It's so hard loving you

di JennyWren
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I HATE memories ***
Capitolo 2: *** Red Ribbon ***
Capitolo 3: *** Birthday (Part.1) ***
Capitolo 4: *** Birthday (Part. 2) ***
Capitolo 5: *** Rain ***
Capitolo 6: *** Go away, now! ***
Capitolo 7: *** Judith ***
Capitolo 8: *** I have no secrets with you ***
Capitolo 9: *** Christmas (Part.1) ***
Capitolo 10: *** Christmas (Part.2) ***
Capitolo 11: *** I'm not Jealous ***
Capitolo 12: *** I missed you ***
Capitolo 13: *** The secret ***
Capitolo 14: *** This is WRONG! (Part.1) ***
Capitolo 15: *** This is WRONG! (Part.2) ***
Capitolo 16: *** An unexpected visit ***
Capitolo 17: *** Delightful Idleness ***
Capitolo 18: *** Goodbye ***
Capitolo 19: *** Life is a Roller Coaster ***
Capitolo 20: *** It's so hard loving you ***
Capitolo 21: *** Precarious Balances ***
Capitolo 22: *** Back to where you once belonged ***
Capitolo 23: *** Ladies and gentlemen, The Beatles! ***
Capitolo 24: *** Never forget our past ***
Capitolo 25: *** The beginning of the cracks ***
Capitolo 26: *** Two worlds apart ***
Capitolo 27: *** Don't judge me anymore ***
Capitolo 28: *** Welcome to the World ***
Capitolo 29: *** Don't carry the world up on your shoulders ***
Capitolo 30: *** Please forgive me ***
Capitolo 31: *** Death of an Hero ***
Capitolo 32: *** Page ***



Capitolo 1
*** I HATE memories ***


I HATE memories.

 
1963, Novembre.
 
La pioggia sottile e leggera colpiva il vetro ininterrottamente, senza accennare a diminuire o ad aumentare la sua intensità.
Il cielo chiuso lasciava filtrare una luce biancastra, decisamente fastidiosa per gli occhi delle persone che tendevano a sollevare al cielo, in attesa di un cambiamento che non avveniva da almeno una settimana.
 
Il tempo, dicono, influisce anche sull’umore delle persone, ma questo non l’ho mai condiviso.
Potrei essere di ottimo umore durante un temporale e di pessimo umore durante una splendida giornata estiva, tuttavia quella mattina umore e tempo combaciavano.
 
 
 

"La prossima canzone, amici ascoltatori, è tratta dall'ultimo album dei Beatles! Tenetevi pronti per All my loving!"
 
La radio, rigorosamente a tutto volume, trasmetteva le note veloci della canzone che rimbombava in tutto il locale ancora vuoto, riempiendo il silenzio che avevo creato intorno a me.
Non avevo una gran voglia di parlare con la nuova arrivata, in realtà io non avevo mai voglia di parlare e gli altri colleghi sapevano che il fattore “socializzazione” scarseggiava in me, semplicemente per il fatto che non mi andava di far sapere i fatti miei.
 
Mi voltai verso la radio che non avevo minimamente notato, se non prima che fosse accesa.
- Tu conosci i Beatles? -  La mia collega di lavoro chiese mentre riordinavamo i tavoli prima dell'apertura serale. 
- Conosco giusto un paio di canzoni - Risposi distrattamente, e anche leggermente infastidita, concentrando tutta la mia attenzione sul ferma tovaglia in metallo, muovendomi con gesti meccanici, mentre la mente vagava altrove, cercando di non pensare alla canzone che continuava ad essere trasmessa.

A causa del mio carattere, questa era la prima domanda diretta che avevo ricevuto.
 
- Io sono una grande fan e anche se non li ho mai incontrati so tutto su di loro - La ragazza dai riccioli scuri gonfiò il petto come un piccione.
- Wow! Che bello.
Continuai a poggiare le tovagliette di carta sui tavoli, come se niente fosse successo.
- Almeno sai come sono fatti? – Chiese parandosi di fronte a me.
- Più o meno – Cercai di scostarla per chiudere la conversazione.
 
Che poi più che conversazione sembrava un monologo.

- Guarda qui – Mi porse una foto indicando i volti sorridenti dei ragazzi con la pettinatura a caschetto - Lui è George, poi c'è Paul, Ringo e quello dietro più in alto è…
- John - Conclusi fissando il volto del ragazzo dai capelli chiari e lo sguardo magnetico che sfoggiava un sorriso divertito. 

Serrai la mascella tenendo la foto stretta tra le mani.
Il mio sguardo si indurì all'istante, avrei bruciato quella maledetta foto se solo l’avessi guardata ancora.
 - Puoi ridarmi la foto? - La ragazza chiese titubante notando il cambiamento della mia espressione.
- Tienitela - Risposi con un tono glaciale - Senti muoviamoci a preparare tutto che io voglio tornare a casa per riposarmi prima del turno serale, capito? - Continuai con tono sempre più acido.
- Va benissimo - La ragazza sembrava quasi spaventata da me, mi guardava in un modo strano che non riuscivo a sopportare.
 
Terminammo di preparare in fretta, senza proferire parola, ognuna intenta nel suo compito, anche se spesso sentivo gli occhi della ragazza che mi fissavano.
 
Comunque io sono Annabeth Wood, se ti interessa - Disse cercando allentare il clima che si era formato.
- Judith – Mi resi conto di aver esagerato e sorrisi alla ragazza che ricambiò un po’ più rassicurata.
- Vado dal capo e gli dico che è pronto. Sono le 16, abbiamo fatto prestissimo - Annabeth si tolse il grembiule verde e sparì dietro la porta scorrevole.
 
Presi una sigaretta dal pacchetto di Marlboro che tenevo in tasca e la accesi aspirando violentemente il tabacco. 
Mi sentivo irrequieta e arrabbiata con tutto, dovevo tornare a casa, o meglio quella stanza in cui mi ero costretta a vivere da circa un anno e mezzo.
Senza aspettare Annabeth uscii dal locale, camminando a testa bassa e con le mani in tasca me ne andai percorrendo la strada a grandi passi.

 
Sbattei la porta di casa e, poggiandomi al muro soffocai uno strillo.
Tenni i capelli, ormai umidi, tra le mani e cercai di calmarmi.
Sempre la stessa reazione.
 
 

Durante il turno serale nonostante la gente ubriaca, la musica alta, gli ordini e le mance quel viso continuava a figurarsi nella mia mente, riuscivo quasi a vederlo nei volti delle persone.
Non poteva succedere così ogni volta, diamine era passato del tempo ormai.
Ma perché reagivo così?
Infondo avevo fatto la scelta giusta.


Oppure no?
 



Angolo autrice:
Saaaaalvee!!
Questa è la prima volta che scrivo qui e sono ABBASTANZA nervosa, spero che la storia vi piaccia! Sono ben accette le critiche, così posso capire dove sbaglio :)

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Capitolo 2
*** Red Ribbon ***


Red Ribbon.
 
 
Uscii di casa presto, come tutte le mattine stringendomi nel cappotto di lana blu, avanzando a grandi passi verso il pub in cui lavoravo.
Faceva così freddo che faticavo a tenere gli occhi aperti e coprii anche il naso con la sciarpa.
A quell’ora la città era semi deserta, quasi tutti se ne stavano ancora nelle loro case sotto le coperte a dormire tranquilli, solo pochi lavoratori e qualche studente universitario erano già in strada.
 
Studente universitario.. 
Quanto mi sarebbe piaciuto poter essere come loro, coltivare la mia passione della fotografia, poter possedere una vera macchina fotografica e vedere il mio nome sulle foto dei giornali più importanti.
 
Ah sì, era il mio sogno!
 
Ma infondo era proprio per quello che lavoravo, ancora un po' e poi avrei potuto permettermi tutto. Ma avrei aspettato, anche una vita intera pur di ottenerlo onestamente.
Volevo fare le cose con le mie mani, essere riconosciuta per la mia bravura, guadagnandomi il rispetto delle persone, senza scorciatoie.
 
Ed ecco di nuovo quel nodo alla gola.
 
Arrivata al lavoro posai il cappotto e indossai la divisa: quell'orribile grembiule verde ammazza forme e un cappello col berretto che avrebbe fatto sembrare Brigitte Bardot una vacca informe.

Pensate me.
Raccolsi i capelli ramati in uno chignon e cominciai a preparare il banco, con la stessa voglia di un uomo che va a fare shopping nel periodo dei saldi.
 
- Signor Mallard - Salutai il capo che era arrivato appena due minuti prima di me.
- Sempre puntuale eh Jud? - Sorrise l'uomo sulla cinquantina con la sua solita giacca grigia, prese gli occhiali dal cappotto e sparì nel suo ufficio.
 
”Sempre puntuale, ma lavoro sempre per quattro soldi” Pensai mentre accendevo le macchine del caffé. Erano vecchie e rotte ma, fino a quando non sarebbero esplose, per il mio capo andavano ancora "a meraviglia"
 
Verso le 9 il locale cominciava a riempirsi di gente che prendeva qualcosa di rapido e poi andava via, come tutti, no, tranne uno.
 
In altre occasioni non lo avrei notato ma negli ultimi giorni ero diventata paranoica. 
 
Il signore se ne stava con un cappello nero in pelle con la visiera e degli occhiali scuri nell'angolo del locale, fingeva palesemente di leggere il giornale e continuava a guardarmi. 
 
Sbrigai i vari ordini della mattina ma il mio sguardo si posava sempre su di lui.
- Annabeth ma il signore lì in fondo sta qui da troppo o sbaglio? - Chiesi senza farmene accorgere alla ragazza intenta ad asciugare i piatti.
- Non saprei, io sto qui dietro, sei tu quella che va tra i tavoli. Ma perché, che ha? - Chiese mentre riempivo il vassoio.
- Non lo so. Boh meglio non pensarci, forse mi sarò sbagliata. Mi servono due caffé e un latte macchiato comunque. 
 
Continuai a lavorare e dimenticai il "signore in nero". Probabilmente era un pervertito o un nullafacente e quando mi voltai verso il suo tavolo notai che se n'era andato. Senza lasciare nemmeno un minimo di mancia.
 
A fine giornata io e Annabeth, che si rivelò molto più simpatica del previsto, approfittammo di quel po' di bel tempo, per quanto Londra a Novembre potesse concederne e andammo in centro a fare un giro.
 
Passammo davanti a tanti negozi e ci fermavamo di tanto in tanto a commentare i prodotti esposti.
Non ero di molte parole, spesso lasciavo che parlasse a ruota libera, ero totalmente immersa nei miei pensieri che sembravano susseguirsi aruota libera nella mia testa.
 
- Guarda lì! Quella chitarra è come quella che ha John Lennon! - Annabeth saltellava davanti una vetrina - È una, aspetta come si legge – Strizzò gli occhi vicino al vetro
 
- Rickenbacker - suggerii alla ragazza guardando da un’altra parte, non volevo guardarla.
- Come fai a saperlo? Sei lontana dalla vetrina e non l'hai nemmeno vista.
 
Certo che l'avevo vista.
 
 
"- Il primo regalo che scarti è il mio, John! - Trascinavo l'enorme pacco rivestito di carta multicolore con un fiocco rosso sproporzionato.
- Porca miseria è mio? - Chiese con le mani tra i capelli.
- No, è per Stuart che dici. Apri che voglio vedere la tua faccia! – Dissi emozionata quanto lui, mordendomi il labbro per non ridere.
 
Dopo aver armeggiato tra carta e scatola eccola lì, una chitarra nera, perfettamente lucida e con tutte le corde nuove che brillavano.
- Non è possibile. Dimmi che è vera! - Scattò in piedi come una cavalletta guardando la chitarra sotto ogni angolazione possibile con un sorriso che si estendeva da un orecchio all'altro.
- Certo che è vera è la tua prima vera chitarra! Così quando sarai famoso e la suonerai, ti ricorderai di me - Abbassai lo sguardo per l'imbarazzo, rigirando tra le mani il fiocco.
- Ma vieni qui Judy - posò la chitarra e mi strinse forte tra le sue braccia, appoggiando il mento sulla mia testa e accarezzandomi i capelli."
 
 
- Judith ma mi senti?! - Tornai bruscamente alla realtà. Sbattei più volte le palpebre e sorrisi alla ragazza che mi guardava preoccupata.
 
Non me n’ero accorta ma ero vicino la vetrina, toccando il vetro, mimandone il movimento di una carezza.
- Ti sei imbambolata a fissare la vetrina. Ti piacciono le chitarre, vero? - chiese innocentemente.
- Le adoro - Repressi un signhiozzo, posando un ultimo sguardo alla Rickenbacker nera e ci incamminammo verso casa.
 
John...
 
 
 
 
Angolo autrice:
Ed eccomi qui con il secondo capitolo! Spero che vi piaccia 
Ringrazio davvero tanto tutte quelle che hanno letto il primo capitolo e soprattutto  AlexaZoso_Lennon per la simpaticissima recensione! 
Come sempre accetto qualsiasi commento e critica =)

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Capitolo 3
*** Birthday (Part.1) ***


Birthday 
(Part. 1)

 
"- Quando sarò famoso tu sarai la fotografa più importante di tutte  e farai le foto al mio gruppo - John e io eravamo distesi sul prato di Strawberry Fields, mentre lui fumava io osservavo i movimenti dei rami che si muovevano a ritmo del leggerissimo venticello estivo - E ti comprerò io tutto quello che ti serve, tu non dovrai far niente  - Continuò a sognare ad occhi aperti. 
- Sai John credo che dovrei studiare invece, non posso ottenere privilegi solo grazie a te. Tu stai lavorando con il tuo gruppo e io dovrei dormire sugli allori? Non è giusto, è sleale - Risposi dicendo esattamente come la pensavo.
John non rispose. Terminò la sigaretta lentamente e tra di noi calò un silenzio imbarazzante.
- Torniamo - Il tono freddo, gelido, mi fece preoccupare, non mi parlava mai così.

Si alzò velocemente e scavalcò i cancelli rossi. Feci fatica a stargli dietro.
Per strada non disse una parola, fumò ancora e fissava con le sopracciglia aggrottate un punto inesistente davanti a lui.

Agli occhi degli altri poteva apparire come il solito atteggiamento da bello e dannato di John, ma per me quella era solo una maschera.
- Che ti è preso eh? - Sorrisi al ragazzo sperando di essermi sbagliata.
- A me proprio niente. Piuttosto dovresti fare a te questa domanda. Non accetti mai niente, smonti sempre i miei progetti con quelle frasette del cazzo. Che ti viene? - sputò le parole piene di veleno che mi colpirono come una lama dritta nel petto.

- Non accetto mai niente? John stavo solo parlando, e poi non posso essere il tuo pupazzetto per sempre. Ognuno deve prendere la sua strada che tu lo voglia o no, è così, non fare l’infantile."

Quelle parole mi rimbombavano nella mente e le sentivo ancora chiaramente, come quel giorno d'estate del 60"



Odiavo quando i cereali diventavano una pappa molle per neonati e, di conseguenza, immangiabili.
Sbuffai posando la tazza nel lavandino e mi avviai in bagno.
Quel giorno avevo battuto ogni mio record: erano le 6, non avevo dormito per niente quella notte, continuavo a rigirarmi nel letto facendo mille pensieri sconnessi senza riuscire a chiudere occhio.

Mi preparai più lentamente del solito, ordinando i capelli rossicci con un fermaglio e truccai gli occhi con colori scuri per far risaltare il loro color verde chiaro.
Ma eccolo lì il difetto dei difetti della mia faccia: le labbra (se come tali potevano essere definite).
Erano sottili e piccole e non sapevo mai come truccarle, solitamente le lasciavo al naturale poiché ogni tentativo di aggiustarle sarebbe stato vano. 
Indossai una camicia bianca, un maglioncino blu e una gonna, infilai il solito cappotto e il mio sguardo volò sul calendario appeso all'ingresso. 
Era il 26 novembre 1963.

Buon ventesimo compleanno Judith.

La routine mattutina fu la stessa di sempre: locale pieno, ordini, mance, maniaco che ti fissa il seno quando gli porgi il cibo e il fondoschiena quando te ne vai, le solite cose.


- Sei panini, quattro birre e... Ah sette panini - il signor Mallard prendeva frettolosamente appunti mentre parlava al telefono.
- Mi sa che chiedono di portare l'ordine - Si affrettò a dirmi Annabeth mentre mi avvicinavo al banco
-Non potresti andarci tu? Io sono già raffreddata - sfoggiò il miglior sguardo da cucciolo bastonato.
- Me la vedo io.
 
Infondo cosa c’è di meglio che scarrozzare ordini nel gelo di Londra come la piccola fiammiferaia il giorno del tuo compleanno?

- Dove devo andare stavolta? - Chiesi al capo cominciando a prendere il cappotto.
- Abbey Road numero tre. Sono gli EMI Studios - Lesse sul foglietto.
Mi coprii bene con la sciarpa, tenendo il cappellino del locale, fuori il freddo incalzava.
 
Sono sette panini, cinque birre e una torta - Mise tutto in un cartone giallo con il logo e legò con il nastro del locale.

Almeno qualcuno mangerà una torta oggi.

Per arrivare ad Abbey Road non ci voleva molto, il problema era che faceva un gran freddo e riscaldavo le mani sotto al cartone dal quale usciva un po' di tepore dei panini caldi.

Attraversai le strisce pedonali verso gli studi rischiando di essere messa sotto da un auto, che sfrecciò sulla strada, entrai nel cancelletto bianco e bussai.

-Salve - un uomo sulla quarantina mi sorrise in modo educato.
- Cerco il Signor Martin, ha effettuato un ordine - Parlavo battendo i denti dal freddo.
- Allora esci e scendi le scale sulla sinistra. Il signor Martin è nelle sale di incisione. Attenta che sono scivolosi i gradini.
- La ringrazio - rivolsi un sorriso cortese all'uomo e feci come indicato.


Bussai ripetutamente il campanello ma nessuno si degnò di aprire. 
O il signor Martin era sordo o questo era uno scherzo dannatamente infame.
Imprecai più volte fin quando la porta finalmente si aprì.

- Salve le ho portato il suo ordine - esclamai in tono gentile ma palesemente seccato.
- lei è il signor Martin? - proseguì con un tono sempre più stizzito.
"Sa signor martin mi sono gelata il culo ad aspettare qui fuori mentre lei era lì al caldo a cazzeggiare aspettando il pranzetto. Che poi che se ne fa di sette panini? Deve nutrire un elefante?"
- Mi spiace averla fatta aspettare a lungo ma i ragazzi sono dei bradipi ammuffiti - Martin alzò il tono di voce sicuro di essere sentito. 
Un coro di risate si levò dall'edificio. 

Un momento. Io conoscevo quelle risate. 

Un fiume di pensieri e ricordi inondò la mia mente e sentii la ginocchia cedere sotto il mio peso.
- Mi scusi ma chi prova in questo momento? - Pregai che l'uomo rispondesse tutto tranne
- I Beatles - Mi informò con un sorriso aspettandosi la reazione isterica tipica di una fan.

La mia reazione fu tutt'altro.
 
Cominciai a sudare freddo e a impallidire. Dovevo andarmene, dovevo assolutamente andarmene ma il tizio stava ancora prendendo il portafogli per pagare ed era esasperatamente lento.
Merda, sono nella merda.

- Qualcuno a prendere il pranzo?
Non poteva succedere, era un incubo.

Judith svegliati!

- Tieni Ringo, porta di là e mi raccomando non fate i porci - Il ragazzo rise e io puntai gli occhi dritti nel pavimento in marmo nascondendomi sotto la visiera del cappello per non farmi vedere.
Martin mi porse i soldi, alzai lo sguardo per salutarlo e scappare via.

Ma tutto accade in un attimo, quando per sbaglio incrociai gli occhi blu del batterista.

Era la fine.



Angolo autrice.
Saaaaaaaalve!! 
Ecco a voi questo schifo di capitolo frutto di una notte insonne..
Spero sche vi piacca, anche se ho i miei dubbi.
Ringrazio  INFINITAMENTE AlexaZoso_Lennon Giugy_88  per le recensioni (siete dolcissime) ma anche  CheccaWeasleyCherryBluesGiugy_88 e Tholomew che l'hanno inserita tra le seguite.
Grazie! 
Al prossimo capitolo!



 JennyWren

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Capitolo 4
*** Birthday (Part. 2) ***


 Birthday
 (Part. 2)
 
 
Scappai in fretta dagli Studios, inciampando sui gradini ghiacciati e corsi velocemente fino a quando, con lo sguardo appannato per via del vento freddo, riuscii a scorgere in lontananza l'insegna luminosa del locale.
Sistemai i capelli liberandoli da berretto, calmai il respiro per non destare sospetti ed entrai con molta calma.
 
Il locale era stranamente buio, dov'erano finiti tutti? 
 
"Sorpresa!" 
Un urlo seguito da alcuni botti mi fecero quasi gridare ma mi trattenni quando si accesero le luci e riuscii a vedere tutti gli addetti del locale e molti clienti intorno ad una torta con dei bizzarri cappellini di carta colorati sulla testa.
 
- Buon compleanno Judy! - Annabeth mi avvolse in un abbraccio fortissimo e pieno di affetto che ricambiai dopo un momento di confusione.

Nessuno in quei due anni si era avvicinato così tanto a me, né mi aveva abbracciata.
 
Fui travolta di auguri e baci, il Signor Mallard e Annabeth avevano pensato a tutto; il locale era stato addobbato in pochissimo tempo e non mancava di nulla.
Non festeggiavo il compleanno da tempo e anche se la maggior parte delle persone erano estranei capitati per caso riuscii comunque a trascorrere un bel pomeriggio.
 
Terminata la festa la mia nuova (e unica) amica e gli altri addetti si occuparono di pulire tutto lasciandomi libera. Cercai di aiutarli ma non cambiarono idea per nessun motivo ed accettai di tornarmene a casa.
 
Uscii dal locale e cominciai ad incamminarmi verso casa, approfittando degli ultimi momenti di luce. 
 
- Ehm, scusa? - Una voce alle mie spalle mi fece voltare.
 
Era un ragazzo non molto alto con un cappello scuro e una sciarpa che gli copriva quasi tutta la faccia appoggiato al muro del pub.
 
- Sì? - Cercai di abbozzare un sorriso mentre questi si avvicinava verso di me.
- Io.. Ti ho vista nel locale e ho capito che è il tuo compleanno ma mi sembrava inopportuno entrare e quindi, beh, sai, auguri.. - Era imbarazzato e mi fece sorridere.
- Oh grazie, non c'era motivo di vergognarsi, io non conoscevo quasi nessuno, è stata una sorpresa per me - Cercai di spiegare al ragazzo che spostò il peso da una gamba all'altra e mi sorrideva.
- Beh non lo sapevo.
 
C'era qualcosa di familiare nel tono di voce di quel ragazzo che, per quanto riuscissi a vedere a causa della sua sciarpa, credevo di non aver mai visto.
 
- Tu sei? - Chiesi cortesemente offrendogli la mano
- Richard, ma gli amici mi chiamano Ringo - Si scoprì il viso dalla sciarpa e sorrise in modo beffardo, sapendo di essere riconosciuto stringendomi la mano.
 
Mi pietrificai.
I piedi erano diventati improvvisamente di piombo e non riuscivo a muovermi.
 
Mi resi conto di star trattenendo il respiro, nel momento in cui aprii la bocca per riuscire a parlare senza successo per almeno due volte.
 
- Scusa, devo andare, ho da fare - Cercai di voltarmi per andare via ma lui trattenne la mia mano nella sua.
- Posso sapere il tuo nome? - Gli occhi delusi dal fatto che fosse stato respinto così bruscamente fecero sentire in colpa.
- J... Janis - mi corressi subito e gli sorrisi timidamente. 
 
Che bugiarda.
 
Sorrise anche lui, aveva un sorriso bellissimo ed innocente. Tutto il viso gli si illuminava e trasmetteva buon umore anche solo standogli vicino.
Mi pentii della mia scostumatezza alla vista di quel viso e quegli occhi blu che mi ricordavano tanto il panorama di casa e senza neanche rendermene conto gli chiesi: "Ti va un thé veloce al bar?".
Ampliò ancora il suo sorriso e, offrendomi il braccio, ci incamminammo verso uno dei piccoli bar che si trovavano lungo la strada.
 
Trascorremmo un'oretta piacevole a parlare, mi chiese tante cose di me e mentii quasi su tutto, mi dispiaceva, ma dovevo per forza.
Così mi ritrovai ad avere due sorelle, ero nata a Manchester e mi trovavo a Londra perché volevo studiare medicina.
 
Io che odiavo gli ospedali e che per togliermi le tonsille mi trascinarono di peso.
 
Ringo mi raccontò della sua famiglia, di Liverpool, della sua passione per la batteria nata quando era ricoverato a causa di una brutta malattia e del fatto che ora avesse realizzato il suo sogno stando nei Beatles.
Il suo modo di parlare mi affascinava tanto, gesticolava molto con le mani e rideva spesso, mi faceva sentire a mio agio nonostante lo conoscessi da pochi minuti.
Era una di quelle persone con le quali potevi stare a tuo agio, era gentile e per niente arrogante, si comportava come un normalissimo ragazzo, nonostante la fama.
 
- Quindi... Ci vedremo ancora, vero? - Chiese arrossendo leggermente, infilando le mani nelle tasche del cappotto.
- Sì, beh certo - Dissi cercando di essere il più naturale possibile.
 
"In realtà sarebbe stato meglio non esserci mai incontrati, credimi"
 
- Fantastico. A presto! - Mi diede un piccolo bacio sulla guancia e si allontanò dal lato opposto della strada ormai buia.
 
Judith, sei una deficiente di dimensioni stellari.
 
 
 
§ § § § § § § § §
 
- Bene, bene, bene. Ritchie dove sei stato? - Ecco. L'interrogatorio in stile Lennon mi investì nonappena misi piede nella sala di incisione.
 
John era in piedi al centro della stanza mentre Paul, seduto su una delle sedie, curava il suo basso neanche fosse l'ultimo esemplare di Hofner al mondo dandogli la cera, sorridendogli amorevolmente, come una madre ad un figlio (o lo faceva per specchiarcisi dentro) e George si lamentava del fatto che lui aveva mangiato poco e il suo metabolismo veloce (non perenne fame, attenzione, il suo è solo metabolismo veloce) aveva consumato tutte le sue energie riducendolo ad un vegetale.
 
Un covo di matti.
 
John sorrideva malizioso, lasciandomi senza vie di fuga, leggermente spaventato da quel microfono/giavellotto.
-Allora? Qualche bella scappatella? - Incalzò puntandomi contro il microfono posto all'estremità dell'asta.
- Non sono affari tuoi. Sono uscito per un, thé - La mia voce infastidita risuonò in tutto lo studio n.1
 
"Se dico a John che ero con una ragazza lui vuole conoscerla e alla fine lei andrebbe con John, perché tutte vanno con John, o peggio, con Paul"
 
- Che bugiardo schifoso! - Lennon proseguì con un tono fintamente tenebroso guardandomi da dietro quegli orrendi occhiali neri che gli facevano sembrare gli occhi minuscoli.

Era buffo, ma allo stesso tempo inquetante.
Paul si unì a John, e cominciarono con il terzo grado a cui non riuscii a mentire.
 
- Una così bella ragazza dici? Secondo me esageri Starkey! - Paul mi fissava divertito tenendo una mano sulla spalla di John.
- Se è così bella come dici io e Paul vorremmo proprio vederla, vero Paulie? - John fissò prima me e poi Paul
- Vero John.
Entrambi annuirono in contemporanea.
 
A volte sembravano l'uno la copia dell'altro ed era terrificante.
 
- Eh no! No, no e poi no! Finisce sempre che poi lei viene con voi. No, questa volta no!
Ero esasperato, questi due in combutta sanno farti perdere la testa.
- Perché te la prendi tanto? É solo una ragazza! O ti piace? - John tratteneva una risata. 
- Beh se fosse? Non è strano che a un ragazzo piaccia una ragazza. O voi due siete di un altro parere?
John e Paul scoppiarono a ridere.
- Dai Ritchie! Ora siamo curiosi, faccela conoscere, noi non le diremo niente, promesso. O forse è brutta e non vuoi farcela conoscere di proposito? - Paul si protese verso di me con aria di sfida.
- Janis è bellissima. Mille, Centomila volte meglio delle tue ultime scopate. E poi sa anche ragionare, oltre ad essere stupenda. 
Assunsi lo stesso tono di Paul convinto della mia posizione e mi sistemai dietro la batteria.
 
Dovevo dargli prova della mia verità e riscttarmi.
Janis doveva venire in studio.
 
 
 
 
Angolo autrice
Ciao a tutti!
Purtroppo per voi sono ancora qui, a rompervi le scatole con questa storia. 
Sono consapevole del fatto che questo capitolo sia il più brutto dei brutti ma non sono riuscita a fare di meglio.
Chiedo umilmente perdono.
Ringrazio INFINITAMENTE
Simona_McCartney, I_me_mine e Giugy_88  per le recensioni.
CheccaWeasley, CherryBlues, Giugy_88, I_Me_Mine, Mary Apple, Miss_Riddle Starkey e  Tholomew per aver inserito la storia tra le seguite. 
Grazie davvero.

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Capitolo 5
*** Rain ***


Rain
 
 
Mi svegliai di soprassalto balzando al centro del letto.
Avevo la gola secca e mi pulsava forte il sangue nelle orecchie tanto che dovetti tenermi per qualche secondo la testa tra le mani e calmarmi. 
Avevo i capelli bagnati e la maglietta si era appiccicata addosso per il sudore.
 
Stupidi, incessanti, terrificanti incubi.
 
Mi rigirai nel letto svariate volte prima di decidere di alzarmi nonostante fosse notte fonda.
Ero in ansia, avevo paura che qualcuno, o meglio Lui, venisse a sapere che vivevo poco lontano dagli Studi dove lavorava anche se, fino al giorno prima nemmeno io ne ero a conoscenza.
Era stata una mossa azzardata, stupida e incosciente quella di conoscere Ringo. 
Non avrei dovuto farlo, mi ero esposta troppo.
 
Una piccola vocina nella mia mente cercava di tranquillizzarmi. Infondo, quante altre probabilità c'erano che potessi incontrare ancora il batterista in questa Londra così caotica ed affollata?
Poche, vero?
 
Andai in cucina e mi preparai una tazza d thé nel vano tentativo di placare i miei pensieri ma ormai ero nel pieno di un monologo interiore tra me, la mia coscienza e i miei ricordi.
Immagini della mia infanzia, della mia vita a Liverpool e dei miei amici di un tempo si susseguivano veloci come le acque di una cascata.
Mi mancava tutto, ogni minima cosa di quella città e delle persone che ci vivevano. Mi mancava essere me stessa e non questa specie di riccio che ero diventata.
 
Eppure io ero fuggita da quel posto vedendone soltanto il lato nero, fu una scelta dettata dalla rabbia, un impulso stupido di riscattarmi. 

E per cosa poi? 
Ah, non lo sapevo ancora.
 
Forse, volevo dimostrare di essere abbastanza brava per cavarmela da sola, senza pesare a nessuno. 
Le mie intenzioni erano nobili ma il modo in cui le avevo messe in atto erano state tremende.
 
"- Senti se le cose non ti stanno bene, quella è la porta - Sbottò John accendendosi l'ennesima sigaretta della giornata.
- John ma perché reagisci così! È l'unica cosa che sai dire? - gli tirai la sigaretta dalla bocca buttandola a terra.
Il suo sguardo bruciava peggio del tabacco.
- Che cazzo vuoi che dica? - Cominciò ad urlarmi contro.
- Voglio che ti renda conto di quello che sta cambiando. Ma non vedi che le persone mi stanno addosso? Ormai tutti mi usano per arrivare a te, sono diventata solo "l'oggetto per arrivare a John" e questa cosa mi fa stare male - ingoiai più volte a vuoto per cacciar via il nodo alla gola.
- Quindi ti vergogni di me - La voce era ridotta a un sussurro
- No, assolutamente no ma almeno tu, trattami come sempre. Non venirmi a dire "avrai tutto perché ci sono io" perché non mi sta bene. Non voglio essere l'ennesima raccomandata, né l'ombra di nessuno - premetti le mani sugli occhi che cominciavano a bruciarmi per le lacrime.
- Sai una cosa? Vaffanculo, mi hai stancato.
Non terminò quasi la frase poiché la mia mano lo colpì in pieno volto. 
Ero accecata dalla rabbia. 
Io lo avevo stancato? 
- Vaffanculo a te, alla tua cazzo di band e al tuo carattere di merda. Io ti odio John! - Urlai sull'orlo del piant che, orgogliosamente, cacciavo via"
La mattina dopo John non mi vide più. Me n'ero andata appena due giorni dopo il suo secondo soggiorno ad Amburgo.
 
 
Le lacrime represse di quella sera scorrevano finalmente sul mio viso.
Non mi preoccupai di asciugarle o di trattenere i singhiozzi, nessuno mi avrebbe sentita e sapevo che piangere mi avrebbe aiutata ad alleggerire, se pur impercettibilmente, il peso che mi portavo dietro da più di un anno e mezzo.
Restai con i gomiti su quel tavolo per ore, fissando il riflesso di me stessa nel tavolo lucido della cucina.
La sveglia suonava le 7 e decisi di alzarmi, auotocommiserarmi non sarebbe servito a nulla.
 
Era sabato e restare in casa mi faceva star male, quindi decisi di fare un piccolo giro in centro.

Dopo una lunga passeggiata i miei nervi erano più distesi. Comprai un libro, le avventure di Sherlock Holmes, dei vestiti nuovi e un paio di scarpe.
Infondo era stato il mio compleanno ed usai il regalo dei Signor Mallard (un piccolo extra) per comprare qualcosa per me.
 
Me ne stavo seduta sulla panchina del parco, cercando di farmi forza da sola e di andare avanti.
Non potevo mollare ora, avevo resistito per un anno e più, pensare certe cose era sbagliato.
 
Fu il rumore improvviso di un tuono a farmi decidere di tornare a casa e smettere di pensare a cose inutili.
Il tempo cominciava a peggiorare e camminavo a passo svelto per prendere la metro.
 
- Serve un passaggio? - Un auto scura si accostò al marciapiede.
La ignorai continuando a camminare.
- Janis sono io, Ringo! -  Suonò il clacson in maniera vivace.
Mi voltai e incontrai lo sguardo e il sorriso del batterista.
- Ciao, ehm, ho già fatto, non preoccuparti - Sorrisi al ragazzo con fare rassicurante.
- Insisto. Dai salta su che ti accompagno, sta tuonando.
Sospirai forte, alquanto rassegnata ed accettai.
 
Durante il tragitto non fui molto loquace. Mi dispiaceva trattarlo così ma era meglio per tutti, per me.
Feci accostare l'auto nel vialetto e Ringo aprì la porta dell'auto per farmi scendere.
- Senti mi chiedevo se stasera volessi uscire con me - Chiese fissando i suoi enormi occhi blu nei miei
- Veramente stasera non posso. Ho già un impegno - Mentii
- Oggi pomeriggio? Verso le 16?
- Io.. - Cercai di inventarmi qualcosa
- Perfetto. Ti passo a prendere - Fece l'occhiolino e salì in macchina.
 
C'era, per caso, qualcuno lassù che si divertiva a farmi star male?
 
 
 
Angolo autrice
Ciaaaao! Ed eccomi qui con un capitolo pressoché inutile. Mi dispiace essere un po' in ritardo ma sono piena di cose da studiare (Help me!).
Come sempre ringrazio tutti coloro che leggono la mia storia, JepicLuminous e TheFlyingPaper che la tengono tra i preferiti, CheccaWeasley, CherryBlues, JepicLuminous, I_Me_Mine, Mary Apple, Miss_Riddle Starkey e Tholomew per averla inserita nelle seguite.
Grazie anche a chi la legge soltanto.
Come sempre accetto qualsiasi critica o commento.
A presto
JennyWren

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Capitolo 6
*** Go away, now! ***


Go away, now!

Percorsi a grandi passi il corridoio, pensando a chi poteva essere quel qualcuno che si divertiva ad incasinare ancora di più la mia vita.

Chiusi la porta e mi abbandonai sul divano di casa, ero davvero stanca, sia fisicamente che mentalmente.
Ringo mi aveva chiesto di vederlo quel pomeriggio e senza darmi il tempo di replicare era già andato via. 
Stavo trovando un mio equilibrio con questa nuova vita, fittizio e molto precario, stando agli ultimi avvenimenti, ma pur sempre un equilibrio. 

Perché dovevo correre un rischio?

Potevo evitarlo benissimo e lo avevo già fatto prima.
Ma forse, in fondo, io lo volevo ancora vedere. 

Si era fatto più alto? Più magro? Aveva sempre lo stesso modo di fare battutacce o di inscenare stupidi teatrini facendo ridere tutti?

Aprii il mio vecchio diario e presi delle foto. In una c'ero io, avevo circa 7 anni con una bambolina che mi avevano regalato.
Mi mancavano dei denti ma sorridevo proprio per far vedere i buchi.
La seconda ritraeva me e John a Mendiphs, eravamo seduti a terra, John con dei pantaloncini corti e un gilet e io con un vestito. Sorridiamo alla macchina.
Ricordo che dopo John disse che sembravo una scema con quel vestito.
Ci rimasi malissimo.
E nell'ultima c'eravamo io, Paul e John, la foto la scattò Pete, eravamo a Blackpool, ridevamo come matti e nella foto eravamo abbracciati come tre ubriachi. 

Sorrisi al ricordo di quando si riempì la faccia di schiuma da barba e, fingendo di essere un prete, predicava la fine del mondo o di quando dopo aver litigato con Paul lo rincorse in strada urlando "Paulie io amo solo te, torna da me, mio amore!" e il povero McCartney, rosso per la vergogna, cominciò a correre via lasciando John a terra che fingeva di piangere disperato. 
E quando io e Paul gli nascondemmo la chitarra sull'albero perché lui ci prendeva in giro?
Diceva che era troppo giovane e bello per essere zio e che io e Paul dovevamo avere il suo consenso. 

Judith! 
Smettila. Ormai le cose erano cambiate.

Sbuffai non sapendo cosa fare. Posai le foto e portai le buste con dentro gli acquisti in camera mia.
Feci una doccia e, ancora con l'accappatoio addosso, mi addormentai.
Quando mi svegliai erano le 15.30 passate.

Oh merda.

Presi i vestiti nuovi e mi preparai al meglio.
Mica quei quattro vivevano in simbiosi? Mi preoccupavo troppo, non sarebbe successo niente di male.

Quando uscii Ringo era già fuori che mi aspettava, forse avevo fatto davvero tardi.
Sorrisi al ragazzo in modo di scuse e lui ricambiò.
- Stai benissimo - Il batterista dagli occhi blu mi salutò con un bacio sulla guancia ed aprì la porta per farmi entrare 
- Grazie - Ero imbarazzata, non ricevevo spesso dei complimenti.
In macchina nessuno dei due parlò ma io cominciai a ridere quando mi accorsi che il ragazzo era più timido del previsto: fissava la strada senza battere ciglio e stringeva il manubrio, credevo che a momenti si rompesse in due o più parti.
- Che hai da ridere tanto? - Bofonchiò offeso una volta fermi al semaforo.
Cercai di reprimere un sorriso. - Niente, solo che il manubrio chiede pietà,lo stai per rompere.
Ringo avvampò fino alle orecchie e non riuscii a fare a meno di ridere.

Entrammo in un bar in centro e ci fecero accomodare al piano di sopra, in un salottino più appartato.
Le luci erano soffuse, le pareti in legno scuro e le finestre sul panorama mi davano l'idea di essere su una nave del '700, come quelle dei pirati.

Il personale conosceva il mio accompagnatore e lo chiamava per nome, pensai che ci venisse spesso ma poi mi ricordai che lo conoscevano tutti perché lui era "il batterista dei Beatles!"

- Per me una birra e per la ragazza...
- Lo stesso - guardai il cameriere e poi Ringo che mi guardava compiaciuto.

Ebbene sì, anche le donne possono bere.

Arrivarono insieme all'ordine anche delle noccioline ed alcuni snack che accettammo volentieri, di certo era una mossa studiata per far tornare lui più volte.
Non certo galanteria da parte del locale.

Una volta in macchina per il ritorno ero molto più rilassata, era stato come uscire con un normalissimo - ma timido - amico.
Il mio sesto senso negativo era stato messo a tacere per una volta. 
Avevo vinto io.

- Ti dispiace se passiamo un momento per gli Studi? Devo prendere delle cose e poi ti accompagno a casa.

Neanche a dirlo.

Ingoiai più volte e cominciarono a sudarmi le mani.
- No - uscii più come un singhiozzo che altro - Ma non puoi chiederò agli altri?
- Non credo ci siano

La mia mente cominciò a prepararsi al peggio ma cercai di vedere il lato positivo, forse non c'erano.

Accostammo fuori al cancello bianco dal lato opposto e fissavo la scritta EMI neanche fosse il mio patibolo.
Ringo sorrise e scese dall'auto.
- Io resto qui, se non ti dispiace - Dissi continuando a tormentare l'orlo del vestito blu.
- Qualcosa non va? - chiese sporgendosi verso di me.

Ecco. Cosa c'è che non va?
Avrei voluto urlargli in faccia la verità, scappare via ma, in realtà, non mossi un muscolo.
Mi spostai una ciocca di capelli dagli occhi e cercai di non far trapelare nulla.

- Sono solo un po' stanca e le scarpe mi fanno male - Mentii senza troppa convinzione e il ragazzo sospirò.
- Non mi va di lasciarti qui in macchina da sola. Dai che ci mettiamo un attimo e poi accompagno te e i tuoi piedi doloranti a casa.
Aprii bocca e la richiusi. Le luci agli studi erano spente, forse aveva ragione e non c'era veramente nessuno.

Varcammo la soglia del cancello e ad ogni passo sentivo le ginocchia molli e piedi di piombo.

Ma cosa diavolo stavo facendo?
Stupida, ti metti nel guai da sola, stupida, stupida stupida.

- Attenta che i gradini sono scivolosi - Ringo teneva una mano sul mio fianco e mi guidava verso l'entrata.
- Sicuro che non ci sono gli altri? - avevo la bocca secca e parlavo pianissimo.
- Beh non lo so, non credo - fece l'occhiolino.
Ringo aprì la porta ed entrammo in un piccolo corridoio bianco con dei tavolini ai lati dei muri.

Inizialmente non sentivo nulla ma le luci infondo erano accese

Ringo mi aveva mentito, c’era qualcuno.

- Io me ne vado - mi dimenai nella presa e cercai di andarmene. 
Ringo rise credendo che fossi una fan e cercò di rassicurarmi.
- No, io non posso, ti prego fammi andare - lo pregai con le lacrime agli occhi.
- Non ti preoccupare che stai benissimo - Rise ancora senza capire il mio disagio.
- Ringo io - Mi bloccai nel momento in cui dalla stanza sbucò un ragazzo che conoscevo benissimo
 
Paul.

Ero letteralmente pietrificata, credevo di svenire a momenti. 
Volevo sparire.

- Hey McCartney! - Lo chiamò Ringo
- Ti prego andiamocene - Sussurrai ma il ragazzo non mi sentì
Paul si voltò nella nostra direzione e cominciò a raggiungerci vicino la porta che dava nella sala delle registrazioni.
Man mano che si avvicinava il sorriso dalle sue labbra si tramutò in qualcosa di diverso, di più cupo.
Ero troppo spaventata per piangere, continuai a fissare il pavimento mordendomi il labbro fino a farlo spaccare in due e sanguinare.

Quando fu di fronte a me sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca. 
- Judith? - Gli mancò la voce alla fine e mi fissava come fossi un fantasma.
- No, Paul si chiama.. - Ringo si fermò poiché io e Paul ci stavamo fissando.
- Ti prego Paul non volevo, ti giuro, non lo sapevo ha detto che non c'era nessuno - Non riuscivo a dire nemmeno una frase intera.
- Ringo, non può stare qua, se la vede John è la fine - Paul continuava a guardarmi dritto negli occhi.

- Ma che dici Paul?
La voce di Ringo fu sovrastata da un canticchiare che proveniva dalla porta d'ingresso.
- Oh no - Paul si portò le mani agli occhi.
- Allora Starr? Ci hai portato.. - Si bloccò di fronte a me.

E quella fu la prima volta che lo vidi dopo tanto tempo.
Aveva un cappotto lungo blu, una sciarpa bianca annodata elegantemente sulla gola e i capelli come nella foto che mi mostrò Annabeth tempo fa.
Era più alto, era cresciuto tanto dall'ultima volta. Aveva le spalle larghe, le braccia forti e i tratti del viso erano più marcati. 
Non era più il ragazzino che ricordavo, era un vero e proprio uomo.

Dapprima lo stupore, poi la rabbia più profonda passarono attraverso il suo viso.
Ci fissammo per un secondo che parve interminabile.
- Vattene - Una voce gutturale, profonda e sconosciuta mi fece rizzare i capelli e tremare come una foglia autunnale.
- Ho detto VATTENE! - Urlò come se fossi un mostro, un incubo.
- Jo.. - Provai a parlare ma non avevo voce
- NON dire il mio nome, puttana! Vattene! - Mi spinse forte e caddi a terra.
Ero terrorizzata e non riuscivo a muovermi.

Diede un pugno nel muro così forte da farsi sanguinare la mano e cominciò ad imprecare. Era furioso ed allungò una mano su di me. 
Scoppiai a piangere nel momento in cui la mano mi colpì in pieno volto, facendomi compiere uno scatto con i muscoli del collo.
- Non piangere, Vattene puttana! Ti prendo a calci se non te ne vai! - Urlava sempre più forte e cercai di alzarmi con la testa che mi girava fortissimo e correre via.
- John ma che cazzo hai? - Ringo cercò di capire ma fu Paul a rispondere

- È sua sorella.





Angolo autrice
Non uccidetemi, vi prego!
Il capitolo era pronto da giorni ma non sapevo se pubblicarlo o meno, poiché non ne ero sicura. 
La storia era nata con questa svolta e questo è il vero primo capitolo.. 
Alcuni di voi non se l'aspettavano ma spero vi piaccia lo stesso. 
Ci ho messo un po' a scrivere il comportamento di John, l'ho corretto diverse volte e mi sembra che questo sia il più, appropriato.
Il prossimo è già quasi finito e spero che continuiate a leggere la storia.
Grazie a ognuno di voi che continua a leggerla e che recensisce sempre in modo stupendo.
Non mi va di fare la "lista" poiché potrebbe sembrare che il mio ringraziamento vada più a uno che a un altro, non è così, grazie a tutti. 

A presto

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Capitolo 7
*** Judith ***


Judith.

 
Uscii da quegli studi a fatica, trascinandomi sui gradini.
Mi sentivo il peso del mondo addosso e ogni passo richiedeva uno sforzo incredibile.
Arrivai appena fuori il viale e mi accasciai a terra tremando come una foglia.
Avevo gli occhi sbarrati e le lacrime scendevano sulle mia guance senza alcun tipo di ordine o di razionalità. 
Ero distrutta poiché il mio peggiore incubo si era realizzato.

"Vattene puttana, oppure ti prendo a calci". Quello sguardo di disgusto, le sue parole e lo schiaffo erano state troppo per me, non mi aspettavo di essere odiata tanto.

Eppure anche Paul lo sapeva, come avevo fatto io a non capirlo?
Passò un tempo indefinito e cominciò a piovere ma non avevo nemmeno la forza di alzarmi, lasciai che l’acqua mi scorresse addosso e i miei sensi cominciarono ad indebolirsi.

- Judith? - La voce di Paul mi parve ovattata.
- Paul - Alzai lo sguardo ma vidi solo una macchia sfuocata.

Poi il buio.

Il cuscino era bollente sulla mia guancia e cercai di spostarmi sul fianco ma la spalla mi faceva male.
Aprii gli occhi e sbattei le palpebre più volte prima di mettere a fuoco ciò che vedevo:una camera da letto.
Era grande e dalle pareti chiare, un armadio a sinistra, un grande specchio e una scrivania di fronte e una vetrata enorme su un giardino.

Dov'ero?

Cercai di alzarmi ma la spalla faceva malissimo e non avevo forze.
Riuscii a mettermi a sedere e, ripensando alla sera precedente, una fiumana di ricordi m'invase la mente.

