mette un piede davanti all’altro! » risposi acido, mentre la bile mi risaliva
amara in gola.

Quando arrivai in quella che doveva essere la cucina, il ragazzo mi porse un bicchiere di quella che sembrava acqua calda.

« Acqua e limone. Vedrai che passa tutto, trucchi da figlio di un barista. » mi sorrise lievemente e mi guardò mentre lo bevevo con aria diffidente. Il mio stomaco accolse la bevanda con un applauso di borbottii ed un sonoro tonfo.


Poco da stupirsi, visto che avevo la pancia vuota.
« Direi che è ora di fare colazione. » suggerì, e prese il cappotto e le chiavi prima di aprire la porta d’ingresso e precipitarsi giù per le scale come
una furia con me al seguito.

« Non so nemmeno come ti chiami! » gridai, mentre correvo dietro di lui, cercando di tenere il passo nonostante la spossatezza.

Come poteva essere così attivo a quell’ora?

Lui si voltò con un’espressione divertita.

« Sono Kurt! » mi gridò di rimando, e si voltò per aprire la porta che dava sul bar del padre e che ci avrebbe permesso di arrivare fuori.

« Blaine! » risposi, guardando quella bettola come se la vedessi per la prima volta.
Poi scorsi la custodia della mia chitarra per terra e mi
precipitai a prenderla ed a issarmela sulla spalla come sempre. Ora sì che mi sentivo completo.

« Cos’è un’esclamazione? » rispose divertito mentre girava le chiavi dentro la serratura della porta d’ingresso del locale. « Comunque lasciala
qui quella, la prenderai quando torni. »

Scossi la testa e strinsi la custodia più strettamente a me.

« Cosa? No, è il mio nome. » squittii sorpreso. « E questa si chiama Ellie e non ho intenzione di lasciarla qui. È il mio portafortuna, non ho problemi a portarmela dietro. » aggiunsi.

Lui fece spallucce ed aprì la porta, invitandomi a seguirlo.

 
 
***

 
 
« Non ho un soldo per pagarmi la colazione al bar. Davvero, starò buono, buono seduto fuori e ti aspetterò. » proposi, con le mani nelle tasche del giubbotto e la testa incassata tra le spalle. L’aria mattutina mi si insinuava dentro le maniche e nel colletto, facendomi rabbrividire.

Kurt mi lanciò un’occhiata ovvia mentre camminava spedito verso Dio solo sa quale bar.

« Non se ne parla, te la pago io, posso permettermi di comprarti un caffè. Meglio spendere qualche dollaro piuttosto che doverti accompagnare
in ospedale dopo che sarai svenuto per la fame. Quanto tempo è che non fai un pasto decente? » chiese.

Ridacchiai e mi feci serio di colpo, scuotendo la testa.

« Oh, bè, sono abbastanza sicuro di fare quasi un pasto al giorno. » risposi, accelerando il passo per stargli accanto.

« Quasi? Ma come diamine ti guadagni da vivere? » sbottò, guardandomi con un’espressione mista tra sconcerto e curiosità.

Indicai la custodia alle mie spalle con un cenno della testa.

« Suono agli angoli delle strade. » spiegai.

« Cioè fai le elemosina. »

Lo guardai torvo.

« Oh, no io… io… faccio arte. » borbottai in risposta, e lui scoppiò a ridere.

« Certo. »

« Almeno faccio qualcosa che mi piace. » puntualizzai, e alzai il mento con aria offesa.

Rideva di me, della mia vita, mentre lui era al sicuro nella sua casa, nel suo letto, con un padre che lo amava ed un lavoro fisso.

Era facile ridere di un povero sfigato sognatore senza una cavolo di casa come me.

« Anche a me piace quello che faccio. » rispose, e nel suo sguardo non vi era nulla di offensivo o di provocatorio, era solo una constatazione.

« Beato te, allora. » risposi monosillabico.

« Beati noi. » precisò.

Feci un verso accondiscendente.

« Quindi come sei arrivato ad essere un senza tetto? » domandò, curioso come era sempre stato fino ad adesso. Non ero sicuro di volerglielo dire, anche se in realtà la sera prima lo avevo praticamente raccontato a un intero bar, quindi che differenza faceva?

« Che fai, cerchi di fare conversazione? »

Lui sorrise e guardò l’orologio.

« Mettiamola così, in realtà non sei obbligato a rispondere, ma non vedo cosa ci sia di male. »

Sorrisi inconsciamente, guardandomi i piedi e domandandomi da quanto era che non avevo un vero e proprio dialogo con un essere umano.

Bè, se non contavamo lo sproloquio fatto da ubriaco con il padre di Kurt.

« I miei genitori mi ripudiarono dopo che feci coming-out con loro. Non mi aspettavo che sarebbero stati così categorici, mi avevano sempre
viziato e fatto un sacco di regali, ma immagino che, a pensarci ora, non avrei dovuto confondere quei regali con l’affetto. Non avevano tempo per me, non ne avevano mai avuto, nemmeno per mio fratello. Probabilmente lui, semplicemente, decise di seguire le loro orme e non fece l’errore di essere gay. Che posso dire, andarmene è stata una liberazione. » spiegai, mentre lui mi ascoltava in silenzio, elucubrando tutto ciò che dicevo, come se lo stesse registrando. « Scioccato? Pensavi che fossi un disoccupato alcolista che picchia la moglie la sera quando torna a casa? Mi dispiace deluderti. » scherzai, anche se forse aveva davvero pensato questo di me.

Ora che ci pensavo Burt la sera doveva avergli raccontato a grandi linee la mia situazione, prima di scaraventarmi nel letto con Kurt, ricordavo avessero parlato qualche secondo.

« Non scioccato, disgustato. » puntualizzò, accelerando il passo come se si fosse infervorato.

« Oh. » risposi, sorpreso. Non avevo pensato che avrebbe potuto infastidirlo. Tendevo a dimenticare, così come avevo fatto con i miei, che
l’omosessualità poteva essere un qualcosa di disgustoso agli occhi di alcuni, nonostante il progresso e nonostante si stesse facendo luce
sull’argomento. Strinsi le labbra in una linea sottile, improvvisamente avevo poca voglia di camminargli accanto. Ero pacifico di natura, ma il disprezzo per pregiudizio mi ricordava troppo la reazione dell’uomo e della donna che mi avevano cresciuto. Sicuramente non faceva piacere, anche se dicevo di averlo superato.

« Non intendevo disgusto verso di te, ovviamente, perché sarebbe alquanto ipocrita. » precisò Kurt in seguito, accorgendosi del silenzio
imbarazzante di cui eravamo diventati vittima, e fece schizzare le sopracciglia verso l’alto con aria ovvia.

Quell’espressione era una costante nel suo viso e, se potevo dirlo io che lo conoscevo sì e no da un’ora, voleva dire che era davvero forte in lui.

« Ipocrita? » domandai scettico, davvero non comprendendo dove volesse andare a parare.

Lui annuì, divertito.

« Sono gay anche io, sarebbe molto stupido se mi disgustassi, non credi? » disse, e dopo avermi guardato tornò a fissare l’enorme strada davanti a noi.

In quel momento furono le mie sopracciglia quelle a schizzare verso l’attaccatura dei capelli, perché dovevo ammettere che davvero non me lo
aspettavo.

« Oh. » ripetei, a corto di parole.

« Che c’è, mister “oh”? Pensavi di essere l’unico gay al mondo? » domandò divertito, tirandosi su meglio la tracolla che portava in spalla.

« Ovvio che non lo pensavo. » risposi stizzito. Mi aveva già dato un soprannome, davvero simpatico. « Non me lo aspettavo e basta. »

Kurt rise, in maniera semplice e liberatoria. Una maniera che fece, infine, sorridere anche me.

« Non stare sulla difensiva, non attacco nessuno, e comunque siamo arrivati. Dì al tuo stomaco che riceverà del cibo a breve. »

In tutta risposta l’organo al centro del mio petto borbottò lamentoso, e Kurt sorrise, senza guardarmi.

« Sia chiaro che non sono una banca, comunque. Ti offrirò la colazione a patto che non ordini un camion di muffin, o una betoniera di caffè. » mi
ammonì.

Feci finta di pensarci su.

« Vedrò cosa posso fare. »

Kurt fece un verso scettico.

« In caso ti metterai a ballare e cantare qua davanti, suonando la chitarra per pagarti la colazione. » propose, e guardò di nuovo l’orologio.

Giusto, eravamo in ritardo.

« Non devo preoccuparmi che mi farai ordinare e poi non pagherai nulla lasciandomi nella merda, vero? »

Lui sorrise.

« Non ci avevo pensato, ma grazie per l’idea. »

Divenni improvvisamente diffidente.

Lui alzò gli occhi al cielo.

« Cavolo, scherzavo, ho detto che ti avrei offerto la colazione ed ovviamente lo farò. » disse esasperato, spingendomi dentro il bar a forza.

« Va bene, va bene, scusa se sospetto di un ragazzo che ho appena conosciuto e che mi porta a fare colazione  in un bar con aria sospetta come se dovesse incontrarsi con un mafioso e gli servisse un testimone. » sbottai, imitandolo mentre controllava continuamente l’orologio.

Lui sbuffò.

« Andiamo, mister “sono proprio simpatico”, prima che mi penta della mia proposta di pagarti la colazione. »

« Oh, quindi qui qualcuno si sta pentendo. » puntualizzai, incrociando le braccia con aria divertita.

« Taci e ordina. » rispose, guardando il bancone.

Decisamente.

Avere rapporti umani mi era decisamente mancato.















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Spazio Autrice:
Aggiornamento veloce per grande turbine di idee.
Prossimo aggiornamente sara Nobody Said It Was Easy.

Grazie per ogni supporto, siete speciali, davvero.
Grazie.
Noth

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Capitolo 3
*** I had to get used to it. ***


Do You Know About Swallows?
-Capitolo 3-









« Non posso credere che tu abbia passato dieci minuti a scegliere se prendere la brioche ai frutti di bosco o il muffin al cioccolato. » roteò gli occhi Kurt, mentre ci sedevamo.

Lo guardai con aria di sfida e strinsi più forte a me la brioche ed il muffin.

Sì, alla fine si era arreso e me li aveva presi entrambi.

Kurt aveva in mano il suo Non-Fat Mocha ed il mio Medium Drip e li appoggiò sul tavolo
squadrandoli con aria curiosa.

Fissò di nuovo l’orologio.

« Okay, potresti dirmi perché guardi continuamente quel maledetto quadrante? » domandai, addentando voracemente il muffin e sentendo il cioccolato che mi si scioglieva in bocca come
burro, liberando il suo sapore zuccheroso ed amaro e la consistenza morbida della pasta calda del
dolcetto.

Mi sembrava di essere in paradiso. Quanto tempo era che non mangiavo un muffin? Un mese?
Di più?

Kurt sorrise quasi imbarazzato, rendendosi conto di non fare nemmeno caso a quanto fosse ansioso e continuasse a controllare il tempo che passava.

« Sai com’è, i bambini mi aspettano e non mi piace essere in ritardo. Non voglio perdermi
neanche un secondo del tempo che passo con loro. » scrollò le spalle, e notai nei suoi occhi un
bagliore che prima non c’era, come se gli si fosse accesa una lampadina, o meglio, una stella.

Addentai la brioche ai frutti di bosco e questa volta fu un sapore agrodolce a sciogliermisi sulla
lingua. Sentivo i pezzi di bacche nel ripieno, e la sfoglia dorata mi si sbriciolava in bocca come
fosse stata un velo di zucchero.

Quello era il miglior bar di New York, e me ne fregavo se in realtà non avevo testato nessuno
degli altri.

« Ti piace proprio stare con i bambini, eh? Forse hai preso da tuo padre. » sputacchiai in giro, e
lui alzò lo sguardo verso di me mentre beveva il suo caffè, scoppiando poi a ridere e rischiando di
sputarmi in faccia il liquido nero. « Che c’è? » gridai, sconcertato e con sguardo innocente.

Lui non sembrava in grado di parlare, e mi indicò semplicemente le labbra mentre si teneva una
mano davanti alla bocca e tossiva, forse perché qualcosa gli era andato di traverso.

Mi passai una mano sulla bocca e le dita trovarono qualcosa di appiccicoso e zuccheroso. Me le
guardai ed erano tutte sporche di cioccolato. Dovevo avere il viso coperto di glassa e di colpo
sentii il sangue corrermi alle guance e desiderai nascondermi dietro il muffin e fingere di non
esistere, di essere un pezzo di arredamento o magari uno sgabello.

Cercai furiosamente una salvietta e fu Kurt a porgermela, mentre si asciugava una lacrima da
sotto l’occhio e non riusciva a smettere di ridere.

Mi pulii furiosamente, grattandomi via mezza faccia nel tentativo di riapparire presentabile.

Tenni lo sguardo basso tutto il tempo e mordicchiai il muffin come un bambino, le guance
probabilmente ancora infuocate per la figura appena fatta.

« Te la sei presa? » chiese Kurt, innocentemente, come se ci conoscessimo da una vita cosa che,
ovviamente, non era affatto vera. Non alzai lo sguardo e continuai a fissare il tavolo che, a dire il vero, non aveva nulla di particolarmente interessante, ma era meglio che guardare negli occhi il ragazzo che aveva appena riso di me.

Un pezzo del muffin rotolò sul tavolo, staccandosi da quel poco che era rimasto, e Kurt lo afferrò
con il pollice e l’indice.

« Posso? » domandò, ed annuii distrattamente mentre lo assaggiava. Lo guardai solo di sottecchi, fingendo di osservare il mio caffè e notai il modo in cui masticava, guardando in alto a sinistra.

« Buono. » disse ed io scrollai le spalle fingendo di non averlo adocchiato nemmeno un secondo. «
Te la sei presa sul serio? Dai, eri buffo, faceva ridere. » borbottò, sulla difensiva non appena notò
che i suoi tentativi di iniziare una conversazione cadevano nel vuoto.

Ero sempre stato molto permaloso, e di sicuro non sarebbe stato differente ora con lui. Ma il
punto era che non ero arrabbiato, ero imbarazzato.

« Ero così buffo? » domandai, addentando la brioche e lasciando che il suo aroma fruttato
prendesse il posto del sapore di cioccolato di poco prima.

Lui sorrise, vedendo che mi stavo ammorbidendo e che non avevo intenzione di tenergli il muso
tutto il giorno.

« Abbastanza, sì. Una specie di Baloo. » spiegò, e quasi sorrisi all’idea che mi avesse paragonato
ad uno dei miei personaggi preferiti della Disney.

« Fammi il favore di rimuoverlo dalla tua mente, okay, puoi? » borbottai, sentendo che tutta la
vergogna provata pochi secondi prima stava già sciamando in velocità. Ero uno dalle emozioni
brevi, dai dolori intensi ma fugaci. Un colabrodo di sentimenti.

« E cosa mi darai tu in cambio? » domandò con sguardo furbo. Improvvisamente mi sembrò di
avere a che fare con un ragazzino.

« Stare con i bambini ti fa male, Kurt, lo sai? » bofonchiai, nel tentativo di evitare di rispondergli,
e presi un sorso del mio Medium Drip, lasciando che mi ustionasse la gola e mi ricordasse il
sapore del caffè la mattina, della sveglia accompagnata dall’odore di pancakes che non avrei
avuto mai più.

« Può essere, ma stai al gioco dai. Cosa mi dai in cambio? » ripeté.

Non potei fare a meno di chiedermi se fosse così allegro di natura. Se quel suo amore per i giochi,
quella sua generosità li avesse presi da suo padre.

Lo invidiai, perché da quello che avevo visto avrei tanto voluto essere come Burt. Con quella luce
negli occhi, quella gentilezza e quella pazienza, e quel cuore che sembrava disposto ad accogliere
qualsiasi cosa.

Mi segnai mentalmente di chiedere a Kurt come la aveva presa suo padre riguardo
all’omosessualità.

« Non ho intenzione di giocare con te! » esclamai sorridendo, così che la frase non apparisse
troppo seria.

Lui incrociò le braccia sul petto e roteò gli occhi.

« E io non dimenticherò la tua bella faccia impiastricciata di cioccolata. » ribatté, facendomi quasi
andare di traverso il caffè.

Sospirai.

« Ti consideravo generoso fino a due minuti fa. Ora credo che tu sia crudele. » commentai, lui
continuava a fissarmi. « Va bene, va bene. Ti darò un pezzo della mia personalissima brioche ai
frutti di bosco. » proposi, staccandone un pezzettino ed osservandolo con aria sospettosa.

Lui inarcò un sopracciglio, un tic che aveva spesso.

« Sarebbe mia, tecnicamente, visto che ho sganciato io il denaro. » puntualizzò, ma cedette e
prese il pezzo di pasta sfoglia dalle mie dita.


« Era un regalo, me la hai offerta, quindi è mia. Ora ne possiedi un pezzo. È come possedere delle
azioni di una grande compagnia di... marmellate. » spiegai, finendo il cornetto con riluttanza,
perché avrei voluto durasse molto di più.

« Sì, ma temo che queste mie azioni coleranno a picco nel mio stomaco. » commentò Kurt

deglutendo il pezzo che gli avevo ceduto.
« Il cerchio della vita, ma comunque il muffin era meglio. » sentenziai, pulendomi di nuovo la

bocca nel tentativo di non apparire di nuovo come una specie di pagliaccio, come se non
bastassero i miei capelli a farmici assomigliare.

« Scherzi? La brioche valeva dieci volte quello squallido dolcetto commerciale. » squittì,
corrucciando la fronte, come se lo avessi, per la prima volta, punto sul vivo.

« Muffin. » sibilai, mettendo i gomiti sul tavolo e sporgendomi in avanti, affilando lo sguardo.

« Croissant. » mi imitò lui, ed io affilai lo sguardo.

« Muffin! » replicai.

Lui si allontanò sorridendo.


« Chi è che si sta comportando da bambino ora? » alzò le sopracciglia e guardò nuovamente
l’orologio.

Feci una faccia offesa mentre lui si alzava in piedi.

« Prendi il tuo Medium Drip, dobbiamo andare. » disse, e non mi aspettò, si precipitò fuori dal
bar così velocemente che fui costretto a seguirlo per stare al suo passo.

« Ti capita spesso di correre in questa maniera? » domandai, raggiungendolo con il fiatone
mentre imbucavamo una strada stretta e lui si mordeva il labbro inferiore con ansia crescente.

Erano così importanti quei bambini? Perché?

« Siamo a New York, Blaine, o te lo sei dimenticato? » rise ovvio Kurt, mentre ci avvicinavamo
ad una scala esterna di metallo che costeggiava una casa. Osservai il cartello e non si leggeva
quasi nulla.

Quella era la clinica?

Bè, chi ero per giudicare? Io vivevo per strada.

« Oh sì, tra tutti questi grattacieli e tutte queste insegne effettivamente me ne ero dimenticato.
» commentai scettico.

Kurt suonò il campanello, e ci vollero diversi minuti prima che il citofono gracchiasse qualcosa di
quasi incomprensibile.

« Sono Kurt. » rispose lui, ed il rumore di una serratura che scattava risuonò sopra di noi. La
scala di ferro non era pericolante come sembrava, ma scricchiolava parecchio ad ogni passo.

Kurt, davanti a me, aprì la porta con un gesto familiare e mi guidò dentro l’edificio che non era
poi piccolo come avevo creduto. Il corridoio d’entrata dov’eravamo aveva le pareti arancioni imbrattate di centinaia di impronte di mani colorate. Davanti al corridoio stava un ufficio, una
sorta di segreteria, e di fianco ad essa un ascensore. Kurt avanzò con il passo sicuro di chi si era già trovato in quella situazione un migliaio di volte. Io lo seguivo, come al solito facendo fatica a
mantenere il suo passo, e cercando di capire che ci trovasse di così bello in quel luogo. Sorrisi alla
vista di tutte quelle piccole mani appoggiate al muro che avevano lasciato quello stampo colorato che dava l’idea di aver oltrepassato una porta per il paese delle meraviglie.

Kurt si guardava intorno con un’espressione indecifrabile. Come se, finalmente, si sentisse a casa.

« Kurt! » una ragazza di colore con voluminosi capelli scuri e due labbra afroamericane si gettò
su Kurt, abbracciandolo..

« Mercedes, buon giorno anche a te. » commentò Kurt, abbracciando la ragazza con dolcezza. Lei
gli sorrise, con gli occhi brillanti. Poi parve accorgersi di me e mi squadrò confusa.

 « Oh, lui è Blaine. A mio padre piace fare il buon samaritano e… bè eccolo qui. Sai com’è. »
spiegò Kurt, firmando un paio di carte che Mercedes gli aveva allungato.

« Come butta? » esordii, e lei annuì come se avesse capito solo allora lo snodo di una lunga storia.

« Quell’uomo è un santo. » commentò, accompagnandoci all’ascensore e premendo il pulsante
per chiamarlo. « In ogni caso Kurt conosci bene le regole della clinica, gli estranei non sarebbero ammessi… » cercò di replicare Mercedes provando a non sembrare troppo maleducata.

« Oh, ti prego lui… lui è con me. Devo tenerlo d’occhio per mio padre, so che vuole parlargli. Ti
prego, ti prego. » la supplicò con un tono allegro tutto il tempo. Era quasi strano vederlo così
felice. Non ero abituato a vedere sorridere la gente per così poco, almeno non a casa e poco per
strada. La gente non aveva più il tempo e la voglia di sorridere.

Mercedes alzò gli occhi al cielo.

« Va bene, meglio che non registri la sua entrata, non vorrei che poi saltassero fuori problemi con
la burocrazia che si occupa di queste cose. » sospirò, poi mi puntò un dito contro con aria risoluta.
« Tu non sei mai venuto qui dentro, chiaro? » mi ammonì, e non potei far altro che annuire,
osservando quel dito scuro che mi puntava minaccioso. Lanciai un’occhiata a Kurt che scrollò le
spalle sorridendomi con una luce strana negli occhi. Una luce che non ero abituato a riconoscere
negli occhi di nessuno. C’era così tanto da osservare in quel giovane. C’era così tanto da scoprire.

Poteva risultare divertente, distraente.

Presto però sarei tornato alla mia vita di sempre.

Dovevo essere contento, infondo era la vita che mi ero scelto, o no?

« Okay, scendiamo. » disse Merdeces infine, e le porte dell’ascensore si spalancarono lentamente
davanti a noi, con un cigolio poco rassicurante.

Scendemmo solo di un piano ed il viaggio dentro quella specie di gabbia per uccelli fu breve, ma
risvegliò comunque in me il terrore per quegli aggeggi. Iniziai a respirare a fondo.

« Qualcosa non va? » domandò Kurt, guardandomi con preoccupazione. « Sei impallidito molto e
vista la tua carnagione non propriamente chiara è tutto dire. » commentò, avvicinandosi per
accertarsi che andasse tutto bene.

« Non c’erano le scale per scendere? » chiesi.

« Sì, ma bisognava andare dietro l’ufficio della segreteria, e perché farlo se si ha un ascensore? »
rispose Mercedes, come se fosse ovvio.

Perché nelle scale non puoi restare intrappolato, avrei voluto rispondere, ma strinsi i denti e
finsi di essere semplicemente dentro una stanza. Una stanza dalla quale sarei potuto uscire
presto, non vi era motivo di diventare nervosi.

Kurt mi prese sotto il gomito, come se temesse che crollassi a terra da un momento all’altro. In
quella famiglia avevano proprio un vizio per l’aiutare gli altri. Erano empatici, si sentivano in
dovere di migliorare lo stato d’animo del prossimo. Ed io che credevo che gente del genere non
esistesse più.

Le porte si aprirono ed uscimmo nel corridoio dipinto di blu scuro. Respirai a fondo e mi
aggrappai al muro, come se fossi stato sott’acqua, e sbattei più volte le palpebre. Mi sfilai la
custodia la dietro la schiena e la appoggiai a terra.
Stavo proprio facendo una bella figura, decisamente. Il debole e patetico ragazzo di strada.

Uhm, avrei potuto presentarmi così d’ora in avanti, forse quel nome mi avrebbe garantito un
contratto discografico.

No, okay, era tipico di me fare il passo più grande della gamba, ma che ci potevo fare. Come

uomo di strada sognavo una casa, sognavo un tetto ed una stufa d’inverno ed un’amaca o un
condizionatore d’estate. Ero sempre stato incontentabile, ed avevo finito per fare la vita del
miserabile, ed avevo anche scoperto che mi piaceva.

Quante sorprese poteva riservare la vita se solo la si prendeva per il verso giusto.

« Blaine, ci sei? » domandò Kurt dietro di me, posandomi una mano sulla schiena per assicurarsi
che riuscissi a reggermi in piedi. « Ti chiedo scusa, se avessi saputo che temevi gli ascensori
avremmo preso le scale. »

Sorrisi debolmente, tirandomi su dritto e prendendo un respiro particolarmente profondo.

« Non è colpa tua, davvero, non me lo ricordavo più nemmeno io. Stare lontano dalla mondanità
per così tanto ti fa perdere la mano con la tecnologia, sai? »

Lui ridacchiò e prese la custodia da per terra, pensando di darmi una mano, ma la strappai
istantaneamente dalla sua presa in maniera maleducata.

Mi resi conto solo in seguito di quanto fossi stato sgradevole, mentre lui cercava solo di aiutarmi.

Mi ero davvero trasformato in un uomo delle caverne, una sorta di burbero eremita con un buffo
senso dell’umorismo.

« Scusa, io- ehm io semplicemente non voglio che la tocchi nessuno a parte me. » spiegai, alzando
le spalle a mo’ di scusa. « Non è perché sei tu, scusa non volevo essere scortese, grazie del- ehm del pensiero. »

Lui sorrise in risposta, voltandosi verso la porta alla fine del corridoio e raggiungendola quasi correndo. Solo allora mi accorsi del suono ovattato di una chitarra acustica e del brusio confuso di
voci di bambini.

Giusto, le lezioni ai ragazzini. Kurt spalancò la porta ed un ondata di grida di felicità lo avvolse. Mi
posizionai dietro di lui ed osservai la mandria di bambini alzarsi dal proprio posto e correre ad
abbracciargli le gambe, le braccia, a prendergli i vestiti e a tirarlo dentro. La cosa più scioccante
erano le loro condizioni. Erano piuttosto magri, molti erano completamente senza capelli ed altri invece iniziavano a perderli. La loro pelle era pallida ed indossavano tutti una sorta di piccolo
camice bianco che li ricopriva quasi per intero, a volte addirittura aveva le maniche troppo
lunghe per alcuni di loro dalla corporatura particolarmente esile.

