The real story of Susan Pevensie.

di KeiraY
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - prologue. ***
Capitolo 2: *** - it started out as a feeling. ***
Capitolo 3: *** - which then grew into a hope. ***
Capitolo 4: *** - which then turned into a quiet thought. ***
Capitolo 5: *** - which then turned into a quiet word. ***



Capitolo 1
*** - prologue. ***


Recensire non fa male alle mani!






- prologue.

 

{just like seasons, people change. not always for the better.}

 
























Susan Pevensie non si era mai ritenuta una ficcanaso e, fino a prova contraria, nemmeno gli altri le avevano mai accennato niente sull’argomento.

Certo, qualche volta le capitava di "spettegolare" segretamente, insieme alle sue amiche del cuore, su quello che era accaduto al caro cugino di Ambrosine o al fratello di Jonette, ma di sicuro non lo faceva per immischiarsi nelle faccende altrui: semplicemente le piaceva sottolineare se il fatto le facesse dispiacere oppure no, ecco tutto.
Al contrario, chi ficcanasava in giro per divertimento era, secondo Susan, solamente una persona molto sgradevole.

Per questo motivo, quando il problema cominciò a svelarsi silenziosamente di fronte ai suoi occhi assennati non fu l’impressione di intromettersi in qualcosa che non le riguardasse a trascinarla in una profonda sensazione di disagio.
Anzi: ripensandoci, in questo caso, la questione la riguardava benissimo.

All’inizio non ci aveva fatto molto caso: insomma, entrare nel salotto di casa Pevensie e ritrovarsi davanti a una bambina di 5 anni e un bambino di 6 che si scambiano un innocente bacetto sulle labbra non le aveva provocato chissà quale sbigottimento.
Erano semplicemente due fratellini intenzionati a dimostrare l’affetto che provavano l’uno per l’altra.
Tuttavia, però, Susan non riusciva ad impedirsi di pensare che comunque Edmund non provava mai così tanto affetto per Lucy, a meno che la sorellina non gli avesse promesso la scatola di biscotti che la nonna puntualmente le regalava una volta al mese.
Ma anche se questo non fosse accaduto, diciamocelo, erano sempre dei bambini: la curiosità dei piccoli di scoprire il mondo intorno a loro avrebbe potuto trascinarli verso qualunque tentativo.

Tutto diventò più sensato quando Edmund, di fronte all’iniziale espressione sbalordita di Susan, aveva cominciato a piagnucolare, gridando che Lucy lo aveva costretto e che la colpa era tutta sua. Allora Susan aveva ridacchiato, scompigliando i capelli al fratellino, e successivamente si era preoccupata solo di spiegargli che gli credeva. Il bambino si era passato con disgusto una mano sulle labbra e poi se ne era andato, sbattendo i piedi con furia. Lucy aveva sogghignato in direzione della sorella maggiore, un guizzo divertito impresso negli occhi, e quest’ultima le aveva solamente raccomandato di non farlo più, tirandole scherzosamente un pizzicotto sulla guancia paffuta. In seguito i due piccoli di casa avevano ricominciato a trattarsi come avevano sempre fatto.
E Susan non aveva più ripensato a ciò che era successo, distratta da successivi avvenimenti che si rivelarono più importanti.


Per esempio, quando scoprirono Narnia, Susan venne disorientata.
La bellezza di quel posto, la sua maestosità, la sua nobiltà e soprattutto la sua impossibilità la colpirono come una secchiata d’acqua gelida, congelandole la mente.
Coprendo il ruolo della più scettica della famiglia, all’inizio il suo era solo stupore.
Non riusciva a convincersi che tutto quello – tutto quello – potesse essere racchiuso in un semplice armadio. Doveva essere di sicuro un sogno, si ripeteva. Solo un sogno.
Ma col tempo Susan si era resa conto che aprendo l’anta di quell’armadio aveva scoperto il vero mondo.
Il suo mondo.
E si disse che doveva colpire quel mondo proprio come quel mondo aveva colpito lei.
Così fu nominata Susan la Gentile, perché finalmente il lato più dolce della sua persona era fuoriuscito dal guscio di diffidenza dentro il quale la vera Susan era rimasta rinchiusa in tutti quegli anni.
Il suo nuovo atteggiamento verso la vita e la bellezza che con il tempo era fiorita sul suo viso la trasformarono nella più bella Regina che avesse mai regnato a Narnia, e così, in pochi anni, da ogni dove principi e re d’Oltremare sbarcarono sul suo regno per chiederla in sposa.
Era diventata la migliore tra le migliori, la più corteggiata tra le corteggiate.
Finalmente i suoi fratelli la consideravano qualcuno di più importante della pratica secondogenita della famiglia; finalmente veniva apprezzata per qualcosa di più rilevante di un semplice legame di parentela: la bellezza.


Fu così che Susan scoprì trucco e parrucco. Fu così che, dopo aver attraversato per la seconda volta l’anta di quell’armadio, Susan aveva capito che essere bella valeva più del resto.
Certezze, le sue, che teneva ancora rinchiuse dentro sé stessa. Come un fiore, aspettava il momento adatto per sbocciare.
E il momento arrivò un anno dopo, quando i suoi lineamenti da ragazzina ebbero completato la trasformazione, dando vita ad una persona più adulta, più matura. Una vera donna.
Ma qualche speranza di salvezza c’era ancora.
Dopotutto, Susan non aveva dimenticato che Narnia era lì ad aspettarla, che Narnia aveva bisogno anche dei suoi consigli per andare avanti. Susan non aveva superato la barriera dell’età adulta, come credeva.
Susan non aveva ancora dimenticato Narnia.
Susan ci credeva ancora. Poteva ancora entrarci.


Ma quando ci entrò, incontrò Caspian. L’esempio che Susan, involontariamente, aspettava.
E quella fu la fine della vecchia, Gentile, Dolce Susan Pevensie.
Caspian le aveva aperto gli occhi su di un mondo diverso, un mondo superfluo.
Perché una bella ragazza ha bisogno di qualcuno accanto a sé. Ha bisogno di un bel ragazzo.
E Susan aveva cominciato a preoccuparsi di cose futili, di cose senza profondità, per fare in modo di trovarlo.
Vestiti. Scarpe. Creme. Rossetti.
E sebbene continuasse a regnare su Narnia con consapevolezza, adesso era sicura di saper scegliere.
Susan aveva scelto la realtà.
Niente più strani mondi inventati, niente più sciocche fantasie: ormai lei era una donna e doveva comportarsi come tale. Era il momento di camminare con i piedi per terra. Era il momento di smettere di vivere con la testa tra le nuvole. Era il momento di dire addio a Narnia.


E quando la seconda avventura fu terminata, le convinzioni di Susan vennero rafforzate ancor di più dalle parole che Aslan aveva rivolto a lei e a Peter.
“Non potrete più tornare a Narnia. Siete cresciuti, ormai” li aveva informati il leone.
E Susan aveva annuito con sicurezza. Per lei il tempo dei giochetti era finito, anche secondo il parere di Aslan.


Quella scelta le si rivelò fruttuosa.
Non solo perché il suo nuovo “metodo di vita” funzionava magnificamente, riservandole il doppio delle attenzioni che riceveva in passato sia nel contesto familiare sia in quello sociale, ma anche perché la realtà le sembrava molto più nitida sotto quel nuovo punto di vista.
Ora conosceva i suoi obiettivi. Ora capiva che il mondo che la circondava era quello giusto, quello migliore. Ora sapeva di poter partecipare a feste su feste senza mai stancarsi, senza mai annoiarsi, al contrario di come faceva in passato. Ora comprendeva con facilità tutto ciò che la contornava.

Ma poi arrivò il momento in cui non avrebbe voluto più comprendere con tanta dimestichezza.


Successe in una strana serata. Inizialmente era convinta che fosse stata solo una sua sensazione, ma non riusciva a dimenticare il modo in cui le guance dell’ormai diciassettenne Edmund Pevensie si erano imporporate. E guardare Edmund che arrossiva era come ricevere una macchina del tempo per Natale.
In pratica, era impossibile.
Stava entrando in camera di Lucy. Doveva chiamare la sorella per la cena e soprattutto chiederle dove si trovasse suo fratello, dato che la stanza del terzogenito era completamente vuota e che Peter aveva affermato di non averlo visto in giro.
Quando attraversò la piccola porta in legno dolce si accorse che Edmund si trovava lì, in compagnia della sedicenne. Ultimamente, si disse, passavano davvero molto tempo insieme.
Non aveva neanche terminato di formulare questo semplice pensiero che un rumore improvviso perforò le pareti della camera. In seguito la scena le passò davanti agli occhi così velocemente che Susan non fu mai del tutto sicura di aver capito per bene come realmente erano andate le cose.
Sapeva solo che Lucy era in qualche modo caduta all’indietro, le spalle sane e salve sul morbido materasso ma la schiena sulla parte in legno del letto, provocando un assordante rumore e, di sicuro, anche un assordante dolore. “Ohi…” aveva guaito la più piccola della famiglia, sofferente.
Nello stesso momento, Susan aveva visto Edmund lanciarsi da una distanza tutt’altro che irrilevante per afferrare i fianchi della sorella e fermare la caduta. Lucy era scivolata sul legno liscio per poi finire sul pavimento mentre Edmund, ormai sdraiato col torace sopra di lei, aveva sbattuto la testa contro la gamba del letto. Strizzando gli occhi si era portato una mano alla fronte, massaggiandosi il punto doloroso, e istintivamente aveva abbassato la testa verso il basso, pronunciando un “Ahi…” .
O almeno, provando a pronunciarlo.
Susan avrebbe giurato di non aver mai visto un luccichio simile negli occhi della sorellina minore.
Una mano sotto la schiena per il dolore, l’altra appesa al materasso per colpa della caduta, Lucy Pevensie si era ritrovata sul pavimento, un peso smisurato sulla pancia, le labbra leggermente appoggiate a quelle del fratello. E quando queste ultime si erano schiuse sulle sue per articolare la parola “Ahi…”, la piccola di famiglia si era come congelata, un’espressione esterrefatta scolpita sul volto rossastro, mentre osservava gli occhi del fratello spalancarsi per aver compreso l’accaduto e le sue guance avvampare per la prima volta sotto il suo sguardo.
Niente fu paragonabile all’atmosfera di quella scena che, anche se all’inizio aveva solo divertito la secondogenita di famiglia, dopo un po’ si era trasformata in una grave preoccupazione.
Certo, era stato solo un incidente, all’apparenza, ma la nuova, intuitiva Susan sapeva come comprendere i più piccoli, soprattutto i suoi fratelli. Grazie ai suoi nuovi contatti con il mondo reale, la sua dote migliore era diventata quella di riuscire a comprendere il modo di sentirsi degli altri. E così, in poco tempo, Susan aveva cominciato a sospettare che quegli sguardi impacciati non contenessero solo del semplice, disorientato imbarazzo.

