Unforgivable

di Lady_Cassandra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Vita in famiglia ***
Capitolo 3: *** Tristi scoperte ***
Capitolo 4: *** Momenti difficili ***
Capitolo 5: *** Idee sbagliate. ***
Capitolo 6: *** Imprevedibile ***
Capitolo 7: *** Riunione di gruppo ***
Capitolo 8: *** Corsa contro il tempo ***
Capitolo 9: *** Finalmente ti ho trovata. ***
Capitolo 10: *** Rimettendo in ordine. ***
Capitolo 11: *** The last days. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 
Si girò sull’altro lato della poltrona e fissò sua figlia, la sua bambina, stesa su quello sterile letto di ospedale. Improvvisamente scoppiò in lacrime, quelle stesse lacrime che aveva cercato di trattenere così a lungo al punto da sentirsi bruciare dentro, cominciarono a scivolare lungo le sue guancie, bagnandogli tutto il viso.
Non riusciva a guardarla, non era semplicemente capace; era una ferita bruciante e fin troppo dolorosa.
Ciò che era successo lo torturava, si sentiva dannatamente in colpa per non averlo potuto impedire; lui, Spencer Reid, con ben più di 25 anni di esperienza nel F.B.I. non poté evitare che sua figlia fosse rapita.
Distolse lo sguardo da sua figlia e notò sua moglie agitare la cartella di Elizabeth in aria intanto che discuteva con un suo collega in corridoio. Fece un respiro profondo, cercando di calmarsi e senza rendersene conto si addormentò.

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Capitolo 2
*** Vita in famiglia ***


Vita in famiglia 

 
“Pensai a quello che mi aveva detto sul coraggio, su come bisognasse toccare il fondo per vedere chiaro se stessi” (Erika Jong, Paura di volare.)
 
 
Spencer Reid rinchiuso nel suo studio a controllare i fascicoli da archiviare, come era solito fare ogni mattina, sentì una voce femminile e ben modulata chiamarlo. “Papà, papà.”
Alzò lo sguardo e vide sua figlia in piedi sulla soglia della porta che batteva i piedi nervosamente contro lo stipite. “Dimmi, Ellie. Ti serve qualcosa?” le chiese sorridendo mentre si toglieva gli occhiali.
“Mi devi accompagnare a scuola, la macchina è ancora dal meccanico e mamma è già andata in ospedale...” gli disse abbassando lo sguardo per terra. Non sopportava di dover chiedere un passaggio a suo padre, erano anni ormai che ne faceva a meno.
“E l’autobus non è passato?Jules mi ha detto che...”
“Si è passato, solo che io l’ho perso. Allora me lo dai questo passaggio o devo chiamare a qualcun’altro? “ gli rispose stizzita interrompendolo. Si era già pentita di averglielo chiesto, ogni volta la storia si ripeteva, il nome della figlia perfetta saltava fuori svelando la cosa giusta da fare, l’unica possibile.
Suo padre fece un profondo respiro. “No, va bene. Ti accompagno io, tanto devo portare pure tuo fratello a scuola. Aspettami giù, finisco qui e vi porto” le riferì ed iniziò a sistemare le ultime carte sparse sulla scrivania.
“Ok…” farfugliò sua figlia, scomparendo in corridoio.
 
 
Scese al piano di sotto e notò che i suoi figli erano già saliti nella vettura, si affrettò a raccogliere i fascicoli depositandoli nella sua tracolla ed uscì di casa.
Una volta salito in auto, si accorse che sua figlia non aveva lo zaino. “Niente zaino, Ellie?” le chiese intanto che metteva in moto il veicolo.
“No, tanto i libri sono già a scuola” accennò laconica sistemandosi la cintura.
“Quindi niente compiti…” dedusse un po’ infastidito. Il totale menefreghismo di sua figlia riguardo la scuola lo lasciava sempre perplesso.
“Non è mica una novità” osservò Thomas, suo figlio minore, ridendo.
“Come sei spiritoso” rispose Elizabeth facendo una smorfia.
“Ragazzi, vi prego. Non cominciate”  li pregò quasi pentendosi di aver accettato di accompagnarli. Ogni volta assisteva ai loro litigi, sapeva che si volevano bene, erano tutti e tre molto affiatati e che quei litigi continui ne erano anche una prova, oltre che un normale comportamento fra fratelli, ma ogni volta gli provocavano mal di testa.
Accese la radio con il desiderio che si concentrassero sulle canzoni e smettessero di battibeccare e si diresse verso la scuola di Ellie, cercando di far il più presto possibile. Era in tremendo ritardo, ancora una volta. Ormai erano tutti abituati ai suoi ritardi.
Era completamente immerso nei pensieri che fluivano lineari dalla sua mente quando sua figlia ne interruppe il filo. “Puoi lasciarmi qui” affermò slacciandosi la cintura di sicurezza.
“Ma se non siamo neanche al cancello!” replicò il dottor Reid. “Manca circa mezzo isolato...” aggiunse, premendo comunque il pedale del freno, tanto lo sapeva che non avrebbe vinto contro sua figlia, non ci era mai riuscito.
“Vado a piedi. Ciao, ci vediamo dopo” lo salutò in fretta e scese dalla vettura sbattendo lo sportello. S’incamminò immediatamente verso il cancello dove l’aspettavano i suoi amici fermi davanti l’ingresso di scuola intanto che  s’intrattenevano a parlare con altri loro  compagni di classe. 
“Ce l’hai fatta, Reid. Pensavamo che non ti saresti presentata...” commentò Colin, il suo migliore amico, non appena fu arrivata.
Ellie inarcò il sopracciglio. “Perché non sarei dovuta venire?” domandò guardando perplessa l’amico.
“C’è l’interrogazione di biologia oggi, Els” le ricordò Nicole, l’altra amica d’infanzia di Ellie, ridendo.
“Oddio, me n’ero completamente scordata!e adesso che faccio? non ho toccato libro...” si allarmò per qualche secondo, preoccupazione che durò ben poco. 
“Come al solito, d’altronde” disse, infatti, suscitando le risate fragorose di Nicole e Colin.
“C’è tuo padre o mi sbaglio?” li interruppe Blair, indicando una berlina nera con le frecce di emergenza accese.
“Sì, è lui” confermò, sospirando. Fece immediatamente un segno con la mano al padre invitandolo ad andarsene.
Spencer la guardò e fece un cenno affermativo con la testa ed infine ripartì. “Beh se non altro oggi a scuola è entrata...” pensò. Era a conoscenza delle continue assenze di sua figlia, e ovviamente anche dei suoi pessimi voti.
La verità era che lui e quella ragazza non avevano nulla in comune, a parte l’aspetto. Già, Elizabeth era identica a lui, gli stessi capelli, gli stessi occhi, anche lo stesso sorriso, a volte nei suoi gesti aveva notato sé stesso. Tuttavia caratterialmente non gli somigliava affatto, anzi a dire il vero non somigliava nemmeno a sua madre.
Era una cosa a sé, l’unico suo interesse era la musica. A volte si chiedeva se avrebbe mai combinato qualcosa nella vita, a parte guai ovviamente, ma preferiva non pensarci; in fin dei conti era più semplice così.
Si voltò verso il figlio che gli aveva lanciato un’occhiata stranita tramite lo specchietto retrovisore e gli scompigliò i capelli. “Tu non mi farai dannare, vero?” domandò retorico sorridendo, Thomas era ancora piccolo non avendo compiuto nemmeno dieci anni, perciò sperava ancora che nella sua adolescenza non diventasse irascibile come la sorella maggiore.
Il figlio fece spallucce e scoppiò a ridere. “Ci proverò” lo rassicurò, a quel punto erano arrivati davanti la scuola elementare di Thomas e lo accompagnò all’ingresso, dopodiché lo salutò raccomandandolo di comportarsi bene e ripartì.
 
 
Entrata nell’aula, Elizabeth si affrettò a raggiungere il suo posto, in fondo alla classe. Sperava ardentemente che la professoressa Andrews non la vedesse, non oggi almeno, un’altra F non era esattamente tra i suoi piani, sperava di poter recuperare nel migliore dei modi possibili, e di certo l’ennesimo brutto voto non avrebbe giovato alla sua ormai precaria situazione. Sapeva di doversi impegnare, che forse, anzi molto probabilmente, non ce l’avrebbe fatta a passare quell’ultimo anno. Ma nonostante questa consapevolezza, Elizabeth faceva finta di nulla, continuando a far la stessa cosa di sempre, ovvero niente.
Mentre pensava ad una probabile scusa per saltare l’interrogazione, notò i suoi compagni intenti a ripetere senza sosta con il libro sulla gambe e si mise a ridere nel vederli così disperati.
Le risate della ragazza vennero però interrotte dall’arrivo della professoressa Andrews. “Allora, vediamo chi dobbiamo interrogare oggi…” affermò la donna, non appena prese posto sistemando la propria ventiquattrore sulla cattedra. “Ma prima facciamo appello” continuò aprendo il registro.
Alla vista della professoressa Elizabeth si allarmò, aveva sperato fino all’ultimo in un suo non arrivo, ma come al solito nulla andava come desiderava.
“Bene, bene. Vediamo chi è messa peggio” disse, una volta finito l’appello, e fingendo di osservare  la fila di voti dei suoi allievi, continuò. “Reid, a quanto pare quest’anno non aspiri più alla F, ma addirittura al non classificato” osservò intanto che la classe scoppiava in una fragorosa risata.
“Zitti …” intimò ai ragazzi che ritornarono in religioso silenzio. “Allora, Elizabeth mi concederai l’onore di interrogarti o dovrò aspettare ancora un po’?” chiese la professoressa con tono ironico.
“Temo, professoressa, che dovrà aspettare ancora un po’… davvero spiacente” le rispose la ragazza con lo stesso tono.
La professoressa fece una smorfia di disgusto. “Bene, Reid. Non mi lasci altra scelta, F”
“Sempre meglio di non classificato” rispose Elizabeth alzando le spalle e provocando un’altra risata nei suoi compagni.
“Preferisco non commentare questa tua battuta” affermò acida la donna inforcando gli occhiali. “Allora vediamo chi possiamo interrogare …” proseguì.
Per il resto dell’ora Elizabeth non parlò, si perse nel suo mondo senza curarsi del resto. Era nel suo rifugio dove nessuno l’avrebbe mai raggiunta, dove non c’era nessuno da deludere. In effetti, nonostante la suo apparente indifferenza, Elizabeth capiva che questa sarebbe stata l’ennesima delusione per i suoi genitori, ma soprattutto per suo padre. Era convinta che sebbene i suoi voti fossero l’uno peggiore dell’altro, suo padre si aspettasse ancora grandi cose da lei, aspettative che lei avrebbe inevitabilmente infranto.
La verità era semplicemente che Ellie non riusciva a mettersi in gioco, si sentiva bloccata. Aveva così tanta paura di deludere  le aspettative di suo padre al punto da decidere di non provarci nemmeno; in questo modo convinceva sé stessa che se magari ci avesse provato, avrebbe ottenuto un ottimo risultato, e suo padre sarebbe stato orgoglioso di lei, così come lo era di sua sorella Jules, la secondogenita dei coniugi Reid.
Il suono della campanella riportò Elizabeth alla realtà, si affrettò a raccogliere le sue cose e si avviò verso l’uscita. “Elizabeth, scusami, puoi venire un attimo” la chiamò la professoressa indicandole il banco di fronte la cattedra.
Fece un respiro profondo e andò incontro la professoressa, sapeva che cosa le avrebbe detto, la stessa che ormai le avevano detto e ripetuto tutti gli altri professori.
“Siediti” suggerì con tono pacato.
“Preferisco stare in piedi, se non le dispiace”
La professoressa annuì e sospirò. “Allora… senti, credo che tu sappia che la situazione è pessima” esordì piuttosto titubante, indicandole la sfilza di assente e impreparati del registro.
“Sì, ne sono a conoscenza” rispose Elizabeth abbassando lo sguardo. In un certo senso si vergognava.
“Ormai l’unico modo per recuperare, oltre al farti interrogare ovviamente, sono i corsi pomeridiani per avere qualche punto extra, altrimenti la vedo difficile ad esserti sincera” ammise la Andrews, guardando la ragazza per capire se quell’affermazione suscitasse qualche reazione nella signorina Reid.
“Certamente, farò qualche corso. Non si preoccupi” la rassicurò la ragazza con tono poco convinto.
“Bene, allora ci vediamo alla prossima lezione. Mi raccomando, studia” le consigliò caldamente la professoressa guardandola negli occhi.
“Sì, farò anche quello” rispose e lasciò la classe dopo aver salutato la professoressa.
 
“Allora, Els che voleva la prof?” chiese Nicole mentre si dirigevano verso l’aula di Lingua Spagnola.
“Nada, praticamente mi ha detto che devo fare qualche corso per rimediare qualche punto extra” rispose “Ma figurati se li faccio” continuò ridendo.
“Els invece penso che li dovresti proprio fare, altrimenti si mette male…” ribadì l’amica abbozzando un sorriso.
“Già, mi sa che hai ragione” riconobbe la ragazza e si morse le labbra.
“Non dirmelo, hai preso un’altra F” affermò sua sorella Jules che in quel momento sbucava dal bagno.
“Sì, ma tu come lo sai ?” le chiese sorpresa. Sua sorella veniva a conoscenza di ogni sua mossa, si domandò se non la spiasse.
“Voci di corridoio...” rispose facendo la misteriosa “Stavolta papà ti ammazza davvero” continuò Jules.
“Solo se tu parli, altrimenti non dovrebbe proprio a venirlo a sapere” l’intimò Elizabeth.
Sua sorella fece il suo miglior sorriso per convincerla a contrattare. “Cosa mi offri in cambio del mio silenzio?”
 “Ti risparmi uno schiaffo, mi sembra un’ottima offerta” rispose bruscamente Elizabeth.
Jules si posò una mano sul mento e finse di pensare qualche secondo. “Non abbastanza. Preparati, sarà una lunga punizione” affermò divertita.
“Beh, mi sa che non dovrai aspettare a lungo per la condanna a morte” le interruppe Nicole indicando Spencer, fermo in corridoio.
“Papà…” dissero le ragazze guardandosi.
Si avviarono verso il padre che non le aveva ancora notate e lo chiamarono. “Spencer sei venuto a controllarmi?” gli chiese Elizabeth piazzandosi davanti a lui a braccia conserte.
Il dottor Reid fece un sospiro rassegnato. “No, non sono qui per controllarti, Elizabeth”
“E da quando mi chiami Spencer ?” le chiese stranito.
“Da adesso” gli rispose con noncuranza facendo spallucce.
“Papà, Ellie ha preso un’altra F.” dichiarò Jules abbracciando sua sorella.
Spencer chiuse gli occhi annotando mentalmente l’ennesima F di sua figlia, di cui era a conoscenza. “Un’altra F, Elizabeth?” si rammaricò, ormai le sue speranze che riuscisse ad essere ammessa in un qualsiasi college stavano divenendo un miraggio.
“Sì, un’altra. Ma scusa se non sei venuto a controllarmi, che ci fai qui?” gli chiese piegando la testa e con un tono da interrogatorio.
“Sono venuto con la squadra, una ragazza del 3° anno si è suicidata” affermò intanto che leggeva alcuni documenti.
“Ma cosa c’entra l’unità analisi comportale con un suicidio?” gli domandò ancora una volta la ragazza non convinta del risposta elusiva del padre.
“A quanto pare, si tratta di un suicidio sospetto” asserì “Comunque ora devo andare” continuò notando il suo amico, nonché capo Derek Morgan, uscire dall’ufficio della preside.
“Zio Derek! ” gridarono le due ragazze non appena lo videro.
“Ciao ragazzine…” le salutò a sua volta mentre scompigliava i loro capelli. “Scusate, ma dobbiamo proprio andare” proseguì facendo un cenno a Spencer di chiudere quell’incontro famigliare.
“Ci vediamo stasera” le rassicurò Spencer.
 “E tu…” indicando Elizabeth. “Nel frattempo inventati una buona scusa per giustificare quella F” la minacciò il padre agitando il dito indice in aria.
“Un’altra? Ma sei proprio incorreggibile!” esclamò il suo padrino intanto che scuoteva la testa ridendo.
“Sì, sì, mi inventerò un’ottima scusa. Non preoccuparti” affermò la ragazza rispondendogli per le rime.
“Lo spero per te” l’avvertì Spencer lasciandola in corridoio con l’amica e la sorella, ed infine si avviò verso l’uscita della scuola superiore “J. F. Kennedy” seguendo il suo agente supervisore.