Avevo 4 anni, ero in braccio a zia Mimi che mi portava a casa dall'orfanotrofio. Mentre mi teneva mi accarezzava la schiena ringraziando di avermi trovata.
Arrivai a casa, era grande e piena di tappeti e Zia mi fece sedere sulla poltrona. Ero spaesata e non riuscivo a parlare,  poi fece capolino in camera un bambino. Era alto, con i capelli corti e si stropicciava gli occhi per il sonno.
- E tu chi sei? - Disse strizzando gli occhi. Non risposi e lui si sedette vicino a me. 
- Ti hanno preso la lingua? – Cercò  di aprirmi la bocca con le mani e io gli diedi un morso.
John strillò dal dolore e io mi misi a ridere, quando zia Mimi ci trovò ce le stavamo dando di santa ragione, tanto che dovette dividerci.
- Judith non puoi dare i morsi a tuo fratello, è sbagliato. Non siamo animali, abbiamo la bocca per parlare, non per azzannare - Mi rimproverò mentre metteva un cerotto sul dito di John che mi faceva la linguaccia e faceva penzolare i piedi dal tavolo
- Ora John, lei è la tua sorellina e vivrà un po' con noi. Ha il tuo stesso cognome - Spiegò al bambino.
- Non mi somiglia per niente - Disse fissandomi con quei piccoli occhietti color nocciola.
- Meno male, perché tu sei brutto - Risposi con aria soddisfatta.

Ma dopo il burrascoso inizio io e John ci rivelammo molto simili e ce la mettevamo tutta per far disperare la povera Mimi.
Litigavamo di continuo e ogni volta che parlavamo finivamo per tirarci i capelli e rincorrerci, finendo sempre per rompere qualcosa.

Zia Mimi si affezionò a me e decise di non mandarmi in affido, cosa che invece era prevista all’inizio.
Così ebbi la mia cameretta, un letto tutto per me e cominciai ad ambientarmi.
 
 Volevo bene a Zia Mimi perché ricamava sempre le mie cose ma non sapevo ancora di voler bene a John, fino a quando, a 7 anni, si presentò a casa una donna dai capelli rossi dicendo di volerci.

- Tu non li hai mai voluti, non sono figli tuoi - zia Mimi parlava a bassa voce ma io e John riuscivamo a sentire stando nascosti dietro al muretto delle scale.
- Come puoi dire una cosa del genere? - La donna aveva un tono lamentoso ma una voce stranamente familiare.
- Ho salvato Judith che era chiusa in un orfanotrofio! Ti rendi conto? Sarebbe potuta finire in mano a chiunque, senza sapere chi fosse. - Zia cominciava ad alzare la voce.
Judith è stata uno sbaglio - La donna esclamò scuotendo la testa.
- Uno sbaglio, Julia? Una bambina non è uno sbaglio! - Zia era indignata - Hai concepito Judith nel momento in cui dovevi riappacificarti con Alfred, il padre di John e cos'hai fatto? Un'altra figlia! E li hai abbandonati entrambi per farti un'altra famiglia! - Zia Mimi era scioccata e io mi sentii inutile.
- Non era previsto, come avrei potuto dirgli che c'era un'altra bambina?
Non volli ascoltare un'altra parola.
Ero uno sbaglio, un fuori programma che nessuno si aspettava. Ero finita in orfanotrofio perché nessuno mi voleva.
- Judy vieni con me - John mi prese la mano, andammo in camera sua chiudendo la porta con la chiave che tenevamo nascosta.

Non volevo piangere perché John diceva che solo gli stupidi lo facevano. Fui sorpresa quando, però, il bambino mi abbracciò.
- Per me non sei mai stata uno sbaglio, io ti voglio bene e sei la mia sorellina. Non m'importa di niente, voglio bene solo a te - fu sincero per la prima volta e capii che era l'unico di cui potermi fidare.
- Johnny anche io ti voglio bene - strinsi forte per la prima volta non il bambino, ma mio fratello e cominciai a piangere sulla sua spalla. Restammo stretti, nascosti sotto le coperte mentre al piano di sotto sentivamo strillare e piangere.

Alcuni anni dopo incontrammo ancora la donna, nostra madre, e cominciammo a conoscerla.
Mi spiegò che ci voleva bene e cominciammo a crederci, infondo era la mamma, quella frase, però era sempre presente nella mia testa, come un fastidiosissimo tarlo.

Dopo un po' Julia, la mamma, riuscì a far pace anche con zia ma uno stupido poliziotto sbronzo ce la portò via in un incidente.
Io e John avevamo perso la mamma, ancora una volta.

Suo marito ci disse che aveva conservato dei soldi per noi e grazie a questi ed altri aiuti di Zia, io e John trovammo una casa per noi. Lui era maggiorenne, io continuavo a studiare ma fu il periodo più bello di tutti.
John formò la band dei Quarrymen e la casa era sempre una via vai di persone, risate e musica.

Poi arrivarono Paul e George e la cosa divenne seria. Erano sempre più bravi e io adoravo i nuovi amici di John che ovviamente punzecchiava sempre me e Paul poiché era convinto che io ero innamorata del suo amico. George, era un ragazzino smilzo e tanto simpatico quanto bravo alla chitarra, aveva un fascino particolare e un accento buffo ma gli volevo un gran bene. Frequentavamo la stessa classe e spesso facevamo i compiti insieme, o meglio, lui copiava i miei.

Avevamo trovato un equilibrio ma le cose iniziarono a peggiorare dopo il primo viaggio ad Amburgo.

Cominciarono ad arrivare i primi fan, John non aveva più tempo per me e cominciò a staccarsi di più. Voleva il mio bene e lo comprava, non capiva che quello che mi serviva era semplicemente mio fratello.
Persi tutte le mie amiche poiché cominciarono o a starmi attorno dato che ero "la sorella di John" e "l'amica della band" o ad odiarmi dicendo che ero una puttanella venuta dal nulla.
Le cose s'incrinarono fino a spezzarsi nel momento in cui me ne andai.



- Judith, come stai? - Paul era seduto affianco a me e mi teneva una mano sulla spalla.

Staccai gli occhi da quel punto indefinito nel muro che ero rimasta a fissare e rivolsi al ragazzo un sorriso debole che, però, non riusciva a coinvolgere anche gli occhi.

- C'è la colazione giù. Vieni che mangiamo un po' - Cercò di sollevare il mio umore accarezzandomi la schiena.

- Perché fai questo per me? Chi te lo fa fare? - Lo guardai mentre si alzava dal letto.
-Ti aspetto in cucina. Puoi prendere qualche mia maglia pulita come cambio, le asciugamani sono in bagno - Rispose chiudendo la porta e scendendo le scale.

Perché si comportava così? 
Arrangiai un piccolo cambio con un suo pigiama e andai in bagno.
Avevo un aspetto tragico dopo quella sera ero irriconoscibile.

Dopo la doccia scesi in cucina, avevo un aspetto almeno presentabile.
Erano le 12.20, troppo tardi per una colazione.

- Non hai risposto alla mia domanda - Dissi non appena misi piede al piano di sotto.
Paul, che fino a un momento prima era seduto con le gambe accavallate a leggere il giornale, lo ripiegò in quattro parti e venne verso di me.
- Sai che con me non funziona - Spostai il peso sull'altra gamba mentre il ragazzo mi raggiungeva.
- Lo so che non funziona, so che sei una testarda e fai sempre quello che vuoi. Ti conosco benissimo, Judith Lennon. Ma per una volta accetta il mio aiuto, per favore. Stai con me fino a quando le cose andranno meglio, poi deciderai tu - Mi parlava tenendomi le mani e guardandomi dritto negli occhi.
- Ma io ho una casa, ce la faccio - Mantenei un tono fermo.
- Stanotte hai pianto nel sonno - scuoteva la testa cercando di farmi ragionare 
- Mi dispiace.
- Sono stato vicino a te e ti sei calmata dopo un po'.

Abbracciai Paul sussurrandogli "grazie" più volte. In altri casi avrei pianto ma non ne avevo la forza, mi lasciai cullare dalle sue braccia e dal calore del suo corpo così familiare, che fungeva da panacea per i miei sensi.

Tirò su con il naso e capii che era stato lui a commuoversi.
- Mi sei mancato tanto - gli accarezzai il viso e con il pollice scacciai via una piccola lacrima che scendeva sulla guancia liscia.
- Credevo di non vederti mai più, avevo paura che fossi morta - La voce era debole e mi strinsi ancora a lui.

Dopo pranzo Paul si ritirò nel suo studio e io mi rivestii
Una volta pronta arrivai fuori la porta della camera e rimasi ad ascoltare le sue parole.

"Who knows how long I've loved you?
Who knows I love you still?
Will I wait a lonely lifetime, if you want me to 
I will"

Entrai nella camera dalle pareti in legno e chiamai l'attenzione con un colpetto di tosse.
Paul posò la sua chitarra e mi rivolse uno dei suoi sorrisi.

- Vorrei andare un momento a casa - Guardai il pavimento e le punte dei miei piedi.
- Te ne vuoi andare? - Paul mi guardò a lungo cercando di scrutare la mia espressione. Quegli occhi chiari riuscivano sempre a leggermi dentro 
- Non voglio che tu te ne vada - Aggiunse mordendosi il labbro e sospirando lentamente
- Nemmeno io. Mi servono vestiti puliti - Dissi cercando di capire la sua espressione
- Prendo le chiavi dell'auto e andiamo - Sorrise come un bambino e uscimmo.



- Ti bastano? - Chiese chiudendo la valigia.
- Credo di sì - mi guardavo intorno cercando di trovare qualcosa di utile da portare da Paul. 
Sarei rimasta a casa del bassista una settimana o poco più, e poi avremmo deciso come fare. Per ora niente progetti.

Paul teneva la camicia bianca arrotolata sui gomiti e si affaccendava per prendere le mie cose. Mi faceva ancora male la spalla e non ero molto di aiuto.
In un borsello feci entrare tutto ciò che tenevo in bagno e, tornando  in camera notai il diario a terra. Lo presi senza pensarci per metterlo in valigia.
- È il diario che ti regalai? - Paul chiese sorpreso del fatto che lo avessi ancora con me.
- Sì, proprio quello lì - lo rigirai tra le mani e Paul lo prese.

Era un quaderno in pelle chiara con i bordi rinforzati e un laccio per chiuderlo.
Era davvero semplice ma a me piaceva proprio per questo.
Sul retro c'era inciso:

"Per la storia più bella: la tua vita. 
Buon compleanno da Paul"

­
- L'ho sempre portato con me e ci ho scritto sempre. È stato il regalo più bello che potessi farmi - guardai il ragazzo facendo spallucce e gli sorrisi.
- È importante saperlo per me - Mi restituì il quaderno e finimmo di chiudere tutto senza dire una parola.

Grazie Paul ho bisogno di te ora come non mai, ma sono troppo testarda e orgogliosa per ammetterlo.



Angolo autrice
Buonasera a tutti,
come ogni fine settimana sono qui, puntuale (più o meno) con il nuovo capitolo.
In quest'ultimo non succede nulla di che ma, come potete immaginare dal titolo, si svelano le origini della ragazza.
Mi rendo conto che non sia un granchè, SIATE CLEMENTI, vi prego T.T

Ringraziamenti:
Ringrazio tutti coloro che leggono la storia: JepicLuminous e The FlyinPaper che la tengono tra i preferiti. 
CheccaWeasleyCherryBlues,JepicLuminousI_Me_MineMary AppleMiss_Riddle StarkeyTholomew e _occhicielo che la tengono tra le seguite.
Un enorme grazie a coloro che continuano a lasciare commenti ai vari capitoli!
A presto

JennyWren

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Capitolo 8
*** I have no secrets with you ***


I have no secrets with you

 

Lunedì.
Come si fa a non odiare il lunedì? È il giorno in cui tutto ricomincia daccapo, dove si accantona il fine settimana di relax e ci si rimbocca di nuovo le maniche per lavorare. 
Il lunedì è la giornata degli sbadigli, delle ore interminabili, del "ti prego lasciami stare, è lunedì", il giorno perfetto per essere di pessimo umore.


Mi svegliai nella camera degli ospiti di casa McCartney.
Il bassista aveva insistito perché dormissi nella sua camera e lui in questa ma non mi andava di essere invadente e quindi, a suo malgrado, dormii in quella più piccola, senza la vista mozzafiato, ma pur sempre una splendida camera dalle pareti color pesca.


Andai in cucina e preparai la colazione per entrambi, era il mio modo per ringraziarlo della sua ospitalità ed in pochi minuti toast, tè e macedonia erano pronti sul tavolo in legno lavorato della sala.
Me ne stavo sul bancone a guardare attraverso la finestra quadrata, era una pessima giornata, quelle perfette per restare a letto con un bel libro e una tazza di cioccolata calda.
Dopo qualche minuto passato a scorgere i particolari del giardino, curato alla perfezione, la mia attenzione tornò alla camera e in particolar modo sulla chitarra acustica poggiata sul divanetto.
Posai la fetta di pane e marmellata e presi la chitarra. Essendo mancina non avevo problemi ma erano anni che non ne prendevo una e cominciai ad accarezzare distrattamente le corde: Mi, La, Re, Sol, Si e ancora Mi.
Provai qualche accordo senza suonare, giusto per vedere se ricordavo qualcosa e cominciai a suonare "That'll be the day" , una canzone che George si offrì di insegnarmi quando andavamo a scuola insieme.
La mia memoria non era un granché, dunque mi bloccavo sempre allo stesso punto ripetendo sempre la stessa parte.

- È Mi la prossima - Paul era in piedi appoggiato alla parete, una gamba tirata sul muro e le braccia dietro la schiena.

Posai la chitarra e scattai in piedi.
- Scusa non volevo prenderla - indicai con un cenno della testa la chitarra. Mi sentivo come un bambino scoperto con le dita nella marmellata.

Paul strinse gli occhi corrugando la fronte - Perché hai smesso? - chiese avvicinandosi.
Prese lo strumento e me lo porse - Avanti, ti vergogni? - sorrise beffardo, sapendo che non mi sarei tirata indietro.
Presi la chitarra facendogli capire che conoscevo il suo gioco e cominciai a suonare intonando qua e là qualche parola per accompagnamento.
Una volta terminata la canzone alzai lo sguardo e il ragazzo mi guardava attentamente. Non appena vide la mia espressione sorrise battendo le mani.


- Allora io vado, torno per pranzare con te, metti un bel vestito che usciamo - m'informò il bel bassista annodandosi la sciarpa al collo.

Perché Paul era sempre così elegante?

Se ne stava lì, in piedi davanti allo specchio ma i suoi movimenti incantavano. Le mani lunghe che aggiustavano il colletto del cappotto compivano movimenti fluidi, quasi studiati. Il mento leggermente alzato per agevolare il compito, le labbra chiuse che sembravano disegnate tanto erano belle, il naso piccolo e dritto e le lunghe ciglia piegate all'insù.
Aveva un bel portamento, sempre composto e all'altezza della situazione, Paul non sembrava mai in imbarazzo. Il suo carattere era determinato, competitivo ma allo stesso tempo gentile e pacato, aveva mille sfaccettature diverse. Poteva ammaliare chiunque perché aveva classe, qualsiasi cosa facesse.
Si girò per salutarmi e gli mandai un bacio.
- A dopo – terminò chiudendo la porta
 
 

§ § § § § § § § § § § 


Chiusi la porta dell'auto ed entrai negli studi. Come sempre ero il primo.
Sembrava passata una vita da quando l'avevo incontrata di nuovo, invece erano passati solo due giorni.
Tolsi il cappotto e la sciarpa appoggiandoli all'attaccapanni e con la coda dell'occhio guardai nello studio. Mi immobilizzai quando scorsi diversi mozziconi a terra.

Appena entrai nella grande sala bianca dove spendevamo la maggior parte del nostro tempo mi ritrovai con le spalle al muro.

- Dimmi dove sta! - John era ubriaco e puzzava terribilmente, aveva un aspetto orribile con i vestiti sporchi e i capelli sudati.
- Lasciami Lennon! - gli portai le mani sulle spalle cercando di liberarmi ma fui buttato ancora una volta al muro battendo la testa.
- È a casa tua vero McCartney? Tu sei sempre il principe azzurro che salva la povera ragazza, sempre il solito stronzo che ha i meriti. Ma quella puttana è mia sorella, è come me, stanne fuori - mi parlava nell'orecchio suonando minaccioso ma dopo quello che aveva detto fui accecato dalla rabbia.
- Eh no John, tu non capisci un cazzo - spinsi il ragazzo a terra pronto ad attaccarlo ma John si alzò traballante senza reagire. 
- Non le hai dato nemmeno una possibilità, sei partito all’attacco. Le hai messo le mani addosso, John, Judith è tua sorella! Come hai potuto? - Urlai al pieno della rabbia
- Andate a fanculo tutti e due e dille che non la voglio più vedere - riuscì a dire prima di vomitare tutto l'alcool che aveva in corpo in uno dei cestini ed andarsene.



- Judith? Quella Judith? - George fece cadere tutti i fogli che aveva in mano.
- Sì, lei – mi passai una mano nei capelli, ero agitato.
Avevo detto tutto a George, sperando in un suo aiuto ma lui se ne stava con una mano sotto il mento a fissare il vuoto mentre io percorrevo circolarmente lo studio fissando la punta delle scarpe
- Devono incontrarsi - esclamò il più piccolo rompendo il silenzio.
- Speravo in un aiuto più sensato George. Ti rendi conto che le ha messo le mani addosso? - chiusi gli occhi per calmarmi ma non ci riuscii.
Vederla strattonata e tremante a terra era stato un colpo troppo forte per me. Non meritava di essere trattata così male, infondo non sapeva di incontrarlo. Più lei lo guardava, più lui s'incazzava e io mi sentivo inerme. Dopo una sfuriata con John l'avevo trovata a terra, come un animale ferito e l'avevo portata a casa mia. Ero rimasto sveglio con lei tutta la notte, piangeva e non faceva altro che ripetere "scusa" e"John". In un primo momento, ammetto che  anche io mi ero arrabbiato ma non avrei mai potuto reagire così, Judith non è stupida.

- Paul? Allora? Dimmi la tua di idea - George mi porse una sigaretta ma la rifiutai. - Non puoi metterti in mezzo a loro due, devono vedersela da soli. Sono d’accordo sul fatto che tu la ospiti ma non puoi metterti tra loro - Mi spiegò lentamente
- Non voglio che soffra, non di nuovo - Dissi a bassa voce.
- Paul, lei è forte, saprà venirne a capo
 
 
 

§ § § § § § § § § §


Me ne stavo su un ramo dell'albero in giardino. Seduta lì sopra mi sentivo al sicuro, perché nessuno avrebbe potuto attaccarmi, ma allo stesso tempo mi sentivo una vigliacca poiché lasciavo i miei problemi a terra rifugiandomi in una bolla, quando sapevo benissimo dove si trovavano e che nome avevano.

Appoggiai la schiena al tronco e cominciai a scrivere sul diario che mi era stato regalato da Paul anni prima ma m'interruppi non appena sentii il rumore di un'auto che frenava in malo modo sull'asfalto. 

Strano, perché Paul sapeva guidare bene.

Una figura scavalcò il cancello marrone e si avviò verso la casa.
In un primo momento credevo fosse un ladro ma riuscii a capire dal colore di capelli e dal modo di correre che egli non era altro che John.

- Lo so che stai qua esci - il ragazzo colpiva forte la porta di casa e gridava tanto da farsi sentire fino alla strada.

Ora dovevo scegliere.
Stare sull'albero come una vigliacca nella sua bolla oppure scendere e affrontare la situazione?
I colpi alla porta continuavano a rimbombare così come le sue grida.
 

- Smetti di urlare - Dissi in modo pacato alle sue spalle cercando di nascondere l'ansia che provavo standogli di fronte.

John si voltò di scatto per puntare i suoi occhi nei miei.

Restammo in silenzio a fissarci senza dire una parola, a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altra, con tutte le terminazioni nervose all'erta, ma nessuno dei due mosse un solo muscolo.

Avremmo voluto gridarci addosso tutte le colpe, tutte le frustrazioni fino a non avere più niente da dire, fino a restare senza fiato ma restammo impassibili.

Sapevamo benissimo che se uno dei due avesse parlato l'altro avrebbe scatenato una guerra quindi limitammo a fissarci cercando di scrutare l'espressione dell'altro, aspettando un minimo di cedimento per poterne approfittare.

Ma infondo sapevo benissimo che non sarebbe successo, nessuno dei due avrebbe ceduto.

Eravamo identici, due facce di un'unica medaglia.

- Tieni. Non ti ho mai nascosto niente e parlare sarebbe inutile - Gli porsi il mio diario senza distogliere lo sguardo dal suo.
- Non voglio un cazzo da te - Rispose tagliente facendo una smorfia di disappunto.

Puzzava terribilmente di alcool, bere era sempre il modo per annegare le sue frustrazioni.
 
- E allora perché sei venuto? - Alzai il mento sapendo di averlo colto in fallo.
Con un gesto poco elegante mi strappò il diario dalle mani e se ne andò.

Su quel diario c'era scritto tutto ciò che mi era accaduto negli ultimi due anni e mezzo.
Niente "Judith ama pincopallino" perché non mi interessava proprio nessuno, solo alcuni pensieri e sfoghi su me stessa e sulla merda in cui mi trovavo. Erano cose personali ma era necessario che John ne fosse a conoscenza, non avrei mai avuto il coraggio di dire tutte quelle cose quindi era meglio che le leggesse da solo.
 
Cominciò a piovere e tornai in casa guardando, mentre chiudevo la porta, il cancelletto da dove era arrivato.


Angolo autrice
Salve a tutti!!
Sono consapevole dell'enorme e imperdonabile (?) ritardo ma sono piena di impegni.

Un enorme GRAZIE a: GnufolettaJepicLuminousLady Madonnaohhstyles e The Flying Paper che tengono la storia nei preferiti e a Checca WeasleyCherry BluesI_Me_Mine,JepicLuminousMaryAppleMiss_Riddle StarkeyohhstylesSgtPepperTholomew e_occhicielo per averla inserita tra le seguite.
Un enorme grazie anche a chi legge soltanto.
Alla prossima

JennyWren

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Capitolo 9
*** Christmas (Part.1) ***


Christmas
(Part.1)



- Secondo me ci sta meglio la blu.
 
Paul reggeva la scatola di decorazioni colorate osservando il mio lavoro.
- Ne ho già messa una di pallina blu, ora ce ne vuole una argento - Indietreggiai per guardare meglio il mio lavoro - Mi dai una mano invece di restare lì imbambolato? - Mi voltai verso il ragazzo seduto a terra che mi guardava male.
 
- Che ti prende? - La sua espressione parlava già da sé ma volevo sentirglielo dire.
- Ho provato a mettere sei palline e tu hai urlato ogni volta che stavo "Rovinando la tua opera d'arte" quindi no, non voglio essere sgridato, sto a guardare. - Rispose il bassista in tono drammatico incrociando le braccia sul petto.

Dovetti mordermi il labbro per evitare di ridergli in faccia.

- Il piccolo McCartney ci è rimasto male? - Mi inginocchiai di fronte a lui parlandogli come se avesse cinque anni.
- Beh.. sì, mi piace fare l'albero - Il labbro inferiore sporgeva in fuori dandogli un'aria buffa che mi fece ridere nonostante mi trattenessi.
- Scusa! - Mi appoggiai con le mani alle sue spalle e sbattei più volte le ciglia fintamente dispiaciuta.

- Ma smettila - Concluse il ragazzo ridendo a sua volta per poi spingermi a terra.

E fu la guerra.

Paul era seduto sulle mie gambe e mi torturava con il solletico mentre io annaspavo per prendere fiato e per fermarlo.
Mai contro il grande Paul! - Asserì con aria da duro mentre mi tormentava i fianchi
- Ti prego, ti prego! - Furono le uniche parole che riuscivo a dire mentre mi contorcevo ridendo come una matta.

Finimmo entrambi sdraiati a pancia in su sul pavimento cercando di riprendere fiato.
- Sei un cretino, lo sai questo vero? - Gli diedi un buffetto sul braccio girando solo la testa verso di lui.

Paul si spostò su un fianco reggendosi sul braccio e sorrise come solo lui sapeva fare, cominciò ad accarezzarmi il viso e io mi appoggiai al suo tocco.
Un brivido, forse a causa del pavimento freddo mi percorse la schiena nel momento in cui appoggiai la mia mano sulla sua.
Non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi.

Il trillo del telefono fece sobbalzare entrambi.
Il ragazzo si sollevò dopo almeno un paio di squilli per andare nella stanza accanto bofonchiando qualcosa e io mi coprii il viso con le mani.


Ma che stavo facendo?

Appoggiai la mano sulla quale fino a poco prima si trovava la sua e sentivo la guancia bollente, probabilmente ero arrossita.

Cominciai a decorare di nuovo l'albero, anche se il mio pensiero volava a quei minuti prima ma sapevo che non era il momento giusto per prendermi una cotta, inoltre Paul mi voleva bene come un fratello niente di più e doveva essere lo stesso anche per me.
Ripetevo mentalmente queste frasi come un mantra, una regola da imparare a memoria come le poesie a scuola.

Ma nonostante le mie congetture mentali mi scappò comunque un sorriso nel momento in cui le braccia di Paul si posarono sui miei fianchi e il suo mento si poggiava sulla mia spalla.
- Devo ammettere però che sta venendo su un vero capolavoro - Sussurrò dritto nel mio orecchio.
Piegai irrazionalmente la testa all'indietro verso la sua respirando il suo profumo dolce.
La sua voce era profonda e sentivo le sue corde vocali vibrare sulla mia spalla sinistra tanto eravamo vicini. In quel momento ero sul pianeta Paul dove i miei sentimenti prevalevano sulla ragione ma riacquistando un minimo di lucidità sciolsi l'abbraccio goffamente cambiando argomento.

- Chi... Chi era al telefono? - Chiesi porgendogli ancora la scatola.
Paul mi guardò incerto, quasi dispiaciuto ma cominciò a puntellare con il dito una decorazione facendola saltellare su e giù sul ramo.

- Era John - disse schioccando le labbra, guardando ancora la piccola stellina che saltellava scompostamente.
- Ah, John.

Ultimamente stavo abituandomi a dire quel nome senza sentire il nodo alla gola poiché avevo capito che ci voleva tempo e pazienza per far calmare le acque e star male era inutile, anche se, a dir la verità mi mancava sogni giorno di più e chiedevo sempre sue notizie. 
Fortunatamente avevo l'appoggio di Paul che era diventato indispensabile per me, con lui stavo bene, era un ottimo amico: passavamo pomeriggi a leggere, a giocare a stupidi giochi, a suonare. Mi piaceva tantissimo vedere Paul a lavoro. Quando componeva era concentratissimo e fermo come una statua, cercava le parole giuste per la canzone mentre la penna scriveva freneticamente sul foglio bianco. 
Spesso, quasi sempre, di sera stavamo ore a parlare di mille argomenti diversi prima di addormentarci come dei sassi. Gli dava sempre fastidio quando cercavo di scaldarmi i piedi "freddi come il ghiaccio" a detta sua, contro di lui.
Le ore al lavoro sembravano interminabili, non vedevo l'ora di tornare a casa lasciando ogni volta la povera Annabeth sull'orlo del collasso quando vedeva apparire McCartney sulla soglia del locale. Gliel'avrei presentato ma la ragazza scappava sempre da qualche parte (dopo essere stata imbambolata per almeno un minuto).

- Devo comprarti un regalo - spezzai l'atmosfera che si stava formando per farla tornare a quella di pochi minuti prima.
- Un regalo? - Paul mi guardò accigliato per un momento ma poi sorrise
- Anche io devo farne uno a te - E prima che potessi controbattere aggiunse - Non accetto repliche.

Gli feci una linguaccia. 

- Uno a zero per te McCartney ma preparati ad essere stracciato - Conclusi dandogli le spalle.
- Sai che sono competitivo - Mi prese la scatola dalle mani e finimmo insieme di sistemare le decorazioni scambiandoci qualche occhiata che faceva sorridere entrambi.
 

Il pomeriggio Paul andò in studio a causa della telefonata di quella mattina e io uscii con la mia amica Annabeth che fu ben felice di accompagnarmi.

Il rapporto era cambiato un po' da quando lei sapeva che conoscevo Paul, non avevo accennato minimamente a John, ma a me faceva ancora piacere la sua compagnia nonostante le domande sul bassista. 

Ci incontrammo in un bar in centro e aspettai un po' prima che arrivasse.
Il locale era uno dei miei preferiti: pareti in legno chiaro con un grande bancone al centro e tavolini quadrati dalle tovaglie sul verde.
Anche se non mi andava di spettegolare, la ragazza m'informo su tutte le coppie e le possibili coppie della città.
- Che fai stasera? - La ragazza mi porse una domanda diretta notando il fatto che non l'ascoltassi più.
- Sto da Paul - Risposi senza pensarci. 

Maledetta boccaccia.

Annabeth sputò l'acqua nel bicchiere beccandosi un'occhiataccia da parte mia.
- Insomma non sapevo che voi due faceste coppia.. Fissa - Indugiò parecchio sulla parola "fissa".

Scoppiai in una risata tra l'isterico e l'imbarazzato.

- Annie non siamo assolutamente una coppia, tantomeno una coppia fissa - Cercai di reprimere una risata e soprattutto le immagini di quella mattina.
- Ma, dormi da lui! - La povera fan era sull'orlo dell'isterismo.
- Sì ma siamo solo vecchi amici, tutto qui - Cercai di suonare il più convincente possibile. - E ti sarei grata se non dicessi niente a nessuno, per favore - Aggiunsi sperando di tenere a freno la lingua di Annabeth.
- Non preoccuparti, non dirò niente - Promise.

Paul doveva venirmi a prendere alle 19.30 ma congedai la ragazza prima in modo da non suscitare altri pettegolezzi.
Fortunatamente fu puntuale.

In macchina continuava a parlare senza sosta dei nuovi progetti e finalmente, m'interessava l'argomento della discussione.
- Stiamo andando forte anche in America, capisci? L'America! - Era così esaltato che batteva le mani sul volante e rideva tantissimo. Sembrava un bambino il giorno di Natale - Partiremo verso Febbraio.

Ebbi una fitta allo stomaco. 
I Beatles in America.





Angolo autrice
Sono viiiiivaa!!! 
Mi dispiace per il clamoroso ritardo, non sono riuscita a pubblicare prima.
Vedo che continuate a leggere la mia storia e a recensire, beh che dirvi, GRAZIE di cuore!

Grazie JepicLuminousMaryApple e ohhstyles che hanno recensito. Siete carinissime! 

Grazie a GnufolettaJepicLuminousLady MadonnaohhstylesSteetsOfLove e The FlyingPaper per averla inserita nei preferiti.

Grazie a BinsaneCheccaWisleyCherry BluesHelterSkelterI_me_mineJepic luminous Miss_Riddle Starkeyohhstyles_sgtpepperTholomew e _occhicielo per averla inserita tra le seguite

Alla prossima!
With Love

JennyWren

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Capitolo 10
*** Christmas (Part.2) ***


Christmas 
(Part. 2)


- Buongiorno! - Saltai sul letto del bassista con una scatola quadrata dalla carta opaca blu chiusa con un fiocco oro.
Il ragazzo dormiva tranquillamente ma ero troppo in ansia di dargli il mio regalo tanto che, ancora in pigiama e calzettoni ero corsa su per il corridoio come una bambina.

- Buongiorno! - Paul aprii gli occhi e sorrise contagiato dalla mia euforia. Si mise a sedere ancora sotto le coperte strofinandosi il viso con le mani.
- Per te - porsi con entrambi le mani la scatola.
- Non ci credo, ah grazie! - Mi guardò prima di prendere la scatola dalle mie mani e poggiarla sulle sue gambe per aprirla.
- Hai tutto quindi ti ho regalato diverse cose - Spiegai mordendomi il labbro.
Forse era "troppo" ciò che avevo pensato, troppo personale.
Fissò la scatola con un'espressione indecifrabile e pensai che non avesse apprezzato.
- Non ci posso credere - Mi guardò incredulo tirando fuori i vari oggetti - Come facevi a ricordarlo? 

Ebbene sì, ricordavo tutto.

C'era un LP di Elvis, quello che ascoltavamo sempre a casa sua nei pomeriggi invernali di Liverpool. Stavamo ore e ore a cantare ed imitare "Il Re" ridendo come dei matti ogni volta. 
C'era il 45 giri di Eddie Cochran con twenty flight rock, la prima canzone che gli avevo sentito suonare quando si presentò a John per entrare nel gruppo dei Quarryman. 
C'era la nostra foto, scattata da Pete a Blackpool, dove avevamo dei cappellini buffi e tremendamente orrendi, presi per l'occasione. La foto non era in posa, stavamo ridendo sulla spiaggia seduti sulla sabbia in un giorno estivo particolarmente caldo. John e Pete ci presero in giro tutto il pomeriggio dicendo che era la nostra "luna di miele".
Mettemmo anche le nostre firme sul retro con dei commenti sulla giornata.
E poi c'era un braccialetto, uguale a quello che perse proprio quel giorno,ovvero, una placchetta con su scritto il suo nome.

- Non ci posso credere. È la cosa più bella che potessi farmi - Mi abbracciò stretta accarezzandomi i capelli.
- Buon Natale Paul, ti voglio bene.
Per me stare tra le sue braccia in quel momento era il regalo più bello di tutti.

Passarono diversi minuti prima di parlare di nuovo.
- Adesso però tocca a me - Esordì con un sorriso che si estendeva da un orecchio all'altro.
Prese la scatola e, tenendomi per mano, corremmo fino al piano di sotto.

Mi portò le mani agli occhi guidandomi in salotto.

- Paul vado a sbattere così - Il mio equilibrio era precario quando ci vedevo, figuriamoci con gli occhi chiusi.
Aprii gli occhi e la vidi lì, una chitarra in piena regola. In legno chiaro con le rifiniture scure tenuta da un fiocco rosso.
- Oddio! - Urlai prima di abbracciarlo stretto e saltare come una rana impazzita.
- Ferma! Non è finita qui – Indicò con gli occhi di guardare meglio.
Mi fiondai sulla scatola dalla carta viola sul tavolo.
Nel momento in cui scoprii il contenuto per poco rischiavo un infarto.
Una macchina fotografica.
Quella che sognavo.
- Tu sei pazzo! O mio dio! - Mi portai le mani nei capelli mentre Paul rideva incontrollatamente.

Corsi da lui stampandogli mille baci sulle guance.

- Grazie Paul, non lo merito, insomma è – Non trovavo le parole.
- Judith, smettilla, non voglio sensi di colpa – Sorrise e gli scattai una foto.

Mi sentivo tremendamente professionale con quella macchina fotografica in mano, anche se il modo in cui ero vestita lasciava a desiderare.
Paul fece partire il vinile che gli avevo regalato e cominciammo a ballare sulle note veloci di Hound Dog. Agitavamo la testa saltellando scompostamente ridendo come due bambini fino alla fine.

La successiva era Love Me Tender.
Il ragazzo mi prese per mano e cominciammo a dondolare stretti mentre lui sussurrava le parole della canzone. Persi un battito nel momento in cui poggiò le labbra sulla mia tempia. 
Paul era in quel momento per me come il dolce nettare per api. Era una sorta di attrazione magnetica quella che provavo nei suoi confronti, qualcosa che non riuscivo a controllare. 
Gli portai le braccia al collo poggiandomi sulla sua spalla, giocando distrattamente con le piccole ciocche che gli ricadevano sulla nuca. Riuscivo a percepire il respiro ritmato, il vibrare delle corde vocali, il profumo che lo rendeva unico, per me.
Ero affascinata, forse innamorata di Paul, di ogni suo minimo particolare, di ogni sfaccettatura del suo carattere, del suo modo di parlare, di comportarsi.
Ma sapevo anche che sentimenti del genere non potevano esistere tra noi due, o quantomeno, non ora.

- Paul - Sciolsi l'abbraccio pentendomene immediatamente.
- Dimmi - Sistemò una ciocca dietro l'orecchio accarezzandomi la guancia.
- Vorrei chiamare John.
Fece un cenno di assenso con il capo, qualcosa che interpretai come “speravo che lo dicessi”.


Camminavo in tondo nella stanza cercando di tranquillizzarmi ma, ogni volta che toccavo la cornetta avevo la sensazione di toccare il ferro rovente.
Mi voltai premendo le mani sugli occhi fino a vedere figure indistinte quando Paul mi poggiò la cornetta sull'orecchio.
Avrei voluto urlare tanto ero nervosa ma prima di dire qualsiasi cosa fui interrotta.
- Pronto? - una voce femminile rispose in tono allegro.
- Ehm, buongiorno, potrei parlare con John? - Tormentavo il filo della cornetta mentre Paul usciva dalla stanza alzando i pollici.
- Come sai il numero? Sei una fan? - La donna cambiò il tono gentile in uno decisamente spazientito.
- No, nient'affatto sono Judith. La prego posso parlargli? - Non riuscii a presentarmi come sua sorella ma sentivo il bisogno di parlare con John.
- Judith... - Sentii il telefono poggiarsi su qualcosa e dei passi allontanarsi.
Pregai che John non reagisse come l'ultima volta.

- Sono John - Il tono piatto mi fece gelare
- John.. - Avevo un nodo alla gola incredibile e dovetti sedermi per non cadere
- Ciao, dimmi.
- Volevo solo augurarti Buon Natale.
- Grazie, spero sia lo stesso anche per te.
- Adesso sì.
Una lacrima calda cadde sulla mano e capii di piangere in quel momento. Tirai su con il naso aggrappandomi a quella cornetta come ad un'ancora di salvezza.

Stavo parlando di nuovo con lui, mio fratello, con il quale non parlavo civilmente da anni e la cosa sembrava così strano riuscire a pensare di essermene andata, di aver perso del tempo senza lui, colui che mi aveva sempre sostenuta e non mi aveva mai fatta sentire “uno sbaglio”

- Non piangere Judith, non c'è nulla per cui tu debba piangere adesso - Riconobbi in quel timbro di voce qualcosa di familiare, era più dolce, ma comunque sostenuto
- E’ solo che mi sento estranea a tutto questo, a te come John dei Beatles e.. – John m’interruppe.
- Lo so, ma non è il momento adatto, né il luogo adatto. Devo andare adesso, ciao.
- Ciao John – risposi al segale piatto della chiamata ormai terminata.

Mi guardai allo specchio prima di tornare da Paul, non volevo fargli vedere di star piangendo, non quel giorno.
Asciugai ogni traccia di lacrime, facendo vento con le mani in modo da schiarire il rossore agli occhi.

Avevamo fatto un passo avanti.




Angolo autrice:
Anno nuovo, capitolo nuovo (?) *battuta indecente*
So di essere in ritardissimo ma ce l'ho fatta, se vi piace o no basta dirmelo =)
Grazie mille a chi continua a leggere e a recensire!

Grazie a elescardi GnufolettaJepicLuminousLady MadonnaohhstylesSteetsOfLove e The FlyingPaper per averla inserita nei preferiti.

Grazie a BinsaneCheccaWisleyCherry BluesHelterSkelterI_me_mineJepic luminous Miss_Riddle Starkeyohhstyles,_sgtpepperTholomew e _occhicielo per averla inserita tra le seguite

Alla prossima!

JennyWren

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Capitolo 11
*** I'm not Jealous ***


I'm not Jealous.



L'acqua calda era un toccasana, rilassava i muscoli e la mente, era proprio quello che mi ci voleva in quel momento.
In casa regnava il silenzio, l'unico rumore proveniva dal rubinetto dell’acqua calda che continuavo distrattamente ad aprire e chiudere con il piede.

Gettai la testa all'indietro cacciando via il fumo. 
Il bagno era pieno di condensa e l'odore dolce del bagnoschiuma si confondeva con quello acre della sigaretta che facevo girare tra le dita umide.
Avevo ripreso a fumare.
Ero in quella vasca da troppo tempo ma non m'importava, non avevo nulla di meglio da fare.
Dopo l'ultima boccata buttai il mozzicone a terra centrando in pieno il giornale. 
Ghignai soddisfatta. L'avevo presa in pieno.
Nonostante si fosse inumidito - ed ora anche bruciacchiato - si riusciva ancora a leggere l'intestazione.

"I Beatles conquistano l’America!" 
 

Sbuffai chiudendo gli occhi. 

Dopo Natale i giorni si susseguirono veloci, uno dopo l'altro, ad un ritmo frenetico.
Vedevo Paul raramente e non sentii John dalla telefonata il giorno di Natale.
Avevo deciso di tornare a casa mia, avevo bisogno dei miei spazi: della mia camera, del mio bagno, del mio divano.
Più si avvicinava il giorno della partenza, più mi staccavo da Paul. Ognuno era impegnato a suo modo: lui con i Beatles e io con il mio lavoro e - nuovo arrivato - lo studio, tanto che il giorno della partenza ci salutammo con un semplice "Hey, Buon viaggio" quasi fossimo estranei.
Lanciai un'ultima occhiata truce al giornale prima di uscire definitivamente dall'acqua che si stava raffreddando.
Il problema non era la prima pagina del giornale con i quattro ragazzi in copertina mentre scendevano dall'aereo.
No, era la seconda.
Quella con Paul che baciava teneramente sulle labbra una ragazza dai capelli rossi.

- Maledetto! McCartney sei uno stronzo! - Urlai sbattendo la spazzola sul lavandino di ceramica.
E così mentre mi preparavo ad uscire, casa sembrava troppo stretta, imprecavo su quanto fosse stato falso, doppiogiochista e adulatore il mancino del gruppo.
Camminavo per strada a testa bassa, senza una vera e propria meta, quando mi accorsi inconsciamente di essere arrivata fuori casa di Paul.
"Perché diavolo ero lì?"
Fuori casa c'erano alcune ragazzine che lanciavano lettere oltre o sotto il cancello.
Mah, io avrei lanciato una pietra.
Mi misi a fumare dall'altro lato della strada, mi facevano ridere quelle tipe.

- Che hai da guardare? - Chiese una di loro facendo girare le altre due.
Feci spallucce e, senza dire una parola, cominciai a camminare per andarmene con le mani in tasca e la sigaretta tra le labbra, un atteggiamento che avevo preso da John. 
- Io so chi sei. Sono anche io di Liverpool, Judith.
Mi fermai per guardarla.
Stava bluffando o cosa? 
Da lontano non vedevo un accidente quindi cercai di mettere a fuoco il più possibile.
Si avvicinò a me mentre le altre due si guardavano senza capire.

- Eravamo nella stessa classe al collegio femminile, ricordi? - Mi guardò con un espressione insopportabile.
- Claire - Pronunciai quell'odioso nome a bassa voce. La riconobbi grazie all'orrendo neo che lei definiva "marchio di bellezza" sulla guancia.
- Lennon - mi squadrò da capo a piedi - Ti fai ancora pulire il culo da tuo fratello?
 
Mi si infiammarono gli occhi dalla rabbia e buttai la sigaretta, accidentalmente, vicino i suoi piedi.
- Intendi quello che pestò a sangue il tuo di fratello fino ad incrinargli le costole? - Feci schioccare le labbra con soddisfazione nel momento in cui la sua faccia divenne una maschera di rabbia.
- Io non farei tanto l'altezzosa se fossi in te. Dopotutto loro sono in America e ti hanno lasciato qui. Evidentemente è cambiato qualcosa o sbaglio?
La diplomazia non era una caratteristica di famiglia così, senza pensarci due (o forse nemmeno una) volte, le tirai un pugno in pieno addome.
- Così entrambi avete un ricordo dei Lennon in quel maledetto stomaco - Ringhiai a denti stretti.
La vidi accovacciarsi a terra e scappai via tra gli strilli delle ragazze.
Imprecai sottovoce durante tutto il tragitto per tornare a casa.

"Maledetta puttana dovevi stare zitta, zitta! Il pugno era il minimo"
Stavo per entrare in casa quando, non avendo visto il pacchetto fuori la porta, caddi rovinosamente a terra.
- Che cazzo hai contro di me oggi? - Urlai guardando in alto riferendomi a chiunque potesse esserci.
Presi quel dannato pacco ed entrai in casa continuando ad urlare.
 
Durante il momento clou delle imprecazioni cominciò a trillare il telefono.
- Pronto! - Urlai al povero ricevente
- Judith? Sono io, Ringo!
Provai a calmare il tono. Ringo non c'entrava nulla in quella faccenda.

- Dimmi Rings - Poggiai la cornetta sulla spalla cominciando a scartare il pacco pieno di scotch con tutta la rabbia che avevo in corpo.
- Tutto bene? Hai un tono strano.
- Una giornata di merda: Ho dato un pugno a una rgazza, sono caduta su un maledetto pacco postale e poi la notizia di Pa..- Mi blooccai mordendomi la lingua.
- Hai dato un pugno? Cosa?!
- Sì ma ora è meglio non parlarne - Ringraziai che Ringo non avesse sentito l'ultima parte della frase.
- Quindi è arrivato un pacco. 
- Sì e sto cercando di aprirlo ma è pieno di carta e scotch, sto odiando chi lo ha spedito.
Ringo rise e ripeté "è arrivato".
- Senti ora devo proprio andare. Dovremmo tornare domani sera, ci vediamo a casa di Paul verso le 21. Vieni con noi, giusto?
Mi arresi con il pacco. - No, ma divertitevi. 

Che razza di notizia inutile, figuriamoci, come se io potessi mai andare a casa di Paul ora poi che avevo letto quella notizia ero arrabbiata a morte con lui.


Mi lasciai cadere sul divano con il pacco che non ne voleva sapere di farsi aprire. Avevo deciso di lasciarlo andare ma la curiosità prevalse così, dopo essermi munita di forbici e quel poco di pazienza che avevo, riuscii a scartarlo.
Appena riconobbi l'oggetto mancai di un battito.
Era il mio diario, quello che avevo dato a John.
Lo aprii avidamente e trovai quasi ad ogni pagina dei fogli attaccati scritti a mano. Riconobbi la calligrafia disordinata di John e accarezzai le lettere con la punta delle dita.
Sulla copertina c'era un primo biglietto.
"So che non è il massimo consegnarti il diario per posta ma non trovavo mai il modo o il tempo di restituirlo.
Forse sono solo stato vigliacco.
John"






Angolo autrice
Sono viiiiiiivaaaa! Perdonatemi per il clamoroso, disastroso ritardo, non ho scusanti!
Vado davvero di fretta ma spero che leggerete il capitolo e che vi piaccia!
Grazie mille a tutti coloro che tengono la mia storia tra i preferiti, nelle seguite o chi legge solo.
Qualsiasi commento, bello o brutto che sia, sentitevi libere di esprimervi!
A presto

JennyWren

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Capitolo 12
*** I missed you ***


I missed you


Dopo aver sfogliato freneticamente le prime pagine del diario che non avevano avuto commenti, arrivai circa a metà diario con il cuore che batteva così forte da non riuscire a respirare.
"Calma Judith, calmati" continuavo a ripetermi mettendo a fuoco le pagine.

Dando una rapida occhiata, John aveva scritto solo sulle pagine dove era menzionato lui, cercai la prima pagina e cominciai a rileggere:

16 Agosto 1960

Stupido diario,
Oggi il mio Johnny è partito per Amburgo. È partito solo che ore fa ma già mi manca tanto: fa così strano stare a casa senza lui, senza i suoi teatrini improvvisati, senza sentirmi chiamare ogni due minuti perché non trova qualcosa (che poi sta in quel disastro di camera sua) o sentirlo cantare in mutande e con l'asciugamano come mantello. Non vedo l'ora che torni (anche Paul)
Ps. Zia Mimi vuole che torni a Mendiphs! Nooo!

"Mi mancavi tanto anche tu, lo sai? Durante tutto il viaggio pensavo a cosa stessi facendo e a tutte le raccomandazioni che avevo dimenticato di farti. 
Ero certo che Mimi sarebbe venuta a prenderti. D'altronde era impossibile che ti lasciasse da sola."



Non riuscivo a credere a cosa avevo appena letto. Era stato davvero lui a scriverle? Era uno scherzo?
Anche se il dubbio mi tormentava riconoscevo la sua scrittura veloce e molto poco ordinata e sfogliai altre pagine per trovare dei commenti, adesso con il peso nettamente minore che mi opprimeva il petto.