Si intenerì dopo questo assurdo pensiero? Certo che no! Chi lo avrebbe mai fatto, dopotutto?
Scuotendo la testa, l’inquietudine in cui Susan era stata velocemente trascinata prese il sopravvento.
Doveva agire. E anche alla svelta.
Si schiarì rumorosamente la gola, portandosi una mano al collo. Una mossa azzardata, architettata sul momento, ma efficace.
Emh emh…”

Edmund fece un balzo fulmineo all’indietro, alzandosi in piedi, e voltò la testa verso la porta, incontrando il cipiglio atterrito della sorella maggiore. Lucy sobbalzò e con un guizzo spostò uno sguardo allarmato ed intimorito nella stessa direzione.
Quindi Susan si sforzò di mettere in scena il suo più caldo ed ingenuo sorriso, nonostante il suo viso stesse lottando con forza contro la sua volontà per mantenere l’espressione sconcertata di qualche secondo prima.
“Che cosa state facendo?” chiese, innocua.
Il diciassettenne si girò verso il lato opposto della stanza, portando le mani nelle tasche dei pantaloni.
Tipico di Edmund. In situazioni come queste, tentava sempre di nascondere le proprie emozioni.
Lucy, al contrario, mostrava senza problemi di essere il panico tramutato persona. Per non dare troppo nell’occhio aveva preso a strofinare la mano destra dietro la schiena.
“Sono solo inciampata sulla mattonella rotta” mugolò. “Ho sbattuto la schiena contro il letto.”
“Sarebbe ora che la mamma la facesse aggiustare” sospirò Susan. “Ti sei fatta molto male?”
“No, non è niente, passerà in fretta” rispose l’altra, così rapidamente da far quasi sobbalzare la sorella.
Dopodiché fece pressione con la mano sul materasso e si rialzò. Lanciando un’occhiata in direzione di Edmund, prese a stendere le pieghe della gonna. Il fratello, però, non sembrava dare segni di vita, lo sguardo fisso sulla scrivania, il corpo immobile. Lucy sembrò rinunciarci e, sostenendosi le braccia, inchiodò gli occhi al pavimento.
“Come mai sei qui?” chiese alla sorella con una voce spezzata che non assomigliava per niente alla sua.
“Ero venuta a dirvi che la cena è pronta” la informò Susan, con il tono più naturale che riuscisse a simulare.
“Bene, arriviamo” rispose subito Lucy, e senza emettere un fiato sorpassò la sorella a capo chino, uscendo in un batter d’occhio dalla stanza.
Edmund aspettò qualche secondo, dipingendo un silenzio spinoso nell’aria. Poi seguì l’esempio della più piccola ed uscì, nascondendo i suoi pensieri sotto una maschera d’indifferenza.
Ma invano.
Il rossore sulle sue guance si sarebbe notato anche lontano mille miglia.


Più tardi, sdraiata sul suo letto morbido e piacevolmente fresco, Susan si rese conto di aver reagito un po’ scioccamente di fronte a quella situazione. Fu allibita di notare, però, che la stessa angosciante impressione provata qualche ora prima non l’aveva ancora abbandonata.
Da quel giorno la sua mente prese spesso a viaggiare in modo irrequieto, attraversando pensieri illogici e sconclusionati, e per quanto Susan cercasse di fermarla non riuscì mai a vietarle di rivolgersi sempre la stessa domanda.
Cosa stava succedendo tra Lucy ed Edmund?
Che ultimamente passassero molto tempo da soli e senza di lei e di Peter era una cosa naturale, almeno a quanto le aveva detto Peter. Secondo il suo parere, Edmund e Lucy si trovavano meglio insieme perché i loro fratelli maggiori erano ormai troppo grandi; i quattro non potevano condividere più gli stessi pensieri come accadeva una volta: una ventenne ed un ventiduenne potevano essere di pareri più giudiziosi rispetto a quelli di una sedicenne e di un diciassettenne. E su questo Susan non aveva dubbi.
Ma per quanto i piccoli di famiglia potessero andare d’accordo ultimamente e per quanto potessero essersi conosciuti meglio, Susan proprio non riusciva ad abituarsi al luccichio nei loro occhi quando incrociavano lo sguardo, oppure al modo in cui, quella sera, a cena, si erano evitati silenziosamente, guardando solo e soltanto il fondo bianco o carico di pietanze del proprio piatto. E ancora, non poteva spiegarsi come il color pomodoro che aveva tinteggiato il loro viso dopo l’incidente in camera si fosse schiarito così difficilmente, o il perché del tremolio della spalla di Lucy, seduta al fianco di Susan, le braccia che si sfioravano, nel toccare le dita di Edmund, serrate sulla stessa fetta di pane che lei aveva intenzione di agguantare.

Certo, riflettendoci bene, forse una soluzione c’era.
E, ovviamente, non era la prima volta che Susan la prendeva in considerazione.
Ma era così folle, così insensata, una tale idiozia che Susan non avrebbe mai neanche voluto ammettere di averla pensata.


E se Edmund e Lucy si fossero… innamorati?


























 

Angolo dell'autrice.

Era da tanto che volevo scrivere qualcosa su Le Cronache di Narnia, perché è il mio libro preferito di sempre e l'ho letto una decina di volte. Quest'idea mi è venuta in mente qualche anno fa, ma non ho mai avuto il tempo di pubblicarla. Susan è il mio personaggio preferito e non mi andava giù il fatto che abbandonasse Narnia solo per trucchi e festicciole, quindi ho aggiunto un motivo in più, anche perché ADORO la LucyxEdmund ed ero indecisa se scrivere su di loro o su Susan. Alla fine ho trovato il modo di parlare di entrambi! ^.^

Oh, voglio anche aggiungere che la soprastante è la mia prima fanfiction su questo account! u_u Una volta ne avevo un altro, ma per qualche motivo si è come dissolto nel nulla... xD

Non mi resta che augurare una buona lettura a tutti! =D
Ci vediamo al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** - it started out as a feeling. ***


Recensire non fa male alle mani!

 





- it started out as a feeling.





 

{feelings are the details that make the story of our lives better.}




























POV EDMUND.




Spaparanzato sul divano del salotto, guardo le nuvole spostarsi lentamente attraverso il vetro della finestra. Quello stupido pensiero si impossessa della mia attenzione ancora una volta: Peter aveva la ridarella, ieri sera a cena, solo perché non mi aveva mai visto arrossire.
Patetico.
Sto cercando di pensarci il meno possibile, ma ignorare le sue battutine “fatte per scherzare” non è facile. Sarà anche stato il Re Supremo di Narnia, ma il difetto di non riuscire a capire quando è ora di smetterla non glielo ha mai tolto nessuno.





Avrei proprio voluto vederlo nelle mie condizioni.
Se a cadere fosse stata Susan e lui l’avesse baciata per errore, sarebbe diventato un peperone vivente. E avrebbe balbettato minimo per tutta la serata.
Ridacchio sotto i baffi solo ad immaginarmi la scena.
E a proposito di Susan, mi chiedo cosa abbia visto esattamente.
Non credo sia stata lì tanto tempo, oppure me ne sarei accorto. Anche se, pensandoci bene, non è che tenessi le orecchie proprio aperte, in quel momento…
E neanche gli occhi. O almeno, non erano concentrati sulla porta.





Mi sdraio in una posizione più comoda e lancio via il cuscino che fino ad ora tenevo sotto la testa. Chiudo le palpebre e un tonfo morbido mi annuncia che il cuscino è finito sull’altro divano.
Provo a svuotare la mente, ma le immagini di ieri sera scorrono distinte davanti a me senza permesso. Scuoto la testa e cerco di concentrarmi su qualcos’altro, ma invano.
Di solito in questi momenti di noia sono in compagnia di Lucy, ma credo che sarebbe alquanto imbarazzante andare da lei dopo quello che è successo.
Anche se la conosco meglio degli altri, non riesco ad immaginare cosa mi direbbe se la incontrassi in questo momento.
Anzi, ci riesco. Non direbbe proprio niente.
Mi guarderebbe per un po’, in silenzio, e poi comincerebbe a ridere.