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Capitolo 3
*** Tristi scoperte ***


Tristi scoperte 

 
“Bisogna saper sfidare il volere degli dèi se si vuol conservare il loro favore” (Alexander Lernet-Holenia)
 
 
Mentre era fermo allo stop, Spencer guardò il suo orologio da polso, ancora con il classico quadrante a lancetta, e sospirò, erano già  le 23:37. “Sicuramente Madison starà già dormendo” pensò; ultimamente non si vedevano molto, tra i turni in ospedale sempre più sballati di sua moglie e i suoi che normali non erano mai stati, praticamente l’unico momento che trascorrevano insieme era quello della colazione, sempre se nessuno dei due riceveva una chiamata d’urgenza.
Parcheggiando nel vialetto di casa, notò la luce di camera di Elizabeth spegnersi improvvisamente; “Pensi di essere furba, ma io sono più furbo di te” disse tra sé e sé, e scese dalla vettura prendendo dal sedile posteriore la sua borsa a tracolla con dentro i fascicoli del caso da analizzare.
Una volta entrato, cercò di non fare troppo rumore per non svegliare gli altri e si diresse immediatamente verso camera di sua figlia.
“Ellie, lo so che non stai dormendo. Quando dormi, russi” affermò suo padre accendendo la luce della stanza nel mentre Elizabeth si girava dall’altro lato del letto dando le spalle a Spencer e tirando la coperta verso di sé.
“Ellie è inutile che fai così. Vieni di là e non farti richiamare” le disse e uscì dalla stanza lasciando le luci accese.
Capendo di non aver altra scelta, Elizabeth decise a malincuore di alzarsi, in effetti parlare con suo padre era l’ultimo dei suoi desideri in quel momento. Nonostante ciò, cercò le pantofole, s’infilò una felpa e si avviò verso lo studio, dove suo padre l’aspettava in piedi con le braccia incrociate.
“Allora, si può sapere che intenzioni hai quest’anno?” le chiese mentre buttava sulla scrivania la borsa, facendo cadere alcuni documenti. “Insomma non che tu ti sia mai molto impegnata, ma qualcosa per arrivare alla sufficienza la studiavi” continuò.
“Sì, lo so. Non sto facendo nulla, ecc, ecc”  gli rispose con tono indifferente dopo essersi seduta sulla scrivania.
“C’è qualcosa che non va? Hai dubbi su qualche argomento? Perché se è così, basta dirlo. Una mano te la do io, lo sai che non sarebbe affatto un problema” le domandò guardandola dritta negli occhi per cercare di capire se sua figlia nascondesse qualcosa.
“Sì, sì. Tu mi aiuti, lo so” disse con tono sempre più annoiato dopodiché il suo sguardo si posò su una delle fotografie fuoriuscite dal fascicolo.
“Ma questa è Chelsea Garrison!” esclamò indicando la fotografia in questione. “E’ lei la ragazza che…” chiese senza riuscire a completare la frase.
“La conoscevi?” le domandò il profiler notando l’espressione amareggiata di Elizabeth.
“Sì, Chelsea cantava in un gruppo; spesso si sono esibiti al “Quartiere Blu” e sono andata a sentirli” gli raccontò. “Non posso credere che sia suicidata, era una ragazza così piena di vita. L’ultima volta che l’ho vista, mi ha raccontato che le era stato offerto un contratto discografico e che i suoi erano d’accordo. Non capisco perché compiere un gesto così estremo, non ha senso…”
“E’ quello che vogliamo scoprire” rispose suo padre posandole una mano sulla spalla per rincuorarla. “Ora vai a letto, è tardi e domani c’è scuola” le consigliò.
Elizabeth annuì e saltò giù dalla scrivania senza smettere di fissare la fotografia dell’amica.
“Ha sofferto?” gli chiese mentre s’incamminava verso la porta. A quella domanda il dottor Reid preferì non rispondere, non voleva mentire a sua figlia ma nemmeno raccontarle quanto dolorosi fossero stati gli ultimi minuti di Chelsea Garrison, non c’era alcun bisogno di farlo.
“Ho capito…” affermò sua figlia intuendo che la risposta di suo padre non sarebbe stata molto piacevole e si diresse verso la sua stanza, lasciando suo padre da solo in mezzo ai fascicoli.
 
Dopo circa un’ora, Spencer decise di andare a dormire. Lasciò tutte le carte sparse sulla scrivania e spense le luci.
Entrato in camera da letto, si svestì, cercando di fare il più in fretta possibile, e indossò il pigiama.
“Sei tu, Spence?” chiese Madison con voce completamente assonnata intanto che Spencer s’infilava nel letto. “Sì, sono io…” sussurrò accarezzandole i capelli.
“Che ore sono?” chiese sua moglie facendo un lungo sbadiglio. “E’ l’una e mezza passata” le rispose.
 “Ho parlato con Ellie prima, ha preso un’altra F”  proseguì con tono rammaricato.
“Sì, me l’ha accennato a cena” affermò Madison strofinando il capo contro il petto di suo marito, le mancavano i loro momenti d’intimità, passavano le settimane ad organizzare cene o uscite che puntualmente non riuscivano a portare a termine.
“Io non la capisco. Voglio dire, ha qualche problema? Che le sta capitando?” domandò parlando più con se stesso che con sua moglie.
“Spence, la verità è che non c’è nulla da capire. Nostra figlia non ha nessun problema, è un’adolescente e, in quanto tale, non fa altro che il suo lavoro” spiegò a suo marito.
“E quale sarebbe?” chiese il profiler non capendo il filo del discorso. “Farti impazzire!” esclamò sua moglie con tono divertito.
“Allora sta facendo un ottimo lavoro” rispose lasciandosi sfuggire una leggera risata.
“Non preoccuparti, amore. Vedrai che prima o poi metterà la testa a posto. E’ solo una fase e nient’altro. Ora dormi e smettila di pensare ad Ellie, farai sogni più tranquilli” gli suggerì.
Dopodiché gli diede un bacio sulla guancia e si rimise a dormire, girandosi dall’altra parte del letto e fu abbracciata dal dottor Reid che decise di seguire il suo consiglio cadendo subito addormentato.
 
Elizabeth invece quella notte non riuscì a chiudere occhio. Non faceva altro che pensare a Chelsea e al suo suicidio. La notizia l’aveva sconvolta, era tutto così strano.
Perché mai una ragazza di 17 anni con una vita apparentemente felice avrebbe deciso di togliersi la vita? Era un qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
Ripensò all’ultima conversazione avuta con Chelsea, a quanto fosse contenta, e alle sue parole: “Finalmente tutto va nel verso giusto”, dette poco prima di salire sull’autobus, dette qualche giorno prima del suo misterioso suicidio.
Ma in maniera particolare pensò alla sua famiglia e in primis al fratello di Chelsea, Steve. Lui e Chelsea erano molto legati, passavano molto tempo insieme. Era stato Steve ad incoraggiare la sorella a prendere delle lezioni di canto, intuendo le sue potenzialità. Ma ora Chelsea non c’era più e Elizabeth non riusciva ad accettarlo.
Si alzò ancora prima che suonasse la sveglia e si fece una doccia, cercando di liberare un po’ la mente. Mentre l’acqua le scivolava addosso, chiuse gli occhi e si massaggiò le palpebre. Rimase sotto la doccia per più di un’ora, ferma senza far nulla, ascoltando unicamente il suono dello spruzzo d’acqua fino a quando non sentì sua madre chiamarla dal piano di sotto per la colazione.
S’asciugò in fretta e scese giù dopo essersi vestita.
“Buongiorno, Ellie” esclamò sua madre non appena la vide entrare in cucina. “Latte e cereali?” le chiese indicandole la scatola di corn flakes sul tavolo della cucina.
“Va bene…” sussurrò Elizabeth senza aver prestato molta attenzione alle parole di sua madre. “Papà se n’è già andato?” le chiese dopo aver notato dalla finestra che la sua automobile non era nel vialetto.
“Sì, se n’è appena andato. L’hanno chiamato d’urgenza” rispose Madison con una smorfia intanto che porgeva a sua figlia la scodella piena di latte.
“Ellie, ho saputo di Chelsea. Se ne vuoi parlare, sappi che io sono qui” la confortò sua madre posando un bacio sulla sua testa.
“Grazie. Ti dispiace se vado? Non mi vanno più i cereali” le domandò indicando la scodella piena all’orlo di cereali. Il giorno prima era uscita a recuperare la sua auto dal meccanico e perciò avrebbe potuto fare a meno dell’autobus, cosa che non le dispiaceva affatto. Guidare l’avrebbe sicuramente aiutata a svagarsi.
“Sì, vai. Non preoccuparti” la rassicurò Madison consapevole che lo stato d’animo della figlia doveva essere a terra. “A dopo, allora” le rispose, Elizabeth si avvicinò alla madre l’abbracciò e infine uscì dalla cucina diretta a scuola. 



 

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Capitolo 4
*** Momenti difficili ***


Momenti difficili 

 
“Siamo prossimi al risveglio quando sogniamo di sognare” (Novalis)

Arrivato in ufficio, Spencer fu subito messo al corrente sulle ultime novità del caso. “Si chiamava Mary Alice Evans, 21 anni, lavorava come segreteria in uno studio legale in centro” lo informò JJ, porgendogli la foto della vittima. “E’ stata trovata seduta su una panchina del parco” continuò, indicando la panchina nella foto.
“Nel parco? Perché mai l’S.I. avrebbe deciso di lasciarla lì? È molto più rischioso…” affermò perplesso guardando fisso la collega. “Sempre se esiste un S.I.” aggiunse JJ.
“Com’è morta?” chiese in seguito mentre poggiava i fascicoli sulla scrivania.
“Per quanto ne sappiamo, si è tagliata le vene” gli rispose. “Anne sta parlando con i genitori della vittima, sono appena arrivati” gli riferì avviandosi verso la stanza dove la sua donna colloquiava con i parenti della vittima.
“Perfetto, Morgan è stato informato?” le domandò intanto che osservava le reazioni dei coniugi Evans.
 “Sì, sta venendo qui” rispose la bionda.
Dopodiché si voltò puntando i propri occhi azzurro cielo verso la parete della stanza dove era appeso il tabellone su cui erano stati aggiunti tutti i dati. “Ciò che non riesco a capire è la vittimologia. Non c’è alcun nesso fra le due vittime” osservò grattandosi il capo.
“Già, cosa può accumunare due ragazze di età diverse?” si domandò Spencer facendo partire gli ingranaggi della sua mente alla ricerca di un responso plausibile.
“Non solo età diverse, ma anche etnia e quartiere diversi. Chelsea Garrison era bianca e la sua famiglia godeva di un’ottima situazione finanziaria, invece la famiglia di Mary Alice, oltre ad essere di origini afroamericane, aveva grossi problemi economici” aggiunse la collega.
“Il che esclude la possibilità che le due frequentassero gli stessi posti” dedusse Spencer, sempre più confuso.
Stavano ancora discutendo sulle assenti analogie nella vita delle sue vittime quando uscì l’agente Walker dalla stanza.
“Allora, a quanto pare,  la nostra vittima sarebbe stata di recente contattata da un’agente di moda, che le avrebbe offerto la possibilità di lavorare per un’agenzia a New York” esordì Anne non appena era tornata dal colloquio con gli Evans.
Ricordò la conversazione avuta con sua figlia la sera prima. “Un’agente di moda hai detto?”
“Sì, un certo Louis Davis mi pare, ora non ricordo. Ma perché è così importante?” gli chiese Anne stranita che, nonostante lavorasse nell’unità già da più di due anni, non si era ancora abituata ai ragionamenti un po’ stravaganti del dottor Reid.
“Anche Chelsea era stata contattata di recente da un’agente. Forse è questo il collegamento fra le due vittime” le spiegò Spencer, le sue donne annuirono, era una pista da seguire in effetti.
“Vai da Garcia e chiedile delle informazioni su questo Louis Davis” continuò.
“Spence, Penelope non lavora più con noi” le ricordò JJ scuotendo la testa. Ogni volta se ne dimenticava, nominando la loro vecchia analista informatica, che mancava moltissimo all’agente Jereau. 
“Giusto… vai da Lucas” ordinò alla giovane collega ridendo. La verità era  che, nonostante Penelope non lavorasse con loro da più di 6 mesi, Spencer ancora non riusciva a capacitarsene, e ad essere sinceri quella pazza mancava parecchio anche al dottor Reid; era sempre riuscita a rallegrare tutti con le sue battute e con quel suo modo di fare completamente inadeguato ad un’agente del F.B.I., ma che tanto lo divertiva.
“Noi invece potremmo andare dai Garrison per chiedere maggiori informazioni” propose JJ chiedendo conferma con lo sguardo al collega che annuì.
“Giusto, andiamo” disse l’uomo recuperando borsa e giacca. “ Informa anche Morgan” disse in seguito rivolgendosi ad Anne che si era già avviata verso l’ufficio di Lucas.

Anche a scuola di Elizabeth si prospettava una mattinata molto difficile, la notizia del suicidio di Chelsea si era ormai diffusa, suscitando grande scalpore.
“La preside ha convocato tutti nell’aula magna… Colin è già lì” le informò Blair mentre Elizabeth e Nicole posavano i libri nell’armadietto. “Vuole parlarci del …” continuò la ragazza senza riuscire a finire la frase.
“…suicidio di Chelsea” disse, terminando la frase, Elizabeth.
“Già” risposero le altre due all’unisono. Infine si avviarono lentamente verso l’aula magna, facendosi coraggio a vicenda.
Una volta entrate, s’affrettarono a prendere posto, senza creare confusione per non disturbare le persone intorno e attesero l’inizio del discorso della preside che si schiarì la gola prima di cominciare.
“Oggi abbiamo appreso una notizia che ha gettato tutti noi nello sconforto: la scomparsa di Chelsea; una ragazza straordinaria, amata da chiunque abbia avuto il piacere, e anche l’onore aggiungerei, di conoscerla…” esordì la preside trovando i pareri concordanti dei suoi studenti che annuirono, tuttavia Elizabeth non ascoltava le sue parole, guardava fisso verso Matthew, il ragazzo di Chelsea, seduto in prima fila insieme agli amici della defunta ragazza.
Ad un certo punto, notò che il ragazzo si alzò, lasciando l’aula magna e senza pensarci un attimo lo seguì.
“Matt” lo chiamò prendendogli d’istinto la mano dopo averlo raggiunto in corridoio. “Tutto bene?” gli chiese facendogli un sorriso forzato.
“Sì, tutto bene. Non ce la facevo a rimanere lì dentro, mi sentivo mancare l’aria. Sentire il discorso della Stevens su Chelsea mi riesce impossible …” le confessò il ragazzo con un filo di voce.
Elizabeth annuì. “È comprensibile” gli disse infatti. “Dai, andiamo fuori a prendere una boccata d’aria” suggerì la ragazza ed insieme si avviarono verso il cortile.
“Mi sembra di vivere in un incubo. Chelsea era sempre allegra, non si faceva mai abbattere da niente, era lei a tirarmi su di morale, quando ero giù ed ora io non so come fare” le confidò.
“Non posso credere che Chelsea abbia deciso di suicidarsi, mi sembra una cosa talmente assurda, voglio dire, perché non mi ha mai detto di essere infelice? Perché non mi ha detto addio, neanche una lettera ha lasciato …” continuò tenendosi la testa fra le mani. Era distrutto, non riusciva ad accettare ciò che era successo, anzi non poteva.
“Non dovrei dirtelo” esordì Elizabeth un po’ titubante attirando l’attenzione del ragazzo che lo fissò, scosse la testa e prese di nuovo parola. “Molto probabilmente Chelsea non si è suicidata” continuò pentendosi immediatamente di averlo detto; sapeva che non doveva, ma nel vedere Matthew in quelle condizioni non riuscì a trattenersi.
“Che vuoi dire?” le chiese, non capendo il senso delle parole dell’amica.
“Chelsea è stata uccisa. Pensaci bene, non hai mai mostrato neanche un minimo segno d’infelicità ed improvvisamente si suicida? È estremamente improbabile” affermò Elizabeth sedendosi sulla panchina del cortile accanto a Matthew.
“Ma tu ne sei sicura?” domandò il ragazzo.
“È ciò che mi ha detto mio padre. La sua squadra sta analizzando il caso” spiegò annuendo energicamente.
“Sono sicura che loro riusciranno ad andare in fondo a questa faccenda, se c’è qualcuno responsabile di quanto successo, la pagherà” esclamò Elizabeth con tono di sfida.
“In ogni caso le cose non cambieranno, Chelsea non tornerà” ribadì il ragazzo con gli occhi inumiditi.
“Scusami, ma ora devo andare”
Si alzò dalla panchina, dopodiché si avviò verso la porta da dove erano passati prima e si voltò di nuovo verso Elizabeth lo guardava. “Grazie di tutto comunque…” aggiunse e lasciò il cortile rientrando a scuola.

