Hecate

di TheRedFox
(/viewuser.php?uid=197537)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Il rumore dei suoi passi stava diventando insopportabile.
Ogni volta che camminava, sentiva sotto i piedi la suola bagnata che premeva sul pavimento con un suono sordo e mozzato.
Intorno a lei silenzio.
Il corridoio che stava percorrendo era stretto e tetro, l’illuminazione lampeggiava come in un frenetico codice morse, rendendo lo spazio intorno a lei claustrofobico, ma ormai non le restava che proseguire davanti a sé.
Se solo avesse saputo, non avrebbe mai portato la sua figlia al pronto soccorso.
Quella mattina Karen si era svegliata con un fortissimo mal di testa, non riusciva a stare in piedi da quanto le faceva male, e Sofia aveva deciso di portarla al pronto soccorso.
Dopotutto una bambina di soli 11 anni che avverte forti dolori alla testa non è normale, e poi Sofia è sempre stata una madre molto apprensiva.
Fin da quando era piccola aveva sempre cercato di tenerla in casa, facendola uscire il meno possibile e curandola in maniera quasi maniacale.
Karen aveva sempre vissuto dentro una campana di vetro, e quel mal di testa aveva accentuato il suo istinto materno.
Aveva immediatamente coperto Karen con un lenzuolo e lo aveva portato al pronto soccorso più vicino, il Saint Angel Hospital.
Le avevano dato codice bianco, ma lei aveva insistito affinché la visitassero subito e dopo una serie di lamentele era riuscita a farla entrare subito.
Ma lei era dovuta rimanere fuori, nell’attesa snervante che le dessero qualche notizia di lei.
Il padre purtroppo non c’era. Era venuto a mancare prima che lei nascesse.
In realtà non era mai esistito un vero e proprio padre, in quanto appena scoperto che lei era rimasta incinta, era completamente sparito dalla sua vita.
Ma con grandi sforzi e sacrifici era riuscita comunque a mandare avanti lei e sua figlia.
Non le dispiaceva che il padre fosse scomparso, dopotutto aveva imparato che bisogna fidarsi solo di noi stessi.
Ma dopo diverse ore che non le avevano fatto sapere niente, Sofia si era spazientita, vedendo che comunque la gente intorno a lei in attesa andava via via sempre più diradando.
-Mi scusi- Chiese Sofia in maniera cortese all’infermiera un po’ in carne che era seduta dietro alla reception.
-Mi dica- Rispose l’infermiera mentre sistemava alcuni documenti al computer senza alzare lo sguardo.
-Volevo sapere le condizioni di mia figlia, se sta bene. L’ho portata questa mattina verso le dieci ma ora che è mezzogiorno non mi è ancora stato riferito nulla-
-Mi dica il nome della piccola-
-Karen. Karen Walker-
-Un attimo che controllo al computer- L’infermiera digitò rapidamente i caratteri nel computer, mentre Sofia sperava in una risposta positiva.
Ma non si sarebbe mai aspettato una risposta del genere.
-Scusi mi può ripetere?- Sofia non poteva credere a quello che aveva sentito.
-Mi dispiace, ma non ho nessuna Karen Walker in lista-
-Può controllare meglio? Sono sicura che c’è, l’ho portata io stamattina verso le 10-
-Mi dispiace, ma qui risulta che a quell’ora siano entrate solo tre persone, e nessuna di queste risponde al nome che mi ha dato-
-La prego, controlli meglio, deve esserci un errore-
-Se vuole vedere anche lei- L’infermiera girò il monitor verso di lei. Nessuna delle tre persone in lista ricordava vagamente il nome di sua figlia.
-Ma non è possibile- Riuscì semplicemente a dire.
-Mi spiace, ma non posso aiutarla più di così-
-Non può andare a sentire dentro? Può per caso lasciarmi andare a controllare?-
-Mi spiace, ma questo non è possibile-
-La prego, è mia figlia, non può farmi questo-
-Mi spiace-
Sofia era disperata, non sapeva che cosa fare. Voleva piangere, ma era talmente scioccata che non riusciva neanche a muovere un singolo muscolo.
-La prego- Continuò a ripetere. Con il corpo si protese in avanti ed afferrò l’infermiera per il camice –La prego! Mi deve aiutare! Mi faccia andare a vedere!- Senza rendersene conto, stava scuotendo l’infermiera, che in preda all’agitazione chiamò altri due infermieri che vennero in suo soccorso.