30 Novembre 1960

Idiota di un diario,
Domani torna Johnny! Mi ha chiamata poco fa da Amburgo dicendo che a causa di un incidente di Paul e Pete devono tornare a Liverpool, beh meno male perché non ne posso più! Zia mi ha portata a Mendiphs.. Immagina lo strazio! Mi ha fatta vestire come una bambola, non potevo dire parolacce e mi ha trascinata in Chiesa.
Dice che unendo il mio cervello e quello di John non ne esce uno normale e che io mi sono fatta influenzare troppo da lui e da quella mandria di amici che ha.
Ma beh, ci ho messa tutta me stessa per farmi odiare da lei e a volte, di notte tornavo a casa per dormire in un ambiente più familiare. In quella casa mi vengono in mente la mamma e zio George.

Sono passati tre mesi e mezzo e non vedo l'ora che tornino tutti!
Ps. Anche Paul mi manca tanto, a volte vedo Ruth (la sua ragazza) per strada ma la evito, non la sopporto per niente.

"Ricordi le telefonate da Amburgo? Dicevi che dovevo salvarti dalla furia dell'inferno. Quando chiamavo stavi tutto il tempo con me a parlare e zia si incazzava perché non riusciva mai a dirmi niente se non "sta attento" o "ricordati di mancgiare" 



Certo che le ricordavo. Appena sentivo il trillo del telefono scattavo come una lepre sperando di sentire e loro voci e quando erano lui, Paul o George, saltavo fino a stropicciare il tappeto che zia teneva all'entrata. Stavamo tanto tempo a telefono a dire cose insensate e ad ascoltarci a vicenda. Amavo quei momenti  



4 Dicembre 1960

Coso,
Quello che vedo non è mio fratello. In casa sembra un fantasma e tutto gravita intorno a lui e alla sua maledetta band. Ormai a casa non c'è più e quando c'è mi ignora. Si fa sentire solo quando gli servo, non sono la sua cameriera, cazzo!
Ieri abbiamo anche litigato, non lo sopporto più, non ragiona più. Ogni sera torna ubriaco e se cerco di aiutarlo mi spinge via.
Sono in crisi.. Ormai sta avendo successo e io sembro essere la mascotte. Ci sono ragazze che non mi hanno mai guardata che mi vengono dietro manco fossi la regina (come se non sapessi che ciò che le interessa è mio fratello) e lo stesso è per i ragazzi.
Sono stata con un ragazzo di nome Colin, ci sono andata a letto e poi sono venuta a sapere che lui voleva entrare nella band.
Che si fottano tutti! 
Ma la cosa che mi fa più rabbia è che le mie migliori amiche si comportano così! Si presentano a casa mia tirate a lucido e con i capelli perfetti, stanno sul MIO divano e mi ignorano per John e la sua band.
John dal canto suo non è certo migliorato nei miei confronti: quando gli dico che é assente mi da un bacio sulla fronte e torna a dormire, fantastico. 
Sono circondata da gente falsa, voglio andar via.

5 Dicembre 1960

Ciao diario,
Sono in treno per Londra. Ieri notte io e John abbiamo litigato e gli ho anche dato uno schiaffo. Ha detto che io sono la causa del suo malessere e che sono una spina nel fianco. Ha detto che se volevo andarmene c'era una porta a disposizione e io l'ho fatto, me ne sono andata via.
Non mi importa più niente di lui e di tutto, almeno così staremo bene entrambi, ne sono sicura.
Ma allora perché sto piangendo mentre lo scrivo?


"È proprio di questo che voglio parlare con te.
Premetto che sono stato un cazzone, so benissimo come mi sono comportato ma ero accecato dalla probabilità della fama e avevo dimenticato cose importanti, come te.
Judith quella sera la ricordo bene anche io e dopo che te ne sei andata ero arrabbiato con te come una belva e se non fosse stato per Paul credo che sarebbe finita davvero male. Ora che leggo come ti sei sentita mi sento uno schifo a pensare di essere stato io a farti stare così, non sapevo del tuo incidente con quel ragazzo, non me ne hai mai parlato o forse io non te ne ho dato la possibilità
So che non sono un asso a scrivere queste cose.
Vediamoci al Greenwich Park quando torno. Per favore".





Non appena chiusi il diario uscii di casa e corsi fino al nostro punto di incontro. Il tragitto era abbastanza lungo ed ero senza fiato nel momento in cui varcai la soglia del parco, cercai con lo sguardo un posto in cui sedermi.
Una volta calmato il respiro irregolare dovuto alla corsa mi accorsi di tremare. Quel giorno faceva davvero un granfresso e faticavo a tenere gli occhi aperti.

Tra le mani coperte dai guanti scuri stringevo il vecchio diario ormai non più così segreto, fissando dritto davanti a me, noncurante delle persone che mi guardavano con aria interrogativa.

Sapevo che erano tornati quel giorno, li avevo visti in tv e sui giornali ma era quasi un'ora che aspettavo dove mi aveva detto John senza che nessuno arrivasse.
Lessi ancora una volta quelle pagine, quelle righe e sbuffai producendo una piccola nuvola di condensa, proprio davanti a me.

- È libero, miss? - Chiese una voce maschile.

Annuii impercettibilmente, totalmente assorta dalla piccola nuvoletta evanescente.

- Sa, miss, dovrebbe guardare chi le parla. 

Risi leggermente, conoscevo quell'accento. L'avrei riconosciuto tra milioni di persone.

- Ciao John.

Alzai lo sguardo verso John che si stava sedendo di fianco a me. Aveva il cappotto nero aperto, nonostante il clima e un completo blu scuro con la cravatta allentata sulla gola.

Odiava le cravatte.

John mi sorrise guardandomi negli occhi così simili ai miei, nei quali mi ero ritrovata così tante volte, quegli occhi che mi mettevano a nudo, a cui non sapevo mentire ma avevo fatto del male e, forse solo ora, lo riconoscevo a me stessa.

Ero sul punto di piangere e sapevo che se avessi detto una sola parola sarei scoppiata, quindi mi limitai a fissare un punto impreciso del parco, decisamente troppo freddo per essere frequentato.

- Sono stato un coglione Jud. Un coglione colossale - Ruppe il silenzio senza guardarmi negli occhi.
Era seduto con i gomiti sulle ginocchia, tenendo il viso sui palmi chiusi delle mani.

- Credo che il livello di coglionaggine sia pari, abbiamo sbagliato entrambi, John
- Esatto. Vorrei chiudere quella storia.

La sua voce, sempre sicura e arrogante sembrò vacillare pronunciando le ultime parole e notai nella sua espressione un velo di ansia.

In quel momento una serie di immagini della mia infanzia mi affollavano la mente creando caos, le uniche parole che riuscii a pronunciare furono:
- Anche io, per favore.


Fissammo entrambi il nulla mentre le nostre menti lavoravano sugli ultimi messaggi. 
Chiudere tutto alle spalle avendo ammesso, se non proprio esplicitamente, i propri errori era una cosa giusta e riaprire ora l'argomento equivaleva ad un nuovo litigio al quale sarebbe stato ancora più difficile rimediare. Era meglio non rischiare ancora.

- Ti ho comprato una cosa in America, una delle poche volte che sono potuto uscire, sai eravamo bloccati dai fan e dai giornalisti.

Fino a quel momento non avevo notato il pacchetto rosso che faceva rigirare tra le mani.
- Non dovevi - Dissi prendendo il pacchetto e scartandolo lentamente. Mi tremavano le mani ma non lo feci notare, o almeno, ci provai.

Era un cappellino in lana rosso, morbido e caldo a giudicare dall'aspetto. Mi piaceva tantissimo e lo indossai subito 
- Come sto? 
- Sembri una scema - Rispose in tono serio fissandomi.

Misi il broncio come una bambina ma finimmo per ridere entrambi. Un suono che mi scaldò il cuore mentre riecheggiava forte tra gli alberi spogli e colmi di neve.

- Pace fatta? - Chiesi una volta alzatami dalla panchina.

Restammo in piedi l'uno di fronte l'altra per un paio di secondi prima di stringerci in un abbraccio senza precedenti.
Mi era mancato tantissimo il modo in cui mi abbracciava.

Lo strinsi forte a me affondando il viso nell'incavo del suo collo e restammo stretti l'una nelle braccia dell'altro.Poggiò il mento sulla mia testa come faceva sempre, mentre le sue braccia mi accarezzavano la schiena.

Erano due anni che non gli parlavo, che non lo vedevo ed erano stati i due anni più brutti della mia vita, forse più di quando ero in orfanotrofio.
Per me lui era tutta la mia famiglia, il mio punto di riferimento, la persona di cui mi fidavo più al mondo e stando senza di lui mi sentivo semplicemente persa, sola.

- John? - Chiesi ancora stretta a lui.
- Dimmi - Rispose a bassa voce.
- Sembro davvero una scema? - Alzai il viso di poco, giusto per guardarlo.
- Sì - Rise abbassandomi il cappello sugli occhi.
- Tu lo sembri anche senza cappello.

Ci incamminammo verso l'uscita del parco spingendoci a vicenda, scherzando sul nostro aspetto e ridendo a crepapelle quando l'insulto diventava a dir poco comico.
In quel momento, dopotutto, non sembrava facesse poi così freddo.



Angolo autrice:
Ebbene sì, JennyWren ce l'ha fatta ad aggiornare! Chiedo venia per il ritardo e spero che il capitolo vi piaccia!
Ringrazio tutti quellli che leggono, seguono o "prefericono" la mia storia. Vi abbraccio tutti!! 
Aspetto un commento da parte vostra, sentitevi liberi di dare il vostro parere!!
With love

JennyWren

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Capitolo 13
*** The secret ***


The secret



- Io non credo sia necessaria la mia presenza a questa festa o qualsiasi cosa sia - Affermai alquanto nervosa nel momento in cui John parcheggiò fuori casa di Paul.
L'idea di entrare lì dentro era, beh era troppo!

Cosa avrei dovuto fare?
Mi sentivo fuori luogo tra modelle bellissime, manager e persone importanti nel mondo dello spettacolo mentre io non ero nessuno, se non una ragazza con un cappello rosso che, tralaltro, le stava male.

- Andiamo Jud e da quando sei così? Ci sono George, Ringo e Paul, c'è Eppy e, ovviamente, ci sono io - Rispose mettendo un piede già fuori dall'auto in procinto di scendere.

In effetti sì, io conoscevo quelle persone ma ora non potevo andare da loro e dirgli "Hey George, tutto okay?". Ormai erano celebrità, come lo era anche lui!
Perché non ci arrivava?

Guardai in basso verso la punta delle mie scarpe e tentando di nascondermi sotto quel cappello. Non mi andava di espormi.

- E se mi chiedono chi sono? Che rispondo? - lo guardai cercando di fargli capire il mio disagio.
- Una fifona - Chiuse la porta dell'auto, rientrando completamente.
- John!
- Judith!
- John sii serio! 

Appoggiò le mani al volante e sperai con tutta me stessa che avrebbe fatto girare la chiave in quella dannata toppa e mi avrebbe accompagnata a casa mia.
Dopo un paio di secondi si voltò verso di me con una smorfia di scherno sul viso, mi stava prendendo in giro!

- Che c'è? - Sbottai dopo un po' di tempo fissandolo con aria di sufficienza.
Ho capito - Rispose puntellandosi le dita sul mento.

"Alleluia, ti prego portami a casa" pensai con tutta me stessa

- È per Paul.

BINGO!

- No! 
- Invece sì. La festa è a casa sua e c'è, aspetta come si chiama..
- Jane
- Jane, sì, Jane. E - Mi puntò l'indice contro - Il fatto che lo sai conferma la mia teoria, è per Paul che non vuoi venire.

Beh Paul era uno dei tanti motivi per cui non volevo andare, ma il fatto che John mi stesse ancora fissando con quella faccia da pesce palla mi infastidì a tal punto che mi rassegnai

- Andiamo
- E ora sì che ti riconosco!




Casa di Paul era un caos, un via vai di persone, un continuo tintinnio di bicchieri e risate squillanti proveniente da ogni dove.
Non avevo mai visto quella casa così piena di persone e mi sembrava di soffocare e mi aggrappai ancora più forte al braccio di John sicura che, se lo avessi lasciato, sarei stata travolta.
Sgusciammo fino ad arrivare al salotto in cui la folla era meno concentrata e tirai una boccata d'aria.

- Judith! - urlò una voce a me familiare. Cercai con lo sguardo la provenienza della voce e sorrisi al ragazzo che si sbracciava per farsi notare.
- Ringo! - Risposi mentre quest'ultimo si avvicinava verso me.
- Sono contentissimo di vederti, e soprattutto di vedervi di nuovo insieme. È tutto a posto vero? - Chiese continuando a sorridere
- È acqua passata ormai - Fu John a togliermi le parole da bocca e a dirle per conto mio, passando il braccio sulle mie spalle per stringermi a lui.
- Ah, finalmente! - Disse  tutto contento - John c'è Cyn che ti ha cercato per tutto il tempo. È un tantino fuori di sé - Lo informò poi il batterista dagli occhi blu.
- Oh cazzo! Beh, Judy ti lascio con Ringo. Ringo, un capello fuori posto e ti ammacco le costole - Sorrise al ragazzo mentre si allontanava ma Ringo sbarrò gli occhi terrorizzato.

- Vuoi da bere? - Chiese prendendomi sotto braccio.
- Sì, per favore.


Io e Ringo trovammo un posto un po' più appartato, nel quale potevamo parlare senza doverci urlare nelle orecchie.
Mi piaceva tanto stare con lui e anche se lo avevo visto poco lo consideravo un buon amico; sempre sorridente e con una risata che scaldava il cuore, Ringo faceva in modo che chiunque si sentisse a suo agio insieme a lui.

Parlammo a lungo di noi, gli raccontai la mia infanzia, il mio rapporto con gli altri Beatles e il motivo per il quale me n'ero andata di casa a soli 17 anni.

Avevo riempito pagine e pagine cercando di sfogarmi e di togliermi quel peso ma sembrava sempre che lo stessi solo scalfendo e non riuscivo mai a rimuoverlo del tutto, nemmeno ora che tra me e mio fratello le cose erano di nuovo come prima.
Ma ora che ne stavo parlando a qualcuno, una persona vera e non il solito "Caro diario", stavo veramente togliendo il peso e mi sentivo realmente libera.
Ringo mi ascoltò tutto il tempo, senza staccare gli occhi dai miei, sapeva che avevo bisogno di parlarne e lo apprezzai infinitamente.

- Scusa Rings ti ho fatto una testa grande come un dirigibile - Conclusi a fine discorso.
- No, Judith, non è vero, mi ha fatto piacere sapere qualcosa su di te, qualcosa di vero intendo

Risi pensando a tutte le frottole che avevo inventato sulla mia vita quando ero Janis.
- Un Oscar come migliore attrice improvvisata va... A Judith Lennon!

Ridemmo entrambi e continuammo a bere per un po'.
- Sai, mi sono sempre sentito in colpa dopo quella sera. Mi sentivo il responsabile di ciò che ti era successo - Ruppe il silenzio che si era creato e mi voltai per guardarlo.
Ringo era serio e tremendamente dispiaciuto. Lo vedevo da quegli occhioni blu che faceva saettare in ogni punto del giardino.
- Ringo se non fosse stato per te, non sarei qui stasera. E credo che non sarei nemmeno più qui, non so se intendi.

Il batterista mi fissò con un espressione sconvolta ma continuai a parlare.
- Credi che non ci abbia mai pensato? Vedevo la mia vita come un terribile errore, untiro mancin giocato di proposito. Ho sempre avuto John vicino a me che mi ripeteva il contrario ma stando da sola, era difficile continuare.
Sospirai profondamente e sorrisi amaramente al ragazzo. 

Gli avevo appena detto il mio segreto più profondo.

- Promettimi qui, ora, che non penserai mai più una cosa del genere.
Ci fissammo per un minuto intero ed infine gli promisi di non farlo mai più.

- Ti voglio bene Ringo - Dissi guardando il mio bicchiere, nel quale una sola goccia di liquido ambrato resisteva sul fondo e girava assecondando i miei movimenti. 
Era sempre difficile per me esternare i sentimenti ma in quel momento avevo la necessità di dirglielo.
- Anche io te ne voglio Judith.
Mi sentivo molto più leggera,  soprattutto più serena con me stessa e tutto questo grazie ad una persona che mi conosceva a malapena prima di quella sera.


Cominciava a fare davvero freddo e rientrammo in casa. Non mi ero resa conto di essere stata lì fuori così tanto, in casa erano rimasti in pochi, riuniti in gruppo mentre la governante stava già rassettando.

- Judith ma che fine hai fatto? Vieni qua -  Esortò John dal divano sul quale era seduto insieme a diverse persone.

Sarei andata volentieri se non ci fosse stato anche Paul con la ragazza.
Cercai il suo sguardo ma sembrava guardare ovunque, tranne che me.

Una volta arrivata verso di loro salutai con un timido "Salve".
In tanti mi stinsero la mano presentandosi, anche lo stesso George che fece ridere un po' tutti, ovviamente tranne Paul.

- Io sono Jane - Si presentò la ragazza con un sorriso fin troppo tirato per essere sincero. 
- Piacere mio, Judith - Risposi fissandola con un sorriso ancora più finto per poi sedermi vicino al batterista.

- Caspita, vi somigliate tantissimo! - Disse Pattie, la ragazza di George, guardando me e John sbalordita.
- Povera Judith, l'hai distrutta - Fu George a rispondere facendo sorridere amaro mio fratello.

Parlammo per parecchio tempo, balzando da un argomento all'altro quasi senza una minima connessione. John faceva battute stupide e George contagiava tutti con la sua risata.
Eravamo tutti coinvolti nel discorso ma ogni tanto non potevo fare a meno di guardare verso Paul e scoprire che stava facendo lo stesso con me. Non riuscivamo a tenere il contatto per più di due secondi senza distoglierlo.


Dovevo uscire. Dopo l'ennesimo bacio tra la coppietta felice la mia sopportazione era al massimo.
- Che fai? - John mi fermò per il polso.
Mi voltai in modo che nessun altro mi vedesse - Esco un attimo, torno subito - Lo rassicurai.
John guardò oltre la mia spalla per poi lasciarmi andare.



Mi appoggiai alla balaustra che dava sul giardinetto e strinsi così forte fino a sentire le schegge del legno pungermi la pelle.

Perché diamine si comportava così? 

Lo maledissi mentalmente in tutte le lingue del mondo mentre le immagini di lui e la sua nuova fiamma scorrevano nella mia mente.
Lo odiavo, era solo un viscido adulatore doppiogiochista.

- Perché sei qui? - Mi si gelò il sangue nelle vene mentre la presa diventava più molle, così come la forza nelle mie ginocchia.

Ingoiai a vuoto una, due volte, ma la bocca era improvvisamente secca, immobile, in un'espressione tra l'odio e lo stupore. Ma non potevo restare immobile e lasciarmi soggiogare da lui ancora una volta.

- Perché tu sei qui? - Dissi a mia volta, cercando di ribaltare la situazione.

Mi guardava con un espressiona strana, tra il fastidio e qualcosa di diverso che interpretai come disprezzo. Quell'espressione stonava tremendamente con il suo viso generalmente calmo.
Restammo immobili, fissandoci senza battere ciglio, con tutti i muscoli tesi e il cuore che martellava nel petto. Il silenzio che ci avvolgeva era disturbato solo dal leggero vociare che proveniva dall'interno e dal rumore delle auto proveniente dalla strada.

Poi tutto successe in un attimo
Indietreggiai fino a sbattere la schiena sul parapetto e chiusi gli occhi.
La mia domanda non trovò mai una risposta, 


Paul mi stava baciando.





Angolo autrice

Sì, ho aggiornato nella stessa settimana e non con un mese di ritardo. Ve lo aspettavate mie care? 
In questa settimana mi sono sentita molto produttiva tanto che anche il prossimo capitolo è quasi,quasi, pronto
Beh che dire, vi ringrazio tantissimo per leggere la mia storia che è balzata nelle popolari, non me lo aspettavo per niente! 
Tutto questo grazie a voi!
Grazie a C_LennonelescardiGnufolettaGo_always_aheadHelloDarkedsMyOldFriendJepicLuminousLA _Gibson_Lady MadonnaSlowDownLizStreetsOfLoveTheFlyingPaperWheresIzzy e
Yashi_  per averla inserita tra i preferiti!
Grazie a 
binsaneCheccaWeasleyCherry BluesElejjkkelescardiGo_always_aheadHelter SkelterIloveTheBeatles,I_me_mineJepicLuminousMadnessInkMiss_Riddle StarkeyohhstylesQuella che ama i Beatlessbriashisgtpepper,Tholomew e _occhicielo per averla inserita tra le seguite!
Grazie a Giulytvd  per averla inserita tra le ricordate!

Aspetto un vostro commento, bello o brutto che sia ;)

JennyWren

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Capitolo 14
*** This is WRONG! (Part.1) ***


This is WRONG! 
(Part.1)


L'aria passò così velocemente attraverso narici che annaspai per riprendere un minimo di fiato. Le sue labbra erano strette sulle mie, calde e morbide, con un leggero sapore di birra e tabacco. 
Ero immobile, combattuta sulla mia prossima mossa ma nel momento in cui Paul poggiò una mano sulla mia nuca incitandomi a partecipare, persi completamente il controllo sulle mie azioni.

Lo volevo, diamine se lo volevo!

Schiusi le labbra accogliendolo con un gemito di piacere che portò anche lui al mio stesso livello di libido.
Facemmo combaciare i nostri corpi in un abbraccio saldo, magnetico. Come i due poli di una calamita nessuno poteva fare a meno delle carezze dell'altro, delle mani che correvano lungo i corpi in un bisogno disperato di contatto.
Gli strinsi i capelli mentre lasciavo che mi baciasse sulle labbra, poi lungo il collo ed infine su, fino all'orecchio dove percepii il suo ansimare scomposto.

- Ti voglio - Annaspò con un rantolo facendomi rabbrividire e contorcere fin nelle viscere.
Avevo perso ogni briciolo di razionalità e risposi alla sua richiesta baciando ogni centimetro della sua pelle fino a catturare di nuovo le sue labbra tra le mie.
Affondai le dita nei suoi capelli corvini mentre mi baciava e stringeva i miei fianchi contro i suoi producendo ondate di piacere lungo tutto il corpo.

Era sbagliato, sbagliato da morire ma non potevo farne a meno.

Lo odiavo eppure lo amavo così tremendamente tanto da uscire fuori di testa.
Aspettavo quel momento da troppo tempo ma dovetti staccarmi da lui prima di incorrere nell'irreparabile, nonostante ogni singola parte del mio corpo reclamasse il disperato bisogno di quel contatto appena interrotto.
Avevo il cervello liquefatto, non ero mai stata, né avevo mai baciato in quel modo.

Il respiro affannoso e caldo produceva nuvole di condensa tra i nostri volti accaldati e arrossati. I suoi occhi brillavano in modo bramoso e non resistemmo ad annullare ancora una volta la distanza tra i nostri corpi.

- È sbagliato -  Dissi poggiandomi sul suo petto che batteva all'impazzata, per niente diverso dal mio, tenendo le dita ben salde sulla sua giacca.
- Non mi interessa - Mi cullò lentamente tenendomi stretta a sé.

E a me interessava? Insomma se io volevo stare con lui qual era il problema dopotutto? 
Beh nulla se non il fatto che sono la sorella del suo amico, lui non ci sarebbe mai a causa della sua carriera e tenere una qualsiasi relazione sarebbe impossibile.

 

- Devo rientrare - Lasciai di malgrado la presa e rientrai guardando per l'ultima volta il suo profilo perfetto.




Ringo si offrì per riportarmi a casa ma non fui molto loquace durante il tragitto in auto.  Pensavo e ripensavo a quelle parole:
"Ti voglio, ti voglio, ti voglio”

Quanto avevo aspettato perché le dicesse? 

Infondo ero sempre stata innamorata di Paul, fin dal momento in cui si presentò a casa di Zia Mimì con una chitarra in spalla.
Trovavo sempre mille scuse per entrare in camera di John quando c'era lui: prendere un foglio, portare dei biscotti, chiedere se Paul si fermasse a cena. Ogni scusa era valida per entrare in camera e vederlo.
Nonostante ciò, avevo sempre cercato di nasconderlo a tutti, e soprattutto a me, indicandolo come una semplice cotta ma non lo avevo mai dimenticato, nonostante gli anni, nonostante tutto.

E quello che era appena successo?
Sentivo ancora le sue labbra, le sue carezze, il suo respiro bruciare sulla mia pelle e mi pentivo sempre di più di essermene andata.

- L'ho capito, sai? - Ringo mi fece tornare bruscamente alla realtà.
- Cosa?! - Balbettai cercando di reprimere il rossore che colorava le mie guance.
- Che ne sei completamente innamorata, di Paul intendo - Continuò guardando fisso in strada.
- Ma no, che dici - Mi appoggiai al vetro dell'auto. L'ultima cosa che volevo era che si venisse a sapere in giro.
- Avete litigato? - Chiese in tono infastidito ma continuando a fissare la strada.
- Cosa te lo fa pensare? 

Questo interrogatorio cominciava a darmi sulle scatole.

- Il fatto che lui si sia alzato come una furia appena dopo di te.
Beh certo non era difficile intuire la faccenda - Non abbiamo litigato - Tagliai corto.


Una volta a casa mi resi conto di quanto la giornata fosse stata pesante: sia a livello fisico che emotivo.
Mi sdraiai a letto, tenendo la chitarra sopra di me, suonando qualche accordo alla rinfusa che faceva da sottofondo ai miei pensieri e, senza accorgermene, mi addormentai.

Fu il suono del campanello a farmi balzare dal sonno. Un suono lungo, incessante e terribilmente fastidioso.
Ancora senza scarpe e solo con un enorme maglione addosso aprii la porta, per niente sorpresa dalla figura che mi ritrovai davanti.
- Puoi staccare quel dannatissimo dito dal campanello? - Inveii contro quell'essere dal mio stesso cognome spintonandolo via.

Per tutta risposta premette ancora di più 

- Ah vaffanculo - Sbottai entrando in casa.
- Buongiorno mia principessa - Mi sorpassò appropriandosi del divano.
- Che vuoi? - Non ero dell'umore migliore - Hey, giù i piedi dal divano!
- Un té grazie - Rispose dal salotto.
- Non intendevo quello - Borbottai preparando la colazione per entrambi.

Arrivai con due tazze fumanti e mi sedetti affianco a lui, era incredibile come le cose fossero cambiate, sembrava che quel brutto periodo fosse stato completamente cancellato, rimosso.
Fino a due giorni prima non avrei mai immaginato di poterlo avere in casa mia a fare colazione con me, come due persone normali.

- Perché ridi? - Chiese guardandomi di sbieco. Non mi ero accorta di star sorridendo al nulla, la domanda era più che lecita.
- È bizzarro come le cose siano cambiate tra me e te. Certo, è quello in cui ho sperato per due anni ma ora fa così strano che sembra un sogno. Quando ci siamo visti per la prima volta qualche mese fa lo credevo impossibile e invece eccoci qui, a fare colazione insieme - Feci rigirare la tazza tra le mani per riscaldarle, sperai di non aver detto nulla di sbagliato - Mi sei mancato così tanto.

Sapevo che, anche se stava guardando da un'altra parte, mi aveva sentita perfettamente.

John odiava i discorsi seri, per lui tutto si risolveva con una battuta o in silenzio, senza parlare.
- Credevo che te ne saresti andata anche tu. Come Julia, come zio George, come Alf, come Stu. Per quello ero furioso con te, capisci? Eri e sei l'unica cosa che mi resta davvero della mia famiglia. Gli altri se ne sono andati perché sono morti, cazzo, sono morti. Per andare avanti mi ero convinto che tu fossi morta per me ma, diamine, sei la persona che mi ha appoggiata in tutto, che mi ha sempre aiutata e non ci sono riuscito un attimo. Perciò, cazzo se sono patetico ma, ti prego, non te ne andare, non più.

Rimasi a bocca aperta. Era il primo discorso serio che gli avevo sentito pronunciare in tutta la mia vita. 

- John, non vado da nessuna parte, non più, lo giuro.
Quello che seguì fu uno degli abbracci più significativi che ci scambiammo. Sentire quelle parole pronunciate da lui mi riempirono il cuore, le avevo sognate così tante volte!

- Sono qui per chiederti una cosa però, prima che diventiamo tutti zuccherosi come delle caramelle e adorabili come dei coniglietti

Ecco il mio John...

- Abbiamo bisogno di un addetto stampa. L'ultimo non è stato un asso nell'ultimo periodo ed Eppy lo ha liquidato.
- John - Sapeva che non ero d'accordo. 
- Prima che mi uccidi con quella faccia stammi a sentire, okay?



Angolo Autrice 
Salve a tutti, miei cari! 
Ho aggiornato in orario, ma che brava che sono (quasi)
Il capitolo beh........... Non mi esprimo, lascio a voi.
E' diviso in due parti perché in una sarebbe stato troppo pesante da leggere e non mi va di annoiarvi con la mia storiella da quattro soldi.
Come sempre i miei ringraziamenti a 


GiulyTVD, Go_always_ahead, Yashi_, LA _Gibson_, SlowDownLiz e Melly98 per aver recensito l'ultimo capitolo.

Ma anche a: 
 C_LennonelescardiGnufolettaGo_always_aheadHelloDarkedsMyOldFriendJepicLuminousLA _Gibson_Lady MadonnaSlowDownLizStreetsOfLoveTheFlyingPaperWheresIzzy e
Yashi_  per averla inserita tra i preferiti!
A:
binsaneCheccaWeasleyCherry BluesElejjkkelescardiGo_always_aheadHelter SkelterIloveTheBeatles,I_me_mineJepicLuminousMadnessInkMiss_Riddle StarkeyohhstylesQuella che ama i Beatlessbriashisgtpepper,Tholomew e _occhicielo per averla inserita tra le seguite!
Grazie a Giulytvd e Go_always_ahead per averla inserita tra le ricordate!

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Capitolo 15
*** This is WRONG! (Part.2) ***


This is WRONG!
(Part. 2)


- Ripetimi ancora perché ti sono stata a sentire - Ripetei per l'ennesima volta
- Perché hai bisogno di un lavoro decente, perché sei brava e perché io ho charme
- Che c'entra adessoil tuo charme? 



Alla EMI lavoravano così tante persone che credo di non aver visto due volte la stessa persona passarmi davanti.

Mi indicarono un ufficio in cui accomodarmi e cacciai via mio fratello, venendo quasi alle mani, che voleva per forza partecipare al colloquio.

- Allora? Lei è? - Fu un uomo molto alto e ben vestito ad accogliermi all’entrata,
- Judith Lennon - Dissi con molta nonchalance
- Lennon?
 
Ecco, la situazione che odiavo.
 

L'uomo fissò la cartella con i miei vari attestati, diplomi di merito e curriculum, cercando la prova della mia parola.

- La prego di vedere la mia cartella e non il mio cognome - Incrociai le braccia, leggermente spazientita
- Credo che sia una persona molto qualificata. Vedo molti riconoscimenti e un curriculum a dir poco impeccabile. Ma mi tolga una curiosità: lei è parente di uno dei Beatles?
- La sorella - Sospirai seccata dalla situazione. 
- Oh beh, era una curiosità. La prego di lasciarmi il materiale. La contatteremo appena possibile.
- Perfetto - Conclusi stringendogli la mano.


All'uscita trovai John fare il cascamorto con una delle ragazze della reception.
Ma non cambiava mai?
 
- Smetti di fare il deficiente, deficiente - Dissi una volta dietro di lui.
- Pardon? - Sorrise indicandomi con gli occhi la ragazza incitandomi a stare zitta.
- Parla nel sonno, rutta nella doccia e si mette le dita nel naso se nessuno lo vede - Dissi alla ragazza mentre John mi calpestava i piedi.
- Non la conosco nemmeno - Cercò di salvare la situazione con la biondina spingendomi via.

Recepii il messaggio e uscii dagli uffici.

Fuori faceva davvero freddo, nonostante il sole, mi fermai a guardare gli studi nei quali avrei potuto lavorare di lì a poco.
L'entrata alle sale di incisione era a sinistra, quella degli uffici a destra.
Intenta a memorizzare ogni parte dell’ edificio notai una figura familiare passarmi di fronte ed avviarsi all’entrata.

"Paul" mormorai tra le labbra, senza emettere suoni nel momento in cui si voltò a guardarmi ma entrando fingendo di non avermi vista.

Non so perché ma gli corsi incontro.

Salii le scale in fretta, dove era passato lui pochi secondi prima e lo cercai con lo sguardo.

Stava salutando delle persone, sorrideva cordialmente stringendo la mano a quelle che dovevano essere fan.
Firmò degli autografi e aprì una delle pesanti porte bianche che davano nelle sale di incisione.
Sorrise ancora ai fan ma, nel momento in cui mi vide sbattè la porta alle sue spalle.



- Perché mi ignori? - Urlai sbattendo a mia volta la porta, una volta accertata che eravamo soli.
- Che diamine vuoi? - Alzò il tono di voce guardandomi negli occhi.
- Tu non puoi ignorarmi, non dopo ieri sera! - Lo spinsi con tutta la mia forza ma riuscendo a spostarlo  solo di qualche centimetro. Odiavo essere fisicamente inferiore rispetto a qualcuno.
- Intendi dopo che mi hai lasciato ieri come un cazzone? Perché credo di avere qualche diritto oppure sbaglio? - Si portò una sigaretta alle labbra.
- Non fumare, mi da fastidio se parlo - Gli tirai la sigaretta, stizzita nel momento in cui stava per accenderla.
- Non cambiare discorso - Rispose leccandosi le labbra in un gesto nervoso e giocherellando con l'accendino.
- Dopotutto non sono io quella che si è presentata con la fidanzata troia.
- Che significa? - Mi fissò con quegli enormi occhi verdi da cui non riuscivo a staccarmi
- Non ci arrivi? - Distolsi lo sguardo dal suo viso, mi distraeva dal discorso che avevo in mente.
- Sei gelosa, ammettilo - Chiese inchiodandomi con le spalle al muro, sovrastandomi con il corpo.

Ingoiai a vuoto.
Ecco, la stessa situazione della sera precedente.

- Non sono gelosa - La frase non parve convincente nemmeno alle mie orecchie – Sei tu che mi confondi per come ti comporti.
- Tu invece no, eh?


Il rumore della porta fece sobbalzare entrambi e Paul si allontanò da me per entrare nella sala bianca.
- Judith ma che fine hai fatto? - John guardò Paul allontanarsi, prima di spostare lo sguardo su di me.
- Ero qui, fuori fa freddo - Balbettai cercando di sembrare convincente, ostentando un sorriso che non aveva ragione di esistere.

In quel momento entrarono tutti: George, Ringo, il signor Martin, che avevo visto una sola volta e altre persone che si adoperarono per il funzionamento della sala.

- Dobbiamo registrare, ma finiamo prima di pranzo, resti? - Chiese con un sorriso a cui non riuscii a resistere.



La cabina, dove mi ero sistemata insieme a George Martin, era un cubicolo posto in alto rispetto alla sala di registrazione. Sembrava di essere su un aereo.

- Non c'è un bottone per volare? - Chiesi al produttore, guardando i mille tasti che avevo davanti.
- No, mi dispiace deluderti ma credo di costruirlo a breve - Sorrise alla mia battuta, sembrava un tipo davvero cordiale.

Ero affascinata da tutti quei pulsanti e dalla capacità di George Martin di sapersi muovere perfettamente tra di essi. Su alcuni tasti c'era scritto a matita "Paul's Bass" o"George's Guitar". Io avrei messo delle etichette su ognuno di essi.

Guardai in basso mentre i ragazzi si preparavano a suonare, Ringo sembrava piccolissimo dietro quella batteria immensa, poggiata su una pedana sulla quale era seduto George.
Paul era in piedi, davanti al microfono, mentre John era seduto e accordava meticolosamente la sua chitarra.

Sobbalzai nel momento in cui percepii la voce netta e chiara di Paul alle orecchie, non ricordavo fosse così bella mentre cantava. 
Dopo aver registrato l'ultimo take di "Things we said today" George Martin fece per alzarsi ma fu fermato.
- Ne ho scritta un'altra, vorrei farvela sentire - Fu Paul a parlare, costringendo tutti a restare nelle loro postazioni.

Guardai nervosamente le mani, senza azzardarmi ad alzare lo sguardo.
Poi, le note lente, simili ad una ballata mi costrinsero a guardarlo.


I give her all my love
That's all I do
And if you saw my love
You'd love her too
I love her


La sua voce, lenta, profonda, mi arrivò dritta alle orecchie e sembrò fermare per un attimo il tempo.

She gives me everything
And tenderly
The kiss my lover brings
She brings to me
And I love her

A love like ours
Could never die
As long as I
Have you near me

Bright are the stars that shine
Dark is the sky
I know this love of mine
Will never die
And I love her

E anche l'ultima nota svanì nell'aria, assorbita dalle pareti bianche.
Ma non svanì alle mie orecchie, no, anche l'ultimo accordo mi rimbombava terribilmente in testa, così come le immagini di quando ero da lui: i pomeriggi passati insieme avvolti nelle coperte a guardare vecchi film, le partite a carte in cui mi lasciava vincere o i momenti passati ad ascoltarlo durante la composizione di una nuova canzone.
Sembrava essere passata un'eternità.

- Woah, Paul sei un romanticone! Tutto questo per Jane? non sei un po' precoce? - Lo schernì John.
- Chi ti dice che è per Jane? - Paul guardava in alto, verso la cabina ma io non riuscivo a guardarlo.
- Beh, a meno che tu non sia innamorato di me, e non ti biasimo per questo, è Jane la tua ragazza - Fece ridere tutti quanti, conpreso George Martin.


Mi alzai di scatto e me ne andai, non potevo sopportare una parola in più. 
Vittima, ecco come si comportava, era un bambino capriccioso.
Mi stava facendo impazzire, letteralmente. Prima il bacio, poi quel mezzo discorso e poi la canzone.
 
Perché mi faceva questo?



Angolo autrice

Ed ecco qui un capitolo nuovo, che ve ne pare? 
Sono contentissima per il fatto che state ancora leggendo la mia storia, non me l'aspettavo, siete carinissime *-*
Ringrazio Giulytvd, Jepic_Luminous, Melly98, Go_Always_Ahead, ItsNialler e SlowDownLiz per le simpaticissime recensioni.



Ringrazio: C_Lennon, elescardi, Gnufoletta, Go_always_ahead, HelloDarkedsMyOldFriend, JepicLuminous, LA _Gibson_ , Lady Madonnaohhstyles, SlowDownLiz, StreetsOfLoveThe Freedom Song, TheFlyingPaper, WheresIzzy,  Yashi_  Per aver inserito la storia tra i preferiti


Ringrazio Giulytvde Go_always_ahead per aver inserito la storia tra le ricordate

Ringrazio:  
binsane, CheccaWeasley, Cherry Blues, Elejjkk, elescardi,Go_always_ahead, Helter Skelter, IloveTheBeatles, I_me_mine, JepicLuminousJoiloveyou, MadnessInk, Miss_Riddle Starkey, np_gryffindor, ohhstylesQuella che ama i Beatles, rawwrtina, sbriashisgtpepper, The Freedom Song, Tholomew, _occhicielo  per aver inserito la storia tra le seguite


Aspetto un vostro commento, sentitevi liberi :)

With love
JennyWren

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Capitolo 16
*** An unexpected visit ***


An unexpected visit

 

Arrivai a casa il più in fretta possibile e mi liberai di tutti i vestiti. Stupide scarpe, stupida gonna scomoda! Avevo bisogno di calmarmi

Perché Paul doveva rendere le cose sempre mille volte più difficili?
Tra me e lui non poteva né doveva esserci qualcosa, se non una semplice amicizia, erano troppi i punti a sfavore.


Il campanello della porta continuava a suonare incessantemente, almeno da due minuti ma una predica di John per essermene andata era l'ultima cosa che volevo sentire, tuttavia dopo l'ennesima strigliata a quel povero campanello decisi di alzarmi dalla vasca.
Spensi la sigaretta in acqua prima di infilare l'accappatoio blu.

- John ti prego non cominc - Mi bloccai sbarrando gli occhi.

Che ci faceva Lui qui?
- Fammi entrare - Sentenziò sottovoce ma facendosi sentire perfettamente.

Senza staccare gli occhi dai suoi lasciai che la porta si aprisse.
Mi sorpassò entrando in salotto. Era fermo, immobile, le labbra serrate e gli occhi che seguivano ogni mio movimento.

- Perché sei venuto? - Lo guardai dritto negli occhi,schioccando le labbra in un gesto nervoso, non me potevo più.
- Perché te ne sei andata?

E lì, esplosi.

- E che dovevo fare? Ti aspettavi che scendessi e cadessi tra le tua braccia? Oh Paul, prova a crescere una dannata volta! Non siamo più bambini e non viviamo a Wonderland - Gli urlai contro, che diamine si aspettava da me?

Era furioso, mi guardava tenendo le labbra strette, serrate in una linea dura e gli occhi spalancati dalla rabbia.
- Io devo crescere? Tu devi crescere! E smetti di fare quella parte da dura che non sei! Sei solo acida e hai paura di avvicinarti alle persone, chiunque esse siano! - Si avvicinò così tanto a me che riuscivamo a sfiorarci – Smetti di essere ciò che non sei.


Ero pietrificata, non ero in grado di muovere un muscolo, come sempre ci aveva azzeccato. Avevo paura di avvicinarmi alle persone perché ne avevo perse troppe ma non poteva permettersi di dirmi una cosa del genere. Non lui.
 
-Vattene – Sibilai tra i denti ma non mi sentì – Ho detto Vattene! – Gli urlai contro colpendolo più volte sull’addome.
 
Lo colpii con tutta la rabbia che avevo in corpo ma senza riuscire a fargli male, infatti bloccò i miei polsi senza alcuno sforzo
 
- Sei uno stronzo! Perché  mi dici queste cose? - Continuai ad urlargli cercando di dimenarmi dalla sua presa ferrea 
- Rispondimi! Perché fai così, mi stai esasperando - Lo guardai ormai con le lacrime che premevano agli angoli degli occhi.
 
Lasciò andare i miei polsi, ormai arrossati e premette i palmi delle mani sugli occhi prima di rispondere
 
- Perché sono fottutamente innamorato di te - Disse scuotendo più volte la testa, lasciando cadere le braccia sui fianchi.
 
Mi allontanai da lui, balzando all’indietro come colpita da una scossa elettrica.
Fissai le iridi verdi, leggermente arrossate, non so se per la rabbia o per l’espressione disarmata che avevo dipinta in volto.
- Non puoi essere innamorato di me, lo sai che sarebbe impossibile stare insieme - Sussurrai cercando di convincere più me che lui stesso.

Guardai in basso, non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi.
 
Perché quelle parole erano così difficili da pronunciare?
 
- Dimmi che non mi ami e io me ne vado in un attimo da quella porta. Guardami e dimmelo e lo giuro che non mi farò più vedere - Disse a bassa voce, poggiandosi una mano sul torace.
 
 
Nella stanza calò il silenzio più totale.

Sentivo il mio battito accelerare e pulsare nelle orecchie, il mio respiro diventare sempre più pesante.
 
Paul.
Teneva gli occhi fissi nei miei, all’erta per ogni mio movimento, teso come la corda di un violino eppure dannatamente bellissimo.
 
Mi passai una mano tra i capelli bagnati, cominciavo ad avere freddo ma non me ne curai.
 
 
Silenzio.
 
Puntai i miei occhi dritti nei suoi, nessuno dei due si azzardava a battere ciglio per paura di perdere un istante di quel contatto. Trattenni più volte il respiro, passandomi una mano sulle labbra, spostando il peso del mio corpo, che sembrava essere aumentato esponenzialmente, da una gamba all'altra.
 
Ancora silenzio.
 
 
Cominciavano a fischiarmi le orecchie a causa di tutto quel maledetto silenzio.
 
Le mani erano strette a pugno e ingoiai più volte, cercando il coraggio di aprir bocca e parlargli, ogni volta bloccandomi, senza riuscire a pronunciare nulla.
 
Sospirai pesantemente, lasciando la presa sulle mie stesse mani, non mi azzardai a staccare i miei occhi dai suoi
 
- Ma che si fotta tutto.
 
 
Mi avvicinai e lo baciai.
Avevo un disperato bisogno di baciarlo ancora e non mi importava quali sarebbero state le conseguenze, era la cosa giusta da fare in quel momento, per me.
Affondai le dita tra i suoi capelli mentre mi stringeva a sé, sorpreso ma allo stesso tempo appagato della mia scelta, mentre mi baciava con foga, poggiando la mia gamba sul suo fianco, facendo in modo che il mio corpo si aderisse al suo.
Finii con le spalle al muro e lasciai che mi prendesse in braccio con una semplicità disarmante. Ero momentaneamente più alta di lui e cominciò a spostarmi l’accappatoio, ormai zuppo, dalle spalle, tracciando di baci la linea della mascella, fino alle labbra.
 
Ma le carezze, gli abbracci e i baci non bastavano, avevamo lo stesso bisogno l’uno dell’altra nel modo più profondo che potesse esistere e non ci saremmo fermati, non questa volta.
Mi fece scivolare sul letto, senza interrompere il bacio affannoso nel quale eravamo coinvolti e lasciammo che, per una volta, l'istinto prevalesse sulla ragione.




Angolo autrice
Buonasera! Qui JennyWren in preda ad una laringite da guinness! (Se parlo sembro una foca sul punto di morte .-.)
Questa settimana ho avuto parecchio da fare e mi sono ridotta a scrivere questo capitolo tra ieri e oggi.
(Già so che nel momento in cui lo posterò mi verranno mille idee diverse e migliori per descrivere le scene)
Vi ho mai detto che vi adoro?
Ho avuto un sacco di recensioni stupende e mi avete resa felicissima!!

Parlo di: OceaneLacroix La tua recensione è stata stupenda, ti ho già ringraziato ma lo faccio di nuovo, grazie! :)
Melly98 che mi ha riempita di complimenti ed è simpaticissima :)
Yashi_ che ha la santa pazienza di recensire ogni volta, sei un tesoro!
Meli123T che mi scrive sempre di continuare e lascia delle recensioni carinissime!
beatlestone62 che mi ha chiesto di aggiornare al più presto, perdonami, ho fatto tardi!! 
SlowDownLiz che segue sempre le mie storie, grazie! ;)
Giulytvd la mia carissima scrittrice che mi scrive sempre recensioni stupende, ti adoro!


Ringrazio:
Beatlestone62, C_LennonelescardiGnufolettaGo_always_aheadHelloDarkedsMyOldFriendJepicLuminousLA _Gibson_ , Lady MadonnaohhstylesSlowDownLizStreetsOfLoveThe Freedom SongTheFlyingPaperWheresIzzy,  Yashi_ 
per aver inserito la storia nei preferiti

Ringrazio:

GiulytvdGo_always_ahead 
per aver inserito la storia nelle ricordate

Ringrazio:

beatlestone62binsaneCheccaWeasleyCherry BluesElejjkkelescardi,Go_always_ahead, Harisonontour, HelloDarkedsMyOldFriendHelter SkelterIloveTheBeatlesI_me_mineJepicLuminousJoiloveyouMadnessInkMiss_Riddle Starkeynp_gryffindorohhstylesQuella che ama i BeatlesrawwrtinasbriashisgtpepperThe Freedom SongTholomew_occhicielo 
per aver inserito la storia tra le seguite

Aspetto un qualsiasi vostro commento!

With love

JennyWren

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Capitolo 17
*** Delightful Idleness ***


Delightful idleness

 
 
Accarezzava la mia schiena con tocchi leggeri, come fossi uno strumento musicale pregiato, disegnando motivi immaginari perlopiù circolari ed incrociai le mie gambe con le sue, cercando ancora il suo corpo vicino al mio.
 
La camera, e il letto stesso erano un totale disastro, l’accappatoio zuppo giaceva a terra, vicino ad altri vestiti che, da quella prospettiva, sembravano indistinguibili.
Il povero lenzuolo era, ormai, sfuggito dagli angoli e copriva solo parzialmente i nostri corpi attorcigliati mentre la coperta era finita solo da un lato.
 
Ma nonostante il caos della camera, mi sentivo, almeno in quel momento, in pace.
 
 
- A cosa pensi? - Chiese a bassa voce, quasi come un soffio.
Alzai lo sguardo su di lui, non mi sarei mai stancata di trovare nuovi particolari a quel viso. Aveva un espressione rilassata, illuminata da un sorriso.
 
Scossi leggermente il capo - A niente, solo al fatto che vorrei restare così, sempre - Dissi arrossendo un po’ per la banalità che avevo appena detto, un po’ per lo sguardo di Paul fisso nel mio.
 