« Kurt! »

« Maestro Kurt! »

« Maestro! »

I bambini non facevano che gridare e chiamarlo, mentre lui li guardava con quell’espressione che
era tipica della madre quando osserva i propri figli. Gli brillavano le pupille, sorrideva
gioiosamente e metteva da parte ogni più piccola cosa solo per quelle creature evidentemente
malate che lo richiamavano a gran voce.

« Cancro. » mi spiegò una voce accanto a me, più precisamente quella di Mercedes,
appoggiandosi allo stipite della porta, mentre osservavo la scena con sguardo attonito.

« Tutti? » domandai sorpreso.

Lei annuì lentamente.

« Purtroppo sì. » rispose. « Kurt viene qua quasi tutti i giorni ad insegnargli musica. Per loro è
una ventata di gioia tra la chemio e la spossatezza. Sono adorabili- loro… non dovrebbero vivere
così. » continuò, con tono frustrato.

« Nessuno dovrebbe essere malato. » affermai, guardando la gioia di quei bambini e come i
sorrisi illuminassero i loro volti sbiaditi e patiti.

« E allora spiegami, Mr. Nonmiricordocometichiami, perché esistono le malattie? » domandò
Mercedes, osservando anche lei la scena, e non lui, mentre parlava.

« Perché » risposi, « non esiste la perfezione. Se vogliamo la salute dobbiamo avere la malattia,
se non ci fosse l’opposto non avrebbe senso che esistesse la salute, perché sarebbe una
condizione normale e, in un mondo come il nostro, anche abbastanza utopica. Va combattuta
come meglio possiamo, immagino. »

Lei si voltò verso di me per la prima volta ed il suo volto si arricciò in una strana espressione.

Come se mi vedesse davvero per la prima volta.

« Oh, Kurt, amico! » una voce da dentro la stanza ci interruppe e si avvicinò al ragazzo attorniato
da bambini con una chitarra in mano e lo abbracciò oltre i piccoli corpicini che lo circondavano.

Era alto e muscoloso ed aveva una curiosa cresta in testa ed un espressione da duro malcelata da
una maschera sorridente. « Meno male che sei arrivato, credo che i Van Halen non siano
esattamente il tipo di musica adatto a questi bambini. » si guardò attorno frustrato.

Kurt rise, e si posizionò al centro della stanza dove stava un pianoforte elettrico un po’
vecchiotto. Si sedette e parlò coi bambini che gli si erano già radunati intorno e lo guardavano
speranzosi.

« Allora, oggi volevo portarvi un classico. » iniziò Kurt, ed i ragazzini storsero un attimo il naso
mentre il ragazzo con la cresta si dirigeva verso me e Mercedes con il manico della chitarra in
mano. « Ma vi assicuro che questo classico vi piacerà. »  aggiunse e respirò a fondo.

Il ragazzo con la cresta mi squadrò e mi porse la mano libera per presentarsi.

« Noah Puckerman, ma chiamami Puck, lo fanno tutti. » disse, schiaffando la sua schiena contro il
muro con aria esausta.

« Blaine Anderson. » replicai.

« E tu saresti? Il ragazzo di Kurt? » domandò. Nella sua voce non vi era nessun tentativo di
presa in giro, era una domanda come un'altra, e non avrebbe dovuto farlo sentire così a disagio.

« N-no. Sono solo una sorta di rifiuto di strada che suo padre ha avuto voglia di raccogliere e
portare a casa sua. È… una storia un po’ lunga. » rispose, ma Puck non fece in tempo ad
aggiungere nulla perché Kurt iniziò a cantare, e la sua voce era celestiale, al punto che
sentii la pelle d’oca formarmisi dietro la nuca, sulla schiena e sulle braccia.
























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Spazio Autrice:
Aggiornamenti notturni, dehihiohoh.
Prendetevela con la diretta, direi!
Sto aspettando la scena di I Have Nothing, e non ce la faccio a dire altro.
Grazie per ogni recensione per ogni lettura, per tutto.
Siete meraviglie.

Vostra,
Noth

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Capitolo 4
*** Something's wrong.. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 4-










Non so perché, ma per qualche motivo non gli avevo creduto del tutto quando aveva detto di lavorare come un insegnante di musica in una clinica. Non pensavo nemmeno che insegnassero musica in posti così. I bambini – piccoli, magri, sorridenti ed entusiasti – guardavano Kurt come se fosse stato Babbo Natale. Lo ascoltavano mentre cantava ed immaginai che la mia espressione in quel momento fosse identica alla loro perché, per quanto assurdo, quel ragazzo aveva una voce meravigliosa. Decisamente acuta per un uomo, ma la modulava in modo così particolare e la controllava così bene che non riuscivo a non restarne ammaliato.
 
Maledizione, quel ragazzo aveva talento.
(Canzone: http://www.youtube.com/watch?v=cSVnjcRHcLM)
 
I follow the night
Can’t  stand the light
When will I begin
To live again?
 
Non riconoscevo quella canzone, sapevo che era famosa, una di quelle che fanno la storia della musica, ma io ero uno zotico ignorante che suonava accordi che gli venivano dal cuore per intuito e, visto che metà delle canzoni erano ridicole, dovevo avere un cuore piuttosto imbarazzante.
 
Che c’è? È la verità!
 
Nulla a che vedere con Kurt. Muoveva le dita sui tasti con eleganza, con gli occhi chiusi e non vi era altro che la musica. Non credevo che potesse essere così bravo. Perché non era famoso, vendeva dischi e faceva svenire delle ragazzine esaltate? Ne sarebbe stato capace. Sarebbe stato perfetto, bello, gentile, pungente...ma forse non tutto funzionava con così tanta felicità.
 
One day I’ll fly away
Leave all this to yesterday
What more could your love do for me,
when will love be through with me?
 
Rimasi incantato, con la voglia matta di mettermi a suonare la chitarra e cantare con lui, ma con troppa paura di rovinare tutto. Mi guardai: trasandato, mezzo sudicio, povero, con solo una custodia in spalla, e poi c’era Kurt. Soffice, pulito, liscio, delicato e furbo. Non ci somigliavamo affatto, non mi doveva niente ed invece era merito suo se il mio stomaco non brontolava come una vecchia betoniera mal funzionante. Quel ragazzo aveva una generosità devastante, donava a tutti, perché gli piaceva e si sentiva di farlo. Era di famiglia, questo lo aveva già capito ancora prima della colazione, e sperai di aver guadagnato qualcosa da quella notte nella loro casa. Un po’ di quell’essere speciale che quei due avevano. Mi sarei sentito incredibilmente privilegiato a brillare solo un decimo di quanto facessero loro. Erano come la neve, alla gente piaceva starci in mezzo, ma era molto rara, specialmente a New York.
 
Why live life from dream to dream,
and dread the day
when dreaming ends.
 
La nota appena fatta era acutissima, ed era riuscita a raggiungerlo senza problemi. Impressionante, sì ero veramente impressionato ed, ultimamente, non mi capitava spesso. Solo con lui e suo padre era successo. Con la loro stravagante gentilezza.
 
Tutti iniziarono a battere furiosamente le mani con un enorme sorriso stampato in volto. Non ero capace di muovermi, ero congelato, e pure in una posizione scomoda. Puck mi diede di gomito mentre applaudiva.
 
« Ehi, nano da giardino, ha finito. » mi disse, e lo udii appena oltre il frastuono dei bambini che imploravano Kurt di suonare qualcosa che potessero cantare anche loro.
 
« Eh? Cos..? » sbattei le palpebre ed iniziai ad applaudire in ritardo, mentre il frastuono sciamava e restavo solo io a fare baccano e tutti mi osservavano.
 
Puck si mise le mani sui fianchi.
 
« Ti prego, non puoi avere preso sonno in piedi. » esclamò.
 
« Non ho preso sonno! Ero molto preso. » 
 
« Oh, sì, s’è visto. » annuì con una faccia eloquente il ragazzo e, mentre il frastuono ricominciava, lui si avvicinò a me e mi sussurrò all’orecchio. « Ma dalla canzone o da Kurt? »
 
Lo spinsi via con aria imbronciata.
 
« Fatti in là, Braco Brache con la cresta. » borbottai. « oggi devo essere proprio fortunato, conosco un sacco di gente simpatica. » 
 
Lui gonfiò il petto.
 
« Lo so, sono troppo oltre. » disse, e mentre si allontanava mi domandai se conoscesse il significato della parola sarcasmo.
 
I bambini gridavano e prendevano Kurt da tutte le parti, cercando di convincerlo a cantare ancora, anche se era ovvio che lo avrebbe fatto.
 
« D’accordo. Cosa volete che canti? » domandò lui, mettendo le mani sulla tastiera. « E dovrete cantare con me. » 
 
« Qualcosa di nuovo! » gridò una ragazzina dai grandi occhi scuri, guance pallide ed un foulard rosso in testa.
 
« Qualcosa di buffo! » aggiunse un altro, basso e minuto, probabilmente anche discretamente piccolo.
 
Ebbi un’idea.
 
« E se ve la cantassi io? » mi intromisi e tutti, Kurt compreso, si voltarono verso di me con un’espressione stranita. 
 
« Ma sai cantare almeno? » domandò una bambina che avrà avuto cinque o sei anni, con grandi occhiali sopra ad un naso incredibilmente piccolo. Piegò la testa da un lato mentre mi guardava. Aveva degli enormi occhi verdi e neanche un capello. Mi si strinse il cuore.
 
« Ho vinto il Festival de “l’angolo-della-mia-strada” almeno un centinaio di volte. » gli risposi, ammiccandole e vedendo Kurt sorridere divertito.
 
« Davvero? » disse la bambina, spalancando ancora di più gli occhi.
 
« Certo. » risposi, sfilandomi la custodia dalla spalla e poggiandola accanto a me. Sganciai le chiuse ed estrassi la mia chitarra rossa ad effetto bruciato sui bordi, osservando i bambini con un sorriso.
 
« E cosa vorresti cantare? » domandò Kurt, con un sopracciglio alzato ed un sorriso buffo in viso.
 
Io scrollai le spalle e fissai i bambini mentre mi sedevo a terra e loro mi imitavano con gli stessi occhi attenti dei gufi.
 
« Io canto quello che mi va, potrei tranquillamente inventare una canzone adesso. » dissi.
 
« Stai bluffando! » gridò un bambino più grande degli altri, con ciocche rade di capelli arancioni ed 
una tonnellata di lentiggini sulla faccia chiara.
 
« Già, non sei così bravo, nemmeno Kurt sa inventare delle canzoni al momento! » convenne la bambina con la bandana rossa scuotendo la testa.
 
Sorrisi, perché effettivamente non è che le canzoni che inventavo avrebbero mai potuto vendere dischi e, in realtà, sarebbe stato più probabile che sarebbero finite in un qualche programma di talenti incompresi con delle risate registrate in sottofondo. 
 
« Mi state sfidando? » domandai, e mi resi conto che stare con i bambini mi piaceva. Non lo avevo
fatto prima, ma era piacevole. Iniziai a comprendere la fretta che aveva provato Kurt tutto il tempo. 
 
E a proposito di Kurt, lui mi guardava a braccia incrociate, aspettando che iniziassi, come un giudice decisamente difficile da soddisfare. 
 
Trattenni una risata perché, veramente, c’era poco da giudicare in me. Ero un buffone, un cantastorie, non di sicuro un talento musicale.
 
I bambini attendevano, Mercedes attendeva in un angolo, Kurt attendeva.
 
Era il caso di iniziare lo spettacolo.
 
Suonai un giro di accordi a caso per iniziare ed improvvisai uno dei testi più stupidi che mi sarebbe mai potuto venire in mente.
 
I am just a small guy like you, 
(sono solo un piccolo ragazzino, come te)
I simply like muffins and coffee, 
(Semplicemente mi piacciono i muffin ed il caffè)
I’m pretty and I’m cute 
(Sono carino e sono coccoloso)
Even if dogs usually like to pee on me in the morning. 
(Anche se ai cani solitamente piace fare la pipì su di me la mattina.)
 
 
Tutti iniziarono a ridere incontrollabilmente, e terminai la strofa con un una pennata veloce per poi applaudirmi da solo.
 
« Che c’è? Sono stato grandioso! » esclamai, mentre Kurt mi fissava con le lacrime agli occhi per il troppo ridere.
 
« Oh, bè avrei usato un altro aggettivo per descrivere la tua performance, ma va bene anche grandioso immagino. » rispose, prendendo la bambina con i grandi occhi verdi sulle ginocchia.
 
« Ad esempio? » lo provocai, mentre un bambino si avvicinava alla mia chitarra per provare a pizzicarne una corda; lo lasciai fare sorridendo.
 
« Uhm vediamo... Ridicolo mi pare appropriato, vero bambini? » domandò, ed un boato di approvazione si levò da loro.
 
« Incompetenti! » gridai, fingendomi offeso.
 
Un bambino con una veste decisamente troppo grande per lui e le maniche che gli superavano di gran lunga la lunghezza delle braccia si alzò in piedi, e tutti lo fissammo per qualche secondo, domandandoci che volesse fare.
 
Lui prese fiato e si guardò i piedi.
 
« Non è che potresti suonare qualcosa di più bello? Mi piace il suono di quello strumento. » mormorò.
 
« E’ una chitarra, Jim. » lo informò Kurt, annuendogli con approvazione.
 
« Oh, ecco sì, la chitarra. Mi piace. » 
 
« Anche a me. » dissero gli altri bambini, e mi sentii un po’ stupido per aver fatto una canzone così ridicola poco prima. Loro erano lì per imparare, dopotutto, no?
 
Era il momento di inventare qualcosa che avesse un senso.
 
Non parole messe a caso. 
 
Nessun verso che parlasse di pipì di cane, decisamente.
 
Imbracciai la chitarra e lanciai un’occhiata veloce a Kurt che alzò le spalle con fare innocente.
 
Ricominciai con un giro d’accordi semplice e ritmato, sorpreso che fosse una bella melodia, e poi cantai. 
 
Non so per chi.
 
Non so perché.
 
Lo feci e basta.

You’re just a small bump umborn,
 
in four months you’re brought to life,
you might be left with my hair, 
but you’ll have you’re mother’s eyes.
I’ll hold you’re body in my hands,
be as gentle as I can,
but for nowyou scan of my unmade plans.
A small bump in four months,
you’re brought to life.
 
Mi accorsi che Kurt aveva iniziato a fare una sorta di coro sotto a quella melodia, ed era decisamente niente male. Nemmeno il testo era così pessimo, parlava di sentimenti.
 
Solitamente li evitavo, rischiavano solo di renderti ultrasensibile, e non ero sicuro che ad un uomo di strada servissero. Io ero divertente, ero buffo, era tutto ciò che potevo essere e che ero stato. 
 
Diciamo che però era abbastanza difficile restare impassibile agli occhi di tutti quei bambini che duellavano con un fato terribilmente ingiusto. Era difficile anche sostenere lo sguardo brillante di Kurt, la creatura più gentile che avessi mai avuto l’opportunità di incontrare, dopo suo padre. Immaginai di essere stato fin troppo fortunato a capitolare in quel bar la sera prima.
 
I bambini guardarono prima me e poi Kurt, e molti poggiarono il viso sulla mano, con aria sognante.
 
Mi sarebbe piaciuto tornare un bambino, a volte, avrei potuto fare il coglione e nessuno mi avrebbe chiamato tale.
 
Abbassai lo sguardo, perché gli occhi di Kurt erano decisamente troppo difficili da fissare mentre cantavo una canzone del genere.
 
I’ll whisper quietly,
I’ll give you nothing but truth,
if you’re not inside me,
I’ll put my future in you.
 
Alzai lo sguardo e non avrei mai dovuto farlo.
 
Quegli occhi mi sfondarono l’anima con la loro bellezza, ed io continuai a cantare.
 
You’re my one and only.
You can wrap your fingers round my thumb 
And hold me tight.
Oh, you’re my one and only.
You can wrap your fingers round my thumb
And hold me tight.
You’ll be al right.
 
Il cuore mi era arrivato all’altezza delle ginocchia, per poi balzarmi in gola. Non seppi dire se fu una sensazione piacevole o meno. Decisi solo che era il caso di abbassare lo sguardo e, con la coda dell’occhio, vidi Mercedes, intenta a sorridere in un modo che non riuscii a decifrare. Forse le faceva male la faccia, o forse ero un idiota ed avevo appena cantato una canzone piena di sentimenti ad un ragazzo che avevo appena conosciuto e che mi aveva parlato la prima volta mentre ero ubriaco. Bè certo, tecnicamente avevamo dormito insieme, ma a malapena me lo ricordavo.
 
Un momento? Perché ci stavo pensando?
 
You can lie with me,
with your tiny feet,
when you fall asleep,
I’ll leave you be.
Right in front of me
For a couple weeks
So I can keep you safe.
 
 
Smisi di suonare e non sentii nemmeno gli applausi e le grida di tutti i bambini. Il mio sguardo saettò a Kurt che abbracciava la bambina sulle sue ginocchia, e mi trovai a pensare che fosse la cosa più adorabile che avessi mai visto.
 
Non mi piaceva quello che stava succedendo.
 
Non ero sicuro di voler avere una cotta per qualcuno, tantomeno per un ragazzo così gentile e dolce.
 
Perché sapevo mi avrebbe spezzato il cuore, perché avrebbe iniziato a piacermi sul serio.























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Spazio Autrice:
Vi sto scrivendo in uno stato pietoso.
Il pc è rotto, nn va internet e sto scrivendo da un pc dal quale non vedo nulla perchè lo schermo è quasi completamente crepato. Quindi abbiate pietà di me, scusatemi ancora il ritardo, sono mortificata, maledizione!
Non si nota che sono ossessionata con Ed Sheeran, vero?
Scusate se sarò breve, grazie per ogni recensione, davvero ragazze.
Di cuore.
Visto che non vedo che sto scrivendo spero di non aver fatto errori di battitura, God.
In più ho letto per la prima volta The Sidhe. Immagino mi capirete, sono a pezzi!

Vostra,
Noth.

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Capitolo 5
*** I know how it is. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 5-





 

 
 
 
Okay, magari stavo correndo un po’. No, va bene correvo molto.

Era carattere, d’accordo, ma la mia impulsività non mi era mai stata utile finchè non mi aveva portato ad andarmene di casa. E a seguire Kurt, e
a cantare a suonare in quella stanza piena di bambini.

« Sei un poeta. » commentò Puck, sorpreso, guardandomi con un largo sorriso sul volto. Gli lanciai un’occhiata di ringraziamento e notai uno
strano atteggiamento da amicone nel suo alzare i pollici nella mia direzione.

Com’è che quel giorno tutte le persone che avevo appena conosciuto sembravano così amichevoli e gentili con me? O mi ero disabituato
all’affetto o coloro che stavo incontrando si affezionavano terribilmente in fretta.

Pensavo che i sentimenti fossero lenti, che sbocciassero con lentezza e crescessero col tempo, non che spuntassero nel petto come margheritine e
rampicanti possessivi che ti si avvinghiavano aggressivamente addosso.

Fino ad ora i sentimenti mi avevano portato solo alla solitudine e ad essere odiato dalla mia famiglia. Forse sarebbe stato meglio trovare in fretta
un diserbante.

« Poeta… Diciamo cantastorie squattrinato. » lo corresse Kurt, mentre la bambina gli saltava giù dalle gambe per corrermi incontro e pizzicare le
corde della chitarra. La lasciai fare e cercai gli sguardi degli altri bambini che brillavano di emozione e semplicità, ed una calda sensazione di
affetto mi si allargò nel petto.

Di quel passo sarei diventato una retina per rampicanti.

Stavo decisamente scoprendo che, nel mio cuore abbandonato, vi era terreno molto fertile per la nascita di piante sentimentali.

Grosso guaio.

« Ti ringrazio per aver puntualizzato il mio degradante stato economico, Kurt. » ribattei, e lui scrollò le spalle.

« Diciamo che ti si addice molto più l’idea del menestrello, rispetto a quella del sensibile poeta. »

« Ehi! Io sono sensibilissimo! » mi infervorai, scherzosamente. Stavo quasi per dimenticarmi che vi erano altre persone nella stanza. Le nostre
chiacchierate erano così spontanee da sembrare intime.

Warning, Blaine, stai attento. Non ti puoi permettere questo, non è tempo, non è il caso, non è quello giusto.

« Disse quello che si è messo in bocca mezza brioche intera questa mattina pur di non farmene assaggiare un altro pezzo. » mi rimbeccò, e tutti
scoppiarono a ridere, mentre i bambini iniziavano a chiacchierare e giocare tra di loro. Puck e Mercedes scomparvero dietro la porta, parlando
fitto, e Kurt si avvicinò distrattamente a me.

« Quindi… saresti sensibile. » disse, sedendosi per terra al mio fianco. Feci spallucce.

« No, non è vero, non lo sono. Sono una specie di buffone, un giullare cantastorie, come dici tu. » spiegai arpeggiando distrattamente.

Kurt scosse la testa.

« No, quel testo non era da giullare o da buffone. E nemmeno questo arpeggio. » Smisi quasi istantaneamente di suonare, sobbalzando piano. «
Hai il cuore di un artista. »

Mi si annodò la pancia, ed il cuore mi cadde tra la viscere, restandone quasi incastrato.

« Tu straparli. » sorrisi, distogliendo lo sguardo dal suo viso.

« Uhm, sì, ma mai quanto te. »

Gli diedi uno spintone leggero.

Un momento. Perché lo avevo fatto? Perché mi ero preso una libertà del genere? Dovevo andarmene, quella giornata doveva finire ed io dovevo
tornare alla mia solitudine e al mio angolo della strada. Non dovevo abituarmi al conoscere un’altra persona, alla sua presenza, e all’affetto. La
pianta nel mio cuore era destinata a soffocare e morire, ed era meglio così.

Si stava bene da soli, senza aspettative.

Non valeva la pena lasciare entrare qualcuno nel mio mondo per poi uscirne distrutto quando quel qualcuno si sarebbe accorto che non avevo
alcun valore e se ne sarebbe andato.

Non me lo potevo permettere.

« Quando… quando verrà tuo padre? » chiesi.

« Di fretta, eh? Che affari ti attendono? »

Risi, suonando accordi a caso.

« Che tu ci creda o no ho i miei piccoli giri. » lui alzò un sopracciglio sorpreso. « Sai, traffico di cuccioli di orsi polari, fabbrica di espadrillas, ping-
pong clandestino… »

Kurt scoppiò a ridere.

« Non capisco mai se mi stai prendendo in giro, o cosa. » guardò l’orologio e compresi, stranamente, di avere acquistato familiarità con quel suo
gesto.

« E’ questo che mi rende così divertente. » risposi, ed il suo viso assunse un’espressione sarcastica. « Andiamo, ridi! »

« Riderei, se tu fossi divertente! »

« Prima hai riso. » puntualizzai, e lui liquidò la cosa con un gesto della mano.

« In ogni caso, dopo pranzo torneremo a casa e potrai parlare con mio padre e tornare al tuo commercio illegale di orsi polari. » si alzò in piedi.

« Vedo che ne comprendi l’importanza. » risposi. « Dobbiamo già andare? » mi lamentai.

« Sembra impossibile, ma siamo qui già da parecchio ed è l’ora di lezione di letteratura inglese con Cooper Anderson. »

Mi cadde la chitarra di mano.

« Chi scusa? » domandai, raccogliendola all’istante e pentendomi subito di averla lasciata cadere.

« Insegna inglese qui, nel tempo libero. » disse Kurt.

Deglutii forzatamente e pensai di sentirmi male. Mi diedi dell’idiota perché mi stavo preoccupando per qualcuno che sicuramente non poteva
essere mio fratello.

« Potresti descrivermelo? » domandai, mettendo la chitarra nella custodia.

Lui arricciò il naso.

« Perché? » chiese, genuinamente sorpreso.

« Perché potrei conoscerlo. »

Lui alzò il sopracciglio e si limitò ad obbedire mentre prendeva la borsa.

« Bè è alto, occhi chiari e capelli scuri in una sorta di pettinatura cavalleresca divisa a metà, soffice e castana. Ha il viso squadrato ed ha un’insana
passione per l’espressione “pazzesco”. »

Lo avevo già capito dalla prima parte, ma l’ultima la confermò.

Era decisamente mio fratello.

« Riconosciuto? Sei diventato color dell’intonaco. »

Forzai un sorriso e mi ripetei che non era niente.

« E’ mio fratello maggiore. »

Effettivamente quanti Cooper Anderson potevano esserci a New York che adoravano la parola “pazzesco” e avessero quelle caratteristiche
fisiche?

Sperai di non dover dare ulteriori spiegazioni.

« Oh. » disse solo, e si rivolse verso i bambini per un saluto. Loro lo guardarono come se Babbo Natale se ne stesse andando. Gli si avvinghiarono
alle gambe e, istintivamente, strinsero anche le mie, ed il mio cuore perse un battito, forse per la sorpresa.

Arretrai e sbattei contro qualcuno. Mi voltai ed il cervello mi diede una dolorosa scossa.

Era ovvio che ci avrei sbattuto contro, il karma mi odiava, era stato più volte dimostrato.

Cooper Anderson.

Il ragazzo con il quale ero cresciuto.

Il figlio perfetto.

Ciò che non sarei mai stato.

« Mi scus… Blaine? » disse, spazzolandosi la giacca costosa e sistemandosi la cravatta con aria sorpresa.

« Cooper. »

Mi sorrise genuinamente ed ebbi voglia di spaccargli la faccia con un mattone. Sorrideva, lui che aveva tutto e mi guardava nella miseria che
avevo scelto.

« Dai, Blainey, non fare quella faccia, non ci vediamo da mesi. Potresti almeno dimostrare un po’ d’affetto a tuo fratello. »

Kurt ci guardava curioso e preoccupato, e avrei tanto voluto prenderlo sottobraccio e poi scappare via, lontano da qualsiasi membro della mia
famiglia.

« Non ho voglia di vederti. Non ho voglia di parlare con te né con nessuno della famiglia, nel caso non fosse abbastanza chiaro dal fatto che me ne
sono andato. » risposi, e provai a superarlo, mettendo fine a quella discussione e prendendo Kurt per un braccio perché venisse con me.