Riuscirono a portare via Sofia e condurla fuori dall’uscita, mentre lei scalciava ed urlava il nome di sua figlia.
La lasciarono solo quando furono fuori dal pronto soccorso, lei cercò di tornare dentro, ma la fermarono e la gettarono a terra. Lei piangeva disperata, ripetendo come una preghiera Karen.
La gente finse che non c’era, la ignorava, e questo accresceva ancora di più la sua disperazione.
Possibile che il grido di una madre non riuscisse a toccare il cuore delle persone?
Cercò di alzarsi in piedi, ma le mancavano le forze, non riusciva a tenere ferme le gambe, sentiva che un peso più grande di lei le opprimeva il petto, sentiva il fiato sempre più accelerato, la testa farsi più leggera, le mani cominciavano a tremare, anche il corpo cominciò a seguire lo stesso ritmo, fino a quando non sentì un piacevole torpore, il corpo che si rilassava, il respiro che lentamente tornava normale, poi più lento, ancora più lento, ed infine la testa appoggiata a terra che diventava come un macigno.
L’ultima cosa che vide furono un paio di scarpe lucide nere ed un paio di pantaloni scuri che si erano posizionati di fronte alla sua visuale.
E poi fu il blackout.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


-Karen! È pronta la colazione-
-Sì mamma, arrivo subito-
Sofia stava preparando la colazione che piaceva tanto a sua figlia. Uova e bacon.
La luce del sole filtrava dalle finestre irradiando tutta la cucina di una luce quasi mistica, sembrava di assistere ad una scena idilliaca.
Sofia stava sorridendo quando sentì un tonfo sordo e poi come se un peso morto rotolasse giù dalle scale.
Il suo volto cambiò immediatamente espressione e corse verso le scale.
Di fronte a lei, una scena agghiacciante.
Il corpo di Karen giaceva a terra, con le gambe piegate in maniera innaturale che prendevano direzioni opposte, un braccio giaceva senza segni di vita dietro la schiena, come se non fosse neanche più attaccata alla spalla.
L’abito che Sofia le aveva regalato per il suo compleanno, un grazioso abito ricamato in seta color candido, ora era lì davanti a lei in una matassa di stoffa e sangue.
La sua testa era rivolta verso le scale, i suoi lunghi capelli ricci color rame erano impastati con il sangue, che aveva creato una piccola pozza intorno ad essa.
Con un nodo alla gola, Sofia si avvicinò a lei lentamente, le sue mani tremavano e non riusciva a smettere di balbettare il suo nome.
Si inginocchiò davanti al suo corpo esanime, mentre con lo sguardo sconsolato continuava a chiamarla.
Rimase per qualche istante immobile, come se attendesse un suo risveglio, ma lei continuava a restare lì, ferma, mentre la pozza di sangue continuava a crescere, e crescere ancora.
Allora con la mano Sofia toccò la sua spalla, e lentamente la girò verso di lei.
Improvvisamente sentì afferrare la sua mano. Era la piccola e graziosa mano di Karen, ma la forza con cui la stava stringendo era inumana, le stava facendo male.
La sua testa si girò di colpo e Sofia urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Il viso di Karen, il bel viso di sua figlia, era sfigurato, gli occhi erano diventati cerulei e le labbra color dei morti, il viso era ricoperto di sangue ed erano visibili le venature violacee.
-Mamma!-
 
Sofia aprì gli occhi d’istinto.
Una luce fortissima la investì in pieno, obbligandola a richiuderli immediatamente.
Protese una mano in avanti cercando di coprirsi gli occhi, ma aveva la sensazione che qualcosa le ostacolasse i movimenti.
Mentre lentamente riacquistava la vista, capì che la luce che l’aveva quasi accecata era quella di una sala operatoria.
Era sdraiata su un lettino ospedaliero, ed aveva una canula infilata nel braccio destro, alla quale era attaccata una bottiglia di vetro contenente un liquido rossastro, scuro, denso.
Che fosse sangue?
Al solo pensiero Sofia urlò e cercò di staccare la canula dal suo braccio. Era come se una sega fosse penetrata dentro la sua carne ed ora doveva cercare di estrarla.
Urlando dal dolore riuscì a sfilarselo, cercò di scivolare da un lato per mettersi in piedi ma cadde goffamente a terra.
Solo in quel momento capì che le avevano portato via i vestiti.