Ora che ci penso, non mi dispiacerebbe incontrarla, in quel caso.
Adoro Lucy, quando ride.
Riesce come a contagiarti, in qualche modo assurdo, attorcigliandoti lo stomaco e lasciandoti dentro una gran voglia di unirti a lei. Rende il motivo della sua risata divertente il doppio di quello che è realmente: ti ritroveresti a sghignazzare per ore, in sua compagnia.





La quiete della camera viene interrotta da un leggero strepitio, che le mie orecchie classificano immediatamente. E’ il rumore che il vecchio sofà di papà emette quando qualcuno ci si siede sopra.
Riconosco all’istante, quindi, l’identità di chi è venuto a tenermi compagnia.
Lucy è l’unica che ha l’autorizzazione di sprofondare in quell’ammasso di cuscini e soffice pelle.





E’ venuta lei. Non ha aspettato me.
Chissà per quale motivo, non ne sono sorpreso.
Quando mi giro per osservarla, noto per prima cosa i capelli aggrovigliati: deve aver appena terminato di fare colazione.
Sa quanto li adoro, quando sono così. Gliel’ho detto io, qualche giorno fa.
Le stanno bene.
Lei non è il tipo di ragazza simile a Susan, che ha bisogno di pettinarsi e di usare lacca e bigodini per essere bella. Lei è bella e basta. Anche appena sveglia.
Ma questo non lo saprà mai. Poco ma sicuro.





Mentre mi guarda negli occhi intuisco che è imbarazzata, anche se non vuole darlo a vedere.
Innocentemente adagiata sulla poltrona, la vestaglia bianco latte che lascia intravedere i piedi scalzi, porta le mani dietro la schiena e comincia a torturare la seta dell’indumento.
Non so quanto tempo passiamo così, ma riesco solo a pensare che quella che avverto adesso è la sensazione più strana che io abbia mai provato. Non è imbarazzo, nonostante le circostanze, e neanche agitazione: assomiglia molto alla confusione che si prova quando speri ardentemente in qualcosa che potrebbe succedere da un momento all’altro. Allo stesso tempo, però, distinguo un peso fastidioso sullo stomaco.
Dopo quelli che sembrano secoli, Lucy abbassa lo sguardo sul pavimento e sogghigna.





E’ come se perdessi un battito. Da lì ho la conferma che Lucy non è cambiata dopo quello che è successo, che non cambierà mai.
Resterà competitiva come sempre. Espansiva come sempre. Ridanciana come sempre.
E non faccio in tempo a finire di pensarlo che Lucy comincia a ridere, spezzando finalmente il silenzio asfissiante che mi ronzava nelle orecchie.





Ride, ride e sembra non riuscire a smettere. Il mio peso sullo stomaco sparisce all’istante.
Si porta una mano davanti alla bocca e abbassa la testa. I capelli le ricadono davanti agli occhi.
Quando finalmente smette, in simultanea con la testa alza i capelli verso l’alto. Punta di nuovo gli occhi su di me, quasi a sfidarmi, e stende per bene la camicia da notte sulle ginocchia.
Mi accorgo solo ora che sto sorridendo, quasi ghignando, e smetto subito; in compenso, metto su l’espressione più perplessa che possiedo.
“Perché ridi?”
L’ho fatto. Ho accettato la sua sfida.
“Perché sei sdraiato in un modo buffissimo” risponde lei, mentendo.
Quando sposto lo sguardo su di me, però, mi accorgo che ha incassato un punto. Ho una gamba stesa sull’appoggiatesta del divano, l’altra piegata, il braccio destro sotto la testa e l’altro penzolante, le dita a sfiorare il pavimento.
Ridacchia ancora e mi convinco che dovrò aspettare molto prima che lei ammetta l’effettiva ragione del suo divertimento.
Però non mi sposto di un millimetro e resto immobile nella posizione da lei tanto derisa.
“Beh, sono comunque un re. Devo tenermi stretta la reputazione, non trovi?”
Lei si sbellica ancora una volta. Non posso spiegare quanto questo mi faccia sentire bene.
Poi esclama un: “Ben detto!” e si alza in piedi. Cammina in direzione dell’altro divano, per farmi credere che abbia voglia di sdraiarsi, ma le sue intenzioni le si leggono in faccia.
Subito mi metto seduto e cerco di scappare, mentre lei si lancia su di me e comincia a farmi il solletico. Resisto con tutte le mie forze per una ventina di secondi, poi cedo e lei riprende a ridere anche più forte di me. Soddisfatta, mi lascia in pace fino a che non smetto, e quando questo succede la ritrovo sdraiata sull’appoggiatesta del mio divano, a pancia in giù.





“Siamo degli stupidi, non trovi?” chiede, trascinando una ciocca castana fuori dalla portata della sua bocca. Sta sottintendendo una tregua, ma io ci gioco ancora un po’.
“Parla per te” ridacchio.
Lei mi tira un pugno sul braccio, senza farmi troppo male, e si finge offesa.
“Dai, sto parlando sul serio!” si lamenta, storcendo la bocca.
“E va bene” gliela do vinta. “Forse solo un pochino”.
Mi fa un sorrisetto e sento la mia mente svuotarsi. Penso che non riuscirei mai a rilassarmi tanto con nessun altro al mondo.
Le scompiglio un po’ i capelli, spettinandoli ancora di più di quello che già sono. Lei giocherella con le mie dita per qualche secondo, poi incastra le sue nella mia mano. L’ultima cosa sensata che riesco a pensare è che se Susan ci vedesse adesso si acciglierebbe molto più di quanto abbia fatto ieri.
Prendo ad accarezzarle la punta delle dita, poi il palmo della mano e così via. Percorro i contorni del suo polso, del braccio, del gomito, fino ad arrivare alla spalla, poi torno indietro.
Intanto la mia mente vaga libera, come sempre succede quando sto con Lucy, e penso che da piccolo dovevo essere uno stupido se le prestavo attenzione solo per prenderla in giro e tormentarla. Lei sposta l’altro braccio in orizzontale e ci appoggia la testa sopra.
Stiamo per minuti, ore, forse giorni così, senza dire niente. Ho i brividi ma faccio finta di non accorgermene, come sempre.
Lei non dice niente. Qualche volta chiude gli occhi e trattiene un mugolio, un sospiro, una mezza risata.
Quando finalmente decide di andarsene, scende dall’appoggiatesta e si siede sulle mie gambe, i piedi scalzi che toccano il pavimento. Esclamo un “ah!” perché mi sta schiacciando le ginocchia, lei ridacchia per l’ennesima volta e si alza. Fa per andarsene, poi torna indietro e si china per lasciarmi un bacione sulla guancia. Quando esce dalla porta, sto già tornando me stesso, e come al solito mi ricordo che non dovrei reagire così, ma lascio correre.
Una cosa, però, è certa: quella botta sulla fronte me la ricorderò per tutta la vita.

















Angolo dell'autrice.

Ecco il secondo capitolo! L'ho pubblicato oggi perché non so se domani ci sarò...
E' un po' cortino, ma non vi preoccupate perché il secondo sarà più lungo. Ah, e volevo far notare che i titoli dei capitoli sono basati sul testo della canzone "The Call" di Regina Spektor, quella utilizzata per il film "Il Principe Caspian". =)

Ora scappo, perché ho molte cose da fare... stasera tornerò a leggere le recensioni. Grazie a tutti quelli che hanno letto e a Hyppogrif e Francesca_c, che hanno recensito. Buona lettura a tutti! ^.^

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Capitolo 3
*** - which then grew into a hope. ***


Recensire non fa male alle mani!


 





- which then grew into a hope.

 




 

{hope is the only thing stronger than fear.}




























POV LUCY.

Peter, oggi, è nervoso. Molto nervoso. Sta letteralmente impazzendo tra grossi libri, appunti, storie e biografie da ricordare. Deve presentarsi all’esame tra due mesi e da l’impressione che il giorno prefissato per cominciare sia domani.
Con un sorriso gli dico di stare calmo, mentre aiuto Susan ad asciugare i piatti.
Lei è molto fortunata, invece. Domani partirà con mamma e papà per gli Stati Uniti.
Ne abbiamo parlato a pranzo. Mamma vuole portarsi solo Susan perché sarebbe un grosso peso sostenere anche me ed Edmund. Peter non sarebbe venuto comunque, perché andrà a casa del professor Kirke a studiare per l’esame.
Sorprendentemente, dice che è felice di andarci. La casa del professor Kirke è sempre molto silenziosa, e lui ha bisogno di pace e tranquillità per terminare i ripassi.
Susan, invece, si sente un po’ in colpa. E’ convinta di rovinarci le vacanze.
Quando ha saputo della novità era molto contenta, ma dopo averci pensato su ha cominciato a blaterare cose come: “Non mi sembra giusto che io vada in America a divertirmi mentre voi siete costretti a studiare o a sopportare Eustace”.
Io le ho spiegato che questa vacanza le sarà utile. Sto cercando di non farle pesare la grande opportunità che le è capitata.
Intanto, però, devo anche prepararmi ad un lungo periodo di beffe e rispostacce. Eustace si è sempre divertito a fare il burbero con me e con i miei fratelli, ma sospetto che questa volta Edmund non riuscirà a sopportarlo con facilità.