Rise baciandomi le labbra. - Sempre non lo so, ma per oggi si può fare, ti va bene?
 
Arrossii ancora di più e mi strinsi nel lenzuolo, cercando di nascondere il rossore alle guance.
 
- Un momento. Tu, Judith Lennon - Mi fissò fintamente sconvolto - Stai arrossendo?! Questa sì che è nuova!
 
Infondo il romanticismo non era nella mia indole.
 
Mi spostai sopra di lui, prendendogli il viso tra le mani. - Mi stai prendendo in giro? - Dissi stringendogli le labbra tra le dita, ignorando il calore alle guance.
Ma prima che potessi cantar vittoria, invertì le posizioni, facendomi finire al suo posto.
- Forse - Mormorò sulle labbra prima di baciarmi in quel modo unico di cui non potevo fare più a meno.
 
 
Fu il trillo del telefono ad interromperci.
 
Mi alzai, sbuffando sonoramente, coprendomi con il lenzuolo.
- Pronto? - Alzai la cornetta maledicendo l’interlocutore
- Ti pare il caso di andartene così senza avvisare? Ti ho cercata per un’ora!
John urlava, tanto che dovetti allontanare la cornetta dall’orecchio.
- Sono a casa e sono viva, perché mi cercavi?
- Sei scappata dagli studi, Perché?
- Avevo mal di testa - Mentii
- Ora stai bene?
 
A quanto pare non aveva sospettato di Paul a casa e ringraziai il cielo per quel briciolo di ingenuità rimasta a quel ficcanaso di mio fratello.
 
- Tutto okay. Ora vado, a domani Johnny
- A domani Judy
 
Stavo per riagganciare la cornetta quando la voce di John mi fermò
- Ah e salutami anche McCartney
E detto questo chiuse la chiamata.
 
Sì, quel rumore era la mia mascella che si schiantava sul pavimento.
 
 
 
 
 
 
Tornai in camera dove Paul si beava tra le coperte, mi fermai a guardarlo mentre litigava con la piega.
 
- Che uomo di casa - Lo presi in giro mentre, seduto al centro del letto, cercava di appiattire le grinze.
 
Rise facendomi cenno di andare verso di lui e mi avvicinai coprendo la distanza con dei passetti veloci.
Non mi imbarazzava minimamente sapere di essere nuda sotto quel lenzuolo, non mi importava.
 Paul mi aveva visto nuda dentro, dove cercavo di coprirmi disperatamente e ora non mi interessava fargli vedere qualcosa che, dopotutto, non avesse già visto.
 
Coprì entrambi con la coperta blu e mi accucciai contro il suo petto, con un braccio saldamente avvolto sulla schiena.
Riprese ad accarezzarmi i capelli canticchiando a bassa voce, cosa che mi rilassò a tal punto da farmi scivolare in un sonno piacevole, come quello di un pomeriggio estivo.
 
 
 
 
 
Mi girai nella coperta e scoprii che il letto era vuoto.
Spalancai gli occhi e cercai con lo guardo Paul che non rientrava nel mio campo visivo
 
Dov’era?
 
Scesi dal letto infilandomi il solito maglione color senape che usavo come pigiama e scoprii che i suoi vestiti non c’erano.
Cercai in tutte le camere ma se n’era andato.
Mi sedetti sul tavolo della cucina, con i palmi sugli occhi ed imprecai più volte.
Dovevo immaginare che se ne sarebbe andato, infondo non faceva così con tutte quelle che si portava a letto?
 
Ero veramente furiosa.
 
 
Non mi accorsi che la porta era stata aperta e che qualcuno era di fronte a me, dunque balzai quando mi resi conto di non essere sola nel mio monologo costituito da insulti sulla mia stupidaggine.
 
 
- Dove sei stato? - Gli urlai, rendendomi conto di quanto fosse stupida la mia domanda, solo dopo averla pronunciata.
 
Paul mi guadò interdetto e sollevò due buste di carta.
- A comprare la cena, a meno che tu non voglia mangiare l’intonaco delle pareti, in questa casa non c’è niente.
 
Tecnicamente era vero. Il mio frigo piangeva e la dispensa era vuota.
 
- Oh - Rimasi a bocca aperta, imbarazzata a morte ma non volevo farglielo capire, sarebbe stato davvero patetico.
Ero stata così impegnata a viaggiare mentalmente che non avevo pensato ad una situazione che non fosse perlomeno catastrofica o apocalittica.
 - Prendo dei piatti - Mi veniva terribilmente da ridere guardando l’espressione confusa di Paul, mi fissava con la bocca aperta e con ancora le buste in mano - Beh, che aspetti a poggiarle sulla tavola?
 
Paul inclinò la testa di lato, sempre più confuso e non riuscii a trattenermi dal ridergli in faccia, a momenti mi piegavo in due, era buffo da morire ancora con le buste che penzolavano ed un espressione tipica di un cane.
 
- Poi oggi dicevi che ero io a prenderti in giro! - Esclamò leggermente stizzito, cosa che non fece altro che farmi ridere ancora di più - Smetti di ridere come un’idiota? - Era troppo tardi, adesso eravamo entrambi a sbellicarci senza motivo.
 
 
 
Finimmo di mangiare e, come una vecchia coppia sposata, ci stendemmo sul divano sgangherato avvolti nella coperta, con la tv da sottofondo. Eravamo rannicchiati, stretti l’uno all’altra, con la schiena poggiata contro il suo petto.
 
Per quanto potesse essere banale e probabilmente anche infantile, amavo stare così.
 
Cominciammo a ricordare i vecchi tempi, di cose che, fino a quel momento, erano rimaste chiuse nel retro della mia memoria.
- Ricordi la tua festa del diploma? Non ho mai visto tanta gente più ubriaca, tu soprattutto, continuavi a bere e chi ti diceva di smettere prendeva una sberla.
- Diamine, ero messa davvero male. E tu che inciampasti sul marciapiede? - Scoppiammo a ridere entrambi - John ti prese e tu continuavi a cadere come un sacco di patate. Credo che eravamo allo stesso livello, Macca.
- E Pete che non reggeva l’alcol e vomitò per tutta la sera? Che schifo! - Disse disgustato, sviando l’attenzione da sé all’ex batterista.
- E pensare che Pete mi piaceva a quei tempi - Dissi poggiandomi sulla sua spalla, sapendo di aver toccato un tasto dolente.
 
Paul era sdraiato dietro di me e approfittò di quella posizione per pizzicarmi un fianco.
- Sì,  me lo ricordo, eravate disgustosi mentre vi baciavate - Disse con finta nonchalance
- Mai quanto te e quell’oca di Dott. Si era passata tutto il reame - Risposi pungente.
- Era proprio un’oca - Paul rise e ci scambiammo un bacio pigro, quella giornata di dolce fa niente era stata fantastica.
 
 
Ma infondo, entrambi sapevamo che quella sarebbe stata una giornata unica nel suo genere e che di momenti come quelli, ne avremmo avuti davvero pochi.
 
 
 
 
Angolo della vergogna

Vi prego perdonatemi! c.c
So che in sostanza non succede nulla di che ma dovevo pubblicare questo capitolo, come dire, rosa.
Non lo considero uno dei migliori che abbia scritto ma non siate troppo crudeli, vi prego!
Chiuso questo preambolo, passerei ai ringraziamenti
(In ordine di chi ha recensito)

Ringrazio:
Giulytvd, Harisontour, Yashi_, Melly98, Go_always_ahead, Meli123T, OceaneLacroix e JepicLuminous per le recensioni stupende che mi hanno lasciato allo scorso capitolo.
Siete carinissime, davvero!
 
Beatlestone62, C_Lennon, elescardi, Gnufoletta, Go_always_ahead, HelloDarkedsMyOldFriend, JepicLuminous, LA _Gibson_ , Lady Madonnaohhstyles, SlowDownLiz, StreetsOfLove, TheBeatIes, The Freedom Song, TheFlyingPaper, WheresIzzy,  Yashi_ 
Per aver inserito la storia tra i preferiti.
 
Giulytvd e Go_always_ahead
Per aver inserito la storia tra le ricordate
 
beatlestone62, binsane, CheccaWeasley, Cherry Blues, Elejjkk, elescardi, Go_always_ahead, Harisontour, Helter Skelter, IloveTheBeatles, I_me_mine, JepicLuminous, MadnessInk, Miss_Riddle Starkey, Mrs Harrison, np_gryffindor, ohhstyles, Quella che ama i Beatles, sbriashi, sgtpepper, smiletomeoned, The Freedom Song, TheBeatIes, Tholomew, Yashi_,  _occhicielo
Per aver inserito la storia tra le seguite

 
Ma ringrazio anche chi legge soltanto ;)

With love
 

JennyWren

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Capitolo 18
*** Goodbye ***


Goodbye

 

La sveglia suonò le 6:30 e aprii gli occhi lentamente.
Non avevo mai capito che suono avesse, di solito mi svegliavo prima io di lei.
 
Paul dormiva ancora, con un braccio che mi stringeva ancora a lui e la testa poggiata sul petto.
Mi dispiaceva svegliarlo ma entrambi avevamo da fare quella mattina, avrei dovuto ricominciare il turno del mattino al bar e non potevo permettermi di assentarmi, questi ultimi probabili giorni.
 
- Paul - Lo chiamai accarezzandogli la schiena nuda ma non ricevetti alcuna risposta.
- Hey, Paul, sveglia - Strofinai sulla schiena con più forza ma ricevetti soltanto uno sbuffo e un grugnito in risposta e la sua presa su di me aumentò.
- Paul per quanto mi piaccia - E credimi mi piace tantissimo stare a letto con te - Dobbiamo alzarci.
 
Ma stavo parlando ad un bambino o ad un adulto?
 
- Lasciami dormire - Mi arrivò in modo ovattato, dato che si stava immergendo nella coperta.
- Fa come vuoi, io ti ho avvisato - Risposi cercando di muovermi ma mi teneva bloccata - Se mi lasciassi andare - Aggiunsi
 
Brontolò come un bambino svegliato bruscamente da un pisolino.
- Buongiorno - Disse cercando di tenere gli occhi aperti.
- Buongiorno a te.
Sorridemmo entrambi come due adolescenti e credo che sia stato uno dei più bei momenti con lui. In quel sorriso non c’era malizia, né una pretesa o un doppio fine. Era un sorriso sincero, di quelli spontanei, il più bello a mio parere.
 
 
Mentre infilavo un minimo di vestiti, per non girare nuda in casa, notai un segno sul collo e mi avvicinai allo specchio.
- Cretino - Esclamai facendomi sentire di proposito.
- Cosa ho fatto in questi due minuti che sono sveglio? - Rispose in modo sarcastico infilando i pantaloni, ancora seduto a letto.
- Mi hai lasciato un segno, maniaco - Gli diedi uno schiaffo sul braccio, continuando a guardare il segno ovale e color porpora.
- Non mi pare che ieri sera tu sia stata docile - Inarcò un sopracciglio, sorridendo maliziosamente poggiandosi sulla mia spalla.
 
Avvampai fino alla punta dei piedi
 
- Vestiti, maniaco che hai da lavorare - Scappai in bagno per non fargli notare che il mio colorito era lo stesso di quello di un peperone maturo.
 
 
 
 
- Frena qui - Paul aveva insistito perché mi accompagnasse a lavoro ma non volevo farmi vedere ancora in sua compagnia, avrebbero fatto delle domande alle quali non avrei voluto rispondere, quindi preferii fermarmi un po’ prima.
- Perché? - Chiese accostando l’auto grigia.
- Dai Paul non diamo spettacolo - Sospirai cercando di farlo ragionare - Non mi va che lo vengano a sapere.
Sbuffò, leggermente seccato dal mio discorso ma alla fine mi diede ragione.
 
“Dopotutto sei ancora fidanzato e io  non dovrei essere in macchina con te”
Avrei volutoaggiungere ma, per una volta, tenni a freno la lingua.
 
- Non dimentichi niente? - Mi fermò nel momento in cui stavo per aprire la porta dell’auto.
 
Avevo il grembiule, il cappello, la borsa, un fermaglio per i capelli ed entrambe le scarpe al piede, cosa avevo dimenticato?
 
- Ho tutto - Lo rassicurai ma la sua espressione rimase impassibile.
- Di solito ci si saluta, sai - Borbottò offeso mentre rimetteva l’auto in moto.
 
Sorrisi e mi voltai verso di lui che tormentava le chiavi nella toppa e, prima che potesse rendersene conto, sfiorai le mie labbra con le sue, lasciandolo con gli occhi socchiusi.
- A dopo McCartney - Scesi allegramente dall’auto.
- Sei proprio una… - Chiusi la porta per non sapere quale appellativo mi avesse rivolto e lo salutai allontanandomi con un sorriso, lasciandolo alle mie spalle mentre scuoteva la testa e andava via.
 
 
 
 
 
- Judith! - Annabeth mi venne in contro appena entrai, era davvero bellissima, anche alle 8 del mattino.
- Annie! - La salutai, notando un tono allegro nella mia voce che non sapevo di avere e cominciammo la giornata.
Annabeth aveva il compito degli ordini e io sarei rimasta al banco, a lottare contro quelle macchine del caffé che sembravano sempre più rotte.
La mia attenzione non era proprio delle migliori quella mattina, avevo un’ unica distrazione in mente: Paul McCartney.
Fu la causa di un caffé in terra, lo sbaglio di un ordine e del resto ad un cliente.
 
- Judith, dicono che il caffé faccia schifo - Era il terzo che ritornava.
- Sono queste macchine che fanno schifo! - Sbraitai - Digli che posso preparagli qualsiasi cosa tranne il caffé perché la macchina è rotta.
Cercai disperatamente di capire qualcosa tra quegli ingranaggi ma, prima di rendermene conto mi ero completamente sporcata di una sostanza scura e grumosa che, probabilmente era caffé bruciato.
 
- Oh merda! - Imprecai come un delicatissimo camionista, correndo in bagno e cercando di arginare il danno che, per fortuna, era solo sul grembiule che sfilai in tempo.
 
Mi serviva un nuovo grembiule e cercai Annabeth con lo sguardo.
Non la notai subito poiché era in piedi vicino al bancone con una mano sulla bocca e gli occhi spalancati.
Pensai che qualcuno le avesse fatto del male e feci per correre, quando, spostando lo sguardo vidi John.
Mi avvicinai alla ragazza  nel vano tentativo di calmarla ma lei continuava ad indicarmi il Beatle.
- Quello è John Lennon! - Strillò al mio orecchio in preda ad una crisi isterica.
- Già - Sospirai alzando gli occhi al cielo.
 
- Che sei venuto a fare qui? - Mi parai di fronte a John che beveva con nonchalance una Coca Cola.
- Judith! - Sputacchiò lasciando la cannuccia.
 
- Tu lo conosci? ­- Gli occhi di Annabeth erano simili a due palline da golf.
 
- Certo, sono il suo ragazzo - Rispose John prendendomi per un braccio e portandomi di fronte a lui - Avanti amor mio, baciami - Avvicinava quelle labbrucce sottili a me e io lo allontanai, mettendogli una mano sulla bocca.
- Ma che schifo, John! - Dissi disgustata, pulendomi la mano sulla sua giacca.
 
- Tu lo rifiuti? - Il suo tono di voce era salito di un paio di ottave.
 
- Certo che lo rifiuto - Dissi mentre John continuava il suo teatrino e mi si buttava addosso fingendo di piangere.
- Annabeth, noi - Indicai il polipo attaccato addosso a me - Siamo, fratelli - Cercai di spiegarle a bassa voce, cercando di suonare il più naturale possibile.
 
Credevo che Annabeth mi urlasse addosso per tutte le volte che mi aveva confessato il suo amore per John ma, invece, rimase a bocca aperta.
- Davvero? - Chiese dopo aver fissato accuratamente entrambi
- Annabeth, mia dolce e cara Annabeth, se non fossimo stati fratelli, mi avrebbe baciata senza esitazione - Rispose John come se la cosa fosse ovvia, passandole un braccio sulle spalle.
 
La povera Annabeth era sull’orlo del collasso.
 
 
- Allora? - Mi rivolsi a John, cercando di ridurre la conversazione, dato che cominciavano a guardarci.
- Stamattina è venuto Neil e mi ha detto che ha provato a chiamarti a casa ma non rispondevi. Ha detto che il lavoro è tuo ma, a patto che smetti di andare a letto con… - Non riuscì a finire la frase perché gli tappai la bocca con la mano libera, trascinandolo fuori.
 
- Neil è il tipo con cui ho parlato? - Chiesi mentre si accendeva una sigaretta, senza accennare alla sua battutaccia.
 
Mi imbarazzava da morire sapere che John era a conoscenza della mia “relazione”.
 
- Sì, devi venire con me e firmare non so cosa
- Un contratto
- Forse - Disse cacciando via il fumo, avvicinandosi all’auto.
 
 

Non salutai nemmeno più Annabeth, né il signor Mallard, non li avrei più rivisti ma non lo sapevo ancora.

 
 
 
Stavo firmando una marea di fogli, alcuni riguardanti lo stipendio, altri la sicurezza, altri beh, non lo sapevo nemmeno io.
 
 
- Perfetto - Esclamò l’uomo di fronte a me, esaminando tutti i fogli, riponendoli in una cartella con il mio nome - Qui si fa sul serio e se crede di essere trattata diversamente solo perché.. - Lo interruppi poggiando i pugni sul tavolo, facendo traballare il bicchiere di scotch.
- Mi aspetto di essere tratta per quello che sono e non accetto che una persona come lei, che di me ha visto solo il nome, sputi sentenze. Se permette, questo è poco professionale - Conclusi con un sorriso di sfida sulle labbra.
- Può andare - Esclamò con tono di sufficienza, senza rivolgermi lo sguardo, continuando a bere.
 
Perfetto Judith, nemmeno due minuti e già una persona ti detesta.





Angolo autrice
Saaaalve! Sorpresi di vedere già il mio aggiornamento? Avrei dovuto aggiornare domani ma, ehm, sarebbe il mio compleanno, quindi ho anticipato.
La vostra JennyWren si sta facendo vecchia!
Questo qui è l'ultimo capitolo "lento", la narrazione procederà a passo decisamente più veloce già dal prossimo capitolo.
So che non è granché e che è anche breve ma, perdonatemi anche questa volta!

Ci tengo a ricordare tutti coloro che leggono la mia storia, recensiscono, hanno tra i preferiti o tra le seguite.
Non avrei mai pensato che piacessero davvero le cose che scrivo.
GRAZIE!

JennyWren


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Capitolo 19
*** Life is a Roller Coaster ***


Life is a roller coaster
 

 
Il mio primo incarico fu quello di fare le foto al gruppo mentre erano al lavoro e ne fui particolarmente felice. Legai i capelli come facevo sempre quando dovevo lavorare ed entrai senza far troppo rumore spingendo le pesanti porte bianche.
 
La luce filtrava dai finestroni posti lungo il perimetro della sala quadrata; amplificatori vari e strumenti erano gli oggetti principali.
C’erano diverse sedie, alcune in plastica, per chi stava giusto un po’ di tempo per ascoltare ed altre in pelle nera, su una delle quali riconobbi la chitarra di George.
Non avrebbe mai lasciato a terra una sua chitarra.
 
Guardai attentamente ogni singolo componente della stanza, la luce era buona e avevo molto spazio per muovermi e scattare da diverse prospettive.
Il mio studio mentale si interruppe nel momento in cui la musica proveniente dalle mie spalle cessò e mi voltai per vedere i soggetti delle mie prossime fotografie.
 
Paul era al piano, George era in piedi di fianco a lui e John dall’altro lato, poggiato con una gamba sul sedile in pelle del pianoforte.
- Prova in chiave di La -  Suggerii George.
- Diventa troppo alta, George - Rispose John puntellandosi il mento con il plettro.
- Beh allora in Fa - Provò ancora e John cominciò a strimpellare i primi accordi sulla sua Gibson acustica.
 
Erano tutti così concentrati che dovetti immortalare quel momento e, inizialmente, non si accorsero del fatto che stessi scattando loro delle foto.
Mi spostai inquadrandoli in diverse prospettive e in diverse pose.
 
Mi sentivo perfettamente a mio agio dietro l’obiettivo.
 
 
- Judith! - Mi salutò George con un sorriso, venendomi in contro.
- Salve Mr Harrison - Risposi in tono professionale ma stringendolo comunque in un abbraccio.
 - Ho saputo che sei il nuovo addetto stampa, complimenti Lennon! - Mi diede una pacca sulla spalla.
- Sì e dovrei continuare a scattare delle foto mentre siete a lavoro - Dissi rivolgendomi a tutti - Vanno inviate a non so quale rivista - Aggiunsi per chiarire qualche dubbio, sistemandomi qualche ciocca di capelli che continuava a ricadere sul viso.
 
- Oh perfetto - Ringo batté le mani contento.
- Prendi solo il mio profilo migliore - John si girò di profilo fingendo di essere un modello professionista.
 
- Come se tu avessi un profilo migliore! - Appuntammo io e Paul all’unisono.
 
John rise sarcastico e sapevo di dovermi preparare ad una delle sue frasette.
 
- Ma Judith, non dai un bel bacino a queste labbra di ciliegia? - John mi schernì prendendo il viso di Paul tra le mani, girandolo verso di me.
 
- Oh ti prego John non cominciare! - Paul si liberò dalla stretta del ficcanaso.
 
Guardai in basso, cercando di non mostrare quanto fossi in imbarazzo ed alzai lo sguardo solo quando vidi Paul di fronte a me.
- Ciao - Mi salutò sorridendo, evidentemente imbarazzato dalla situazione, prendendo una mia mano nella sua.
Lo guardai negli occhi sorridendo a mia volta.
 
- No! Credevo amassi solo me, come hai potuto!- John urlò fingendo in malo modo un tono di voce femminile.
 
- Ci vediamo dopo - Mi strinse la mano, facendomi l’occhiolino e si allontanò verso gli altri.
- A dopo.
 
Guardai John che tamburellava con le dita sul piano, in volto un’espressione decisamente antipatica.
- Tu prima parli con me.
 
 
Sarebbe stata una giornata davvero lunga.
 
 
 
 
Terminati tutti gli scatti, la visita alla mia - mini - scrivania e all’armadietto per gli oggetti ed uscii fuori ancora con la macchina fotografica al collo.
Ero contenta del lavoro che avevo appena fatto ma un dubbio continuava a rimbombarmi nella testa.
 
E se mi avesse raccomandato qualcuno?
E se mi avessero scelto solo perché il mio cognome è Lennon?
 
Mi sedetti sui gradini di marmo, poggiando il viso sulla ringhiera bianca, giocherellando con l’obiettivo.
 
- Ciao Judy - Mi salutò Ringo, sedendosi a fianco a me.
- Hey Rings - Ricambiai sorridendo.
 
Mi sentivo terribilmente in colpa con Ringo per come lo avevo trattato l’ultima volta e dovevo trovare il modo di rimediare.
Avevo tante cose da dire ma non sapevo come cominciare, cercai di organizzare al maglio i miei pensieri e trovare un modo giusto per dire ciò che volevo ma alla fine sussurrai - Mi dispiace.
Ringo si voltò verso di me, con un sorriso debole sulle labbra - E per cosa?
- Per non averti detto dall’inizio come stavano le cose - Cercai di omettere il nome di Paul, lasciando che il batterista ci arrivasse.
 
Ringo restò in silenzio, fissando le persone che attraversavano le strisce pedonali, battendo di tanto in tanto le ciglia - Sai, io lo capii subito - Disse guardando ancora in strada.
Corrugai la fronte, non capendo a cosa alludesse - Cosa?
- La prima volta che ti portai con me in studio era per una scommessa tra me, John e Paul. Dovevo presentargli la ragazza di cui avevo parlato - Arrossì leggermente mordicchiandosi il labbro inferiore - Ma appena vidi te e Paul, e come vi guardaste, mi sentii subito di troppo. Capii subito che c’era qualcosa tra voi due, nel modo in cui vi siete guardati. Nel modo in cui ancora ora lo guardi.
 
Abbassai lo sguardo verso il vestito, Ringo lo aveva capito ancora prima di me.
 
- Ne sei innamorata, vero? - Chiese tutto di un fiato, fissandomi con quegli occhini blu che sembravano più tristi del solito.
 
Accavallai le gambe che sembravano essere diventate di piombo e sciolsi i capelli che, tutto d’un tratto, tiravano da morire
- Non lo so - Scossi leggermente il capo, lasciando che le ciocche chiare scivolassero sulle spalle.
Mi guardò inclinando la testa di lato - Oh, sì che lo sai. Forse non vuoi ammetterlo ma lo sai.
 
Pensai alle ultime due notti, a come mi ero sentita mentre facevamo l’amore, a quanto mi piacesse sentirgli pronunciare il mio nome, a quanto amavo restare tra le sue braccia prima di addormentarmi e trovarmi ancora tra di esse al mattino successivo.
Pensai a al suo sorriso, a come rideva mentre facevamo gli stupidi e a come riusciva a stravolgere il mio umore ogni volta...
 
- Sì - Dissi semplicemente, non ero ancora in grado di pronunciare la frase per intero ma sapevo che mi avrebbe capita lo stesso.
- Allora non devi sentirti in colpa per niente.
 
Abbracciai forte il piccolo ma grande batterista, ringraziandolo più volte per tutto quello che aveva fatto per me, lasciando anche che qualche piccola lacrima per l’emozione bagnasse la mia guancia.
 
- Posso farti solo una domanda? - Chiese con un’espressione strana.
- Dimmi
- Come fai a sopportare John da una vita?
Scoppiai a ridere scuotendo la testa - La verità è che non lo so nemmeno io
 
 
Ero davvero di ottimo umore e non vedevo l’ora di vederlo quella sera per dirglielo.
 
 
 
 
 
 
 
Casa di John era stupenda, non sapevo che avesse così buon gusto in fatto di arredamento.
Il mio appartamento poteva stare benissimo nel cortile d’ingresso, e avrebbe avuto anche più spazio a disposizione.
Arrivai insieme a Neil Aspinall, un vecchio amico di Paul che lavorava alla EMI, un tipo molto simpatico e alla mano.
 
Avrebbero dovuto programmare il tour per l’Inghilterra, facendo conciliare anche le riprese per il loro primo film e le registrazioni in studio per il prossimo imminente album ed erano seduti tutti al tavolo ovale del salotto, con mille fogli davanti. Ognuno dava la propria opinione sulle città, anche se il lavoro era stato già quasi completato da Brian Epstein, il manager.
 
Ero in piedi, vicino all’entrata ma non mi andava di stare con loro, mi sembrava di invadere la loro privacy.John mi aveva chiesto di andare con loro, voleva parlarmi, ma non aveva accennato all’argomento.
Non sapendo cosa fare entrai in quella che doveva essere la cucina, volevo un posto a sedere per aspettarlo.
 
In cucina c’era Cynthia, intenta a preparare qualcosa da mangiare che emanava un odore davvero buono.
- Hey Judith! - Mi salutò asciugandosi le mani con uno strofinaccio che teneva sulla spalla.
 
Non avevo mai avuto molta confidenza con Cynthia, nonostante la conoscessi dai tempi della scuola d’arte ma cercai comunque di essere cordiale e ricambiai il suo abbraccio.
- Scusa se ti chiedo un favore ma ne ho davvero bisogno. Julian è al piano di sopra in camera sua e devo preparargli la cena, puoi prenderlo tu? Sono sicura che sta dormendo.
 
Julian?
 
- Certo - Risposi meccanicamente, uscendo dalla cucina in legno.
 
 
Salii al primo piano e non ci volle molto per capire quale fosse la camera di Julian.
Era l’unica con il nome scritto con i colori ed un’impronta paffuta.
 
Ma nonostante il fatto che tutti i tasselli del puzzle combaciassero non volevo ammettere la verità.
 
John aveva un figlio.
 
Perché non me lo aveva detto?
 
Entrai nella camera poco illuminata e ne scorsi con lo sguardo i vari componenti.
L’armadio decisamente troppo grande occupava tutta la parete destra della camera, un enorme finestra che dava sul giardino illuminava dal lato centrale e sulla sinistra, posta nell’angolo, una culla e un fasciatolo.
Entrai cautamente, attenta a non far rumore e calpestare i vari giocattoli in terra e mi affacciai nella culla per prendere il piccolo.
Dormiva teneramente, posto su un fianco, e con le manine paffute che spuntavano dalla copertina azzurra.
Mi dispiaceva svegliarlo e restai a guardarlo per un po’.
 
 
- E così lo hai scoperto prima che te lo dicessi.
 
Era poggiato allo stipite della porta, con una gamba incrociata all’altra.
 
- Hai un figlio - Dissi dando le spalle alla culla,
- Ho un figlio - Ripeté, con un sorriso amaro, annuendo lentamente.
 
Si avvicinò alla culla, accarezzando leggermente, con il dorso della mano la guancia del piccolo che rispose con un piccolo sbuffo.
Il suo sguardo era un misto di diverse emozioni: affetto, protezione ma anche risentimento e frustrazione. Sembrava che quella carezza fosse una sorta di sforzo, di scusa per il bambino.
 
- Come faccio a sapere come si comporta un padre se non ne ho mai avuto uno? - Disse poggiandosi ai bordi della culla, lo sguardo ancora fisso sul piccolo.
- Potrei dire la stessa cosa, John.
- Cyn mi odia, io mi odio. Le ho rovinato la vita e ora deve stare con me, deve seguire la vita da folle che sto facendo, stare appresso ai miei tour, alle ragazzine urlanti, deve sopportare la mia assenza e crescere non solo suo figlio ma anche suo marito - Si passò una mano nei capelli decisamente frustrato - Judith io ti voglio bene e voglio solo il meglio per te - Mi guardò come se la prossima frase fosse un macigno dal quale doveva liberarsi.
 
Ma era inutile, avevo capito dove voleva arrivare.
 
- Credevo fosse una cosa da poco, ma oggi ho visto come vi guardavate - Cominciò poggiandomi una mano sulla spalla e trattenei il respiro, conoscendo già la prossima frase.
- Lascialo, soffrireste entrambi continuando così e non voglio che tu abbia la stessa vita che ho io, non voglio che ti senta in gabbia per stare all’ombra di qualcuno. Tu sei una persona fantastica, sei molto più forte di me e stare con lui ti farebbe solo vivere una vita che non ti consiglio. Vuol dire non vedervi mai, non avere privacy, ridurre il tempo insieme facendo solo una scopata e poi dormire senza nemmeno guardarvi. Vuol dire poter comprare tutto e non avere niente e Judith, non è quello che meriti.
 
Abbassai lo sguardo fino a fissare i miei piedi, senza dire una sola parola.
John aveva ragione, aveva tremendamente ragione.
- Lo so, John lo so ma vorrei almeno provare - Risposi con un filo di voce.
 
John non rispose, prese Julian dalla culla, poggiando la testa del piccolo sulla sua spalla e cullandolo per farlo svegliare dolcemente.
 

Poggiai la schiena all’armadio, lasciando che le ginocchia cedessero sotto il mio peso e restai a fissare il pavimento, cercando di trovare una soluzione al “problema”.
 
Quando scesi al piano di sotto erano tutti nell’atrio principale, tutti tranne mio fratello.
Stavano terminando la loro discussione riguardo l’imminente partenza per il tour e non appena arrivai Paul mi passò un braccio intorno alla vita, stringendomi verso di sé e Ringo mi fece un occhiolino, ricordandomi la conversazione di quella mattina, che non fece altro che farmi abbassare ancora di più lo sguardo.
 
- Non vedo l’ora di stare con te - Sussurrò piano al mio orecchio, dandomi un piccolo bacio sulla guancia.
 
Se John non mi avesse detto quelle cose, probabilmente mi sarei sentita al settimo cielo ma, invece, mi scostai dalla presa con la scusa di indossare il cappotto e, senza nemmeno guardarlo, me ne andai.

Sapevo che sarebbe uscito a cercarmi, dunque mi nascosi dietro un albero del giardino, appena prima di vederlo passare nella direzione opposta.
Trattenei il respiro per produrre il minimo rumore nel momento in cui mi oltrepassò senza vedermi.
 
Nel silenzio di quella notte la mia mente urlava, divisa in due parti completamente opposte. Avrei voluto correre e andare da lui, dirgli che lo amavo e che lo avrei seguito anche in cima al mondo, facendomi bastare anche quel poco di tempo che avremmo avuto a nostra disposizione, ma avevo una ganascia al piede, la ragione che mi impediva di agire.
John era stato chiaro, e protettivo nei miei confronti, e sapevo di doverlo ascoltare.
 
 
Avevo bisogno di tempo e il mese del tour avrebbe dovuto bastarmi per schiarirmi le idee.
 





Angoletto mio 
Non mi uccidete, vi prego sono ancora giovane!
So che è triste ma, già dal titolo si capisce che la storia non è tutta rose e fiori ma non preoccupatevi (?), non finisce così ;)

Lascio a voi i relativi commenti al capitolo, spero comunque che vi piaccia ç.ç

Vorrei ringraziare particolarmente:
 GiulytvdBeat4The Rolling BeatlesMeli123TSwaying_DaisiesLA _Gibson_Yashi_TheBeatIesGo_always_ahead ,per le recensioni. Vi amo, sul serio!

Ringrazio inoltre tutti coloro che mantengono la mia storia tra i preferiti, seguiti o ricordati, ma anche a chi legge soltanto.
Thank you!


JennyWren

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Capitolo 20
*** It's so hard loving you ***


It’s so hard loving you

 
“Non posso nascondermi come una codarda” Ripetei per l’ennesima volta e decisi di alzarmi.
- Paul! - Lo chiamai, mentre tornava in casa di John, continuando a guardarsi intorno.
Si avvicinò a me con un espressione arrabbiata in viso che cercava di controllare a tutti i costi - Si può sapere perché te ne sei andata?
- Ero qui fuori - Risposi ostentando un sorriso
- No, non c’eri. Judith, che succede? - Chiese guardandomi fisso negli occhi.
 
Provai ad articolare qualcosa ma la mia mente proponeva soltanto due immagini, quella di John che mi suggeriva di lasciare tutto e quella di Ringo in cui mi consigliava di dirgli la verità.
 
- Judith, ti prego non dirmi quello che sto pensando.
 Mi passai una mano tra i capelli, ero frustrata al massimo - È che ho bisogno di chiarire le idee. Quello che provo per te non l’ho mai provato e Ringo mi dice che devo stare con te, ma John mi dice che poi avrei una vita infelice come la sua e, non lo so, Paul. Ho la testa che mi scoppia - Lo guardai negli occhi, permettendogli di vedere il mio stato - Parliamone dopo il tour. È solo un mese e me lo farò bastare.
 
Ma se mi aspettavo una sfuriata o una litigata dalle dimensioni titaniche mi sbagliavo, Paul non disse niente più di un semplice - Va bene.
 
Il respiro superficiale e il groppo alla gola mi informavano del fatto che il pianto era imminente, mantenei il tono della voce fermo fino alla fine della frase - È cosi difficile amarti ma - mi fermai misurando le parole - sappi che non ti ho mai mentito, non potrei, non a te.
 
Paul mi guardò ancora una volta, la sua espressione era il riflesso della mia, ma non disse una parola.
 
 
 
 
 
 
 
- Consegna questo ad Epstein , sono i tabulati delle vendite, delle classifiche e degli introiti dei Beatles.
- Ma Epstein è in tour - Commentai afferrando la cartellina beige dalle mani del mio capo.
L’uomo inarcò un sopracciglio, guardandomi in modo strano. - Sono tornati ieri, non lo sapevi?
- No - Risposi guardando la cartellina, andando nello studio della stampa.
 
Sciolsi i capelli dalla treccia premendo i palmi sugli occhi, fino a vedere figure indistinte e colorate in modo bizzarro.
Era passato un mese dall’ultima volta che lo avevo visto ed avevo le farfalle allo stomaco al solo pensiero che fosse ritornato.
Ci avevo riflettuto e molte notti era difficile per me dormire ma ero giunta alla conclusione che se non ci avessi provato, non avrei mai potuto sapere come sarebbe potuta andare.
John aveva ragione ma quella era la sua vita, e non avrei dovuto aver paura di una sorte che non era spettata a me.
Per questo motivo seguii il consiglio del batterista e gli avrei detto quelle parole che avevo in mente ogni volta che pensavo a lui.
 
 
Epstein era nel suo ufficio e mi salutò in tono cordiale.
- Appena tornati e già abbiamo così tante belle notizie!
- Vanno alla grande - Sorrisi, restando in piedi, in procinto di andar via
- Fantastico - Rispose contento.
Ero davvero impaziente di vederli ancora e chiesi cercando di essere il più naturale possibile - Sono in sala?
- Oh no, mi dispiace. Oggi mi hanno implorato per un giorno di pausa.
 
“Poco male”Pensai, “Così avrò il tempo per prepararmi”.
 
 
 
 
 
Erano circa le 17 del pomeriggio e, dopo essermi cambiata almeno cinque volte uscii soddisfatta del risultato.
 
Avevo addosso il mio vestito più bello, truccata al meglio e con i capelli in perfetto ordine, bussai alla porta di casa di Paul.
Sulle spalle portavo il suo maglione scuro, lo aveva dimenticato a casa mia e in mano stringevo il foglio con il testo della sua canzone: And I love her.
Doveva essere tornato di sicuro, in cortile c’era anche la sua auto ma non apriva nessuno.
 
“Forse è sotto la doccia, o forse sta dormendo” Pensai ed optai per posare il foglietto sotto la porta.
 
Avevo scritto due parole sul retro e volevo che le leggesse.
“I love you too”.Senza nessuna firma, scritto in piccolo, giusto al centro del foglietto.
 
Mi abbassai giusto per posare il foglio, quando la porta si aprì
 
- Ce ne hai messo di tempo! - Dissi prima di guardare in alto.
Spalancai gli occhi e il sorriso e la sicurezza con la quale ero arrivata si frantumarono come un vetro a contatto con il pavimento.
 
Indietreggiai senza sbattere gli occhi che cominciavano a bruciare per le lacrime.
 
- Ciao - Dissi senza fiato.
- Perdona la memoria ma proprio non ricordo il tuo nome - La rossa, vestita solo con una camicia non sua, si appoggiò allo stipite della porta - Sei la sorella di John?
- Judith - Risposi senza fiato.
- Certo - Mi guardò da capo a piedi, cercando di capire il motivo della mia presenza.
- Sono passata per dirgli una cosa ma non ha importanza.
 
“Non più”
 
Cercai di non far trapelare nulla, imponendomi una maschera di indifferenza.
 
- Jane, chi è alla porta? - La sua voce mi arrivò comunque come una pugnalata dritta al petto, nonostante mi controllassi.
- Sono Judith - Risposi con un tono glaciale, lo stesso che avevo all’ inizio.
 
Non dissi altro, tornai sui miei passi, cercando un posto dove sedermi, ma sembrava che tutto fosse soffocante.
Tolsi il suo maledetto maglione blu dalle spalle e lo gettai davanti al cancello di casa sua.
 
 
Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare e avevo due opzioni, entrambe però erano da scartare.
Mi sedetti a terra, sotto un albero al parco più vicino, ah come sembravo stupida.
Chiusi gli occhi per evitare che le emozioni prendessero il sopravvento su di me e strappai i fili d’erba che avevo intorno.
 
- Judith - Nonostante fosse affannato lo riconobbi lo stesso.
 
Alzai gli occhi, mentre un sorriso amaro si faceva largo sulle mie labbra.
- Vai via.
 
Si accovacciò vicino a me, cercando di toccarmi la mano chiusa a pugno che stringeva ancora il foglio - Judith.
- Non mi toccare, vattene via.
- Ti prego.
 
Mi alzai da terra, asciugandomi le lacrime che sembrava non volessero smettere di bagnarmi il viso.
- Mi preghi? Ma ti rendi conto di cosa hai appena fatto? Ti ho chiesto di aspettarmi per un po’ ma tu non hai resistito, dovevi portartela a letto.
 
Paul si alzò a sua volta e cercò di controbattere ma fui più veloce.
Gli lanciai addosso il foglio che lo colpì in petto prima di cadere a terra sui fili d’erba.
- Fammi spiegare, ti prego. Lei è venuta da me e… - Cercò di avvicinarsii ma lo scansai.
- Non voglio ascoltarti, Paul non ti è chiaro? Cazzo se sono patetica io. Sai che c’era scritto su quel foglio? - Lo guardai con le labbra che mi tremavano dal pianto e la voce sopraffatta dalle lacrime. - C’era scritto che ti amavo.
 
 
 
Angolo autrice.
E questo, mie care, è l’inizio della fine.
So che è a dir poco straziante ma, perdonatemi, il prossimo capitolo sarà molto più leggero ;)

Mi hanno fatto notare che la storia è al terzo posto tra le popolari e devo tutto a voi, siete stupende, davvero non posso crederci!
Quindi voglio ringraziare le care ragazze che hanno recensito:
Go_always_ahead, Meli123T, SlowDownLiz, Giulytvd, Swaying_Daisies, Harisontour, The Rolling Beatles, Beat_4 e Yashi_
 
Ringrazio inoltre ci mantiene la storia tra le preferite, seguite, ricordate, chi legge e, ma sì, anche chi non legge!
 
Aspetto un vostro commento!

JennyWren

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Capitolo 21
*** Precarious Balances ***


Precarious Balances 


 
 
A volte bisogna scendere dalla giostra per comprendere quanto vada veloce, si avverte la necessità di dover guardare le cose da una prospettiva diversa per capire esattamente in che posto ci si trova e se si vuol farne parte.
 

In quel momento mi sentivo così vuota eppure così pesante da soffocare.
Stavo male, male davvero, ma l’ultima cosa che volevo era farlo capire.
Per questo motivo optai per una soluzione in stile Dr. Jekyll e Mr. Hyde, ovvero, di giorno indossavo il mio sorriso migliore e di notte, proprio come in quel momento, lo sguardo diventava ancora una volta vitreo verso un punto impreciso della città.
 
Ero seduta sul davanzale della finestra della mia camera da letto, la nuova casa in cui mi ero trasferita aveva una bellissima camera con una finestra che dava sul panorama londinese, una cucina nuova nella quale potermi muovere liberamente, un bagno in cui non dovevo pregare per avere l’acqua calda, un salotto con un divano senza molle assassine. Insomma, aveva tutti i comfort e gli oggetti più moderni, eppure non era casa.
 
Perché su quel divano non avevo fatto pace con mio fratello un anno prima, su quel letto non…
 
Smettila.
 
Non avevo fatto l’amore con Paul.
 
Smettila!
 
 
Mi portai le mani nei capelli cercando di fermare quell’immagine ancora una volta.
Mi ero fidata, gli avevo dato tutto di me ed ero stata tradita.
Il dolore che provavo mentalmente sembrava essere fisico, impedendomi di respirare regolarmente e anche dopo mesi da quel giorno ci stavo ugualmente male.
 
John non ne sapeva niente, secondo lui avevo ascoltato il suo consiglio e Paul non aveva accennato a nulla, ma lavorare alla EMI era sempre più difficile.
Per fortuna era arrivato anche Agosto e con esso le mie vacanze che avevo deciso di trascorrere a casa per terminare l’arredo.
Tenere la mente occupata era l’unico modo per zittire quella vocina, per tenere almeno per qualche ora quelle immagini lontane dalla mia testa.
 
Sobbalzai nel momento in cui avvertii la carezza di Steve sulla mia schiena e chiusi gli occhi per un momento.
Quel gesto all’apparenza pieno di affetto, produceva all’interno del mio corpo la stessa reazione che avrebbero scaturito delle lame a contatto con la pelle.
 
- Non riesci a dormire? - Chiese sedendosi accanto a me, un sorriso assonnato si faceva strada sulle sue labbra carnose.
Guardai i suoi lineamenti decisi, i capelli scuri, leggermente mossi e spettinati, gli occhi azzurri come la più bella sfumatura del cielo ma non riuscii a ricambiare il suo sorriso - Fa caldo - Mentii tornando a guardare verso il panorama. - Ma tu torna a dormire, sta tranquillo.
Poggiò le labbra sulle mie prima di alzarsi e tornare a letto.
 
 
Se lui era andato avanti, dovevo farlo anche io.
 
 
 
 


 
- Judith, dai buttati! - mi chiese John schizzandomi con l’acqua della sua nuova piscina.
Staccai gli occhi dal libro che fingevo di leggere e sorrisi in modo debole - Non mi va, Johnny.
 
Ma John non era un tipo arrendevole, per niente. Fu per questo che, in meno di cinque secondi, due mani ghiacciate mi tirarono in acqua con ancora in dosso il vestito lilla.
 
John rideva sguaiatamente mentre annaspavo per prendere aria aggrappandomi a lui a causa della profondità della piscina. Nuotare non era una tra le mie abilità.
 
- Tu sei idiota! - Strillai battendo i denti a causa del cambiamento improvviso della temperatura.
- E tu sembri il tipo che urla in quel quadro - Rispose imitando “L’urlo”  di Munch.
- La tua conoscenza d’arte mi stupisce - Risposi con un velo di sarcasmo, sedendomi sul bordo della piscina per asciugarmi al sole schizzando mio fratello.
- Dopotutto io ero quello alla QuarryBank
Lo guardai inarcando un sopracciglio - Ma se non ci andavi mai!
 
Il battibecco terminò nel momento in cui Cyn arrivò con Julian in braccio che si agitava per fare il bagnetto, era davvero buffo con il costumino blu e il cappellino di cotone bianco.
John lo prese sorridendo come solo un padre potrebbe fare e lo bagnò a poco alla volta mentre il piccolo strillava e rideva.
 
Ce la metteva davvero tutta per ricoprire il ruolo di padre e, seppure a piccoli passi era sulla strada giusta.
Ero fiera di lui.
 
 
Rivolgevo le spalle all’entrata ed ero concentrata su Julian, dunque non mi accorsi che qualcuno stesse arrivando, se non per l’ombra che proiettò sul prato una volta alle mie spalle.
 
- Hey Macca! - Salutò John sollevando il corpicino paffuto di Julian.
- Winston - Rispose stizzito.
 
Spalancai gli occhi nel momento in cui realizzai chi fosse la persona alle mie spalle e il battito del cuore accelerò in modo pericoloso.
 
Che diamine ci faceva anche Lui qui?
 
 
- Ciao Judith - Mi salutò, ancora alle mie spalle.
 
Mi alzai di scatto, pronta per andarmene ma compii lo sbaglio più grande che potessi fare: lo guardai negli occhi.
Avvertii la solita stretta allo stomaco, gli occhi cominciarono ad arrossarsi e le mie difese cedere.
 
- Per favore - Fu la sua richiesta.
Ma se la mia risposta fu verbalmente muta, i miei occhi non furono altrettanto.
- Ti prego - Chiese avvicinandosi verso di me, gli occhi puntati nei miei. - Un’ultima possibilità.
 
Mi divincolai dalla sua presa con uno strattone e mi diressi all’interno della casa, pronta per andarmene.
Presi la mia borsa, ma la porta che dava sul cortile d’ingresso non voleva saperne di aprirsi e non sarei di certo passata di nuovo per la piscina
 
Paul entrò pochi secondi dopo e, nel momento in cui mi voltai mi si parò davanti.
- Ascoltami.
- Non mi interessa, non voglio sapere niente - Lo evitai per andarmene ma mi afferrò per le spalle.
- Invece tu adesso mi stai a sentire! - Urlò aumentando la presa sulla mia pelle.
Evitai il suo sguardo furente, alla ricerca del mio - Non c’è niente che voglia sentire, non puoi dire niente che mi faccia cambiare idea, tu - Mi interruppe
- Ti amo.
 
Lasciò la presa sulle mie spalle, abbassando lo sguardo sul pavimento in marmo.
 
Abbandonai la testa sul legno duro della porta, mordendomi il labbro inferiore per trattenere un singhiozzo.
 
Non poteva dirmi questo, non ora, non così.
 
 
- Mi ami? Paul tu mi ami? E mi amavi anche quando sei andato a letto con lei? Oh posso solo immaginare quanto mi hai amata in quel momento - Asciugai nervosamente gli occhi.
 
Alzò  lentamente lo sguardo su di me, passandosi una mano sul collo - Se vuoi saperlo è proprio in quel momento che l’ho capito, non abbiamo fatto niente.
- Non lo voglio sapere che cosa hai fatto, non mi interessa più - Detto questo mi allontanai, pronta per andarmene. - Un’ultima cosa, John non deve saperne niente, oppure rischi di perdere anche quel minimo di rispetto che, non so per quale motivo, continuo ad avere nei tuoi confronti.
 