Sentiva il freddo pavimento sotto di lei, l’unica cosa che aveva addosso era la camicia data ai pazienti, quelle di plastica fine che non hanno nessun scopo se non a farti sentire ancora più nuda di quanto non lo sia.
Che cosa era successo? Dove si trovava?
Si guardò intorno.
Sembrava proprio una di quelle sale operatorie che lei aveva visto fino alla nausea nei suoi telefilm preferiti.
L’unica differenza era che in quella stanza c’era solo il letto, la luce e lei.
Non c’era nessun altro.
Cercò di alzarsi in piedi, troppe emozioni l’aveva turbata a tal punto che non riusciva neanche a controllare le sue gambe, ma doveva rialzarsi, aveva bisogno di capire, e con uno sforzo più grande di lei riuscì a rimettersi in piedi.
Si aiutò grazie al lettino, barcollava ancora un po’, ma era riuscita a mettersi in piedi.
Si guardò intorno con più attenzione.
La sala era proprio come se lo era immaginata. Spoglia, asettica, claustrofobica.
La luce fredda che irradiava la stanza rendeva l’atmosfera  ancora più inquietante.
Dall’altra parte la sua unica via di fuga. La porta scorrevole era aperta, lasciando uno spiraglio di speranza in lei.
Lentamente si incamminò verso la sua unica uscita, mentre con i piedi scalzi sentiva il freddo pavimento sotto di lei.  

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Uscita dalla stanza, l’ambiente circostante cambiò radicalmente.
Dalla sala illuminata era passata in un lungo corridoio semioscuro, che si stagliava in entrambe le direzioni. Il pavimento era sporco, ricoperto da un leggero strato di polvere, interrotto solo dalle linee lasciate dal passaggio dei lettini.
Gli occhi impiegarono un po’ di tempo ad abituarsi al buio, tanto che non si accorse inizialmente dello scatolone appoggiato di fronte a lei.
Eppure la parete opposta non era tanto distante. Dava una sensazione quasi claustrofobica, rimanere troppo tempo ferma avrebbe fatto impazzire qualsiasi persona.
Si avvicinò alla scatola, non sapeva cosa potesse contenere ma sperava che ci fosse anche il più piccolo, insignificante arnese che potesse tornarle utile. Non poteva lasciare niente  al caso, nonostante non riuscisse a capire in che tipo di situazione si trovasse, non doveva perdere la calma, doveva concentrarsi a risolvere questo mistero e non lasciarsi condizionare dal senso di terrore ed oppressione che sentiva.
Con un senso di curiosità e di paura aprì scoprì il suo contenuto.
Erano i suoi abiti, ripiegati e posti nella scatola in maniera ordinata.
Si cambiò in fretta, contenta del fatto di non dover indossare quella stupida camicetta oscena, ma che ci facevano i suoi vestiti dentro quella scatola?
Qualcuno l’aveva spogliata e l’aveva portata in quell’incubo, ma chi?
C’era qualcun altro oltre a lei? Forse non era sola?
Ogni domanda si dissolse quando, prendendo le scarpe dal fondo della scatola, apparve la foto di sua figlia Karen.
Per un attimo il suo viso smise di esprimere qualsiasi tipo di emozione.
Sentì il sangue congelarsi nelle vene e la testa diventare vuota.
Cosa ci faceva lì una foto di sua figlia?
Sofia era confusa.
La foto era stata scattata per il suo compleanno, stava soffiando le sue undici candeline.
L’atmosfera nella foto era allegra, Karen sorrideva mentre soffiava le candeline, ma Sofia non riusciva ad essere felice guardando la foto.
Non doveva trovarsi lì, doveva essere tra gli album di casa, perché era tra le sue mani allora?
Sentì le lacrime che scivolavano sul suo viso ormai segnato.
Prese la foto in mano e se la strinse al petto, pregando che lei stesse bene.
Perché doveva accadere tutto questo a lei?
Cosa aveva fatto?
Dov’era sua figlia ora?
Non riusciva a togliersi questi pensieri di dosso, in quel momento sentiva come se un enorme peso la stesse schiacciando, non riusciva ad alzare lo sguardo, mentre le lacrime scendevano inesorabilmente senza che lei avesse la possibilità di fermarle.
Intorno a lei il silenzio. Le lampade sul soffitto che riuscivano in qualche maniera ad illuminarsi pulsavano come il battito accelerato di un cuore colmo di ansia, il corridoio sembrava così vasto che in entrambe le direzioni non era possibile scrutare la fine, un muro che segnasse il confine.