Cooper mi lasciò passare, e poi mormorò.

« Francamente non capisco cosa ti ho fatto. »

Mi pietrificai e sentii il rampicante che mi avvolgeva il cuore frustarmi con cattiveria. Mi voltai, senza rendermi conto che stavo stringendo
violentemente la manica della maglia di Kurt.

« Io non ti ho mai detto nulla quando hai detto di essere gay, già lo sospettavo dal fatto che piangessi al finale di ogni film romantico, che
guardassi programmi musicali e mi dicessi che, quando giocavamo ai Power Rangers, volevi fare sempre quella gialla. »

« Tu proprio non ci arrivi, vero? » sbottai, e Cooper venne verso di noi, forse per ricordarmi che dietro di lui c’erano dei bambini intenti ad
ascoltare. Ma il mio cervello era partito in quarta, come sempre, forse perché, essendo basso, il sangue scorreva più velocemente dovendo fare
meno strada.

« Tu non hai detto niente! È come se gli avessi dato ragione! Alle loro parole, al loro disappunto, al loro odio! Sei stato ancora una volta, il figlio
che volevano
. Sei stato testimone partecipe del mio addio non sei nemmeno venuto ad abbracciarmi dopo quanto eravamo sempre stati legati. »
gridai, la rabbia che mi pungeva la lingua e prendeva possesso di me.

« Siamo sempre stati legati. » mi corresse.

Scossi la testa.

« No, Cooper, eravamo. Io con te non voglio nemmeno più avere a che fare. Sei solo capace di non deludere Paul e Adrianne. Infatti non capisco
nemmeno perchè tu sia qui, visto che dovresti essere accampato nello studio legale di Paul per i prossimi cinquant’anni. »

« Mamma e papà. » ripeté. « Sono mamma e papà. »

« Forse biologicamente, ma non per me. Hanno smesso di esserlo quando hanno iniziato a pensare di poter decidere chi avessi il diritto di amare
o meno. » sibilai, e mi voltai, facendo per andarmene.

« Va be’, allora scappa! Come se fossero le uniche persone al mondo a pensarla così sui gay. Dio, Blaine, sei patetico nella tua esagerazione. »

Mollai il braccio di Kurt e corsi contro Cooper, mollandogli un pugno in pieno volto, negli occhi lo spettro di vecchie lacrime che non avrei lasciato
riemergere. Lui si portò una mano alla mascella e vidi il sangue uscirgli dal naso.

Non potei credere di averlo fatto, corsi via e cercai disperatamente le scale, sentendo dei passi dietro di me e sperando non fosse Cooper. Mi
avrebbe ammazzato, era sempre stato più forte di me. Inciampai su un pianerottolo e caddi a terra, sovrastato dalla custodia della chitarra che
mi mozzò il respiro. Un’ombra calò su di me.

Calò e mi prese per le spalle, tirandomi su mentre tossivo.

Poteva essere solo Kurt.

Dio, non potevo credere di avere picchiato mio fratello davanti a dei bambini. Che emerito coglione.

Mi sedetti ed allungai le gambe, annegando la testa tra le mani.

« Che emerito coglione. » diedi voce ai miei pensieri, senza guardare Kurt che si sedeva a gambe incrociate dinanzi a me.

« Decisamente. » rispose, sospirando.

Lui sì che sapeva come farmi sentire meglio.

« Grazie. »

« Ma pochi fanno i coglioni solo perchè gli va di farlo. Di solito ci sono dei motivi. » puntualizzò.

« Perché sei così gentile con me? Perché cerchi delle scusanti ad un comportamento del genere? » domandai, chiedendogli finalmente ciò che mi
frullava per la resta da tutta la mattinata.

« Perché so com’è quando vorresti a tutti i costi accettarti ma è troppo difficile. » 



























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Spazio Autrice:
C'è stata la puntata.
A me è piaciuta.
Mi dispiace per Kurt.
Lo So che è un'unpopular opinion.


Grazie di tutto, sempre.
Noth

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Capitolo 6
*** It was better this way. ***



Do you know about swallows?
-Capitolo 6-










Eravamo usciti, senza salutare nessuno, eravamo semplicemente sgusciati fuori come se niente fosse. Kurt mi aveva teso la mano ed eravamo
andati via. Avevamo camminato in silenzio fino a Central Park, dove eravamo entrati comportandoci come estranei.

Fossi stato in lui non avrei più voluto avere a che fare con me, in effetti non ero un tipo facile con cui avere a che fare.

Avevo voluto picchiare mio fratello per mesi, forse per anni, ma aveva sempre vinto lui e, quella di quel giorno, era stata una liberazione.

Solo non sarei dovuto sbottare, non avrei dovuto comportarmi così davanti a quei bambini. Loro avevano bisogno di un esempio, di un po’ di
felicità e di sorrisi dall’esterno, non ulteriore odio e voglia di litigare.

Forse non ero fatto per posti come quello.

Forse non ero fatto per nessun posto.

A parte forse la “terra dei senza tetto” popolata da unicorni. La avevo sognata, una volta, e mi era parsa adattissima a me. Nessuna
responsabilità, nessun legame, una chitarra in spalla e via.

Il mondo, invece, era così difficile.

Trovammo una panchina in un angolo, sotto ad un albero del quale non sapevo il nome ma che faceva molta ombra. I bambini ci passavano
davanti sui pattini mentre gridavano, coppiette a braccetto si imboccavano a vicenda con la macedonia o il gelato. Mi sedetti ed appoggiai la
custodia accanto a me, unendo le mani sopra le gambe dinanzi a me.

Kurt stava in silenzio e quel silenzio mi metteva a disagio. Già mi mancavano le chiacchiere dei bambini della clinica. Ero stato troppo tempo da
solo, sapevo che poi sarebbe bastato un minimo accenno di compagnia ad infettarmi.

Mi stavo ammalando mi sa.

Ammalando di affetto.

Le cose non dovevano andare così, non volevo più dipendere da nessuno.

« Quella nuvola sembra una donna di colore che fa il gesto incazzato, come nei film. » dissi, sperando di rompere la tensione. Nulla mi veniva
meglio del fare l’idiota, quindi perché non tentare. Se non voleva più avere a che fare con una persona impulsiva e violenta come me poteva
dirmelo, ed ognuno sarebbe andato per la sua strada. Non era obbligato a stare con me, né io con lui.

Anche se dovevo ammettere che la cosa mi piaceva.

Lui si voltò verso di me e mi guardò con un’espressione a metà tra lo sconcertato ed il divertito.

« La tua fantasia non ha limiti, vero? » esclamò.

Alzai le spalle.

« Pensavo te ne fossi accorto dalla mia canzone di prima. » risposi.

« Quella bella o quella sulla pipì di cane? »

Lui mi lanciò un’occhiata eloquente.

« Non avrei mai detto che Anderson fosse tuo fratello, comunque. » aggiunse, dopo qualche attimo di silenzio.

Sospirai e non dissi nulla.

Avevo cercato di evitare il discorso, dopo la scena sulle scale. Non volevo parlarne, era troppo difficile, perché non capiva? O forse mi stavo solo
comportando da stupido bambinetto egoista.

Cooper avrebbe detto che mi stava riuscendo pazzescamente bene.

Ma non dovevo pensarci se non volevo finire a prendere a pugni un albero nelle vicinanze.

« Meglio non somigliarci. » risposi secco, lasciando che il sorriso scivolasse via dal mio volto.

Volevo scherzare, volevo ridere, non volevo essere serio. Essere seri non era mai divertente. Potevamo anche andare a fare qualcosa di noioso,
ma almeno non avrei dovuto parlare di Cooper e avrei fatto qualche battuta stupida, così per alleggerire l’atmosfera.

« So che non sono affari miei, e che non abbiamo poi tutta questa confidenza, ma dopo il pugno in faccia che hai tirato al mio collega… insomma,
non mi dispiacerebbe avere qualche spiegazione. »

Non aveva tutti i torti, e poi era stato gentile con me per tutta la giornata. Se non altro glielo dovevo.

Respirai tra i denti e soffiai fuori l’aria.

« Che vuoi sapere? »

« Cosa ti ha fatto di così grave? Mi pareva felice di vederti e dispiaciuto per l’accaduto. » spiegò.

Risi.

« Non lasciarti ingannare da Cooper Anderson, Kurt. Lui vuole semplicemente fare felici tutti. Non vuole offendere nessuno ed allora sta sempre
nel mezzo. Non c’è nulla di peggio. Non mi ha mai davvero sostenuto, mai davvero aiutato. Non vuole che nessuno lo odi, di conseguenza non si
mette contro nessuno. Una volta lo invidiavo, volevo diventare come lui e credevo che fosse… non lo so, la persona che volevo diventare. Poi ho
realizzato che era proprio ciò che non volevo essere, un pomposo ragazzino indeciso sempre alla mercé degli altri. »

Intrecciai le mani dietro la nuca, guardando da un’altra parte.

Non avevo mai parlato a nessuno dei miei sentimenti contrastanti nei confronti di Cooper – se non contiamo i miei peluche e la maestra che mi
aveva insegnato a suonare il pianoforte da piccolo – quindi chissà perché alla fine avevo dato la vera spiegazione a Kurt. Potevo semplicemente
inventarmi qualcosa di orribile sul suo conto e spacciarla per vera, magari non mi avrebbe nemmeno creduto, ma l’idea di tenerlo lontano da
quell’ipocrita mi faceva sentire meglio.

Decisamente meglio.

« E’ normale. » rispose lui, e mi voltai con un’aria poco convinta.

« Volere picchiare ripetutamente il proprio fratello con una vanga è normale? » domandai, indeciso se ridacchiare o scuotere la testa.

Lui rise, per qualche motivo inconcepibile, e con un gesto veloce si passò la mano tra i capelli.

« Parlavo del volergli assomigliare e credere che sia quasi un Dio, per poi giungere alla conclusione che non è l’idolo che avevamo creduto fosse
per tanto tempo. » alzò le spalle e si voltò.

« Kurt, tu hai fratelli? » domandai, alzando un sopracciglio.

« No, ma ho molti amici. E comunque ci sono molti telefilm a riguardo, sono ben informato. »

Sorrisi ed abbassai lo sguardo, capendo dove voleva arrivare.

« Il fatto che sia normale non significa che sia giusto. » risposi, guardando come il sole illuminava il parco, regalandoci una visuale verde brillante.
La custodia giaceva ancora a terra ed immaginavo si stesse scaldando.

« C’è davvero qualcosa di giusto a questo mondo? »

Ci pensai su.

« Lo zucchero filato. » risposi, e lui scoppiò in una risata che non mi aspettavo.

« Certo, dimenticavo che hai sempre la battuta pronta. »

Feci un sorriso sbeffeggiante.

« Fastidioso, vero? »

Lui sorrise rassegnato.

« Decisamente irritante. » rispose.

Davanti a noi passò una bambina con lunghi capelli castani e due immensi occhi azzurri. Correva sui pattini, inseguita da una donna sulla
sessantina che avrebbe benissimo potuto essere sua nonna. La bambina si voltò verso la custodia della mia chitarra ed inciampò, cadendo a terra
con un tonfo ed un suono strozzato.

« Oh, cavolo. » imprecai sottovoce, dispiaciuto. Kurt si alzò, si avvicinò alla ragazzina, che lo guardò con le guance rosse e gli occhi pieni di
lacrime. Aveva uno sguardo diffidente, ma Kurt le sorrise e le tese una mano.

« Serve aiuto? » le disse, e lei lo guardò con quei due occhi enormi che le occupavano quasi metà viso.

Osservavo la scena attonito, come fosse stato un film.

« Se ti do la mano tu poi mi porterai via? » mormorò, mentre la nonna la raggiungeva e si fermava col fiatone.

« Portare via? » domandò Kurt.

« Sì, tipo per sempre. » spiegò la bambina, cercando di alzarsi ma scivolando a terra.

Kurt rise.

« No, ti aiuterò ad alzarti in piedi, ma se vuoi posso anche portarti via. » le disse, e la bambina scorse qualcosa, forse nei suoi occhi, che la spinse a
prendergli la mano ed a farsi aiutare.

Come tutti, anche lei aveva ceduto al fascino della gentilezza di Kurt e della sua famiglia.

« Tutto okay? » chiese, e la bambina annuì, avvicinandosi poi a sua nonna e tirandola per il vestito.

« Hannah, aspetta un secondo, non riesco più a correrti dietro per tutto il parco. » disse ansimando la signora, e la bambina la guardò con aria
delusa.

« Dai nonna, andiamo, non mi sono fatta nulla, davvero. » rispose, e cercò di strattonarla più forte, mentre Kurt sorrideva e scuoteva la testa.

« Non sei tu il problema, tesoro. » alzò gli occhi al cielo la donna. E Kurt carezzò con cautela la testa della bambina.

« Ricordo che da piccolo anche mio padre impazziva a seguirmi mentre correvo in giro con una bottiglia vuota in mano, credendo che fosse una
specie di scettro del potere, e fingevo di trasformarmi e di dover salvare il mondo. » spiegò Kurt, e la signora gli sorrise cordiale.

« Ma io stavo solo correndo sui pattini. » puntualizzò la bambina, prendendo la mano della nonna e attaccandosi alla sua gonna.

Kurt si inginocchiò, arrivando all’altezza degli occhi della ragazzina.

« Solo pattinando? Sai quante cose si possono immaginare sui pattini? » domandò, e le sorrise. Mi ricordò, per qualche strano motivo, il
cappellaio matto. E forse un po’ matto lo era, d’altra parte aveva deciso di starmi dietro tutto il giorno, se non fosse stato già pazzo da prima lo
sarebbe diventato per forza di cose.

Cooper aveva sempre detto che facevo diventare pazza la gente.

« La prego di non risvegliare la sua fervida fantasia, o correrle dietro diventerà un’impresa da supereroina. Ed io ho la mia età, ragazzo. »
ridacchiò la signora, ed iniziò a camminare, seguita dalla bambina sui pattini.

La ragazzina si voltò e continuò a fissare Kurt con curiosità, voltandosi poi infine per superare la nonna e riprendere la sua corsa.

Kurt la osservava con un sorriso sulle labbra.

« Fai uno strano effetto alle persone. » dissi, ficcandomi le mani nelle tasche mezze scucite dei pantaloni.

« Eh? » chiese lui, voltandosi verso di me e tornandosi a sedere.

« No, no camminiamo, il mio didietro ha bisogno di aria. » proposi. « Non quella che pensi tu. » mi affrettai ad aggiungere, e Kurt scoppiò a
ridere.

« Solo se mi spieghi cosa intendevi. » precisò, e mi seguì per camminare, senza una meta, per Central Park.

Il clima era perfetto, sembrava incredibile che la notte prima avesse piovuto, si poteva dedurre solo dalle rare pozze che si erano formate sul
terreno.

L’aria era ancora fresca, forse il tempaccio del giorno precedente si poteva percepire anche da quello, ma solo una persona attenta come me che
vivevo sotto quella brezza da mesi, avrebbe potuto notarlo.

Kurt mi passeggiò accanto per un po’, a grandi passi e con le mani dietro la schiena, come se stesse aspettando qualcosa.

« Cosa? » domandò di nuovo, in attesa di una spiegazione e, mentre constatavo di avere un buco nella tasca destra – probabile motivo per il
quale avevo perso i cinque dollari che mi sarebbero serviti la notte prima – feci spallucce.

« Voi. Tu, tuo padre. Fate uno strano effetto. Siete sempre sorridenti, gentili, disponibili, sinceri. La gente tende a fidarsi di voi. » spiegai, tirando
un calcio ad un sassolino sbeccato che stava sulla via. Osservai come il verde avvolgeva tutto in uno stretto abbraccio, in una morsa brillante che,
con l’arrivo dell’autunno, si sarebbe tramutata in un mare arancione e marrone e giallo e oro. Pura poesia, però il freddo sarebbe stato più
complicato da sopportare all’aperto. Avrei dovuto ingegnarmi.

« Cosa c’è di male in tutto questo? » chiese, interdetto e, forse, confuso.

« No nulla, non c’è nulla di male. » risposi, continuando a tenere le mani nelle tasche malandate e guardando per terra dinanzi a me. « Solo non
pensavo che persone così esistessero davvero. » puntualizzai.

Lui scoppiò a ridere.

« Non sono mica un unicorno, Blaine. »

« Ma no, nel senso, hai presente quando alle elementari ti parlano di quelle persone buone e gentili che aiutano sempre gli altri, e sono in tutti
quei libricini inutili che ti vogliono insegnare quanto il mondo sia gentile e disponibile quando non lo è? » chiesi, scrollando le spalle e passandomi
una mano tra i ricci con un tic nervoso che avevo sempre avuto e che, ogni volta, mi dava parecchi problemi nello scorrere in quella massa
aggrovigliata e profonda.

« Sì, ho presente. »

« Ecco, » spiegai. « Pensavo esisteste solo in quel libri. »

Kurt fece saettare le sopracciglia verso l’attaccatura dei capelli.

« Parli di noi come se fossimo delle fate, o una sorta di specie a parte in via di estinzione. Creature fantastiche. »

« Diciamo che più o meno è così. » sorrisi.

Kurt rise, mentre camminavamo e ci godevamo il paesaggio e gli schiamazzi della gente e dei ragazzi che si lanciavano il freesbee con gesti
atletici, attorniati da cani attenti che aspettavano un fallo da parte dei padroni per poter addentare il disco di plastica.

« Sentiti onorato, allora. » rispose Kurt, forse lusingato da ciò che avevo detto, ma non vi era mai stato alcun intento lusinghiero. Dicevo le cose
come stavano, come le pensavo, era troppo tempo che non parlavo così con una persona, ed i normali filtri e freni della buona educazione e della
convivenza erano piuttosto intorpiditi. Forse avrei dovuto rispolverarli, ma non avevo voglia.

« Penso di esserlo. » risposi, e continuammo a camminare, consci che, entro poco, avrei parlato con suo padre e tutto questo nuovo chiacchierare
come vecchi amici sarebbe terminato ed io sarei tornato alla mia vita di stenti e solitudine, e lui alla sua esistenza dedicata agli altri e a fare quei
sorrisi rassicuranti ed ad insegnare musica a quei bambini vittima dell’ingiustizia della malattia.

Sì, probabilmente era meglio così.
























--------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Avete i permessi formali di picchiarmi a sangue per quanto ci ho messo. Ci vado dietro da una settimana.
Purtroppo ci sto tenendo molto a questa storia e voglio gestirla al meglio.
Spero che le cose vi piacciano per come si stanno svoglendo, che lo stile e le battute siano di vostro gradimento e che compensino l'atroce attesa
D:

Spero che qualche anima pia abbia voglia di farmi sapere che pensa, perchè voi siete le uniche che sanno davvero dirmi com'è una storia.
Grazie, di cuore.
Noth

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Capitolo 7
*** As lucky as I never will. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 7-









Tornare a casa di Kurt era stato più breve di quanto pensassi. Mi pareva di aver camminato un’eternità, ed invece eccoci lì,
dinanzi a quel bar dove mi ero nascosto la sera prima per proteggermi dall’acquazzone e che aveva dato il via a tutta quella
mia pazzesca mattinata. Ed era il momento di metterci una fine, ascoltare quello che Burt aveva da dire e poi tornare alla mia
vita da emarginato sociale/menestrello ai lati della strada.

Entrammo con le chiavi di Kurt e salimmo al piano superiore. Probabilmente era anche ora di pranzo, ma avevo perso la
cognizione del tempo ed il mio stomaco non era una cima negli orari, ultimamente. Aveva fame quando aveva fame, e questo
era quanto.

Arrivammo nell’appartamentino sopra il locale e lo osservai di nuovo come fosse la prima volta. Mi sembrava continuamente
di aver visto le cose solo di sfuggita, senza volerle vedere davvero. Per la fretta, la poca voglia, la paura, il post sbornia. Kurt
appoggiò la sua borsa a terra accanto all’entrata e si diresse verso la cucina. Inizialmente avrei voluto chiedergli come sapesse
che suo padre fosse a casa, ma mi bastò annusare l’aria, che odorava di bruciato, per dire che qualcuno doveva essere ai
fornelli. Lo seguii trascinando i piedi senza un motivo preciso e, nel piccolo angolo cucina, trovai Burt, intento a sventolare una
pentola traboccante di qualcosa dallo strano color verde scuro che ribolliva pericolosamente.

« Papà, quante volte te lo devo dire che le salse di questo tipo vanno cotte a fuoco lento? E poi non devi buttarle tutte di colpo,
vanno cotte a fasi, non è un piatto facile, come ti è venuto in mente di tentarlo un’altra volta senza di me? Non abbiamo i soldi
per comprare un’altra casa se mai questa esplodesse. » lo ammonì Kurt, prendendo il suo posto davanti al fornello e
sistemando quel disastro sollevando il pentolino e rovesciandolo nello scarico del lavandino. Rivolse uno sguardo esasperato al
padre che ostentò indifferenza e notò la mia presenza sull’entrata della cucina.

« Oh, figliolo, come stai? Meglio di ieri notte? » domandò, dirigendosi verso di me con lo stesso sorriso e gli stessi occhi della
sera prima. Mi piacevano tanto, li invidiavo, erano pieni di speranze, di gentilezza, di affetto. Occhi che non avevo visto per
lungo tempo e che, ora come ora, mi veniva da domandarmi se li avessi mai visti davvero.

Gli occhi dei miei genitori non erano mai stati così.

« Diciamo che almeno non sto blaterando qualcosa su uccelli migratori o cadendo da sgabelli. » risposi, scrollando le spalle. Lui
scoppiò in una risata divertita.

« Te lo ricordi? »

« Non molto bene, a dirla tutta. » risposi ridendo, e mi ricordai perché ero di nuovo lì, a ridere e a scherzare e a parlare come
se ci conoscessimo da sempre.

« Kurt mi ha detto che volevi parlarmi. » dissi, e lui allora mi fece cenno di sedermi nel minuscolo salotto dove stavano solo due
poltrone e una televisione dalle dimensioni incredibilmente ridotte.

Mi sedetti sulla poltroncina, che scricchiolò sotto il mio peso, e mi sentii incredibilmente a disagio quando lui fece lo stesso su
quella dinanzi a me, mente Kurt restava appoggiato allo stipite della porta con un canovaccio in mano ed un’aria curiosa.

« Che succede? » domandai.

« Sai, Blaine, ieri sera mi hai spiazzato. » cominciò Burt, e a quella affermazione alzai un sopracciglio con fare interrogativo. Mi
aveva voluto parlare solo per dimi che lo avevo sorpreso? « Non mi capita spesso di offrire da bere, soprattutto perché non è
che abbia chissà quali guadagni dalla gestione di quella bettola. Tu mi hai sorpreso, perché vedevo che eri senza niente, eppure
sorridevi molto. Poi mi hai raccontato dei tuoi genitori, del loro comportamento assolutamente inscusabile, ed è venuto fuori
quel lato da semplice ragazzo che stava sepolto sotto a tante paure e tanta sofferenza. E ho provato pena per te, mi sei
sembrato mio figlio, e non ho avuto il cuore di lasciarti andare. » disse.

Perché mi stava dicendo tutte quelle cose? A che scopo?

« Quanti anni hai, Blaine? » chiese.

« Ventuno. » risposi, senza pensarci, e che ridere faceva pensare a quanto mi sembrava lontano, una volta, il tempo in cui avrei
avuto ventun anni.

« Ho una proposta da farti, Blaine. Ma non voglio che tu ti faccia troppe domande sul perché te la sto facendo. »

Annuii poco convinto.

« Vorrei che tu venissi a vivere qui, con me e Kurt. Ti darò lavoro al bar, così non dovrò darti uno stipendio ma ti pagherai la
convivenza. Ovviamente, se avrai bisogno di qualcosa, nei limiti delle possibilità, potrai chiedere. Potrai stare quanto vorrai.
Starai nella stanza di Kurt, tirerò fuori la brandina che usavo quando ancora abitavamo in Ohio, sarà divertente. » incrociò le
braccia e si sporse avanti, forse per scannerizzare la mia espressione.

Probabilmente dovevo essermi dimenticato di respirare per qualche secondo, prima di rispondere.

« Cosa? Stai scherzando? Perché mai dovresti farlo? Per quanto ne sai potrei essere un terrorista! » gridai, alzandomi in piedi
e guardandomi in giro, come in cerca della telecamera che confermasse l’ipotesi – che mi ero fatto in testa – di una possibile
Candid Camera.

« Ci sono diversi motivi per i quali non credo che tu possa essere un terrorista, Blaine, e non ho intenzione di stare qui ad
elencarli o ci metteremo secoli, e il bar apre tra qualche ora ed io devo ancora insegnarti tutti i segreti del mestiere. » disse,
alzandomi e superandomi in altezza.

Mi era piaciuto sentirmi alto per qualche secondo, ma non era durato.

« Io non posso Burt. » risposi.

« Per quale motivo? » chiese Kurt, da dietro di me, con il canovaccio stretto forte in mano ed un’espressione davvero
indecifrabile sul viso. Non avrei saputo dire a che stesse pensando.

« Perché io non posso sopravvivere a una vita gomito a gomito. Non posso. »

« Non puoi o non vuoi? » domandò Burt.

« Io… non lo so. » ammisi, e tornai a sedermi. « Non so se voglio ricominciare una vita con qualcuno accanto. Non so se voglio
affezionarmi di nuovo a qualcuno. » spiegai.

« Blaine, noi non ci siamo capiti. Non sono tuo padre, né chi per lui, tu puoi stare qui, stare con noi, avere una casa un lavoro ed
una dignità, ma sei libero di andartene quando vuoi, e ti posso promettere che non avrò motivo di sbatterti fuori io a meno che
non sia la tua volontà. Voglio che sia molto ben chiaro questo punto. » lo sguardo di Burt si affilò, e deglutii.

Rimasi in silenzio.

Era ciò che avevo sempre voluto, e ciò che temevo di più.

« Immagino di non avere scelta. » sorrisi.

Burt scoppiò a ridere.

« Al contrario, ce l’hai, ma l’altra scelta sarebbe alquanto stupida. »

Mi lasciai andare anch’io ad una risata e mi voltai verso Kurt, che manteneva quell’espressione indecifrabile sul volto, sorrise a
suo padre per poi sparire in cucina.

« Allora va bene. » conclusi, un po’ in imbarazzo, e non era da me perché credevo di non essere più vincolato a quel genere di
emozioni. Credevo di avere dimenticato come ci si sentiva, che stupido.