 
 
 
 
 
 
 
9 Ottobre.
 
Chiusi il pacchetto blu con un fiocco argento ed osservai il mio lavoro. Quasi mi dispiaceva che di lì a poco sarebbe stato scartato con la grazia tipica di un Lennon.
- Che ne pensi? - Chiesi a Steve porgendogli il pacchetto.
- Che mi sento fuori luogo ad una festa dei Beatles - Rispose con espressione afflitta.
 
Ne avevamo parlato mille volte ma ogni volta la frase era sempre la stessa.
 
- Tu lavori con loro, li conosci, sei il mio ragazzo e quello lì è mo fratello. Che hai da vergognarti? - Poggiai la mano sulla guancia liscia, appena rasata e gli sorrisi in modo affettuoso.
 
Cominciavo a voler davvero bene a quel ragazzo, mi era stato vicino costantemente, ma senza invadere e non lo avrei mai ringraziato abbastanza.
Certo, non potevo dire di amarlo poiché avrei mentito ma, stare con lui mi faceva stare bene e non volevo perderlo
 
- Vengo solo perché sei fantastica con quel vestito - Sussurrò al mio orecchio.
Strinsi le mani nei suoi capelli scuri e lo baciai per la prima volta senza pensare più a niente, lasciandomi trasportare da quelle emozioni che era giusto provassi dopo quell’inverno.
 
- E questo cos’era? - Chiese accarezzandomi la schiena che il vestito lasciava scoperta.
Sorrisi in risposta e lo abbracciai forte.  In realtà non lo sapevo nemmeno io per cosa fosse quel bacio.
 
O forse non volevo ammetterlo.
 
 
 
 
La festa in giardino era meravigliosa. Era tutto addobbato con piccole lucine attorno agli alberi che coprivano il cortile come una coperta di stelle.
Un tavolo lungo, pieno di vivande copriva completamente un lato, mentre il cortile era organizzato in tanti piccoli salottini, pieni di persone sedute a chiacchierare tra loro.
 
John era al centro della sala a parlare con un uomo adulto che rideva spassosamente. Aveva in braccio Julian, poggiato con la testolina pelata sulla sua spalla e lo accarezzava sulla schiena.
Lo salutai con la mano e mi venne in contro con un ampio sorriso sulle labbra.
- Sir Lennon le auguro una felice ricorrenza della sua nascita. In codesta borsa, troverà il mio presente a riguardo.
- La ringrazio - Tentennò per qualche secondo guardandomi perplesso - Come si dice Sir al femminile?
Scoppiammo a ridere entrambi, beccandoci gli sguardi interrogativi delle altre persone presenti alla festa.
 
Ma quella frase serviva solo per rompere il ghiaccio e presentargli Steve. John lo conosceva ma non lo avevo mai presentato come “il mio ragazzo”.
 
Strinsi la mano di Steve e quel gesto non sfuggì agli occhi di mio fratello che inarcò un sopracciglio.
- John, lui è Steve, il mio ragazzo - Dissi all’improvviso, senza pensarci.
John rimase sorpreso per un momento, ma poi sorrise. -Beh, anche se già ci conosciamo di vista, io sono John.
- Piacere mio.
- E così state insieme?
Annuii sicura della mia risposta.
 
- Dove poggio il regalo? - Dissi per spezzare un po’ l’atmosfera imbarazzante che si era creata.
- Su quel tavolo lì in fondo. Prendete posto dove volete, verrò tra poco, Jules è crollato.
 
 
Ci sedemmo al tavolo con George e Patti con i quali parlammo per parecchio tempo. George era il solito buontempone con il quale si poteva di tutto e Patti era una ragazza davvero molto dolce e cordiale.
Steve e George andavano molto d’accordo e fui sollevata nel vedere che non era minimamente in imbarazzo.
 
- Da quanto state insieme? - Chiese Patti notando il mio sguardo sul ragazzo.
Distolsi lo sguardo sorridendo alla ragazza - Più o meno da Aprile, sono circa sei mesi.
- Mi piacete insieme, lo sai? - Rise contenta e mi strinse la mano in un gesto affettuoso -Adesso bisogna solo trovare una ragazza a Paul e poi siamo tutti sistemati. Anche se la vedo difficile, dato che ormai sembra assente, a detta di George.
 
Mi si bloccò il respiro per un attimo e un brivido mi salì sulla schiena, lasciandomi a bocca aperta. - Cosa? - Chiesi quasi senza fiato.
 
Patti mi guardò perplessa - Beh, Paul ha lasciato Jane appena dopo il tour scorso.
 
Il cuore batteva in petto come un martello pneumatico e sentivo la gola terribilmente secca. - Vado a bere - Mi diressi al tavolo con le bibite ma il mio sguardo si posò su l’ultimo arrivato, il ragazzo dai capelli neri in giacca e cravatta
Paul.





Anglo autrice

Mi perdonate? Ho ritardato di troppo, lo so, ma spero che il capitolo, possa piacervi. In realtà ho tagliato mooolte parti poiché mi sembrava noioso. Spero che vi piaccia, anche se o qualche dubbio.
Voglio ringraziarvi tutte, per continuare a leggere la mia storia, per avermi dato il coraggio di pubblicare e per avermi riempita sempre di complimenti. Vi ringrazio infinitamente.
Swaying_DaisiesSlowDownLizBeat_4GiulytvdThe Rolling BeatlesLA _Gibson_Yashi_EggWomen; grazie per aver recensito il capitolo precedente!
Grazie alle persone che hanno la mia storia tra i preferiti, nelle ricordate e nelle seguite.
E con mia grande sorpresa mi sono ritrovata tra gli autori preferiti di alcune di voi. Siete grandiose, non so come ringraziarvi.
 
Con affetto

JennyWren

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Capitolo 22
*** Back to where you once belonged ***


Back to where you once belonged

 
 
 
È facile scegliere tra due cose quando una delle due non è vicina.
Il problema si pone nel momento in cui le trovi entrambe nello stesso posto.
 
 
Il cuore batteva in petto come un martello pneumatico e sentivo la gola terribilmente secca. - Vado a bere - Mi diressi al tavolo con le bibite ma il mio sguardo si posò su l’ultimo arrivato, il ragazzo dai capelli neri in giacca e cravatta
Paul.
 
Mi voltai verso il tavolo sorreggendomi sui bordi, in cerca di un sostegno che non ero in grado di trovare in me stessa.
Erano passati due mesi dall’incontro a casa di John, due mesi dalla sua frase che in quel momento rimbombava nella mia testa amplificandosi ogni volta, sempre di più.
 
Versai un bicchiere di aranciata e bevvi a piccoli sorsi. Lo stomaco sembrava contorcersi dopo ogni goccia di quel liquido dolce.
 
Mi voltai con l’intenzione di tornare a sedermi quando lo vidi di nuovo.
Era in piedi, le mani strette dietro la schiena, intento a parlare con qualcuno che, a quella distanza, non riuscivo a riconoscere.
 
 
Quasi come se sapesse che il mio sguardo fosse puntato su di lui si voltò verso di me.
Fu come se per un momento la musica alta, il vociare delle persone, il rumore di tutto ciò che mi circondavafosse sparito.
 
Afferrai il bicchiere cercando uno spazio più appartato ed intravidi una delle porte che davano all’interno della casa nella quale non c’era nessuno.
 
 
Seduta sulle scale che davano al piano superiore rigiravo tra le mani il bicchiere ormai vuoto, non riuscivo a tenere sotto controllo il battito. Era così forte che credevo stesse per esplodere.
- Sapevo che mi avresti seguita.
 
Paul si sedette accanto a me, guardava il quadro posto sulla parete di fronte a noi, ma sapevo che in realtà lo faceva soltanto per evitarmi.
Aveva un aspetto decisamente diverso da quello che ero solita conoscere, più trasandato, con i capelli mossi e l’ombra della barba sul viso.
 
Ero agitata,  non sapevo cosa dire ma ero anche, per qualche motivo, felice perché fosse accanto a me in quel momento.
In mente, le uniche parole che scorrevano erano quelle che Patti mi aveva riferito.
Lisciai attentamente le pieghe del vestito blu e, senza preamboli pronunciai ciò che volevo che sapesse.
 
- Ho saputo di te e Jane.
 
Paul sospirò con un sorriso amaro sulle labbra. Rilassò la schiena poggiando le mani sul gradino, riducendo ancora un po’ la distanza - Da chi lo hai saputo? -
- Non importa. - Unii le mani in grembo, intrecciando nervosamente le dita torturavo le unghie.
- Quindi?
Lo guardai, ancora non si era deciso a distogliere lo sguardo da quel quadro. - Ne sono colpita. Avevi ragione riguardo - mi morsi il labbro per trovare le parole giuste - ciò che dicesti.
 
Paul finalmente si voltò, gli occhi fissi puntati nei miei. - Non ti ho mentito - disse e sapevo che aveva ragione.
 
Non riuscii a mantenere quel contatto e distolsi lo sguardo. Steve era lì fuori e dovevo raggiungerlo.
Nello stesso momento in cui pensai a lui un fiotto amaro mi salì alla bocca.
- Devo andare.
- Mi lasci così?
 
In piedi, di fronte a lui, guardai ancora quel viso e una sensazione strana si estese lungo tutto il corpo.
 
Era la consapevolezza del fatto che, no non lo avevo dimenticato per niente.
 
 - Nemmeno io ti ho mai mentito.
 
 
 
 
 
Patti e George erano in pista e mi sedetti accanto a Steve che sorrise vedendomi arrivare.
- Hai le mani ghiacciate.
 
Sorrisi nervosamente al ragazzo, stringendo la mano tra le sue, quasi per ricordarmi la scelta che avevo fatto ma continuavo a guardare all’interno della casa e, quasi mi nascosi quando lo vidi uscire a passo lento, verso il giardino.
 
 
Durante la festa Paul fu come invisibile, lo vedevo ogni tanto bere per poi confondersi nella folla.
 
Non mi andava di ballare e rimasi con Steve quasi tutto il tempo che riuscì a farmi accantonare per un po’ il pensiero di quella strana conversazione, facendomi ridere sparlando riguardo i vestiti orrendi che alcune donne avevano indossato per la serata.
- Quello, guardalo! - Indicò una donna molto in carne con un vestito giallo.
- O mio dio sembra un dirigibile! - Scoppiai a ridere nascondendomi sulla sua spalla per evitare figuracce.
- Vestito lime, ore tre.
- E che colore è il lime?
Sbuffai divertita - Guardalo e capisci.
Steve sgranò gli occhi facendomi ridere ancora di più.
- Non fare quelle facce che è peggio.
 
Lo colpii sul petto scherzosamente e coprì la mia mano, ora un po’ più calda con la sua.
- Sei stupenda, Judith.
 
Mi avvicinò per un bacio che ricambiai chiudendo gli occhi.
Baciare Steve era diverso ma non in senso negativo. Steve era una di quelle persone che riescono a strapparti sempre un sorriso, anche se non ne hai voglia per niente. Per lui ogni cosa era la più semplice al mondo e niente riusciva a metterlo di cattivo umore.
Steve era stato come la quiete dopo la tempesta, un qualcosa di positivo e calmo dopo le montagne russe che avevo affrontato.
Dire che non ero affezionata a lui era una bugia ma non avevo ancora imparato ad amarlo.
                                                                                                             
Accarezzai la guancia liscia, poggiando la mia fronte sulla sua.
 
 
- Ma che sorpresa.
 
Sorrisi imbarazzata, poi capii chi avevo di fronte
 
- No - Sussultai abbassando lo sguardo.
 
Steve mi passò un braccio sulle spalle, ovviamente non ne sapeva nulla.
- Posso? - Chiese indicando la sedia vuota.
- Certo -  rispose cordiale invitandolo a sedere.
 
Mi fissò per un istante che parve infinito e sapevo che si tratteneva solo per aspettare il momento giusto.
- Che scostumato, nemmeno mi presento - Distolse il suo sguardo da me allungando la mano verso Steve - Piacere, Paul.
- Steve.
 
Ingoiai a vuoto più volte, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
- Inutile che io e te ci presentiamo, eh Judith?
- No - risposi secca.
 
Paul si accese una sigaretta e, nonostante la musica riempisse tutta la sala avvertii un silenzio insopportabile.
 
- Prendo qualcosa? - Chiese Steve notando che continuassi a bere dal bicchiere ormai vuoto.
Annuii sorridendo e si avvicinò per un altro bacio.
 
Una volta andato Steve, rimanere da sola con Paul fu un massacro mentale, non riuscivo a dirgli nemmeno una parola.
 
Guardava in pista, fumando nervosamente la sigaretta, senza toglierla mai dalle labbra e capii che era veramente arrabbiato dal modo in cui le labbra si stringevano attorno alla sigaretta e dallo sguardo fisso sul nulla.
- Stronza bugiarda.
 
Fu questa la molla che mi fece scattare.
 
- Non provare nemmeno a parlarmi così. Se vuoi fare una scenata non farla qui. Ti metteresti in ridicolo.- Parlai a denti stretti.
- Perché ovviamente io sono ridicolo. Giusto.
- Paul, non cominciare
- Non devo cominciare ma io e te dobbiamo parlare - Cacciò nervosamente il fumo. - Ti rendi conto di quanto cazzo sei ipocrita?
- Non pare tu sia stato uno stinco di santo, non saremmo in questa situazione di merda altrimenti.
 
Guardai il mio ragazzo tornare e cercai di calmarmi a tutti i costi. L’ultima cosa che volevo era che Steve se ne accorgesse.
 
 
La musica terminò di colpo e le luci si spensero, nello stesso momento un coro alquanto stonato cominciò a cantare una delle canzoni più famose al mondo.
Eravamo tutti in piedi verso la torta che Cyn aveva preparato per John e battemmo le mani nel momento in cui le 24 candeline si spensero.
 
John e Cynthia si scambiarono un bacio che mi fece sorridere, ero davvero contenta per lui, sembrava davvero felice.
Ma quella felicità mi portò l’amaro in bocca, c’era una sola persona che mi aveva dato lo stesso sorriso che aveva Cynthia in quel momento e non era la persona che mi era accanto in quel momento.
 
 
Se non ci provo non saprò mai come andrà a finire
 
Fu la frase che mi ritornò in mente, la conclusione alla quale giunsi quel pomeriggio di Marzo, prima che tornasse.
 
 
 
Lasciai la presa dal braccio di Steve.
Sgusciai tra le persone intenta a seguire la chioma scura che si allontanava velocemente.
Corsi lungo tutto il giardino ed arrivai nel vialetto esterno dove le auto erano parcheggiate in fila indiana, percorrendole tutte con lo sguardo.
Era buio pesto e la luce flebile dei lampioni di strada non rendeva il compito più semplice ma riuscii comunque a scorgere la sua figura, intenta ad aprire la portiera  dell’auto grigia.
 
 
Respiravo faticosamente, il petto si muoveva ad intervalli irregolari e portai una mano su di esso come incentivo per calmarmi.
 
Spostai lo sguardo su di lui ed  avvertii un brivido partire dalla nuca, fino alla schiena.
 
Il colletto della camicia era sbottonato, la camicia gli fasciava l’addome e le spalle facendone intravedere i muscoli appena accennati.
Il viso era immobile. Le labbra chiuse disegnavano una curva perfetta, gli occhi attenti riflettevano la poca luce che filtrava dai lampioni.
 
- Non potevo lasciarti andare - pronunciai a bassa voce - Non prima di aver chiarito tutto.
 
- Vuoi chiarire? Perfetto - Paul sospirò pesantemente e sbatté la porta dell’auto con un gesto secco, stizzito.
 
Lo guardai senza battere ciglio, per niente intimorita da quel gesto.
 
- Hai idea di quanto io sia incazzato in questo momento? - Si passò una mano sulle labbra prima di cominciare - Mi hai fatto stare una merda, una vera merda, per una cosa che non è successa, perché Judith, io Jane non me la sono portata a letto quel giorno! - Urlò furibondo con le mani strette a pugno.
 
Il tono di voce mi provocò un vuoto allo stomaco ma non mossi un solo muscolo per mostrarlo.
- Come facevo a saperlo? - Urlai a mia volta - Arrivo a casa tua, con un messaggio da lasciarti, sperando che tutto vada bene e mi apre una troia con addosso la tua camicia! Che diamine dovevo pensare, Paul?
 
- Mi dovevi credere! E non lo hai fatto! - Gli si incrinò la voce alla fine della frase - Mi sono reputato colpevole, sapevo come stavi e mi sono sentito uno schifo.
 
Portai le mani alla fronte, la testa sembrava esplodere da un momento all’altro.
 
- Ma ora viene la parte davvero divertente: stasera scopro che sei fidanzata da mesi e che lo hai anche detto a John! A John! - Si passò una mano nei capelli, liberandoli per un istante dalla fronte - Perché stai con lui?
 
Lo guardai disarmata ed estremamente in colpa per quello che era successo ma non potevo annullare Steve da un momento all’altro - Perché credevo che tra noi sarebbe stato difficile, John stesso me lo aveva detto e io non volevo che le cose tra noi finissero male. Paul lo sai che ci tengo a te!
 
Paul allargò le braccia in segno di resa - Il tuo piano è andato alla grande, infatti ora non ci stiamo urlando addosso senza ragione - Disse in modo sarcastico.
 
Avrei voluto piangere ed urlargli tutto ma non riuscii a far altro che fissarlo.
Eravamo davvero arrivati a questo punto?
 
 
- Sono stata un’idiota.
- Sì Judith.
 
 Aprì la portiera dell’auto ed accese i fari. Non lo riconoscevo più, io stessa non mi riconoscevo più.
Quello sguardo, quelle parole non me le aveva mai dette e sapevo che era tutta colpa mia.
Tenni a bada il pianto che sentivo in gola, non dovevo piangere.
 
Non per qualcosa che non mi apparteneva più.
 
Il motore dell’automobile rombò e mi spostai di lato per farlo passare.
 
 
Rientrai a testa bassa in giardino e tutte quelle luci intermittenti sembravano illuminare chiunque, tranne me.
Notai John e Steve parlare su uno dei divanetti e ringraziai John con lo sguardo per averlo intrattenuto.
- Cyn mi ha detto che non ti sei sentita bene. Di nuovo quel problema? - John mi guardò in modo complice. - Dicevo a Steve del tuo disagio con la folla.
 
Annuii lentamente, guardando mio fratello negli occhi.
Steve mi passò un braccio in vita - Perché non me lo hai detto? Non devi vergognartene.
Sorrisi in modo debole - Avevo bisogno di un po’ d’aria, tutto qui, andiamo? - Chiesi sforzandomi di apparire il più normale possibile.
 
 
Salutai John, stringendolo in un abbraccio nel quale avvertii il solito sostegno, quella sensazione di casa che più volte avevo perso e mi rilassai all’istante.
- Ti voglio bene Judy - Disse a bassa voce, in modo che solo io potessi sentirlo.
- Anche io Johnny.
Sciolsi l’abbraccio, dandogli un buffetto sulla spalla e John mi pizzicò sul naso, gesti che potevano sembrare stupidi all’apparenza, ma che avevano un significato per noi.
 
 
 
 
 
In macchina con Steve cercai di comportarmi come se nulla fosse accaduto. Lasciai che mi chiedesse della mia famiglia e, anche se non mi andava per niente, raccontai per sommi capi la mia storia.
Una volta arrivata a casa, lo salutai distrattamente, senza invitarlo a restare.
 
 
Chiusi la porta e scivolai con la schiena sul legno freddo.
Lo avevo trattenuto così tanto che mi sentii male a piangere in quel modo.
Poggiai le mani a terra mentre le lacrime solcavano le guance arrossate, digrignando i denti mentre stralci di quella conversazione rimbombavano nella mia mente.
 
Era tutta colpa mia se eravamo arrivati a quel punto.
 
Cercai più volte di calmarmi ma non riuscivo a calmare quella voragine che provavo nel petto, quel vuoto che sentivo dopo quella conversazione. 

Mi mancava l’aria e decisi di alzarmi.
Andai in bagno e tolsi il trucco e le tracce del pianto liberatorio con un ingente quantità d’acqua fredda.
 
Arrivai al balcone che dava sulla strada e cercai di respirare regolarmente convincendomi del fatto che piangere non mi avrebbe aiutata.
“Non posso crollare, non di nuovo”, continuavo a ripetermi per darmi forza.
 
Erano le due del mattino e in strada non si avvertiva alcun rumore. Presi la trapunta e mi accovacciai dietro la ringhiera coperta dai gerani che avevo piantato quella primavera, sfiorandone qualcuno con le dita ancora una volta gelide.
 
 
Spalancai gli occhi a causa di un rumore e capii di essermi addormentata per qualche minuto.
 
Intravidi una macchina ferma nel vialetto, aveva appena spento i fari.
Qualcuno scese dall’abitacolo ma non avevo bisogno di vedere chi fosse, lo sapevo già.
 
 
 
Senza mettere nemmeno le scarpe,corsi giù per le scale e spalancai la porta di casa.
 
Avevo il fiato corto nel momento in cui lo raggiunsi correndo sul prato umido  e mi morsi le labbra per non fargli capire quanto fossi in ansia in quel momento.
 
Spalancò gli occhi nel momento in cui mi vide, le labbra socchiuse dallo stupore.
 
Nessuno dei due si muoveva, restammo a fissarci per quella che parve un’infinità di tempo.
Il silenzio era carico di aspettative ma sarebbe bastata una parola, un solo gesto per poter rovinare o aggiustare tutto.
Non riuscivo a sopportare quel silenzio, quella situazione di attesa e di aspettativa.
 
- Abbiamo fatto un bel casino - esclamai sorridendo per l’imbarazzo - Paul ho sbagliato io - ma m’interruppe ancora una volta.
 
Si avvicinò quel tanto che bastava e coprì le sue labbra con le mie, poggiando una mano sulla nuca.
 
Sussultai per un istante, prima di stringerlo finalmente a me.
Inclinai la testa di lato e schiusi le labbra, Paul fece lo stesso aumentando la presa su di me.
Facemmo aderire i nostri corpi avvertendo l’inconfondibile brivido di piacere attraversare la schiena e stringere lo stomaco in una morsa dolorosamente piacevole.
Avevo il respiro affannato ma non riuscivo a staccarmi dalle sue labbra.
Portò entrambi le mani sul mio volto, baciandomi come non ero mai stata baciata in vita mia e ci staccammo solo quando l’aria era diventata insufficiente per entrambi.
 
Allacciai le braccia alla nuca, sprofondando il viso nell’incavo del suo collo. 
Potevo mentire agli altri, potevo provare a mentire persino a me stessa ma non potevo mentire con lui, non ci riuscivo.


Paul mi guardò negli occhi a lungo e sentii che era la cosa giusta da fare.
- Fa l’amore con me - sussurrai, ma non era la mia libido a parlare, era qualcosa di più profondo, di più grande.
 


Non fu come le altre volte, fu qualcosa che nessuno dei due aveva mai fatto.
 
Il respiro affannato di entrambi riempiva il silenzio della notte e le mani erano intrecciate così come i corpi sul letto ormai bollente.
I capelli sudati di lui mi solleticavano sulla fronte ed inarcai ancora la schiena in avanti peri incontrare le sue spinte, scambiandoci un bacio affannato.
Poggiai il mento sulla sua spalla, soffocando su di essa il gemito di piacere e fece lo stesso con me, lasciando un marchio sul collo.
Il respiro mozzato faceva in modo che l’aria sembrasse  incandescente ed insufficiente per entrambi.
Ancora un’altra spinta e ancora la schiena, ormai quasi per un riflesso si inarcava in quel movimento netto.
Stringemmo più forte le mani e la testa cominciava a girare, mentre una sensazione di calore si faceva largo in tutto il corpo facendomi tendere ogni muscolo, fino a farmi chiudere gli occhi.
 
Fu quasi simultaneo ed entrambi crollammo sfiniti, con un bisogno disperato di aria e con un senso di appagamento profondo.
 
La sua schiena si muoveva al ritmo di respiri profondi e poggiai una mano incandescente su di essa.

Non so cosa mi spinse a farlo, ma alla fine lo dissi - Ti amo Paul.
- Ti amo anche io.
 
E non ero mai stata più sincera.
 
 
 
 
Angolo autrice
*Costruisce un tunnel e si nasconde* Non vi dirò mai dove si trova il tunnel!
Ok, siete libere di ammazzarmi, torturarmi, fare quello che volete voi.
 
Prima di tutto, devo complimentarmi con voi se avete letto tutto il capitolo, ne sono colpita e voglio dirvi anche che ho finito di scrivere l’ultimo capitolo, anche se mancano ancora altri in mezzo.
 
Per quanto riguarda lo scorso capitolo ho ricevuto dei messaggi (non posso dire da parte di chi) nei quali dicevano che il capitolo facesse schifo. Ok, apprezzo la sincerità e vedrò di aggiustarlo!
Spero che questo vi faccia meno schifo! Hahahaha
 
Come sempre ringrazio chi ha recensito, chi continua ad apprezzare la mia storia e chi la legge. Ma ringrazio anche voi,a cui la storia fa schifo!

With love

JennyWren

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Capitolo 23
*** Ladies and gentlemen, The Beatles! ***


Ladies and gentlemen, The Beatles!

  
 Aprii gli occhi lentamente, quasi abbagliandomi a causa dei raggi del sole e notai che l’orologio segnava le 7.40
- Le sette e quaran.. merda! - Urlai tirando il lenzuolo facendo rotolare Paul sull’altro fianco che non accennò a svegliarsi. Sarei dovuta essere a lavoro in mezz’ora e corsi in bagno per prepararmi.

Per ottimizzare i tempi lavai i denti sotto la doccia, mi truccai mentre infilavo la gonna blu e il maglione bianco e mi pettinai mangiando biscotti.
Tra ognuna di queste azioni urlavo a Paul di svegliarsi ma lui non faceva altro che rannicchiarsi sotto le coperte lanciando versi simili a quelli di un elefantino ferito. 
Ero sulla soglia della porta, in piedi e con anche cinque minuti di anticipo che mi ritrovai una visione da film dell’orrore di Paul. Aveva un solo occhio aperto e addosso portava soltanto i boxer.

- Dove vai? - Chiese sbadigliando, con la voce impastata dal sonno.
Nonostante dovessi muovermi non riuscii a non sorridere. - Io vado alle otto e mezzo, non faccio parte di voi scarafaggi che fate i porci vostri.
Rise stropicciandosi gli occhi e gli schioccai un bacio sulle labbra.
- Ci vediamo dopo e non tornare a dormire.
-A dopo - rispose appoggiandosi allo stipite.    


Arrivai di corsa a lavoro, con un’inspiegabile sorriso sulle labbra.
- Buongiorno! Quante cose ho da fare oggi? - Chiesi alla ragazza della reception che mi guardò con un sorriso del tipo “hai fumato qualcosa di forte?” 
Mi consegnò una cartellina scura e la aprii. C’erano degli articoli da correggere, alcune foto da inserire nel giornale e notizie da portare a Brian.
- Brian Epstein? - Chiesi guardando il foglio
- Arriverà più tardi. 


Mi sistemai alla scrivania e cominciai a ricopiare i vari articoli per correggerli, battendo velocemente le dita sui tasti.
A volte mi rendevo conto di star imbambolata, sorridendo ad una tastiera ma, facendo finta di nulla, riprendevo a scrivere.

Dato che mi ero preparata in fretta avevo i capelli in completo disordine ed avrei pagato oro per un cappello.  

Scattò la pausa pranzo e avevo quasi terminato entrambi gli articoli ed approfittai di quei minuti per portare le notizie, o come li chiamava lui, i numeri, a Brian.

Uscii dall’ufficio e trovai Steve con la sua solita attrezzatura da tecnico, che si apprestava ad entrare nel corridoio che dava alle diverse sale di incisione.  

Aspettai invano che uscisse ma poi, armandomi di coraggio e ripetendomi che probabilmente non era nel loro stesso studio, entrai anche io con molta nonchalance.

Percorsi la stanza con gli occhi e notai al centro George, John, Paul e Steve.
 
Ma che sfiga. 

Appena misi piede nello studio John urlò e mi bloccai all’istante.


- Judith, renditi utile e vedi se il filo è in corrente. 

Rimasi perplessa per un attimo, pronta a commentare o a strangolare mio fratello ma feci come chiesto.
- Sono tutti in corrente. 

Ma che cosa era successo? 

- Paul mi dispiace dirtelo ma, è morto. Rassegnati - Esclamò John in tono drammatico, poggiando una mano sulla spalla dell’amico. 
- Ma prima funzionava! - Si lamentò Paul suonando vigorosamente sul suo basso che, in realtà, non dava segni di vita. 

Steve srotolò alcuni cavi, accovacciandosi dietro l’amplificatore e approfittai per parlare con Brian.

- Mr. Epstein sono arrivati per lei - Porsi i fogli al manager che mi ringraziò educatamente.

Come una visione celestiale, notai il cappello di John e lo presi, sistemandolo sulla testa in modo da contenere il danno. Quasi inconsciamente mi ero ritrovata a fianco a Paul che continuava a tenere il muso per colpa del suo basso.
- Non va - ripeté ancora in tono afflitto.

- Judith, tesoro, vai in cabina e vedi se sono collegati - John sorrise in modo antipatico.
Lo guardai dal basso con un sopracciglio sollevato.
- John, amore, vacci tu. Infondo sei l’unico che non fa niente - Sorrisi in modo civettuolo al Lennon mentalmente disturbato.
- Judith, splendore, sei una carogna - Mi guardò in modo serio
- John, fratellino, ho imparato da te - Feci la linguaccia a John che cominciava ad irritarsi. 

- Lennon, asilo, smettetela! - George cercò di dividerci, prima che finisse come un combattimento tra polli. 

Un boato assurdo fece sobbalzare tutti.
- Funziona! - Urlò McCartney, come se non ce ne fossimo accorti.

- Era solo il cavo - Commentò Steve preparandosi ad uscire e lo seguii a ruota.  


Una volta nei corridoi dei vari studi, approfittando di essere soli, cercai il modo giusto di parlare con Steve.
- Stai benissimo stamattina -  disse avvicinandosi per un bacio che scansai.
- Steve, devo dirti una cosa.
Si bloccò di colpo, guardandomi negli occhi - Dimmi - pronunciò intimorito dalla mia espressione. 

Diamine, perché era così difficile? 

Giocherellavo con il bottone della camicia, per cercare di trovare le parole giuste.
- Non provo più la stessa cosa che provavo per te, i miei sentimenti sono cambiati. - Dissi velocemente, guardandolo negli occhi.
 Steve mi guardò prima serio, poi rise e mi accarezzò il braccio - Ci stavo per credere, lo giuro.
- Steve - lo guardai negli occhi in tono serio e smise di sorridere.
- Cosa? E per quale motivo? Judith, ieri mi hai presentato a tuo fratello, come possono essere cambiate le cose in una notte?
Guardai in basso nascondendomi dal suo sguardo - Io ho provato a volerti bene e per un periodo te ne ho voluto ma non riesco ad amarti e non mi sembra giusto che tu stia con me se non provo certe cose.
- Tu sei impazzita, non ti capisco. Chi è? Chi è quello che ti ha fatto cambiare idea, Judith?
- Non c’è nessuno che mi ha fatto cambiare idea. Ho solo - spostai il peso sull’altra gamba, provando in tutti i modi a non ferirlo - capito che non potevo, non posso amarti. 
Steve compì involontariamente un passo indietro e, sistemandosi di nuovo i cavi in spalla mi sorpassò. 

Lasciarlo aveva fatto comunque male.

Mi appoggiai alla parete, sbuffando sonoramente, passando una mano tra i capelli ed aggiustai la frangetta sulla fronte che sembrava godere di vita propria.
Era la prima volta che lasciavo qualcuno, di solito non ero io quella incaricata a farlo e mi sentii comunque in colpa. 

- Hey - Mi salutò Paul sfiorandomi un braccio.Nonostante fossi giù di morale mi strappò comunque un sorriso
- Funziona il tuo piccolino?
Paul sollevò entrambe le sopracciglia- Quale piccolino? - mi guardò perplesso - Diamine ha un doppio senso!
Scoppiai a ridere sonoramente, contagiando anche Paul - Intendevo il basso, idiota! - lo colpii sul petto continuando a ridere. 

- Perché ridete come due deficienti? - John s’intromise, cercando di capire cosa stesse succedendo.
Io e Paul ci scambiammo un’occhiata rapida, di certo non potevamo dire che ridevamo a causa di un sottilissimo doppio senso, era imbarazzante!

 - No niente - lo rassicurò Paul, schiarendosi la gola.
John spostò lo sguardo da me a Paul, per niente convinto dalla risposta.
- Hai visto? Il tuo piccolo amore funziona di nuovo, sei contento?

E lì ci fu il degenero più totale. 

Paul scoppiò a ridere, a momenti si piegava in due e io mi voltai dall’altro lato, quasi con le lacrime agli occhi mentre sul volto di John c’era un’espressione totalmente confusa.

- Che ho detto? - Chiese stringendosi nelle spalle. 

Ma non c’era niente da fare, eravamo totalmente partiti. 

- Siete completamente idioti, tutti e due - Esclamò John osservando entrambi.
Guardai Paul con la coda dell'occhio che ricambiò con un occhiolino.
- Dio mio, non posso guardarvi che mi viene il voltastomaco.
- Nessuno ti ha invitato Winston, sei piombato come una disgrazia.
- Ridammi il mio cappello - Tese una mano in avanti, stringendo quegli occhietti minuscoli.
- Cosa c'entra?!
- Lo rivoglio - Tese ancora di più la mano
- No! - Sbottai coprendomi la testa
- Bene. Paul torna in studio o ti prendo a calci in culo e Judith, fila dall'altro lato. Hai qualcosa da dire, Paul?
Il caro bassista sollevò un sopracciglio ma John lo fece voltare dall’altro lato con una spallata.
- Sei un guastafeste, John, un rompipalle.
 
Sbuffai gettando la testa all’indietro e, aprendo la porta che dava nella hall, tornai nel mio ufficio.
Però il cappello lo avevo tenuto!
 



 
Terminai il lavoro che avevo da fare e sprofondai nella sedia imbottita.
Avevo scritto per tutto il giorno e scarrozzato nei vari uffici, ero esausta, ed erano solo le 18. 
Chiusi gli occhi per mettere in ordine tutto ciò che mi era successo, ma la mente giocò un brutto scherzo, facendomi ricordare tutto ciò che mi era accaduto dall’anno precedente. Le immagini correvano veloci come un treno: l’arrivo a Londra, il lavoro al bar, l’incontro con Ringo, poi quello con John, il periodo a casa di Paul, e dopo il ritorno a casa.
Il ’64 che comincia con i Beatles in America, poi la pace con John e, anche se diversa, quella con Paul. Poi il loro tour e la rottura a causa di Jane. L’entrata in scena di Steve e poi ancora

- Judy!
Sobbalzai dalla sedia, aprendo velocemente gli occhi.

“E poi ancora lui”

Paul era poggiato alla scrivania, mi guardava con un sorriso stupido sulle labbra
- Salve - inclinò la testa di lato
Ricambiai il sorriso, meravigliandomi di quanto fosse spontaneo, e poggiai un bacio sulle sue labbra
- Quanto manca per andarmene? - Chiesi sprofondando ancora nella poltrona scura.

Paul sorpassò la scrivania e mi fece sedere sulle sue ginocchia. Mi poggiai sul suo petto così accogliente e socchiusi gli occhi.
- Se, per ipotesi, mi addormentassi e qualcuno entrasse da quella porta, muovimi le mani come se stessi scrivendo, ok? 
Paul rise stringendomi a sé, sentivo il suo profumo e mi avvicinai al collo, sfiorandolo con la punta del naso.
- Oppure dici che hai trovato questo schianto di fanciulla svenuta e da buon cavaliere che sei, mi porti in salvo. In braccio. - Precisai.
Mi strinsi a lui, cercando una posizione comoda, ignorando totalmente il fatto che fossimo in un ufficio pubblico.

 
La porta si aprì con un rumore sordo e mi allontanai da Paul, balzando in piedi.
Vedevo tante macchie colorate e non mettevo a fuoco cosa avessi realmente davanti: un vaso parlante oppure una persona?
 
- Quindi, il fascicolo che le interessa dovrebbe essere senza dubbio questo - Calpestai il piede di Paul per incitarlo a reggere il gioco, guadagnandomi un’occhiata truce.
- Grazie - Rispose prendendo la cartellina che, in realtà conteneva le bozze da buttare dei loro articoli ed uscì.


Riacquistata la vista ed appurato che quello no, non era un vaso, riordinai i vari fogli e mi avviai all’uscita, aprendo già la porta.
- È l’amico di tuo fratello John e gli dai del lei? - Chiese una delle colleghe a cui non avevo mai prestato molta attenzione, mi ricordava un po’ Annabeth.
- È un tipo molto riservato, e antipatico.


Un colpo di tosse riecheggiò nel corridoio principale e chiusi la porta, uscendo velocemente.
 

- E così io sarei antipatico? - Balzò alle mie spalle facendomi prendere un colpo.
- Deficiente lo sei di sicuro - Lo colpii in petto scherzosamente beccandomi uno di quei sorrisi mozzafiato.




Quella sera i Beatles avevano un concerto al quale Paul mi aveva pregato di andare. A causa di quegli occhioni languidi e il labbruccio tremolante, non ero riuscita a resistere.

Ero a casa mia, in piedi davanti all’armadio e tutto ciò che avevo era terribilmente inadatto che, non avevo idea di cosa indossare. 

- Ma in preda a quale psicosi ho comprato questa gonna? - Urlai  gettando via il malcapitato capo d’abbigliamento sul letto - Ma perché è così difficile?
Dovevo indossare qualcosa di carino, in quanto avrei dovuto vedermi con Paul ma non troppo impegnato, dopotutto dovevo andare ad un loro concerto!
 
L’orologio segnava le 20 e il bassista sarebbe arrivato tra meno di dieci minuti.
Optai per un vestito a giro maniche grigio scuro, era forse la cosa più adatta che avevo nell’armadio.

 
Paul fu puntuale come sempre, diedi un ultimo colpo di spazzola ai capelli, sistemai le eventuali pieghe ed uscii.
Era in piedi, poggiato allo stipite, fumando una delle sue solite sigarette, bello come non mai.
- Ma come siamo eleganti McCartney - Lo salutai con un bacio, sfiorandogli la giacca con le dita.
- Sai, ho una certa reputazione da mantenere - Sistemò il bavero prendendomi in giro. - Devo far cadere le ragazze ai miei piedi con il mio fascino. Ma anche tu non sei niente male, Lennon.
- Insieme alla sporcizia hai lavato via anche la modestia? Sbruffone - Gli pizzicai il braccio e rispose in modo molto maturo: una linguaccia.
 

Ma dietro quel teatrino ciò che volevo realmente dire era che non avevo mai visto Paul in quel modo, era davvero stupendo.
Aveva i capelli morbidi sulla fronte, la camicia bianca, perfettamente stirata contrastava con il colore scuro della giacca, stretta al punto giusto, così come i pantaloni. Quel colore scuro faceva risaltare i suoi lineamenti dolci: la pelle liscia appena rasata sembrava ancora più candida del solito e le labbra sembravano ancora più belle di come le conoscessi.

- Perché mi stai fissando? - Chiese in modo divertito continuando a guidare verso il teatro.
 Scrollai le spalle e, fingendo di nulla, controllai se il trucco fosse ancora messo nel modo giusto.
- Sei stupenda, Jud.
Poggiò una mano sulla mia e ricambiai la stretta, incrociando le dita. Non la lasciava nemmeno per cambiare le marce che cambiava con le mani di entrambi e appoggiai il viso al finestrino, beandomi di quel momento.

 
 
Il teatro era pieno fino all’orlo e dovemmo sgusciare in un’entrata laterale che Brian aveva indicato ai ragazzi.
Dopo un bacio velocissimo Paul sparì dietro le quinte ed io rimasi con Brian che avrebbe seguito tutto dalle prime file e mi aveva gentilmente concesso il posto.
- Non sapevo che lei e Paul, insomma, come dite voi ragazzi, vi frequentate?
Risi un po’ imbarazzata dalla situazione ma Brian sorrideva in modo sincero. - Beh, Mr. Epstein -
- Chiamami pure Brian
- Ok, Brian, quella tra me e McCartney è una storia davvero molto singolare.
Brian rise ma chiudemmo lì la conversazione.
 

Il locale era gremito di persone, l’ansia era quasi palpabile e mi voltai indietro per vedere le loro espressioni: c’era l’adorazione più assoluta. Alcune ragazze che dovevano essere amiche si abbracciavano e non riuscivano a trattenere gli strilli di eccitazione nel vedere, almeno per ora, soltanto una batteria al centro del palco.

Poi, come per liberazione, cominciarono ad urlare e mi voltai: i Beatles erano sul palco.

Le ragazze balzarono in piedi cominciando a strillare di tutto, ma i ragazzi non erano da meno, urlando i nomi dei componenti a squarciagola.
Il delirio più totale e loro non avevano nemmeno parlato!

I Beatles sorridevano in modo raggiante, tranne John, che sembrava un po’ scosso.

Ma forse era solo il suo atteggiamento da bello e impossibile.

Paul guardava tra la folla e, nel momento in cui mi vide sorrise ancora di più e ricambiai con un’espressione da vera ebete.
Alcune ragazze dietro di me erano in preda ad un collasso, nell’aver visto che “Paulie guardava proprio qui!”

Cominciarono a suonare e mi riempì d’orgoglio sapere che “i miei ragazzi” erano così bravi.
 
L’ultima nota dell’ultima canzone riecheggiò nel locale e i Beatles sparirono dietro le quinte, lasciando i fan letteralmente in crisi.
Brian mi incitò a seguirlo e mi ritrovai, dopo poco tempo nel loro camerino.


- Siete stati grandiosi! - Brian si complimentò con i ragazzi che risposero in coro.

Paul venne verso di me e gli sorrisi incredula. Era davvero fenomenale vederli suonare.
- Sei stato fantastico - Sussurrai al suo orecchio e mi schioccò un bacio sulla guancia.

- John, però hai sbagliato più di una volta su Twist and Shout, che hai, amico? - Chiese George non per sgridarlo, ma per capire cosa avesse.
- Se non ti va bene come suono puoi anche andartene, cazzo! - Sbottò mio fratello ed uscì noncurante della folla.


Guardai Paul in modo interrogativo, cercando una risposta ma ricambiò il mio stesso sguardo, totalmente confuso.
Passai in rassegna i possibili motivi, e pensai che forse era arrabbiato del fatto che io e Paul stessimo insieme.
Diamine, che idiota.

- Vado a cercarlo - Informai Paul ed uscii tranquillamente, tanto nessuno mi avrebbe riconosciuta.
Arrivai nel parcheggio dove trovai l’auto di John, ma lui era seduto a terra con la testa tra le mani, appena davanti il cofano.



- Johnny? - Gli chiesi poggiandogli una mano sulla spalla ma non rispose. Mi sedetti a fianco a lui, se avesse voluto cacciarmi lo avrebbe fatto ma aveva solo bisogno di riordinare i pensieri.
- Ti conosco Winston, sto vicino a te fin quando aprirai quella boccaccia - Lo informai continuando ad accarezzargli la schiena. 

John sollevò il viso lentamente e vi ritrovai un’espressione completamente persa.

- È colpa mia? - Chiesi prendendogli il viso tra le mani, non sopportavo quell’espressione su John, non la meritava.
Scosse il capo lentamente e mi alzai in piedi. Una volta di fronte a lui gli presi le mani e lo costrinsi ad alzarsi.
Prese dalla tasca le chiavi e le inserì nella toppa. - Ti va di stare con me? Per favore - Chiese con voce asciutta.
- Ma certo.

Avrei voluto stare con Paul ma John era mio fratello e la famiglia, in questo caso solo lui, veniva prima di tutto.
Così dopo un paio di minuti di viaggio entrammo in un bar, era poco affollato e prendemmo un posto al piano superiore.
Non aveva detto nulla ma sapevo che qualcosa non andava in lui, continuava a far roteare il sottobicchiere, bevendo direttamente dalla bottiglia.
 
- Ora basta - Gli sfilai la bottiglia dalle labbra, non doveva bere così.
- Johnny che succede? - Gli accarezzai di nuovo il viso, cercando di placare quella sensazione che provava.
John socchiuse gli occhi, respirando profondamente 

- Non volevo dirtelo, te lo giuro ma è giusto che tu lo sappia. - Tormentava l’orlo della giacca, senza guardarmi negli occhi.
- Cosa, John?
- Ho ricevuto una lettera - Portò entrambe le mani sul tavolo strette a pugno, ora riconoscevo quell’espressione, la stessa di quando la mamma morì.

Un brivido corse lungo la schiena, facendomi accapponare la pelle. - John, dillo - Ora ero seriamente preoccupata.
- Il bastardo, Alfred, è a Londra e vuole vederci.
 
 
 
Angolo ritardataria
Saaaaalve! Qui JennyWren in preda al panico, domani ho un esame!
Sono riuscita a scrivere questo capitolo, decisamente meno intenso degli altri, spero vi sia piaciuto!
Ma ora voglio ringraziarvi. 
Ringrazio le anime buone che hanno recensito lo scorso capitolo, ovvero:

 
Mrs_McCartney, per la recensione, scusa se ho fatto tardi ad aggiornare! Perdonami ç.ç
Giulytvd, per riempirmi sempre di complimenti, sei troppo buona (: 
JepicLuminous, per i suoi commenti/sclero. Ti adoro, davvero!
Orasonounpanda, che mi ha detto di essersi connessa solo per vedere se avessi aggiornato. Sei un tesoro! 
Swaying_Daisies, perché tu non lo sai, ma io amo le tue recensioni e ci muoio ogni volta a leggerle :D
SlowDownLiz, per avermi sempre supportata e fatto una valanga di complimenti fin dall’inizio. Grazie Liz! 
_SheLovesTheBeatles_, perché leggendo la tua recensione sono morta dal ridere, sul serio!
The Rolling Beatles, scusa se non ho risposto subito ma mi sono connessa solo ora! Hai scritto una recensione simpaticissima (:
Ringrazio inoltre le persone che continuano a tenere la mia storia tra i preferiti, ricordate e seguite. È la terza ta le più popolari e tutto grazie a voi che leggete ciò che scrivo, G R A Z I E!
Inoltre vorrei ringraziare coloro che mi hanno aggiunta come autrice preferita, mi sciolgo, lo giuro! HAHAHAH 
Con affetto

JennyWren

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Capitolo 24
*** Never forget our past ***


Never forget our past

 
 
 
Fu come cadere in un baratro.
- Nostro padre? - Chiesi con gli occhi spalancati, non potevo crederci. La figura di Alfred Lennon era sempre stata un mistero per me e John. Mai una foto, mai una lettera, mai un soldo per aiutarci a crescere.
 
John diede un pugno sul tavolo, facendo dondolare pericolosamente la candela sottile posta al centro di esso.
Poggiai le mani sugli occhi, scuotendo la testa. - Non lo voglio nella mia vita. John. No. - Sollevò lo sguardo dal tavolo, guardandomi fisso negli occhi. Ora la sua espressione era il riflesso della mia. - Non possiamo sbattergli la porta in faccia, questo sì, ci abbassiamo al suo livello, ma John io non voglio quell’uomo nella mia vita. Nemmeno lo conosco e già mi ha segnata per la vita.
- E che gli diciamo? Ah, piacere, siamo i tuoi figli, ora vai a fare in culo? - Rispose a bassa voce, fissandomi con quegli occhi color miele.
- No, John non ci arrivi? Ti ha messo al mondo e se n’è andato, poi ritorna, vuole portarti in Nuova Zelanda, non ci riesce e a causa di una nuova scopata mette al mondo me. - Ricordai a denti stretti le parole successive - Ma io sono uno sbaglio, lui non mi vuole, finisco in orfanotrofio e non si fa sentire più. Cazzo John, io ho vissuto in un posto di merda e lo ricordo ancora!
 
Non mi accorsi di star piangendo, avevo raccontato a voce alta il mio incubo e ora tremavo come una foglia.
John si alzò dalla sedia e mi venne incontro stringendomi forte.
Singhiozzai sulla sua spalla al ricordo di quelle piccole brande in ferro la pasta molle che si appiccicava al palato, i pianti di notte di chi non voleva dormire perché gli mancava la mamma e quelle persone che venivano a prendere quello più carino per adottarlo.
Mi scostai dalla sua spalla asciugandomi gli occhi e presi una decisione.
- Voglio incontrarlo, voglio vedere che faccia ha, voglio fargli sapere cosa mi ha fatto, John.
 