Quando ho asciugato l’ultimo pentolone, Susan sbadiglia che ha voglia di farsi una dormita e si dirige in camera sua. Esco dalla cucina anche io, lasciando in pace Peter che, nel frattempo, ha cominciato a ripetere pagine e pagine di un grosso tomo ingiallito, e girovago un po’ per casa.
In fondo al corridoio incontro mamma. Sta stirando i vestiti che stasera chiuderò in valigia. Mi da un paio di cravatte di papà e mi chiede di posarle nel suo armadio.
Quando ho finito, salgo le scale che portano al piano di sopra e cerco Edmund. Di solito, se non deve aiutare papà a sbrigare qualche faccenda, dopo pranzo si trova in camera sua.
Raggiungo la porta, ma non busso. La spalanco silenziosamente ed entro in punta di piedi.
Edmund è lì, sdraiato sul letto a pancia in giù, che sfoglia un libro con aria concentrata. Mi trascino dietro di lui per fargli uno scherzo, ma proprio quando sto per gridare si accorge di me e si gira. Comincio a ridere mentre lui mette il segno, chiude il libro e si siede, aspettando che io smetta. Quando questo accade, mi metto in ginocchio sul materasso.
“Non sperare che la prossimo volta ti vada meglio!” mi dice, sornione, posando il libro sulla scrivania lì affianco. Poi si sdraia a pancia in su, le mani sotto la testa, uno scintillio vivace negli occhi.
“C’ero quasi riuscita, però!” lo punzecchio. Lui mi passa una mano tra i capelli, me li ingarbuglia, ridacchia per un po’ e poi replica un: “Solo perché stavo leggendo!”.
“Ah, è così?” domando, mentre la mia mano si è già chiusa sul cuscino dietro di me. Lui riprende a ridere ed è già pronto a scappare. All’inizio riesco solo a colpirlo sulla testa, perché è troppo veloce e continua a correre dappertutto. Percorriamo per tre volte l’intera stanza, poi lui si volta e, cogliendomi di sorpresa, mi estorce il cuscino dalle mani. Mi ritrovo per terra a schivare cuscinate, poi lui prova a colpirmi sul fianco ed io trovo il modo di sfuggirgli. Corro verso l’armadio, mi chiudo dentro e cerco a tentoni un altro cuscino. Trovo solo pantaloni e magliette, quindi aspetto che Edmund spalanchi l’anta e mi attacchi nuovamente. Però non lo fa. Guardo attraverso il buco verticale tra le due ante e lo osservo avvicinarsi all’armadio in punta di piedi, come fosse un ladro. “Non troverai di certo Narnia, là dentro, sai?” mi canzona. Soffoco una risata e mi stringo ancora di più tra i vestiti. Quando Edmund spalanca la porta, mi sposto velocemente verso sinistra e il cuscino mi manca per un pelo. Lo tiro con forza e alla fine riesco ad afferrarlo, poi comincio ad attaccare il disarmato, che in un batter d’occhio corre via e si lancia sul letto. Gli porto il cuscino alla gola, come fosse una spada, e ricordando le battaglie di Narnia gli soffio un “Ti arrendi?” sulle labbra.
Tum tum. Tum tum.
Lui ringhia un “mai!” e cerca di ribellarsi, quindi giro il cuscino e lo spingo sul suo viso, come per soffocarlo. Lui tenta di allontanarlo ed io rido, sempre più forte, fino a che lui non molla la presa, arrendendosi. Lancio via il cuscino e cado all’indietro, sdraiata a pancia in su. “Ho vinto!” grido, portando le braccia verso l’alto. Per vendetta, Edmund mi fa il solletico.




Quando smette, si sdraia alla mia destra, stanco. Io mi giro sul fianco sinistro e un silenzio rilassante scivola sulla camera, incoraggiandomi a chiudere gli occhi. Sento il respiro di Edmund sul collo, le sue mani che giocano con le mie ciocche, le sue gambe che sfiorano le mie. Penso ai giorni che passeremo da soli a casa di zia Alberta e lo stomaco mi si attorciglia. Un brivido mi percorre la spalla quando lo sento accarezzarmi il collo con un dito.
Essendo sempre stata sincera, non rinnego la verità a me stessa. So che quello che provo adesso, queste sensazioni confuse, non dovrebbero neanche sfiorarmi, ma sul momento non riesco a fare niente che possa bloccarle.
Così mi lascio trasportare, perché so che se non lo facessi me ne pentirei amaramente, ma allo stesso tempo, mentre mi giro per guardarlo negli occhi, so che mi pentirò anche di aver scelto di farlo.
Devo essermi voltata di scatto, perché inizialmente lui sembra sorpreso. Gli afferro la mano che mi tiene nei capelli e riempio gli spazi tra le sue dita con le mie. Non so cosa stia pensando di fare, ma tiene lo sguardo fisso su di me.
“Lu…” mi richiama dolcemente, usando l’abbreviativo che preferisco. Mi sento sciogliere dentro, sentendolo pronunciare da lui in quel modo.
“Io ho… un grosso problema” sussurra.
Anche io, penso subito. Ma non glielo dico.
Per ora, mi limito ad ascoltare il suo.
“Che tipo di problema?” lo incito, constatando con stupore di non riconoscere più la mia voce.
Edmund aspetta qualche secondo per parlare. A volte sembra sia sul punto di dire qualcosa, poi sembra ripensarci e deglutisce.
Alla fine si mette seduto, le spalle al muro, e abbandona la mia mano. Mi si blocca il respiro.
“Niente, Lu. Lascia perdere” dice.
“Cosa, Ed?” chiedo con un filo di voce, accucciandomi vicino a lui. Ricordo che quando ero piccola, per convincerlo a giocare con me, lo facevo sempre. Non che funzionasse ogni volta, sia chiaro, ma riprovarci è d’obbligo.
Lo guardo negli occhi, che non emanano più la lucentezza di qualche secondo fa. Lui si gira dall’altro lato.
“Niente, lascia stare” risponde.
Lo conosco fin troppo bene. Quando fa così, quando si cela dietro un’espressione annoiata, sta succedendo qualcosa di serio.
“Cosa, Ed? Se hai qualche problema, devi dirmelo” continuo. Gli tiro il braccio per spingerlo a guardarmi, ma lui si libera con uno strattone.
“No, Lu, lasciami in pace” continua. Quel Lu mi spinge ad insistere.
“Perché non vuoi dirmelo? Che problema hai? Dimmelo, Ed!”. Il mio tono di voce è molto più intimidatorio. 
“Nessuno, Lu, lasciami stare!” urla.
Sento un colpo nello stomaco e mi sembra davvero di tornare al passato, quando lui era solo un bambino scontroso ed io gli chiedevo un semplice abbraccio. Lasciami stare, mi ripeteva. Lasciami stare
Ed, che cosa ti è successo?"
“Ti ho detto di lasciarmi stare!”
“Che problema hai? Devi dirmelo, Ed, io…”
“Lascia perdere!”
“Ed, ma che cosa stai…”
“SMETTILA, LUCY!”
Mi zittisco all’istante. Il suo viso è a pochi centimetri dal mio, furioso come non mai.
“Smettila! Non puoi saperlo! Non è una cosa… mphf…”
Si interrompe sbuffando, quasi stessimo ancora scherzando come prima, quasi fosse tutto un gioco. Mi fissa negli occhi e a poco a poco lo guardo riaccendersi, ritornare sé stesso. Abbassa lo sguardo con un sospiro. Io gli porto una mano sotto il mento e gli alzo la testa.
Rimane in silenzio. D’impulso, gli butto le braccia al collo. Sento il suo calore irradiarmi da parte a parte, quasi mi fossi gettata in un camino acceso, e mi ricordo per l'ennesima volta che non dovrei sentirmi così.
“Scusami, Lu. Non so cosa mi prende” mi sussurra nell’orecchio.
“Va tutto bene” gli dico, affondando una mano nei suoi capelli. “Va tutto bene” ripeto.
Ma non va bene. No. C’è una parte di me che ancora grida, disperata. Perché non me l'ha detto?

Lo sento sorridermi sulla pelle. Balbetta qualcosa che forse è un’altra richiesta di scuse, ma io non sento niente. Mi lascio solo cullare dal suono della sua voce.
Poi scioglie l’abbraccio e mi porta una ciocca dietro i capelli. Si dirige in direzione della porta, guardando dritto di fronte a sé. Il rumore dei suoi passi mi rimbomba nella testa più volte.
Quando è uscito dalla stanza, mi sento delusa. Mi aspettavo davvero che dicesse qualcosa, ma non posso spiegare cosa. C’è un buco nella mia pancia che comincia a risucchiarmi, mentre sento il cuore cominciare a battere all'impazzata.
So cosa speravo. Anche se non lo ammetto.
E mi sento una stupida, perché non dovrei provare niente di tutto questo.
Chiudo gli occhi, constatando di odiare i miei stessi pensieri - i miei orrendi, rivoltanti 
pensieri.



Speravo di essere io, il suo grosso problema.


















Angolo dell'autrice.