Burt si alzò, sorridendo, ed afferrando un berretto col frontino nero che stava sopra alla televisione, e ficcandoselo in testa. Mi
diede una pacca sulla spalla e se ne andò in bagno, o almeno credo, lasciandomi lì.

Rimasi seduto per qualche minuto, a pensare che non potevo essere stato così fortunato; che per merito di un temporale e una
sbronza di passaggio avevo trovato una nuova casa ed un lavoro e, possibilmente, qualcuno che mi avrebbe voluto bene.

O forse era meglio di no, nessun sentimento.

Anche Kurt. Kurt che aveva quegli occhi mozzafiato e quel modo di fare così pungente che si trasformava istantaneamente in
una gentilezza sconfinata quando qualcuno era in difficoltà. Non doveva piacermi, era un coinquilino, ed un’occasione del
genere non mi sarebbe capitata mai più, non potevo mandarla a quel paese perché non sapevo imbrigliare il mio cuore, e poi
era troppo presto per dire di provare qualcosa per lui. Non ero pronto a una storia, era un qualcosa che non era nemmeno
iniziato! Mi stavo solo facendo i film.

« Blaine? » gridò Kurt dalla cucina, con un forte rumore di pentole sbatacchiate di sottofondo. Sobbalzai e mi voltai verso dove
proveniva la voce.

« Eh? »

Una risata appena accennata.

« Dicevo, cosa vuoi per cena? Credo che il tentativo di qualsiasicosafosse di mio padre non sia andato a buon fine. Cosa ti
piace? » domandò, mentre lo raggiungevo confusamente in cucina. Avevo appoggiato la custodia della chitarra in salotto,
cercando di metterla in un angolo in modo che non ingombrasse. Kurt stava cercando disperatamente di grattare via la salsa
bruciacchiata dalla pentola che aveva maneggiato suo padre fino a poco prima, e la scena era alquanto buffa, se si pensava che
lo sentivo imprecare sotto voce cose tipo: brutta pentola dei miei mocassini, ti posso buttare dalla finestra e lanciarmici
sopra e ti assicuro che sarà una cosa lenta e dolorosa…


Mi avvicinai ridendo, riacquistando parte della mia spavalderia e guardandolo con aria divertita.

« Che c’è? Sapresti fare di meglio? » borbottò, offeso.

Io risi, e presi la pentola e la spugna in mano, alzando gli occhi al cielo.

« Primo, io mangio qualsiasi cosa, fai quello che preferisci, non sono schizzinoso, ma non sopporto le prugne. Secondo, meglio
che tu cucini ed io sgobbo, sennò qua non si mangia più. » dissi, cercando di non pensare che quella sarebbe diventata la mia
nuova routine, e di non soffermarmi sul fatto che mamma mi aveva sempre fatto aiutare in cucina mentre lei preparava la
cena. Quelle poche volte che aveva avuto tempo di stare con me.

Kurt alzò un sopracciglio e si diresse verso la credenza, dove trovò del pane confezionato e poi estrasse della pasta pronta,
congelata, dal frigo. Appoggiò il tutto sul piccolo ripiano e si mise a trafficare con una padella pulita, con aria professionale ma
facendo un sacco di baccano.

Sorrisi tra me, perché non avrei sperato nemmeno nei miei più rosei sogni di assistere un’altra volta ad un’atmosfera così
casalinga e familiare. Forse, dopotutto, stare lì non sarebbe stata poi tanto una pessima idea.

 

 

Il pranzo sembrava in procinto di cucinarsi, mentre io avevo quasi finito di grattare la pentola e mi passavo un braccio sulla
fronte per raccogliere le piccole gocce di sudore che scivolavano sulla mia pelle. La vita in famiglia si rivelava già faticosa, ed
immaginavo che, comunque, sarebbe diventata ancora più pesante. Lavorare al bar, ora che ci pensavo, non sarebbe stato
semplice. Non per me che non avevo alcuna esperienza e, per la prima volta nella vita, avrei avuto delle responsabilità sulle
spalle, responsabilità che i miei genitori non mi avevano mai dato affidando sempre tutto a Cooper, il figlio perfetto. E ora,
invece, uno semi-sconosciuto mi avrebbe fatto carico di parte della sua responsabilità sul locale. Perché mi ci era voluto così
tanto per trovare qualcuno che credesse in me? Perché avevo sempre creduto di valere meno di zero per questo?

Forse c’era più della musica e dei bigodini sommersi dai ricci scuri in me.

« Blaine, lascia stare quella pentola e vieni a mangiare che sennò poi gli spaghetti diventano colla. » gridò Kurt, mentre
metteva la pasta sui piatti del tavolino a metà strada tra la cucina ed il salone.

C’erano tre posti. Tre. C’ero anche io. Avevo una casa, non mi sembrava vero.

Mi tirai la barba per assicurarmi che non fosse un sogno.

« Due secondi, Kurt, ho una sfida personale aperta con questo stupido tegame e questa specie di colla color caccola. » risposi,
con il braccio che oramai mi implorava pietà in cinese, pur di farmi smettere. Ma pulire quel pentolino mi sembrava il minimo
per sdebitarmi della loro continua ed assurda gentilezza.

« Guarda che ti sento, e quella salsa è una mia creazione personale. » gridò Burt di rimando, probabilmente già seduto a tavola.
Ridacchiai e terminai il lavoro in meno di quanto pensassi. Mi sciacquai le mani e respirai il profumo del sapone come se non lo
sentissi più da una vita.

Un momento, forse se potevo stare lì avevo anche diritto ad una doccia.

A quel pensiero i miei capelli e tutti i pori del corpo cantarono un hallelujah generale.

Con uno stupido sorriso stampato in volto mi diressi verso il tavolino e mi sedetti a tavola con i miei nuovi… coinquilini. Non
famiglia, non erano una famiglia, io non avevo una famiglia, la mia famiglia era morta.

Averne una nuova?

Non se ne parlava.

Una bastava ed avanzava per tutta una vita.

« Perché quel sorriso? » domandò Kurt, inforchettando la sua pasta con un sugo che preferivo dire di non conoscere.

Scossi la testa.

« Nessun motivo in particolare, devo avere una ragione per sorridere? » chiesi, mentre prendevo una mestolata di pasta nel
piatto e la mangiavo come se non avessi mai più potuto mettere qualcosa nello stomaco. Patetico!

« No, effettivamente credo più che quel sorriso sia stato spiaccicato sulla tua faccia alla tua nascita, quindi no, niente. Mi
pareva solo più… strano degli altri. » disse, e alzò le spalle per tornare a mangiare in silenzio.

Nessuno aprì più bocca, però io conoscevo la risposta, anche se la tenni per me.

Le altre volte avevo sorriso perché ero un ebete, perché sorridere alleviava un po’ qualsiasi sofferenza, perché illudeva ed
infondeva felicità come morfina. E funzionava, anche, ogni tanto.

Ora sorridevo perché ero stato davvero fortunato e, forse, una volta tanto, le mie ferite si sarebbero rimarginate.

Burt mi osservò di sottecchi per tutto il pasto, e sorrideva tra sé, come se conoscesse un segreto e non volesse mettermene a
conoscenza per paura di rovinare la sorpresa.

Cosa avrei dato per scoprire cosa celavano quegli occhi gentili.

E cosa avrei dato per capire il vero colore di quelli di Kurt.



















---------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Allora, brevemente, parto per Milano, e sono riuscita ad aggiornare per puro miracolo.
Spero che il capitolo vi piaccia, e che stiate capendo un po' meglio il significato della storia.
Spero che... oddio, spero troppe cose.
un commento è sempre gradito, ogni opinione è una spinta a migliorarmi!
Grazie di tutto, come sempre.

Noth

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Capitolo 8
*** Unexpected. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 8-










« Andiamo, Blaine, la macchinetta del caffè non è qui per ucciderti. » rise Burt, tenendosi la pancia e scuotendo la testa, mentre io mi avvicinavo
con aria cauta.

« Una volta la moka del caffè mi ha giocato un brutto scherzo a casa dei miei. » spiegai, e mi sorpresi di come avessi associato in fretta la mia
vecchia casa alla semplice casa-dei-miei-genitori.

Presi il filtro del caffè e lo riempii di polvere marrone e profumata come aveva fatto Burt e poi lo avvitai alla macchina, che rumoreggiava come
se stesse risucchiando qualcosa di particolarmente melmoso. Guardai il proprietario del bar, che mi annuì incoraggiante, e premetti il pulsante di
avvio. L’attrezzo sbuffò un po’ e poi si convinse a funzionare, facendo, miracolosamente, uscire il tanto agognato caffè. Tirai via la tazzina da sotto
il piccolo getto e la appoggiai su un piattino che si trovava impilato con gli altri al lato del bancone. Lo posai davanti a Burt che lo osservò per
qualche secondo l’elaborato e gli sbuffi di fumo che emetteva. La macchinetta iniziò a tossicchiare malamente e, con un pugno assestato nel punto
giusto, il barista la mise a tacere.

« E’ un po’ capricciosa, lo ammetto, ma come fa i caffè lei, nessuno. » disse in sua difesa, e sorseggiò il mio elaborato, inarcando pensierosamente
le sopracciglia. Sembrò gustare lentamente il liquido scuro e poi fece una faccia relativamente soddisfatta.

« Infatti nemmeno tu riesci a fare un caffè che non sia incredibilmente delizioso. Brava la mia Bessy. » esclamò, dando una pacca lieve sul lato
della macchinetta che rispose con un tonfo non esattamente rassicurante.

Scoppiai a ridere ed adocchiai la custodia della mia chitarra, che se ne stava sotto il bancone perché, ancora, avevo paura a lasciarla fuori dalla
mia vista. Era un po’ la mia copertina di Linus, e non avevo alcuna intenzione di separarmene.

« Quindi ho superato la prova del caffè? » chiesi, facendo un sorriso implorante.

Burt rise.

« Mi sembra che tu abbia raggiunto la sufficienza, sì. » disse accondiscendente e, per tutta l’ora seguente, non fece altro che mostrarmi dove si
trovava quel bicchiere, o come funzionava la lavapiatti, dove trovare quel liquore o come mischiarlo con quel superalcolico. Dovevo ammettere
che avevo sempre avuto un debole per la chimica, e mi divertivo parecchio a miscelare tutti quei liquidi dai color così sgargianti. Dovevo stare
attento, però, perché se avessi sbagliato le dosi, indicate nelle ricette tratte da un piccolo taccuino che Burt mi aveva messo sopra il tavolo,
sarebbe venuto fuori un cocktail disgustoso al sapore di alghe, o sabbia o arcobaleni scaduti.

Dovevo ammettere che non sembrava tanto male, e che l’atmosfera mi piaceva non poco.

Il Bar stava per aprire, ed ero pronto a sperimentarmi al banco quando, dalle scale dell’appartamento, scese Kurt. Indossava un maglione con
scollo a V di un blu navy profondo che gli faceva risaltare gli occhi che, come ero stato in grado di appurare a tavola, tendevano al verde, al blu ed
al grigio a seconda di come la luce vi ci si infrangeva sopra e del suo umore. Con quel maglione tendevano decisamente all’azzurro. In più
indossava dei pantaloni kaki e si dirigeva verso di me con aria allegra.

Si sedette su una delle sedie del bancone, più precisamente quella sulla quale mi ero appollaiato la prima notte che ero entrato lì dentro.

Coincidenza?

Sì.

« Allora, com’è lavorare? » domandò, poggiando i gomiti sopra il tavolo e ficcandosi la testa tra le mani in un modo che mi ricordava vagamente
Alice nel Paese delle Meraviglie. Sorrisi, afferrando un bicchiere e girandomelo tra le dita con aria esperta, per poi poggiarlo sul tavolo e fare
spallucce.

« Decisamente nuovo. » risposi.

Kurt sorrise, alzando un sopracciglio.

Incredibile da quanto poco ci conoscessimo e fossimo già una sorta di fam… comunità. Gruppo. Team.

La parola con la F era proibita.

Afferrai uno straccio e diedi una passata veloce al bancone – già pulito – e poi mi poggiai davanti a lui con un sorriso assolutamente fuori luogo.

Ma ero così felice. Di avere una casa, un lavoro, dei conoscenti, una vita.

Non mi ero mai sentito meglio.

Una nuova vita.

Dopo un silenzio imbarazzante ed un momento di contatto oculare decisamente eccessivamente prolungato, afferrai casualmente una bottiglia di
Rum bianco e di Assenzio e le mischiai assieme nel bicchiere dinanzi a me. Un quarto di Assenzio e tre quarti di Rum. Poi lo mescolai con una
cannuccia, tenevo la lingua fuori per nessun motivo in particolare, mentre Burt mi osservava dal retro. Potevo sentire i suoi occhi sulla mia
schiena, ed il suo maledetto sorriso che si tendeva sulla faccia da stanco bonaccione.

A opera finita mi alzai e osservai il risultato. Non aveva poi un colore così particolare, e decisamente non si poteva definire invitante.

Kurt lo osservò per qualche secondo e poi prese il bicchiere. Gli afferrai il polso e lo guardai come se fosse una lucertola con due teste ed una coda
da coniglio al posto del naso.

Lui rise.

« Non fare quella faccia, non morirò. Ho assaggiato miliardi di tentativi falliti di mio padre e sono ancora vivo. Hai mischiato solo due ingredienti,
non può essere poi troppo male. » disse, e si portò il bicchiere alle labbra, mentre io stringevo il banco così forte tra le dita, che le nocche mi
erano diventate bianche ed il labbro inferiore era impallidito per via di quanto forte lo stavo mordendo. Ci tenevo un sacco, era la mia creazione,
la prima cosa che mi era permesso costruire da zero. Il primo effetto di qualcosa fatto completamente da me.

Bè okay, magari non avevo fabbricato il bicchiere o distillato i due liquori, ma il senso era quello.

Kurt prese una sorsata del mio cocktail, e la mandò giù sbattendo più volte le palpebre.

Aspettai in silenzio, con l’ansia così fitta dentro di me che avrei potuto spremerla dalla pelle.

Kurt attese qualche secondo, con il bicchiere in mano e gli occhi sbarrati.

L’ho ucciso, pensai. L’ho ucciso e ora suo padre mi userà come shaker.

« In realtà non è male, solo un po’ forte. Diciamo che sono un buon bevitore, ma mischiare Rum e Assenzio crea una specie di bomba nucleare
che ti brucia l’esofago. Però è buono, se trovi un frutto, una bevanda con la quale diluire il fuoco dell’alcool, potrebbe essere una buona bevanda.
» commentò, appoggiando il bicchiere e sorridendo.

Burt si avvicinò a me e prese il bicchiere con aria sconcertata. Trasse un lungo sorso e fece schioccare le labbra. Poi mi guardò.

« Della panna. » disse, sovrappensiero, e si abbassò verso il frigo sotto il bancone, e ne trasse un barattolino di panna fresca. Lo guardai con aria
confusa e mi voltai verso Kurt, che sorrideva divertito.

Ma che diamin…

Lo aggiunse al mio miscuglio, non ho idea di quanto ne mise, e poi mescolò di nuovo con la cannuccia, assaggiandolo a modifica completata.

« Porca… » esclamò, dopo aver deglutito. Non terminò la frase ma si voltò verso di me.

« Cosa? » domandai, lievemente confuso da tutto quel testare-le-mie-inutili-creazioni generale.

Burt mi prese per una spalla.

« Hai creato un nuovo cocktail da aggiungere al nostro menù. » disse Burt e, sinceramente, mi misi a ridere, convinto fino all’ultimo che si
trattasse di uno scherzo.

Quando vidi che nessuno degli altri due rideva, mi fermai imbarazzato.

« Cioè… non stai scherzando? » mormorai, guardandolo di sottecchi e fissando il bicchiere che teneva in mano.

Burt sorrise ancora. Ed era così strano vedere, di colpo, tutti quei sorrisi, tutta quella fiducia, tutto quel credere in me, tutto quel riuscire, che
dovetti uscire dal bar. Mi avviai silenziosamente sulla porta, lasciandoli lì senza una spiegazione. Mi appostai sul marciapiede davanti al locale,
mentre le persone mi passavano dietro e le macchine mi sfrecciavano davanti.

Era troppo, probabilmente, tutto in un giorno.

Troppa positività, da vuoto a pieno tutto in un colpo, troppo affetto, troppe aspettative, troppo… esistere.

Ero abituato ad essere una specie di ombra per strada, qualcuno che per lo stato quasi non aveva ragione di essere. Ero solito vivere come
nessuno e dover rendere conto solo a me stesso. Non ero da tanto tempo quello che stavo tornando ad essere con loro, ed era una full immersion
troppo violenta. Addirittura riuscirci mi scioccava.

Non ero mai stato in grado di fare nulla in maniera eccellente.

Almeno non più eccellente di Cooper.

« Ehi. » la porta del bar si era aperta e chiusa alle mie spalle. Era ovvio che Kurt mi avesse seguito, era la fata dei dentini, sprizzava bontà da
tutti i pori, non mi avrebbe mai lasciato sconvolto e confuso sul marciapiede dinanzi casa sua.

« Mh. » risposi, rigirandomi tra le mani un sassolino che avevo trovato a bordo marciapiede. Guardavo davanti a me e cercavo di darmi un
contegno, ma era veramente difficile accettare tutto quel ben di Dio che mi stavano offrendo. Era bello, anzi, bellissimo, ed era proprio quello il
problema. Non che nella mia vita precedente non fossi mai stato felice, era che a nessuno era mai importato.

« Che succede? Se non vuoi che il tuo cocktail finisca in lista non hai che da dirlo, Blaine, mio padre non si offenderà, ne abbiamo a decine. » disse
Kurt, e si sedette accanto a me, guardandomi ed aspettando che trovassi il coraggio e l’abilità di mettere assieme le parole giuste una dopo
l’altra.

« Non è questo. » spiegai, alla fine, passandomi una mano tra i capelli, tic che mi veniva quando ero messo sotto stress, e continuando a fissare la
strada. Kurt piegò la testa da un lato, ed assunse un’espressione confusa. Lo vedevo solo con la coda dell’occhio, ma aveva tutto l’aspetto di un
cagnolino, e la cosa mi fece quasi ridere. « E’ che non sono abituato a tutta questa fiducia, queste aspettative. Tutta questa improvvisa felicità.
Non siete nemmeno la mia famiglia, perché siete così gentili? Io non lo capisco. » spiegai, e sentii Kurt ridacchiare lieve al mio fianco.

« Blaine, credi sul serio che solo la famiglia possa renderti felice o volere la tua felicità? » chiese.

« Bè, ho sempre creduto di sì. Voglio dire, avevo degli amici, questo sì, ma non si erano mai sentiti in dovere di volermi felice. Infatti, non sanno
nemmeno della mia omosessualità, sono scappato e non ho detto nulla a nessuno, e dubito che i miei abbiano reso la cosa di dominio pubblico.
Nessuno dei miei amici è venuto a cercarmi, mi domando cosa gli sia stato detto. Magari che sono partito per… la Papuasia. Meglio dire che sono
andato a studiare una lingua morta, piuttosto che sono gay, suppongo. » spiegai, ma non seppi perché andai a parare di nuovo su
quell’argomento. Ero un disco rotto.

Che palle.

« Non è che perché i tuoi amici non ti hanno cercato non ti volevano felice. Magari, pur essendo lontano, pensano che la scelta sia stata per la tua
felicità e sperano tu sia contento. » azzardò Kurt, facendo spallucce ed avvicinandosi a me, in modo che potesse guardarmi in faccia anche se io
non volevo guardare lui.

« Infatti la scelta è stata per la mia felicità. » ribattei.

Kurt sospirò.

« Allora vedila così: siamo la tua… nuova famiglia. » sorrise, e pareva gli fosse difficile pronunciare quelle parole. Io scossi la testa ridendo.

« No, per carità, una basta ed avanza. »

Kurt si alzò in piedi e si sbattè i pantaloni, tendendomi una mano, con gli occhi che scintillavano ed un sorriso incoraggiante stampato sul volto.

Perché faceva così?

Perché sembrava costantemente una specie di angelo sceso dal cielo per rendere la vita di chi fosse stato così fortunato da incontrarlo migliore?

« Ne hai provata una soltanto, come fai a sapere che fanno tutte schifo? » mi provocò. Scoppiai a ridere e dovetti guardarlo negli occhi, vedendo
specchiata nelle sue iridi cerulee la voglia di vivere che avevo avuto un tempo e che ora andava avanti per inerzia, alla ricerca di un vero motivo
per fare tutto ciò che stavo facendo, e sperai che, con quel contatto oculare, me ne prestasse un po’. Poi gliela avrei restituita con il tempo, con la pazienza.

« Vaffanculo, Kurt, hai sempre la parola giusta da dire. » sospirai e sorrisi, afferrando la sua mano, che era morbida e mi sostenne bene mentre
mi alzavo e tornavo dentro al bar con lui.

Bastardo dall’aspetto d’angelo era, quel ragazzo.

 






Era ormai l’ora di apertura, ed era quindi il mio primo vero giorno di lavoro. Dovevo gestire la clientela, imparare il prima possibile i nomi dei cocktail ed i loro componenti e servire ai tavolini collocati alla fine della stanza.

Burt mi lanciava occhiate e mi diceva ciò che dovevo fare ma, grazie a Dio, quel locale non era particolarmente frequentato, ed non dovetti diventare eccessivamente pazzo. La cosa era gestibile, e mi divertii perfino.


Kurt rimase quasi tutto il tempo in giro, ogni tanto faceva qualche ronda per i tavoli a sparecchiare per darmi una mano, ed ero felice di poter

lavorare al suo fianco almeno un po’. Era bello, mi faceva sentire bene e me ne fottevo altamente della ragione.

D’altra parte doveva esserci una ragione per quella felicità che mi partiva dalla punta dei piedi e mi scaldava la pancia? Ma chi se ne frega, voglio
dire.

Verso le sei Kurt dovette uscire a comprare del materiale per le sue lezioni di musica in clinica, e abbandonò il locale, salutandomi con la mano e
dando un bacio sulla guancia a Burt.

Mi sentii, per qualche strano motivo, privato di qualcosa. Quella dipendenza dalle persone stava peggiorando, e sì che ero rimasto diverso tempo
da solo, bastando a me stesso e bramando la compagnia del silenzio. Immagino che forse preferivo la compagnia di Kurt al silenzio, ed era quello
a preoccuparmi.

« Blaine, il tavolo cinque. » mi disse Burt, passandomi accanto e dandomi una pacca sulla spalla. Mi svegliai da non so quale maledetto incanto
ero caduto e ripresi il mio turno, non sapendo se essere arrabbiato con me stesso per ciò che mi stava succedendo dentro, o ridere, come avevo
sempre fatto, di tutto.

 






La serata procedeva bene, avevo rovesciato solo un cocktail addosso ad un omone con un chiodo nero addosso e un tatuaggio su metà viso, ed
ero inciampato solo un paio di volte. Niente di che.

Potevo considerarla routine.

Di colpo si aprì la porta con una violenza maleducata, ed entrò un ragazzo con i capelli biondi, lunghi fino alla fine delle orecchie, erano disordinati,
e lui aveva un aspetto emaciato, era pallido ed indossava dei vestiti scuri e sgualciti. Pareva essere appena uscito da un bordello o un campo di
concentramento.

Si avvicinò al bancone e mi guardò con due occhi grigi e spenti. Deglutii e mi imposi di non guardarlo storto, come ero sicuro di stare facendo,
perché io ero stato a lungo un barbone, i miei capelli erano un groviglio disordinato e non facevo una doccia decente da parecchio tempo, e sapevo
cosa voleva dire, a volte, essere disperati, quindi respirai a fondo e mi avvicinai a lui.

« Salve, desidera? » iniziai, come avevo fatto per tutte le ore precedenti. Lui mi guardò e si umettò le labbra.

« Una vita nuova. » rispose, sedendosi su uno sgabello. « E un whiskey bello forte. »

Assunsi un’aria curiosa mentre cercavo la bottiglia dell’alcolico sotto il bancone e lanciai un’occhiata a Burt, che mi annuì, voltandosi dall’altra
parte.

« Sembri afflitto. » commentai, versando il whiskey in un bicchiere e domandandomi cosa potesse essergli successo per ridurlo in quelle
condizioni.

A pensarci, un sacco di gente disperata entrava nei bar per bere e dimenticare. Credo di essere stato l’unico ad entrare e a voler ricordare tutto
ciò che era successo perché era stato l’inizio di una nuova vita.

Il ragazzo rise amaramente, mentre afferrava il bicchiere.


« La vita sa affliggere molto bene le persone, ci hai mai pensato? » disse, alzando lo sguardo solo un momento, e vidi la disperazione che
aleggiava sui suoi occhi.

Distolsi lo sguardo, perché non volevo farmi contagiare, e sorrisi.

Lui intanto terminò il suo bicchiere, ed un lieve rossore gli salì alle guance.

« Come ti chiami? » domandai.

« Sean. » rispose, ed alzò lo sguardo al cielo, sospirando. « Mi dispiace. » aggiunse.

« Ti dispiace? » chiesi confuso, cercando di adocchiare Burt, ma era troppo occupato a fare un giro di lavastoviglie e non mi vide.

« Sì. » disse Sean. « Per questo. »

Si mise la mano in tasca e ne estrasse una pistola. Non avevo abbastanza conoscenza di armi per dire che tipo fosse, ma ero piuttosto sicuro che
fosse carica e priva di sicura.

Alzai le mani in automatico, e lo guardai con aria ancora più confusa.

Burt si voltò, sorpreso dal silenzio improvviso calato nell’intera sala, ed i suoi occhi si ingigantirono.

« Già, calotta pelata. Ho una pistola. » rise Sean, sadicamente. « Ho una pistola! » gridò, e la puntò su Burt. Lui alzò istintivamente le mani, ed io
balzai in avanti per proteggerlo. Per proteggere l’uomo che aveva voluto salvarmi, ma Sean rivolse a me la canna dell’arma.

« Ah no, non credo proprio, nido di vespe. E ora, » disse, voltandosi verso il resto del bar ma continuando a controllare me e Burt. « mettete tutti
i soldi che avete sopra i tavoli. Tutti! E forse, forse, questa serata continuerà pacificamente com’era iniziata. » ordinò, sorridendo e quel sorriso
non mi piacque.