Annuì lentamente, spostandomi i capelli dal viso e mi strinse di nuovo a lui accarezzandomi la schiena.
- Non volevo farti piangere, scusami.
Asciugai le lacrime ed abbozzai un sorriso - Non è colpa tua.
 
Cercai di ricompormi ed ordinai una birra. Avevo la gola secca ma l’acqua non bastava.
Bevvi a grandi sorsi, cercando di lavare via con l’alcol quei ricordi spiacevoli
- Vuoi che ti accompagni da Paul?
- Cosa? - Boccheggiai con la bottiglia a mezz’aria.
- Avanti Jud, sarò mezzo cieco ma non stupido, l’ho capito ormai e anzi, scusami di nuovo per quello che ti dissi, volevo solo proteggerti come ora. - Era così impacciato che mi fece sorridere.
- Non è colpa tua ma John, devo imparare a camminare da sola e voglio che tu sia solo il mio fratellone rompipalle preferito, non voglio che tu sia la mia balia.
 
John annuì ma sapevo che ciò che gli avevo appena detto lo avrebbe solo trapassato da un orecchio all’altro.
- Però se McCartney ti fa del male io lo strozzo.
- E se Cynthia lo fa a te gliele do di santa ragione.
 
Sorridemmo entrambi facendo tintinnare le bottiglie scure.
 
 
 
 
Arrivammo alla festa dove i Beatles erano le star esclusive e, insieme a John, trovai il mio caro Paul.
- Hey Macca, ti ho riportato la dama.
Paul venne verso di me e notando gli occhi ancora un po’ rossi, mi accarezzò il viso. - Tutto bene, Judith?
Notai un paio di fotografi che ci inquadravano e con un gesto rapido degli occhi glielo feci notare.
Paul prese la sua giacca e, facendosi largo tra la gente, fece uscire entrambi.
 
 
Era notte fonda ormai, ma ci ritrovammo in un piccolo parco fuori zona, ero profondamente grata a Paul per non avermi accompagnata a casa.
Avevamo trovato un posto vicino ad un albero e ci sedemmo sull’erba fresca. Poggiai la testa sulla sua spalla e socchiusi gli occhi cercando di assimilare tutte le emozioni che quella notizia mia aveva portato.
- Cosa c’è Jud?
Sospirai profondamente, mentre Paul si spostò per guardarmi in faccia. - John mi ha detto che ha ricevuto una lettera da Alfred, dice che vuole incontrarci.
Paul sollevò le sopracciglia - Alfred Lennon?
Annuii, spostando lo sguardo verso la Luna, evitando di fargli vedere quanto fossi vulnerabile in quel momento.
- Vengo con te, se vuoi ovviamente. Se lui pensa determinate cose su di te mi sento in dovere di dire che si sbaglia. Lui non ti conosce e non sa che persona stupenda sei, non sa niente se non che sei sua figlia. - Accarezzò il viso con il dorso della mano e socchiusi gli occhi - Non sa quale sia il tuo colore preferito o cosa detesti, che sai cucinare i biscotti più buoni al mondo, che quando sei nella doccia canti le canzoni di Roy Orbison, che quando viene a piovere ti piace stare dietro la finestra a guardare, che mangi prima il cioccolato e poi la crema, perché preferisci la vaniglia, non sa che quando tu sorridi sei la cosa più bella al mondo.
- Paul - lo guardai con le lacrime agli occhi, conosceva dei particolari di me che nemmeno io mi ero accorta di avere.
Poggiai le mie labbra sulle sue, avvertendo il bisogno di baciarlo, era riuscito a scacciare via quella tristezza con le parole più semplici e sincere.
 
Ora, tra le sue braccia, nemmeno mi importava di Alfred Lennon.
 
 
 
 
 
 
 
Era passata una settimana ed era ora di incontrarlo a casa di John.
Nonostante fossi d’accordo in quel momento, avevo deciso che non volevo che Paul vedesse quell’essere che mi aveva dato il cognome, che conoscesse il marciume della mia famiglia.
Appena se ne sarebbe andato, Paul però sarebbe venuto a prendermi, questo era il patto.
Cynthia e Julian erano via, la casa era solo per me, John e Alfred che ancora non si era presentato.
 
Io e John eravamo in piedi, vicino la finestra del soggiorno quando sentimmo la porta bussare. Ci fissammo per un lungo secondo, dandoci forza a vicenda e con passo deciso ci avvicinammo alla porta.
- Qualsiasi cosa, non ci divideranno, ok? - John mi portò le mani sulle spalle.
- Promesso.
Ingoiai a vuoto, stringendo il braccio di mio fratello che fece lentamente ruotare il pomello in ottone. Trattenei inconsapevolmente il fiato.
 
 
- Ciao ragazzi.
 
Era lui.
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata, quell’uomo che avevamo davanti era lui, nostro padre, non c’erano dubbi.
Aveva il naso aquilino, come quello di John, ma gli occhi, gli occhi erano uguali ai miei.
Somigliava incredibilmente a suo figlio da far impressione.
John tese la mano ma io non ci riuscii, lo salutai con un misero cenno del capo, restando al fianco di John.
 
Ci accomodammo in salotto, davanti ad una tazza di tè che avevo prontamente preparato e restammo per un lungo, interminabile minuto in silenzio.
 
- Siete cresciuti tanto, siete davvero belli, John, mi somigli tanto e tu, Judith, somigli tanto alla cara Julia.
 
Il nome della mamma mi provocò l’effetto di un pugno allo stomaco. Serrai i muscoli della mascella involontariamente e John mi rassicurò accarezzandomi la mano.
 
- Vi volete bene, vero? - Chiese notando il gesto.
-  Io e Judith abbiamo un ottimo rapporto. - Mi stupì di quanto la voce di John risultasse tranquilla, non distolsi nemmeno per un secondo il mio sguardo da quello dell’uomo di fronte a noi apparendo immobile e fredda come una statua in marmo.
- Ne sono felice, siete davvero cresciuti.
- Il tempo passa, tu dove sei stato tutti questi anni? - John chiese in modo fin troppo calmo, riempiendo una tazza di tè per sorseggiare lentamente.
 
Alfred era a disagio, lo si vedeva da come la sua fronte veniva tamponata di continuo con un fazzoletto spiegazzato. - Ho avuto brutti periodi - Abbozzò un sorriso tirato, di sicuro voleva evitare quella domanda.
 
Judith, conta fino a 10, Judith!
 
- Anche io ne ho avuti alcuni, sai? - Mi misi a sedere sulla punta del divano, pronta a scattare - Ad esempio quando sono stata sbattuta in orfanotrofio dopo essere stata riconosciuta da un padre che non mi voleva. Anche tu cataloghi quello nei brutti periodi, Alfred?
 
- Judith - Tentò di calmarmi, John.
- Ah vaffanculo, ma cosa crede? Di venire qui da un momento all’altro, di apparire nella mia, nella nostra vita e fingere che ventuno anni della mia vita non siano esistiti? Andiamo Alfred, cosa ti aspettavi, il comitato di benvenuto, lo striscione con su scritto “Ti voglio bene papà”? John ha un figlio ed ha paura di essere padre per colpa tua, io ho sperato, ogni anno della mia vita che tu tornassi, ma non è mai successo. Ora sono adulta e di te non mi importa proprio niente.
 
Alfred spalancò gli occhi, lasciando che il fazzoletto si scontrasse leggero con il pavimento.
 
La stanza era diventata troppo stretta e soffocante per entrambi ed uscii facendo quasi ribaltare il tavolino da tè di fronte a me  e John.
 
 
Una volta fuori tirai una lunga boccata d’aria dalla mia Marlboro socchiudendo gli occhi.
Quell’uomo non meritava le mie lacrime, non più.
 
Mi sedetti sui gradini della veranda ed aspettai, ascoltando il mormorio delle voci di John ed Alfred in salotto. Non riuscivo a sentire ma stavano parlando di sicuro.
 
Il cigolio della porta mi informò che qualcuno era alle mie spalle e mi voltai pronta ad affrontare John per la scenata. Fui terribilmente sorpresa nel vedere Alfred di fronte a me.
- Non mi aspetto il tuo perdono, so che sarebbe stupido da chiedere dopo anni ma prova a dare una possibilità al tuo vecchio.
 
Lo guardai attentamente in quegli occhi così simili, così maledettamente uguali ai miei e spostai lo sguardo a terra, incapace di sostenerlo.
- Una possibilità. Una sola - cacciai via l’ultima boccata di fumo lentamente, incrociando le braccia sul petto.
 
Ero così maledettamente confusa che quella sigaretta invece di schiarirle, aveva solo annebbiato le mie idee. Ora, guardando quell’uomo segnato dal tempo, con le mani ossute tremanti ed un cappotto scolorito, non provavo quell’odio che provavo all’inizio, ora ero delusa dal suo comportamento. Infondo volevo soltanto un padre che si comportasse come tale.
Da piccola morivo d’invidia nel vedere le bambine che tenevano la mano a questi signori adulti in giacca e cravatta, mentre io dovevo stringerla a Mimi.
 
Infilò il cappello dalla tesa larga, abbassandolo sulla fronte e si voltò di spalle.
 
- Alf - Lo chiamai combattuta, torturandomi il labbro inferiore con i denti.
- Sì? - rispose con una lieve luce negli occhi.
- Apprezzo che ti sei fatto vivo - Esclamai senza guardarlo negli occhi, concentrando la mia attenzione sul mozzicone ancora fumante.
 
Alfred mi salutò con un cenno del capo ed entrò nel taxi che, nel frattempo era arrivato.
 
Lanciai a terra il mozzicone di sigaretta e guardai in alto, verso il cielo biancastro che copriva Londra quel pomeriggio e rientrai in casa.
 
 
John era seduto sul divano, una sigaretta pendeva dalle sue labbra sottili e lo sguardo era fisso sulle tende che coprivano la finestra.
Mi sedetti accanto a lui, pronta a ricevere la predica sul mio comportamento, poggiando le mani sulle ginocchia.
Restammo immobili.
Vedere quell’uomo aveva scosso entrambi e ora, nel silenzio di quella casa, interrotto solo dal ticchettio dell’orologio posto sulla parete, era davvero difficile far smettere di correre quei pensieri. Mi sentivo come una di quelle palline di vetro con la neve all’interno nel momento in cui la neve viene agitata; era quello l’ordine caotico in cui i miei pensieri si muovevano.
Ora non sapevo più chiamarlo bastardo o traditore, ora quel concetto astratto con il quale avevo sempre descritto Alfred Lennon aveva un volto vero.
E non riuscivo ad odiarlo.
 
Mi voltai verso John che aveva smesso di fissare il nulla e ora posava il suo sguardo su di me. Nessuno dei due accennò a parlare perché in realtà non c’era niente da dire, dunque mi lasciai scivolare sulla sua spalla, alla ricerca di quella tranquillità che, paradossalmente una persona irrequieta come John sapeva infondermi ma battito accelerato però mi fece capire che quel sostegno non lo avrei trovato quella volta.
Notai un foglio sul tavolino e mi allungai per afferrarlo compiendo un enorme sforzo a causa della pesantezza improvvisa degli arti.
Al suo interno c’erano un numero di telefono, un indirizzo e tre piccole foto.
Nella prima riconobbi il viso tondo di John da bambino, rigirai la foto tra le mani ricordando il tempo in cui John era piccolo e con quella vocetta squillante che sono soliti avere i bambini.
La seconda foto mi colpì particolarmente. Erano Alfred e Julia, nel ’38, la data era sul retro, se ne stavano abbracciati insieme vicino al porto di Liverpool. Erano così giovai e i loro sorrisi spensierati erano impressi in quella carta ingiallita, coperta in qualche punto con lo scotch, in modo da prevenire altri strappi.
Ma se la seconda foto mi aveva colpita, la terza mi lasciò letteralmente di stucco.
Erano poche le fotografie che avevano di me da piccola, forse quattro in tutto nel periodo in cui ero in fasce, scattate tutte a differenza di pochi giorni, dato il mio precoce affidamento.
E quella che avevo tra le mani era una di quelle, Alfred aveva anche una mia fotografia.
Lasciai cadere le foto dalle mani che portai nei capelli, nel vano tentativo di placare quella marea di sensazioni che provavo in quel momento.
 
- Non ho mai visto una foto di te così piccola - John parlò guardando la mia foto.
Sollevai i palmi dagli occhi, abbozzando un sorriso - Ne ho poche, zia Mimi ne ha qualcuna. - Pensai per un momento alla possibile reazione di zia Mimi alla notizia di Alf e sorse spontanea la domanda. - John pensi che…
- No Judith, a meno che non sappiamo come si evolverà la faccenda è meglio che non lo sappia.
Annuii, prendendo la foto di John tra le mani. - Eri così piccolo - Accarezzai quel foglio di carta, ricordando tante scene di John e me da piccoli: mentre correvamo in giardino, durante una delle solite litigate, quando mi portava in spalla, durante i pisolini forzati per tenerci a bada almeno per mezz’ora.
 
- Ricordo quando arrivasti a casa dall’orfanotrofio, lo sai?
Lo guardai con le sopracciglia corrugate, non me lo aveva mai detto
- Racconta - sorrisi mettendomi a sedere correttamente.
John si concentrò come per ricordare bene - Ero in camera mia, zia mi aveva detto di dormire il pomeriggio ma a me non andava, quindi ero a giocare agli indiani sotto le coperte, al buio. Ma avevo fame, dunque scendo le scale quando sento il cancelletto aprirsi ed entro in cucina. - Mi guardò negli occhi sorridendo, dopo aver notato la mia espressione attenta - Eri sulla poltrona, avevi una specie di pigiama e i capelli corti, credevo fossi un maschio e a me serviva uno sceriffo per giocare agli indiani!
 
Risi in imbarazzo. In quel posto tenevamo i capelli corti per motivi igienici e con i fondi che avevamo a disposizione l’unico abbigliamento erano delle camicie da notte, bianche per le bambine, blu per i bambini, sembravamo tanti piccoli fantasmi. - Ah i capelli corti, che strazio! - Toccai le punte dei miei capelli.
 
- Allora io ti chiesi il nome - John continuò - Ma tu non rispondesti e io ti volevo far parlare ma beccai un morso bastardo sul dito!
 
Scoppiai a ridere ricordando la scena e John mimò il morso che gli sferrai.
- Poi urlasti come un dannato e zia Mimi tornò in cucina e ti medicò il dito - Conclusi per lui.
 
Avevamo avuto un passato difficile ma non per questo mancavano i bei ricordi, impressi nella mente di entrambi.
Le ore successive passarono a risponderci della domanda “Ricordi quando?” e ben presto si fece di nuovo sera.
 
 
Cynthia tornò alle 20 in punto, tenendo per mano il piccolo Julian che cercava di camminare.
John era visibilmente sollevato, come lo ero io d’altronde ed andò dalla moglie per salutarla in modo affettuoso.
 Mi ricordai di Paul e del fatto che era probabilmente preoccupato e, approfittando del ritorno di Cynthia salutai entrambi per tornare a casa.
 
- Sicura di non voler restare? - Insisté Cynthia, ancora tra le braccia di John.
Sorrisi in modo educato e rifiutai l’invito - Non stasera, grazie.
 
 
 
 
Il tragitto per tornare a casa fu rapido e, non appena entrai in casa, corsi al telefono, componendo il numero che conoscevo a memoria.
Rispose dopo appena due squilli - Pronto?
- Hey, Paul - Portai il telefono a terra, dove mi sedetti.
- Com’è andata con Alfred?
- Beh, gli ho urlato addosso, non ho resistito ma poi è andata bene, gli ho dato una possibilità - Dissi con fare rassicurante
Paul sospirò sollevato dal mio tono, a giudicare da come gliene avevo parlato la prima volta, si aspettava un tono certamente funereo - Bene, vuoi restare a casa stasera?
Ci avrei scommesso che stava sorridendo. - Dipende, perché?
- Ho una sorpresa per te.
 
 
 
 
Angolo autrice
Tadaaaaaaaaa! Sono in anticipo sulla tabella di marcia ma spero che la cosa non vi dispiaccia.
Voglio ringraziare tutti coloro che leggono la mia storia, ora è al secondo posto, grazie!
Ringrazio chi ha recensito, ovvero: Mrs_McCartney, Giulytvd, _SheLovesTheBeatles_, Swaying_Daisies, JepicLuminous, Yashi_ e The Rolling Beatles
 
 
Ringrazio: AmyWhite, beatlestone62, Beat_4, cipollina_15, C_Lennon, EggWomen, elescardi, ffloow, Gnufoletta, Go_always_ahead, HelloDarkedsMyOldFriend, JepicLuminous, John_mccartney_, LA _Gibson_, Lady Madonna, LizPotterheadYo, Oceans994, ohhstyles, out there, SlowDownLiz, StreetsOfLove, Swaying_Daisies, The Rolling Beatles, TheBeatIes, TheFlyingPaper, WheresIzzy, xamistake, Yashi_, _Boobear31_SheLovesTheBeatles_ 
Per aver inserito la mia storia tra i preferiti
 
Ringrazio: AmyWhite,beatlestone62Beat_4, binsane, CheccaWeasley, Cherry Blues, Doxa9011,EggWomen, Elejjkk, elescardi, ffloowGo_always_aheadHarisontour, Helter Skelter, IloveTheBeatlesI_me_mineJepicLuminousJudeelike_a_mod_LizPotterheadYoMadnessInk, Miss_Riddle StarkeyMrs HarrisonMrs_McCartneynp_gryffindorOceans994ohhstylesQuella che ama i BeatlessbriashisgtpepperTheBeatIes, Tholomew, tobelovedYashi__Enya,_occhicielo 
 Per aver inserito la mia storia tra le seguite.
 
Ringrazio: AmazingGirl, EggWomen, Giulytvd, Go_always_ahead
Per aver inserito la storia tra le ricordate.
 
Ma ci tengo a ringraziare tutti coloro che leggono, quasi mi dispiace dover portare la storia a termine!!
Con affetto

JennyWren

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Capitolo 25
*** The beginning of the cracks ***


The beginning of the cracks
 

Mi guardai ancora allo specchio, sicura di aver badato ad ogni particolare. I capelli raccolti lasciavano il collo nudo, coperto da un ciondolo regalatomi anni prima, troppo elegante per i miei gusti, che non ero mai riuscita ad indossare.
Erano le 21 in punto quando udii lo stridio delle ruote sulla ghiaia del vialetto; scostai le tende per sbirciare ma i fari erano già stati spenti dal guidatore che si apprestava a bussare alla porta.
 
Respirai profondamente, e nel momento in cui mi sentii pronta aprii la porta.
- Salve.
Fui delusa, ma allo stesso tempo sorrisi. Cosa diavolo aveva in mente il bassista?
- Buonasera - Salutai l’uomo che doveva accompagnarmi. Lanciai un’occhiata all’auto che sembrava vuota.
Mi fece accomodare sul sedile posteriore e cominciò a guidare in silenzio.
 
Ero emozionata come un’adolescente al suo primo appuntamento. Durante tutto il tragitto non feci altro che ritoccare il rossetto, aggiustare le ciocche di capelli che sfuggivano allo chignon ed aggiustare tutti quei difetti che spuntavano sul mio viso.
Guardai fuori dal finestrino, cercando di capire dove fossimo: riconobbi King’s Road, le sue luci ed i ristoranti di lusso.
 
 
 
“- John, mi dai una mano? - Chiesi a mio fratello intento a vegetare sul divano di casa, una gamba a penzoloni sullo schienale, l’altra sul tavolino.
- Sono occupato - Rise verso l’amico intento ad accordare la chitarra.
- Sei un coglione maschilista, lo sai? Non sono mica la tua governante!* - Sbraitai tornando in cucina, colpendolo con un panno.
 
Strofinavo sulla pentola in modo quasi assassino, non era giusto che io dovessi occuparmi di tutto in quella casa; John Lennon doveva essere informato riguardo lo sfruttamento minorile!
 
- Posso darti una mano? - Chiese Paul arrotolando le maniche della camicia.
Sbuffai. Non mi andava che Paul mi vedesse come la povera Cenerentola - Non ti preoccupare, faccio da sola - Abbandonai la spugna nell’acqua e presi lo strofinaccio per asciugare ma Paul lo sfilò dalle mani.
- Smettila, Judy, non mi pesa aiutarti - Disse in tono affettuoso ed ero sicura di essere arrossita.
 
- Sei un leccaculo assurdo McCartney! - Urlò John dal soggiorno.
- Almeno lui è gentile! - Urlai di rimando.
 
Paul sorrideva mentre asciugava i piatti e non potevo fare a meno di osservarlo.
- Che hai? - Chiesi corrugando le sopracciglia
- Mi hai fatto un complimento, che cosa strana.
- Idiota - Lo spintonai in modo scherzoso.
Restammo in silenzio per un po’, ognuno intento a svolgere il proprio compito.
- Quando saremo famosi ti porterò in un ristorante stupendo. - Sognò ad occhi aperti, lo strofinaccio posato sulla spalla. - Così non dovrai cucinare e lavare i piatti.
- Mi porterai a King’s Road? - Sorrisi sbattendo le ciglia in modo civettuolo.
- Frena, frena ragazzina,  ho detto famosi non ricchi sfondati!
 
 
 
Accostammo sul marciapiede del ristorante più luminoso, al centro della strada.
- Il suo nome?
Ero così emozionata che per un attimo dimenticai anche come mi chiamassi.
- Judith Lennon - Balbettai, continuando a fissare la facciata del ristorante.
 
Mi aprirono la porta ed in quel momento mi sentii come un personaggio di un film. Mi presero la giacca dalle spalle, mi accompagnarono lungo i corridoi affrescati, riscaldati da eleganti stufe, fino al piano superiore, attraverso un ascensore grande quanto una camera.
- Miss, il suo tavolo è in fondo.
 
Avevo le ginocchia di gelatina e se non fosse stato per tutte quelle persone avrei strillato come una folle, in preda all’isterismo.
Più mi avvicinavo al tavolo in terrazza, più avvertivo il cuore pesante.
 
“Ho le scarpe giuste? E il vestito? Avrò qualcosa tra i denti? Ho tolto il cartellino?”
 
Ma poi il blackout più totale nel momento in cui lo vidi.
Era poggiato alla ringhiera in pietra, fumando le sue solite Marlboro rosse, in un completo blu notte.
Era di spalle e notai divertita la sua espressione nervosa che mi fece rilassare impercettibilmente.
Si voltò nel momento in cui il suono dei tacchi alti risuonò sul pavimento da esterni e fui sicura di essere avvampata fino alle orecchie.
Era un po’ come il primo vero appuntamento da soli, totalmente in pace, in un luogo che non fosse a noi conosciuto.
 
McCartney si avvicinò, tendendomi la mano, con un sorriso che troneggiava sul viso.
- Sorpresa - Poggiò le sue labbra sulle mie, in un bacio semplice. - Sei stupenda.
- Sei completamente pazzo.
- Lo avevo promesso, ricordi?
 
Il cameriere guardava in imbarazzo, tenendo il vino che versava nei bicchieri di cristallo.
Osservai la terrazza nella quale ci trovavamo, circondata da gerani viola e fucsia  sembrava di stare in un giardino sospeso. I lampioni illuminavano la terrazza in modo omogeneo, con luci calde. Ciò che separava il nostro giardino personale dal resto della sala erano delle strutture in legno ricoperte anch’esse di fiori.
Spostai il mio sguardo di nuovo sul ragazzo e sorrisi estasiata, non ero mai stata in un posto del genere.
- A cosa dobbiamo - indicai con lo sguardo la terrazza - Questo?
Paul sorseggiò il vino prima di rispondere - A te.
Scossi la testa più volte, tenendo il bicchiere vicino le labbra - Io l’ho detto che sei pazzo.
 
Arrivarono diverse portate, tanto coreografiche quanto buone da mangiare e consumammo chiacchierando sulla giornata, sull’incontro di quel pomeriggio che, in quel momento, sembrava distante anni luce e mi ascoltò con attenzione, condividendo la scelta di dare ad Alfred una possibilità.
Paul cambiò espressione tutto d’un tratto, come ricordatosi di qualcosa di spiacevole e posai la forchetta sul tavolo, cercando di capire cosa avesse.
Continuava a guardare il piatto e tormentava il labbro inferiore. Era nervoso.
- Avanti, parla - Esortai poggiando la mano sul tavolo.
Paul ne intrecciò le dita prima di parlare.
- Devo partire per il tour, tra un paio di giorni e - strinse le dita prima di proseguire - Voglio che tu venga con me.
 
Sorrisi in modo amaro, Paul conosceva già la risposta.
- Solo per quest’anno; saremo in tour di continuo, non avrò una settimana per tornare - Mi guardava con quegli occhi a cui era difficile resistere.
- Paul lo sapevamo che sarebbe successo e non preoccuparti, io vorrei venire ma sai quanto significa il mio lavoro per me, sai che io ho bisogno della mia indipendenza e sai che non posso.
 
Sospirò pesantemente arricciando le labbra, tipico di quando qualcosa non andava come voleva lui. - Ma io voglio che tu venga.
- Anche io ma non possiamo. Dai Paul non roviniamo la serata, ne riparliamo, va bene? Dopotutto non dobbiamo decidere ora. - Presi il pezzetto di torta che avevo sulla forchetta e glielo porsi - Vuoi?
Gli strappai un sorriso e si avvicinò per mangiare. Dopo averla addentata poggiò un altro bacio sulle labbra e capimmo che quello non era il momento di discutere.
 

 
Era davvero tardi e le strade erano deserte quando decidemmo di passeggiare insieme.
Di giorno poter camminare con lui era impossibile, ma in quel momento, accolti soltanto dalla flebile luce dei lampioni impolverati lungo i marciapiedi, potevamo comportarci normalmente, permettendoci il lusso di scambiarci effusioni poggiati alla parete di un negozio chiuso, scherzando su noi stessi e rincorrerci come due adolescenti.
Ci fermammo su una panchina, Paul si sdraiò poggiando il capo sulle mie gambe e lasciai vagare la mia mano tra i capelli corvini, per poi tracciare con le dita i contorni del viso: gli occhi chiusi, le guance lisce, le labbra schiuse, era completamente rilassato e lo osservai rendendomi conto di quanto fosse profondo l’affetto che provavo nei suoi confronti.
In quel momento sentii il bisogno di non doverlo mai lasciar andare via, poiché ogni minuto sarebbe stato più difficile da sopportare e sentii un vuoto incredibile all’interno.
 
Paul notò il mio silenzio ed aprì lentamente gli occhi.
- Che ti prende?
Sorrisi malinconica, scuotendo il capo. - Torniamo a casa?
- Qualcosa non va?
- Voglio solo stare con te.
Paul si sollevò, mettendosi a sedere e mi baciò. Mi abbandonai a quelle labbra e a quel bacio, mi lasciai trasportare dai suoi movimenti e sentii quel vuoto stringersi fino a scomparire. Strinsi le mani sul suo viso, sentendo il respiro caldo confondersi con il mio.
  
 
 
Ho sete, fa caldo, sto sudando. Cerco di parlare ma non ci riesco, la gola è troppo secca e brucia.
Guardo intorno a me, sono a terra e qualcosa mi sta colpendo la cassa toracica: è un piede, mi prende a calci.
Voglio scostarmi ma sono pesante e sono debole, mi cola il sangue dal naso.
Guardo in alto, chi mi sta facendo male?
No…
 
Balzai dal sonno, passandomi una mano tra i capelli sudati. Avvertii la sensazione di pesantezza sul torace e spaventata cercai di capire cosa fosse. Mi tranquillizzai notando che fosse il braccio di Paul addormentato accanto a me.
Misi a fuoco la camera da letto del bassista e il mio sguardo volò sul comodino, che segnava le 4 passate.
Avvertii uno strano ticchettio sulla finestra e ne riconobbi il suono imperterrito della pioggia che arrivava puntuale all’inizio di Novembre.
Cercai di spostarmi ma il braccio possessivo di Paul mi attirava verso di sé.
L’irrequietezza dovuta all’incubo sembrò assopirsi nel momento in cui mi rilassai a contatto con il suo abbraccio e in pochi minuti crollai di nuovo tra le braccia di Morfeo.
 
 
  
Ero già sveglia ma avevo sentito Paul arrivare in camera tentando di essere il meno rumoroso possibile:  invece di essere il solito elefante sui pattini, sembrava solo un cavallo imbizzarrito.
Poggiò qualcosa sul comodino e mi sfiorò il viso con qualcosa di profumato.
Aprii un occhio soltanto, abbagliandomi dalla luce che proveniva dalla finestra e notai la sua espressione contenta. Sorrisi di rimando.
- Ho preparato la colazione per te - Disse mordendosi il labbro, apparendo come uno scolaretto il primo giorno di scuola.
 
Mi misi a sedere e il lenzuolo scivolò dal seno e mi affrettai a ricoprire.
- Mi passi qualcosa da mettere prima? - Chiesi in imbarazzo.
Paul ridacchiò mormorando qualcosa del tipo “Come se non sapessi cosa c’è sotto il lenzuolo”.
- Che hai da fare oggi, Sir? - Chiesi addentando una brioche, poggiandomi su di lui.
Paul accese la radio che mandava Eight days a week**. - Dovrei preparare le valigie - Cambiò stazione più volte ma la radio non trasmetteva altro che loro canzoni.
- Vuoi una mano? - Chiesi, la brioche a mezz’aria.
- Ti infilerai nella valigia?
Sbuffai divertita - Vuoi corrompermi?
- Ci sono possibilità?
 
Mi voltai verso di lui, non sopportavo quel tono afflitto. Infondo sarebbe partito per un tour, non per la guerra e non sopportavo di dovermi sentire in colpa.
 
- Paul, io ho studiato per stare dove sono e non posso mandare tutto all’aria. Lo sai che ci tengo a te ma non voglio fare la figura della raccomandata.
Paul mi guardò serio, come se qualcosa lo tormentasse ma alla fine annuì.
Consumammo la colazione in silenzio, eravamo entrambi testardi e fermi nelle nostre convinzioni che non avremmo cambiato idea per niente al mondo.
 
 
Il giorno della partenza del gruppo il clima non fu per niente clemente, la pioggia fitta faceva procedere le auto a passo d’uomo e i tuoni facevano rizzare i capelli dietro la nuca tanto erano forti.
Una volta all’aeroporto io e Paul restammo a lungo in silenzio prima di stringerci in un abbraccio soffocante.
- Fa vedere che sei il migliore - Gli accarezzai il viso con entrambe le mani.
Ci scambiammo un bacio degno di un film strappalacrime, tanto che Cynthia - che sarebbe partita con John - si commosse.
Mi avvicinai a George, che salutai con un abbraccio stretto stretto e poi a Ringo, che mi fece girare su me stessa.
- Buon viaggio John - Salutai mio fratello che mi abbracciò. Non me lo aspettavo, John non era tipo da saluti.
- Non combinare guai e non fare le corna a Paul.
- John! - Urlammo io e il diretto interessato.
 
Scoppiarono tutti a ridere e il clima triste assunse una venatura meno tragica.
- Buon viaggio Beatles!
 
 
 
 
1966.

I due anni successivi si svolsero all’insegna dei tour, delle conferenze stampa, delle corse per rispettare le scadenze editoriali. I Beatles erano diventati il gruppo più famoso ed acclamato ma erano anche stremati ed avevano deciso che quello sarebbe stato il loro ultimo anno on the road.
Quando Paul mi comunicò la scelta del gruppo di smettere di fare concerti dal vivo, non nascondo che esplosi di gioia.
Passammo la notte intera a telefono, progettando sul da farsi una volta tornato a Londra. Aveva una marea di idee folli per la testa e io lo assecondavo continuando a ridere.
 
Non vedevo l’ora che tornasse.
 
  
Arrivai agli Studios in anticipo, nella hall c’era Steve, il cui rapporto con lui era diventato prettamente formale.
Lo salutai con un gesto della mano e sparii nel mio ufficio. Avevo tante cose da fare e, schioccando le dita, cominciai a battere i primi articoli.
 
Sulla scrivania tenevo una foto di me e i ragazzi, non mi andava di tenerne una da sola con Paul, mi sembrava troppo personale e non volevo aumentare il chiacchiericcio che si formava al mio passaggio.
 
Fui interrotta più volte a telefono a causa dei giornali che chiedevano le interviste ma avevo degli ordini: potevo concederle solo a giornali “importanti”.
Il calendario si riempì quasi completamente e chiesi alla receptionist di non passarne più nessuna, a meno ché non fosse stata davvero importante.
 
L’orologio da parete segnò le 12 e decisi di staccare le dita dai tasti.
Le massaggiai lentamente, avevo la testa piena, quel lavoro sembrava interminabile.
Afferrai il plico di fogli dalla scrivania, sistemai la gonna e mi apprestai ad uscire.
 
- Judith! - Mi chiamò una delle ragazze.
Aveva la mano sulla cornetta e feci cenno di no  con il capo.
Lei mimò di rimando qualcosa che interpretai come “è importante”.
Sollevai gli occhi al cielo e afferrai il telefono del mio ufficio.
 
- Buongiorno.
- Salve, chiamo dal Town per un’intervista al gruppo. - Chiese con voce squillante ed un accento Americano.
Il town occupava un certo spessore in campo giornalistico, dunque la feci proseguire.
- Mi spiace ma il gruppo è pieno, almeno fino a fine Maggio, e siamo a Novembre - Sfogliai le pagine del calendario, accertandomi di aver visto giusto.
- Maggio va benissimo, dovrebbero essere anche pronti per il nuovo album, giusto? - Chiese da brava giornalista.
 
“Diamine se è informata questa tipa”pensai afferrando una penna.

- Probabilmente sì.
- Allora può segnare il mio nome, Linda Eastman dal Town?
- Certamente.
- Ho parlato con?
- Judith Lennon.
La sentii scrivere sul foglio velocemente e ci salutammo.
 
 
 
 
Le giornate senza loro, senza lui non passavano mai, contavo i giorni per il ritorno a Londra. Tuttavia il lavoro alla EMI si manteneva comunque su ritmi frenetici, anzi, con la loro assenza sembrava quasi che il tutto si amplificasse.
O magari era soltanto una mia impressione dovuta alla solitudine.
 
Senza  essere interrotta ancora, riuscii ad arrivare al corridoio del quinto ed ultimo piano dell’edificio con una cartellina da portare al mio simpaticissimo capo quando sentii pronunciare il mio nome dall’interno di uno degli uffici.
Di solito non avrei ascoltato le conversazioni di qualcuno ma, sfido chiunque a rimanere impassibili sentendosi presi in causa.
Mi accostai alla parete, stringendo il plico sul petto, cercando di non proiettare ombre sul muro.
Il cuore cominciò inspiegabilmente a battere in modo più veloce e le mani si strinsero sul plico. Lo avevo stropicciato tutto.
 
- Capisci, allora il problema? - Sentii il mio capo pronunciare con tono seccato.
 
Probabilmente avevo sbagliato a sentire eppure restai vicino alla porta, fin quando la frase non fu pronunciata di nuovo.
Spalancai gli occhi, cestinando il lavoro di una settimana nel più vicino cesto della spazzatura e corsi al piano di sotto con le lacrime che pungevano ai lati degli occhi.
 
Sbattei la porta del mio ufficio, raccattando le cose più utili mentre lacrime di rabbia scendevano incontrollate.
 
Perfetto, pensai, ho fatto proprio la figura dell’idiota!
 
Ribaltai il portapenne prendendo la borsa ed uscii dall’ufficio tenendo tutte le mie cose in una busta.
Salii ancora una volta le scale, cercando di non scoppiare in un pianto isterico e mi fermai davanti alla porta.
Questa volta invece di origliare bussai con mano ferma.
 
- Lennon, mi dica - Il mio capo ed un altro uomo che non avevo mai visto mi guardarono con aria interrogativa.
Mantenei una compostezza ed un tono fermo che non avevo e pronunciai lentamente.
- Io mi licenzio.
 
 
 

Angolo autrice.
 
*In inglese “I’m not your housekeeper”. Battuta della Sig.ra Hudson in Sherlock.
(Dato che io amo Sherlock era doveroso inserirla).
**Eight days a week è la canzone con la quale Paul McCartney ha aperto il concerto a Verona
 
Potreste abbassare torce e forconi?
Graaaazie.
So che ho aggiornato con un ritardo davvero, davvero mostruoso ma ho dovuto vedermela con una marea di cose!
Se volete dare la colpa a qualcuno datela a Paul che, dopo il concerto mi ha praticamente svuotato la testa da ogni idea razionale. Sono di nuovo sotto shock per i suoi concerti. Maledetto!
Vedrò di aggiornare in fretta, se dopo questo schifo di capitolo vorrete ancora leggere questa storia - Ne dubito.
 
Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno letto e recensito lo scorso capitolo e chi continua a tenere la mia storia tra preferiti, seguiti, ricordati.
Vi sarò debitrice a vita!
 

JennyWren

 

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Capitolo 26
*** Two worlds apart ***


Two worlds apart
 
 
- Come scusi? - Chiese sbattendo le palpebre.
- Ha sentito perfettamente, io mi licenzio. - Scandii ogni parola ad alta voce.
- Mi spieghi il motivo. - Giunse le mani sotto il mento, guardandomi con aria superiore.
Osservai il pesante tessuto delle tende scure che coprivano le finestre in alluminio. - Non ce n’è bisogno. Credo che il mio annuncio sia di suo gradimento, infondo le sono sempre stata sulle palle - Sbottai. Ora potevo dirgli tutto ciò che pensavo senza filtri.
Si raddrizzò sulla sedia e mi guardò attentamente. - Le arriveranno dei moduli a casa.
- Perfetto. 
 
Procedetti a passo spedito fino a tornare in quella dannata hall, diamine quanto ero stata stupida! Ero in prossimità dell’uscita quando, a causa delle lacrime di rabbia che appannavano la vista che andai a sbattere addosso a qualcuno.
 
- Cazzo! - Urlai asciugandomi gli occhi con un gesto stizzito della mano.
- Judith?
Misi a fuoco il ragazzo: alto, spalle larghe, capelli chiari.
- Steve, fammi passare. 
Il tecnico mi guardò negli occhi, sollevandomi il mento - C’è qualcosa che non va? - Chiese notando le mie lacrime.
- Ho detto fammi passare! - Lo spinsi via permettendomi di uscire, barcollando sui gradini esterni.
 
Ero seduta su un muretto poco distante, avevo dimenticato la foto di me e i ragazzi ma in quel momento non volevo vedere nessuno, sarebbe stata bene lì dov’era.
Ero completamente accecata dalla rabbia e quelle lacrime non volevano smettere di scendere, non avevano il permesso di scorrere e graffiare le mie guance eppure non riuscivo a frenarle.
 
Tirai su col naso e qualcuno mi porse un fazzoletto, riconobbi quelle mani.
- Steve lasciami in pace. - Pronunciai con voce roca, grave.
Il ragazzo mi sfilò dalle mani la busta contenente tutto ciò che avevo portato dall’ufficio, dato il suo peso la busta aveva solcato la pelle della mano destra che cominciava a bruciare.
 
Sbuffai. Non ero la dama in difficoltà, non mi serviva il fazzoletto ricamato, volevo soltanto stare da sola per elaborare le ultime notizie ricevute.
- Hai lasciato questa, pensavo la volessi - fece scivolare la cornice nella busta ma io la afferrai, scaraventandola in strada.
Mi coprii il viso con le mani che tremavano dalla rabbia, mordendomi i palmi delle mani per reprimere i singhiozzi ma scoppiai ancora una volta in lacrime.
Steve lasciò che mi sfogassi, restando in silenzio affianco a me e solo quando tutte le lacrime furono versate mi sollevò il viso per asciugarle.
 
- Va un po’ meglio? - Chiese tamponando il fazzoletto sugli occhi.
Cercai di reprimere altri singhiozzi e lo osservai disarmata mentre tentava di riordinare i capelli mossi dal vento e di asciugare i segni freddi delle lacrime.
Si mise in piedi, raccolse la foto sgualcita e tornò di fronte a me - Camminiamo un po'? - Chiese offrendomi la mano ma mi alzai senza afferrarla.
Passeggiavamo senza meta e mantenei un silenzio impenetrabile. Ora che avevo pianto ero sull’orlo di una crisi di nervi, mi sentivo una mina pronta ad esplodere se solo mi avessero sfiorato.
- Perché non parli invece di torturarti le unghie?
Guardai Steve con un espressione truce ma lui non mosse un muscolo. 
- Non capiresti. 
- Provaci - Mi incitò.
 
“- Non posso licenziare l’ultima arrivata - Affermò il mio capo, sbuffando.
- E perché?
- Perché mi hanno pregato di assumerla.- Si lamentò - Hai presente Paul McCartney?
L’altro uomo rise - Certo che ce l’ho presente, vivo anche io in Inghilterra.
- È il ragazzo di Judith Lennon, sorella di John. Paul mi chiese esplicitamente di assumere questa ragazza e di tenere a freno la lingua di tutti sul fatto che lui l’avesse mandata qui. Svolge un buon lavoro ma il suo impiego è rimpiazzabile da altri. Per di più  la sua paga è più alta di tutti i suoi colleghi. Paul chiese così e non ho potuto fare altro che dirgli di essere d’accordo. Io poi nemmeno la sopporto.” 
 
Riportai le esatte parole a Steve che mi guardò disgustato.
- Perché lo ha fatto? - Chiese, il tono di voce rifletteva la sua espressione.
- Perché è un fottuto coglione! 
Mi alzai dalla panchina di scatto e, prima che potesse rendersene conto, stavo già andando via, sgomitando tra la folla Londinese nell'ora di punta.
 


 
Anche l'ultimo foglio fu accuratamente strappato e gettato nel sacco nero. A causa della freneticità dei movimenti avevo diversi tagli sulla mano sinistra che non smettevano di sanguinare. 
Mi spostai in bagno, cercando un cerotto quando il mio sguardo volò sull'altro spazzolino nel bicchiere, il suo.
Non ci pensai due volte, forse nemmeno una, lo presi e lo gettai nel sacco insieme ai vari fogli.
 
Camminavo a passo spedito verso il bidone della spazzatura quando notai Steve scuotere la testa.
- Non credi di essere un po', come dire, drastica? - Chiese con entrambe le mani nelle tasche della giacca.
- Fanculo Steve – Sbottai, chiudendo il cancello alle mie spalle.
- Dai, Judith, ti prego. Ho capito come ti senti ma, almeno, se vuoi urlare tutta la tua frustrazione, fallo con me e non con il tuo gatto.
- Non ho un gatto, sono allergica al pelo e poi - Mi interruppe
- Era un esempio. Andiamo Jud, ti ho portato anche i dolci – Sollevò un pacchetto di carta stropicciata sul quale riconobbi il logo del negozio di caramelle.
 
Non so perch・lo feci ma aprii il cancello e Steve cerc・di nascondere a tutti i costi un sorriso.
Entrai in casa con il ragazzo che mi seguiva a ruota e lo guardai mentre si sedeva sul divano in salotto come fosse casa sua.
- Non mi serve lo psicanalista. - Esclamai raccattando gli ultimi fogli rotti che mi erano sfuggiti, per gettarli.
- Vuoi una caramella?
- Steve!
- Io prendo quelle a limone.
- Steven Evans, ascoltami! 
- No, Judith, per una buona volta stammi a sentire tu! Lui ha sbagliato, ok, ma il suo errore così imperdonabile?
- Sì! Io ho litigato con mio fratello, mio fratello, perché lui diceva queste cose e lui che non ha nessun diritto su di me si ・permesso di fare una cosa del genere! - Sbraitai -Non si tratta della raccomandazione in s・ma di tutto ci・che ne sta dietro e che lui conosce perfettamente! Ha agito come una persona che non mi conosce e invece io e Paul ci conosciamo da quando io avevo quattordici anni. È un'egoista che pensa solo a se stesso! 
 
 
Mi accorsi solo dopo aver terminato che la mia voce era salita di un paio di ottave e in quel momento realizzai che no, non sarei mai e poi mai riuscita a perdonarlo, c'erano troppe cose in ballo.
 
Steve aveva posato il pacchetto e ora mi osservava con le mani giunte sotto il mento e un'espressione seria. 
È un gran casino ma, Judith, devi calmarti. Prima di tutto non puoi restare senza lavoro, quindi ora usciamo entrambi e andiamo nei vari giornali a cercarne uno. - Sollevò una mano per proseguire -Hai talento e trovarti un lavoro sarà semplice.
 
-Posso ritornare a lavorare dal Signor Mallard.
-Non pensarci nemmeno.
 
 
 
Dopo due ore in macchina, in giro per la City avevamo consegnato curriculum e fatto colloqui un po' ovunque nelle varie redazioni. Alcuni si accigliarono sentendo il mio cognome, altri mi chiesero perché volessi un lavoro se fossi una Lennon, (in quel caso Steve dovette quasi mantenermi) ma ero contenta di avere il tecnico dal sorriso smagliante a farmi compagnia poiché se non si fosse presentato a casa, sarei sicuramente rimasta a casa ad autocommiserare la mia stupidaggine senza combinare nulla.
 
Fermò l'auto fuori il vialetto privato e poggiai la mano sulla portiera per aprirla.
Steve sorrideva ma sapevo che a lui non andava di lasciarmi andare e così glielo chiesi.
- Ti va di entrare? È ora di cena e potremmo ordinare qualcosa - Chiesi in imbarazzo.
 
Che caspita mi prende? È solo Steve.
 
 
Il ragazzo ampliò il sorriso e sfilò le chiavi dalla toppa, pronto a scendere.
Una volta sotto il patio mi resi conto di essere nervosa, avevo una spiacevole sensazione che stavo sbagliando, ma misi a tacere quella vocina con un gesto stizzito della mano.
Il trillo del telefono fu il primo suono che percepii e corsi al tavolino per rispondere.
- Pronto?
- Judith si pu・sapere che cosa è successo? - La sua voce mi arrivò all'orecchio facendomi ribollire la rabbia che avevo cercato di placare.
- Sta zitto Paul, sta zitto e ascoltami. Come diavolo ti sei permesso di fare una cosa del genere? - Il tono freddo fece sospirare il ragazzo.
- Judith, io... - Sbuffò restando in silenzio, l'unico rumore proveniva dal ronzio di fondo della comunicazione.
- Tu non hai alcun diritto di fare una cosa del genere. Cazzo Paul ma che ti passa per quella testa? Non puoi decidere per me. - Sollevai il tono di voce, artigliando le unghie nel tessuto morbido della rubrica posta sul tavolino
- L'ho fatto perché volevo farti felice. - Mormorò 
 
Davvero patetico.
 
- No! Lo hai fatto perché tu volevi essere felice. Il tuo gesto fa capire che di me non sai niente! - Si incrinò la voce nel pronunciare l'ultima frase. 
- Smetti di dire cazzate! Non fare tragedie.
- Io faccio tragedie per i guai che combini! Mi hai fatto fare una figura di merda assurda, te ne rendi conto?
- Judith, stai esagerando, come sempre. Ora smettila perché io devo fare un'intervista e non posso restare al telefono. Non fare cazzate, ti prego.
- Vaffanculo Paul.
 
 
Riagganciai il telefono e sobbalzai, mi ero quasi dimenticata di Steve in casa.
Allargai le braccia per indicargli che la conversazione non era andata nel migliore dei modi ed abbassai lo sguardo sentendomi in colpa per aver rovinato l'atmosfera tranquilla che aveva faticato per creare.
 
- Judy - Pronunciò in tono calmo accarezzandomi i capelli.
Gli avvolsi le braccia alla schiena sospirando pesantemente. Ero frustrata per il comportamento di Paul nei miei confronti, e nel momento in cui Steve mi sollevò il capo per dire qualcosa premetti le mie labbra sulle sue.
Sospirò come se non si aspettasse quel gesto ma mi sporsi, allungando le mani fino ad intrecciarle dietro il suo collo e continuai.
- Che fai? - Chiese. Era perplesso ma sapevo che lo voleva e sentii una strana eccitazione nel sapere che lui mi voleva.
- Se non vuoi la smetto - Sussurrai giocherellando con i bottoni della camicia.

Le mani mi tremavano e non riuscivo a capire per quale motivo lo facessero.