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Capitolo 5
*** Idee sbagliate. ***


 Idee sbagliate

 
Ogni impulso che tentiamo di soffocare, germoglia nella nostra mente, e c’intossica” (Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray)
 
“Quindi mi sta dicendo che il fatto che due ragazze, a cui lei aveva offerto un contratto, si siano suicidate a distanza di due giorni è una pura coincidenza?” intimò Spencer guardando il sospettato con estrema indifferenza.
“A quanto pare, sì. Io non ricordo nemmeno chi siano queste ragazze! Ha idea di quante persone si rivolgono a me?” rispose Davis con noncuranza.
“Devo dedurre che lei offre contratti a chi le capita a tiro?” gli domandò.
“Deduca quel che gli pare…” farfugliò Davis con tono sempre più annoiato. A quelle parole, Spencer uscì fuori dalla stanza, sbattendo la porta; quell’uomo era riuscito ad irritarlo profondamente; c’era qualcosa in lui che non quadrava, aveva un brutto presentimento, come se avvertisse che qualcosa di molto peggio sarebbe successa, senza riuscire capire cosa. Morgan lo raggiunse immediatamente con aria estremamente contrariata, “Ma come ti è saltato in mente di uscire in quel modo?” gli urlò indicando lo studio di Davis.
Spencer non rispose, sapeva di aver sbagliato ma non aveva alcuna voglia di ammetterlo. “Sarà meglio che tu torni lì dentro e ti comporti come ci si aspetta che tu faccia, hai capito Reid?” lo rimproverò con tono severo . Spencer annuì e rientrò nella stanza.
“Non abbiamo nessuna prova per poterlo in centrale” comunicò Anne sottovoce, fissando il collega con espressione preoccupata “Credo che dobbiamo lasciar perdere” continuò.
“Lasciar perdere? Non se ne parla, lui ha a che fare con questa storia ne sono più convinto!” esclamò Spencer
“Mi dispiace, Reid. Ma credo che dovrai rinunciare. Ha ragione Anderson, non abbiamo uno straccio di prova per poter insistere, e poi per oggi hai fatto abbastanza danni, non credi?” sottolineò il suo capo senza nascondere il suo disappunto.
“Ci vuole ancora molto? Avrei un appuntamento tra mezz’ora” li interruppe Davis guardando l’orologio che portava al polso.
“Non si preoccupi, non lo tratteniamo oltre. Arrivederci” annunciò Anne ed uscì dallo studio accompagnata dagli altri due agenti.
 
“Spencer si può capire che ti è preso lì dentro?” le domandò Anne mentre si sistemava i capelli.
“Ho perso un po’ il controllo…” sussurrò
“Un po’? Eri praticamente uscito fuori di testa” affermò con tono divertito.
“Solo il pensiero che ciò che è successo a Chelsea Garrison sarebbe potuto succedere ad Elizabeth, mi fa impazzire” riconobbe Spencer che ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva le immagini del collo livido di Chelsea associato al viso di sua figlia.
“Sì, ma non è successo. Quindi stai calmo, ok? Non ci servi quando fai l’esaurito!” gli disse facendogli un sorriso.
Anche il dottor Reid abbozzò un sorrise e boccheggiò per dire qualcosa quando li chiamò JJ. “Ragazzi, venite in sala riunioni. Lucas ha scoperto qualcosa d’interessante riguardo Davis”
“Allora, a quanto pare quelli di Mary Alice Evans e Chelsea Garrison non sono gli unici suicidi che vedono coinvolto Davis” annunciò Lucas una volta seduti tutti.
“La scorsa primavera a Richmond due ragazzi, James Duff e Tim Brown, 16 e 20 anni, entrambi membri di una band come Chelsea, si sono improvvisamente suicidati poco prima di firmare un contratto discografico di tre anni con l’agenzia di Davis” disse mostrando le foto dei due ragazzi sullo schermo.
“Due ragazzi?” chiese perplessa Anne guardando gli altri.
“Questo cambia del tutto la vittimologia” affermò JJ. “Già” confermò Spencer sempre più confuso.
“Credevamo che fossero le ragazze gli obiettivi dell’ S.I.” continuò.
“Come sono morti?” domandò Morgan. “Duff si è impiccato, mentre Brown si è buttato dal 10° piano del palazzo in cui abitava assieme alla sua ragazza” rispose.
“Nessun collegamento con Davis oltre il contratto?” chiese Spencer.
“No, nessuno. Gli agenti che hanno seguito le indagini le hanno chiuse dopo pochi giorni, Davis non è stato nemmeno interrogato” spiegò Lucas.
“Vorrà dire che aspetta a noi capire il ruolo di Davis in questi suicidi, se ne ha veramente uno” affermò Morgan e si diresse verso il suo ufficio lasciando i suoi colleghi in sala riunioni.
 
 
“Come procede l’indagine?” chiese Elizabeth a suo padre la mattina seguente mentre facevano colazione.
“Punto morto. Non riusciamo a trovare un qualche appiglio per fermare Davis” confessò Spencer.
“L’ufficio vuole chiudere l’indagine” la informò con tono rassegnato.
“Chiudere l’indagine? Ma sono impazziti! Chelsea non si è uccisa, e neanche quell’altra ragazza. Come fanno a chiudere l’indagine?” esclamò Elizabeth furiosa. Non riusciva a credere che l’F.B.I. avesse deciso di far finta che non fossero degli omicidi.
“Non abbiamo prove per poter andare avanti. Senza contare il fatto che, a parte Davis, tutto sembra indicare che questi ragazzi si siano suicidati” le disse.
“Chelsea non si è uccisa, hai capito? La verità è non t’importa nulla di scoprire chi è stato!” gli urlò contro.
“Ma come ti salta in mente di dire una cosa simile? È logico che mi interessa, ma non posso farci nulla se l’ufficio chiude l’indagine, tra l’altro l’F.B.I. non indaga sui suicidi, questo dovresti saperlo”
“Comunque Elizabeth ti prego, non peggiorare la situazione” lo pregò Spencer notando l’espressione di odio cieco di sua figlia.
“Non preoccuparti, non ti darò alcun fastidio” gli rispose con tono acido.
“Non usare quel tono con me, hai capito signorina?” la minacciò Spencer.
“Io uso il tono che voglio. Le tue minacce non hanno alcun valore per me” aggiunse la ragazza.
“Non hai alcun diritto di mancarmi di rispetto. Smettila subito e non costringermi a fare qualcosa di cui potrei pentirmi” affermò Spencer.
“Vaffanculo” urlò Elizabeth in tutta risposta e se ne andò uscendo dalla cucina.
“Elizabeth, torna qui immediatamente!” le gridò Spencer, ma ormai sua figlia non lo ascoltava più. Aveva già afferrato le chiavi della sua auto ed era uscita sbattendo la porta d’ingresso.
 “Che è successo?” chiese Madison entrata in cucina dopo aver sentito le urla dei due.
“Niente, un’altra litigata con Elizabeth. Come al solito, nemmeno oggi è riuscita a farne a meno” le rispose passandosi una mano sul viso.
“Spence, lascia perdere. Lo sai com’è fatta nostra figlia, Ellie è impulsiva e a volte dice cose senza pensarci.” cercò di rassicurarlo e si sedette accanto a lui.
“In ogni caso ecco il tuo regalo” gli disse, porgendogli un pacco rosso con un enorme fiocco blu sopra.
Spencer sorrise, sua moglie riusciva sempre a tirargli su il morale. Aveva un dono per queste cose.
“Maddie, ma dai! Credevo che oramai non ci facessimo più regali ad ogni compleanno”
“E invece no! Allora aprilo” insistette Madison mordendosi le labbra, fremeva dalla curiosità di vedere la reazione di suo marito.
“Va bene…”
 Iniziò a scartare il pacco rimanendo per qualche fermo senza riuscire ad articolare un suono. “E’ bellissimo!” esclamò commosso abbracciando Madison.
Era una fotografia incorniciata che ritraeva loro insieme ai ragazzi, scattata qualche anno fa, nel Hyde Park a Londra durante una vacanza. Si ricordava bene di quella vacanza; Madison, infatti, dopo aver partecipato ad una gara di nuoto nel Tamigi, si era ammalata di polmonite, costringendoli a rinviare la partenza di circa due settimane, ma soprattutto la ricordava perché quella fu l’ultima vacanza che avevano trascorso tutti insieme prima che il suo rapporto con sua figlia andasse in frantumi. In effetti, fino a poco tempo fa, tra i due c’era una grande intesa; Elizabeth si confidava con lui ed era Spencer la persona a cui si rivolgeva quando aveva un qualche problema o anche per un semplice consiglio. Ma all’improvviso qualcosa fra loro si ruppe ed Elizabeth smise di cercarlo.
Ora si chiedeva se questa situazione sarebbe durata per sempre o se un giorno sarebbe tornato tutto come prima.
“Sono contenta che ti piaccia. Ora scusami, ma devo andare in ospedale, mi hanno cambiato il turno. Ci vediamo dopo” gli disse, dopodiché gli diede un bacio sulla fronte e se ne andò.
“A dopo!” rispose suo marito salutandola con la mano. Dopo essersi versato un’altra tazza di caffè, andò nello studio, posò la fotografia sulla scrivania e rimase lì in silenzio a fissarla.
 
 
Arrivata a casa, Elizabeth buttò lo zaino sul pavimento e prese subito la chitarra, sentiva il bisogno urgente di suonare qualcosa, ma soprattutto di smettere di pensare. La notizia della chiusura delle indagini l’aveva profondamente turbata, sentiva la necessità di fare qualcosa, non poteva accettare che la morte di Chelsea fosse considerata un suicidio quando la verità era che era stata uccisa.
Era completamente immersa nei suoi pensieri quando lo squillo del telefono riportò Elizabeth alla realtà; “Non c’è nessuno che risponde?” gridò dopo aver sentito il telefono squillare tre volte.
S’affrettò a scendere le scale e alzò la cornetta del telefono.
“Pronto?” rispose la ragazza.
“Morgan? Come mai ci hai messo così tanto a rispondere?” le domandò Diana dall’altro capo del telefono.
“Nonna, ciao”  esclamò Elizabeth, riconoscendo subito la voce di sua nonna, d’altronde era l’unica persona al mondo a chiamarla con il suo secondo nome, deciso da suo padre, che al momento della sua nascita decise di darle un nome significativo, e non poté non chiamarla come il suo miglior amico, che si prese cura della sua figlioccia assumendosi quell’impegno con serietà e senza battere ciglio.
 “Scusa se ci ho messo un po’, ma credevo che ci fosse Jules a casa, invece sono sola. Comunque dimmi, è successo qualcosa?” chiese sua nipote preoccupata; sua nonna non telefonava mai, a parte che quando si era cacciata in qualche guaio, cosa che ultimamente succedeva spesso. Elizabeth le voleva un gran bene, le piaceva passare del tempo insieme a lei, ma ciò che amava di più di lei era la sua stravaganza; con sua nonna, infatti, si sentiva libera di fare e dire qualsiasi cosa, parlavano ore e ore delle cose più assurde senza mai stancarsi.
“No, non è successo nulla. Ho chiamato solo per dare gli auguri di compleanno a Spencer” spiegò la motivazione della telefonata Diana.
“Nonna, oggi non è il compleanno di papà…” ribadì con sicurezza e lasciandosi sfuggire un sorriso.
Sì, invece. Il compleanno di tuo padre è il 9 marzo, è una delle poche cose che mi ricordo!” esclamò Diana un po’ confusa.
“Oggi è 9?!” domandò allarmata Elizabeth, sentì sua nonna fare un ‘aha’ dall’altra parte della linea e si batté il palmo della mano libera contro la fronte.
 “Oh merda…” sussurrò la ragazza dopo aver realizzato di essersi scordata del compleanno di suo padre.
“Come tesoro? Non ho capito” le domandò la donna.
“Nulla, nonna. Senti, papà non c’è adesso. Ti faccio chiamare più tardi, ok?”
“Sì, va bene. Ci sentiamo allora” rispose e chiuse la telefonata.
“E ora che faccio?” si chiese. Doveva come minimo comprargli un regalo per farsi perdonare, specialmente dopo averlo mandato a quel paese il giorno del suo compleanno, anche se era convinta che non sarebbe servito a molto e, in ogni caso, non aveva la minima idea di cosa avrebbe potuto regalargli, in effetti, fare regali non era il suo forte. Perciò decise di farsi aiutarsi dalle sue amiche, e dopo averle chiamate, andò al centro commerciale.


“Allora Ellie, cosa hai in mente?” le domandò Nicole una volta arrivate nello shopping center.
Entrarono in un negozio di abbigliamento uomo piuttosto elegante e iniziarono a dare un’occhiata ai vari capi. “Non lo so, ho solo 20 dollari, quindi qualcosa di poco costoso” rispose guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa che colpisse la sua attenzione.
“Che ne dici di questa camicia? Secondo me potrebbe andar bene, e poi Spencer sta benissimo con il celeste”  propose Blair sorridendo.
Elizabeth annuì, era una bella camicia e rientrava nello stile di suo padre. “Quanto costa?” s’informò.
 “45 dollari” rispose Blair controllando il cartellino del prezzo.
La ragazza sgranò gli occhi. “Cosa?! Non se ne parla proprio!” esclamò con fervore. “Hai ragione, è un po’ troppo costosa. Comunque le starebbe davvero bene, quasi quasi gliela compro io” disse con aria sognante.
“Smettila, Blair!” la minacciò Elizabeth; la cotta di Blair per suo padre la irritava parecchio, a volte pensava che venisse a casa sua unicamente per vedere il dottor Reid.
Blair posò di nuovo la camicia appendendo come dovuto e fece spallucce. “Un vero peccato” disse a bassa voce e continuando ad accarezzare la manica, Elizabeth le lanciò un’occhiataccia e roteò gli occhi.
“Andiamo via prima che Blair gliela compri sul serio” affermò Nicole ridendo.
“Ma io non ho comprato nulla…” farfugliò Elizabeth con espressione leggermente disperata.
 “Scusa, ma è proprio necessario che gli compri qualcosa? Perché non gli suoni una canzone? Secondo me è più bello, è più personale. Senza contare il fatto che tuo padre l’apprezzerebbe molto di più” le suggerì l’amica.
 “Mi associo” affermò decisa Blair prendendo a braccetto Nicole.
Ellie arricciò le labbra. “Sì, avete ragione voi” rispose Elizabeth dopo averci riflettuto sopra.
 “Ora andiamo da Nima’s!” annunciò indicando la vetrina del negozio di frontee prese per mano le sue amiche trascinandole fuori.
“A fare che?” domandò Blair incuriosita.
 “A comprare il braccialetto che è in vetrina” rispose, avviandosi dall’altra parte, in fin dei conti in qualche modo li doveva spendere quei soldi.
 