Tutti guardarono Burt, che rimase immobile, ed iniziarono a frugare nelle borse e nei portafogli per tirare fuori tutto il denaro che possedevano.
Una donna si mise a piangere.
« Perché butti via la tua vita? » dal silenzio emerse la voce di Burt, che teneva le mani alzate ma, come al solito, non si arrendeva. Non si era arreso con me, non si arrendeva con le persone.
Sean gli puntò contro la pistola.


« La vita ha buttato via me. » sibilò, e si avvicinò al bancone, voltandosi continuamente a controllare me e i clienti del bar.

Dovevo fare qualcosa.


Dovevo fare qualcosa.
Cazzo!

« Si può sempre rimontarvi in sella, con un po’ di pazienza ed impegno. » suggerì Burt, ma questo non fece altro che imbestialire ulteriormente il

ragazzo.

Quanti anni aveva? Era impossibile dirlo.

Era più giovane di me?

Più vecchio?

Meno fortunato e non aveva trovato Burt prima?

Magari sarei potuto diventare così anche io se non fossi entrato in quel bar. Chissà, magari in qualche anno.

« Stronzate! I genitori non tornano in vita, il tuo datore di lavoro non ti riprende in azienda e non posso fabbricare i soldi per pagare l’affitto a
quei due coglioni che mi hanno sfrattato! Sono tutte frasi fatte, oltretutto da idioti che non sanno un cazzo di come va la vita! Ed ora fuori i soldi.
» gridò. La vena sul collo gli pulsava violentemente, il viso rosso ed i muscoli tesi.

A cosa poteva portare la disperazione.

In seguito accadde la cosa più imprevista di tutte. Non mi era nemmeno passata per l’anticamera del cervello, eppure successe.

Kurt entrò dalla porta principale, lo sguardo sulla borsa dove stava frugando per mettere via qualcosa. Non si accorse di nulla, non vide lo scatto
che fece Sean non appena udì la porta aprirsi. Perché non aveva pensato a quell’evenienza.

Scattò, si voltò e premette il grilletto, mirando al ragazzo sull’uscio del bar.

Lo sparo riecheggiò nelle pareti, ma soprattutto riecheggiò nelle mie ossa e in quelle di Burt, che era scattato in avanti, gridando.

Tutto si muoveva al rallentatore.


























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Spazio Autrice:
Scusate il ritardo e...benvenuto cliff-hanger!
Non uccidetemi, ho dovuto farlo.
Spero di aggiornare più in fretta ora e che la storia vi stia piacendo.
Grazie per ogni recensione.

Noth

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Capitolo 9
*** I'd be a butterfly. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 9-










Sembrava essere stato tutto un sogno. Burt che si precipitava al capezzale di Kurt, tutti i clienti che urlavano e si nascondevano il viso, il non
riuscire a respirare, Sean che si puntava la pistola alla testa e premeva il grilletto piangendo.

Sembrava tutto accaduto una vita prima, mentre me ne stavo seduto nella sala d’attesa del pronto soccorso. Avevo accompagnato Burt, poiché
era in stato di shock ed avevo paura non riuscisse a ragionare lucidamente per via dell’ansia. Allora avevo chiamato la polizia, non seppi come
riuscii a mantenere tutta quella calma, forse perché Kurt non era mio figlio. Però mi ero trovato bene con lui, e Kurt era la gentilezza. Non poteva
morire, chi avrebbe salvato il mondo dall’apocalisse se lui non ci fosse stato? C’era bisogno di Kurt per andare avanti, in qualche modo ne ero
assolutamente certo.

I medici mi passavano davanti mentre Burt stava seduto sulla sedia accanto a me, immobile come un sasso, o un opossum che per salvarsi si
finge morto. Non s’azzardava a parlare, ed era la prima volta che lo vedevo così cupo, silenzioso e disperato da quando lo avevo conosciuto. Non
avrei mai detto che sarebbe potuto diventare così ma, evidentemente, Kurt era tutto ciò di cui davvero gli importava nella sua vita. Forse dopo
un divorzio difficile aveva ottenuto la custodia del figlio ed aveva aperto quella bettola nella speranza di guadagnare abbastanza da mantenerlo,
ma poi era intervenuta la mafia locale e li aveva minacciati con un elefante rosa.

Ci siamo, di nuovo.

Sparare stronzate nel tentativo di distrarmi da quello che temevo ultimamente mi veniva disgustosamente bene. E non era nemmeno il
momento giusto, mi sentivo uno schifo a pensare quel genere di cose mentre Kurt lottava tra la vita e la morte. Era così di cattivo gusto.

Che razza di persona ero?

Decisi di rimediare con una buona azione.

« Vedrai che andrà tutto bene. » dissi a Burt, mettendogli una mano sul ginocchio.

« Come puoi saperlo, ragazzo? » rispose lui, guardandomi negli occhi, e la cosa mi spiazzò. La maggior parte delle persone quando è triste,
preoccupata, addolorata o che so io, evita di guardarti negli occhi, perché è disarmante e a nessuno piace essere messo a nudo quando è più
debole. E dovetti ammettere a me stesso che Burt stava soffrendo come un cane. Lo vedevo nella curva che aveva assunto la sua espressione da
quando quell’uomo aveva sparato a Kurt.

Quanta disperazione, quanti errori.

E, se non avessi trovato quel bar, entro qualche anno avrei potuto essere stato io Sean, e sparare a qualcuno di innocente.

Decisi di non pensarci.

« Perché il mondo ha bisogno di Kurt. » indicai il cielo con il pollice. « Lui di sicuro non vuole portarcelo via prima del tempo. » spiegai, e Burt
inarcò le sopracciglia sorpreso.

« Non sapevo credessi in Dio, Blaine. »

Scrollai le spalle.

« Nemmeno io. »

Un medico con i capelli biondo paglia ed un pizzetto alquanto equivoco si avvicinò a me con una cartella clinica in mano ed un’aria grave.

Burt si alzò immediatamente, seguito da me intento a massacrarmi le dita delle mani, stritolandole tra di loro in una morsa nervosa.

« Come sta? »esordì il padre, guardando il medico con apprensione. L’uomo trasse un sospiro di sollievo.

« E’ salvo ed è sveglio. La ferita era meno profonda di ciò che sembrava. Probabilmente il ladro non aveva mirato e l’ha preso diagonalmente,
non piantando il proiettile in profondità. Lo abbiamo estratto senza grosse complicazioni, abbiamo sistemato la ferita e disinfettato il tutto. Dovrà
restare in osservazione un paio di giorni, ma tornerà presto a casa. L’emergenza è passata, ed è stato davvero fortunato. Ora credo che possiate
andare a vederlo, l’anestesia, come ho già detto, è finita. E’ nella stanza 347. » disse, azzardando addirittura un sorriso. Burt lo spinse quasi da
parte, oltrepassandolo con veemenza e raggiungendo la stanza del figlio, dal quale stavano uscendo diversi medici in camice bianco ed in
uniforme verdino menta.

Mi misi alle calcagna di Burt, standogli dietro e chiedendomi come potesse sapere così bene quale fosse la stanza senza aver chiesto nulla a
nessuno. Entrammo, e notammo immediatamente Kurt, pallido, disteso su un lettino candido ed i capelli spettinati ed incollati alla fronte.

Sembrava una creatura celeste caduta sulla terra. Come se si fosse fatta male nel suo viaggio per questo suolo indegno.

Ed eccomi che mi facevo i film di nuovo.

Che cosa c’era che non andava nella mia testa bacata?

Burt si sedette accanto a Kurt, non osò abbracciarlo, anche se vedevo che avrebbe voluto.

Quanto si poteva tenere ad un figlio? Era qualcosa che non sapevo, non mi era mai stato dimostrato.

Kurt spostò appena le testa con un’aria un po’ confusa.

« Cosa… cosa diamine è successo? » domandò subito. Non ci disse come stava, non fece una battuta per sdrammatizzare e nemmeno ci salutò.
Forse l’anestesia lo rimbambiva un po’, o forse, semplicemente, c’era così tanta confusione nella sua testa che la cosa non mi sorprendeva.

Mi avrebbe sorpreso piuttosto se avesse chiesto di vedere un pinguino appena sveglio. Ma forse neanche più di tanto, visto che l’effetto
dell’anestesia doveva essere più o meno quello provocato da un allucinogeno.

Burt si passò una mano sulla testa lucida e sospirò, non sapendo esattamente che pesci pigliare, confuso anch’egli dall’accaduto, visto che non
aveva avuto tempo di metabolizzarlo. Un attimo prima stavamo servendo dei normalissimi clienti, ed un attimo dopo un ragazzo disperato aveva
minacciato l’intero locale e sparato al figlio del proprietario.

E, forse, il mio unico quasi-amico.

Pensai di intromettermi e spiegare l’accaduto. Sicuramente ero il meno emotivamente instabile, per via del fatto che il mio bar non era stato
quasi derubato e mio figlio quasi ucciso e nessuno mi aveva sparato, senza il quasi.

Però non me la sentivo di interrompere la familiarità di quel momento, di quel semplice stare accanto al letto di Kurt. Mi sembrava di non voler
e non poter far parte di quel quadretto.

O forse, semplicemente, non mi andava di spiegare perché con le parole non ero mai stato bravo.

Ma quanto mi piaceva romanzarmi le cose?

Sorrisi tra me e me come un ebete ma, per fortuna, nessuno mi vide.

« Fatti spiegare da Blaine, sinceramente non so nemmeno come è iniziato. E… sto ancora cercando di riacquistare un po’ di sangue freddo. Non
capita tutti i giorni di vedere tuo figlio che si prende una pallottola in corpo dal primo svitato che entra nel pub. »

Kurt rise lievemente, senza essere realmente divertito, ed irrigidendosi quando la risata arrivò alla zona dei punti. Il suo sguardo si spostò su di
me, e mi sentii decisamente fuori posto. Mi passai una mano tra i capelli e, solo allora, mi resi conto di non avere con me la mia chitarra.

La avevo dimenticata al bar.

Era una dimenticanza imperdonabile, e non potevo credere di avere dato più importanza a Kurt che a Ellie. Non era mai successo, non vi era mai
stato nulla di più importante nella mia vita.

Qualcosa non mi tornava, qualcosa puzzava davvero di marcio sul mio attaccamento a quella famiglia.

« Blaine? » esordì Kurt, che notò il mio silenzio ed il fatto che non riuscivo a mettere assieme una parola dopo l’altra come una specie di ubriaco.

« Ecco, io… Come stai? » domandai, non essendo in grado di parlare di quell’uomo. Chiunque avrebbe usato parole spregevoli per descriverlo, lo
avrebbe disprezzato, ma non riuscivo a fare a meno di pensare che poteva essere stato solo molto sfortunato, come me, ed essersi trovato nella
situazione sbagliata.

Continuavo a ripetermi che sarebbe potuto succedere anche a me senza troppi problemi.

Kurt sbattè le palpebre, ancora più confuso, ma alla fine rispose:

« Bene, cioè, potrebbe andare peggio. Sono vivo, sto una meraviglia. » scrollò le spalle, cercando di non solleticare il punto ferito al lato del suo
bassoventre.

Ridacchiai per nessun motivo in particolare.

« C’era una ragazzo… » cominciai, non sapendo bene come iniziare il discorso.

« … Che come me, amava i Beatles e i Rolling Stones? » continuò Kurt, sorridendo.

Inarcai un sopracciglio.

« Non sapevo fossi un amante di quei gruppi. »

Kurt rise, e tossì in seguito, portandosi una mano sulla pancia e contorcendo la faccia.

Mi morsi l’interno della guancia.

Più aprivo la bocca e più facevo danni, dannazione a me!

« Era una canzone italiana. » rispose, guardandomi con il solo occhio che aveva avuto la forza di aprire. Pian piano il dolore sembrò calmarsi ed il
viso di Kurt riprese un’espressione normale.

« Sei seriamente ferrato pure in musica italiana? » domandai, avvicinandomi e mettendomi accanto a Burt.

Kurt assunse un’aria casuale.

« Mah, di tanto in tanto. » rispose. « Comunque va’ avanti. » aggiunse, e si mise comodo contro lo schienale.

« Come dicevo c’era un ragazzo. Lui… non sembrava stare troppo bene, allora è entrato e ha semplicemente ordinato un whiskey dopo aver fatto
tutto un discorso sulla vita. Di colpo ha tirato fuori la pistola, ha minacciato l’intero bar, e ha detto a tutti i clienti di tirare fuori tutto ciò che
avevano in borsa. Chissà perché non ha chiesto la cassa, forse aveva intenzione di svuotarla dopo ma… Poi sei entrato tu. E lui non si aspettava
che entrassi, non aveva previsto una cosa così stupida ed ovvia, sarebbe potuto entrare chiunque. E nulla, è schizzato e ti ha sparato. Dopo aver
visto ciò che aveva fatto si è sparato anche lui. Ed ora… eccoti qui, fortunato come sempre, e vivo, grazie a Dio. » terminai, trovandomi a
dondolare goffamente sui talloni. Che stavo facendo? Non era un’interrogazione.

Kurt apparve pensieroso.

« Se non fossi entrato la rapina sarebbe andata a buon fine. » mormorò.

Burt roteò gli occhi al cielo.

« Sì e tu non saresti qui e, a dirla tutta, un uomo non si sarebbe suicidato. » borbottò, mettendo una mano sulla spalla del figlio e sospirando
rumorosamente. « Sono contento che tu stia bene, Kurt. »

Lui sorrise al padre, gli occhi lievemente lucidi ma nessuna lacrima, e fu allora che me ne andai. Fu allora che decisi che sì, era una bella famiglia,
ma non era la mia.

 

***

 

Lavorare al bar mi piaceva, sapevo solo quello – oltre al fatto che avevamo rimosso a fatica qualsiasi traccia di sangue che ricordasse l’accaduto –
e Kurt era tornato a casa da qualche giorno, ma Burt gli aveva impedito di andare a lavorare e quindi lui era rimasto tutto il tempo chiuso in
camera. Nel frattempo io mi ero fatto una doccia, e mi era sembrato davvero che cantassero gli angeli. Era come se fossi stato purificato, sul
serio, l’acqua mi aveva fatto un effetto da brividi addosso. Soprattutto bollente al punto da arrossarmi la pelle.

Incredibile era come i capelli avessero lo stesso aspetto e non si fossero sciolti da tutto quell’aggrovigliamento.

Finii il mio turno e tornai di sopra, lasciando che Burt, giù, finisse di chiudere le porte a chiave e tutto il resto. Arrivato al piano superiore sospirai
esausto. Quella vita era bella, era nuova, ma non si poteva dire non fosse stancante. Mi appoggiai al muro e, per un istante, mi domandai dove
fosse la camera di Kurt. Poi ebbi un flash e ricordai. Mi levai le scarpe all’ingresso e mi diressi verso la stanza, dove notai la luce ancora accesa
nonostante l’orario improponibile. Cacciai la testa dentro per prima – per controllare che Kurt non fosse sul serio un vampiro come avevo
ipotizzato all’inizio o che fosse tipo andato a Narnia nel frattempo e, con quell’armadio che si ritrovava, non sarebbe nemmeno stato difficile – e
lo vidi, invece, seduto sul letto che scriveva, con la lingua fuori da una parte – probabilmente senza accorgersene – e non si accorse nemmeno
che ero arrivato, alzò lo sguardo solo quando mi avvicinai a lui.

« Che combini? » iniziai, sentendo la stanchezza delle ore di lavoro e la voglia di affondare la faccia sul cuscino e sognare qualsiasi cosa la mia
mente avesse voglia di elaborare.

Kurt indicò il foglio di carta, e solo allora notai che era uno spartito pieno di note e cancellature. Kurt stava componendo.

« Uhm, non sapevo componessi. » affermai sbalordito.

« Pensi di conoscermi così bene dopo una settimana? »

« Uhm, diciamo di sì. » gli feci il verso e mi buttai sul letto accanto a lui. Chissà perché la mia parte di lenzuolo era incredibilmente stropicciata ed
il mio cuscino sembrava la cava di un troll.

« Che finezza. » commentò, trattenendo una risata esasperata. Sospirò e continuò: « Comunque sì, compongo, sono diplomato in pianoforte,
signor io-so-tutto-sono-un-veggente-molto-fico-e-perspicace. »

Continuava a darmi dei nomignoli assurdi di una lunghezza incommensurabile.

« Mi hai appena dato del “molto-fico”. » puntualizzai, e lui alzò un sopracciglio, sul punto di strozzarmi, se non fosse per il fatto che
probabilmente una lotta all’ultimo sangue non avrebbe giovato alla sua ferita.

« Ti stavo imitando, Blaine. » spiegò, tenendosi la radice del naso.

« Ehi, guarda che non è colpa mia se non riesci a ignorare l’ovvia attrazione che provi nei miei confronti. » feci spallucce, e parlando quasi mi
mangiai il cuscino.

Ero stanco, ero esausto, volevo soltanto prendere sonno.

« Certo, Casanova. » roteò gli occhi e ripose il suo spartito da un lato, resosi conto forse solo in quel momento dell’ora o per lasciare dormire me
che ero assolutamente sfinito.

Si distese a pancia in su accanto a me e spense l’abat-jour sopra il comodino. Intrecciò le mani sopra il letto, si voltò verso di me e scoppiò a
ridere.

« Che scè? » domandai.

« Stai sbavando sul cuscino, cretino. » continuò a ridere, e sentimmo la porta d’ingresso spalancarsi e chiudersi. Burt era tornato, e chissà se
andava a dormire o a passeggiare o Dio solo sa che faceva. Mi addormentavo sempre prima di scoprirlo.

Mi pulii con il braccio, cercando di non diventare color melanzana – dato che invece di arrossire assumevo, per l’appunto, un colore che ricordava
quell’ortaggio – ed assunsi un’aria stizzita.

« Ho sonno, scusa eh. » mi lamentai, e lui tornò a guardare il soffitto.

Ogni tanto mi chiedevo che gli passava per la testa. Forse nel suo cervello c’era di più delle rondini, dei calzini sporchi e dei bicchieri da lavare che popolavano il mio.

« A coscia penfi? » gli chiesi, tenendo la guancia spiaccicata sul cuscino soffice, che mi appiattiva i ricci contro la guancia e diventavano ispidi e
ruvidi, come il pelo dei cani.

Lui soffiò dal naso, come se cercasse di non ridere.

« Che inizialmente non sapevo cosa aspettarmi dal fatto che avresti iniziato a vivere qua. Voglio dire, chi sei? Chi ti conosce? Mio padre è
diventato pazzo? Però eri simpatico, tutto sommato un buon lavoratore, avevi voglia di fare e c’era qualcosa di particolare in te che mi diceva di
non buttarti via subito, di aspettare, che sarebbe arrivato qualcosa di molto buono. In realtà credo di aver già visto uno dei lati migliori di te. In
clinica, mentre cantavi, ricordi? Però non so, è come se, per la maggior parte del tempo, lo tenessi nascosto. Sto farneticando, magnifico. »
terminò, portandosi una mano sugli occhi.

Ero finito in psicanalisi?

Seppellii la testa sul cuscino e non risposi.

« Vedi? Lo fai di nuovo. Sei uno struzzo. » poi aggiunse, per smorzare l’atmosfera. « Uno struzzo con tanti capelli. »

Arricciai il naso. Avrei dovuto offendermi? Decisi che ero troppo stanco, e sorrisi esausto, chiudendo gli occhi.

« Credo che nessuno avesse mai voluto sapere come fossi davvero, alla fin fine. Nemmeno io, credo. » spiegai, a metà tra uno sbadiglio e la voglia
di non parlare di me e di quelle cose così intime, perché parlarne rafforzava i legami, e quello tra me e Kurt stava bene così come stava. Lo avevo
già detto.

Lui sospirò.

« Bè, è un peccato, perché credo che ci sia davvero molto da sapere e da scoprire. Cose che, forse, non vuoi sapere neanche tu. »

Scoppiai a ridere, aprendo infine gli occhi per notare che lui si era unito a me con una risata silenziosa.

« Credi di essere in una favola, Kurt? » domandai, e lui si voltò verso di me, improvvisamente serio. « Perché mi vedo in dovere di dirti che non
sono un personaggio di nessuna fiaba, sono solo un ragazzo un po’ sfigato della quale alla gente è sempre comprensibilmente fregato poco o
niente. Ma non c’è nessun lieto fine o… strano principe azzurro per me. Non siamo in un libro, non sono un pavido protagonista. Se c’è qualcosa
da scoprire su di me non sarà né di più né di meno del normale. »

Questa volta fu Kurt a scoppiare a ridere.

« Che c’è? » domandai, chiedendomi ancora una volta se avrei dovuto offendermi.

Lui si mise una mano davanti alla bocca e mi guardò, così che riuscii a vedere davvero da vicino le iridi brillanti dei suoi occhi.

« Semplicemente non c’è nulla di normale in te. » spiegò, e feci per tirargli un pugno leggero sulla spalla. Lui lo scansò.

Ricadde il silenzio, e quasi mi addormentai, ma poi mi sentii parlare, ma fu come se non fossi molto sicuro di essere io, come se stessi sognando.

« Sai, vorrei essere una farfalla. E allora rivivrei all’infinito il giorno in cui sono entrato nel bar di tuo padre. Lo rivivrei all’infinito perché è la
cosa migliore che mi potesse capitare, e se dovessi scegliere un giorno in cui vivere, probabilmente sceglierei quello. »

Poi un sospiro ed il buio, con il dubbio di aver parlato sul serio.



















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Spazio Autrice:
Scusate, lo so che aggiorno lentissimamente e che Nobody Said it Was Easy è ferma da un pezzo, però tra i video, e le vacanze, e il lavoro schizzo.
Inoltre sono abbastanza presa dalle scelte per l'università e tra il Giffoni e il viaggio a Londra a parlare con le scuola sono pienissima!
Farò del mio meglio, godetevi questo intanto!
Spero vi piaccia.

PS: Ho iniziato a pubblicare video dove faccio ciò che mi viene meglio, cioè la cretina, su youtube, se volete dateci un'occhiata.
http://www.youtube.com/user/doyouknowellie?feature=mhee


Vostra, 
Noth

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Capitolo 10
*** Lights in the sky. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 10-









Era domenica e, nonostante vivessi con Kurt solo da due settimane non avevo fatto eccessivi danni al bar – se non contiamo le
discussioni continue ed animate ad alta voce che facevo con Bessie, la macchinetta del caffè, che era ormai lampante mi odiasse
– così il mio nuovo coinquilino, o compagno di letto se preferiamo chiamarlo così, nonostante detto in questo modo sia un po’
equivoco, mi invitò ad accompagnarlo ad un concerto di una band in un locale non troppo distante. Disse che ci sarebbe dovuto
andare con Mercedes, ma quella sera aveva deciso di tornare in Ohio dalla sua famiglia, nella cittadina nella quale lui e lei si
erano conosciuti, alle superiori. La clinica la avrebbe gestita Puck per un po’, il ragazzo con la cresta. Come si poteva pensare di
lasciare tutti quei bambini in mano a quel ragazzone ancora rimaneva un oscuro mistero per me.

« Allora, verrai? » disse Kurt, mentre mi godevo la pausa che Burt mi aveva concesso, per tutta quella domenica, disteso sulla
poltrona di pelle con le gambe all’aria e a testa in giù. Lo guardai al contrario, osservando il modo in cui sbucciava la mela, con
concentrazione ma, allo stesso tempo, come se lo avesse fatto un milione di volte, e mi guardava in attesa di una risposta.

« Che band è? » chiesi, rischiando di ribaltarmi e cadere di testa sul pavimento.

Kurt sospirò e venne a sedersi di fronte a me, con le gambe incrociate e dando un morso al suo spicchio di mela.

« Non lo so, ma ho voglia di uscire. » rispose, facendo spallucce e guardando fuori dalla finestra.

Per un attimo colsi qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che mi mise a disagio, allora mi misi a sedere.

« Sei in una grande città eppure sembri in trappola. » commentai, prima che potessi ricordare alle mie labbra che avevo
bandito dai discorsi intavolabili quelli che potevano portare all’intimità reciproca.

Ecco perché ero finito a parlare di scarafaggi, chitarre, capelli e cetrioli tutto il tempo.

« Ho paura di essermi ficcato in trappola. » rispose, sospirando e finendo lo spicchio di mela con un sonoro morso.

« Uh? »

« Nel senso, » spiegò, come se avesse a che fare con un bambino piccolo. « che sono nella città dei miei sogni ma ancora non
sono riuscito ad essere preso alla NYADA, la scuola alla quale punto. Ancora sono solo, se non contiamo gli amici dell’Ohio che
sono venuti qua con me e, ultimo ma non meno importante, mi sento ancora incompleto. » terminò, e  puntellò le dita sulla
gamba con nervosismo. « Ma come siamo finiti a parlare dei miei problemi con il mondo avendoti chiesto se venivi con me al
concerto? » domandò poi, ridendo.

« Ho perso il conto di quante volte è successo. » roteai gli occhi. « Comunque, se ti consola, sono poche le persone a sentirsi
complete. Non è facile, e per la NYADA… so che, da come ne parlava mio padre, non era facile entrarvi. » cercai di confortarlo.

Kurt si voltò verso di me, arricciando il naso e corrugando la fronte.

« E tuo padre che ne sa? » chiese curioso. Io deglutii il nodo che mi si formava in gola ogni volta a pensarci e mi passai una
mano tra i capelli che Kurt, qualche giorno prima, aveva insistito per spuntare, e tra la barba che, per abitudine, avrebbe
dovuto esserci, ma non c’era. Avevo ricevuto l’ordine tassativo di darci un taglio con il look da boscaiolo trasgressivo.

« Mio padre… » cominciai. « Sai quando parlavo di studio legale? Era solo un modo per sviare il discorso. Lui… è un insegnante
della NYADA. Per la precisione il preside, e mio fratello… lui lavora lì come docente, in attesa di ereditare in qualche modo il
trono di quel regno di cristallo. Non voglio neanche sentirne parlare. » borbottai, e mi afferrai la radice del naso mentre venivo
colpito a ripetizione da flashback che cercavo di ricacciare alla meglio negli angoli più impolverati e meno visitati della mia
memoria.

Kurt sgranò gli occhi in un modo che mi fece quasi temere che stesse avendo una crisi epilettica.

« Pensavo… pensavo facesse l’avvocato! » esplose poi, fissandosi le gambe per qualche minuto e metabolizzando la cosa con
l’aria di chi ha appena visto Pennywise spuntare da un angolo con un costume hawaiano addosso.