Steve mi baciò ancora e si staccò solo per indicarmi di andare in camera da letto ma lo fermai.
-No - Affermai. Non potevamo farlo poiché in quel modo avrei distrutto tutto, due anni di una relazione stabile, di affetto, di momenti che non avrei mai dimenticato.
Sciolsi l'abbraccio mordendomi il labbro, mentre le immagini di me e Paul a casa affollavano la mia mente: i giorni passati vicino al camino acceso, a preparare i dolci, a sentire le battutacce di John su quanto fossimo smielati.
"Due anni in cui mi ha mentito" Mormorai tra le labbra, senza produrre alcun suono.
Due anni in cui Steve è  restato in disparte continuando a volermi.

- Voglio farlo qui - Dissi sottovoce, stringendogli le mani nei capelli ferma nella mia convinzione.
 
 
 
Pioveva forte quella notte, e nel momento in cui scivolai via dal suo abbraccio mi accorsi che anche la temperatura era notevolmente calata.
Guardai la persona che dormiva beata sul divano accanto a me ed avvertii una stretta allo stomaco.
Scivolai via dal divano ed infilai il maglione, vergognandomi di essere nuda. Con le mani strette nei capelli ramati mi diressi in cucina per bere qualcosa, stavo per avere un attacco di panico.
"Che cazzo ho fatto?" Continuavo a ripetermi mentre, seduta a terra vicino al frigo stringevo una bottiglia di birra e una sigaretta.
 
Ho mandato definitivamente tutto a puttane.
 


 
Il mattino successivo finsi di dormire quando Steve si alzò per andare a lavoro.
Sfogliai il giornale che riportava le notizie del giorno e mi trascinai per tutta la mattinata senza fare granché, ritrovandomi spesso a pensare a quanto avessi incasinato la mia vita.
Ero talmente soprappensiero che sobbalzai nell'udire il trillo del telefono.
Titubante e con passo lento mi avvicinai al telefono, poggiando la testa sulla parete, sicura che se fosse stato Paul avrei di sicuro riagganciato.
- Pronto? - Parlai con tono stanco, gli occhi chiusi.
- Salve, la chiamo dal Sun. Judith Lennon?- Rispose una voce squillante 
- Sono io, mi dica - Spalancai gli occhi, sorpresa.
- Volevo informarla che è stato accettato il suo incarico di lavoro, può cominciare la settimana prossima.
 
Sbattei la testa sulla parete e il telefono mi scivolò dalle mani.
- Oh, sì, è perfetto! 
 
Scrissi tutto ciò che mi serviva; redazione, numero di stanza, orario, posto macchina (magari ne avessi avuta una) e la salutai nel tono più calmo e professionale che avevo.
Poggiai il telefono e, una volta sicura che la telefonata fosse conclusa, cominciai a strillare, saltellando per casa.
Questa volta ce l'avevo fatta da sola ed avevo avuto il posto che avevo sempre sognato.
 
Sembrava quasi che le cose avessero preso una piega giusta.
Quasi.


 
 
 
Angolo autrice.
Sono tornata nel mondo di EFP! Eh, vi sono mancata? Ma ovvio che no.
So che probabilmente qualcuna di voi vorrà linciarmi ma vi prego, non fatelo!
Credo aggiorner・gioved・sera poich・il prossimo capitolo è già praticamente finito.
Spero che continuiate a leggere anche perché siamo quasi alla fine, mancano pochi capitoli, forse cinque.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e chi continua a seguire la storia, grazie mille!
With love
JennyWren

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Capitolo 27
*** Don't judge me anymore ***


Don't judge me anymore

 

Circa un mese dopo avevo capito in che modo si lavorava al Sun, in quel giornale si faceva sul serio e i ritmi erano sfiancanti: niente scrivania, niente tempi morti, si andava su e giù per la redazione di continuo.
Quando tornavo a casa passavo pochi minuti al telefono con Steve prima di crollare sfinita sul letto e dormire per avere la forza di cominciare daccapo il giorno seguente.

 

Era notte fonda ma non riuscivo a dormire quando sentii qualcuno bussare alla porta di casa Affinai i sensi per cercare di capire altro ma lo scroscio della pioggia incessante e il rimbombo dei tuoni coprivano ogni rumore; solo uno sprovveduto sarebbe uscito di casa in quelle circostanze e mi alzai dal divano cercando di fare il meno rumore possibile.

- Ti prego Judith, fammi stare qui almeno stanotte.

Mi spostai di lato per lasciarlo passare e gli indicai il salotto dove il camino era acceso.
Senza dire una parola si sedette a terra, di fronte al camino, cercando di riscaldarsi ma nonostante il calore tremava ancora visibilmente e dato il suo stato aveva di sicura camminato a piedi fino a casa mia.

Incrociò il mio sguardo prima di puntarlo a terra e schiacciare con le dita le piccole gocce d'acqua che colavano dai vestiti, posandosi intorno a lui.

- Ti prendo qualcosa di asciutto.
Tornai in salotto con un paio di asciugamani grandi e gliele porsi ma non mosse un muscolo per afferrarle. La sua espressione era talmente ferma che non riuscivo ad interpretarla.

- Che succede, John? - Chiesi tamponandogli i capelli zuppi di pioggia.
John sollevò il viso pallido dal freddo per guardarmi negli occhi e capii che non era pronto per parlare, era venuto per avere silenzio.

Poggiai i suoi vestiti vicino al camino per farli asciugare e lo avvolsi in una coperta mentre se ne stava immobile a fissare il fuoco, così feci lo stesso, poggiandomi sulla sua spalla.

Sapevo del suo commento sui Beatles e Gesù ma non capivo il motivo per cui John se ne preoccupasse così tanto.
- Hanno bruciato tutto - Esclamò immobile e per un momento credetti di averlo immaginato, se non fosse per la lacrima che stava scendendo sul suo volto.
- Cosa?
- Tutto - Ripeté in un singhiozzo.

Mi poggiai di fronte a lui e cominciai a sistemargli la frangetta arruffata.
- Era solo uno stupido commento e non intendevo che siamo migliori di Cristo ma soltanto più famosi. Io non so niente di religione e non volevo tutto questo odio contro di me. Sono solo un cazzone con una chitarra che si sentiva il mondo addosso, con il gruppo mi sono sentito per una volta al posto giusto e ora mi odia il mondo intero!

John gridava, era distrutto e avrei voluto uccidere tutte le persone che lo facevano sentire cosi, non meritava quello che stava succedendo.
- Sono cazzoni loro, John sono dei fanatici, degli ignoranti quelli che hanno interpretato il tuo commento in quel modo e ora stanno facendo queste cose- cercai di calmarlo ma respirava in modo irregolare, stava per esplodere.
- Non so più cosa fare. Faccio un'intervista? Non va bene. Smentisco tutto? John Lennon è un bugiardo. Fingo che non sia successo niente? John Lennon è ipocrita. - Strinse le mani nei capelli poggiando la fronte sulla mia spalla - Judith io che devo fare? Dimmelo tu.

Tremava, era spaventato come un bambino e mi sentii così male da voler piangere.
- Mi fai un po' di spazio nella coperta? - Chiesi accarezzandogli la nuca.
John scostò la coperta allargando le braccia e mi strinsi contro di lui, abbracciandolo forte.

- Tu non sei bugiardo, ipocrita o tutte le stronzate che dicono su di te. Sei la persona migliore del mondo, capito? Per me puoi stare qui anche tutta la vita ma, John, devi prendere quella chitarra e urlare al mondo che si stanno sbagliando. - gli presi il viso tra le mani per farmi ascoltare - Qualsiasi cosa una persona faccia, essa viene criticata o lodata da qualcuno. Il tuo caso è lo stesso, solo amplificato perché sei uno dei Beatles, il gruppo migliore al mondo. Diamine, John, chiunque vorrebbe essere te!

Un minuscolo, piccolissimo sorriso increspò le labbra sottili di John ed io sorrisi a mia volta, tirandolo di nuovo tra le mie braccia.
- Non pensare a nessuno, non pentirti mai di quello che fai John. Avrai sempre me dalla tua parte. - Gli schioccai un bacio sulla guancia e restammo stretti per un po' prima di alzarmi porgendogli le mani.
- Forza Lennon, vuoi restare a terra come un vecchio?


Mi afferrò le mani e, dopo essersi alzato mi diede una pacca sulla spalla.
- Sei proprio cresciuta, Judy. - Sorrise, la coperta ancora addosso.
- Sono il tuo psicanalista personale. La prima seduta è gratis, dalla seconda in poi potrai usufruire dello sconto famiglia del 5%.
- Grazie -Disse semplicemente ed io scrollai le spalle.
Sei mio fratello e se qualcuno ti fa stare male io sono in dovere di spaccargli la testa per difenderti.

Restammo tutta la notte a mangiare tutte le schifezze possibili e a guardare film stupidi che facevano ridere a crepapelle.
Solo verso le cinque del mattino John si addormentò ed io spensi la tv. Mi raggomitolai sul divano per dormire quando un improvviso conato mi fece correre in bagno ed avere un'intensa conversazione con la tazza del gabinetto.
Quando tornai da John decisi di pulire tutto lo schifo che avevamo combinato cercando di non svegliarlo e solo dopo preparai la colazione per entrambi, anche se il solo odore del cibo mi disgustava.

Solo verso le 9 John decise di alzarsi.
- Posso usare la doccia? - Chiese una volta in cucina.
- Certo che puoi, che domande.

Stava per andarsene quando mi porse la domanda che speravo non mi facesse mai.
- Perché te ne sei andata dalla EMI?

Panico.

- Perché lavorare al Sun mi da maggiori possibilità. - Affermai in tono piatto. Quella frase era la risposta che rifilavo a tutti.
- Non ha niente a che fare con Paul?
- Certo che no.
- Tirai un sorriso, non volevo che John e Paul litigassero per colpa mia.

Non so se per innocenza o perché avesse visto la mia espressione da “Ti prego non aprire l'argomento” che John non chiese più nulla e sparì in bagno.

Tamburellavo le dita sul ripiano della cucina, fissando l'enorme albero di Natale che io e Steve avevamo addobbato qualche giorno prima, mentre la sensazione di aver dimenticato qualcosa mi ritornava in mente, costringendomi a scandagliare mentalmente tutte le possibili ragioni.
Fissai il calendario, ma la scadenza per l'articolo era prevista per la settimana successiva, cercai di ricordare i vari compleanni, ma il mio era passato ormai da un mese; niente, non mi riuscivo a venire a capo di quella matassa.

- Allora? - John alzò la voce per farsi sentire.
- Che cosa? - biascicai stropicciandomi gli occhi.
- Ti ho detto se a Natale vuoi venire da me.- Esclamò tamponandosi i capelli.
Sorrisi raggiante, l'idea di passare il Natale in famiglia mi rendeva felice come un bambino. - Certamente!

John si rivestì e prima di andarsene mi stritolò in un abbraccio spacca costole, con tanto di bacio sonoro sulla guancia.
- Scriverò una canzone e gli farò il culo a strisce a quei fanatici.

Lo strinsi forte stampandogli mille baci sulla guancia.
- Vai Lennon che sei il migliore.





Le feste di Natale arrivarono in meno di uno schiocco di dita e mi ritrovai negli ultimi giorni a comprare regali per tutti.
Ero con Sophia, la mia collega preferita a Camden, pochi giorni prima del fatidico giorno ad ultimare gli acquisti, quando mi si gelò il sangue nelle vene per una sua frase.
- Che sfiga, credo che a Capodanno non potrò darmi alla pazza gioia con Darren. Ho le mie cose. Tu e il tuo ragazzo?

Mi bloccai di colpo.

- Che mese è?
- Judith è Agosto, non vedi che bel sole?
- È fine dicembre - Mormorai. Ecco la cosa che avevo dimenticato.
- Judith, sei sbiancata di colpo, che ti prende?





Camminavo verso casa di John la mattina di Natale, la neve fresca scricchiolava sotto il peso del corpo e cercai di rilassarmi alla vista di quel paesaggio imbiancato nel giorno di festa.
Due colpi di clacson mi fecero spostare di lato, verso il muro della strada, ma nonostante la strada fosse libera, la macchina suonò ancora e decisi di ignorarla, avanzando il passo.

-Judith, fermati!- Esclamò e istantaneamente il cuore partì a mille.

Fu irrazionalmente che mi voltai, incrociando i suoi occhi.
-Paul, vai via- Pronunciai, ma stavo già piangendo senza saperlo.

Corse verso di me, affondando i piedi nella neve e si fermò solo quando ci ritrovammo l'uno di fronte all'altra.
-Judith, ti prego, non so più che cosa fare, ti prego, non volevo- Le lacrime gli solcavano le guance arrossate dal freddo e mi sentii un verme.

Si sporse quel poco che bastava per poggiare le sue labbra sulle mie e baciarmi. Trattenei il respiro ma fu più forte di me e mi abbandonai completamente al bacio, poggiando le mani sul cappotto in lana scura che indossava, avvertendo di nuovo quel calore e quella sicurezza che provavo tra le sue braccia.

- Vattene - Lo implorai dopo essermi staccata dalle sue labbra - Ti prego.

- No - Scosse la testa più volte. - Torniamo insieme, come prima, tu mi ami Judith.
Cercai di spingerlo via ma mi fermò le mani con le sue, coperte dai guanti in pelle.
-Paul sono incinta.

Lasciò le mani compiendo un passo indietro, guardandomi spaventato.
- È mio, vero? Judith, dimmi che è mio. - Disse velocemente – Parla! - Urlò a causa del mio silenzio.
Fu tra le lacrime e la vergogna di averlo tradito che mormorai -No, è di Steve.

Paul esplose di rabbia, urlandomi di essere una sgualdrina, di essere come tutte le altre.
Mi urlò che aveva in mente un futuro per noi due e che io avevo distrutto tutto. Calciò la neve passandosi le mani nei capelli prima di sfuriare di nuovo con termini che non gli avevo mai sentito pronunciare.

Non mossi un solo muscolo, restai ferma ad assorbire la sua ira, senza dire una sola parola.
Sollevai lo sguardo portandomi una mano alla faccia solo dopo che essa fu colpita da uno schiaffo violento di Paul che ora mi guardava con la bocca spalancata, registrando solo dopo ciò che aveva appena fatto.
Indietreggiò fino a sbattere contro la sua macchina prima di sparire stridendo le ruote sulle strade coperte dal sale.


Afferrai un pugno di neve per premerlo sul viso, in modo da contenere il danno ma la verità era che quello schiaffo me lo meritavo tutto.
In pullman verso casa di John cercai di ricompormi e alla fine del viaggio il segno lasciato dalla mano del bassista era ridotto ad un semplice graffio che avrei potuto giustificare in mille modi.
Cercai di sembrare il più naturale possibile quando entrai in casa di John, scambiando auguri con tutti i presenti.

Cynthia uscì per comprare qualcosa che aveva dimenticato, lasciando me e John soli.
Il maggiore dei Lennon continuava a spiluccare pane dal cestino che sua moglie aveva posto in tavola mentre io me ne stavo sul divano fingendo di leggere una delle riviste di cucito di Cynthia.

John tornò dall'ingresso con un'espressione strana in viso che cercai di ignorare.
-Cynthia sa ricamare davvero tutte queste cose? Per me sarebbe impossibile.
John continuava a fissarmi e la paura che avesse scoperto qualcosa cominciò a farsi strada dentro di me.
-Stamattina hai visto Paul, vero?

Cominciai a sudare e richiusi il giornale, riponendolo sul tavolino.
-John, non ne voglio parlare.
-Mi ha riferito una cosa che gli hai detto. È vero? - Toccai istintivamente il ventre coperto dal pesante maglione in lana.
- Judith, guardami in faccia - Pronunciò con voce gutturale, la rabbia trapelava dalle poche parole.

Trattenei un singhiozzo ma le mani tremavano visibilmente.
- John - tremai, la mano a coppa sulla pancia, non avrei sopportato un'altra sfuriata.
- Che cazzo hai fatto?! - Ruggì violentemente, scattando di fronte a me.
Mi prese i polsi, strattonandomi violentemente.
- Fa male! - Piansi forte, cercando di fuggire alla presa.
- Judith, porca puttana, sei incinta? - Urlò furioso, cercando di guardarmi negli occhi. Lasciò la presa dai polsi, guardandomi con gli occhi accecati di rabbia.
- Sì - sussurrai, scivolando a terra, circondando le ginocchia con le braccia.
- Cosa cazzo di ho detto, Judith? Cosa? - Urlò esasperato - Io lo ammazzo, lo trovo e lo ammazzo di botte fino a fargli sputare sangue! - Colpì il muro con un pugno violento.
- No, ti prego, no! Non fare niente.
Il volto era segnato dalle lacrime e la gola bruciava, non avrei retto ancora per molto.

- John! - Urlò Cynthia sulla soglia della porta, notando la scena, le buste ancora in mano. - Che succede?
Corse verso di noi, accovacciandosi su di me, prendendomi il viso tra le mani.
- Judith - Mormorò osservando la mia espressione.
Chiusi gli occhi per la vergogna, mi sentivo un verme per ciò che avevo fatto e le conseguenze che avrei dovuto affrontare sembravano invalicabili.

- Dove vai? - Chiese Cynthia a John, ormai sulla soglia.
- Ad uccidere il bastardo.
- NO! John! - Balzai in piedi - Ti prego!

Ma era inutile, era già corso fuori.



Cynthia mi porse l'ennesimo bicchiere d'acqua.
- Da quanto lo sai?
- Due settimane fa, tre test su tre danno risultati positivi.
- Perché lo hai fatto? - Chiese, ma non era un rimprovero.
- Ero accecata dalla rabbia nei confronti di - ingoiai più volte, cercando di pronunciare il suo nome - Paul, e Steve era con me, si era mostrato gentile, affezionato a me, non faceva altro che ripeterlo! In quel momento ho agito di impulso. È stato strano, come se sapessi di star sbagliando ma non mi importava più.
Cynthia mi accarezzò il dorso della mano, cercando di confortarmi.
- Steve lo sa?
- Sì e non ha reagito davvero benissimo.
- Scusa se mi permetto ma potresti darlo in adozione.
- Mai. Io ho vissuto in un orfanotrofio, ho vissuto senza genitori. Io ho lasciato che accadesse e io ne terrò cura. Non potrei vivere con la consapevolezza di aver abbandonato mio figlio. Anche se non era previsto, ne sono responsabile.

Mi guardò con approvazione, con rispetto.
Come avrei potuto abbandonarlo?

- Sai, hai perfettamente ragione e io ho fatto lo stesso con Julian. Anche se non era previsto, Jules ora è il mio piccolo, il mio bambino e non potrei immaginare di vivere senza di lui.
- Non vivrà nemmeno un giorno sentendosi uno sbaglio, come mi sono sentita io.

John spalancò la porta di casa, salì al piano di sopra e lo rincorsi.
Una volta dietro di lui lo afferrai per il braccio, facendolo voltare.
- John.
- Ha detto che vuole sposarti.






Angolo autrice.
Sì, ehm, ciao popolo di EFP!
Sono in ritardo, lo so ma ho visto che la FF non interessa più come prima, dunque mi sono concessa un po' di tempo in più per pubblicare.
Allora, che dire, sono consapevole del fatto che volete uccidermi perché è successo quel che è successo, MA, la storia non è ancora finita quinid su, non disperate!

Ora, ci tengo a ringraziare le cinque anime Pie che hanno recensito lo scorso capitolo, ovvero: 
Mrs_McCartney che se l'ultima volta voleva menare Judith, non oso pensare cosa voglia farle ora.
JepicLuminous che resta sempre la mia fan numero 1!
Yashi_ che commenta ogni volta la storia e mi sprona a scrivere sempre.
LizPotterheadYo la mia nuova lettrice! MI ha fatto davvero piacere la tua recensione!
_SillyLoveSongs_ che mi fa sempre spoilerare su tutto ma le voglio bene lo stesso.

Ringrazio tutti quelli che seguono la mia storia e la tengono tra preferiti, seguite e ricordate.

Alla prossima!

JennyWren

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Capitolo 28
*** Welcome to the World ***


Welcome to the world
 

Fermate il mondo, voglio scendere!


Maggio 1967.

John entrò in camera dopo aver dato due colpi alla porta in legno scuro che divideva il corridoio dalla camera degli ospiti di casa Lennon. Fissai il riflesso di mio fratello alle mie spalle che mi guardava passandosi una mano sulla mascella.
- Sei sicura di volerlo fare? - Chiese spostando il peso da una gamba all'altra nervosamente.
Annuii lentamente, poggiando una mano sul pancione ormai visibile, guardando il riflesso di me e John nello specchio.
John grattò qualcosa a terra con la punta delle scarpe in vernice, il vestito lo faceva sembrare di nuovo un Beatle del primo periodo: giacca scura, pantaloni a sigaretta e cravatta lunga in coordinato.
Zia Mimi mi aggiustò la giacca del tailleur color pastello e mi accarezzò il viso in un gesto affettuoso, era venuta da Liverpool solo per essere presente quel giorno.

In salotto George e Ringo discutevano su qualcosa che aveva a che fare con la nuova casa del chitarrista, mentre le loro mogli chiacchieravano allegramente sedute sul divano del salotto. Cynthia aveva poggiato Julian sul tavolo e gli allacciava le scarpe mentre il bambino si dimenava nel suo completo, John si limitava a fissare fuori la finestra con aria assente.

Poggiai il piede sull'ultimo gradino e tutti, tranne John, si voltarono verso di me sorridendomi.
- Judith sei stupenda – squittì Pattie nel suo abito giallo paglierino.
Sorrisi imbarazzata dai loro sguardi sorpresi, notai la gioia nei loro volti e cercai il viso dell'unico di cui volevo approvazione ma era appena uscito di casa e potevo vederlo allontanarsi verso l'auto.
A poco a poco uscimmo tutti, io e Cynthia fummo le ultime. La moglie di mio fratello mi sorrise incoraggiante, stringendomi in un abbraccio colmo di affetto prima di salire in auto.


Ventiquattro anni, incinta e prossima al matrimonio; cosa avrei dovuto aspettarmi adesso?
Casa da pulire, il bambino da far mangiare, le giornate si sarebbero susseguite in modo lento, piatto. Addio ai viaggi, alla spensieratezza che non ero mai stata in grado di vivere appieno, improvvisamente ero diventata una donna.

E faceva terribilmente paura.

John era seduto a fianco a me in macchina, avevo voluto che fosse lui ad accompagnarmi e non mio padre che si era fatto vivo solo una volta per poi sparire nel nulla. Dopo aver saputo la notizia del mio matrimonio mi aveva scritto che non era nelle condizioni migliori per aiutarmi e che avrei dovuto vedermela da sola.

Alfred Lennon si era bruciato anche l'ultima possibilità.

Io e John restammo in silenzio per gran parte del tragitto ma la sua sola presenza bastava per placare l'istinto di aprire la porta dell'auto e scappare via. Non lo avevo ancora notato ma John quel giorno aveva indossato la sua fede nuziale, oggetto che non avevo mai visto sulla sua mano.
John?
Si voltò di scatto. - Dimmi.
- Resterai con me, vero?
Sorrise prendendomi la mano intenta a torturare le unghie. – Sempre.

Una volta in piedi, sentii le ginocchia di gelatina e John mi porse il braccio a cui mi aggrappai saldamente.
Strinsi tra le mani il piccolo bouquet che Cynthia mi aveva regalato ed osservai tutte le persone presenti in Municipio. I ragazzi con le mogli erano arrivati poco prima di noi, a loro si aggiungevano anche i parenti di Steve ed alcuni loro amici che, a mio parere, erano presenti solo per vedere i Beatles.

Ma ne mancava uno all'appello.
Paul non c'era, non si era degnato di venire. Lo cercai invano con lo sguardo ma no, non era tra i presenti. Per qualche assurdo motivo avevo sperato che ci fosse, che mi avrebbe urlato “Non farlo!” come in un dannato film romantico ma non c'era, aveva lasciato che di lì a poco avrei firmato anche l'ultimo ostacolo per dividerci.
Ma infondo era colpa mia. Era colpa mia se ci trovavamo in quella situazione.

John mi incitò a camminare mentre una lacrima solitaria solcava il viso immobile, fino a lasciare il suo sapore salato sulle labbra tremanti.
Steve era all'interno, un sorriso troneggiava sul volto spigoloso e ricambiai la sua espressione o almeno, ci provai.
“Ma cosa provo io per Steve?” pensavo mentre mi avvicinavo a lui. La domanda mi rimbombava in mente e non riuscii a sentire nemmeno una parola di ciò che l'uomo di fronte a noi recitava.

- Lo voglio – Pronunciò Steve.
Sbattei le palpebre e la domanda fu rivolta anche a me.

Panico.

Sentivo gli occhi puntati addosso di tutte le persone in attesa della mia fatidica risposta.

Avanti Judith, parla!

Steve mi sorrise in imbarazzo e cercai di pensare a tutti i suoi lati positivi: la sua premura nei miei confronti, il suo affetto, lui era innamorato di me ed io portavo in grambo il figlio di entrambi.
- Io... - Tentennai – Lo voglio.
Firmammo l'atto di matrimonio e suggellammo l'accordo con un tipico bacio da fotografia.


Una volta al ristorante cominciai a sentirmi stranamente meglio, molto più rilassata rispetto a poche ore prima. Steve era raggiante e contagiò anche me con la sua euforia.
- Siamo sposati e domani sapremo anche se avremmo un maschio o una femmina. Sono al settimo cielo, Judith – Esclamò durante il pranzo nuziale.
- Metti la mano qui – Spostai la sua mano destra dalla mia spalla al pancione.
Steve poggiò la mano dove indicato e mi guardò stupito.
- È quello che penso? - Chiese quasi con le lacrime agli occhi. Non avevo mai compiuto un gesto del genere da quando ero incinta.
- Sì – Affermai - È il cuore del bambino.

E fu in quel momento, con le mani di entrambi posate sul pancione che custodiva nostro figlio, che capii di amarlo.
Lo baciai e realizzai che la scelta era quella giusta, che era sempre stato lui la persona con la quale avrei dovuto stare e quell'ombra nera che sentivo sembrò svanire a poco a poco.
 

°oOoOo°
 

Quando zia Mimi venne a sapere che la bambina avrebbe avuto il suo nome scoppiò in lacrime, senza riuscire a fermarsi.
Eravamo nel salotto di casa mia, nella quale io e Steve ci eravamo stabiliti dopo il matrimonio, e zia Mimi stava ricamando con dei deliziosi fiorellini rosa pallido il corredo della bambina che sarebbe venuta alla luce di lì a poco.
La informai della mia scelta sul nome, scelta che Steve aveva accolto con entusiasmo, e la povera donna ora singhiozzava tenendomi le mani.
- Non sai che cosa significa questo per me, Judith, io non so come ringraziarti.
- Mi hai cresciuta tu, sei l'unica figura materna che conosco e non potrei non fare diversamente. È stato il primo nome che mi è venuto in mente.
Mimi sorrise, accarezzandomi la guancia. I suoi occhi azzurri risplendevano di gioia e quasi mi commossi nel vedere l'affetto che quella donna all'apparenza tanto austera e rigida provava nei miei confronti. E di John ovviamente.
- La piccola che ne dice del nome?
-Oh, ne sarà entusiasta.

Steve e John varcarono la soglia di casa, le cose tra loro due sembrava andassero meglio, anche se non potevo affermarlo con certezza.
John lo teneva sempre ad una certa distanza, ma poi si ritrovavano comunque a parlare fuori al giardino, fumando come vecchi compagni di liceo.

- Judith, sai che le balenottere sono diventate una specie protetta? - Esclamò mio fratello ridendo da solo della sua battuta.
- Sei un insensibile, immaturo, stupido con il naso storto! - Urlai offesa – E tu non ridere! - Mi rivolsi a Steve che se la sghignazzava rivolto di spalle.
- Sai che scherza, Judy, e poi per me sei sempre stupenda.
- Ruffiano – Borbottai mentre mi accarezzava i capelli, prendendo posto di fianco a me sul divano.
- John smettila di infilarti i cuscini sotto la maglia! – Lo rimproverò Mimi come se avesse cinque anni.

Ma ovviamente ciò che più divertiva mio fratello era colpire il mio tasto dolente durante la gravidanza. Fu per questo che continuò a gonfiare le guance e gesticolare come se fossi grossa come un dirigibile.

- Tricheco! - Urlai lanciandogli un cuscino addosso.
- Goo goo goo job! - Rise dopo essersi scanzato.

 

°oOoOo°


Era notte fonda quando mi svegliai di soprassalto grondante di sudore.
- Steve – Mormorai, improvvisamente senza fiato. - Steve – Scossi mio marito che aprì gli occhi spaventato.
- Judith che hai? - Balzò seduto a letto, accendendo l'abatjour sul comodino.
- Elizabeth – Strinsi il copriletto tra le mani, piegandomi in avanti dal dolore.

Due ore dopo un tenero fagottino con degli occhioni azzurri mi guardava con un'aria curiosa.
Ero stremata, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quella creatura tanto piccola e indifesa che portava il nome di Elizabeth Marie Evans.
Steve era sdraiato al mio fianco sul letto singolo dell'ospedale il capo poggiato sulla mia spalla. La piccola strinse il pugno sul mio dito e sorrisi, accarezzandole il corpicino paffuto.
- Benvenuta al mondo principessa – Pronunciai con un filo di voce alla piccola che sbadigliava. - Hai sonno? Beh anche io.
Ero la persona più felice al mondo e in un paio di minuti il mio comportamento era radicalmente cambiato. Ero responsabile di una creatura che avevo appena messo al mondo e alla quale non avrei mai e poi mai fatto del male. Mi sentii immediatamente in dovere di proteggerla, di darle affetto, di farla sentire al sicuro e amata.
La conoscevo da un paio di minuti eppure era la cosa a cui tenevo di più al mondo.
- È incredibile quanto la ami – Pronunciò Steve scostandole la copertina dalla guancia. - Non esiste niente di più meraviglioso.

 

°oOoOo°


Casa era un continuo via vai di persone che venivano a vedere la bambina. Parenti, amici, persone di cui non ricordavo nemmeno il nome portavano un'infinità di regali che riempirono tutti gli scaffali della camera di Elizabeth.
- Questa chi te l'ha portata? - Chiese John sollevando una tutina color pastello.
La fissai scuotendo la testa – Non ne ho idea, forse la vicina di casa di Steve, ma se vuoi puoi prenderla, il rosa e i coniglietti ti donano molto.John rise poggiandosi la tutina sul petto e continuammo a scartare i vari regali fino a quando qualcuno bussò alla porta.
- Vado io, tu guarda Ellie.

Una volta alla porta ruotai il pomello di ottone e dopo aver visto chi avevo di fronte lottai con tutta me stessa per non sbattergli la porta in faccia.
- Ciao Paul – Salutai in modo piatto, percorrendo la sua figura con lo sguardo, fino a soffermarmi alla mano che ne stringeva un'altra.
Spostai lo sguardo verso destra incrociando gli occhi con una persona a me sconosciuta che mi sorrideva cordialmente.
Aprii di più la porta, lasciandoli entrare in casa, indicandogli il salotto.
- Piacere, sono Linda – Si presentò la donna bionda al fianco di Paul.
- Judith – Le strinsi la mano cercando di sorridere. Aveva qualcosa di familiare e nel momento in cui mi informò del suo nome la guardai come per capire dove l'avessi già vista.
- Linda Eastman dal Town, giusto?
- Judith Lennon dalla EMI! Paul non mi hai detto che era lei! - Esclamò rivolgendosi al bassista - Sei stata proprio tu a farci conoscere, lo sai? - Accarezzò il braccio di Paul con un gesto affettuoso.

Mi irrigidii nel vedere quel gesto e quasi smisi di respirare nel notare il modo in cui Linda guardava Paul.
Ero rigida come un manichino, che cosa voleva Paul con quella visita? Mostrarmi che anche lui era andato avanti? Cercare di dirmi che stava bene senza di me?
Non riuscivo a staccargli gli occhi da dosso, era dal giorno di Natale che non lo vedevo ed era successo mesi e mesi prima.
Toccai inconsciamente la guancia dove Paul mi colpì e questi abbassò lo sguardo, sospirando pesantemente.

John spuntò dalle scale e ringraziai mentalmente mio fratello per essere arrivato in un momento tanto imbarazzante.
- Paul? - John si avvicinò alla coppia seduta di fronte a me, cercando di apparire il meno sconvolto possibile. Ovviamente nessuno dei due si aspettava una visita di Paul, tantomeno accompagnato dalla sua nuova ragazza.
Linda spostò immediatamente lo sguardo su John mentre Paul si alzò per raggiungerlo.
- Posso vedere la bambina? - Chiese Linda dopo aver visto i due ragazzi allontanarsi dalla sala.
- Certamente – Risposi in totale confusione.

Linda guardò la camera di Ellie, sfiorando con le dita i vari ciondoli che componevano il carillon della bambina.
- Sono stupendi così piccoli – Esclamò sognante, guardando il viso di Elizabeth addormentata.
- Danno anche parecchio da fare – Sospirai aggiustando il lenzuolo ricamato da zia Mimi.
- Sembra ieri che la mia Heather era così. Un attimo prima le stai mettendo il pannolino e un attimo dopo le accompagni a scuola. Crescono così in fretta.
- Tu hai già una figlia? - Chiesi incredula.
Annuì sorridendomi – Sì, compie cinque anni a Dicembre. Paul ha detto di volerla adottare quando ci sposeremo.

Paul e John bussarono alla porta, capii immediatamente che i due avevano discusso: dal modo in cui stavano attenti a non sfiorarsi, le mani stretta lungo i fianchi o nel caso di John nelle tasche dei pantaloni.
- Paul, vieni a vedere quanto è bella! - Esclamò piano Linda.
Paul si avvicinò alla culla cingendo la vita di Linda in un abbraccio e cercai in tutti i modi di non guardarlo, vederlo con mia figlia mi faceva stare male, era come se stesse invadendo qualcosa che non fosse suo.
- Ti somiglia tantissimo, è quasi la copia di te da piccola. - Pronunciò e sorrisi amara, sapevo che cosa volesse dire con quel commento.

Non appena John chiuse la porta e Paul e Linda se ne andarono sprofondai nel divano e piansi tutte la rabbia che provavo verso quel gesto meschino di Paul.
Voleva rinfacciarmi tutto e lo aveva fatto nel modo peggiore.

 

Angolo autrice.

Aggiornamento in super ritardo, lo so!
Con questo capitolo siamo a meno 4 alla fine della storia. Siete contenti di liberarvi di me?
Avevo pensato di continuare Devil in her heart, non so se qualcuno di voi l'abbia già letta, mi farebbe piacere sapere la vostra opinione riguardo la storia. Se non volete non aggiornerò Hahaha!
Ma passiamo al capitolo.
So che a nessuno piacerà e spero solo che sarete tanto buone da non scrivermi parolacce nelle recensioni. Vi prego!
Voglio ringraziare le ragazze che hanno recensito l'ultimo capitolo, siete state carinissime, non mi aspettavo tutte quelle recensioni per quel capitolo. Vi adoro!

With love

JennyWren

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Capitolo 29
*** Don't carry the world up on your shoulders ***


Don't carry the world up on your shoulders
 
 
 
 
- Hai intenzione di sputacchiare la minestra in tutta la casa? - Steve rimproverò la piccola Ellie che non voleva saperne di mangiare.
Ci stava provando da un pezzo ma la piccola che adesso sapeva stare seduta da sola continuava a mandare il cibo da tutte le parti, tranne che nel suo stomaco.
Guardavo la scena dal salotto e non potevo fare a meno di sorridere per quella visione familiare tra Steve e il mio piccolo confettino rosa. Steve era tornato prima dagli studios e aveva voluto far cenare Ellie in modo da farmi riposare.
 
Accetto l'impegno, caro ma la cucina sembra un campo di battaglia.
 
Così decisi di riporre la vecchia chitarra con la quale possedevo un rapporto di amore/odio e di porre fine alla battaglia che la bambina stava nettamente vincendo. Mi avvicinai per soccorrere mio marito che ora si puliva la camicia dalla maleodorante pappa per neonati.
- Ellie vuoi, per l'amor del cielo, mangiare qualcosa? - Provò per l'ultima volta Steve, il cucchiaio, rigorosamente rosa, a mezz'aria.
Afferrai il cucchiaio e feci per imboccare lui che si scostò, scuotendo la testa.
- Andiamo, papà, non vuoi dare il buon esempio?
- No ti prego Judith non farlo, puzza e solo l'idea di mandarlo giù mi fa venire il voltastomaco.
- Che sarà mai, un po' di pappa al manzo non ha mai fatto morire nessuno, paparino.
 
Ellie scoppiò a ridere, agitando le manine sul seggiolone, alla vista del papà che si tappava la bocca per sfuggire alla mamma.
- Lo mangi tu Ellie? - Chiesi alla piccola avvicinando il cucchiaino.
Elizabeth sporse le manine sporche di pasta molle ed aprì la bocca.
- Ho vinto io – Decretai dopo aver fatto mangiare tutto ciò che era rimasto nel piatto.
- Non ti vantare, avrò la mia rivincita! – Esclamò già sulle scale che portavano al piano superiore.
 
 
Stavo cullando Elizabeth quando Steve entrò in camera con in dosso l’accappatoio.
- Come mai sei tornato prima? - Chiesi non sapendo nemmeno se volessi saperlo davvero.
Steve non rispose, fece finta di non aver sentito e cominciò a cambiarsi per indossare il pigiama. - Steve ti ho fatto una domanda.
- Niente di nuovo Judith, hanno litigato di nuovo tuo fratello e Paul McCartney. – Disse a voce un po’ troppo bassa, infilandosi sotto le coperte.
- Perché? - Chiesi dandogli ancora le spalle.
- Nessuno sa bene il motivo ma la registrazione dell'album doppio si sta rivelando un lavoro immane. Ognuno occupa uno studio diverso, come se stessero svolgendo un lavoro individuale a nome del gruppo, a stento si guardano e quando lo fanno, beh, litigano.
 
Che John e Paul litigassero non era una novità, anzi, non passava giorno senza una scaramuccia tra i due. Ciò che più mi aveva colpito della frase di Steve era “ognuno occupa uno studio diverso, come se stessero svolgendo un lavoro individuale”.
 
Quello era strano.
 
Fin dall’inizio, fin da quando avevano cominciato a scrivere canzoni, le prove e la conferma del testo venivano decise in presenza di tutto il gruppo, nessuno si sarebbe mai sognato di registrare una canzone da solo, senza chiedere il parere dell’altro.
Ripensai all'ultima volta che avevo visto Paul, poco dopo la nascita di Steve e come John aveva reagito alla sua vista.
 
“- Judith tu e McCartney avete chiuso e se solo mi accorgo che tu ci pensi ancora, giuro che mi incazzo come non mi hai mai visto, intesi? - Ruggì verso di me che nascondevo il viso tra le mani, incapace di piangere. - Maledetto figlio di puttana, non lo riconosco più.
- È colpa mia – Mormorai.
- No la colpa è della sua testaccia, e di quella di tutta la fottuta band. Da quando Brian è morto sta andando tutto a puttane, Paul dice che non è vero ma sta andando tutto a puttane.”
 
- Stanno cominciando a dividersi. - Esclamai guardando oltre la finestra, verso il cielo uggioso di Londra, cielo che presagiva una terribile tempesta.
 
 
 
 
°oOoOo°
 
 
 
Quando John mi presentò la sua nuova fidanzata rimasi a dir poco impietrita.
Eravamo a Kenwood e vidi uscire dalla cucina una donna asiatica con dei folti capelli neri. Inizialmente pensai fosse la governante ma quando la donna posò un bacio sulle labbra di John per poco caddi dalla sedia a sdraio.
 
- Divorzierò da Cynthia. Lei è Yoko e intendo sposarla.
 
Furono queste le uniche parole che giustificarono quel gesto, parole a cui non riuscii a rispondere.

John e Cynthia, divorzio.

Quelle parole non riuscivano a stare insieme nella mia mente, non poteva essere vero, era, per caso, uno dei soliti scherzi di cattivo gusto di John?
Guardai la donna dal volto inespressivo con un cipiglio, non riuscivo a far combaciare l'immagine di mio fratello e di Yoko nella mia mente.
John era sempre stato innamorato perso di Cynthia, fin dai tempi della scuola d'arte in cui mi usò come cupido personale per scoprire di più sulla bionda dall'aria elegante.
 
- È una scuola femminile e io non sono ben visto dal preside, e da un paio di ragazze, forza, vai da lei e chiedile qualcosa, tipo l'indirizzo, il numero e se è disposta a scopare con me. - Esclamò poggiato al muro della scuola, dopo avermi accompagnata.
- L'ultima te la scordi. - Sbottai mentre mi sistemava la camicia e la divisa, passandomi la cartella.
Era il mio primo anno alle superiori e John mi accompagnava ogni giorno. Non gli ho mai chiesto se lo facesse per affetto o per spiare le ragazze.
Guardai in giardino, verso il gruppo di ragazze nel quale si trovava la ragazza che interessava a mio fratello. Erano tutte più grandi di me e mi vergognavo da morire a fare quello che mi aveva chiesto John.
- Dai John, è imbarazzante!
John mi prese per le spalle, era parecchio più alto di me e sporse il labbro inferiore battendo le ciglia in un'espressione che, probabilmente, avrebbe dovuto ispirare tenerezza.
Spinsi indietro la sua faccia con la mano che cercò di addentare e morsi il labbro pensierosa, guardando gli sguardi che le ragazze lanciavano a mio fratello e gli occhiolini con cui lui ricambiava.
Disgustoso.
- Va bene, ma voglio in cambio  cinque sterline – Sporsi la mano per accogliere i soldi.
- Sei un mercenario. - Sbuffò aggiustandosi il ciuffo pieno di gel.
- In anticipo o non se ne fa niente – Continuai come se niente fosse.
Mi scrutò con un sopracciglio alzato - Tre.
- Cinque, non fare il tirchio!
John rovistò nella tasca dei pantaloni offrendomi la banconota che intascai soddisfatta.
- È sempre un piacere fare affari con te, Winston. - Cominciai a camminare facendo oscillare la cartella, soddisfatta del mio guadagno.
- Muoviti oppure vado da McCartney e gli spiffero la tua cotta per lui. - E detto questo partii come una saetta verso la bionda.”
 
 
No, John non poteva essere serio, come poteva lasciare Cynthia, come poteva lasciare Julian?!
Yoko mi scrutava attentamente con i suoi occhi neri e profondi, la sua espressione era ferma, statuaria e, in sua presenza mi sentivo a disagio, come se John fosse per me un estraneo.
Spostai lo sguardo da John a Yoko più volte, alla fine sospirai pesantemente e, nonostante la freddezza della donna mi presentai con un sorriso.
 
- Sono Judith, è un piacere conoscerti – Le porsi la mano che fu stretta molto lievemente.
- Yoko – Esclamò in tono piatto.
 
John la attirò a sé, posandole un bacio sui capelli ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a comprendere il gesto di mio fratello.
Guardai Ellie che si teneva in piedi, afferrando saldamente la gamba di suo zio. Non sapeva ancora camminare ma si ostinava a stare in piedi per qualche secondo prima di cascare in terra.
- Sai che lei è la mia nipote preferita? – John si rivolse verso Yoko che guardava la piccola dagli occhi azzurri e i capelli scuri.
- Saluta Yoko, Elizabeth – Incitai la piccola che puntò gli occhi in quelli della donna, per poi agitare la manina paffuta.
- Ciao – Rispose Yoko sorridendole appena.
 
John prese Elizabeth in braccio che fu felice di stare sulle ginocchia di suo zio e cominciò ad accarezzarle la testolina mentre la piccola continuava a guardare la “nuova arrivata”.
Avevo visto fare diverse volte lo stesso gesto con Julian ed ora non riuscivo ad accettare il fatto che John volesse lasciare anche lui.
 
- Che ne sarà di Julian? – Esclamai tutto d’un tratto, senza nemmeno preoccuparmi di Yoko.
L’espressione di John si indurì all’istante e capii di aver toccato un tasto dolente, ma non mi importava, Julian mi interessava più della nuova fidanzata di John.
- Come se Julian sentisse la mia mancanza, non sono mai stato un buon padre per lui.
- Come puoi dire una cosa del genere John? – Mi alzai dalla sedia con uno scatto d’ira. – Lui è tuo figlio, tuo figlio! Posso anche capire che tu voglia lasciare Cynthia, ma che tu non voglia più Julian non lo posso accettare.
- Non devi, è una cosa che non riguarda te, stanne fuori – Sputò le parole con rabbia, senza guardarmi in faccia.
 
Restai attonita, la bocca ancora aperta, non mi sarei mai aspettata una frase del genere da mio fratello. Mi offesi a tal punto che sollevai Elizabeth dalle ginocchia di John e me ne andai senza aggiungere altre parole.
Arrivata al cancello d’ingresso sentii l’inconfondibile rumore dei passi affrettati di John e rallentai il passo.
 
- Scusami, Judith, scusami non volevo, non intendevo quello che ho detto.
- Non sono affari miei hai detto, giusto? – Urlai colpendolo in petto - Ma erano affari tuoi quando dovevo sposare Steve, erano affari tuoi quando stavo con Paul, sono stati affari tuoi tutti gli affari miei, invece io non posso mai dire niente su di te, dato che mi cacci via – Strillai e non capii nemmeno quando avessi cominciato a piangere.
John si passò una mano nei capelli, sfilò gli occhiali e pulì le lenti con il lembo della maglietta, tra il pollice e l’indice. - Tu lo pensi ancora, non è vero? – Disse in tono rauco.
 
Fissai John disarmata, punta nel vivo, non poteva farmi questa domanda.
Cercai di restare impassibile ma per me era impossibile mentire, soprattutto a John.
Con lui cedevano tutte le mie barriere.
 
- Ogni giorno che passa, ogni giorno penso che sarebbe potuto andare tutto diversamente. – Singhiozzai tra le lacrime mentre Elizabeth si lamentava per essere presa in braccio. – È come una spirale in cui non so cosa voglio e cosa devo fare. Ci sono momenti in cui amo Steve e altri in cui lo vedo come la causa della mia sempre più frequente insonnia. Momenti in cui il periodo con Paul mi sembra una favola ed altri in cui mi sembra una menzogna ben camuffata. Mi sento un'ipocrita, falsa, stupida. John non ne posso più!
 
John si sporse per stringermi tra le sue braccia e fu la prima volta in cui crollai dopo tutto quel tempo.
Piansi tutte le lacrime che avevo in corpo, tutte le paure e le insicurezze che avevo nascosto, chiuso in me stessa. Fu il momento in cui lasciai cadere la corazza per farmi aiutare da qualcuno.
 
- Pensa solo a te stessa e a tua figlia che è la persona che ami di più in questo mondo. Non pensare a Steve o a Paul, non pensare proprio a niente altrimenti impazzisci, capito?
Annuii lentamente, asciugandomi il viso con il dorso della mano. John mi prese il viso tra le mani, accarezzando le guance arrossate dal pianto. – Ricordi? Io sarò sempre dalla tua parte. Sono quello che le ha suonate al tipo che ti macchiò il vestito alle elementari e sono quello che farà sempre di tutto per non vederti più in questo stato. Ti voglio bene Judith. – Mi cullò come faceva quando ero piccola ed avvertii un piacevole senso di sicurezza. John era tutta la mia famiglia.
 
- Anche io John. E ti sbagli, sono due le persone che amo di più in questo mondo: l’altra sei tu.
 
 
 
°oOoOo°
 
 

And in the end, the love you take, is equal to the love you make”
 
La prima copia di Abbey Road fu data a me, da parte di George.
Avevo ripreso a lavorare al Sun dopo il primo compleanno di Elizabeth e mi offrii per scrivere l’articolo sull’album che avevano appena inciso. Sebbene nessuno dei quattro componenti lo avesse ammesso esplicitamente, quell’album faceva capire una cosa: questa è la fine.
John aveva ripetuto più volte il detto secondo il quale è meglio bruciare che sparire lentamente e quell’album ne era la prova. Con Abbey Road avevano raggiunto l’apice della loro carriera, della loro bravura, e non avrebbero fatto più nient’altro insieme.
 
A guardarli ora, cullati dal successo e adorati dalla folla, i quattro ragazzi che si stringevano in una branda ad Amburgo sembravano lontani anni luce.
Avevo scritto della loro carriera cercando di essere il più imparziale possibile, ma raccontando degli inizi, di Amburgo, del Cavern, di Liverpool, mi era presa una tale malinconia che avrei pianto se solo avessi potuto farlo.
Raggruppai i vari fogli con le bozze sulla scrivania mentre Elizabeth dormiva nella sua culla, stringendo la sua bambola di stoffa preferita.
 