Sono ritornata con il terzo capitolo, stavolta dal POV di Lucy. L'ho corretto un po' di fretta, quindi se notate qualche errore non esistate ad avvisarmi. =)
Purtroppo, correggendo le varie parole, questo capitolo non è risultato tanto lungo come avevo detto... Mi dispiace tanto! =S
Ma credetemi, è meglio leggere questo, anche se corto, che la versione originale... c'erano alcune frasi da far paura! o_o 


Ringrazio infinitamente Francesca_c, Hyppogrif e soffio, che hanno recensito il precedente capitolo; ovviamente, un grazie anche ai semplici lettori ^.^
Ci sentiamo alla prossima! Buona lettura a tutti!

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Capitolo 4
*** - which then turned into a quiet thought. ***


Recensire non fa male alle mani!


 





- which then turned into a quiet thought.

 




 

{is the thinking that leads to the love.}




























POV EDMUND.

Svuoto la valigia e sistemo i vestiti nel cassettone che zia Alberta ha rimediato per me. In questa camera piena degli stupidi oggetti di Eustace, un mobile tanto antico e decorato sembra completamente fuori posto. Sarà l’unica cosa profumata nell’intera stanza, quindi sono felice che almeno le mie magliette possano rimanere rinchiuse lì dentro e mantenere il loro buon odore.
Odio il fatto di essere dovuto venire qui. E’ un posto così noioso e banale da farmi quasi rimpiangere il castello della Strega Bianca. Per di più, ogni sera dovrò sopportare le simpatiche battutine di Eustace e il tanfo provocato dai suoi scarafaggi morti. O ancora peggio, potrebbe ricominciare a parlare di quanto i suoi libri siano interessanti ed istruttivi. Al solo pensiero, gli occhi mi si serrano al cielo.
La cosa peggiore di questa “vacanza” è che, al contrario delle altre in cui disponevo almeno della compagnia dei miei fratelli, per colpa dei miei stupidi sentimenti dovrò passarla completamente in solitudine. Non ho la minima intenzione di farmi vedere da Lucy proprio adesso, dopo quello che è successo ieri. Magari, passato un po’ di tempo, avrò il coraggio di farlo, ma per ora mi limiterò ad allontanarmi da lei, per il bene della mia mente ingarbugliata. Se continuassi così, potrei cadere in un’ossessione isterica. Sono già arrivato a sperare che tutto torni normale, proprio come mi è successo dopo l’incidente in camera: questa fissazione di voler riuscire a parlare con lei senza problemi di mezzo mi sta semplicemente rovinando. Afferro l’ultima camicia della piramide e la infilo nel cassetto. Sotto i vari indumenti, ho nascosto all’insaputa di mia madre l’ultimo libro poliziesco che ho comprato. Se lei lo sapesse, avrebbe già cominciato ad urlare. Cerca sempre di impedirmi di portare dei libri con me, quando vado da zia Alberta: secondo lei, dovrei socializzare e passare del tempo con mio cugino, invece di spendere ore sdraiato sul divano a leggere. A me, però, non interessa. A socializzare con mio cugino non ci riuscirebbe nessun essere umano, figuriamoci io. Penso che per lui sia già un bel traguardo essere stato accettato dagli scarafaggi.









Dopo qualche minuto, o forse ora, mi sono perso tra indagini e sparatorie. C’è uno strano ticchettio, però, di cui all’inizio non mi accorgo: proviene dalle mie spalle, ma non ho assolutamente voglia di separarmi dal libro per capirne la fonte. Quando però il rumore si fa più insistente, sono costretto a girarmi per cercare quel maledetto orologio o chicchessia stia interrompendo la mia lettura. Mi ritrovo a fissare Eustace, appoggiato allo stipite della porta, che con un ritmo più preciso di quello di una sveglia ticchetta con l’unghia della mano destra sulla parete ingiallita. Alzo un sopracciglio.
“Che cosa vuoi?” chiedo, infastidito.
“Sei così immerso in quello stupido libro da non accorgerti dei rumori del mondo esterno? Sono qui da quasi una mezz’oretta. Lo sai questo, vero?” risponde con la sua vocina provocatoria.
“Beh, se hai qualcosa di meglio da fare, non ti ho mai costretto a rimanere” incalzo.
Lui aggrotta le sopracciglia e resta in silenzio per un po’. “Non c’è niente di meglio che infastidirti, caro cugino” sogghigna poi.
Cerco di trattenermi dal tirargli un pugno. Quel maledetto…
“Io però ce l’ho qualcosa di meglio da fare, quindi vattene, forza!” lo caccio. Senza accorgermene, sono in piedi e lo sto spingendo verso il corridoio. Lui scivola fuori in un batter d’occhio ma, con mio grande successivo rimorso, dà una capocciata niente di meno che a Lucy, apparsa all’improvviso da non so dove.
“Ahi!” esclama subito lei, ma sono felice di notare che il suo tono di voce non esprima alcun tipo di dolore.
Tra il trambusto generale (Eustace che cade all’indietro e si lagna come un neonato della botta sulla fronte, zia Alberta che accorre in suo aiuto ed esprime la sua preoccupazione gridando e gemendo, io che impreco a voce alta), l’unica cosa di cui mi interesso è Lucy, che si massaggia la testa guardando stranita l’esagerazione di Eustace. Solo dopo un po’, quando quel lagnoso di mio cugino ha terminato la sua tragedia greca, Lucy sbuffa e mi lancia un’occhiata veloce come a dire “è-sempre-il-solito”.
Quello è il momento in cui capisco di essere completamente fuori di testa. Come ho potuto solo pensare che passare di nuovo del tempo con Lucy avrebbe cambiato tutto? Lucy è sempre uguale. Qualsiasi cosa accada, non ti tratterà mai diversamente. Come Eustace, “è-sempre-la-solita”. Solo in modo positivo. Devo cercare di ricordarmelo.








Mentre zia Alberta è impegnata a trascinare Eustace nel bagno, Lucy fa per entrare nella mia nuova camera.
“Non te lo consiglio” la fermo subito, portandole una mano sulla spalla. “C’è un fetore da far paura”
Lei ridacchia. “Allora vieni in camera mia” mi invita, afferrandomi per un braccio. Mi trascina verso le scale e, una volta arrivati in cima, mi mostra la camera che zia Alberta le ha procurato quest’anno. All’apparenza sembra una normale stanzette, piuttosto anonima, ma qualcosa mi dice che sono già stato qui. Probabilmente, l’ho esplorata quando ero piccolo.
“Guarda questo” mi dice Lucy, indicando un quadro appeso sulla parete. Rappresenta un veliero. Uno di quelli belli, però. Mi avvicino e noto molti particolari della nave e delle vele che mi ricordano in tutto e per tutto lo stile delle navi di Narnia. Comincio a sospettare che ci sia qualcosa sotto. Io e Lucy possiamo ancora andare a Narnia, secondo le parole di Aslan. Soltanto Susan e Peter non sono più dell’età giusta. E se forse…?
Mi giro e guardo Lucy, convinto che stia pensando esattamente la mia stessa cosa.
“Narnia” mi dice semplicemente, quando si accorge che la sto guardando.
“E’ così simile” rispondo, tornando ad osservare il quadro. “Pensi che ci sia qualche possibilità che…?” Mi interrompo, una nota di speranza a terminare da sola la frase.
“Non possiamo saperlo” dice. “Ma a Narnia ci siamo sempre arrivati quando meno ce lo aspettavamo, quindi chissà…”
Mi siedo sul piccolo lettino color latte, senza spostare gli occhi dal quadro. Sarebbe perfetto entrare a Narnia adesso, durante il nostro alloggio qui. Potrei fare qualcosa di più interessante che contare quante rispostacce al giorno Eustace si diverte a darmi.
“Quanto mi piacerebbe tornarci” sospira Lucy, sedendosi accanto a me. “Ricordo più cose di quel posto che della mia vera vita, lo sai?”
Io mi giro a guardarla e, per un attimo, rivedo la vecchia, piccola, dolce bambina dalle guance paffutelle che ti osservava con uno sguardo sognante ventiquattr’ore su ventiquattro, continuamente alla ricerca di qualcosa che solo lei conosceva. Mi fa un sorrisetto, che impulsivamente ricambio. “Per me, invece, è Narnia la mia vera vita” dico. Lei ha negli occhi quel luccichio emozionato di quando le confidano qualcosa che nessun altro sa. Le si legge in faccia che sta vivendo uno dei suoi desideri più grandi. Vuole tornare a Narnia. Pagherebbe qualsiasi cosa per farlo. E io muoio dentro. Come ogni volta che mi rendo conto che i suoi veri desideri non sono quelli che spero.
“Ed…” mi chiama, quasi lo stesse facendo apposta. “Pensi che… sarà lo stesso senza Susan e Peter?”
Nasconde una tremula vocina sotto quel tono che, all’apparenza, dovrebbe sembrare di semplice curiosità. E’ preoccupata. Perché noi siamo i minori, e loro sempre i grandi. Perché si sente ancora la piccola della famiglia. Ma deve capire che non è più così.
“No” rispondo, deciso. E la sua espressione per un attimo sembra sul punto di crollare. “No” ripeto, stavolta più delicatamente. “Perché stavolta comandiamo noi”
Deglutisce. “E se noi non ci riuscissimo? A… comandare?” balbetta.
“Ci riusciremo, vedrai. Siamo il re e la regina di Narnia, dopotutto, no?” rispondo.
Ma subito realizzo di essermi rinchiuso nella mia stessa trappola. Detto così, il re e la regina di Narnia, suona più come se fossimo sposati. Un brivido mi pervade mentre inspiro con il naso e fisso il pavimento. Io e Lucy. Il re e la regina di Narnia.
“E’ che… ho paura” continua Lucy, ignara di tutto. “Loro erano più esperti di me, sapevano sempre cosa fare. Io no”
Cala un silenzio di tomba. Riapro gli occhi che solo adesso ho notato tenevo chiusi.
“Ma tu non sei sola. Ci sono anche io” dico, chiudendole le mani tra le mie. Lotto con tutte le mie forze per ritornare nella precedente posizione, ma di fronte al sorriso appena spuntato sul viso di Lucy proprio non ci riesco. “Grazie, Ed” mi dice, gettandosi tra le mie braccia. E il mondo svanisce.