« A volte vorrei lo fosse. » mormorai, in un tono di voce così leggero che a malapena mi sentii io stesso.

Kurt parve improvvisamente accorgersi di qualcosa.

« Ma allora perché tu non stai studiando alla NYADA? Talento musicale ce l’hai, i contatti pure e… »

Tagliai corto con un verso esasperato.

« Per il semplice fatto che odio i musical, ed è una cosa che nessuno sembra voler capire! » alzai le mani nervosamente.

Kurt trattenne un’espressione di puro orrore, che venne poi rimpiazzata da curiosità infantile.

« Quindi questo era un altro problema. » comprese poi. « A casa tua, dico. »

Si schiarì la voce nel notare la mia espressione in allerta.

« Tu che non vuoi seguire le orme del padre. Riesco a vedermelo mentre si aspetta che tu vada alla NYADA, come lui aveva
sempre voluto che facessi, e poi magari salta fuori che vuoi fare il meccanico. Riesco a vedere la reazione. » spiegò, e mi rilassai.

« Non è questione di meccanico, voglio comunque fare il musicista, solo non lì, non con lui. Mi dispiace di averti mentito a
riguardo, non mi sembrava il caso di usare il nome di mio padre per… non lo so, comprarti? Insomma, chi non conosce la
NYADA a New York? » iniziai ad infilarmi le scarpe, chiarendo che il discorso era finito e che l’avrei accompagnato al locale.

« Quindi sei incompleto anche tu. » disse poi, alzandosi in piedi e dirigendosi verso il tavolo dove aveva sbucciato la mela per
buttare gli scarti nel cestino e nascondersi in cucina.

« Così sembro un disabile. » brontolai, e Kurt rise dall’angolo fornelli.

« Il tuo cervello è sicuramente carente in certi punti. » mi provocò.

« Il mio cervello, come dici tu, sta benissimo! » ribattei, finendo di annodarmi le converse come meglio riuscivo, prima di
arrivare in cucina e di appoggiarmi sul bancone, vicino a Kurt, che si voltò verso di me e quasi ci scontrammo. Quel luogo era
decisamente troppo piccolo per due persone. Almeno lo era per gli spazi vitali appena concordati da me con me stesso.

« Comunque sì, vedila come vuoi, di sicuro non sono completo. » mormorai, perdendo di colpo ogni buon umore e respirando a
fondo sapendo di non potermi portare dietro la chitarra. Stranamente, se c’era Kurt in giro, sentivo sempre meno il bisogno di
portarmela appresso.

 

***

 

Nel locale c’era un chiasso infernale ed una mandria di ragazzi e ragazzae che si urlavano nelle orecchie per sovrastare
l’incredibile quantità di decibel che fuoriusciva dalle casse e che mi pompava nel petto come se ci fosse un terremoto.

Diciamo che era davvero parecchio che non frequentavo un posto del genere e mi sentivo abbastanza fuori luogo, anche se,
ovviamente, nessuno si era accorto di me vista l’incredibile quantità di folla nel posto.

Mi avvicinai a Kurt e gli appoggiai il naso sull’orecchio per parlare.

« Che cavolo di posto hai scelto? » strillai, e Kurt rise, facendosi strada tra la folla per avanzare più verso il piccolo palco al
centro del locale.

« Un posto dove posso fare ciò che voglio e non importerà a nessuno, nemmeno a me. » disse, e si mise a saltare e gridare
assieme alla folla, inneggiando al gruppo che non conosceva e del quale aveva scoperto il nome solo grazie a un volantino che gli
era stato consegnato nel pomeriggio del giorno prima, motivo per cui ora ci trovavamo lì.

Mi avvicinai a lui e mi sentii prendere da tutte le parti. Per una creatura solitaria come me quello non era esattamente un
luogo semplice, stavo facendoci l’abitudine, un po’ come si fa quando si entra in acqua e si prende la temperatura.

Di colpo salì la band sul palco. Erano quattro ragazzi vestiti con una T-shirt verde acido e dei pantaloni neri. Avevano i capelli
sparati in aria grazie al gel e ringraziavano la folla. Kurt si mise a gridare assieme a tutti gli altri, senza nemmeno sapere chi
fossero, senza nemmeno avere mai ascoltato neanche una canzone. Si era fuso perfettamente con la folla, e questo perché Kurt
era una di quelle persone che si integrava perfettamente nel mondo, fatto per esserne parte, non per sgomitarci in mezzo nel

tentativo di sopravvivere, come me.

Dopo una breve presentazione i ragazzi iniziarono a suonare ed il punk che usciva dalle loro chitarre mi invase i timpani. Kurt
aveva avuto ragione, era facile confondersi nella folla quando faceva tutta la stessa cosa. Bastava seguirla, se saltava tu saltavi,
se gridava tu gridavi, se ondeggiava tu ondeggiavi. Ed ecco perché se ti staccavi dalla massa venivi immediatamente
individuato ed etichettato come diverso. Ora ne capivo il meccanismo.

Iniziavo a sudare, e sentivo i corpi delle altre persone che mi si premevano addosso, saltando come una materia unica. La
musica mi sfondava le costole e mi rimbombava nel petto, e la voce graffiante del cantante mi strisciava sul timpani. Kurt era
accanto a me, e probabilmente non gli ero mai stato così vicino. I nostri gomiti, spalle, polsi e anche si toccavano e percepivo il
calore che emanava, assieme a quello di centinaia di altri corpi attorno a me. Le luci alternavano colori e si specchiavano sulla sua pelle chiara ed il sudore che aveva avvolto anche lui – anche se non avrei mai pensato che potesse succedergli – ed io percepivo ogni particella del mio corpo accendersi. Mi ritrovai presto a saltare e a gridare come tutti gli altri. L’adrenalina mi scorreva nel corpo come una droga, percepivo l’energia di Kurt che sbatteva freneticamente a tempo sulle mie costole e sulla mia spalla.

I suoi capelli non erano più in perfetto ordine – com’erano praticamente abituati a stare – ma saltavano a ritmo, un po’
incollati alla fronte sudata e un po’ intenti a riflettere le luci colorate che sparavano raggi a flash sulla folla. In più, la sua pelle
era lucida e i suoi occhi brillavano, attraversati dalle emozioni che solo un concerto, mentre te ne stai accalcato tra la gente e la
musica ti pompa nel sangue, ti può dare.

Era strano ad ammetterlo, soprattutto perché mi ero ripromesso di non pensarlo, ma Kurt era davvero bello.

Non per l’aspetto fisico, ma nella sua gamma di emozioni umane. Nel suo essere ciò che era.

Diedi la colpa di tutti quei pensieri al basso che mi rimbombava nella testa e tra le costole, per scacciare quell’emozione e
lasciare entrare la musica, dimenticando come fosse stare accanto a Kurt almeno per un po’.

 

***

 

Sudato come poche volte mi era capitato di essere e con una bottiglia di birra stretta in mano avevo seguito Kurt dietro il locale, dove avevamo scoperto esserci una sorta di parcheggio abbandonato. Era ormai notte fonda, nemmeno mi azzardai a
pensare all’ora, in realtà non m’azzardai a pensare a niente. Kurt saltellava per lo spiazzo, birra in mano, e canticchiava
qualcosa ridacchiando qua e là. Dovetti ammettere che non ci avrei mai creduto se non lo avessi visto: lui, il ragazzo della porta
accanto, il buon samaritano, il dolce ragazzino della clinica per bambini che il giorno nel nostro primo incontro mi aveva
comprato la colazione, ora era ubriaco e mi precedeva in uno squallido parcheggio.

Forse avrei dovuto rivedere le mie priorità, visto che se non lavoravo in un bar il resto del tempo lo passavo ubriaco.
Insomma, ero sempre con una bottiglia in mano: deformazione professionale? Ma certo, sembrava tutto molto più logico così.

Mi voltai indietro, ridendo, e sentii un tonfo. Tornai a fissare il parcheggio e vidi Kurt accasciato a terra, una massa ridente che
cercava disperatamente di mettersi comoda. Insomma, alla fin fine anche al ragazzino tutto casa e clinica piaceva divertirsi.

Lo raggiunsi barcollando e cercai di sedermi accanto a lui senza successo, capitolando al suolo di testa, ma senza ferirmi
eccessivamente, per fortuna.  La terra sotto di me ondeggiava, e l’aria era freddina e tendeva ad insinuarsi sotto i vestiti, ma
non riuscivo a sentirla con coscienza, l’alcool aveva fatto da morfina e mi sembrava di galleggiare in una sorta di zuppa calda.

Kurt continuava a ridere, come un singhiozzo incontrollato, e poi mi tirò per il braccio, così da distendermi, solo che finii con la
testa contro la sua, capelli su capelli, come se tra i nostri due capi vi fosse uno specchio.

Restammo in silenzio per un po’, o meglio, ridavamo ad alternanza senza alcun motivo, mentre le orecchie ancora mi
fischiavano e le varie bottiglie di birra ingurgitate iniziavano a fare effetto sempre più pesantemente su cervello e stomaco.

« Stelle. » disse Kurt, dopo un po’, con una parlata strascicata da barbone che si sarebbe addetta più a me che a lui. Ma questo
fu un pensiero che sfiorò appena la mia mente, come un’informazione passeggera e di poco conto.

Le sue parole strisciarono a lato del mio raggio d’attenzione e, dopo aver ruttato più o meno sonoramente, risposi:

« Che? »

« Le... le stelle, dai Blaine. » rise ancora, indicando con la bottiglia il cielo privo di astri. O meglio, loro forse c’erano, ma le luci
della città erano troppe e troppo forti per poter vedere il contrasto dei puntini che avrebbero dovuto stare nel nero che ci
sovrastava.

« Non ci sono le stelle. Non… è che c’è troppa, troppa luce artificiale. » risposi, bofonchiando e scuotendo la testa. Kurt fece
schioccare la lingua, e mi domandai come potesse riuscirci da ubriaco, visto che io nemmeno riuscivo ad alzare tutte e due le
sopracciglia contemporaneamente senza farmi venire un crampo ai muscoli facciali.

« Tu non le vedi, ma questo non vuol dire che non ci siano. »

« Un po’ come la cacca di cane per strada. »

Kurt emise un grugnito che stava a significare il tentativo di trattenere una risata poco opportuna.

Come faceva a mantenere ancora così tanto controllo di sé in quelle condizioni? Reggeva l’alcool infinitamente meglio del
sottoscritto.

« Sto cercando di… sto… sto cercando di fare un discorso serio, per tutte le balene! » sbottò, senza venire preso troppo
seriamente.

Iniziai a muovere le braccia e le gambe nel tentativo ridicolo di fare l’angelo nella neve sull’asfalto, e Kurt sospirò
rumorosamente, lasciandosi andare ad un colpo di tosse.

Sbuffai.

« Va bene, va bene ti ascolto! » esclamai, incrociando le braccia con fare burbero. L’aria iniziava a puzzare di alcool.

Kurt cominciò a rotolare, e così mi trovai costretto a girarmi a pancia in giù e ad alzarmi sui gomiti in equilibrio precario per
osservarlo.

« Ti ho portato fuori questa sera per un paio di ragioni. » disse, alternando le frasi ad una fastidiosa canzoncina. « Volevo
compagnia, volevo stare fuori fino a tardi e da solo non sarebbe stata una grande idea e poi volevo… volevo parlarti. » spiegò.

« Sono più di un paio. » puntualizzai, quasi scivolando e sbattendo la testa sul cemento mentre Kurt rideva.

« Vaffanculo, Blaine, sto cercando di fare un discorso. » cantilenò, come il lamento di un bambino con la propria madre.

« Bene, sono tutt’orecchi! » esclamai, roteando gli occhi e ridendo come se avessi appena fatto una splendida battuta.

Kurt mi guardò scettico, o almeno quasi, sembrava strabico e non ero sicuro stesse guardando me.

« Tu ce l’hai un sogno? » domandò a bruciapelo, piegando la testa da un lato e rotolando più lontano da me.

Ma la voleva sentire la risposta oppure no?

Mi vidi costretto a gattonare fino a lui, che se ne stava voltato, canticchiando tra sé e lanciando dei gridolini di gioia a intervalli
regolari.

« In che… che senso? » domandai, accasciandomi al suo fianco e sentendo il suo odore e il suo calore a pochi centimetri. Era un
po’ come quando stavamo a letto, solo che capivo metà di ciò che succedeva.

Kurt soffiò dalle labbra, come se avesse in mano uno di quei fiori che spargono batuffoli bianchi in aria.

Forse era l’alcool, ma giuro mi parve di vederli.

« Intendo, se c’è qualcosa che vuoi raggiungere, che ti piace, un sogno che hai da quando eri bambino che ti sprona ad andare
avanti… avanti ogni volta. Ogni volta che vorresti prendere e mandare tutto a… a puttane. » spiegò, e mi misi a ridere per lo
sforzo che stava facendo di mettere assieme parole con una certa coerenza, e risi anche perché non sapevo cosa rispondere.

La saliva mi andò di traverso e mi trovai a tossire quasi dovessi espellere l’anima.

Kurt si mise a cantare una filastrocca buffa su dei pappagalli, e lo sentii rabbrividire appena al mio fianco. Iniziavo anche io a
patire il freddo, dopotutto non è che mi fossi vestito eccessivamente pesante per uscire, e finchè era il concerto andava anche
bene, ma forse ora era un po’ troppo ventilato, ed io ero incredibilmente sudato. Con la piccola parte razionale che mi era
rimasta mi dissi che il giorno dopo avrei sicuramente avuto l’influenza, ma non la prendevo da molto tempo. L’ultima volta
avevo avuto dieci anni, e mamma non si era potuta prendere nessun giorno di permesso da lavoro per badare a me così,
mentre Cooper era a scuola, io ero rimasto da solo. Come al solito.

« Non lo so. » risposi, e non ebbi voglia di pensarci su. Ero così leggero in quel momento che non mi andava di tornare pesante
e sprofondare nel buio. « Perché mi chiedi una cosa del genere? » squittii, e mi sentii di colpo incredibilmente arrabbiato, senza
una ragione, sapevo solo che avevo voglia di incrociare le braccia e irrigidirmi, ma non riuscivo a trovare la strada per muovere
gli arti, quindi rimasi immobile.

« Perché mi sono trovato a chiedermi quale fosse il futuro che pianificavi tempo fa, se avessi mai sognato qualcosa di diverso,
una scuola, un lavoro, un posto… Il mio sogno… il mio sogno è incredibilmente importante per me, e quindi… mi sono chiesto
cosa fosse importante per te. Non puoi avere sognato di… di lavorare in un bar tutta la vita. »

Sospirai, fissando il cielo ed immaginando che ci fossero davvero le stelle di cui aveva parlato poco prima, ma senza successo.
Non le potevo vedere, forse non brillavano sopra New York.

« Non è detto che lav… lavorerò nel bar tutta la vita. » puntualizzai, e lui arricciò il naso sorpreso.
« Vuoi licenziarti? » chiese.

Ridacchiai, un po’ come un asino stonato.

« Non ci penso nemmeno, ma sai, la vita è piena di imprevisti e l’ho imparato a mie spese. Magari… magari domani un rullo
schiacciasassi guidato da una giraffa verde passerà sopra il locale di… di tuo padre. E non voglio illudermi che durerà per
sempre. » dissi, mordendomi il labbro inferiore. Percepivo l’alcool tornare diretto verso il cuore, come quella notte in cui avevo
conosciuto Burt, stava diventando una sbronza triste e amareggiata. Fantastico, se c’era una cosa che avevo imparato era che
non dovevo mai ubriacarmi nelle vicinanze di quella famiglia.

Non era più divertente come mi aspettavo.

« Sei proprio un idiota. » sbottò Kurt, lasciando cadere al suolo la bottiglia che teneva in mano. Non era poi così strano parlare
con lui senza vederlo, succedeva tutte le sere, al buio. Un po’ come un confessionale, e l’idea in quel momento mi fece ridere.

« Sempre al suo servizio. » risposi tra le risate.

Ci fu silenzio.

« Dai, ti prego, dimmelo. » mugolò, con un tono di voce a metà tra l’arrabbiato ed il curioso.

Perché così tante attenzioni?

« Perché è così importante? » domandai, esasperato.

Non ricordavo nemmeno più se avevo mai avuto un sogno, avevo abbandonato tutto dopo essermene andato di casa.

No, non era vero.

« Non lo so! » sbottò Kurt.

Non dissi nulla, e lui immaginò che non ne volessi parlare, così si ammutolì.

Passarono i minuti, finchè l’alcool non mi disse che era ora di tirare fuori le palle.

Fantastico, c’era voluta una gran dose di birra per farmelo capire.

« Da piccolo avevo un sogno. Mi innamorai della mia chitarra, e dissi che sarei diventato un musicista di importanza mondiale,
che avrei inciso i miei dischi e fatto i miei concerti. Avrei firmato autografi e i fan avrebbero fatto file di chilometri per fare una
foto con me e la mia chitarra. » spiegai in una sorta di cantilena.

« E perché non lo hai fatto? » chiese Kurt, come se fosse stata la cosa più semplice del mondo.

Io risi forte.

« Perché avrei dovuto studiare musica, e mio padre voleva che studiassi alla NYADA, ricordi? Che fa tutt’altra cosa, ed io non
volevo dargliela vinta. Non gliela… non gliela avrei mai data vinta. »

« Sempre da solo contro il mondo, eh? » sbottò Kurt in una risatina fatta di squittii. Aggrottai le sopracciglia.

« Forse, ma la ruota gira per forza. Un giorno o l’altro verrà il mio turno. » risposi, con una lucidità disarmante.

Kurt smise di ridere.

« E’ quello che dico anche io. » sussurrò.

Restammo in silenzio.

« Promettiamoci una cosa. » esordì poi.

« Uh? »

« Che arriverà presto il nostro turno, e ci aiuteremo. Ce la faremo, insieme, che dici? » propose.

Mi alzai sui gomiti per guardarlo in faccia, e dal modo in cui erano incurvate le sue sopracciglia, dalla piega della sua bocca e dal
luccichio nei suoi occhi – che poteva anche essere dovuto all’alcool – capii che non stava scherzando.

« E come faremmo? » domandai scettico, scivolando e sbattendo di nuovo la testa a terra e quasi graffiandomi una guancia.

Kurt sorrise, un sorriso di sfida.

« Non lo so. » ripeté per la millesima volta.

Sorrisi anche io, sorrisi e guardai il cielo con lui in quel parcheggio abbandonato, strizzai gli occhi nel tentativo di scorgere le
stelle e mi convinsi, mentre sotto di me tutto traballava confusamente, che dovevano esserci da qualche parte. Che se fossi
riuscito a salire abbastanza in alto da non essere offuscato da tutto quelle luci a neon dalla potenza di milioni di watt, avrei
potuto vederle anche io. Ed allora avrei cominciato quella scalata, non sapevo come, non sapevo quando, non sapevo se ce la
avrei fatta ma, al momento, nulla sembrava così importante come raggiungere quelle fantomatiche stelle delle quali Kurt
aveva tanto parlato.

Inoltre non sarei stato solo, no, avrei avuto un compagno, almeno per quella sera e per il giorno dopo, se si fosse ricordato, ma
tanto bastava a rendermi immensamente felice. 
























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Spazio Autrice:
Purtroppo ieri sera ero troppo stanca per settare l'html, così lo ho fatto questa mattina. Spero che il capitolo vi sia piaciuto,
sia questo sia quello dell'altra storia, e che comunque vediate finalmente delinearsi qualcosa. Insomma, a me piace da morire scriverla questa, ed è un toccasana, specie dopo Nobody Said It Was Easy. 

Un parere fa sempre tanto piacere, soprattutto in questi punti focali della storia.

Grazie di cuore!

Noth

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Capitolo 11
*** Are you in love? ***


Do You Know About Swallows
-Capitolo 11-









Il giorno dopo non avevo idea che Kurt mi avesse preso così sul serio. Io a malapena ricordavo ciò che avevo detto, lui invece sembrava una trottola, e girava a mille dopo essersi lamentato per una decina di minuti di un lieve mal di testa. Ma che infanzia aveva avuto per non sentire nemmeno un quarto del mio dopo sbornia? Insomma, mi sembrava avesse bevuto tanto quando me.
Infatti, io non riuscivo ad alzarmi dal letto. Avevo il naso tappato, probabilmente a causa del raffreddore preso per il freddo della notte prima, e la testa come un mattone schiacciata sul cuscino.

Kurt, invece, era in doccia e lo sentivo cantare qualcosa di disgustosamente moderno che non mi sarei mai aspettato di sentire nel suo repertorio.

Decisi che lo avrei seguito a ruota non appena avesse finito: avevo decisamente bisogno di dare una lavata alle mie idee e alla mia testa dolorante.

Sperai che Kurt preparasse il rimedio di acqua e limone che mi aveva dato quando ci eravamo conosciuti.

Fortunatamente, il lunedì era il giorno di chiusura del bar, un po’ per le pulizie, un po’ per dare modo a Burt di riposare, dopotutto non era più un ragazzino anche se sicuramente lui si sentiva tale. Avevo già deciso il giorno prima che, almeno nel tardo pomeriggio, gli avrei dato una mano a riordinare e a sistemare il bancone e tutto. Dopotutto glielo dovevo, e poi lavorare non mi dispiaceva così tanto. Si stava bene in sua compagnia, sembrava quasi…

… un padre.

Se ci pensavo troppo era come un pizzicotto dietro la nuca.

Cercai con tutte le mie forze di staccare la faccia dal soffice cuscino, ma tutto ciò che riuscii ad ottenere fu di mettermi in una posizione in cui mi era perfino difficile respirare e, se non fosse arrivato Kurt che usciva dalla doccia, probabilmente mi avrebbero trovato asfissiato a pancia in giù sul mio cuscino.

Una mano mi afferrò per una spalla e mi voltò a pancia in su, espirai di colpo e spalancai gli occhi, e fu una pessima idea perché la luce mi ferì gli occhi come se mi stessero puntando addosso una pistola laser. Mi coprii istintivamente, senza vedere nulla, e mugugnai dolorante.

« Sì, soffoca, cretino. E levati quelle mani dagli occhi che è tardi e non sono nudo, non ti preoccupare. » sbuffò Kurt, allontanandosi. Sentii il rumore della maniglia che apriva la finestra, seguito da uno sbuffo di venticello freddo. L’autunno volgeva oramai al termine, le foglie degli alberi erano quasi tutte a terra, in effetti, e presto avrei avuto bisogno di una sciarpa e dei guanti. Era incredibile che fossi riuscito a sopravvivere all’aperto fino ad allora, forse semplicemente non avevo avuto altre alternative, e mi ero dovuto adattare volente o nolente.

« Non era il fatto che sei nudo a preoccuparmi. » mi lamentai, stropicciandomi gli occhi e spalancandoli a fatica, lasciando che le macchie blu e nere si diradassero dal mio raggio visivo, e ci volle più di quanto mi aspettassi.

« Ah, già, probabilmente vedere uomini nudi è una prassi per te. » osservò sarcastico Kurt, infilandosi un maglione color paglia che creava davvero un bel contrasto coi suoi capelli.

Era così sveglio e scattante. Le cose erano due: o si drogava, o la sua doccia era magica e, dopo averla provata, non avrei scartato del tutto la
seconda ipotesi.

A dire il vero neanche la prima.

Ma che andavo pensando, si trattava di Kurt, dopotutto, non di un ragazzo qualsiasi.

Non riuscivo proprio ad immaginarmelo.

« Certo, effettivamente gli uomini amano scendere in strada nudi a prendere il giornale. » scherzai, fingendo un tono di constatazione, e Kurt rise silenziosamente mentre prendeva il phon per dare la piega che desiderava ai suoi capelli.

Cercai di alzarmi a sedere, senza risultati, e Kurt, dopo aver fatto roteare gli occhi al soffitto, mi aiutò tendendomi una mano. Mi sembrava di avere un altoparlante puntato nelle orecchie, e la testa pareva una boccia piena d’acqua. Ci mancava solo che sentissi un pesce muoversi dentro il mio cervello, almeno mi avrebbe assicurato che c’era vita lì dentro.

« Non è possibile che tu regga l’alcool così male, sei un barista! » sbottò Kurt, tornando a fissare lo specchio, che lo rifletteva da capo a piedi, posizionato accanto alla finestra.

Lo guardai scettico, per quanto fossi in grado di controllare le mie espressioni facciali.

« Non è possibile che tu lo regga così bene! » puntualizzai di rimando.

Lui si voltò, passandosi velocemente una mano tra i capelli castani e spegnendo il phon, per guardarmi con un’aria smarrita. Non so se fingesse di non capire o se sul serio non si rendeva conto di che genere di persona desse l’impressione di essere.

« Andiamo, Kurt, tu sei… il buon samaritano. » spiegai, sbadigliando e stiracchiandomi, cercando di assicurarmi di avere un certo controllo sulle gambe. Sembrava di sì.

Lui rise in maniera sorpresa.

« E che cosa sarebbe? » domandò, spruzzandosi una nuvola di lacca, della quale non sopportavo l’odore, sui capelli.

« Non lo sai? » chiesi, interdetto. Di solito ero io quello con mancanza di vocabolario forbito, non lui.

Mi venne voglia di rinfacciarglielo, ma avevo troppo mal di testa e feci una  smorfia sofferente.

« Non è che mi daresti quel rimedio all’acqua e limone che mi hai preparato il primo giorno? La mia testa sta… è come se ci stessero facendo un
concerto metal dentro. » sbuffai rumorosamente, tenendomi la radice del naso ed osservando Kurt che tornava in bagno a poggiare la spazzola, la
lacca ed il phon. Ci vollero un paio di minuti ma, senza dire nulla a nessuno, tornò con il miracoloso rimedio in una tazza con il muso di un cane
stampato sopra. Me la porse e mi trovai ad osservare l’animale. In primo piano c’era il naso e sembrava quasi che la bestia sorridesse, ma forse
quello lo vedevo solo io.

« E’ un husky. » spiegò, dopo avermi visto intento ad analizzare il cane a meno di due centimetri dalla mia faccia.

« Eh? »

« E’ la razza del cane. » aggiunse, con aria esasperata. Poi si sedette sul letto ed aspettò che bevessi.