Improvvisamente si sentì il cigolio di una porta metallica.
Sofia ritornò in sé, si sentì in pericolo. C’era qualcun’altro oltre a lei?
Da dove era giunto il rumore?
Rimase in allerta, aspettando un altro segnale, un rumore, dei passi, qualsiasi cosa.
Ma non ci fu niente.
Possibile che si fosse immaginato tutto?
Osservò entrambe le direzioni, ma non c’era niente di strano.
Allora che cosa era stato?
Non poteva rimanere ancora a lungo lì, doveva muoversi, trovare una via di fuga, ritrovare sua figlia, tornare a casa.
Aveva bisogno di capire dove si trovasse e come riuscire ad uscirne, e sicuramente la soluzione non sarebbe giunta semplicemente rimanendo lì a piangersi addosso.
Prese la foto, se la infilò in tasca e decise di andare verso destra, sperando di scoprire qualcosa di più della strana situazione in cui era finita.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Il rumore dei suoi passi stava diventando insopportabile.
Ogni volta che camminava, sentiva sotto i piedi la suola bagnata che premeva sul pavimento con un suono sordo e mozzato.
Intorno a lei silenzio.
Ad un certo punto, mentre percorreva il corridoio, aveva calpestato una pozza d’acqua. Il liquido era schizzato anche tra le sue caviglie, ed aveva avvertito una sensazione gelida percorrergli la schiena.
Aveva camminato per qualche minuto, ma immersa in quel silenzio, con l’unico rumore i suoi pensieri, credeva che fossero trascorse ore da quando aveva imboccato il corridoio.
Ormai credeva di aver sbagliato strada.
Le pareti erano lisce, non c’erano porte o finestre, sembrava che avessero gettato un’unica colata di cemento ed avessero tirato su le mura.
Le luci continuavano a pulsare, gli occhi non riuscivano ad abituarsi a quella sensazione e li sentiva stanchi ed arrossati.
Le gambe le facevano male, cominciava a tremare, sentiva i piedi umidi, forse cominciavano a formarsi le prima galle.
Faticava a camminare, dovette appoggiarsi ad una parete per continuare ad andare avanti.
Sentì il cuore cominciare a battere velocemente, poi sempre più velocemente, il fiato accorciarsi, respirava affannosamente, la testa cominciava a svuotarsi.
Stava avendo le palpitazioni.
Ormai era arrivata allo stremo delle sue forze.
Ad ogni suo respiro combaciava un dolore lancinante che le trafiggeva il petto, con la mano cercò di portare aria dentro la sua bocca, ma era inutile, non riusciva più a far uscire il fiato, tenne il petto con la mano destra, mentre con l’altra sembrava volesse invocare l’aiuto del signore.
I suoi occhi cominciarono a girare, ormai stava perdendo completamente i sensi, si accasciò a terra in preda alle convulsioni, afferrò con entrambe le mani il suo abito e continuò a fissare il vuoto davanti a lei fino a quando, lentamente, smise di tremare.
 
 
Sofia aprì gli occhi d’istinto.
Si alzò di scatto ansimando, come se si fosse appena risvegliata da un terribile incubo.
Si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse.
Era seduta su un lettino, sopra di lei una luce già vista le fece capire che era tornata alla sala operatoria.
Ma c’era qualcosa di diverso.
Non era la solita in cui si era svegliata la prima volta.
C’era qualcosa di strano in quella stanza, qualcosa di anormale.
La luce non era bianca, era giallognola, rendendo la stanza più vecchia e più inquietante.
Era sdraiata su un lettino, ma stavolta era ancora vestita.
Sentiva ancora i piedi umidi, ma non erano più freddi, sentiva come una strana sensazione di torpore pervaderle il corpo.
Come se fosse guidata da qualche strano istinto, si alzò dal lettino.
Intorno a lei tutto sembrava identico, c’era anche la fiala accanto con l’ago che penzolava, lasciando cadere le gocce per terra.
Non si sentiva stanca, era come se avesse dormito tutta una notte e si fosse appena svegliata per affrontare la giornata.
Si incamminò verso l’uscita, senza pensare a nient’altro.
 
Uscita dalla stanza, l’ambiente circostante cambiò radicalmente.
La luce bianca esterna era come un faro puntato verso di lei.
Si protesse con la mano per proteggersi gli occhi.
Stavolta non c’era un corridoio ad aspettarla, ma una stanza enorme, illuminata al centro da un enorme lampadario che pendeva dal soffitto come un’enorme goccia d’acqua.