Inspiro il suo profumo e le accarezzo i capelli, lei mi stringe a sé e con tenerezza affonda il viso nella mia maglietta. “Grazie” sussurra di nuovo. E forse dice qualcos’altro, ma ormai io non posso più sentirlo. Sono già perso in un oblio, nel mio oblio fatto di Lucy, Lucy e soltanto Lucy. Non mi aspetto più niente da questa giornata se non la sua voce, i suoi occhi, i suoi capelli, lei. La stessa sensazione che provo adesso è quella che mi ha quasi spinto a sputare il rospo ieri sera, ma mi stupisco che questo pensiero non mi porti minimamente ad allontanarla. Al contrario, la tengo stretta fino allo sfinimento, impedendole di muoversi di un solo millimetro. Ma lei non sembra volerlo fare, quindi allento un po’ la presa. Me la ritrovo seduta sulle gambe, a fissarmi come una sorella non dovrebbe mai fissare un fratello. Non ho la minima idea di quale sia la mia espressione ora né voglio pensarci. La guardo negli occhi ed inaspettatamente mi rendo conto che no, è sbagliato, che non dovrei provare questo. Che ho rotto la promessa fatta con me stesso: non avvicinarmi più a lei se non come un fratello. Ma è tardi, è troppo tardi per fare la cosa giusta. D’impulso le porto le mani ai fianchi, senza più ragionare. Mi si confondono le idee tra lentiggini, labbra e nasini a punta, ma le seconde devono essere prevalse.
Perché Lucy ha appena appoggiato le labbra sulle mie.








Sembra strano. Cinque minuti fa eravamo seduti sul letto, a parlare di Narnia, come abbiamo sempre fatto, e adesso ci trattiamo in modo contrario, nel pieno dell’anormalità. Dobbiamo avere dei grossi sbalzi d’umore se ci succedono cose di questo tipo.
Il contatto con la sua bocca è a dir poco elettrico, come se mi prendesse una scossa. Mi manda calore in tutto il corpo e una bolla gigante comincia a rimbalzarmi nello stomaco. Come una lama tagliente, le mie labbra vengono incagliate dentro una morbida fetta di pane. E’ come il burro; anzi, meglio: è come il primo sole d’estate che ti riscalda la pelle. Ho gli occhi chiusi e le spalle impegnate a mantenere il peso delle sue braccia; sento un formicolio sotto il collo e mi accorgo della mano che mi accarezza le guance. Non ho la minima idea di dove siano le mie. Sento le sue labbra schiudersi e mi prende un battito esagerato al suo primo allontanamento. Rimango pietrificato dal freddo che mi pervade quando si è completamente staccata da me. Poi realizzo. Si è staccata da me.
Cerco con gli occhi, ma di lei non c’è nessuna traccia. Comincio a correre per i corridoi e a chiamarla, ma invano. Controllo in cucina, in salotto, persino in tutte le stanze al piano di sopra. Mi ritrovo di nuovo al punto di partenza e mi do della stupido da solo. Lucy è lì, rannicchiata per terra con la schiena al muro, proprio fuori alla porta di camera sua. Nasconde la testa dietro le gambe, come quando da piccolo le rubavo i peluche e lei non li trovava più. Ho una fitta nello stomaco al solo pensiero, così resto immobile a fissarla. Sicuramente si è accorta della mia presenza, perché non accenna un singolo movimento. Penso a cosa potrei dire, a cosa potrei fare per sdrammatizzare la situazione. Come farle capire che non deve sentirsi in colpa per quello che ha fatto? Poi mi ricordo che in realtà dovrei sentirmi in colpa anche io, perché questo non sarebbe mai dovuto succedere. Ma al momento non mi importa un fico secco di niente: voglio solo tornare a sentire il sapore delle sue labbra sulle mie.
Ma certo! Le labbra!
Mi inginocchio di fronte a lei e le alzo delicatamente il viso. Lei lo riabbassa subito, ma io insisto. Mi ritrovo a fissarla dritto gli occhi e la mia pancia fa una capriola all’indietro. Mi accorgo che sta per riportare la testa a posto, così velocizzo la cosa. La bacio per la seconda volta, rapidamente ma con tenerezza. Ho i brividi al solo sfiorarla, ma cerco di ignorare l’effetto che mi fanno e porto la mano sinistra (quella che non è ferma sotto il suo mento) al suo fianco. Dopo un po’ lei chiude gli occhi e si lascia trasportare. Le mie spalle si rilassano: sono riuscito a farla tranquillizzare, a farle capire tutto. O almeno credo. Ma non ci rifletto più di tanto, perché all’improvviso tutto si trasforma in pura furia. Mi ha tirato per la maglietta, tuffandomi nelle sue labbra. E’ come una delle tante sfide che sottintendiamo ogni giorno, come una gara a chi è il più forte. Mi mordicchia il labbro, si afferra ai miei capelli, mi tortura il palato. Il cuore mi batte all’impazzata. Non pensavo fosse capace di fare tanto. Poi, da buona lunatica che è, si stacca lentamente e gli occhi cominciano a luccicarle. I sensi di colpa le stanno ritornando su, e così anche a me. Ma cosa sto facendo? Devo essere completamente impazzito. Come ho fatto ad innamorarmi di mia sorella, a sperare in un suo bacio, a fantasticare su di lei? Su di lei, che conosco da tutta una vita. Come posso essere così… anormale?
Mi alzo in piedi e mi chiudo dentro la camera che, ci faccio caso solo dopo un po’, appartiene a lei. Ma mi butto sul letto lo stesso, la faccia affogata nel cuscino, le orecchie impegnate ad ascoltare il bum bum che il mio cuore ancora impazzito tamburella a contatto con il materasso.
Sono un mostro, penso. Un orrendo mostro.
Ma ancora non riesco ad impedire al mio cervello di desiderare un altro suo bacio. Di desiderarla ancora.
Ormai, quelle sensazioni che provavo si sono trasformate in un vero e proprio pensiero. Silenzioso, certo, e anche ben nascosto, ma pur sempre un pensiero, una certezza, qualcosa su cui non c’è più niente da riflettere.



Mi sono innamorato di mia sorella.





















Angolo dell'autrice.

Eccoci arrivati al quarto capitolo, per ora un po' confuso... dobbiamo aspettare il prossimo per vedere qualcosa di più concreto, diciamo. L'importante è che Edmund abbia capito cosa prova di preciso e, da quanto possiamo vedere, anche Lucy. =)
Rileggere, correggere e pubblicare questa fic mi ha preso così tanto da portarmi a scrivere i nomi di Ed e Lucy su qualsiasi foglio mi capiti sotto mano... Ultimamente sono in fissa con loro, quindi non aspettatevi niente di normale! xD


Ringrazio Hyppogrif che continua a recensire i miei capitoli e mando un grosso abbraccio anche a tutti i semplici lettori ^.^
Buona lettura a tutti! Giuro che il prossimo capitolo arriverà presto! (=

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Capitolo 5
*** - which then turned into a quiet word. ***


Recensire non fa male alle mani!


 





- which then turned into a quiet word.

 




 

{when the love wants to talk, the reason must be silent.}




























POV LUCY.

Parlare di nuovo con lui dopo tutto quello che è accaduto mi sembra strano. E ancora più strana è la distanza che c’è tra di noi, quella che fino a qualche giorno fa era stata completamente azzerata.
Sono ferma sul cuscino del letto, le gambe incrociate che sembrano di plastica, a fissare il pavimento. Lui è proprio sul lato opposto, alla fine del materasso. Si è seduto con semplicità e guarda il quadro appeso alla parete, quel quadro che è stata la mia disgrazia.
Nonostante ci abbia riflettuto molto, non so proprio cosa mi abbia preso, quel giorno. Penso solo di essere arrivata al limite, di non aver potuto più sopportare l’idea di trovarmi così vicino a lui o di toccarlo senza poter fare ciò che sogno da tempo. Senza poterlo baciare. Ho semplicemente aspettato troppo a lungo per nascondermi ancora.
“Allora, cosa volevi dirmi?” mi chiede, senza degnarmi di uno sguardo. Continua a far finta di analizzare il quadro, ma so che in questo momento i suoi occhi sono assenti. Finge di vedere ciò che sta solo guardando, come tante altre volte.
Ci metto un po’ prima di rispondere. In realtà, non so bene perché l’ho chiamato. Forse perché dopo un po’ la mia resistenza si è ridotta a zero, o forse perché mi aspettavo che lui pretendesse una spiegazione per il mio comportamento. Ma sembra proprio che la faccenda non gli interessi. L’unica cosa che gli sta a cuore, a quanto pare, è il tenersi a distanza da me.
E’ anche vero, però, che ci sono domande che mi assillano da tempo. O almeno, da quando lui ha cominciato a trattarmi così freddamente. Ho sbagliato a baciarlo? Io non credo. Penso di aver semplicemente fatto ciò che mi dettava il cuore. Così do voce ai miei dubbi, che spero si trasformino in qualcosa di meno infondato dopo la conversazione che ormai si annuncia prossima.