Non riuscivo a staccare gli occhi da quella creatura pelosa, mi metteva incredibilmente di buon umore e mi pareva di essere tornato bambino, al
periodo in cui avevamo comprato Xabbi, il Golden Retriever da guardia che, in realtà, era molto meno imponente ed intimidatorio di come c’era
stato descritto. Diciamo che non era stato difficile ingannare i miei genitori, se ne intendevano poco o niente di cani.

Poi, infatti, era stato dato via senza ritegno a causa della sua inutilità.

Non era colpa sua se non era feroce, non era nemmeno la razza giusta ma, come ogni cosa che si rivelava non all’altezza delle loro aspettative,
mamma e papà lo avevano dato via.

« Ti sei innamorato? » domandò Kurt dopo un po’, passandomi una mano davanti agli occhi.

« Cosa? No. » risposi, e mi affrettai a bere la bevanda magica, accogliendo con un gorgoglio inquietante l’arrivo del liquido nello stomaco
scombussolato.

Kurt rise, e aspettò che avessi finito. Mi si iniziarono subito a schiarire le idee, ed era così sorprendente che cominciai a domandarmi se mi avesse
drogato.

No, Kurt non lo avrebbe mai fatto.

Non lo avrebbe mai fatto, vero?

« Bene, ora che hai finito possiamo andare. » disse. Scossi la testa per liberarmi dall’intorpidimento generale.

Poi realizzai.

« Possiamo? »

Perché aveva quella maledetta mania di trascinarmi in tutto ciò che faceva senza chiedere? Che scusa avrebbe inventato questa volta? Qual era il
suo problema? Si sentiva solo?

Poteva comprarsi un cane.

Forse però, a dirla tutta, alla fine sarei stato geloso del cane, e la cosa avrebbe sfiorato il ridicolo, perché mi piaceva passare il tempo con Kurt.

« Sì, ieri mattina ho ottenuto il permesso di mio padre per andare a comprarti dei vestiti. » annunciò. « Perché per prima cosa non puoi andare
avanti utilizzando i miei, soprattutto perché le maniche ti sono tutte troppo lunghe, e pure i pantaloni, e in secondo luogo è quasi inverno ed avrai
bisogno di coprirti. » aggiunse alzandosi dal letto e facendomi cenno di darmi una mossa e vestirmi.

« E come pagherò? » domandai, levandomi di dosso le lenzuola che mi si erano attorcigliate attorno alle gambe e cercando di alzarmi in piedi. Mi
passai una mano tra i capelli ma, nonostante fossero più corti, mi rimase ugualmente incastrata tra i ricci come in passato.

« Con il tuo salario, ovviamente. Papà è costretto a dartelo e, anche se buona parte verrà usato per pagare le tue spese, questo genere di acquisti
sono fondamentali per la tua sopravvivenza invernale, anche se papà ne è poco convinto. Diciamo che sono persuasivo. » puntualizzò, uscendo e
lasciandomi la privacy per cambiarmi.

Assurdo come lui si spogliasse e vestisse senza problemi davanti a me ma scappasse ogni volta che quello a denudarsi ero io.

Iniziai a temere di fare paura.

Shopping.


Una parola che non era mai stata adatta a me. Ma non avrei mai creduto neppure che dei semplici acquisti in compagnia potessero risultare così interessanti.

 

***

 


Avevo fatto promettere a Kurt che saremmo stati di ritorno per il pomeriggio, così che avessi potuto dare una mano a Burt. Mi sentivo
incredibilmente in colpa all’idea di comprare dei vestiti con i suoi soldi. Kurt si ostinava a ripetere che erano i miei soldi, e che me li ero guadagnati

lavorando lì in quel paio di mesi. In realtà, probabilmente, avrei voluto essere in qualsiasi altro posto che non fosse una boutique o un atelier. Ero gay, certo, ma questo non significava che dovevo eguagliare lo stereotipo di colui a cui piacciono i vestiti e adora lo shopping. Semplicemente per
me era interessante quanto l’osservazione del movimento di un bradipo. Anzi, forse quello era più interessante.

« Non so cosa ti piace, però. » si rese conto Kurt poi, dopo essere entrati nel millesimo negozio dove non trovavo nulla di interessante da provare.
In realtà, quello che indossava Kurt solitamente mi piaceva solo che, nonostante ultimamente avessi sempre avuto addosso vestiti suoi, non
riuscivo ad immaginarmi con abiti dal taglio così delicato. Erano creati per persone come lui, a me andava benissimo una T-shirt, dei jeans di
qualche tipo ed una felpa qualsiasi. Potevo tenere su tutto per settimane, ma immaginavo che non sarebbe stato d’aiuto per il quieto vivere di Burt
e Kurt.

« Avanti, dammi una mano. » si lamentò dopo un’ora che giravamo a vuoto e non facevo altro che rispondere a monosillabi ad ogni proposta.

« Ma non so, non sono mai stato bravo a scegliermi i vestiti! » risposi, estraendo una camicia azzurrina con i risvolti merlettati da un attaccapanni.

Kurt me le prese di mano e la mise a posto con un’aria disgustata, come se stesse nascondendo un cadavere.

« Questo non è possibile. » mormorò tra sé, sottovoce.

Si mise una mano sotto il mento, pensando con lo sguardo basso, mentre io davo un’occhiata al negozio. Era luminoso ed arredato con scaffali di
legno di betulla, chiaro e particolare. Tutti gli abiti erano divisi per colore, e le luci a neon a spirale attaccate al soffitto davano quel tocco di
moderno all’intero abitacolo. Incredibile come mi fosse risultato più interessante osservare quel luogo invece dei vestiti che vi si trovavano
all’interno, ordinati con cura. I commessi ci osservavano come avvoltoi, in attesa che gli chiedessimo aiuto o consiglio.

« Ho trovato. » sussurrò Kurt, improvvisamente, e mi afferrò per un polso, sgattaiolando fuori dal negozio salutando e ringraziando a malapena.
Provai a chiedergli cosa avesse trovato, ma senza ottenere una risposta. Sapevo solo che camminavamo velocemente per le vie di New York,
prendemmo la metropolitana e non mi guardò mai negli occhi. Mi domandai se avrei dovuto avere paura. Passammo per zone della città che non
riconobbi, attraverso stradine che mi sorpresi di non aver mai visto, al contrario di Kurt che sembrava avere l’intera piantina di New York tatuata
nella mente.

La cosa migliore era l’espressione costantemente eccitata che manteneva sul viso, probabilmente inconsciamente, senza accorgersene. Sentivo un
sorriso salirmi alle labbra, la consapevolezza di conoscere quell’espressione, la paura per a che cosa potesse stare pensando. Non potevo fare a
meno di restare, in un certo senso, ammaliato per il modo in cui i suoi pensieri trasparivano dal volto e per come le emozioni, su di lui, apparissero
come pennellate di colore sui suoi tratti somatici. C’era qualcosa di incredibilmente particolare in Kurt, anzi, ben più di qualcosa.

Insomma, in poco tempo era riuscito a farmi parlare di argomenti che avevo preso e ripiegato dentro di me come tovaglie sporche. Le aveva
srotolate lentamente, aveva acquisito la mia fiducia e, alla fine, avevo ceduto.

Con Kurt non si poteva non cedere, c’era qualcosa, qualcosa che distruggeva ogni barriera. La sgretolava, io avevo provato a resistergli, ma alla
fine avevo dovuto cedere.

La metropolitana si fermò e Kurt scattò oltre le porte e mi trascinò con sé, tenendomi strettamente per il polso, come aveva fatto per tutto il
viaggio. Cercai di stargli dietro, e ringraziai di non aver preso la mia chitarra, o stargli dietro sarebbe diventata un’impresa titanica.

A pensarci forse Ellie si sentiva sola, ultimamente avevo poco tempo per lei, e la suonavo sempre meno, essendo continuamente occupato con il
bar o con le folli idee di Kurt.

Mi piacevano le idee di Kurt, però.

Mi ripromisi di suonarla almeno dieci minuti prima di andare ad aiutare Burt quando saremmo rientrati. Glielo dovevo, quella chitarra mi aveva
salvato la vita, e pizzicarle le corde mi mancava immensamente.

Salimmo le scale ed uscimmo da sottoterra. Il cielo era ricoperto di una matassa di nuvole dai colori che variavano dal bianco al grigio, il vento
non era eccessivamente forte, ma abbastanza da sentirsi oltre il maglione di Kurt che indossavo e da scivolare sotto il risvolto della camicia e
solleticarmi la pancia, facendomi venire la pelle d’oca.

Mi diedi un’occhiata in giro e, tra gli alberi che spuntavano a casaccio ed i grattacieli che, come sempre, sovrastavano ogni cosa come silenziosi
guardiani, vi erano delle bancarelle, dei gazebi bianchi sotto ai quali stavano abiti vintage di tutti i tipi. La cosa buffa era che, in questa sorta di
mercato all’aperto, potevo vedere ogni genere di oggetti. Dai cavatappi alla lattuga. L’aria odorava di zenzero, erba tagliata e sandalo. Un odore
che mi piaceva considerare etnico.

Avevo girato per tutta New York, quando vivevo per strada, eppure non avevo mai trovato il mercato della città. Era davvero un posto
incredibile, sembrava di essere finiti all’ufficio oggetti smarriti.

« Perché siamo qui? » domandai, continuando a far saettare gli occhi da una parte all’altra di quel luogo fantastico.

Kurt allargò le braccia ad indicare tutt’attorno a lui.

« Perché è statisticamente impossibile che tu non riesca a trovare almeno un fottuto paio di pantaloni in mezzo a tutto questo. » spiegò, respirando
l’aria dall’odore così particolare a pieni polmoni.

« Okay, e su quali statistiche ti staresti basando? » chiesi, sorridendo ed assumendo un’espressione scettica. Dei piccioni ci volarono a qualche
metro e mi misi le mani sopra la testa istintivamente. Kurt roteò gli occhi e, con un sorriso trattenuto appena, mi prese per un braccio e mi trascinò
per le bancarelle, sicuro di avere finalmente trovato il posto perfetto per riuscire a farmi comprare qualcosa che avrei indossato.

Probabilmente avrei dovuto offendermi, perché alcuni degli abiti vintage che stavano appesi nelle bancarelle sembravano praticamente quelli da
barbone con i quali ero entrato per la prima volta nel bar quando ci eravamo conosciuti. Però, la verità era che quel genere di vestiti mi piaceva,
riuscivo a sentirli miei, invece di percepirli come un corpo estraneo ritagliato ed appiccicatomi addosso.

 

« Ma ti prego, questa felpa sarà stata usata da altre dieci persone prima di te! » esclamò Kurt, rifiutando di accettare le mie intenzioni a comprare una felpa rosso bordeaux con cappuccio ed una cerniera non propriamente fluida da chiudere. Però mi piaceva, e tanto. Profumava come quel mercato, di sandalo, di oriente, e la stoffa, nonostante fosse ovvio che fosse stata usata molte volte – dopo tutto era la bancarella dell’usato – era ancora morbida e discretamente elastica.

« Lo so, ma mi piace. » risposi, sfilandomela e rimettendomi il maglione di Kurt. Consegnai la felpa al venditore dai tratti asiatici e lui la ficcò, con un sorriso soddisfatto, dentro a un sacchetto di plastica, indicandomi i dieci dollari segnati sul cartellino del prezzo.

Mi voltai verso Kurt che, a malincuore, mi passò i soldi che suo padre gli aveva dato per me, e pagai il mio acquisto. L’uomo si mise le banconote in tasca e mi salutò cordiale mentre mi allontanavo e Kurt mi seguiva, sbuffando rumorosamente.
« Perché ti piace così tanto? » domandò, accelerando appena il passo per camminarmi accanto. Avevo in mano già cinque borse, e per me erano sufficienti.

« E’ unica. » spiegai, e lanciai un’occhiata alla felpa ripiegata dentro la borsa di plastica.

« Veramente ce ne erano altre dieci uguali. » borbottò Kurt, scuotendo la testa ed arrendendosi all’evidenza.
Ridacchiai tra me e me e decidemmo di prenderci un panino per pranzare, e sederci vicino ad un corso d’acqua. Fui felice di non essermi portato dietro la chitarra, perché assieme a quelle borse probabilmente sarei rimasto ancorato al suolo.

Il carrettino che vendeva hot-dog ci scambiò per una coppia, e canticchiò una canzone di dubbio gusto mentre ci serviva i panini e sorrideva sotto i baffi. Noi rispondemmo con dei sorrisi di circostanza e ci avventammo sul pane caldo e la carne avvolta dalla salsa.

Continuavo a pensare, il cervello che schizzava frasi su frasi alla velocità della luce, sovrapponendole e creando un puzzle sconclusionato nella mia mente. Capivo quanto avevo, e quanto ora potevo perdere.

Come tutto potesse sfuggirmi dalle dita come un banale filo di lana.

« A che stai pensando? » chiese Kurt, la mano davanti alla bocca per non lasciarmi intravedere ciò che stava masticando. Il vento si alzò di colpo, scompigliandomi gli incastratissimi ricci e spostando la piega dei capelli di Kurt. Era un vento strano, che viaggiava in circolo e alzava le foglie da terra. Quelle foglie arancioni e gialle ormai secche per via della vicinanza con l’inverno. Le forme vorticavano nel cemento, e Kurt ancora aspettava una risposta.

« Il vento è strano. » risposi, morsicando appena il mio hot-dog, senza riuscire a levarmi di dosso una brutta sensazione. Era come se qualcuno mi avesse spalmato della marmellata sulla schiena.
Disgustoso e viscido, ecco esatto.
Ed era arrivata tutta d’un colpo, come il vento, come un’idea. C’era e basta, senza un motivo, ma mi sentivo strano. Come se avessi avuto un ragno che mi si arrampicava sullo stomaco.

« Ehi, è solo vento, hai assunto un colorito da caglio del latte, che succede? » domandò, diventando istintivamente nervoso anche lui. Il cielo, che prima era stato semplicemente nuvoloso e batuffolato, ora era popolato da grosse matasse grigie che si stendevano per tutta New York e che non mi piacevano affatto. Il tutto era montato in un tempo infimo, come quando andavi in montagna e dal sole cocente passavi ad una pioggia incessante in pochi minuti.

« Blaine, che succede? » squittì Kurt, in un tono molto più acuto.

Guardai il cielo che si faceva scuro fino a diventare di una tonalità fango che non avevo mai visto. Mi aggrappai alla panchina, il mio istinto mi disse di cercare di stare ancorato a terra, eppure la testa mi diceva di muovermi, di scappare.

« Non ne ho idea. » risposi.




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Spazio Autrice:
Ho l'altro capitolo già pronto, eeeeh, le cose non si mettono poi bene come pensavo.
Non era in programma per evolversi così, ma c'est la vie!

Per chi volesse ripropongo la mia pagina di facebook:
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E il mio canale YOUTUBE.
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- n
oth

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Capitolo 12
*** Not you, no. ***



Do you know about swallows?
- Capitolo 12-









Mi ero alzato, avevo fatto cenno a Kurt di imitarmi ed eravamo corsi via. Non sapevo che stesse succedendo, ma il colore del cielo non era normale. Non lo avevo mai visto così, mai, e sapevo riconoscere le varie sfumature delle nuvole da pioggia, da grandine o semplicemente volte alla copertura del sole. Le avevo avute come unico tetto sopra la testa per diverso tempo, e quelle non erano nessuna delle sopraelencate.

Era qualcosa di più grosso, qualcosa di più potente.

Qualcosa che, ignorando quasi completamente la televisione negli ultimi tempi, non avevamo sentito arrivare.

Trascinai Kurt in metropolitana – sperando di riuscire ad arrivare al bar in tempo e nonostante lui continuasse a guardare il cielo scuro e il vento che vorticava al suolo sibilando e trascinando carte e cartine – e mi morsi l’interno della guancia per tutto il tragitto, sperando di essermi agitato tanto per nulla, ma, allo stesso tempo, sapendo di averne tutte le ragioni.

« Qualcosa non va. » esalò infine Kurt. Mi guardava con un viso serio che affilava i suoi lineamenti, e schiariva il colore dei suoi occhi in un modo che mi faceva paura.
Prima dell’avvento di quel cielo, le sue iridi non avevano mai assunto quel colore grigio tempesta.

Respirai a fondo e sperai che la metro fosse veloce come il vento. Non vi era molta gente, a parte per quella che si affannava a entrare, conscia del disastro atmosferico che era ovvio si stesse avvicinando e stesse per qualche motivo per abbattersi sulla città. La nostra fermata arrivò e scappammo fuori di filata, senza avere visto come all’esterno la situazione non fosse affatto migliorata. Quando sbucammo dalle scale che portavano di nuovo al piano terra della città, il cielo si era concentrato in vortici che non davano affatto l’idea di qualcosa di rassicurante. Il vento si era alzato, ed era talmente forte da far sventolare violentemente i vestiti di Kurt ed i miei, mentre camminavamo più veloci della luce verso il locale, ma non correndo, come a non accettare l’idea che ci fosse da scappare. Però da scappare c’era eccome.

Entrammo con le chiavi di Kurt nel locale chiuso, serrandoci la porta alle spalle e, finalmente al riparo da occhi indiscreti, ci affannammo al piano superiore, dove Burt non c’era, forse ancora fuori a passeggiare. Mi preoccupai all’istante per il fatto che non fosse ancora lì con noi. Kurt afferrò il telecomando e, per la prima volta da una settimana o giù di lì, accese la televisione sul canale delle notizie. Un uomo con i capelli brizzolati e degli occhiali rotondi stava parlando lentamente, chiaramente, come a cercare di fare capire a tutti le importanti informazioni che stava ripetendo.

« L’uragano Evanna si sta pericolosamente addensando sui cieli della Grande Mela. Entro mezz’ora già potremo vedere la sua furia distruttiva. Per chi ancora non si fosse recato nei vari rifugi disseminati per la città, consigliamo di affrettarsi. » l’immagine cambiò in una mappa puntellata con pallini rossi sui quali era scritto il nome dei rifugi. Tentai di convincere il cervello a collaborare e cercai il più vicino al locale. « Come ripetiamo ancora una volta, i preparativi per questo evento atmosferico sono avvenuti in incredibile ritardo a causa delle previsioni errate che dicevano che l’uragano non si sarebbe avvicinato alle coste New Yorkesi. Tuttavia, Evanna ha cambiato rotta e, da una settimana a questa parte, si è diretta verso la città ed ora manca sempre meno al suo impatto. Vi preghiamo di prendere quanto possibile e correre ai rifugi, così da rimanere protetti e uniti finchè il disastro non sarà terminato. »

L’uomo continuava a ripetere le stesse informazioni all’infinito, ed il nostro tempo diminuiva. Perché non avevamo acceso la televisione per tutta quella settimana?
Proprio quando non la avevamo guardata e non avevamo avuto tempo né voglia di leggere i giornali, ci eravamo trovati nella spiacevole sensazione di essere tagliati fuori dal mondo. Mi presi a schiaffi mentalmente e cercai di riprendermi dal torpore di terrore nel quale ero caduto. Mi mossi e scoprii che, dopo aver fatto il primo passo, gli altri venivano in fila. Afferrai la mia chitarra, l’unica cosa che potevo pensare di portarmi via.

Kurt, invece, non si muoveva. Osservava lo schermo con la piantina che pulsava di puntini rossi, e non osava cambiare posizione. Quasi mi chiesi se respirasse.

Feci un rapido giro nella nostra stanza, dove ancora c’era la brandina aperta nonostante non la avessi mai utilizzata perché Kurt aveva sempre insistito che fosse
infintamente scomoda e che, finchè non invadevo i suoi spazi durante la notte, potevo dormire accanto a lui.

Sperai con tutto il cuore che l’uragano non spazzasse via tutto quello.

Corsi di nuovo in soggiorno, dove Kurt restava immobile, e mi resi conto che quella era casa sua, lui non aveva solo una camera, aveva tutto lì, e suo padre non era
effettivamente ancora rientrato. Sospirai esasperato e lo presi per una spalla, scuotendolo. Lui non si mosse, forse lo shock doveva essere stato più forte di quanto non
avessi creduto.

« Kurt, Kurt dobbiamo andare via. » gli dissi, continuando a scuoterlo, e lui sbattè le palpebre velocemente, come se si fosse addormentato per qualche secondo.

Non mi rispose, si guardò semplicemente attorno e mormorò una parola a volume così basso che mi stupii di averla sentita.

« Papà. » ecco qual era il suo problema. Il legame familiare per lui era stato il primo pensiero, e questo, come al solito, era stato uno dei tanti motivi per il quale
eravamo immensamente diversi. Strinsi le labbra in una stretta violenta ed espirai dal naso, per evitare di pensare alla mia di famiglia, e spinsi Kurt verso la sua
camera finchè non iniziò a dirigervisi da solo. Tornò stringendo una borsa ventiquattrore che, sapevo benissimo, conteneva i suoi spartiti e tutta la documentazione
per tentare ancora una volta il suo ingresso alla NYADA. Prese infine una foto appesa sopra la televisione che ritraeva lui, suo padre e sua madre – della quale non
aveva mai voluto parlarmi ed io non avevo mai chiesto – quando lui era ancora piccolo. La ficcò nella borsa e tirò fuori il cellulare, componendo quello che
probabilmente era il numero di suo padre, e portandosi il display all’orecchio. Sentivo il suono ripetitivo dell’attesa prodotto dal piccolo altoparlante e non riuscivo a
non sentirmi in ansia per Burt. Mi schioccavo le nocche per l’agitazione.

Kurt si mordeva il labbro a ripetizione, e dal ricevitore non arrivava nessuna risposta.

Abbassò il telefono, frustrato.

« Con questo caos non riuscirà a sentire la suoneria. » azzardai, prendendolo per il polso e trascinandolo fuori dall’appartamento e giù per le scale con il viso di un
colore tendente al grigio, come i suoi occhi.

Kurt annuì, poco convinto, e si infilò violentemente il cellulare in tasca.

« A che gli serve un telefono se non risponde in momenti come questi? Cristo, sembra che quell’uomo sia programmato per sparire al momento meno opportuno. »
gridò, esasperato. Lo continuai a trascinare fuori, non chiuse nemmeno a chiave, perché se suo padre fosse rientrato almeno non avrebbe dovuto perdere tempo a
lottare con la serratura. Una volta giù cercai di capire quale fosse la strada più breve per raggiungere il rifugio più vicino.

Kurt prese in mano la situazione ed iniziò lui a tirarmi questa volta, sbuffando e cercando di non pensarci.

« Magari è già andato in un rifugio. » ipotizzai, e Kurt scosse violentemente la testa.

« No, la foto di me, lui e mamma era ancora lì. Ho dovuto prenderla io. Lui non l’avrebbe mai lasciata. » spiegò, con tono duro, e non aprì bocca per il resto della
nostra corsa, mentre il cielo si faceva nero e gli alberi si piegavano sempre più violentemente.

La strada ci sfrecciava accanto come fossimo dei fantasmi, e chissà, magari lo eravamo sul serio. La natura stava per abbattersi sulla città, sull’uomo, come sempre
faceva. Monito costante della sua presenza. Vedevo nei tratti tesi di Kurt una preoccupazione che lo prendeva sempre quando si trattava di suo padre. Non riusciva a
parlare ed era come se la sua anima benigna venisse improvvisamente oscurata da una nuvola.

Diventava un po’ come me quando si finiva a parlare della mia famiglia, ed era strano, perché una volta avrei detto che non avremmo potuto essere più diversi, ma
forse non era completamente vero.

Nell’aria cominciava a vibrare quell’elettricità statica tipica delle tempeste, ed iniziava ad asciugarmisi la saliva e a seccarmisi la bocca. Avevo paura. La natura era
quell’unica forza incontrastabile che era in grado di spazzare via centinaia di vite e luoghi che si erano creati con enormi quantità di tempo, fatica ed amore. Ed il tutto
in un battito di ciglia.

Il rumore della catastrofe rimbombò sopra di noi, ed accelerammo il passo della corsa per raggiungere il rifugio il più presto possibile. Raggiungemmo il parco
designato, e trovammo un’immensa folla raggrumata attorno alle altalene, senza comprenderne il motivo. Pensai di chiedere a Kurt cosa stesse succedendo – data la
mia ignoranza praticamente in ogni campo riguardasse quella città nonostante vi fossi cresciuto – ma poi vidi il suo viso che impallidiva, e capii che stava sondando la
folla alla ricerca di suo padre.

« Magari è in un altro rifugio. Può aver visto il servizio giorni fa, ed essere stato preparato, magari ha passeggiato per andare a… uno dei rifugi più lontani. »

Kurt scosse la testa, sospirando e mettendosi in fila con gli altri, sempre tenendomi per il polso e trascinandomi con lui.

« E’ un comportamento abbastanza irresponsabile da essere da lui, ma allo stesso tempo non mi farebbe mai preoccupare così tanto. E poi ci avrebbe avvisato della
catastrofe. E c’è la questione della foto.» spiegò, alzandosi in punta di piedi per scorgere l’entrata ai bunker sotterranei che avrebbero trattenuto la popolazione di quei
quartieri. Si trovava sotto il pavimento di legno delle altalene. L’intera impalcatura dei due dondoli era stata scoperchiata per liberare le aperture e le lunghe scale che
scendevano giù fino al vero e proprio corridoio di bunker sotterranei.

« Mh. » risposi, dopo un po’, raggiungendo l’entrata delle scale che scendevano, illuminate vagamente da delle lampade a neon. Attorno a me le persone parlavano,
gridavano, spingevano, tutto per riuscire ad entrare nelle cabine che avrebbero dovuto garantire la nostra salvezza. Un uragano a New York significava la perdita di
milioni di vite e di costruzioni, se non intercettato in tempo da far correre la popolazione ai rifugi. Questo me lo aveva ripetuto più volte mio padre, forse perché suo
nonno era morto in un uragano e lui non si era più ripreso. Ricordavo che i suoi occhi grigi diventavano improvvisamente ancora più spenti quando ne parlava.
Proprio per questo in famiglia avevamo sempre educatamente evitato l’argomento.

Il cielo sopra di noi era oramai nero, del colore degli occhi di mia madre, e per qualche secondo mi domandai dove fossero loro, se si stessero salvando o se sapessero
dell’uragano imminente.

Mi risposi da solo che probabilmente si trovavano in prima fila, incuranti degli altri, parte di una casta sociale troppo alta per venire messi ad aspettare il turno come
tutti. Il mio stomaco si attorcigliò dolorosamente a quel pensiero, all’idea dell’egoismo in cui ero cresciuto. Perché io non ero come loro?