 
“Posso entrare?” domandò Elizabeth dopo aver bussato alla porta dello studio.
“Sì, certo! Entra pure…” le rispose Spencer, mettendo da parte i fascicoli.
“Buon compleanno”  trillò cercando di far finta di nulla. “Scusa per stamattina, non lo pensavo veramente…” sussurrò fissando il pavimento.
“Non ti preoccupare, Ellie. Non è successo nulla” la rassicurò Spencer.
“Sapessi chi mi ha ricordato il tuo compleanno!” esclamò sua figlia, cambiando argomento, “Nonna Diana!” continuò, scoppiando a ridere.
“Mamma?” chiese sorpreso Spencer, scoppiando anche lui a ridere.
“Incredibile, vero? Cioè la stessa nonna che ci manda dei regali ogni tre mesi perché non si ricorda mai quando sono i nostri compleanni, mi ha ricordato del tuo” fece una pausa per prendere fiato e continuò: “Senti, ho provato a comprarti un regalo, ma non ho concluso nulla, in compenso mi sono comprata questo braccialetto!” gli riferì esibendo con fierezza il braccialetto che portava al polso.
 “E’ molto bello” rispose ironico Spencer.
“Comunque io un regalo te lo vorrei comunque fare, ma devi venire con me giù di sotto” gli disse e si diresse verso le scale dopo aver aspettato suo padre.
“Accomodati” suggerì al dottor Reid, indicando la poltrona accanto al pianoforte. Suo padre si sedette e si sistemò un cuscino dietro la schiena per stare più comodo.
 Elizabeth, dopo essersi accertata di avere l’attenzione di suo padre, fece un respiro profondo per calmarsi e cominciò a suonare.
 Era la prima volta che suonava qualcosa per suo padre, ad essere sinceri, Elizabeth suonava solo per sè stessa; non amava molto esibirsi, in effetti, essere al centro dell’attenzione la metteva a disagio, anche se con il suo atteggiamento non faceva altro che ottenere il contrario.
Nel frattempo che suonava, notò l’espressione sbalordita di suo padre con la coda dell’occhio, il quale rimase incantato dopo aver sentito Elizabeth suonare, non pensava che fosse così brava.
“Ma dove hai imparato a suonare così?” le chiese muovendo le dita come se stesse suonando il piano. “A casa! Al contrario di quello che pensi tu, io qualcosa la combino” affermò sua figlia con tono scherzoso.
Suo padre sorrise. “Sei veramente brava, Ellie. L’hai composta tu?” domandò incuriosito.
“Mmm…si. Sto scrivendo anche il testo, ma per il momento è solo musica” spiegò Elizabeth intanto che sistemava gli spartiti.
“Quando finisci di scriverlo, me lo devi assolutamente cantare!” affermò Spencer alzandosi dalla poltrona ed andandole vicino.
“Va bene, se ci tieni…” rispose sua figlia stupita per la reazione di suo padre. “Comunque io vado, ho un po’ di compiti da fare, cioè dovrei fare qualcosa. Buonanotte” continuò, in seguito, salì le scale portandosi con sé gli spartiti.
“Sbaglio o hai appena tenuto una conversazione civile con Elizabeth?” chiese sua moglie che nel frattempo era rientrata a casa.
“Sì, mi ha chiesto scusa e mi ha suonato una sua canzone. Non avevo idea che suonasse così bene, mi ha ricordato te quando eravamo più giovani. Ti ricordi? Quante ore abbiamo passato a suonare il piano insieme?” le ricordò Spencer abbassando lo sguardo, non riusciva a ricordare l’ultima volta che avevano passato un po’ di tempo insieme.
Madison si accorse della velata tristezza negli occhi di suo marito e si avvicinò. “Il piano è sempre lì e possiamo suonarlo quando vogliamo” lo rassicurò facendogli un sorriso materno.
Anche il dottor Reid abbozzò un sorriso. “Mi manchi, Maddie” sussurrò prendendola per mano, sua moglie sollevò le sue mani verso la sua bocca e le baciò. “Che ne dici se andiamo a cena fuori? È il tuo compleanno, festeggiamo!” gli propose sicura che quella proposta avrebbe fatto piacere a Reid.
Spencer annuì elettrizzato, tuttavia il suo entusiasmo si spense quasi subito. “E i ragazzi?” chiese perplesso a sua moglie che aveva già indossato la giacca.
 “Non preoccuparti! Non sentiranno la nostra mancanza” le rispose divertita e lo tirò per la manica. “Dai, andiamo! Sarà come avere trenta anni di nuovo!” esclamò trascinando suo marito verso la porta.
“Maddie, tu non hai mai smesso di avere trent’anni!” la prese in giro prendendo il cappotto dall’appendiabiti.
“Hai ragione” ammise la dottoressa mordendosi il labbro inferiore. Aspettò che suo marito la raggiungesse e aprì la porta, era sul punto di uscire quando suo marito la bloccò afferrandola per la vita. “Aspetta, ho dimenticato una cosa” le disse con voce suadente.
Madison inarcò un sopracciglio e lo fissò stranita. “Cosa?”
“Questo” sussurrò al suo orecchio, dopodiché l’avvicinò a sé prendendo il suo viso fra le mani e la baciò.
 
 
“Dove sono mamma e papà?” domandò Elizabeth a Jules quando scese al piano di sotto per informarsi sulla cena.
 “Sono andati a cena fuori” le riferì lanciandole un’occhiata d’intesa. Ultimamente anche loro si erano accorte che i loro genitori trascorrevano sempre meno tempo insieme, cosa creò dispiacere nelle due ragazze.
Si erano sempre ritagliati del tempo per stare insieme, nonostante avessero tre figli a cui badare, tuttavia, a causa i loro ritmi di lavoro, si erano un po’ allontanati.
 “Io e Thomas vogliamo ordinare la pizza, per te va bene?” le chiese.
“Sì, va benissimo. Appena arriva chiamami. Io sono di sopra, devo finire una ricerca” mentì Elizabeth.
 “Ok…” rispose Jules che non aveva prestato molta attenzione alle parole della sorella.
Elizabeth salì al piano di sopra in fretta e dopo essersi accertata che suo fratello fosse di sotto, entrò nello studio di suo padre, chiudendosi la porta alle spalle. Cercava i fascicoli del caso, era sicura che suo padre li aveva lasciati lì, lo faceva sempre.
“Eccoli!” esclamò dopo averli trovati. Li lesse velocemente senza trovare però l’indirizzo di Davis. Poi notò il notebook di suo padre, “Sicuramente tutte le informazioni saranno lì…” pensò.
Lo accese convinta di non trovare nessun ostacolo, ma non fu così; infatti, il computer era protetto da una password e lei non aveva idea di quale fosse. Dopo una serie di tentativi andati a vuoto, stava per rinunciare quando si ricordò di una conversazione avuta con Penelope qualche anno prima.
“Zia Penny che fai?”
“Nulla, sbircio le conversazioni di Kevin”
“Ma non è violazione della privacy questa?”
“Tesoro mio, leggere le conversazioni di tuo marito non è violazione della privacy, ma uno dei tuoi diritti in quanto moglie!”
“Beh, questo cambia decisamente le cose. Ma se il computer è protetto da una password come si fa?”
“Che domande! Ti faccio vedere, è semplicissimo, basta che premi qui e scrivi questo ed ecco fatto”
“Mhm…interessante! Vedrò di metterlo in pratica”
“Assolutamente tesoro, è un ottimo modo per tenere tutto sotto controllo!”
La ragazza esitò un attimo prima di procedere in quella direzione, ma alla fine la curiosità vinse e riaccese il pc.
“Bene, allora devo premere qui poi scrivere…” disse a voce alta augurandosi vivamente che quel sistema funzionasse. Dopo qualche minuto di attesa, comparvero tutti i file di suo padre.
“Ci sono riuscita. Grazie, zia Penny!” esclamò Elizabeth parlando da sola. Poi cercò l’indirizzo di Davis, lo scrisse su un foglio ed uscì dallo studio. Ora sapeva cosa avrebbe fatto il giorno dopo.

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Capitolo 6
*** Imprevedibile ***


“La forza non ha luogo dove c’è bisogno di abilità.” (Erodoto)
 
 
Elizabeth scese dalla macchina e rimase in piedi, poggiata contro la porta dell’automobile, davanti al cancello della scuola. Per non destare sospetti, era uscita presto quella mattina inventandosi una scusa intoccabile, non a caso uno dei pregi di Ellie era la sua straordinaria abilità nel dire bugie; “Potrei lavorare per CIA!” si disse compiaciuta ripensando alla sua scusa. Nonostante la sua apparente calma, era piuttosto nervosa; stava per affrontare un rischio non indifferente, ma aveva deciso di andare a fondo a quella faccenda, avrebbe trovato lei l’indizio che avrebbe aiutato la squadra di suo padre a proseguire l’indagine. D’altronde era sicura di riuscire, suo padre l’aveva allenata per questo. Già, Spencer non lasciava i fascicoli dei casi da lui seguiti sulla scrivania per caso, sapeva benissimo che sua figlia li leggeva ed infatti era proprio questo lo scopo di Spencer: che sua figlia li leggesse, capisse e assimilasse tutto quello che poteva perché era convinto che sarebbe stata lei a proseguire la carriera di profiler. In quel momento si ricordò quando si svegliava in piena notte urlando dopo aver sognato l’S.I. del caso e suo padre la consolava,
ripetendole sempre la frase:“Ellie, non preoccuparti. L’abbiamo preso, non ricordi?”.
“E se non lo prendi, che succede?”  le chiese una volta, tremando ancora per l’incubo appena avuto, “Se non lo prendo io, lo prendi tu, tesoro”  le aveva risposto mentre le rimboccava le coperte.
Gli incubi li aveva ancora, ma ormai non urlava più e suo padre non veniva più in camera sua a consolarla. Ormai era pronta, avrebbe catturato lei l’S.I., ma aveva bisogno di una copertura ed era proprio questo il motivo del per cui era uscita presto di casa. Infatti aspettava Colin, il suo amico di sempre, lui non faceva mai troppe domande e avrebbe accettato di coprirla senza fare inutili storie, a differenza di Blair e Nicole che avrebbero preteso che raccontasse il motivo della sua “fuga” da scuola. “Ma dove diavolo sei Cole?” si chiese, mentre guardava l’orologio, lui arrivava sempre in anticipo e proprio oggi che non voleva essere vista da nessuno Colin era in ritardo.
Era sul punto di chiamarlo sul cellulare quando lo vide sbucare dal bar di fronte la scuola.
“Ecco, dov’eri! Al bar! Ma da quando fai colazione con i fichetti?” gli chiese non appena fu davanti a lei, indicando i membri della squadra di football, abbracciati alle cheerleaders, guardandoli pensò come mai sua sorella non fosse lì, in fin dei conti anche lei era una cheerleader.
“Mi stavi aspettando? E tanto per la cronaca, sono stato invitato da Taylor” le rispose orgoglioso, lanciando uno sguardo verso la ragazza.
“Ah ah!ti piacciono le more! Bravo bravo” esclamò dandogli una pacca sulla spalla. “Senti, devo chiederti un favore. Puoi coprirmi pomeriggio? Ho detto ai miei che mi fermavo da te dopo la scuola” proseguì.
“E invece dove vai?” domandò Colin, notando l’espressione nervosa dell’amica.
“Non posso dirtelo. Ma non preoccuparti, andrà tutto bene” lo rassicurò.
“Els sei sicura? Insomma non starai mica per fare una della tue cazzate, vero?” l’accusò, incrociando le braccia sul petto. Quella situazione non gli piaceva per niente, si sentiva che avrebbe combinato qualche guaio, ma non capiva quali fossero le sue intenzioni.
“Ma smettila! Quando fai così, sembri proprio mio padre” affermò ridendo.
“Allora? Mi copri?” gli chiese facendo finta di inginocchiarsi.
“Si, va bene. Ma appena sei a casa, mi chiami subito!” le ordinò, facendole un mezzo sorriso.
“Grazie grazie! Ti devo un favore. Ci sentiamo dopo, ciao” rispose. Poi lo salutò con un bacio sulla guancia e salì in macchina, partendo a tutta velocità.
“Speriamo bene” si disse, guardando Ellie sorpassare tre auto in una volta.
 
“Allora, l’indirizzo dovrebbe essere questo: 13, Warren Avenue” disse dopo aver sbirciato il numero civico. Dopodiché spense il motore e rimase ferma ad osservare la casa a distanza non troppo ravvicinata. Le tende del soggiorno non erano completamente chiuse, il che le consentiva di guardare dentro la casa. Dopo circa una ventina di minuti vide Davis entrare in soggiorno. Aveva in mano una pila di fotografie che sembrava mangiare con gli occhi. “A quanto pare il bastardo le fotografa prima di buttarle da qualche parte” esclamò a voce alta, ripensando a Mary Alice che era stata trovata su una panchina del parco situato, tra l’altro, a pochi isolati da casa sua.
Davis posò le fotografie sul tavolo e sparì dalla visuale di Elizabeth, “Dove sarà andato?” pensò; non vedendolo tornare, fu tentata dallo scendere dalla macchina per spiarlo dal retro della casa, stava per aprire lo sportello della macchina quando si rese conto che un po’ troppo rischioso, non era armata e non avrebbe avuto modo di difendersi nel caso che Davis l’avesse vista, perciò rimase dentro la macchina, accese la radio e s’accomodò sul sedile. Mentre aspettava rifletté sulla sua prossima mossa, leggendo il fascicolo del caso aveva notato una certa periodicità tra un omicidio e l’altro e secondo i suoi calcoli, che erano gli stessi del team di Spencer, Davis avrebbe colpito quella sera stessa. Se era così non bastava spiarlo, Davis non avrebbe dato appuntamento alla potenziale vittima a casa sua, era troppo azzardato soprattutto dopo che l’F.B.I. lo aveva interrogato. Tuttavia quello che ancora non era chiaro ad Ellie era il modus operandi; come faceva Davis a dare l’apparenza che si trattasse di suicidi? Era questa la domanda che si poneva Elizabeth, di certo non si poteva pensare che le minacciasse con una pistola, a quel punto era più semplicemente ucciderle lui stesso. Tuttavia sulle vittime non era stata trovata alcuna traccia di droga, almeno secondo quanto era stato rilevato dall’esame tossicologico.
Era completamente immersa nelle sue congetture quando notò Davis comparire in soggiorno, stavolta in mano aveva un bicchiere di whisky che poggiò sul tavolo, si sedette sulla poltrona e si accese una sigaretta. Dal modo in cui sputava il fumo sembrava alquanto irritato, Elizabeth si chiese cosa gli fosse andato storto. Spense la sigaretta dopo appena tre tiri e cominciò a sorseggiare il whisky, aveva lo sguardo fisso verso la finestra, per un minuto Ellie si chiese se l’avesse notata, ma considerando la distanza dalla casa e la posizione di Davis si tranquillizzò, era impossibile che l’avesse vista. Era ormai sul punto di finire anche il whisky, quando qualcosa lo interrupe; si frugò le tasche e prese il cellulare, non appena ebbe risposto si alzò immediatamente dalla poltrona e cominciò a gesticolare nervosamente, poi chiuse il cellulare, prese le chiavi della macchina ed uscì di casa. Elizabeth aspettò che si fu allontanato e dopo essersi assicurata che nessuno l’avesse notata, accese il motore e partì all’inseguimento di Davis. Ecco la sua seconda mossa.
 
 
“Cole, ma Ellie non è venuta oggi a scuola?” gli chiese Jules dopo aver notato che sua sorella non era a mensa.
“Ellie? Si è venuta, ma non pranza qui oggi. È andata fuori con Blair” mentì velocemente Colin, approfittando della reale uscita di Blair.
“Ah! Ho capito…” rispose Jules poco convinta. “Quindi dopo scuola viene da te?” gli domandò decisa a torchiarlo un altro po’.
“Si, viene da me. Perché me lo chiedi?” le domandò a sua volta. Voleva assicurarsi che Jules non sospettasse nulla, conoscendola era sicuro che se avesse avuto il minimo sospetto che sua sorella aveva marinato la scuola sarebbe subito andata a raccontare tutto ai suoi.
“Così. Lei sempre mi accompagna a casa dopo le prove con le cheerleaders, ma oggi mamma mi ha detto che non c’era, quindi dovrò prendere l’autobus…” le rispose con noncuranza.
“Eh già!” esclamò Colin “Ora devo andare, ho un’interrogazione e vorrei ripassare qualcosa prima. A domani” le disse, poi s’allontanò velocemente prima che Jules gli facesse qualche altra domanda.
“Mhm… che strano. Quei due hanno combinato sicuramente qualcosa” disse a voce alta, seguendo con lo sguardo Cole che usciva dalla mensa urtando mezza scuola.
“Quei due chi?” le chiese Jacob. Jacob era il ragazzo che gli piaceva, o meglio con cui si augurava che nascesse qualcosa. Ma per il momento erano semplici amici e a lei stava bene così.
“Mia sorella Ellie e l’amico. Mi sa proprio che ha saltato scuola oggi, chissà dove sarà andata” gli rispose girandosi verso di lui.
“Secondo me ti preoccupi troppo per tua sorella e poco per te. Julie, sono sicuro che lei sa quello che fa” le disse mentre posava la mela mangiucchiata sul vassoio della ragazza.
“Secondo me invece non sa proprio quello che fa” affermò con sicurezza. “Ma ora non m’importa! Andiamo fuori? Ci sono le altre cheers che mi aspettano” continuò.
“Certo! Sono ai tuoi ordini, ricordi?” le rispose ironizzando sul fatto che Jules si comportava come se comandasse lei la scuola, ed in un certo senso era così.
Poi le offrì il braccio e insieme si diressero verso il cortile.
 