“Tu hai intenzione di lasciar perdere?” domando. So che lui ha capito benissimo cosa intendo, ma sospetto farà finta di non aver capito. Infatti, dopo qualche secondo di silenzio, eccolo che parte con le sue domande da falso ingenuo. “Lasciar perdere cosa?”
“Hai capito benissimo cosa” rispondo prima che lui possa solo riprendere fiato. Mi da fastidio che si dimostri sempre molto intelligente e che poi pretendi che io mi beva le sue menzogne da stupido quando c’è qualche difficoltà di mezzo. O più precisamente, mi da fastidio che non mostri i suoi sentimenti. Che non lasci mai intravedere come si sente veramente. Se ne sta lì, e fa finta di guardare altro, o più semplicemente se ne va. Sempre. Posso dire che questa è l’unica cosa che odio di lui.
Dopo quella che sembra un’eternità, finalmente si degna di voltarsi e di guardarmi negli occhi. Sono freddi. E cupi. Completamente diversi da quelli che mi osservavano qualche giorno fa.
“No” sospira poi, con tono rassegnato. Sono molto sorpresa della sua risposta. Mi aspettavo rimproveri, grida, rimorsi. Minimo un piccolo litigio su quanto ciò che proviamo sia sbagliato. E invece no. Ha deciso di dire la verità, di mostrarsi per davvero, almeno una volta nella sua vita.
“E allora perché ti comporti così?” esclamo, dando sfogo alle mie frustrazioni. “Perché non puoi semplicemente accettarmi?”
Per un attimo, sono convinta che dopo questo tornerà a guardare il quadro, o più probabilmente che si alzerà dal letto e se ne andrà da qualche altra parte. Invece noto che ha proprio deciso di continuare a sorprendermi, perché rimane lì, immobile, immerso nei suoi pensieri.
“Non lo so” risponde poi. “C’è una parte di me che mi costringe. E’ convinta che sia tutto sbagliato”
“Ma tu no, giusto? Tu sai che non è sbagliato” ribadisco, sperando in una sua risposta affermativa.
“Al contrario” mi dice invece lui. “Io so benissimo che è sbagliato, ma non mi importa. C’è però un lato razionale che mi spinge ad allontanarti.” Come al solito.
“Allora tu prova ad allontanare lui” sussurro, ma subito capisco che non dovevo.
“Non è così facile, Lucy!” sbotta. “Io non… noi non possiamo, lo capisci? Pensa a cosa direbbe papà. O mamma. O ancora peggio, a cosa penserebbero Susan e Peter. E’ sbagliato.
“Beh, a me non interessa. Chissà quante persone si trovano nella nostra stessa situazione. Scommetto che loro questi problemi assurdi non se li fanno” enfatizzo.
“Ma io sì!” grida. “Io… non riesco a sopportare il peso di star facendo qualcosa di folle.”
“Ma tu non stai facendo qualcosa di folle, Ed!” dichiaro.
“Invece sì! Tu non capisci! Non ci si può innamorare tra fratelli, Lu, è qualcosa di…”
Ma io non lo lascio procedere. “E chi l’ha detto?” sbraito, incrociando le braccia.
Edmund mi guarda come se avessi appena parlato di qualcosa di stupido, però non dice niente. Fa tanto il superiore, ma alla fine non sa neanche rispondermi. Comunque, non mi interessa di quello che pensano tutti. Non ci si può innamorare tra fratelli? Beh, io lo faccio lo stesso. Anzi, vi dirò di più: io addirittura bacio mio fratello.
E dopo questo pensiero mi spingo verso di lui, appoggiando le mie labbra sulle sue.

















Sembrano passati anni dall’ultima volta che l’ho fatto. Le gambe che prima sentivo paralizzate adesso vengono sciolte dai brividi. Il calore che mi parte dalla bocca si espande in tutto il resto del corpo, mentre le mie mani viaggiano con furore per raggiungere le sue spalle. Non mi stupisco che lui non reagisca, non mi scosti via con uno spintone né mi lasci imbambolata sul letto, andando via. So che in fondo anche lui vuole questo. Il problema è che non riesce ad ammetterlo.
Dopo qualche attimo di stupore, i miei fianchi vengono circondati e la mia testa premuta sempre più in avanti. Sentire le sue labbra premere e fremere sulle mie e aprirle quasi con violenza mi da alla testa. Vengo trascinata in un bacio esplosivo pieno fino all’orlo di desiderio soppresso e di parole mai dette bramose di uscire tutte e subito. Sprofondo in un coma delizioso, da cui non emergerò per un bel po’ di tempo.
Da quel giorno in poi, nonostante tutto, torniamo a trattarci come sempre. Lui sembra mettere da parte i suoi problemi e piano piano li nomina sempre meno. I pomeriggi spesi a parlare di Narnia e a fissare il quadro del veliero si moltiplicano uno dopo l’altro, ma la maggior parte del tempo lo passiamo a baciarci. Baci piccoli, baci veloci, baci intensi. Qualsiasi tipo mi va bene, a patto che riesca ad abbracciare le sue labbra e a sentirne il gusto. Finiamo per spendere intere giornate sdraiati a guardarci e uno strano tic mi spinge ad arricciare i suoi capelli e a giocherellarci con le dita ogni volta che lo abbraccio. Tra carezze e parole varie, non so più dove sia finita la mia testa. Sono pazza per Edmund. Sono pazza di Edmund. E non potrei mai desiderare qualcosa di meglio.















Una notte sono così piena di pensieri da non riuscire a dormire. In punta di piedi, attraverso la porta della camera di Eustace e mi accuccio vicino a Edmund. Proprio quando sto per addormentarmi, lui si sveglia e mi dice di tornare in camera, perché non vuole che anche io sia costretta a sopportare il profumo poco invitante che alleggia nell’aria. In effetti, i mobili sono pieni di polvere e sento un odore poco piacevole in direzione dell’armadio di Eustace. Così Edmund mi trascina nella mia stanza, ma quando fa per andarsene lo fermo. Dopo varie discussioni sottovoce si rassegna e si infila nel mio letto. Mi sistemo per bene sul suo petto e non mi muovo più. Lui tira su le coperte e affonda per bene la testa sul cuscino. Mi addormento velocemente, facendo strani sogni confusi, poi mi sveglio nel bel mezzo della notte. Spendo si e no qualche oretta ad osservarlo. Ha i capelli spettinati e le ciocche davanti agli occhi gli donano un’aria sbarazzina. La mano è infilata sotto il cuscino, proprio come faccio io, e tiene le labbra in fuori, così in fuori da sembrare carnose il doppio di quello che realmente sono. Resisto alla tentazione di avvicinarmi e morderle fino a farle sanguinare e mi limito a fissarlo. Quando i miei occhi si chiudono di nuovo, faccio appena in tempo ad aggrapparmi al suo braccio, dopodiché mi addormento. La mattina, però, al mio fianco non trovo altro che lenzuola. Inizialmente mi sento tradita e una fitta violenta si impossessa della mia pancia. Speravo in una di quelle mattinate piene di sole nelle quali ti giri e te lo ritrovi lì, già sveglio, con le mani sprofondate nei tuoi capelli.
Poi ci rifletto e mi do della stupida da sola. Cosa direbbe Eustace se svegliandosi notasse il letto di Edmund vuoto? Capirebbe subito che è venuto da me e si convincerebbe che ho ancora paura degli incubi. Edmund mi ha salvato da un lungo periodo di perfide prese in giro.
Dopo quel pensiero, mi sento subito meglio. Da quella sera in poi, però, mi trascino Edmund in camera. C’è una notte particolare che sono sicura ricorderò sempre. Prima di addormentarsi, Ed appoggia le sue labbra sulle mie e comincia a dischiuderle con dolcezza. Mi perdo nel modo dei sogni con il suo sapore in bocca e quando mi sveglio, al contrario di tutte le altre volte, mi ritrovo nella stessa posizione. E’ la più bella mattinata della mia vita, perché per una volta lui è ancora vicino a me. O forse sono solo io che mi sono svegliata presto. Comunque, aspetto che Edmund apra gli occhi e quando lo fa schiudo le labbra. Posso finalmente dire di essermi svegliata con un bacio, e anche lui. Per colazione mi mordicchia il labbro superiore e mi accarezza la pancia, mentre io me lo mangio con gli occhi.
