« Signore, » mi chiamò un poliziotto adibito al mantenimento dell’ordine. « non può portare la chitarra, occupa spazio. »

Cercò di prendermi Ellie, ma la strattonai, sottraendola alla sua presa.

« Io senza di lei non mi muovo, quindi le conviene farmi passare se non vuole che io resti bloccato qui e che tutti noi finiamo in bocca all’uragano. » risposi, con tono
duro. L’uomo sospirò esasperato, e guardò il cielo scuro.

Una spinta poco gentile sulle mie spalle mi fece capire che la folla aveva già scelto per il poliziotto e, lanciando un’occhiata irata dietro di me, mi affrettai a seguire
Kurt giù per le scale di acciaio che percorrevano il tunnel di discesa. Questo era isolato da cemento armato sui bordi e quindi non puzzava di terra come avevo pensato
all’inizio, bensì sapeva di vernice.

Ancora peggio.

Sotto e sopra di me riecheggiavano voci sconosciute che gridavano nomi e strillavano alla gente di muoversi. Probabilmente i poliziotti che controllavano le entrate
stavano iniziando a spazientirsi e a diventare nervosi per quanto il cielo stesse assumendo una tonalità più simile alla pece che a quella che avrebbe dovuto avere il
cielo. Mano a mano che scendevo perdevo la vista di tutto ciò che mi si trovava sopra essendo seguito a ruota da un uomo, di corporatura non esattamente minuta,
che bestemmiava a ruota per la paura e mi gridava di muovermi più o meno ogni due scalini. Non era colpa mia se scendere con la custodia della chitarra in spalla non
era esattamente la più facile delle imprese.

Kurt arrivò a terra prima di me e, non appena raggiunsi la fine delle scale, mi aiutò a sfilarmi dal tunnel. Il corridoio dove eravamo atterrati era un cunicolo grigio,
costantemente illuminato da quei neon accecanti posizionati a una decina di metri di distanza l’uno dall’altro. Appena ci voltammo ad osservare l’ambiente vedemmo
che era puntellato di rettangoli dove avrebbero dovuto essere infilate delle porte su dei cardini, ma che erano rimasti vuoti come buchi di un groviera geometrico.
Dentro ad ogni porta doveva esserci una stanza dove ulteriori poliziotti, incaricati di organizzare il tutto, spingevano ed ammassavano le persone come bestiame,
rassicurando donne e uomini del loro essere al sicuro, e rispondendo con decisione ad ogni domanda loro posta.

Qualcuno ci picchiettò sulla spalla e ci voltammo in contemporanea, Kurt ancora con quel colorito bianco sul volto.

Dietro di noi una poliziotta con una cartella ci guardava con aria preoccupata.

« Nome e cognome di entrambi, per favore. » disse, le mani che tremavano, forse per la paura, e provai pena per lei in quel momento, costretta a lavorare, e magari
madre di una famiglia. Sicuramente era preoccupata per i suoi figli, o suo marito. O per se stessa.

« Kurt Hummel. » rispose Kurt, controllando la cartella nelle mani della donna in divisa nel tentativo di scorgere il nome di suo padre, anche se oramai era chiaro che
non si trovava lì.

La poliziotta annotò il nome e si volse verso di me.

« Blaine… Anderson. » dissi, quasi faticando a ricordare il mio cognome, sull’impatto del momento.

La donna mi squadrò, confusa, ed alzò un sopracciglio.

« Non… Blaine? » disse, ed io annuii, sorpreso da quella sua riluttanza nei riguardi del mio nome. Okay, non era tra i più belli del mondo, ma avevo imparato ad
accettarlo anni prima.

Doveva seriamente mettermi in difficoltà in quel momento?

Annuii, confuso.

« Peter! » chiamò allora la donna, ed un altro poliziotto uscì dalla stanza lì vicina, cercando di mantenere la calma all’interno dell’abitacolo a lui assegnato.

« E’ un brutto momento, Deliah. » si lamentò, ma la donna gli fece cenno di avvicinarsi in ogni caso, mentre ci scansavamo dall’uscita delle scale e cercavamo di non
intralciare il passaggio degli altri.

Il ragazzo, perché era davvero giovane, si avvicinò correndo, a malincuore.

« Per favore, prendi e segna tutti quelli che entrano, ho bisogno che tu mi sostituisca per una decina di minuti. Prenderò il tuo posto. » disse Deliah, e gli ficcò la
cartella e la penna in mano, non lasciandogli il tempo di replicare, poi mi prese per l’avambraccio e mi portò a poca distanza. Afferrai Kurt per la manica della giacca,
così che mi stesse accanto. Non avevo intenzione di perderlo nel mezzo del caos solo per via di una donna che aveva dei probabili problemi di spelling del mio nome.

« Cosa succede? » dissi tra i denti, confuso ed esasperato, mentre orde di persone mi passavano accanto nel corridoio, spingendo. Coloro che stavano nella stanza che
Deliah era dedita a controllare dopo lo scambio con il ragazzo mugugnavano e si stringevano tra loro, cercando di tenere le famiglie unite.

Famiglia.

Che parola pesante.

« Sei Blaine Anderson? » domandò la donna, fissandomi con serietà e rispondendo cortesemente ad un bambino che no, non poteva prenderle la pistola dalla tasca.

« Mi sembra di averlo già detto. » risposi, guardando Kurt.

« Tuo padre è Paul Anderson? » chiese, e mi si prosciugò la gola.

No, non un’altra fanatica di mio padre che cercava di ingraziarsi il figlio per un posto in alta società, contatti o essere accettata alla NYADA.

« Cosa vuole? » domandai, più duro di quanto non volessi essere con quella donna sconosciuta.

Lei sorrise, interpretandolo come un sì.

« Non mi sorprende che tu non mi riconosca, Blainey. » disse Deliah, abbracciandomi e scoccandomi un sorriso. La guardai confuso, e Kurt non sembrava capire più
di me. Mi allontanai dalle sue braccia e lei scosse la testa come si fa con un bambino che si ostina a non ascoltare.

« Chi sei tu? » domandai, stringendo i denti. Chiunque fosse era collegata alla mia famiglia e questo non era un bene. Non era un bene affatto e, se non fosse stato per
Kurt che bloccava il passaggio già stretto, sarei scappato e avrei cercato di confondermi tra la folla.

« Sono la sorella di tua madre, Zia Dì, ricordi? » spiegò mantenendo quel sorriso dietro al quale continuava a celarsi una preoccupazione che non comprendevo e che
mi metteva in soggezione. Com’era possibile che non la avessi riconosciuta? Non la vedevo da parecchi anni, poiché si era trasferita in Messico per delle questioni di
lavoro, però non credevo che sarebbe mai cambiata tanto. Era dimagrita infinitamente, gli occhi gli si erano incavati sul volto ed aveva tagliato i capelli. Un taglio
abbastanza drastico. Inoltre non era quasi truccata, mentre non ricordavo di averla praticamente mai vista senza trucco.

« Oh, cazzo, zia… » mi sfuggì dalle labbra, e lei allargò il sorriso con aria malinconica.

« Blaine, Blaine… che bello vederti. Tua madre non fa altro che parlare di te, penso che le manchi molto anche se non vuole dirlo. » spiegò, poggiandomi una mano sul
braccio e carezzandolo come si fa con un ragazzino. Ma io non ero più un ragazzino, ero un ragazzo che era stato buttato fuori di casa, e che non aveva proprio niente
del “ragazzino” di un tempo.

« Non… non ti avevo riconosciuto. » biascicai, cercando di sottrarmi alla presa. Il sorriso sulle sue labbra traballò, ma si sforzò di mantenerlo quanto meno credibile.

« Poco da sorprendersi, sono dimagrita tanto e ho fatto parecchi cambiamenti radicali. » rispose, scrollando le spalle.  « Sono Deliah, la zia di Blaine. » aggiunse poi,
presentandosi a Kurt.

Come se quella catastrofe fosse stato il momento adatto ai convenevoli.

« Non sei l’unica. » risposi, più amareggiato di quanto avrei voluto in realtà.

Lei sospirò, sentendo una voce provenire dalla sua ricetrasmittente.

Io non compresi una parola, ma lei doveva esserci abituata.

« Qua abbiamo quasi finito. Chiedi a Johnatan fuori quanti mancano da fare entrare nei rifugi. » rispose, voltandosi verso l’apparecchio e premendo un pulsante.

Rispose un gorgoglio e lei tornò a noi.

« E’ bello vederti. » rispose ancora, ed immaginai che sapesse di me. Mia madre non riusciva a nascondere nulla a sua sorella.

« Sì, molto bello, ma tu che ci fai qua? Credevo fossi in Messico. » dissi, ricordandomi improvvisamente un’intera vita, un’intera famiglia ed un’intera rete di
conoscenze che avevo dimenticato.

« Sì bè… ho avuto dei problemi lì e ho chiesto un trasferimento qua in modo da essere più vicina a tua madre. » ammise. Una donna le bussò sulla spalla, e le chiese
quanto sarebbero dovuti rimanere tutti sotto terra, e Daliah rispose che la durata dell’uragano era imprevedibile, e che sarebbero rimasti nascosti quanto necessario.

All’esterno si iniziavano a sentire i rombi del cielo e le sferzate di vento che soffiava a velocità allucinante.

Tornò a voltarsi verso di me.
« Perché mai avresti dovuto stare vicino a mia madre? Praticamente in quella casa tutti sono alle sue dipendenze, non vedo il problema. Se si sentiva sola non lo ha
mai dato a vedere. » esclamai, sorpreso. Non avrei mai detto che mia madre avesse avuto bisogno di qualcuno. A volte mi domandavo a che le servisse mio padre.


Deliah mi guardò con un’aria di pietà negli occhi. Che diamine voleva dire quello sguardo? Che cosa era successo?

« Aspetta, è successo qualcosa? » domandai di botto, prendendola per un polso. Non avrebbe dovuto importarmi, forse, eppure in un certo senso quella donna dal
volto serio e dal tailleur cucito addosso ancora significava l’innominabile per me.

Lei si morse il labbro inferiore, prendendo un respiro profondo.

« Blaine… » mormorò, e Kurt, dietro di me, mi mise una mano sulla spalla, stringendola forte. Perché? Percepiva che avrei avuto bisogno di lui? Come? Perché tra
tutto quel chiasso, e il vento, e i rombi, e il mormorio di sottofondo, ed il battito frenetico del mio cuore non riuscivo a capire niente?

« Tua madre e tuo padre non vivono più assieme, e lei ora vive in un appartamentino da sola. E non sta molto bene, psicologicamente intendo, tutti i suoi errori le sono
caduti addosso nel momento in cui te ne sei andato, credo. C’era bisogno di qualcuno che le stesse vicino e, bè… c’ero solo io. »

Non riuscii a sopprimere quel dolore intenso che si faceva strada dentro di me. Quel senso di colpa che non aveva mai voluto esserci. Quella sensazione che avevo cancellato e non volevo portare in vita, un’emozione sbagliata, che non desideravo.

Kurt strinse la presa, mentre vacillavo appena. 























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Spazio Autrice:

Prometto Fluff e Angst nel prossimo capitolo!
Purtroppo è arrivato, lo sapevate che sarebbe successo.
E oh, approfondimenti psicologici, oh yeah.

Detto questo me ne vò :D

Noth

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Capitolo 13
*** You're welcome. ***


Do you know about swallows?
-Capitolo 13-

 
 
 




 
Era come se mi fosse passata sopra una mandria di cavalli imbizzarriti ed io non me ne fossi nemmeno accorto. Attorno a me tutto rimaneva ovattato, e mi scossi solo quando sentii un tonfo grave proprio sopra la mia testa. L’uragano doveva essere iniziato. Kurt sobbalzò al mio fianco, e decisi che volevo allontanarmi da quella donna, per il momento, non era il caso di parlare di ciò che mi aveva appena detto. Non era il momento, ed il mio cervello era troppo spaventato e preoccupato per tutto ciò che stava succedendo per poter pensare anche a quello.

Con uno strattone mi allontanai da lei, afferrando Kurt e infilandomi nel fiume di persone che correvano spaventate nelle varie stanze disposte sulle pareti. Prima che scomparisse alla vista gridai a zia Deliah:

« Ne riparleremo dopo. » anche se le mie intenzioni erano ancora quelle di sparire il più lontano possibile e fingere di non conoscere quella che era stata una notizia che non sapevo come avrebbe dovuto farmi sentire, perché non riuscivo a percepire niente.

Oppure non volevo.

Ci rintanammo in una stanza piena di gente che sbraitava e cercava parenti nel mezzo della folla. Ancora tenevo Kurt per il braccio ed evitavo di
guardarlo negli occhi. Ad essere sincero non so perché. La confusione riempiva l’abitacolo, eppure sembrava che stessimo ignorando il gigantesco
elefante rosa nella stanza. Sopra di noi sentivamo i tonfi e l’ululare selvaggio del vento che soffiava a non so quanti chilometri orari.

« Perché non sono rimasto a parlarle? » domandai ad alta voce, come a dare voce ai pensieri di Kurt. Lui scrollò le spalle.

« Non te lo ho chiesto. » rispose.

« Ma lo hai pensato. »

Lui silenziosamente ridacchiò, e mi domandai se non si sentisse fuori posto a ridere in mezzo a tutta quella gente che gridava.

« Perché mai avrei dovuto? » chiese, sinceramente sorpreso.

«Perché tutti, sempre, si chiedono perché mi comporti come mi comporto. C’è sempre qualcosa di molto stupido ed insolito nelle mie azioni. »
spiegai, ed una donna mi urtò, sobbalzando dopo aver udito un tonfo più forte proprio sopra di noi. La stanza ammutolì, ma solo per qualche
secondo, perché il silenzio era insopportabile e presto il caos riprese il suo dominio.

« Devo ripeterti per la millesima volta che non sono la tua famiglia e non mi devi alcuna spiegazione a meno che non voglia darmela tu? » disse,
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Come il fatto che la terra fosse rotonda.

Perché era rotonda vero?

Bè, a quanto pareva da dove stavo, Colombo c’era arrivato in America, dunque supposi di sì.

Tacqui qualche secondo, non sapendo se ridere o abbassare lo sguardo. Optai per entrambi ma la risata suonò terribilmente disarmonica.

« Blaine, non devi nulla a quella gente, e lo sai, devi decidere tu se vuoi sapere di più su tua madre, se vuoi essere coinvolto. Io non posso vederla
la mia, quindi darei qualsiasi cosa per poter stare un po’ con lei, ma qui non si tratta di me e non voglio obbligarti a fare ciò che farei io. » disse, e
nel frattempo due poliziotti entrarono nella stanza e portarono fuori una bambina in preda a quello che pareva un attacco di panico e, sporgendo
la testa fuori dalla porta, notai altre persone assistite dagli infermieri nel corridoio.

Tornai all’interno della stanza e, quasi per errore, incontrai gli occhi di Kurt e mi resi conto che trasparivano molta più preoccupazione di quanta
credessi.

« Devo pensare, credo. » spiegai, lasciando infine andare il suo braccio, mentre lui continuava meccanicamente a fissare con aria assente il punto
dove lo avevo stretto tutto il tempo.

« Sì, anche io credo. » mormorò, ricominciando a lanciare inconsce occhiate alla folla alla ricerca del padre.

« Lo troveremo. » ripetei per la millesima volta, cercando di farmi udire oltre la confusione.

Kurt mi guardò negli occhi, e fu davvero un colpo basso.

« E se non succedesse? » mi sfidò, dando voce al tarlo che gli stava divorando il cervello.

« Saremmo entrambi nella merda, perdonami l’espressione, ragion per cui lo troveremo. »

C’era poco da fare, in realtà, eravamo due idioti. Ce ne stavamo lì a concentrarci l’uno due problemi dell’altro, mostrando quando saremmo stati
coraggiosi a situazioni invertite.

Ed il tutto era parecchio inutile.

Si sentirono nuove urla e nuovi tonfi, e Kurt estrasse una bottiglia dalla sua borsa. Lo guardai accigliato.

« Nel caso te lo stessi chiedendo, sì, giro sempre con una bottiglia di scotch in borsa, ed ho voglia di bere, ti va? » domandò, sorridendo un po’ di
sbieco, speranzoso che gli facessi compagnia nella sua disperazione, e non ebbi il cuore di dirgli di no ed, in mezzo a tutte quelle persone troppo
occupate a badare a loro stesse per pensare a noi, ci scambiammo la bottiglia e tracanniamo un liquido che ci ustionava la gola, mentre i poliziotti
ci guardavano inermi. Nemmeno loro avevano il cuore di impedircelo.

Ed io continuai a seguire Kurt, perché non avevo la forza per oppormi e perché volevo essere almeno un po’ come lui. Nonostante la convivenza,
questa era una cosa che non era cambiata nel tempo. Lui che m’era parso un angelo ma che, alla fine, si era fatto contaminare dalla sua umanità
che fungeva da veleno e se ne era ammalato. Stare accanto a me non avrebbe mai funzionato come cura, ero un portatore neanche troppo sano.

Però lui era comunque bellissimo.

E che c’entrava questo pensiero sconclusionato con tutto il resto?

Davvero non lo so.

 

**

 

Erano passate le ore, non so quante, non volevo nemmeno saperlo, ma di colpo all’esterno cadde il silenzio, e le varie radioline degli agenti
iniziarono a gracchiare parole a me incomprensibili. Fuori doveva essere cessato il disastro, ed entro mezz’ora iniziarono ad evacuarci e a
liberarci all’esterno. Prima di lasciarci andare, all’uscita per le scalette, Zia Deliah chiedeva i nominativi e segnava una “V” accanto alla casella
compilata in precedenza. Quando arrivai mi chiese il nome e mi porse un biglietto sul quale scorsi un indirizzo che mi rifiutai di leggere e mi ficcai
in tasca, decidendo che ci avrei pensato. Se volevo sapere, se volevo parlare. Se volevo ricominciare ad avere un rapporto.

Per quel momento la risposta era no, ma chissà cosa avrei potuto decidere in futuro.

Io e Kurt uscimmo e ci guardammo attorno, in mortuario silenzio, e con un sorriso ebete e poco da sobri spalmato sulla faccia a causa della
residua semi-ubriacatura. Iniziammo ad allontanarci dalla folla e a camminare. Scoppiammo a ridere, sguaiatamente, e piangemmo per il
disastro che ci circondava, troppo brilli e sconvolti per smettere. Gli alberi erano sparsi come bastoncini di Shangai sulla strada e le foglie
formavano un tappeto cucito da mani inesperte che copriva ogni cosa. I grattacieli avevano i vetri rotti, e dentro le stanze si vedevano rami e
disordine dove il vento aveva passato la sua mano omicida.

Attorno a noi la gente usciva dai rifugi e si riversava nelle strade piangendo, chi rumorosamente, chi silenziosamente, mentre io e Kurt ridevamo
tra le lacrime, attraversando rovine e scarti, diretti verso un bar che speravamo fosse ancora in piedi.

 

**

 

Quando scorgemmo la facciata del locale Kurt alzò la testa ed iniziò a ridere, partendo a correre sconnessamente verso la porta. Si accorse in
ritardo che non vi era nulla sull’uscio, il tutto era stato divelto dai cardini e le finestre dell’abitacolo erano state sfasciate. Lo spettacolo era
grottesco e Kurt rallentò, quando raggiunse il buco lasciato dalla porta volata via, e vi si appoggiò con aria sconcertata, come se non si aspettasse
di vedere il risultato dell’uragano. Come se credesse che sarebbe rimasto tutto uguale e salvo. Probabilmente non era solito vedere il mondo
sbriciolarsi sotto suoi ai piedi. Io reagii diversamente, mi trovai a stringere i pugni e deglutire un nodo rigido in gola.

Kurt si voltò verso di me, con aria confusa, come se non capisse. Poi spalancò gli occhi, ed emise un suono come un fischio sussurrato, e capii che
aveva realizzato che ci trovavamo davanti a quello che era il cadavere della sua vita, della sua casa, di quella che era stata la sua realtà.

Si precipitò all’interno, ed era come se fosse passato qualcuno ed avesse rotto tutto ciò che era possibile. Il disastro era evidente. Kurt arretrò,
fino ad arrivare con le spalle al muro.

Non rideva più.

Ora nulla era divertente.

Mi girava la testa e volevo solo che smettesse, desideravo solo essere lucido. Mi maledissi per aver accettato quella bottiglia di scotch da Kurt.
Avrei dovuto essere responsabile, visto che sapevo quanto poco stabile sarebbe stato lui.

« No. » sussurrò Kurt, prendendo di tasca il cellulare come se tutto quanto gli stesse ricrollando sulle spalle all’improvviso. Digitò un numero e se
lo portò all’orecchio.

« Dai, dai, dai, dai. »

Ma nulla.

« Rispondimi, cazzo! » gridò, tentato di buttare l’apparecchio a terra, ma rendendosi conto che era il suo unico ponte con il padre, e che non
poteva rischiare di tagliarlo per nessun motivo.

Mi avvicinai, appoggiando la custodia della chitarra, che continuavo ad avere in spalla, sul pavimento, quasi come un mazzo di fiori su una tomba.

Kurt tratteneva i singhiozzi con forza, e sobbalzava per questo, con le labbra sigillate. Alle lacrime, però, non servivano palpebre per cadere dagli
occhi ed, infatti, gli si schiantarono sulle guance, e mi sentii come se fosse colpa mia.

Eppure non lo era.

« Kurt, risponderà, ascoltami Kurt… » cercai di prenderlo per la testa, appoggiandogli le mani sulle guance, appena sopra il collo, ma lui si
dimenò, con lo sguardo fisso, assalito da fantasmi che non riuscivo a vedere e, per la seconda volta in vita mia, non riuscii a trovare nulla di
divertente da dire che potesse sdrammatizzare.

« No, non dirmi nulla di tutto questo, non ti voglio sentire, sono le stesse cose che mi hanno detto quando… » gridò, nascondendosi dietro le
braccia e tenendomi lontano, come un incubo, come un mostro. Mi sentii di violare un luogo terribilmente intimo della sua mente, e feci un passo
indietro.

Quando andai via Kurt si immobilizzò, e mi chiesi se smise di respirare.

« Quando… »

Cercai di farmi piccolo, perché c’era del dolore che non avevo voluto vedere nello sguardo terrorizzato di Kurt.

Silenzio. Urla di persone fuori dal bar, lacrime e nomi che venivano chiamati per trovarsi. Era un disastro. Un disastro in piena New York.

Poi Kurt si decise a parlare.

« M-mamma. » disse solo, e per quanto avessi male la testa, fossi stanco, triste, demoralizzato, confuso, preoccupato, capii.

Sua madre doveva essere morta, e doveva aver fatto una brutta fine.

Molto brutta.

E Kurt non la aveva per nulla superata, semplicemente cercava di dimenticarsene per la maggior parte del tempo. Mi sentii così male, ed odiai
Burt per essere sparito, perché non sapevo cosa dire, non sapevo cosa fare in quel momento per cancellare l’espressione di assoluto dolore che
aveva preso il posto del viso di Kurt.

Dopo un paio di respiri profondi affondò la testa tra le mani e scivolò sulla schiena fino ad arrivare a terra e si appallottolò, mettendosi il viso tra
le ginocchia. Potevo percepire i suoi respiri tremanti oltre il caos generale che le mura bucherellate del locale non potevano tenere fuori.

Mi avvicinai lentamente, sentendomi incredibilmente ingombrante e fuori posto. Che dovevo dire, cosa avrei dovuto fare? Mi inginocchiai
accanto a lui e rimasi lì, sperando che la mia presenza fosse abbastanza.

Razza di idiota, mi dissi, ovvio che non lo è, questa non è una stupida telenovela argentina.

Però fu allora che accadde l’inaspettato. Due braccia mi circondarono e mi strinsero a sé, forte. Kurt mi stava abbracciando, e tremava, ed era un
abbraccio stretto che mi dava l’impressione di una fragilità paradossale.

« Non dirmi che andrà tutto bene. » balbettò, cercando di controllare la voce.

« Non andrà tutto bene. » ripetei, spaventato dalla carica emotiva che vibrava tra me e lui, sentivo le sue emozioni come elettricità statica e mi
sorpresi che non esplodesse in un’onda di disperazione.

Lo sentii quasi ridere, e credetti che stesse impazzendo. Rideva, piangeva, tremava, mi abbracciava, sussurrava. Era troppo per una sola
persona, come faceva a non spezzarsi? Non ero sicuro di aver mai sopportato così tanto. Forse sì, forse no, non riuscivo a pensare lucidamente.
Non riuscivo a far funzionare il cervello nella giusta direzione, allora avvolsi le braccia attorno al corpo di Kurt, visto che non sapevo proprio
come comportarmi. Lui lasciò andare un sospiro.

« Dimmi che saremo io e te a far andare le cose per il verso giusto. Promettimelo. Non voglio fra-frasi fatte che poi si trasformano in bugie. »
disse al mio orecchio, con il fiato tremante che mi scivolava tra i ricci.

Sconcertato aprii bocca più volte per rispondere.

« L-lo prometto. »

« Davvero? » fiatò.

« Sì. »

Le sue mani si strinsero sulla mia giacca e si concesse di fare uscire un singhiozzo dal suo petto.

« Grazie. » mormorò.

E rimasi immobile, pensando a cosa dire, ma non ero un poeta, o uno scrittore, o lo sceneggiatore di una di quelle stomachevoli telenovele
argentine, quindi l’unica cosa che riuscii a sussurrare fu:

« Prego. »






















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Spazio Autrice:
MIODDIO SONO RIUSCITA AD AGGIORNARE, ONORE E GLORIA!

No, veramente, mi sento in colpa da morire per questo assurdo ritardo. Purtroppo è l'anno della maturità
quindi devo mettermi sotto di brutto, in più devo fare esami di inglese, teatro, giornalino, canto, lavorare e 
in più la settimana prossima parto per lo stage di tre settimane, quindi la mia vita è un casino al momento
non abbiatemene a male se non riesco ad essere veloce ed efficiente, non ne sono in grado!

Per chi mi segue un po' conosce i miei enormi progetti, ed enormi progetti vogliono dire enorme lavoro!
In ogni caso grazie di cuore per l'attesa.
Siete fantastici, mamma mia.

Un bacio, e scusate l'angst, ma è una mia storia, prima o poi doveva spuntare per bene.

Noth

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