Era all’inseguimento di Davis da circa una ventina di minuti, ormai si erano allontanati dal centro di Washington, avevano attraversato Gordon Boulevard diretti verso Tyson Corner, quando la macchina di Ellie cominciò a fare i capricci. “Mandy, ti prego! Non abbandonarmi adesso!” disse colpendo con fermezza il cruscotto della macchina. Adorava quell’auto, nonostante fosse parecchio malandata e mantenerla fosse una vera e propria impresa. Le aveva dato il nome di Mandy alla sua Chevrolet circa una settimana dopo l’acquisto; l’aveva comprata con i suoi risparmi dopo aver lavorato per due anni da Bloomer, lavoro che destava ma che le permise di comprare la sua prima auto.
La macchina emise un rantolo e dopo pochi minuti riprese la sua normale andatura, “Grazie tesoro!” esclamò, poi notò che Davis aveva svoltato a destra, diretto verso una strada senz’uscita.
L’uomo parcheggiò davanti una casa all’apparenza abbandonata, scese dalla macchina e entrò dando un calcio al cancello di legno ormai inumidito. Elizabeth parcheggiò sul marciapiede di fronte, chiuse i finestrini, sistemò la sua borsa, controllando di aver preso il cellulare, e scese dalla macchina. Rimase per un po’ ferma davanti al cancello, poi decise di entrare scavalcando il cancello per non fare troppo rumore.
Avanzò lungo il vialetto d’ingresso cosparso di foglie secche e vecchi inserti pubblicitari, guardando giù, verso le mattonelle notò che queste erano coperte di macchie di sangue come se qualcuno avesse trascinato un corpo; “A quanto pare è qui che porta le sue vittime” pensò, poi prestando più attenzione alla scia di sangue, si diresse verso la porta di quella che un tempo doveva essere stata una casa coloniale, quando notò all’improvviso comparire Davis assieme ad un uomo alto di colore; Elizabeth, presa dal panico, si nascose dietro una panca in acciaio arrugginito.
“Sei un coglione, John. Che cazzo hai combinato? Ora che cosa dovrei fare? Sei il solito coglione di sempre” urlò Davis contro l’uomo.
“Che dovevo fare? Lei non si muoveva più e così ho interrotto la dose”
“E chi te l‘ha ordinato? Ora dovrai ucciderla con altri mezzi, hai capito? Io non la voglio. Ora non mi serve più”
“Ucciderla con altri mezzi? Io non posso ucciderla…” balbettò l’uomo distogliendo lo sguardo.
“Non vuoi ucciderla? Indovina un po’? Non me ne fotte un cazzo che non vuoi, intesi?” continuò Davis spingendo l’uomo contro il muro.
Elizabeth approfittando della discussione fra i due cercò di scappare passando da dietro le erbacce e strisciando contro la parete, ma quando arrivò vicino al cancello d’ingresso inciampò nella radice sporgente di un albero, provocando un gran tonfo.
“Che è stato?” chiese Davis avviandosi verso l’ingresso, Elizabeth trattenne il respiro, immobilizzandosi, consapevole di aver fatto una grande cazzata, si augurava vivamente che Davis non la vedesse. Non sentendo più i passi di Davis nel vialetto, pensò di averla scampata quando all’improvviso sentì una mano posarsi sulla sua spalla.
“John, abbiamo visite” esclamò Davis alla vista di Elizabeth “Ma quanto sei carina!” le disse girandole il mento verso di sé, Elizabeth si contrasse e Davis la strinse ancora più forte facendole chiudere gli occhi per il dolore.
“Lou, lasciala stare. È solo una ragazzina, sicuramente sarà entrata qui per caso” farfugliò l’uomo guardando Ellie.
“Tu dici? Vediamo chi è questa ragazzina” affermò, poi prese la borsa di Ellie e cominciò a frugarvi dentro alla ricerca della carta d’identità. “Elizabeth Morgan Reid” lesse Davis una volta trovata.
“A quanto pare abbiamo la figlia dell’agente Reid fra noi” “Ti ha mandato papino?” aggiunse.
“Lascia stare mio padre”
“Prendi le sue difese? Ma quanto sei tenera! Ora non posso mica lasciarti andare. Ci rimarrei troppo male. Vero, John?” disse rivolgendosi verso l’amico ridendo.
“La figlia di un federale? Lou non è troppo rischioso?” domandò John cambiando espressione.
“No, John. Non preoccuparti, anzi sarà proprio divertente” affermò Davis lanciandosi in una fragorosa risata. “Portala dentro” ordinò poi all’amico lasciando cadere Elizabeth per terra.
 
 
“Spencer, Ellie per caso ti ha detto se veniva a cena?” domandò Madison a suo marito, nel frattempo sbatteva le uova per la frittata con una mano mentre con l’altra teneva il telefono.
“Non mi ha detto nulla in proposito, ma credo che rimarrà da Colin a cena, come al solito. Ora scusami ma devo chiudere, qui in ufficio è un casino” rispose fissando la pila di fascicoli che JJ gli aveva lasciato sulla scrivania.
“Va bene. Allora a stasera” gli rispose chiudendo la telefonata senza lasciare il tempo a Spencer di rispondere. Aveva il vizio d’interrompere le telefonate senz’alcun preavviso, cosa che lo irritava alquanto.
Prevedendo una lunga serata ad analizzare fascicoli, decise di farsi una tazza di caffè e si diresse verso la “cucina” dell’ufficio. Mentre andava, notò Anne flirtare con lo stagista in corridoio e Lucas combattere contro una scatola di tonno.
Si versò il caffè nella sua tazza e ritornò alla sua postazione. Prima d’immergersi completamente nel lavoro, decise di concedersi cinque minuti di pausa per rilassare la mente, poggiò la tazza sulla scrivania e chiuse gli occhi.
“Spence ti è arrivata questa” lo interruppe JJ indicandogli una busta gialla con il suo nome scritto sopra.
“Che cos’è?” le chiese con aria sorpresa. ”Non ne ho proprio idea” rispose facendo spallucce.
Spencer prese la busta in mano e l’aprì, dentro trovò una memory card avvolta in un fazzoletto di seta. Accese il computer ed inserì la memory, dopo pochi minuti si aprì una finestra con tante cartelle vuote, cercò velocemente quella destinata a lui e la cliccò, mentre aspettava che si avviasse prese di nuovo la tazza di caffè. Improvvisamente comparvero una serie d’immagini che ritraevano Elizabeth legata ad una sedia, Spencer sgranò gli occhi e lasciò cadere la tazza che si frantumò in mille pezzi dopo aver toccato il pavimento.
“Spence che è successo?” gli chiese JJ corsa alla scrivania assieme a Morgan dopo aver sentito la tazza frantumarsi.
“Oddio…” esclamò JJ alla vista delle immagini.
“Credi che…?
“Ti prego, JJ” farfugliò e prendendosi la testa fra le mani continuò: “Come ha fatto ad arrivare ad Ellie? Io non capisco… io…” non riusciva a completare nessuna frase; era troppo sconvolto, non riusciva a credere che la sua bambina fosse stata rapita da un folle omicida per cui non erano riusciti neanche a tracciare un profilo.
In quel momento squillò il telefono, Morgan dopo aver dato il segnale a Lucas di avviare il dispositivo per localizzare la telefonata, rispose. “Voglio parlare con l’agente Reid” esordì una voce fredda dall’altro capo del telefono.
“Bastardo! Ridammi mia figlia” esclamò Spencer dopo aver strappato il telefono dalle mani di Derek.
“Non così in fretta, agente Reid. Voglio aiutarla però, le do ventiquattro ore per trovare e salvare sua figlia, altrimenti beh lo sa che succede” e chiuse subito la telefonata.
“Bastardo! Non chiudere” urlò Spencer alla cornetta ormai muta.
“Siamo riusciti a rintracciare la telefonata?” chiese Derek a Lucas. “Niente, è stata troppo veloce” rispose rammaricato.
A quelle parole Spencer batté il pugno contro la scrivania e buttò tutti i fascicoli per terra.
“Reid, calmati. Devi essere lucido” disse Derek rivolgendosi all’amico e posandogli una mano sulla spalla.
“Che cosa? Mi dovrei calmare? Se fosse successo a Megan saresti calmo e lucido?”.
Derek non rispose, sapeva benissimo che nemmeno lui sarebbe rimasto calmo. Nessuno ci sarebbe riuscito.
“Scusate, ma devo andare” disse Spencer avviandosi verso la porta a vetro scorrevole del bureau.
 
Scese nel parcheggio, accese il motore e partì a tutta velocità. Fuori pioveva a dirotto, non riusciva a vedere nulla nonostante i tergicristalli fossero avviati. Sapeva benissimo dove stava andando, a casa dell’unica persona che sarebbe stato in grado di dargli una mano in quel momento. Guidò come una furia, senza fermarsi a nessuno stop e rispettare i vari semafori, per circa un’ora. Poi giunto a destinazione, scese dalla macchina e bussò alla porta.
Dopo alcuni minuti di attesa, un ragazzo biondo alto aprì la porta; “Spencer che ci fai qui?” esclamò il ragazzo con aria stupita nel vederlo lì sotto la pioggia incessante. “Jack, c’è tuo padre?” gli domandò con aria afflitta. Non reggeva più la tensione, era emotivamente sfinito.
“Si, certo. Entra pure” gli disse facendosi da parte per lasciarlo passare. Poi andò a chiamare suo padre, che ne stava nel suo studio intento a leggere un libro. Aaron comparve in soggiorno dopo pochi minuti, era sorpreso nel vedere il vecchio collega a casa alle nove passate. “Cosa è successo?” gli chiese dopo aver notato l’espressione di sofferenza di Spencer.
“Hotch, ho bisogno di te. Ellie è stata rapita” disse tutto d’un fiato lasciandosi cadere sulla poltrona.
 

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Capitolo 7
*** Riunione di gruppo ***


Riunione di gruppo 

 
E’ un buon padre quello che conosce suo figlio” (William Shakespeare)
 
 
“Ellie è stata rapita? Come è potuto succedere?” chiese Aaron, in quel momento si rese conto di non ricordarsi il volto della figlia di Spencer, ma conosceva bene il volto di Spencer: era il volto di chi è disperato, di chi sente il mondo crollargli addosso.
“Non lo so, non lo so…” era tutto ciò che riusciva a farfugliare. Era confuso, nulla di tutto quello che stava vivendo aveva senso per lui. “L’unica cosa che so che è mia figlia è uscita per andare a scuola e non è più tornata” aggiunse.
“Madison lo sa?”
“Non gliel’ho ancora detto. Non so come dirglielo…” rispose, nascondendo il viso fra le mani.
“Devi dirglielo. Ora andiamo, abbiamo una lunga nottata davanti a noi” affermò facendo un leggero sorriso per tirar su l’amico. Spencer annuì e si alzò dalla poltrona, poi salutò Jack che durante tutta la conversazione era rimasto zitto in un angolo, e sempre in silenzio il ragazzo guardò Spencer uscire dalla stanza.
“Papà la troverete, vero?” gli domandò poco prima che suo padre uscisse di casa. Conosceva bene Ellie, così come anche Henry, erano cresciuti insieme per molti versi e aveva imparato a volerle bene, nonostante a volte lo facesse innervosire con il suo modo di fare da ragazza “ribelle”, ma come precisava sempre Henry “can che abbaia, non morde”, ed era così infatti.
“Non preoccuparti” e uscì di casa, sparendo dietro la porta. Jack rimase per un po’ fermo in soggiorno, poi salì in camera e chiamò Henry; non poteva nascondergli un fatto del genere.


 
Il telefono squillò diverse volte svegliando il coinquilino di Henry, Greg, che lo chiamò a gran voce. “LaMontaigne, per favore, o ti porti il cellulare appresso oppure cambia quell’odiosa suoneria” lo rimproverò girandosi dall’altro lato del letto.
Henry gli lanciò un’occhiata di disappunto e guardò il display segnalante una chiamata persa. “Jack?” si domandò dopo aver letto il nome.
Era strano che avesse ricevuto una chiamata da parte di Jack, i due non si telefonavano mai, al dire il vero, non è che si frequentassero molto, soprattutto ora che Jack era laureato e in attesa di essere ammesso al programma internazionale della Sorbonne per approfondire alcuni studi riguardo lo sviluppo delle cellule tumorali, mentre lui aveva da poco terminato il college e si era iscritto al corso di laurea in Ingegneria biomedica, sempre alla Brown, con dispiacere del suo padrino che avrebbe preferito l’MIT.
“Jack, dimmi tutto” esordì il ragazzo dopo che l’altro ebbe risposto.
“Henry, Ellie è stata rapita…” gli disse senza utilizzare mezzi termini, non credeva che Henry avrebbe preferito un inutile giro di parole.
Fu un lungo minuto quello che seguì quell’affermazione, in cui Henry avvertì una strana sensazione allo stomaco.
Deglutì rumorosamente dando segni di vita che rassicurarono Jack che la linea non fosse caduta. “Hey, stai bene?”
“No..” riconobbe il ragazzo, quella notizia lo aveva lasciato senza parole, per la verità lo aveva messo di fronte alla consapevolezza che lui provava qualcosa di serio nei confronti di Elizabeth.
Aveva sempre vissuto quel groviglio di emozioni, che quella ragazza di cinque anni più piccola di lui riusciva a provocargli, con timore e un po’ di vergogna. Ellie era una ragazzina ancora sotto molti punti di vista, lui invece era un giovane uomo, eppure non riusciva a smettere di pensarla.
Soprattutto dopo quel bacio che si era scambiati durante la festa dei sedici anni di Elizabeth, quell’evento lo aveva colto di sorpresa, si era ritrovato di accarezzare la lingua della figlia del suo padrino senza nemmeno accorgersene.
Nessuno ne era a conoscenza e lui aveva finto di non provare nulla, scusandosi con la ragazza per quella imprudenza e l’aveva evitata per il resto dell’estate. Elizabeth, in tutta risposta reagì come ogni ragazza tradita avrebbe fatto, lo ignorò persino alla sua festa di laurea, risalente a luglio dell’anno precedente, presentandosi con un ragazzo che presentò come il suo fidanzato, ma che, in realtà, era il cugino gay di Blair, la quale aveva suggerito quella mossa per farlo ingelosire.
“Torno a Washington” affermò senza pensarci e riattaccò.