- Hai scritto tutto il giorno – Esclamò Steve facendomi saltare di paura.
- È per lavoro.
Stavo provando a fare ordine tra i miei sentimenti ma mi sentivo una vigliacca, non avevo idea di cosa stessi facendo.
Avevo perso Paul definitivamente, ora era sposato ed era nata anche la sua prima bambina, era inutile che mi attaccassi a vecchi ricordi.
Anche perché sembrava appartenessero a persone diverse. 

 

angolo autrice.
Sono in ritardo, lo so, il fatto è che non riuscivo a scrivere altro, ero seriamente in blocco! Questo capitolo è stato diviso in due parti poiché, a mio parere, pubblicare entrambe le parti adesso sarebbe risultato pesante e non mi va di annoiarci ulteriormente!
Un bacione a tutti, spero di aver fatto un buon lavoro con  questo capitolo, anche se ho i miei dubbi!
JennyWren

P.s. Ho pubblicato una nuova storia, si chiama House of Wax, se vi va di leggere la troverete nella mia pagina EFP! 

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Capitolo 30
*** Please forgive me ***


Please forgive me.

1973.
 Il vento di Gennaio sferzava prepotente contro gli infissi della casa di Londra. Il clima freddo e decisamente pungente sembrava suggerire alle persone di starsene sdraiati a letto sotto le coperte, magari con una tazza di cioccolata calda. Purtroppo, sebbene l’idea fosse particolarmente allettante avevo deciso di lavorare proprio quella mattina, per cercare di terminare l’articolo da consegnare al “grande capo”.
E così, armata di vestaglia e the caldo battevo freneticamente le dita sulla macchina da scrivere.
 
Ormai lavoravo per lo più da casa, con l’arrivo di George dopo cinque anni dalla nascita di Elizabeth, andavo in ufficio al massimo dieci volte al mese. Lavoravo al mattino presto, prima che tutti si svegliassero, in modo da avere almeno due ore di pace e di silenzio in cui poter scrivere in tranquillità, prima di cominciare il mio lavoro a tempo pieno di moglie e madre.
 
Sfilai il foglio dalla macchina da scrivere e lo poggiai sul plico che già tenevo sulla scrivania, avevo finito e mancavano ancora almeno 10 minuti prima che la sveglia di Steve suonasse.
 
Strinsi le mani dietro la nuca per stiracchiarmi e guardai le foto poste sulla parete del soggiorno: una di esse ritraeva me e John a Mendiphs. Sullo sfondo si vedeva anche zio George intento a raccogliere dal giardino i nostri giocattoli.
L’altra, invece, ritraeva me, George e Paul al porto di Liverpool.
 
“- John sai scattare una fotografia? – Chiese Paul ridacchiando.
- Certo che lo so fare. Non sono mica stupido come te! – Sbraitò John cacciando via il fumo.
- Okay – Alzò le spalle Paul prima di tornare in posizione. Questa volta, però, non si limitò a stare di fianco a me e George, ma strinse il mio fianco delicatamente.
- Dannazione John, hai la macchina al contrario! – Urlò esasperato George.
L’espressione di John fu la goccia che fece traboccare il vaso. Io e Paul scoppiammo a ridere e John scattò una foto a dir poco orribile.”
 
 
- Judith?
Sobbalzai. Non avevo sentito che qualcuno stesse arrivando ed ero talmente immersa nei ricordi da non aver capito quanto tempo fosse passato.
- Buongiorno Steve. George ed Ellie dormono ancora?
- Sì. – Sbadigliò stropicciandosi gli occhi – Oggi vai in ufficio quindi porto George con me?
- Se non è un problema.
- È mio figlio, non è un problema – Sorrise e mi sfiorò le labbra con un bacio prima di andare in cucina a fare colazione.
 
 
 
°oOoOo°
 
 
 
Eravamo sulla soglia della porta, tutti imbacuccati, pronti per uscire. Elizabeth stringeva il pupazzo che John le aveva regalato, mentre George si agitava nel passeggino per cercare di uscire.
 
- Steve sarò di ritorno tra tre ore al massimo. George ha mangiato ma ti ho preparato la borsa con il necessario: frutta in pezzi, acqua, qualche giocattolo e anche con un paio di pannolini di ricambio. Nel caso dovesse succedere qualcosa…
- Sta calma! – Mi rimproverò Steve afferrandomi per le spalle. – Un bambino di otto mesi starà benissimo in una sala piena di amplificatori con il volume al massimo.
- Steve, cosa?! – Strillai in preda al panico spalancando gli occhi.
- Sto scherzando! – Rise cercando di abbracciarmi.
- Mi stai prendendo in giro. – Mi lamentai colpendolo sulla spalla.
- Mmh, sì.
- Ti detesto.
 
Steve rise ancora prima di salutare me ed Elizabeth che gli si gettò al collo.
- Hey, non far disperare la mamma. Prometti che sarai buona?
Elizabeth ci pensò prima di rispondere. – No!
 
 
°oOoOo°
 
 
 
Elizabeth saltellava al mio fianco, coperta dal cappotto di lana rosso e la sciarpa blu sembrava non accorgersi del freddo pungente di Gennaio. La bambina dai riccioli ramati cercava di evitare le linee nelle piastrelle della strada poiché, secondo la sua fervida immaginazione, queste erano fatte di lava.
 
Camminavo in modo molto più rilassato rispetto all’andata.
Al redattore l’articolo piaceva e lo avrebbe senza dubbio pubblicato.
“Solo qualche insignificante taglio, per il resto è semplicemente perfetto” Aveva detto e per me non esisteva complimento migliore, data la sua inclinazione nel giudicare “spazzatura” tutto ciò che i suoi occhietti miopi leggevano.
 
 
La bambina si fermò sul marciapiede prima delle strisce pedonali che avevano fatto da sfondo ad uno dei più celebri album dei Beatles e allungò la mano per farsela stringere, ma una volta a metà strada corse verso i cancelli degli Studios e si fiondò dentro per trovare suo papà.

Stavo per richiamarla quando qualcuno mi fece voltare.
 
- Non dirmi che quella è Elizabeth! – Esclamò sfregandosi le mani prima di togliere i guanti.
 
Lo osservai a lungo prima di stringere le labbra.
Indossava un cappotto lungo, la sciarpa era annodata elegantemente sul collo. I capelli erano decisamente più lunghi ma neri come li ricordavo e quegli occhi, Dio, avevo cercato in tutti i modi di dimenticarli ma ora erano proprio lì, a pochi passi da me, dritti nei miei e facevano ancora male.
 
Fui sicura di guardarlo a lungo poiché Paul spostò il peso da una gamba all’altra e distolsi lo sguardo.
 
- Sì, è proprio lei – Sorrisi in imbarazzo guardando dove la bambina era sparita.
- Ti somiglia tanto. Sembra te in miniatura. – Rise grattandosi il naso.
 
Conoscevo quel gesto. Era in imbarazzo.
 
- Io devo entrare. – Cercai di chiudere la conversazione.
- Anche io. – Aggiunse nell’esatto momento in cui terminai la frase.
 
Guardai in basso, non lo vedevo da anni ma l’effetto era lo stesso del Natale di sette anni prima, quando scoprii di aspettare Elizabeth.
Era semplice reprimere i ricordi, con il tempo avevano cominciato a sbiadire, le emozioni sembravano essersi affievolite ma averlo di fronte, beh era tutta un’altra storia.
 
- Ti prego Judith non ignorarmi. – Il tono di voce mi costrinse ad alzare lo sguardo.
- Paul… - Cercai di parlare ma non ci riuscii.
- Siamo andati avanti entrambi, io sono diventato di nuovo padre, ma ti prego, non ignorarmi. Sono anni che non ti vedo, non voglio perderti del tutto. Ho perso già John, i Beatles, non voglio perdere definitivamente anche te.
 
Aprii la bocca per parlare ma fui interrotta da Elizabeth.
- Mamma andiamo? Voglio Georgie! – Si lamentò la piccola aggrappandosi al mio cappotto. - Chi è? – Indicò Paul che sorrideva cordialmente.
- Non si indicano le persone Ellie! – La rimproverai - Lui, è un amico di zio John.
- Quello delle foto che sono a casa! – Chiese inclinando la testa incuriosita. – Ti chiami Paul, non è vero?
 
Tossii violentemente e cercai di nascondere il mio imbarazzo ma non ci riuscii.
Paul sbatté le ciglia ripetutamente mentre io cercavo un posto in cui sparire per la vergogna.
- Sì, mi chiamo Paul. – Si presentò cercando di non ridere.
 
- Ellie perché non cominci ad entrare? Mamma arriva tra un minuto. – Cercai di suonare il più rilassata possibile.
- Va bene. Arrivederci signor Paul! – Salutò trottando verso l’entrata.
 
 
Eravamo talmente in imbarazzo che scoppiammo a ridere entrambi. Elizabeth l’aveva combinata grossa ma era anche riuscita a rompere il ghiaccio tra me e Paul.
 
- Niente peli sulla lingua, giusto?
- Dio, Paul sono così in imbarazzo! – Mi coprii il volto con le mani cercando di trattenere la risata nervosa.
- Ma no, figurati. Però devo farti una domanda: hai mie foto a casa? – Chiese accigliato ma con un sorriso furbo sulle labbra.
Sgranai gli occhi. – No! Sono vecchie foto di me, te, George e John a Liverpool, tutto qui. Lei chiede sempre chi ci sia nelle foto e ti ha semplicemente riconosciuto.
Paul fece cenno di aver capito. Infilò le mani in tasca e inclinò un po’ la testa sorridendo.
- Chi è Georgie?
- Ehm, mio figlio. Ha otto mesi ed Elizabeth lo usa come un pupazzetto. Quel bambino è martire, te lo assicuro.
Paul rise. – Le mie sono lo stesso. Heather adora Stella, la più piccola, e la vuole sempre tenere in braccio. Poi Mary vuole giocare con Heather e prendere Stella. È un continuo. – Raccontò stanco ma orgoglioso.
 
Sorridemmo entrambi e sentii lo stomaco stringersi in una morsa dolorosa, mi era fisicamente difficile stargli di fronte.
 
- Paul devo andare, mi aspettano. – Affermai prima di voltarmi.

- No aspetta. - Esclamò senza guardarmi negli occhi.
- Cosa?
- Posso salutarti?
 
Inspirai violentemente sbattendo le palpebre più volte.
- Certo – Mi voltai completamente verso di lui cercando di imporre a me stessa una calma che sapevo di non avere.
 
Paul mi strinse a sé, mi avvolse con le sue braccia e respirai profondamente, rilassandomi al tocco. Portai le braccia dietro il suo collo e lasciai che mi stringesse a sé. Respirai il suo profumo, notai che non era cambiato minimamente e mi portò alla mente tutti i ricordi che avevo tentato di nascondere, di relegare in uno spazio remoto della memoria.
Restammo stretti l'uno nelle braccia dell'altro, nessuno dei due diceva nulla o accennava a diminuire la presa per sciogliere l'abbraccio.

- Sono ancora innamorato di te, Judith.
 
Fu solo allora che ritornai con i piedi per terra.
Mi allontanai quasi troppo bruscamente da lui, guardandolo spaventata.
 
- Judith, non volevo dirlo, ti prego perdonami. Non volevo! – Cercò di avvicinarsi ma io mi allontanai compendo un passo indietro; scossi violentemente la testa e lo guardai disarmata.
 
Era innamorato di me.
Dannazione, era ancora innamorato di me dopo tutto quello che gli avevo fatto! Come poteva?
 
- Sei proprio stupido. Come fai ad amarmi ancora? Io sono rimasta incinta di un altro mentre stavo con te. Ti ho ignorato per un anno intero. L’ho sposato e ho avuto da lui un altro figlio. Sei proprio uno stupido, McCartney! – asciugai le lacrime con il dorso della mano. – Non voglio vederti mai più.
 
Paul non rispose, non si mosse, non batté nemmeno gli occhi. Colsi la sua reazione come incentivo per andarmene ma una volta sulla soglia mi voltai un’ ultima volta per guardarlo.
Era immobile mentre il vento colpiva con cattiveria il suo viso scompigliandogli i capelli. Nonostante ciò non distoglieva lo sguardo da me.
Lo guardai a lungo prima di abbassare il capo ed andarmene.
 
 
 
Perdonami Paul, l’ho fatto per te.

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Capitolo 31
*** Death of an Hero ***


Death of an Hero.


 

- Oggi si fa l'albero! Oggi si fa l'albero! - Canticchiava il piccolo George di appena 8 anni nel salotto della casa londinese, pronto per uscire a comprare l'albero di Natale.
Raccomandai Elizabeth di tenere d'occhio Annie, ultima figlia con Steve prima del definitivo divorzio, per quelle poche ore che avremmo trascorso al negozio.

Sono circa le 15, quindi dovrebbe fare merenda, se ha fame dalle soltanto la purea di mele, nella dispensa. 
- Al secondo scaffale a sinistra – Concluse lamentandosi – Lo so mamma, lo so, sta tranquilla.

Stavo per replicare ricordandole che le raccomandazioni non sono mai troppe quando lo squillo del telefono mi interruppe.
 

- Sì? - Risposi indicando con gli occhi alla maggiore che la discussione prevedeva ancora qualche punto.
- Judy! - La voce mi fece spuntare un sorriso sulle labbra senza paragoni.
- Johnny! - Esclamai.
- È tanto che non ti sento, come stai, mia cara sorellina? - Chiese con quell'inconfondibile accento inglese che non accennava a sminuire nemmeno dopo tutto quel tempo in America.
- Sto bene, oggi pomeriggio ho in programma di comprare un albero per Natale. Georgie ne vuole uno vero a tutti i costi.

- È zio Johnny? - Chiese George cercando di tirarmi via il telefono.

- Sì è lui, dai che dopo te lo passo - Mi rivolsi al piccolo che ora correva dalla sorella per dirgli che al telefono c'era il loro zio preferito.

- Io credo di farlo in ritardo, anche se Sean ha tirato fuori tutti gli addobbi da una settimana. - Sentii il piccolo ridacchiare – Ehm, tu hai programmi per Natale?

Pensai al fatto che negli ultimi due anni il padre dei ragazzi non si era fatto sentire e dunque risposi – No, niente, anche perché Steve non credo si presenterà- Abbassai il tono di voce, sicura che non mi sentissero.

- Che stronzo – Commentò John –Beh allora che ne dite di venire qui?
Spalancai gli occhi – A New York.
- Beh, sì. È da tanto che non passiamo le feste insieme e mi andrebbe quest'anno.
Sorrisi un po' malinconica, rendendomi conto di quanto mi mancasse - Okay, ma non lo dire a George, gli facciamo una sorpresa.
- Giuro che non dico niente. Passami la pulce.

Ero così contenta di passare le feste in famiglia che ero prossima al pianto - Johnny? - Provai a tenere un tono fermo ma la voce era spezzata.

- Hey, riconosco quel tono e no, niente sentimentalismi adesso perché mi fai commuovere e ho un'intervista, devo essere bello per i miei quarant'anni.
- Sei il solito cretino Winston. 


Passai la chiamata a George che era letteralmente entusiasta di parlare con suo zio. Rideva di continuo ed ero quasi curiosa di sapere cosa si dicessero quei due di tanto divertente.

 La giornata fu allegra, comprammo un bell'albero che caricammo sull'auto e George era talmente di buon umore che si offrì per apparecchiare la tavola e far cenare la sorellina.

Io ed Elizabeth addobbammo l'albero chiacchierando di moda e di scarpe, anche se sapevo che tutto quel discorso celava il desiderio di un completo che aveva visto in un negozio. Glielo avevo già comprato ma mi divertiva un mondo sentire i suoi giri di parole e le lusinghe verso la mia cucina che sapevo essere tutto, tranne che “deliziosa”.

  

°oOoOo°


 

- George, Elizabeth, forza che il bus arriva tra poco! - Esortai i ragazzini che di lì a poco avrebbero fatto capolino in cucina.

Poggiai la piccola Annie nel seggiolone e mi voltai avendo avvertito i passi affannati dei due ragazzini dietro di me.
Ed ecco il copione mattutino: George con la camicia fuori dai pantaloni ed Elizabeth con la gonna messa male e lo zaino su una sola spalla.

- Sembrate due devastati – constatai, osservando il disordine dei primi due figli.

Annodai la cravatta di George concludendo con un buffetto sulle guanciotte tonde del mio bambino. Era in quarta elementare ma per me era ancora il piccolo che gattonava per casa con le manine paffute.

- Mamma! - Si lamentò dopo la raffica di baci sulle irresistibili guance.
- Avanti teddy boy prendi il pranzo sulla cucina e fila dritto a scuola – Ordinai in tono fintamente autoritario.

 - Cos'è adesso un teddy boy?- Chiese la maggiore spazzolando la frangetta.
- È un modo di dire di Liverpool, come “figo” – Le sistemai la divisa della scuola media. - Guarda qui che signorina!
- Si certo, sono piatta come una tavola - Si lamentò coprendosi con il cappotto.

 -Mettici due mele – Suggerì il fratello sulla soglia della porta. – Cosi puoi smetterla di riempire i reggiseni con la carta igienica.
-Stai zitto ritardato! – Cercò di afferrarlo, rossa dalla vergogna.
 

Sbuffai spingendoli letteralmente fuori la porta, calpestando il giornale del mattino ed aspettai fino a che il bus portò via i ragazzi che salutarono con un gesto timido della mano.
Afferrai il giornale calpestato e lo poggiai sul tavolino d'ingresso dove notai il telefono fuori posto.
Preparai la colazione anche per me, mentre Annie giocava con la sua bambolina. Il bollitore del té coprì totalmente i suoni della segreteria telefonica che mi avvisavano delle chiamate perse.

Appuntai mentalmente di ascoltarli dopo la colazione.
 

Era quello il mio momento di pausa: con i ragazzi a scuola, Annie che giocava in silenzio, solo io e il mio giornale.

Spiegai il quotidiano sul tavolo e lessi la testata:

 

Morte di un eroe: John Lennon sparato a morte fuori il suo appartamento di New York

 

Un grido di terrore partì dallo stomaco, fino ad esplodere nei polmoni, facendo cadere la tazza che si frantumò sul pavimento, riversando il liquido in schizzi che macchiarono il tappeto.

Lessi la prima pagina ed osservai le foto. Non era uno stupido scherzo.
Sembrava che tutto si muovesse al rallentatore, gli strilli di panico si susseguirono all'infinito, fino a farmi cadere a terra, fino a lasciarmi senza fiato, senza forza.

Tremavo, gli arti erano intorpiditi, rigidi, e urlai ancora strappando il giornale in mille pezzi.

Annie piangeva ma il suono arrivò ovattato alle mie orecchie che percepivano solo il rumore metallico di proiettili, tanto forte da spaccare i timpani.
Sentivo il sangue abbandonare le mie membra fredde. Fredde come la morte che aveva da poco accolto tra le sue braccia mio fratello.

John è morto...


Rovesciai a terra tutto ciò che avevo a tiro, riducendo la cucina un ambiente fumante di polveri e porcellane distrutte dalla mano di una persona pazza di dolore e graffiai il pavimento in legno con le  unghie, fino a spezzarle.

John è morto.

Mi accucciai a terra mentre il sangue pompava nella testa veloce come un treno e strillai il suo nome serrando gli occhi, sicura che se avessi strillato lui mi avrebbe sentito.


Io e John avremmo trascorso le vacanze di Natale insieme, non poteva essere successo, non era vero.

John è morto!

Perché?” Strillai ancora e ancora “John!” gridai come se fosse l'unica parola che avesse senso in quel momento ma nessuno rispose.
Le immagini di un corpo esanime sdraiato su di una barella e di un bastardo grasso con la scritta “assassino”, erano le uniche cose che vedevo e non riuscivo a credere che fosse successo davvero.
Graffiai il viso tanto violentemente da sanguinare e strillai ancora, non riuscendo a fare altro.

Poi un rumore sordo. Qualcuno varcò la soglia di casa, qualcuno trovò il mio corpo tremante e pallido a terra, qualcuno mi sollevò prendendomi la testa in grembo.

Quel qualcuno stava piangendo e riconobbi il mio stesso dolore nei suoi occhi.

Non era John, no, era Paul.

 
 

Mi aggrappai alla camicia umida di pioggia dell'uomo di fronte a me e soffocai parole sconnesse sulla sua spalla. Avvertii le sue lacrime bagnarmi la tempia e solo in quel momento riuscii a piangere.
Piansi fino a quando la forza me lo permise, stretta alla sola persona che poteva capire il mio stato d'animo. Piansi realizzando che era tutto vero e che non avrei potuto far niente per cambiare ciò che era successo.

Piansi fino a che i sensi si offuscarono e svenni.

 

°oOoOo°



Riaprii gli occhi e la prima cosa che avvertii fu un dolore esteso su tutto il corpo.

Non riuscivo a tenere le palpebre aperte, né a stringere un pugno.
Notai la figura di Paul, intenta a raccattare i cocci da terra e spostai lo sguardo a terra, dove vidi Annie raggomitolata a terra, vicino a me.

-Annie – Accarezzai la guancia della bambina di due anni addormentata.

Mi sollevai a sedere e presi la piccola tra le braccia che si svegliò e ispezionò il mio viso graffiato con le manine paffute.
-Mamma- Pronunciò e la strinsi al petto, rassicurandola.
 

Paul si limitò ad osservarmi, attese in disparte mentre lavavo la piccola e le cambiavo i vestiti, mentre la portavo in camera sua promettendole di giocare insieme più tardi.


Ci fu un lungo minuto in silenzio nel quale io e l'ex bassista ci fissammo negli occhi. Seduti in camera da letto, l'uno di fronte all'altro, mentre il vento gelido di Dicembre sembrava ululare il dolore che sentivo distruggermi dall'interno.

Paul abbassò per primo lo sguardo e restammo in silenzio a consumare le lacrime, fino a stringerci di nuovo tra le braccia sussurrando che non era così che doveva andare.

Strinsi il lembo della camicia tra le dita e percorsi a ritroso il segno delle sue lacrime, dal mento fino all'occhio, prima a sinistra, poi a destra, cercando di tenere la mano ferma, di limitare al minimo il tremore.

 
Restammo ancora immobili, gli occhi fissi in quelli dell'altro.


Paul strinse le punte delle dita sulla mia schiena e poggiò la sua fronte sulla mia, respirando lentamente, con le labbra schiuse ancora scosse dai tremiti del pianto.
Poggiai lentamente le mani sulle sue spalle e le feci risalire, fino ad intrecciarle dietro il collo.
Sollevò di poco il capo e sfregò in modo incerto le sue labbrao sulla mia tempia, fu un contatto talmente leggero che sembrò un soffio. Io risposi, lasciando un minuscolo bacio sulla linea della mascella.

Paul scese, soffiando un bacio un po' più sicuro sullo zigomo e quasi smisi di respirare, prima di rispondere baciandogli la guancia.

Unimmo le labbra solo dopo qualche minuto.

Il primo bacio fu quasi uno sfregamento di labbra, il secondo fu più deciso, il terzo fu un vero e proprio bacio, poi smisi di contarli e nessuno riuscì più a capire chi stava baciando l'altro.
Scivolammo sul letto senza staccare le labbra e prima di rendercene conto stavamo facendo l'amore.
Conoscevamo l'uno il corpo dell'altro, era come se quell'atto fosse consequenziale, il giusto rimedio per entrambi.
Ripetei il suo nome più volte, sorprendendomi di quanto fosse naturale e lui ripeté che mi amava e ci stringemmo e ci cullammo anche dopo ore, fino a quando non fummo sazi di affetto.

 
- Devo dirti una cosa, Paul. – Mormorai mentre mi accarezzava dolcemente le spalle. Mi strinsi ancora un po’ contro di lui e sollevai il viso per guardarlo. – Io ti ho mentito. – Pronunciai lentamente, intrecciando le mie dita con le sue.- Mi… Mi hai mentito? – Chiese accigliandosi.
- Sì. – Respirai profondamente - Quando ci siamo incontrati anni fa, ti ho detto che non volevo piùù vederti. Non è vero. Ho sempre voluto che fossi tu il padre dei miei figli. 
Paul mi guardò a lungo ma non lasciai che parlasse. - Il motivo per cui io e Steve abbiamo divorziato è perché non l'ho mai amato, nemmeno quando ne ero sicura, io non l'ho mai amato. Credevo che con il tempo lo avrei fatto ma non è mai successo. - Abbassai lo sguardo fino a posarlo sulle nostre mani intrecciate. - Ho sempre amato te, Paul, sempre. - Riuscii a confessare prima che Paul mi stringesse ancora verso di sé.

 

°oOoOo°

Riaprii gli occhi e la prima cosa che notai fu il temporale che si abbatteva sulla finestra.
Spostai lo sguardo sul posto in cui fino a poco prima si trovava Paul e notai che era vuoto, tranne che per un biglietto.

La calligrafia pulita recitava: Sono giù in cucina, Annie ha fame.

 Già sulle scale riuscivo a sentire la voce squillante della bambina intenta a presentare tutti i suoi giocattoli a Paul.
- Jojo – Sventolò il pupazzetto malconcio con i campanellini.

 

“- Juju ha la bici brutta, io ce l'ho più bella! - Cantilenava John in sella alla bicicletta che zio George aveva appena comprato a lui per il suo sesto compleanno.
- Non è vero! - Piagnucolai -E non mi chiamare Juju sennò io ti chiamo Jojo!
- Chiamami pure Jojo,tanto non mi arrabbio perché ho la bici nuova!”

 

Sentii il pianto ritornare in gola e mi accasciai sui gradini delle scale, cercando di reprimere i singhiozzi mordendo il palmo della mia stessa mano.
Annie corse verso di me e tentai in tutti i modi di mascherare il pianto, non volevo che la piccola capisse cosa stava succedendo, non volevo spaventarla.

- Mamma! - Corse allargando le braccia.
- Papà  - Indicò Paul ancora accovacciato a terra, immerso nei giocattoli
- No, lui è Paul, un amico della mamma - Le sistemai il maglioncino, accarezzandole i capelli.
 

 Squillò il telefono e feci scendere Annie che fu felice di salire sulle ginocchia di Paul.
-Judith, sono io, Sophia, ho provato a chiamarti ieri ma non rispondevi. In redazione siamo tutti preoccupati.
-Ieri George ha riposto male il telefono dopo aver parlato con... Con – Non riuscii a terminare la frase e riagganciai il telefono prima di accasciarmi contro il muro e piangere.
 

Paul mi venne incontro, offrendomi il suo abbraccio come sostegno nel quale sprofondai.
Poggiai il capo sul suo petto e lasciai che mi stringesse ancora a sé.

- Grazie Paul, per essere venuto da me. 

- Non dirlo nemmeno - Mormorò.

- Paul per quello che è successo prima io - ispirai profondamente prima di proseguire - io non me ne pento ma non voglio che tu ti senta in colpa.

Paul non rispose, si limitò a guardarmi negli occhi tenendomi ancora stretta a lui e mi baciò a lungo. Quel bacio risolse tutti i nostri trascorsi, fece riaffiorare i vecchi sentimenti ma significava anche un'altra cosa: fine.

Quel bacio segnava la fine del nostro rapporto.

Fu alla fine di quel bacio che infilò di nuovo il cappotto e si allontanò da casa, tornando dalla sua famiglia promettendo di esserci in qualsiasi occasione, per qualsiasi problema.

 

 

°oOoOo°

 

 - Judith, non puoi restare così, devi reagire, devi andare avanti! - Urlava Sophia verso la mia figura nascosta tra le coperte. - Hai dei figli da mantenere, non puoi mollare!

Ciò che Sophia non capiva era che insieme a John una parte di me era morta, e la restante si stava lentamente consumando, riducendomi ad un essere vuoto, inconsistente, che aveva perso la voglia di andare avanti. Ero di nuovo sola al mondo e non avevo nessuno dalla mia parte.

Il passato schiacciava, annichiliva e distruggeva ogni mio pensiero razionale, ogni mia voglia di vivere, tormentandomi con le sue immagini di una vita che ormai non mi apparteneva più.

Avevo perso tutto.

Udii il suono del pianto dei miei figli ed una piccola fiammella si accese, un minuscolo puntino di luce nell'oscurità che attanagliava la mia anima.

Dovevo farlo per i miei figli.

Accettai gli antidepressivi.

 

°oOoOo°

 

Svenni. Un attimo prima ero seduta alla scrivania dell'ufficio e un attimo dopo ero in ospedale, la mano di Sophia stringeva la mia.
- Sei crollata all'improvviso - Mi disse mentre un medico tornava con la cartella clinica tra le mani.
- Io stavo bene, non capisco – Pronunciai accigliata.
- Salve – Salutò il medico con un sorriso cordiale sulle labbra, porgendomi la mano che strinsi. - Ha idea del motivo per il quale è svenuta?
- Speravo lo dicesse lei. - Intervenne Sophia terribilmente preoccupata.
- Potrebbe essere un effetto collaterale degli antidepressivi?
Il medico scosse la testa aprendo la cartella clinica e mi informò del motivo per il quale avevo perso i sensi; Sophia portò le mani alla bocca, io le strinsi tra i capelli.

 No!




Angolo autrice.
Non so cosa dire, sono certa che una gran parte di voi mi odierà per questo capitolo mentre la restante non si esprimerà nemmeno. Odio e amo questo capitolo, e ci ho messo davvero tutto l'impegno possibile per scriverlo.
Siamo a meno uno dalla fine, il prossimo sarà l'epilogo che pubblicherò la prossima settimana.
Voglio ringraziare tutti coloro che continuano a leggere la mia storia, in particolare Yashi_, TheRollingBeatles, _Sillylovesongs_ e SlowDownLiz che hanno recensito il precedente capitolo.
A presto 

JennyWren

 

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Capitolo 32
*** Page ***


P A G E

1995
 
Paul McCartney si era appena seduto sulla poltrona di pelle del salotto della casa londinese quando il telefono cominciò a trillare incessantemente.
Sospirò pesantemente, voltando il capo verso l’apparecchio che aveva disturbato la sua quiete e fece una smorfia, non aveva intenzione di alzarsi.
- James! - Provò a chiamare suo figlio che non rispose, probabilmente era fuori a giocare, data la bella giornata di Settembre.
 
Si alzò sbuffando, trascinandosi fino al telefono e, poggiando la fronte al muro freddo, rispose.
- Pronto?
- Chiamo dall’ufficio legale. Paul McCartney?
 
Paul smise di aprire e chiudere la rubrica che si trovava vicino al telefono e si rizzò con la schiena - Sì, mi dica.
La donna parlò in modo freddo. - Si tratta della signora Lennon.
“Yoko” Pensò Paul. “Che diamine vuole stavolta?” - Lennon?
- Judith Lennon, signore.
Paul spalancò gli occhi afferrando saldamente il telefono - Che cosa è successo? - Il tono di voce precedentemente calmo cambiò in uno ansioso e terribilmente preoccupato.
- È venuta a mancare ieri pomeriggio.
 
Paul sentì le ginocchia cedergli e la testa girare vorticosamente.
Era senza fiato.
Doveva essere uno scherzo, un fottuto scherzo.
 
- Come?! - Chiese incredulo mentre una lacrima cominciava a scendere dagli occhi chiari.
- Non sono stata informata dei particolari ma la questione è un’altra.
 
 
 
 
 
 
Sfrecciava in autostrada senza curarsi dei clacson che lo rimproveravano dei sorpassi. Sarebbe arrivato a casa sua in meno di dieci minuti.
 
“Perché? Perché fino alla fine hai voluto affrontare tutto da sola? Perché l’ho dovuto sapere così?”

Stringeva forte il volante tra le mani, battendo ditanto in tanto le mani in un gesto frustrato e disperato,  mentre le lacrime scendevano copiose dalle guance; in mente una sola immagine con una sola frase.


Frenò sul vialetto di casa sua, di quella che era casa sua e, camminando pesantemente sul terreno di ghiaia, bussò alla porta rossa, la porta che lo aveva accolto così tante volte, la porta dietro la quale Paul e Judith avevano condiviso momenti semplicemente indimenticabili.
 
Paul si trovò davanti ragazza di circa venticinque anni, e quasi smise di respirare nel notare la somiglianza tra la giovane e Judith, la sua Judith.
- Mi scusi? Lei…
 
Ascoltare anche quel tono di voce così maledettamente simile al suo fu una pugnalata al petto e Paul non riuscì a resistere dall’asciugarsi una lacrima.
Ingoiando più volte tentò di presentarsi come - Un caro amico della mamma.
 
La ragazza lo fece passare e Paul, senza togliersi la giacca entrò in salotto dove gli altri figli di Judith erano riuniti in silenzio.
Riusciva quasi a sentire la presenza tangibile di Judith in quella casa.
Dal modo in cui i libri erano riposti nella libreria e i vinili erano in perfetto ordine sugli scaffali. Era anche tipico di Judith avere tanti cuscini colorati sul divano, le tende aperte per illuminare le camere.
 
Aveva quasi voglia di chiamarla, di dirle di smetterla di scherzare, e farla spuntare fuori da qualche anfratto della cucina con il suo tipico sorriso, quello che gli riscaldava il cuore, ma poi notò dei ragazzi sul divano con delle espressioni distrutte e tutto tornò improvvisamente reale.
Judith non era in cucina, nemmeno fuori in terrazza. Non stava preparando la cena o curando le siepi, No, non c’era.
 
 
La più grande dei figli si presentò come Elizabeth, aveva ventisette anni, poi c’era George di ventitré, Annie di sedici e Paul di quattordici.
Non fu a causa del nome, a Paul bastò guardarlo per capire che Judith non aveva mentito.
Il più piccolo, quello con la chitarra in mano, girato di spalle nell’angolo era suo figlio.
Lo vedeva da come portava la chitarra in mano, da come si accovacciava su di essa, da come il capo scuro si inclinava a quel suono.
 
Gli ricordava tanto un ragazzino che alla sua stessa età aveva perso la mamma.
 
Elizabeth capì in un attimo cosa fosse successo ed era quella che, a differenza degli altri, era la copia della madre.
Paul ed Ellie, così aveva preferito farsi chiamare, parlarono a lungo, attorno al tavolo quadrato della cucina, spesso la ragazza si interrompeva per reprimere le lacrime ma riuscì comunque a definire i contorni della situazione che aveva spinto Judith a togliersi la vita.
 
Judith era forte, una vera roccia per gli altri ma all’interno aveva delle crepe, dei veri e propri squarci che la rendevano fragile.
Si era sempre occupata dei figli, a volte dimenticandosi di sé stessa.
Ellie era sposata e non riusciva a capire il comportamento della madre, aveva dei fratelli ancora piccoli e non poteva lasciarli da soli, li avrebbe tenuti con sé.
 
“La storia si ripete per i Lennon”, pensò Paul.
 
- Paul porta il cognome della mamma - Ad Ellie si incrinò la voce nel menzionare Judith.
Paul annuii. - Testarda anche in questo - Commentò stringendo i pugni sul tavolo, con l’ombra di un sorriso amaro sulle labbra. 
- La mamma parlava spesso di voi, di te e di zio John, intendo. Ogni volta le scendeva una lacrima ma diceva sempre che voi eravate indispensabili per lei. Papà è andato via quando Annie è nata, è stato un maldestro tentativo di restare insieme. Ma ha sempre voluto bene ad Annie, sia chiaro. - Si asciugò una lacrima e tentò di controllare la sua voce. - Poi è arrivato Paul e lei sembrava così felice e rilassata che, quella solita malinconia che le velava gli occhi sembrava sparita, nessuno si aspettava quello che è successo! - Scoppiò in lacrime e Paul la strinse per confortarla. - Dopo la morte di zio John, la mamma è crollata, cambiando completamente. Era diventata dipendente dagli psicofarmaci ma rifiutava di andare in una casa per curarsi. Ieri mattina ha avuto l'ennesima crisi ma i ragazzi erano a scuola; io ho chiamato a casa per chiederle se stesse bene ma non rispondeva nessuno ed ho avuto paura, una terribile sensazione che fosse successo qualcosa. - La ragazza si coprì il volto con le mani prima di proseguire. - Quando l'ho trovata a terra respirava ancora ma per i medici non c'è stato verso di fare niente!
 
Paul era troppo scosso per scoppiare in lacrime come lei, troppo segnato ed emotivamente distrutto per sfogarsi. Ma lasciò che la maggiore si rompesse in un pianto liberatorio.
Elizabeth non aveva spiegato ai suoi fratelli più piccoli tutta la verità, sarebbe stata troppo dura da sopportare per due ragazzini appena adolescenti.
 
- Vostro padre, Steve? – Provò a chiedere Paul, ma pentendosene subito dopo aver visto l’espressione della ragazza.
- Da quando ha saputo di Paul lui non ha voluto sapere più niente di noi. Ora si è risposato e vive in Germania. – Pronunciò in modo piatto, privo di sentimenti -  Sia chiaro eh, lui non ne voleva sapere niente di noi già da quando io e George eravamo piccoli. È stato un continuo litigio, la mamma voleva che se ne andasse e lui invece tornava a casa ubriaco. Ah quante volte abbiamo sentito la mamma implorare che lui la smettesse! – Serrò i pugni e Paul si sentì morire dentro.
 
 
Tornarono in salotto dove gli altri ragazzi erano seduti e Paul lo vide per la prima volta.

I capelli scuri, quasi neri gli incorniciavano il viso tondo nel quale due occhi verdi troneggiavano. Gli somigliava così tanto ma somigliava tantissimo anche a lei, il nasino piccolo e un po’ all’insù era come il suo e Paul avrebbe voluto tirare le testa nel muro così forte da farsi male fino a sanguinare, pur di non trovarsi nella situazione di riconoscere suo figlio dopo la morte di Judith.

Avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente.
 
- Lui è Paul McCartney, un amico della mamma - Lo presentò Ellie.
Gli altri figli gli strinsero la mano, tutti, tranne il più piccolo che continuava a fissarlo stupito, con quegli occhioni spalancati e le labbra rosse socchiuse.
 
- Paul? - Chiese, senza staccare gli occhi dai suoi.
- Come te - Rispose Annie, guardando suo fratello.

Paul avrebbe voluto dirle che si ricordava di lei, che si erano già visti, ma avrebbe dovuto spiegare un sacco di cose e quello di certo non era il momento giusto.
 
- Tu – Il ragazzino scattò in piedi rovesciando la chitarra a terra che finì ai piedi di Paul. Scosse la testa più volte, perdendosi nello sguardo dell’adulto di fronte al lui. - Tu sei quel Paul! – Urlò  puntandogli il dito contro, prima di scappare fuori al giardino, correndo come una furia.
 
Elizabeth strinse le braccia al petto mentre George fece per alzarsi ed andare da suo fratello.
Paul sollevò la chitarra da terra e non poté far a meno di notare le incisioni sul retro.
Judith aveva dato a suo figlio la chitarra che lui le aveva regalato il loro primo Natale insieme.
Paul la osservò ricordando l’espressione di Judith alla vista dello strumento, ne toccò i tasti al ricordo della ragazza seduta sulle sue gambe, con un’espressione concentrata dipinta sul volto, intenta ad imparare gli accordi che lui le spiegava con tanta pazienza.
 
Per Paul accettare la morte di Judith era difficile quanto accettare la morte di John, cosa che, seppur dopo quindi anni, non era riuscito ancora a fare. Avverrtiva ancora quella voragine nel petto nel momento in cui veniva nominato il suo amico, il suo migliore amico, quando distrattamente parlava della sua adolescenza con i suoi figli.
Poggiò la chitarra sul divano e chiese di poter accertarsi delle condizioni del ragazzo.
George lo guardò a lungo prima di annuire.
- La prego, Paul è un ragazzino. – Pronunciò prima di lasciare che Paul lo seguisse.
 
 

Era di spalle, strappava le foglie dalla siepe e le buttava a terra, ma la schiena sussultava di tanto in tanto.
Paul si avvicinò con cautela, attento a non spaventarlo e turbarlo più di quanto già non fosse.
- La mamma me lo diceva che un giorno l’avrei saputo, ma non volevo che fosse così. - Strappò un ciuffo di foglie, voltandosi.
- L’ho saputo stamattina anche io.
 
Ma il ragazzino proseguì come se non avesse detto nulla. – Lo immaginavo diverso, sai? Credevo che un giorno vi sareste rincontrati e che saremmo andati a vivere tutti insieme.
 
Paul sollevò gli occhi al cielo, reprimendo le immagini di un’ipotetica vita con il loro bambino, prima di guardarlo ancora.
Suo figlio singhiozzava sonoramente e in quel momento Paul combatté l'istinto di stringerlo tra le sue braccia per cercare di far svanire almeno un po' del suo dolore.
 
 - Anche io ho perso la mia mamma quando avevo la tua età. Reagivo allo stesso modo, con la chitarra. Appena sono entrato e ti ho visto di spalle l’ho capito. Prima di vederti. - Si avvicinò con cautela al ragazzino che sedeva a terra con le gambe incrociate, asciugandosi le lacrime con il dorso della maglietta.
 
 
Il piccolo Paul guardò l'uomo che per lui era ancora uno sconosciuto, esaminando i lineamenti di quel viso di cui la mamma spesso gli parlava.
 
- Parlava spesso di te, con me intendo – Pronunciò dopo un po' di tempo, accarezzando l'erba corta. - Diceva sempre "il tuo cognome è quello della mente e il tuo nome quello del cuore dei Beatles". - Fissò a lungo l'uomo che ormai, incapace di controllarsi, singhiozzava con il viso tra le mani.
 
Il piccolo Lennon lo osservò a lungo e tentennò parecchio prima di posare delicatamente una mano sulla schiena dell’uomo seduto al suo fianco.
 

“- Sai Paul, tuo padre era davvero bellissimo, e tu gli somigli davvero tanto! A volte mi sembra di vederlo, nel modo in cui scrivi, nel modo in cui sorridi. Gli somigli davvero tanto.”  Le aveva detto una volta, mentre Paul leggeva in giardino. Lui Aveva riso, aveva riso davvero tanto quando glielo aveva detto, ma adesso, avendolo a pochi centimetri di distanza si rese conto di quanto sua madre avesse ragione. Aveva davanti suo padre, il suo vero padre, e non riuscì a trattenersi.

Il ragazzino si fece spazio tra le braccia di Paul che non esitò a ricambiare la stretta, accarezzando i capelli di quello che sarebbe stato il suo ultimo ricordo della donna che aveva sempre amato.
- Oh Paul, mi dispiace così tanto, non sapevo nulla, Paul ti prego non essere arrabbiato con me – Pianse l’ex bassista dei Beatles, stringendo le piccole spalle del ragazzino – Ti prego.
- Non lo sono, ti credo – Esitò stringendosi forte l’uomo per sussurragli – papà.
 
Restarono in quel groviglio di braccia, di respiri mozzati dalle lacrime e dolore per ore e ore, non avevano intenzione di lasciarsi nemmeno per un minuto.
L'unica cosa che era rimasto ad entrambi era l'altro, Paul non aveva intenzione di lasciare suo figlio, voleva che il ragazzo stesse con lui. Il solo pensiero di lasciarlo andare era fisicamente doloroso per il musicista.

 
 
 

Il giorno del funerale Elizabeth prese la lettera che Judith aveva lasciato da leggere, le tremavano le mani talmente tanto che suo fratello George dovette sorreggerla.
Erano tutti seduti intorno al tavolo quadrato della cucina, guardandosi negli occhi l'uno con l'altro, tenendosi le mani a vicenda. 
 
Miei adorati,
a volte la vita gioca brutti scherzi alle persone migliori.
Questa volta è toccato a voi, perché se state leggendo questa lettera vuol dire che io non ci sono più.
Prima di piangere, prima di qualsiasi altra cosa, dovete ricordare solo questo: io vi amo. Vi ho sempre amati e continuerò a farlo adesso e per sempre.
Se ho preso questa decisione è perché non avevo più posto qui, ormai non ne faccio parte più da tempo.
Vi prego, non giudicatemi male, non pensate nemmeno per un momento che io vi abbia abbandonati perché non è così.
Voi quattro siete la cosa più bella che il mondo abbia mai visto, siete dotati di una luce che risplende dentro e contagia chiunque voi incontriate.
Siete i figli migliori che io possa avere e mi sento in colpa perché a voi sono capitata io come madre.
Ma ricordate sempre che voi,
Paul, Annie, George, Elizabeth,
Siete stati la pagina più bella della mia vita.
Judith.
 
Annie balzò dalla sedia per prima, per abbracciare sua sorella il cui pianto risuonava nella cucina poco illuminata, seguirono George e Paul che si chinarono su di loro per stringersi insieme. I ragazzi restarono stretti e il resto delle persone che si trovavano in casa non riuscì a trattenere le lacrime alla vista di quei quattro ragazzi distrutti dal dolore, nemmeno Paul che aveva ascoltato la lettera da dietro la porta riuscì a trattenersi, crollando su una delle sedie più vicine con il viso tra le mani.
 
Elizabeth si avvicinò lentamente verso Paul, dopo che tutti se n’erano andati e gli porse un cartoncino stropicciato. Paul sollevò lentamente gli occhi prima di afferrarlo lentamente.
 
“- Andiamo Paul, solo una foto! Per favore – Batté le ciglia in modo civettuolo una  Judith appena ventunenne.
- Ma sono in pigiama! – Si lamentò Paul sprofondando con la testa tra i cuscini del divano.
Judith si arrampicò addosso al ragazzo, puntellando i gomiti al lato della sua testa. – Ho detto fai una foto con me, bassista da strapazzo – Mormorò dritto nel suo orecchio, mordicchiando il lobo dell’orecchio del giovane.
Paul sospirò, soggiogato da quei gesti. Le sfilò la macchina fotografica dalle mani e la baciò a lungo, intrecciando le dita nei capelli ramati della ragazza. Poi un attimo prima di staccarsi dalle sue labbra scattò la foto ad entrambi, immortalando quel momento di genuina felicità all'inerno di una carta fotografica conservata gelosamente dal proprietario.
- Contenta, Lennon? - Chiese Paul dopo aver invertito le posizioni.
- Cristo Paul, tu mi fai impazzire – Sussurrò prima di abbandonarsi completamente a lui.”
Paul non riuscì a guardarla, non ne aveva la forza. La chiuse nel portafogli e sorrise alla ragazza, come ringraziamento. Elizabeth avrebbe voluto fargli tante domande, voleva sapere di più sul passato di sua madre, ma capì che non era il momento di chiedere nulla a Paul.

 
 
 
 
Paul aiutò i figli di Judith, passando spesso del tempo con loro, invitandoli a casa sua durante le feste, facendoli sentire meno soli. Infondo, li sentiva un po’ tutti figli suoi.
Annie decise di vivere con Elizabeth,  George studiava all’università di lettere e viveva Londra per conto suo. In una delle sue ultime telefonate aveva riferito al fratello di aver trovato “una ragazza fantastica!”.
 
Il test confermò la verità e Paul andò a vivere fino al compimento dei diciotto anni a casa dei McCartney, anno in cui andò a studiare in Italia, mantenendo il cognome di sua madre, scelta che suo padre aveva comunque rispettato.
 
E anche se Judith non c’era fisicamente, le cose, alla fine, andarono per il verso giusto.
 
 
 
Fine.
 
 
 
 
 
 
- John, possibile che con tutto questo spazio io debba tenere i tuoi piedi in faccia? Ma che schifo!
- Ma che lagna colossale che sei, Judith! Tanto sono eterei, nemmeno puzzano.
- Eterei o no, toglili da mezzo.
 
 
 
 
 
Angolo autrice.
 
Ebbene sì, ho messo la parola fine a questa storia, non potete immaginare quanto sia stato difficile ma ho dovuto farlo.
Non so cosa dire, è davvero strano scrivere il mio commento alla fine della storia, della mia prima storia.
Voglio ringraziarvi tutti, dal primo all’ultimo che ha letto questa storia, facendola balzare al secondo posto tra le più popolari. Ma non è questo che conta, è il fatto che voi, mie care lettrici, mi abbiate sempre supportata, scrivendo recensioni fantastiche, incitandomi a scrivere e a migliorare sempre di più, spero di non avervi mai deluse.
Ci sono persone che mi hanno seguita dall’inizio, che hanno aspettato i miei capitoli pubblicati con mesi e mesi di ritardo. Non so come ringraziarvi!
 
Come qualcuno di voi sa, ho cominciato un nuovo progetto, House of wax, spero di ritrovarvi anche lì!
 
Vi ringrazio tutti.
With love
JennyWren

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