Sono felice. Molto felice. Anche se a volte capita che Edmund presti più attenzioni al suo libro che a me.
L’ha portato di nascosto da nostra madre. La decisione più odiosa che abbia mai preso. Spende intere mattinate sprofondato nel divano, a leggere di stupide indagini senza fondo. Di solito in quei momenti sto aiutando zia Alberta nelle pulizie, ma un giorno trovo il modo di terminare prima e mi dirigo da lui. Non si accorge neanche che sono entrata. La cosa mi brucia, ma allo stesso tempo è divertente. In punta di piedi raggiungo il divano e mi accuccio al suo fianco. Dato che legge sempre sdraiato a pancia in giù, mi risulta facile infilare la testa nello spazio vuoto tra il suo viso e le pagine del libro per scoccargli un rapido bacione. Dopo, però, torno velocemente nella posizione precedente e lancio un’occhiata alla porta, maledicendomi mentalmente per aver realizzato solo adesso che il salotto non ha la porta chiusa e che quindi Eustace o gli zii potrebbero vederci da un momento all’altro. Mi consolo quando Edmund si accorge della mia presenza: almeno è stato un rischio utile. Si gira e mi dedica un’occhiataccia, una di quelle che tanto mi ricordano i dispetti che ci facevamo da piccoli. Poi torna nel suo mondo dei sogni, e stavolta mi arrabbio sul serio. Sono davvero meno importante di uno stupido libro? Con uno sbuffo gli rubo un morso sul braccio, ma invano. Edmund fa un salto sul sofà e si sistema lì, ignorandomi del tutto.
A quel punto mi alzo in piedi con uno scatto e gli strappo il libro dalle mani.
“Ehi!” protesta lui, spalancando gli occhi, ma ormai è troppo tardi: gli ho già perso il segno. Lo fisso con uno sguardo di fuoco e nascondo il libro dietro la schiena. “Ridammelo!” grida, cercando di afferrarlo. Io lo stringo ancora di più e faccio qualche passo indietro per impedirgli di toccarlo. Dopo qualche minuto mi ritrovo a girare per la stanza, abbassando ed alzando il libro, portandolo dietro al collo o sulla testa. Edmund mi corre dietro, ma con il paio di scarpe nuove (quelle che mamma gli ha comprato prima di venire qui) non riesce a stare al passo. Mi libero con un calcio delle pantofole, salgo in piedi sul sofà e gli faccio penzolare il volume sulla testa. Lui proprio non riesce a prenderlo, e forse lo fa apposta, ma in ogni caso la situazione diventa comica. Sto ridendo a crepapelle senza poter smettere; persino lui sorride mentre ancora cerca di estorcermi il libro dalle mani. Alla fine è come se ci fosse un tacito accordo tra di noi: si ferma nello stesso istante in cui lo faccio io, portandomi il libro sul petto. Fingo di porgerglielo con un ghigno, lui fa per afferrarlo e io lo sposto verso il basso con un guizzo. Il risultato è che il suo braccio cade nel vuoto, e lui automaticamente si spinge in avanti con tutto il corpo. Ritorno a ridere come una pazza, ma non supero il limite perché so che dopo questo vorrà vendicarsi. Infatti si avventa su di me con un salto e un ringhio, lasciandomi cadere sul divano, e poi comincia a farmi il solletico. Tra le risate, il libro mi scivola di mano e prende a slittare sul pavimento. Edmund, però, non lo degna di una sola sbirciata. Si concentra su di me, tormentandomi la pancia con le dita, poi passa ad una tortura ancora peggiore: i baci sul collo. Morde, succhia, striscia sulla mia pelle ed io perdo la ragione. Mi ritrovo a gemere e a mugugnare cose senza senso, mentre lui passa a consumarmi la zona compresa tra il lobo e la spalla. Sale su e mi addenta l’orecchio, per qualche minuto o forse più non riesco a respirare. Scende scivolando verso la mia pancia, alza la maglietta e imprime l’ombra violacea di un succhiotto proprio sopra l’ombelico. Giuro che mai in tutta la mia vita ho rabbrividito tanto.
“Ok, ok, ho capito, ti sei preso la rivincita” cerco di ribadire tra lo stordimento. Ed ride maliziosamente, poi sorprendendomi mi fa sdraiare su di lui e mi sussurra: “Ora è meglio stare zitti, però”.
Subito mi rendo conto dei rischi che abbiamo corso e spalanco gli occhi, spostando rapidamente la testa in direzione della porta e della finestra. Entrambe sono vuote, ma come possiamo sapere che qualcuno non ci abbia visto e poi se ne sia andato?
“E’ vero!” esclamo, allarmata. Mi metto seduta e cerco di allontanarmi più che posso da Edmund. “Non dovevamo farlo… e se qualcuno se ne è accorto?”
Riflettendoci, non dovrebbe essere stato difficile sentirci. Agitata guardo Edmund, che al contrario di me sembra tutt’altro che preoccupato. Ma come fa a non capire la gravità della situazione?
“Scusa, ma eri stata tu a dire che non ti importava del giudizio altrui?” mi chiede, sogghignando.
“Certo!” dichiaro. “Ma non voglio che loro lo vengano a sapere in questo modo. Dobbiamo dirglielo noi, e con delicatezza, oppure potrebbero scandalizzarsi.”
Edmund alza le spalle. “Se lo scoprono così o nel modo in cui dici tu, non fa una grande differenza”.
“Invece sì!” sbotto, portando le mani ai fianchi. “Solo che tu sei troppo insensibile per capirlo!”
Sono arrabbiata. Perché deve sempre fare il cinico della situazione?
“Ah, quindi sono insensibile…” sghignazza, senza capire che non è il momento degli scherzi. Mi trascina sulle sue labbra e il loro effetto mi travolge, ma solo per un secondo. Poi mi riprendo e stacco il viso dal suo. “Ed! Abbiamo già rischiato troppo!” lo sgrido.
Edmund porta gli occhi al cielo. Sono questi i momenti in cui vorrei strozzarlo. Poi mi lancia un’occhiata allusiva di traverso. Vengo presa in braccio con la forza e trasportata al piano di sopra. Lamentele e grida per essere rimessa giù non vengono considerate. Spalanca la porta della mia camera con un calcio, entra, la richiude (con la chiave), mi getta sul letto e i capelli mi volano sul viso. Sposto una ciocca dalla bocca. “Ecco, contenta?” chiede. “Così la finisci di fare tutte quelle storie solo perché nel salotto ci possono entrare tutti”. Lo tiro a me afferrandolo per la maglietta e finisco per dover sopportare il suo peso sul mio corpo. Allora mi giro e mi sistemo su di lui. Mi avvicino per baciarlo, ma lui mi ferma con una mano. “No” dice. Si alza in piedi e con uno strattone mi trascina insieme a lui. Finiamo al centro della stanza, e con stupore mi ritrovo sul suo petto, le mani infilate nelle sue, la testa sotto il suo collo. Giriamo in tondo, come se stessimo ballando. Ancora non capisco il perché di questa cosa, ma mi lascio trasportare. Mi accorgo solo adesso che sono scalza, perché le pantofole le ho tolte per salire sul divano e non le ho più riprese. Così salgo sulle sue scarpe, come facevo da piccola con papà, e per un attimo mi stupisco di star davvero ballando con Edmund. Lui non è mai stato il tipo da ballo, o da qualsiasi altra cosa venga generalmente considerata sdolcinata. Forse per lui non lo è, ma comunque non me l’aspettavo. Ripenso al passato, a quando diceva che l’ultima cosa che avrebbe mai fatto era abbracciarmi. Adesso, lo fa quasi ogni giorno. Sta cambiando in meglio, anche grazie a me, e di questo sono molto fiera. La finestra mostra due nuvole che si allontanano tra di loro per lasciare spazio al sole. Il silenzio si protrae per tutta la camera e nessuno di noi ha intenzione di spezzarlo. Quando però mi sento stringere di più, alzo gli occhi verso il suo viso e noto che i suoi sono chiusi. Vorrei tanto che li aprisse, perché ogni volta che si trova in determinate situazioni (per esempio questa) li tiene chiusi, come se non volesse mostrare le emozioni che si rispecchiano nelle sue pupille. Dico la prima cosa che mi viene in mente per attirare la sua attenzione e fare in modo che apra le palpebre. “Ti amo” mi scappa. E questa è una di quelle prove indissolubili secondo le quali il subconscio è legato alla bocca. Ridacchio quando Ed spalanca gli occhi e arrossisce. In effetti, ora che rifletto sul significato delle mie parole mi rendo conto che in un momento diverso non mi sarebbe assolutamente passato per la testa di pronunciarle. Però ormai è fatta. E, soprattutto, è la verità. Quindi alleggerisco il tutto con un bacio leggero quanto una piuma. Scendo dalle punte e mi accuccio di nuovo tra le sue braccia. Quello che succede è una di quelle cose sulle quali non avrei mai scommesso in vita mia. Una di quelle che mi avvisa che Edmund è cambiato veramente. Perché lui sospira con calma (sento il suo cuore battere all’impazzata nel petto) e poi risponde: “Ti amo anch’io”.
Questa volta, però, tocca a me arrossire.

























Angolo dell'autrice.

Ecco, come promesso, il capitolo pubblicato in anticipo! ^.^
Vi annuncio che nel prossimo i nostri eroi entreranno finalmente a Narnia, portandosi dietro (purtroppo) anche Eustace... poveretto, se sapesse di essere il terzo incomodo! xDxD

Cooomunque, questa volta i ringraziamenti sono indirizzati a tinny, una "new entry" nei miei recensioni, e alla costante Hyppogrif, che ancora sopporta i miei capitoli strampalati... =D Ovviamente, quelli per tutti gli altri lettori sono sottintesi! ^.^
Alla prossima!! E buona lettura a tutti! =)

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