 
“Perché stiamo andando verso Walker Mill?” chiese Spencer notando che avevano preso l’uscita di Pennsylvania Avenue.
“La squadra non è completa” rispose senza aggiungere altro. Proseguirono per un altro tratto e si fermarono davanti ad una casa rossa sorvegliata da un grosso pastore tedesco che appena li vede si mise a ringhiare.
“Hotch, ma dove mi hai portato?” domandò guardando il cane rabbioso con un certo sospetto. Aaron non lo rispose, e s’incamminò verso l’ingresso. “Buono, Steve” disse al cane quando gli passò davanti.
Giunto alla porta bussò e rimase ad aspettare; “Vieni Reid” gli disse facendogli segno con la mano di venire verso di lui, Spencer passò davanti al cane affrettando il passo e si piazzò dietro ad Hotch.
“Aaron Hotchner, spero che tu abbia una buona scusa per avermi disturbato a quest’ora” esordì David Rossi, appena aprì la porta e si trovò davanti Hotch.
“Ottima, David. Mia figlia è stata rapita” disse Spencer spostandosi da dietro l’ex agente supervisore.
Rossi sgranò gli occhi sbalordito, quando si presentavano simili casi, non riusciva a rimanere del tutto distaccato. “Andiamo” gli rispose senza esitare un attimo e prendendo la giacca dall’appendiabiti.
“Se non vi dispiace, io vorrei prima andare a casa” disse il dottor Reid a bassa voce.
“Va bene, noi andiamo con la macchina di Rossi. Ci vediamo in ufficio” rispose Aaron. “Tranquillo, Spencer. Ti prometto che andrà tutto bene” aggiunse per rassicurarlo. Poi si diresse verso Rossi che nel frattempo aveva preso le chiavi della vettura, salì nel veicolo e partirono.
Spencer rimase in piedi solo davanti al cancello della casa di David, incerto su cosa dire a Madison; non trovava le parole per iniziare quella conversazione, probabilmente la più difficile della sua vita, doveva dire a sua moglie che la loro figlia maggiore era stata rapita da un S.I.; ora capiva cosa aveva provato Hotch quando Foyet lo aveva costretto ad allontanarsi dalla sua famiglia, cosa aveva provato quando seppe della morte di Haley, cosa significasse sentirsi impotenti, sapere che una persona che ami è in pericolo e non poter far nulla per salvarla.
Emozioni che aveva già provato in precedenza, quando il suo primo amore fu rapito e ucciso davanti ai suoi occhi, si ricordò della promessa che aveva fatto a sé stesso in quell’occasione, non avrebbe mai permesso che riaccadesse qualcosa di simile alle persone che amava e avrebbe impedito con tutto sé stesso che la stessa sorte capitasse alla sua bambina.
Maeve era importante, ma con il tempo riuscì a superare la sua perdita, parte del merito andava riconosciuto alla sua attuale moglie, ma sapeva che se avesse perso sua figlia, molto probabilmente non sarebbe mai più riuscito a riprendersi.
Salì in auto, fece un respiro profondo per farsi coraggio e partì. Cercò di concentrarsi il più possibile sulla guida, di non pensare alla sua Ellie, ma era inevitabile; non poteva non pensarla, anche se sapeva che sua figlia sarebbe stata all’altezza della situazione, ne era convinto. Elizabeth era una ragazza abbastanza furba, ma soprattutto aveva coraggio da vendere. Sarebbe riuscita a resistere fino a quando lui non l’avesse trovata.
Arrivò a casa, scese dall’automobile lasciando il motore acceso. Entrò in casa, augurandosi di non incontrare subito Madison, ancora non sapeva bene cosa le avrebbe detto, ma invece Madison era proprio lì con il telefono in mano.
“Tua figlia è in un mare di guai, non so dove sia. Ho chiamato a casa di Colin e Florence mi ha detto che non è stata da loro oggi pomeriggio” annunciò a suo marito non appena lo vide.
“Lo so, Maddie”
“Lo sai? Ti ha chiamato?” le chiese incredula, non riusciva a credere che Elizabeth avesse chiamato Spencer.
“Maddie… devo dirti una cosa, ma prima siediti”
“Spencer, mi stai spaventando così” disse, ma ubbidì; posò il telefono sul tavolo al centro della stanza e si sedette sul divano.
“Tesoro, Ellie non è andata a pranzo da Colin perché è stata rapita”. Madison ebbe un mancamento e chiuse gli occhi, sforzandosi di non piangere.
“Rapita? Spencer che stai dicendo? Non capisco…” balbettò, aveva sempre temuto che suo marito potesse essere rapito o ferito da un S.I., ma il rapimento di sua figlia non aveva alcun senso.
“Sei sicuro? Com’è potuto accadere?” gli domandò incapace di guardarlo negli occhi.
“Sì, amore. È così, ho ricevuto delle fotografie… è stato Davis, il manager che abbia interrogato martedì” le spiegò provando ad avvicinasi a lei.
“Voglio vederle” esclamò, alzandosi dal divano.
“E’ meglio che tu non le veda…” ribadì Spencer con fermezza, non voleva che sua moglie soffrisse ancora di più.
“Spencer, non dirmi ciò che posso e non posso vedere, hai capito?” urlò, allontanandosi da Spencer che provava ad abbracciarla.
“Maddie, la troverò. Non lascerò che le accada nulla, lo giuro” rassicurò sua moglie, stringendole le mani.
“Anche se so quanto possa essere difficile, voglio che tu stia tranquilla e che ti fidi di me, me lo prometti?”
La guardò dritto negli occhi, velati dalle lacrime, e sentì il suo cuore andare in pezzi. Sperava con tutto sé stesso di riuscire a mantenere la sua promessa, doveva farlo anche per la sua Madison.
“Sì…” sussurrò la donna, lasciandosi scappare una lacrima che le bagnò il viso. Spencer le asciugò le lacrime e l’abbracciò stretta senza incontrare resistenze.
“Ora vado in ufficio. Anche Hotch e Rossi ci daranno una mano” l’informò e le diede un bacio sui capelli, dopodiché la salutò di nuovo dirigendosi verso la porta d’ingresso.
“Vengo con te” gli disse prendendolo per un braccio.
“No, Maddie. Devi parlare con Jules e Thomas, se vieni in ufficio non ha alcun senso” replicò il profiler.
“Porterò Jules e Tom a casa di Jane e vengo lì” insistette.
“Va bene…”  e si avviò verso la porta.
Poco prima che uscisse, Madison gli rivolse un’ultima domanda. “Spencer, quanto tempo?” gli chiese.
“Quanto tempo?” domandò voltandosi verso di lei.
“Sì, insomma sono vent’anni che ho a che fare con il tuo lavoro, e so bene che per ogni vittima c’è una scadenza ben precisa. Qual è quella di Ellie?”
“Oh, si. Ventiquattro ore…”
“Hai ventiquattro ore per portare mia figlia a casa” rispose fredda. Spencer annuì e se ne andò.


Madison stette ferma sulla soglia della porta incerta sul da farsi, poi si fece coraggio e compose il numero di Jane.


“Pronto?” rispose l’amica dopo aver lasciato squillare il telefono per un po’.
“Jane, sono Madison… Ho bisogno di un favore” sussurrò non appena sentì la sua voce.
“Mads, che è successo? È capitato qualcosa a Spencer?” le domandò preoccupata che dal tono della voce di Madison aveva intuito che qualcosa non andava.
Dovette imporsi di non cedere, serrò forte gli occhi e raccontò all’amica cosa fosse successo.
“Eliza? Che cosa?” esclamò Jane sorpresa da quanto aveva appena sentito.
“Jane, posso portare Jules e Tom da te? Non voglio che rimangano qui da soli…”  le chiese, trattenendosi a stento dal piangere. Aveva paura per sua figlia, paura di non vederla mai più.
“Certo, tesoro. Li vengo a prendere io assieme a Wyatt, ok? Stai tranquilla, tra poco sono lì” la rassicurò.
Madison rispose con un laconico ‘grazie’ e riattaccò, ora doveva parlare con i suoi figli.
Salì le scale e andò in camera di Jules, che stava ripassando la coreografia per il giorno dopo; si stava allenando duramente per il corso interscolastico che si sarebbe tenuto a breve e che avrebbe deciso la loro partecipazione alle regionali di cheerleading.
“Jules, scusami. Ti devo parlare” esordì Madison, dopodiché entrò nella stanza e spense lo stereo.
“Mamma, dimmi. Che è successo?” le domandò leggermente preoccupata notando l’espressione angosciata di sua madre.
“Ju, Ellie è stata rapita dal S.I. del caso di Spencer…” le rispose secca, effettivamente non c’erano modi di semplici per comunicare una simile notizia perciò preferì essere diretta, poi si sedette sul letto; era stremata, non riusciva più parlare, si sentiva vulnerabile ed incapace di reagire.
“Oh…” fu tutto quello che riuscì a dire sua figlia; per un attimo rimase ferma in silenzio, poi si fece coraggio e s’avvicinò alla madre. “Sono sicura che papà la troverà” e le posò la testa sulla spalla in cerca di conforto.
“Trovare chi?” chiese Tom che le aveva sentite parlare intanto che andava in bagno.
“Ellie, tesoro. Tua sorella è stata rapita questa mattina, non sappiamo ancora molto…” ripeté Madison asciugandosi le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi. “Vieni qui” aggiunse poi allungando le braccia, aveva bisogno più che mai dei suoi bambini, di sentirli vicini.
“Mamma… e se fosse troppo tardi?” domandò il ragazzo; la notizia lo aveva lasciato senza parole, non poteva credere che sua sorella fosse stata rapita, si augurava calorosamente che suo padre la trovasse, ma soprattutto che fosse ancora viva, non riusciva neanche a pensare ad una vita senza sua sorella.
“La troverà, Tom. Io mi fido di papà” esclamò Jules fra le lacrime, aveva provato a non piangere. Tuttavia, non ne fu capace.
Pensare all’eventualità che sua sorella potesse non tornare, l’aveva profondamente scossa.
Madison tentò di riprendere il controllo e si passò una mano sul viso strofinandosi gli occhi.“Ragazzi, voglio che andiate a casa di Jane, io invece raggiungerò vostro padre in ufficio. Prendete il pigiama e un ricambio, vi aspetto sotto” comunicò ad entrambi che annuirono,dopodiché li abbracciò forte e uscì dalla camera.
Tom rimase seduto sul letto senza dire una parola, pensava ad Ellie, a come doveva sentirsi in quel momento. “Tom, vai a prendere le tue cose, dai” le disse Jules che aveva ormai preso tutto, si avvicinò a Thomas e gli offrì la mano; suo fratello la guardò e annuì, lasciando le ciocche dei suoi capelli castani ricadere sul viso, a quel punto andò in camera sua e prese quanto detto da sua madre .
Tornando verso camera di Jules, si fermò sulla soglia della stanza di Ellie ed entrò. Prese il pupazzo preferito di sua sorella, si sedette sul tappeto abbracciandolo. “Tommy che fai qui dentro?” gli chiese Jules sedendosi vicino a lui per terra “Lo sai che se Ellie lo viene a sapere, si arrabbia. Non vuole che stiamo qui…” provò a dire fingendo che fosse tutto okay, era un modo per distrarsi.
“Le ho preso Mister Skippy, quando papà la troverà, sono sicuro che le farà piacere averlo…” rispose indicando l’orsacchiotto di peluche un po’ sgualcito regalatogli da suo padre all’età di due anni.
“Già…”  gli disse, si rese conto che la prima volta in tanti anni lei e suo fratello stavano insieme, si pentì di essere a volte così presa da stessa al punto da trascurare tutti gli altri; non era egoista, ma semplicemente come le ripeteva sempre suo padre, non riusciva a calibrare il suo tempo.
“Ragazzi…” li chiamò Madison “Ma dove siete? Ah, eccovi…” disse dopo averli trovati, vederli insieme con quell’aria triste le spezzò il cuore, più di quanto non lo fosse già. Si maledisse per aver detto loro cosa stava succedendo, avrebbe dovuto inventarsi una bugia, ma sapeva che non era giusto mentire e perciò si rincuorò pensando di aver fatto la cosa giusta.
“E’ arrivata Jane” aggiunse e scese di sotto seguiti da Jules e Tom che procedevano in un silenzio tombale.
“Jules, vuoi guidare tu?” le chiese Jake, sventolandole le chiavi dell’auto davanti al naso, pensando che forse l’avrebbe aiutata a svagarsi almeno per un po’.
“Ellie non mi ha ancora insegnato …” sussurrò trattenendo le lacrime.
“Sono sicuro che lo farà, c’è un sacco di tempo ancora” le disse sorridendo alla ragazza perché prendesse coraggio.
“Bene, andiamo! Jane ha lasciato la pizza in forno, non vorrei che si bruciasse. Insomma già è abbastanza rovinata di suo” continuò con tono ironica.
“Come sei spiritoso!” rispose sua moglie con una smorfia, poi abbracciò Madison sussurrandole di farsi coraggio e aiutò i ragazzi a mettere le cose nel cofano.
“Ci sentiamo più tardi. Comportatevi bene” raccomandò ai suoi figli, dando loro un bacio sulla testa.
“Mamma, mi prometti che se succede qualcosa di brutto me lo dirai senza fare nessun giro di parole?” le chiese Thomas poco prima di salire in macchina.
“Va bene, tesoro” rispose annuendo, infine, gli diede un altro bacio, e li guardò partire.
Entrò immediatamente in casa chiudendosi la porta alle spalle. Prese in telefono e chiamò i suoi, sentiva un bisogno urgente di avere i suoi genitori lì accanto a lei.
“Pronto?” rispose al telefono sua madre con voce assonnata, in effetti stava già dormendo.
“Mamma…” disse Madison con voce spezzata.
“Bambina, che è successo? Non dirmi che è capitato qualcosa a Spencer!” affermò, aveva sempre avuto la paura che il suo genero potesse ferirsi o peggio morire facendo quel “lavoro da cacciatore”, come diceva sempre lei.
“No, mamma. Ellie…” non riuscì a completare la frase, fece un respiro profondo e proseguì: “E’ stata rapita”
“Rapita? Oddio” esclamò e immediatamente si sedette sulla sedia, si sentiva prossima ad un mancamento. La sua prima nipotina rapita non riusciva a capacitarsene, questo era oltre l’accettabile.
“Voglio che veniate qui” le chiese Madison, sapeva che senza sua madre non sarebbe riuscita ad affrontare la situazione e un eventuale risvolto negativo; amava Spencer e confidava in lui, ma riconosceva che neanche lui sarebbe stato in grado di sostenerla in quel momento.
“Certo, tesoro. Adesso andiamo all’aeroporto e prendiamo il primo volo. Mi raccomando Maddie, non fare cavolate” le disse, anche se non riusciva nemmeno ad immaginare come sua figlia dovesse sentirsi in quel momento si rendeva conto che ciò che le stava capitando poteva far crollare il suo autocontrollo.
“Sì, mamma…” e chiuse. Poi prese il cappotto e salì in macchina diretta verso la sede di Quantico.
 
 
Elizabeth si svegliò, si accorse di non riuscire a muoversi, si sentiva intorpidita come se tutto il suo corpo fosse addormentato; guardò per terra e notò di avere mani e piedi legati, improvvisamente si rese conto di non ricordarsi minimamente come fosse giunta lì.
Pensò ai suoi ultimi ricordi e un brivido le attraversò la schiena:
“Smettila di muoverti, hai capito? E non ti azzardare ad urlare, altrimenti mi costringerai a farti molto male” le aveva detto Davis, puntandole una glock alla testa, poi spinse Elizabeth che cadendo in avanti emise un gemito, a quel punto John si era avvicinato e gli aveva iniettato un liquido blu nel braccio e tutto diventò buio. Ripensando a quello che le era successo, Ellie cominciò a piangere, desiderò fortemente di poter tornare bambina, chiamò i suoi genitori anche se se sapeva che non sarebbero arrivati…
Si sentì una stupida ad aver pensato di riuscire da sola, si era messa in pericolo inutilmente. “Mi dispiace, papà…” disse con le lacrime agli occhi per poi ricadere in una sorta di dormiveglia.
Migliaia di ricordi le affiorarono la mente; vide se stessa, seduta sul divano, con una scatola di cereali in mano, aveva poco più di 3 anni, suo padre l’aveva rimproverata dicendo che non doveva mangiare dalla scatola, lei però aveva continuato imperterrita perché era più divertente così, poi la porta si aprì ed entrò sua nonna Natalie con una bimba in braccio avvolta in una mantellina rosa; sua nonna mise la bambina in braccio a suo padre, che si avvicinò a lei e le disse:”Guarda, Ellie! Questa è la tua sorellina!”; il primo ricordo di sua sorella Jules svanì e si ritrovò nel letto matrimoniale sdraiata accanto a sua madre che si accarezzava il pancione, “Mamma, ma quando nascerà mi vorrai ancora bene?”  le aveva chiesto “Ma certo, sciocchina. Tu e la tua sorellina sarete sempre le mie due bimbe adorabili”  aveva affermato la sua mamma sorridendo. “Ed io sarò sempre il tuo raggio di sole?” le aveva chiesto ancora.
“Sempre” le aveva risposto abbracciandola stretta stretta per farle il solletico; lo scenario cambiò ancora, ora si trovava nel deserto del Nevada in piedi davanti ad una tenda da campeggio, “Nonno, ma per forza dovevamo venire qui?” gli aveva chiesto, era più molto grande, aveva circa 13 anni. “Ellie sei proprio come tuo padre! Sempre a lamentarsi…” imitando il modo di gesticolare di suo padre.
“Vieni qui! Senti l’odore della terra. Ha il profumo del mare”  aveva aggiunto avvicinandole un pugno di terra al naso, Ellie starnutì urlando:“Che schifo!”.
Suo fratello invece, dopo aver annusato la terra, confermò quanto detto da suo nonno felice della nuova scoperta. “Siete due pazzi! Questo è il deserto! Qui mare non ce n’è! Come fa la terra a profumare di sale? A meno che un tempo di qui non passasse un fiume, ma in ogni caso non può essere perché quella è acqua dolce mica salata” esclamò scioccata dall’affermazione di suo fratello.
“Ellie, certe cose non le devi capire, ma solo sentire” aveva detto suo nonno; il ricordo di suo nonno nel deserto si sfumò, ora se ne stava seduta davanti a suo padre che le spiegava la lezione di fisica di quella settimana: “La corrente elettrica è un moto ordinato di cariche, nel senso che le cariche negative scendono lungo la differenza di potenziale, quelle positive invece risalgono. Ellie, ma mi stai seguendo?” le aveva chiesto dandole un leggero scossone.
Ellie aveva annuito, ma in realtà non lo stava affatto sentendo, pensava ad Henry e al pomeriggio che avevano appena passato insieme. L’aveva sempre considerato un buon amico, ma ultimamente in lui ci aveva visto qualcosa di più e non le dispiaceva affatto, al pensiero sorrise mentre suo padre continuava a blaterare sulla differenza di potenziale…
Il rumore di passi nella stanza la distolse dai suoi ricordi, guardò verso la porta e vide John che trafficava con delle siringhe. “Che stai facendo?” gli chiese quando lo vide avvicinarsi a lei intenzionato a iniettarle qualcosa.
“Questo ti darà un po’ di sollievo. Non ti farà alcun male” affermò, in seguito le iniettò il liquido nel braccio.
“Perché lo fai? Lo so che non vuoi farlo, me ne sono accorta. Puoi aiutarmi e ti prometto che mio padre ti farà ottenere una riduzione della pena, tutto quello che devi fare è chiamarlo” propose fiduciosa, credeva che se John si fosse sentito coperto l’avrebbe sicuramente aiutata, invece l’uomo dopo un momento d’esitazione scosse la testa. “Sarai incriminato per quattro omicidi, cinque con quello che ti sei accollato oggi e sei se ucciderete anche me, insomma John siamo già ad un centinaio di anni di carcere” sottolineò la ragazza sperando che il pensiero di passare il resto della sua esistenza in prigione lo persuadesse ad aiutarla.
“Mi dispiace, ragazzina. Ma se qualcosa dovesse andare storto, io verrò punito con la morte e perciò preferisco il carcere” disse e se ne andò lasciando Ellie da sola che qualche minuto più tardi cominciò a sentire la testa pesante dopodiché tutto divenne buio di nuovo.
 