Nel centro della stanza vide un lettino simile al suo, e sdraiata sopra c’era Karen!
-Karen!- Sofia corse disperatamente verso di lei, ma potenti mani la fermarono prima che potesse fare un solo passo.
Cercò di divincolarsi, ma fu inutile, quelle forti mani la tenevano salda.
-Non deve disturbare la nostra dea- La voce che sentì era quella di un uomo, la sua voce era sensuale e calda, penetrava nelle orecchie come miele e ti avvelenava come fiele.
Sofia smise di divincolarsi.
Cosa aveva detto quel tizio?
-Cosa volete da mia figlia?- Chiese Sofia cercando di dare gli ultimi strattoni per liberarsi, inutilmente.
-Non è più sua figlia, o almeno non lo sarà più. Lei è l’incarnazione di Ecate, la dea che ci porterà nel mondo degli immortali, ma per far questo ha bisogno di liberarsi del suo corpo mortale, e solo chi l’ha generata nel nostro mondo ha la capacità di liberarla dal suo guscio senza che vi rimanga imprigionata- La voce di quell’uomo era potente, sentiva il suo corpo tremare ad ogni sua parola, ma non poteva credere a quello che gli aveva detto.
-Uccidila! Uccidila!- Un coro di voci cominciò a librarsi intorno al cerchio di luce.
Vide che dall’ombra uscirono delle figure oscure.
Indossavano tutti una lunga tunica nera che le copriva tutto il corpo, ad eccezione del viso che però era impossibile da riconoscere a causa del cappuccio che scendeva quasi sotto gli occhi.
Fu portata quasi a forza dinnanzi a Karen, era quasi contrariata ad avvicinarsi a lei, ora cercava di allontanarsi da lei, ma quando la vide fu contenta di rivederla, i suoi occhi si riempirono di lacrime e si sentì sollevata constatando che era lì, davanti a lei, viva.
Era come se intorno a lei non stesse succedendo niente, era sdraiata con la pancia in  alto e le mani incrociate, sembrava una di quelle principesse che si raccontano nelle fiabe che aspettano soltanto il principe azzurro che le possa risvegliare.
Aveva addosso un abito candido, la gonna, leggermente rigonfia, cadeva sopra le sue gambe con una grazia impressionante.
Avrebbe voluto continuare a contemplarla, ma sentì che le avevano passato qualcosa tra le mani.
D’istinto strinse la mano ed afferrò l’oggetto, se lo portò davanti agli occhi.
Le avevano dato un pugnale.
Il manico in legno era adornato di gemme e pietre preziose, la lama curva e lucente presentava una serie di incisioni che sembravano scritte arabe, forse greche.
Il coro intorno a lei continuava ad invocare il sacrificio di sua figlia.
Non sapeva cosa fare, cercava di trovare una via di fuga, ma sapeva che non sarebbe stato possibile uscire da lì con sua figlia.
Allora chiuse gli occhi, tirò un lungo sospiro, ed affondò il colpo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Gli adepti gridarono.
Sofia aveva il vestito sporco di sangue.
Aveva affondato la lama nella carne, e dopo che lo aveva estratto uno spruzzo di sangue era fioccato come una piccola fontana.
Si sentì un urlo percuotere le mura, un grido disumano, quasi bestiale.
Gli occhi spalancati cercavano lontano qualcosa che le facesse capire dove si trovasse, cosa stesse succedendo.
E poi vide davanti a lei sua madre.
Karen si toccò con la mano dove sentiva il dolore lancinante, sentì qualcosa di bagnato e caldo, portò la mano agli occhi e vide che era sporco di sangue.
Sofia teneva il coltello in mano, la sua faccia era compiaciuta, un sorriso sadico le passava il volto da parte a parte, i suoi occhi erano freddi, sembravano aculei che entravano nella carne.
-Mamma?- Karen sentiva che il sangue stava uscendo anche dalla sua bocca, tossì un paio di volte, sentiva il sapore metallico dentro la sua gola, stava avendo la nausea.
Sentì un altro dolore lancinante, la mano di sua madre era vicino a lei, ed in mano teneva il pugnale, la cui lama era affondata un’altra volta nel suo corpo.
Urlò straziata dal dolore, era insopportabile, ma quello che le faceva più male era il fatto che i colpi erano stati dati dalla persona che lei chiamava mamma.