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Capitolo 8
*** Corsa contro il tempo ***


Corsa contro il tempo 

 
“(…)la giustizia del mondo che punisce chi ha le ali e non vola (…)” (Baciami ancora, Jovanotti)
 
Jules guardava fisso la pioggia sbattere contro la finestra mentre sorseggiava una tazza di tè.
Odiava il tè, ma Jane glielo aveva gentilmente offerto e in quella situazione non se l’era sentita di rifiutare.
Erano ormai passate tre ore da quando sua madre aveva dato loro la notizia e ancora non aveva ricevuto nessuna novità. Stava passando in rassegna gli ultimi due giorni per cercare di capire se qualcosa le fosse sfuggito quando le venne in mente la conversazione avuta con Colin quella mattina stessa.
“Che stupida a non averci pensato prima” si disse mordendosi il labbro poi si precipitò di sotto dove suo fratello assieme a Jane e Jake giocava a monopoly.
“Jane, posso usare il telefono? Devo chiamare mamma” le chiese prendendo in mano il cordless.
“Certo tesoro” le rispose annuendo. “Tutto bene?” aggiunse scrutando con attenzione l’espressione di Jules che aveva ancora gli occhi rossi e gonfi dal pianto. “Si, tutto bene. Vado di sopra” le rispose di fretta e salì velocemente le scale. Jane le gettò un’ultima occhiata e ritornò alla propria partita. “Tocca a te, Tom” disse sollecitando il ragazzo che sembrava essersi perso anche lui nei suoi pensieri.
Una volta entrata nella stanza, si chiuse la porta alle spalle e chiamò sua madre; il telefono squillò diverse volte senza alcuna risposta, alla fine quando Jules stava quasi per rinunciare sua madre rispose.
“Pronto?”
 “Mamma, sono Jules. Devo dirti una cosa…” esordì con una voce fioca.
“Dimmi, è successo qualcosa?” le chiese allarmata, non si aspettava una chiamata da sua figlia e dopo il rapimento di Ellie era pronta al peggio.
“No, niente. Mi è venuta in mente la conversazione con Cole stamattina. Credo che Ellie a scuola non sia mai venuta” continuò.
“Come mai venuta?” domandò con espressione incerta. Spencer che era seduto vicino a lei sentì quanto Jules aveva appena detto e le prese il telefono dalle mani. “Spiegati meglio, Jules”
“Stamattina Ellie non era in mensa così ho chiesto a Cole come mai non ci fosse e lui mi ha detto che era uscita con Blair, ma poi all’uscita ho visto Blair e lei non c’era. Credo che Blair avrebbe riferito qualcosa se Ellie fosse sparita mentre era con lei” disse tutt’un fiato “Penso che Cole la stesse coprendo, questo spiegherebbe perché si è inventato una bugia” continuò.
“Coprendo? Per fare cosa? Oddio…” esclamò al telefono. Improvvisamente tutto gli fu chiaro, Davis non aveva premeditato il rapimento di Ellie, ma era stata lei ad andare da lui; avrebbe dovuto capirlo subito, sua figlia era rimasta profondamente scossa dall’annuncio della chiusura delle indagini al punto da decidere di procedere da sola per cercare una prova incriminante e aveva i mezzi per farlo. Lui lasciava sempre i fascicoli dei vari casi in casa, le era bastato entrare nello studio e prenderli. In quel momento si maledisse per aver compiuto il tremendo errore di condividere con Ellie il suo lavoro. Non aveva la maturità per affrontarlo e perlopiù era molto impulsiva come dimostrava la decisione avventata che aveva preso senza consultarsi con nessuno.
“Papà… ci sei?” domandò Jules che aveva per un momento pensato che fosse caduta la linea.
“Sì, tesoro. Grazie, questo ci è di aiuto” la salutò e chiuse la telefonata.
“Lo pensi davvero?” le domandò Madison mentre Spencer andava verso Anne. “Cosa?”
“Che Ellie abbia fatto una cosa tanto stupida come questa” sottolineò.
 “Sì, lo penso davvero…” e se ne andò. Madison intanto che osservava la magra figura di suo marito dileguarsi dietro la porta di sala riunioni pensò che questa era la prima volta in tanti anni di matrimonio che metteva piede nel bureau, per un momento si pentì di esserci andata, la sua presenza in quel luogo non avrebbe che reso le cose più difficili a Spencer, ma d’altra parte sentiva il bisogno di stargli vicino per ricordargli che non era da solo ad affrontare quella situazione.
“Madison, come stai?” le chiese JJ e si sedette vicina a lei. Le rivolse un sorriso per infonderle coraggio, riusciva a capire come dovesse sentirsi in quel momento, aveva troppi anni di lavoro alle spalle e aveva ormai visto molte scene come questa. Nonostante ciò non sapeva cosa dirle, non si trattava del famigliare di una vittima a cui rivolgere qualche parola di conforto, si trattava di Madison, la moglie di un suo collega, ma prima di tutto una sua amica. “Cerco di resistere…” rispose lei, JJ le fece un mezzo sorriso e rimase in silenzio.
“Henry come se la passa? Quando torna dall’università?” domandò Madison per cercare di distrarsi.
“Bene, è alle prese con gli esami. Si sta impegnando moltissimo. Penso che rimarrà a Providence per un po’” le spiegò.
“E alla sua Dada non la viene più a trovare?”
“Ti ricordi quando ti chiamava così?” disse JJ, Madison abbozzò un sorriso. “Veramente mi chiama tutt’ora così” aggiunse.
“Scusa JJ, ma ti vuole Morgan” le interruppe Anne, rivolgendo un saluto a Madison che ricambiò.
“Certamente” disse alla giovane. “Scusami” salutò Madison e se ne andò seguita da Anne che con la coda dell’occhio lanciò un’occhiata alla signora Reid scorgendo nei suoi occhi una preoccupazione sempre più viva.


“JJ, mi serve che tenga a bada i media. Il fatto che la figlia di un agente federale sia stata rapita non sfuggirà di certo alla stampa, ma dobbiamo evitare che lo rendano di dominio pubblico; potrebbe incoraggiare ancora di più Davis”
“Certo” gli rispose annuendo energicamente con il capo e lasciò subito la stanza.
“Noi dobbiamo tracciare un profilo, ma soprattutto dobbiamo capire quale sia il modus operandi” riprese Derek rivolgendosi ai suoi vecchi colleghi seduti sulle poltrone di sala riunioni come un tempo.
“Cosa sappiamo di questo Davis?” chiese Rossi.
“Non molto” gli rispose rammarico. “A quanto pare, si è laureato in Economia e Management sei anni fa ed è subito stato assunto dalla Disc Enterprises di Richmond”
“Come mai si trova qui adesso?” domandò ancora Rossi.
“Ha chiesto il trasferimento poco meno di tre mesi fa e l’hanno mandato alla sede di Washington” spiegò Lucas.
“Le date sembravano coincidere” azzardò il ragazzo girandosi verso Morgan in segno di approvazione, il quale annuì. “Così pare” confermò poi, guardando Spencer che sembrava sempre più assente.
“Bene, Walker vai con Reid a casa di Colin, chissà magari sa qualcosa riguardo i piani di Elizabeth” disse in seguito ad Anne che scattò subito in piedi e si precipitò alla porta. “Spencer, mi raccomando” si raccomandò  Morgan poco prima che uscisse.
Nell’ascensore Spencer non scambiò nemmeno una parola con Anne, continuava a pensare ad Elizabeth, a cosa dovesse sentire in quel momento. Si augurava ardentemente che stesse bene, ma soprattutto che si tenesse duro fino a che non l’avesse trovata, non avrebbe sopportato di perderla. A quel pensiero sentì gli occhi inumidirsi, cercò di trattenere le lacrime, “Non è momento di lasciarsi andare” si disse facendo un respiro profondo.
“Guido io” affermò Anne, scuotendo le chiavi dell’auto, Spencer annuì. Poi aspettò che aprisse l’auto e vi salì. A quel punto, Anne mise in moto e partì, ogni tanto si voltava in direzione di Spencer che fissava il finestrino con uno sguardo inespressivo.
“Vedrai che la troveremo e andrà tutto bene” provò a confortarlo non sopportando più di vederlo in quello stato. Spencer sorrise senza dirle nulla poi non appena notò casa di Colin la invitò ad accostare e scese dalla vettura senza aspettarla. Anne parcheggiò in una manovra e scese velocizzando il passo per raggiungere Spencer che oramai era arrivato alla porta. Spencer bussò e poi guardò l’orologio, erano le undici e mezza di sera passate, aspettò qualche minuto e non sentendo nessun passo all’interno della casa bussò di nuovo. A quel momento la porta si aprì ed uscì Florence, la madre di Colin.
“Spencer?” chiese sorpresa di vederlo lì a quell’ora. “Scusa l’orario, ma è urgente” le spiegò.
“Entra pure” disse che nel frattempo era stata raggiunta dal marito, Michael.
“E’ successo qualcosa ad Ellie?” gli chiese Michael notando l’espressione angosciata di Spencer. “Sì…” confermò Anne.
“Vorremmo parlare con suo figlio se non le dispiace” continuò con tono cortese.
“Certo” disse Florence che si alzò per andare a chiamare il figlio che era nella sua stanza.
“Che ha combinato Ellie?” domandò Michael che non aveva ancora ben capito la gravità della situazione. “E’ stata rapita” disse Spencer guardando per terra.
“Come sarebbe rapita?” chiese Colin appena arrivato. “Tu ne sai qualcosa?” gli domandò Spencer.
“No, assolutamente. L’ho vista stamattina, mi ha chiesto di coprirla perché doveva fare una cosa” spiegò ragazzo terrorizzato da quanto aveva appena scoperto.
“Non ti ha detto dove stesse andando?” chiese ancora Spencer scrutando il ragazzo per assicurarsi che dicesse la verità.
“No, non mi ha detto nulla. Non sarà mica andata…” disse senza completare la frase.
 “A questo punto credo proprio di si” concluse Spencer con tono rammaricato. “E come lo sai che è stata rapita?” gli domandò il ragazzo ancora incredulo. “Ho ricevuto una telefonata dal rapitore” rispose Spencer senza accennare alle fotografie per non spaventarlo ancora di più.
“Oddio, se lo avessi saputo non l’avrei mai coperta!” esclamò il ragazzo.
“Ma come le è saltato in mente di fare una cosa simile?” chiese Florence scioccata da quanto aveva sentito.
“Non lo so... Scusatemi ancora per il disturbo” ripeté e salutò i genitori di Colin seguito da Anne che strinse la mano ai due. “Mi raccomando, se dovessi ricevere qualche squillo o messaggio, chiamami subito” raccomandò al ragazzo e uscì dalla casa.
“Bene, perlomeno ora sappiamo che non è stato premeditato” affermò Anne riferendosi al rapimento di Elizabeth mentre salivano di nuovo in automobile. “Questo non migliora la situazione in ogni caso” disse Spencer, cercando di capire cosa avesse fatto sua figlia per cacciarsi in un simile guaio.
“Quello che ancora non riesco a capire è il modus operandi” disse poi Spencer riflettendo sulle precedenti vittime. “Come mai sembrano dei suicidi…” continuò, parlando più con se stesso che con la collega.
“Io avrei un’idea. Ma devo fare prima delle ricerche” affermò invece Anne mentre guidava concentrata sulla strada.
“Che hai in mente?” le chiese Spencer incuriosito dalla sicurezza con cui Anne si espresse.
“Droga” gli rispose con tono secco e senza aggiungere nulla di più. Spencer la guardò, era sul punto di replicare, ma fissando lo sguardo di Anne si convinse che aveva sicuramente avuto un’intuizione geniale. D’altronde, si è rivelata spesso un elemento valido e utile proprio per il suo pensare fuori dagli schemi.
“Mi fido di te. Tienimi informato” le disse infine per incoraggiarla. Rimasero in silenzio del tragitto, giunti al bureau si separarono. Anne andò subito da Lucas, mentre Spencer raggiunse Derek che stava ancora discutendo sul caso con Hotch e Rossi.
“Devi andare dal ‘capo’ ” gli comunicò Derek appena lo vide entrare.
“Dal capo?” domandò Spencer sconcertato. “Sì, ti ha chiamato prima” confermò Derek.
Spencer annuì ed uscì immediatamente dalla stanza. Mentre si dirigeva verso lo studio che un tempo era stato della Strauss, ripensò ai suoi primi anni alla BAU, tantissimi ricordi gli affiorano alla mente. Erano cambiate tante cose, lui era cambiato da allora al punto da non riconoscersi più.
Si diede una sistemata e aprì la porta richiudendosela immediatamente alle sue spalle dopo essere entrato.
“Reid, accomodati” gli disse Emily indicando con la mano di fronte a lei.
“Preferisco rimanere in piedi” rispose. “Come preferisci”
“Allora, quello che sto per chiederti non è affatto semplice, ma purtroppo sono costretta. Spencer mi dispiace ma devo chiederti di lasciare il caso, sei coinvolto emotivamente, com’è normale che sia, e questo potrebbe offuscare il tuo giudizio”
“Offuscare il mio giudizio? Prentiss che diavolo stai dicendo?” le gridò contro Spencer inorridito dalla proposta.
“Non ho intenzione di abbandonare il caso. Si tratta di mia figlia” continuò.
“Proprio per questo ti chiedo di farti da parte, Spencer” gli disse Prentiss mantenendo lo stesso tono di calmo d’inizio conversazione. “Credimi, è la decisione più saggia” aggiunse alzandosi dalla sedia e raggiungendolo in mezzo alla stanza.
“Prentiss, mi dispiace ma non mi è possibile” le rispose lasciandole intendere che non sarebbe riuscita ad ottenere alcun compromesso.
“Mi costringi a prendere provvedimenti” lo minacciò Emily nella speranza che desistesse dal continuare a seguire il caso.
“Fai quello che ti pare” le rispose e si avviò verso la porta dello studio, era sul punto di aprire la porta quando si voltò verso di lei; “Non sei più la Emily che conoscevo, lei non mi avrebbe mai chiesto una cosa simile” le disse guardandola negli occhi. Emily non rispose e abbassò subito lo sguardo in segno di scusa.
“Ciao Emily” la salutò ed uscì dalla stanza. Non aveva intenzione di perdere altro tempo, doveva ritrovare sua figlia.
 