-Ti ho sempre odiata- Karen riconobbe la voce in quella di sua madre –Per colpa tua ho dovuto soffrire, faticare il doppio per andare avanti, ed ogni volta che ti guardo, mi viene in mente lui, quel bastardo che mi promise di rimanermi sempre accanto ed invece, appena scoprì che ero incinta di lui, prese tutto quello che avevo e sparì.
Il mio orgoglio, le mie speranze, i miei sogni, sono andati tutti distrutti per colpa sua.
Mi ha privato anche di quel poco che avevo messo da parte, quel farabutto.
Ho provato ad andare avanti, a dimenticarlo, ma come facevo?
Hai i suoi stessi occhi, il suo stesso sorriso, quella faccia che un tempo amavo con tutto il cuore-
Sofia passò la lama sul volto di sua figlia, lasciando una lunga ferita sulla sua guancia.
Karen piangeva e singhiozzava, non capiva cosa stesse accadendo, se non fosse per il dolore lancinante che provava, era convinta che fosse tutto un incubo.
-Mamma- Ormai Karen aveva perso le forze, con voce flebile cercò di chiamare un ultima volta sua madre, non riusciva ad odiarla, nonostante quello che le stava facendo.
-Zitta!- Sofia infierì diverse volte sul suo corpo, anche dopo che aveva smesso di contorcersi ed urlare dal dolore, chiamando sempre lei, fino a quando non rimase nient’altro che una mezza parola strozzata ormai dalla sua ultima esalazione.
Sofia era ricoperta di sangue, le sue mani erano scarlatte, lasciò cadere il pugnale per terra, e guardò per l’ultima volta sua figlia.
Cosa aveva fatto?
Si accasciò accanto a lei, pianse, inizialmente la chiamò come quando la svegliava la mattina, poi alzò la voce sempre più finchè non si rese conto che stava urlando il suo nome.
Appoggiò la testa al suo corpicino, ma ormai non sentiva niente, il suo cuore aveva smesso di battere per sempre.
Intorno a lei il silenzio.
Non c’era più nessuno.
Solo lei e sua figlia.
Solo lei ed il suo dolore.
 
-Sofia Walker?-
Sofia si ridestò.
Era in una stanza con una sola lampadina che dal centro della stanza illuminava nel mezzo.
Un tavolo di metallo separava lei da lui, un uomo con i capelli corti, una cicatrice sulla guancia ed una camicia di lino bianca con una orribile cravatta bordeaux.
-Signora Walker, le ricordo che è sotto interrogatorio. Tempo fa abbiamo ricevuto da lei una chiamata in cui affermava che sua figlia era stata uccisa. Quando siamo accorsi abbiamo trovato lei in stato di shock accanto al corpo di sua figlia. Teneva un coltello sporco di sangue in mano, le impronte digitali trovate sul manico appartengono solo a lei ed il sangue corrisponde a quello della vittima.
Mi vuole raccontare quello che è successo veramente?
Ormai è un mese che si trova in questo centro di detenzione, ma ancora non ha detto niente che fosse utile alle indagini.
L’unica sospettata è lei, perché non ci vuole dire nulla?-
Qualcuno bussò alla porta, aspettò un attimo e poi aprì la porta. Era un poliziotto.
-Ispettore Genesis? Abbiamo bisogno di lei nella sala di là, c’è una questione urgente che ha necessità del suo contributo-
L’ispettore guardò per un attimo Sofia, ma lei continuava a guardare la piccola finestra murata con un leggero sorriso.
-Arrivo- L’ispettore si alzò e si incamminò insieme al poliziotto, lasciando Sofia da sola.
Sofia continuava a sorridere, lentamente fece scivolare la mano fino ai piedi, e tirò fuori dalla scarpa che portava un frammento di vetro.
Lo aveva ottenuto rompendo un pezzo dello specchio che aveva in cella.
Nessuno si era accorto di nulla.
Con la mano destra se lo portò all’altezza del collo, vicino alla vena giugulare.
Pronunciò a bassa voce una parola, forse un nome, si potevano leggere solo le labbra, fece un sorriso verso qualcuno di invisibile davanti a lei, ed infine lasciò che la lama le recidesse la vena, lasciandola agonizzante sul tavolo, mentre un poliziotto era accorso ormai tardi nel tentativo di soccorrerla.
Sofia continuava a guardare in alto sorridendo mentre credeva di vedere l’ombra di sua figlia accanto a lei, cercò di tendere la mano verso di lei, ed infine fu tutto buio.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1260812