“Lucas, ho bisogno che tu faccia una ricerca per me” disse Anne sedendosi accanto a Lucas che si girò verso di lei con espressione incerta. “Che tipo di ricerca?” le chiese inarcando un sopracciglio.
“Droghe che provocano allucinazioni, qualcosa tipo LSD ma che possa passare inosservato in un esame non molto accurato” gli spiegò.
“Mhm…vediamo” e cominciò subito a digitare sulla tastiera sotto lo sguardo incuriosito di Anne che tentava di seguire le scritte che apparivano sullo schermo senza molto successo.
“Vediamo se sei più bravo di Garcia” lo sfidò dandogli un colpetto sulla schiena.
“Non provare a distrarmi” gli disse rivolgendo un sorriso e aumentando ancora di più la velocità con cui muoveva le dita sulla tastiera.
“Forse ho qualcosa per te” le disse con tono serio. “PCP e ketamina provocano forti sensazioni di distacco e dissociazione fra l’ambiente e se stessi” continuò.
“Ketamina e PCP? Mi serve qualcosa di più…”
“Che ne dici del destrometorfano? È una medicina contro la tosse molto diffusa, insomma qualcosa che l’SI può procurarsi facilmente e che mischiato a qualche altra droga un po’ più forte…”
“…può provocare effetti come quelli della ketamina e PCP senza lasciare tracce evidenti” concluse Anne, alzandosi e avviandosi verso la porta.
“Grazie” gli disse poi lanciandogli un bacio con la mano che Lucas finse di acchiappare, adorava quei giochetti che facevano ogni volta che erano certi che nessuno li vedesse.
“Comunque Garcia era più brava” esclamò Anne sulla soglia della porta e immediatamente corse via senza lasciare il tempo a Lucas di replicare.
 
“Forse ho capito il modus operandi” annunciò Anne facendo irruzione in sala riunioni dove erano tutti riuniti.
“Illuminaci” le disse Rossi invitandola a sedere accanto a lui.
“Le droga. Molto probabilmente utilizza il destrometorfano, è una medicina contro la tosse, ma se modificata può indurre allucinazioni tali da indurre qualcuno a suicidarsi senza che possa opporre resistenza”
“Le modificherebbe Davis queste droghe?” chiese JJ.
“Beh, questo in effetti mi lascia perplessa. Non credo che lui abbia le conoscenze per poterlo fare, ma soprattutto il tempo infatti bisogna somministrarle più volte per avere l’effetto desiderato”
“Quindi pensi che abbia un complice?” le domandò Spencer.
“Non so, potrebbe?” chiese Anne girandosi verso Morgan. “Beh in effetti non avevano preso in considerazione la possibilità che avesse un complice, ma sicuramente questa possibilità spiegherebbe molte cose” disse lui.
“Dobbiamo cercare qualcuno che abbia una certa dimestichezza con le droghe e i loro trattamenti, qualcuno laureato in farmacia o in chimica” affermò Hotch.
“Scusate ma cosa ne ricaverebbe?” domandò Anne.
“Non so, magari Davis lo paga” azzardò Rossi. “Qual è il pagamento per l’uccisione di una ragazzina?” domandò Spencer, sempre più turbato.
Rossi lo guardò e non rispose, in quel momento pensò che forse la decisione di Emily non fosse del tutto sbagliata, Spencer era troppo coinvolto per ragionare in maniera lucida e nel loro lavoro farsi coinvolgere equivaleva a commettere un grosso errore.
“Non credo si tratta di un semplice pagamento, deve esserci qualcos’altro dietro” disse invece Hotch riflettendo su cosa potesse indurlo ad aiutare Davis.
“E se fosse sotto ricatto?” domandò JJ. “Che tipo di ricatto?” chiese Rossi.
“Forse tiene in ostaggio la sua famiglia” ipotizzò lei. “La famiglia? Non credo” rispose Hotch. “Se consideriamo i primi due suicidi, stiamo parlando di un periodo di tempo di oltre un anno. Avrebbe ormai trovato una soluzione” concluse.
“Sono d’accordo. Forse si tratta di qualcuno che inizialmente era in difficoltà tali da non poter farne a meno e che ora non sa come uscirne” suggerì Anne.
“Vai da Cooper, cercate qualcuno che abbia perso in lavoro poco prima dell’inizio degli ‘omicidi-suicidi’, magari qualcuno fortemente indebitato che abbia subito qualche trauma anche a livello affettivo nello stesso periodo” le ordinò Derek, Anne annuì e senza perdere altro tempo si diresse verso l’ “ufficio-sgabuzzino” di Lucas.
“Noi andiamo a casa di Davis, magari troviamo qualche indizio” propose Derek rivolgendosi a Rossi e Hotch.
“JJ, rimani con Anne e informateci se avete trovato un possibile sospettato” ordinò alla collega che lasciò la stanza per raggiungere gli altri due.
“Tu, Reid rimani qui. Stai con Madison, credo che abbia bisogno di te …” gli disse abbassando la voce mentre gli altri uscivano.
“Si …” sussurrò lui annuendo con il capo, Derek gli diede un pacca sulla spalle ed uscì.
“Tienimi informato” gli disse Spencer, Derek si girò e annuì poi affrettò il passo per raggiungere gli altri due che ormai erano quasi all’ascensore.
Spencer raggiunse Madison che era seduta alla sua scrivania con una tazza fumante di tè in mano. Aveva ancora gli occhi arrossati dal pianto ed un’espressione funerea dipinta sul volto. Appena la notò, pensò di non averla mai vista in quelle condizioni e si sentì male, ma soprattutto in colpa. Era sua la colpa di quello stavano vivendo, sua e della sua distrazione che non l’aveva fatto accorgere di quello che sua figlia stava progettando proprio sotto il suo naso. Si avvicinò nel tentativo di abbracciarla, ma lei schivò l’abbraccio.
“Novità?” gli chiese posando la tazza sulla scrivania. “Stiamo seguendo una pista. Anne forse ha capito il modus operandi” sciorinò senza scendere nello specifico, non c’era bisogno di spiegarle tutto nei minimi dettagli, stava già soffrendo abbastanza così, si disse.
“Ho saputo che ti ha convocato Emily” affermò lei cercando di sviare il discorso.
“Chi te l’ha detto?” gli chiese. “JJ quando eri con Anne. E’ successo qualcosa?” gli domandò notando l’espressione un po’ amareggiata di Spencer.
“No, nulla. Tutto sistemato” mentì lui e cambiò subito argomento: “Vai a casa, Maddie. Che devi fare qui? Ti accompagno io …” gli propose, augurandosi che accettasse, averla lì gli rendeva tutto più difficile.
“Va bene …” acconsentì senza opporre molta resistenza. “Comunque non c’è bisogno che mi accompagni” continuò mentre Spencer l’aiutava ad alzarsi.
“Sei sicura? Per me non è un problema” le domandò ancora.
“Sicura, stai tranquillo” gli ripeté, abbozzò un sorriso e si strinse a lui; “La troverai, vero?” gli sussurrò all’orecchio.
“Ad ogni costo” le rispose dandole un bacio sulla fronte, Madison si staccò e annuì, dopodiché lo salutò e lasciò immediatamente la sede della BAU.
Mentre tornava a casa, Madison ripensò a quelle ultime ore, le sembrava tutto così irreale, come se non fosse mai successo, come se fosse un incubo da cui presto si sarebbe svegliata.
Chiuse gli occhi per un attimo e le parse di vedere sua figlia in cima alle scale che la salutava, era sporca di terra e aveva una coperta bianca che reggeva con una sola mano; “Ho freddo, mamma”  le disse guardandola con un’espressione vuota e priva di vita. “Ellie!” urlò aprendo gli occhi, in quel momento ebbe il crollo tanto sperato. Cominciò a singhiozzare senza riuscire a controllarsi, aveva il respiro affannato come se ogni singhiozzo le impedisse di respirare, le lacrime le annebbiarono completamente la vista e a quel punto dovette accostare.
Cercò di calmarsi, fece diversi respiri profondi e si asciugò le lacrime con la manica della camicia che indossava, era sul punto di immettersi nella carreggiata quando squillò il cellulare. “Pronto?” disse senza controllare chi fosse. “Maddie, sono mamma, senti arriviamo verso le quattro e mezza del mattino, prima non c’è nessun volo … Tu come stai?” le chiese anche se sapeva che tale domanda fosse completamente inutile.
“Non benissimo. Sono preoccupata, non so cosa fare” rispose con la voce ancora rotta dal pianto.
“Oh tesoro, devi aver fiducia, vedrai che tutto si sistemerà” disse cercando di rabbonirla. “I ragazzi come l’hanno presa?” domandò.
“Sono scoppiati a piangere appena l’hanno saputo, soprattutto Thomas. Lui vive nel terrore per Spencer, quando ha saputo di Ellie …” s’interruppe; non riusciva a continuare, si sentiva di nuovo sul punto di crollare.
“Maddie? Stai bene?” le chiese sua madre allarmata. “Sì… scusa mamma, ma devo chiudere adesso” le disse cercando di ricacciare indietro le lacrime.
“Va bene. Chiama se hai bisogno di una qualsiasi cosa, noi arriviamo presto comunque” rispose, Madison la salutò e chiuse la telefonata. Rimase un attimo ferma cercando di raccogliere le poche forze che le erano rimaste e partì. Durante il tragitto verso casa, non fece altro che pensare ad Ellie, cercava inutilmente di convincersi che sarebbe andato tutto bene, ma non ci riusciva, aveva paura che Ellie potesse cedere, che non riuscisse a superarlo, pensando ad una simile eventualità provò una forte fitta allo stomaco. Cercò di scacciare quel pensiero ed accelerò, voleva arrivare a casa, aveva un urgente bisogno di stendersi.
 
“Come sta andando?” chiese JJ entrando nella stanza. “Non bene” le rispose Anne. “Abbiamo 30 nomi e non sappiamo più come restringere il campo” continuò Lucas al posto di Anne.
“Abbiamo cercato persone licenziate da aziende farmaceutiche nei dintorni di Richmond, che abbiano affrontato divorzi difficili, la perdita di qualche persona cara, che abbiano compiuto qualche reato minore…” elencò Anne con aria sconsolata.
“Avete provato con i debiti di gioco?” domandò JJ dopo aver ascoltato accuratamente le parole di Anne.
“Debiti di gioco, eh? Cerco subito!” esclamò Lucas cominciando a digitare velocemente le varie informazioni sulla tastiera.
“Allora, forse abbiamo qualcosa: licenziato da un’azienda farmaceutica di Richmond a febbraio dell’anno scorso” lesse Lucas.
“Due mesi prima della morte di Duff e Brown” disse JJ ripensando alle informazioni raccolte fino ad allora.
“Ha divorziato poco dopo da sua moglie a causa dei suoi problemi con il gioco d’azzardo. E sentite qui, poco più di tre mesi fa si è trasferito a Washington ma non risulta impiegato presso qualche azienda” concluse Lucas girandosi verso le due colleghe. In quel momento entrò Spencer che era al telefono con Derek.
“Forse sappiamo cosa faccia Davis con le vittime prima di ucciderle” li informò Spencer riferendo le parole di Derek.
“Noi invece abbiamo un nome: John Martin” disse Anne.
 
 
“Senza la speranza è impossibile trovare l'insperato.”  Eraclito
 
 
Elizabeth si svegliò, immediatamente si accorse di essere in un’altra stanza. Guardandosi intorno notò delle fotografie sparse su un tavolo in fondo alla stanza; dalla finestra penetrava una luce molto debole, “sarà sicuramente l’alba” si disse, fu in quel momento che sentì un gemito proveniente dall’angolo opposto dalla stanza. “C’è qualcuno?” chiese la ragazza cercando di individuare il punto da cui proveniva la voce.
“Stai tranquilla, andrà tutto bene” cercò di rassicurarla. “Vedrai che riusciremo ad uscire da qui”
A quel punto la ragazza tentò di alzarsi, ma non ci riuscì, anche il minimo sforzo le causava un forte senso di nausea. “Non provare ad alzarti” le consigliò Elizabeth “Stai ferma”.
“Dove siamo?” le chiese la ragazza tentando di rizzarsi sulla schiena.
“Siamo appena fuori Washington”. “Quando ti ha catturata?” le domandò poi.
“Non so, forse ieri. Io non ricordo nulla…” esordì la ragazza con evidente tono confuso.
“Mi aveva dato appuntamento in un locale, io ero fuori che aspettavo. Poi tutt’un tratto ho sentito un uomo dietro le mie spalle, e da quel punto tutto è diventato buio” spiegò.
Elizabeth si chiese come fosse possibile che fosse stata catturata davanti ad un locale senza che nessuno se ne accorgesse.  “Mi chiamo Elizabeth, tu?”
“Lucy. Scusa, ma anche tu sei qui…”
“No”  la interruppe.  “Sono finita qui per altri motivi…”
“Non ricordi nulla di quello che ti è successo?” le chiese cercando di sviare il discorso.
“No, solo quell’uomo che m’iniettava qualcosa” le rispose, poi si bloccò e rimase ferma con lo sguardo fisso nel vuoto. “Ricordo dei lampi di luce e una strana melodia di sottofondo” aggiunse.
“Le fotografie”  pensò subito Elizabeth. “Ma la musica cosa ci conta?”. Troppi dubbi aveva ancora, era riuscita a comprendere il modus operandi, non riusciva a capire ancora cosa facesse alle vittime prima di ucciderle, si chiese se quelle fotografie posate sul tavolo non le svelassero il segreto.
“Scusa, come mai sei così sicura che usciremo fuori da qui?” le chiese Lucy.
“Mio padre è un agente, ci troverà” o almeno così credeva, era sicura che suo padre non avrebbe mai smesso di cercarla, non si sarebbe mai arreso, ma allo stesso tempo si augurava che suo padre la trovasse prima che fosse troppo tardi.
“Speriamo…” sussurrò la ragazza. Elizabeth tentò di alzarsi, ma venne spinta verso giù dalle corde, erano troppe corte. Doveva assolutamente riuscire ad allentarle, si sentiva il corpo totalmente addormentato.
Stava cercando di allentare i nodi quando la porta si aprì, “Ragazzina risparmia la fatica” le disse Davis appena entrato.
“Tu prendi l’altra e portala di là. Io mi occupo di lei” continuò rivolgendosi a John che aveva la testa abbassata. L’uomo prese la ragazza che tentò di inutilmente svincolarsi. “Sssh” disse alla ragazza. “Tra poco tutto sarà finito” gli sentì dire Elizabeth in corridoio. Si chiese se anche per lei tra poco sarebbe tutto finito. Sentì un brivido lungo la schiena e le lacrime inumidirle gli occhi, le ricacciò indietro facendosi forza. Lei sarebbe uscita da quella situazione, lei ne sarebbe stata capace, “Non devi cedere Ellie, se cedi è finita” si disse.
“Cosa le farete?”chiese con tono di sfida a Davis che la scrutava con aria interrogatoria.
“Sei curiosa?” le domandò. “Papino non lo sa?”
“Io non lo so…” sussurrò la ragazza. Non poteva confessare che nemmeno suo padre sapeva cosa facesse alle sue vittime, non poteva confessare che l’ufficio aveva addirittura smesso di seguire il caso. Elizabeth preoccupata si chiese se suo padre avesse già capito cosa facesse alle vittime, se suo padre sapesse già dove si trovava.”Non mi cercheresti se io mi perdessi”  gli aveva urlato una volta dopo che era tornata ubriaca da una festa, qualcosa che capitava spesso di recente, suo padre che prima l’aveva rimproverata si sedette: “Non smetterei mai cercarti”  le aveva detto; il ricordo di quelle parole la rincuorarono; “Papà non mi lascerà marcire qui dentro” si ripeté più di una volta.
“Vuoi vedere cosa le facciamo? Te lo faccio vedere subito” affermò Davis, sciolse le corde e la trascinò con veemenza, prendendola per un braccio, lungo il corridoio. Quando aprì la porta della stanza dove si trovava Lucy, Elizabeth rimase pietrificata davanti alla scena che le si aprì davanti agli occhi, la stanza le sembrò un set cinematografico; notò tutta l’attrezzatura necessaria per girare, diverse macchine fotografiche professionali e i pannelli fotografici riflettenti accalcati sullo sfondo; seduta al centro della stanza vide Lucy, era vestita di bianco, si rese conto anche che l’avevano truccata e pettinata, sulle palpebre era stato applicato un ombretto grigio fumé sfumato mentre sulle labbra un rossetto rosso fuoco, i capelli erano stati raccolti in un chignon mentre alcune ciocche erano state lasciate libere. La ragazza era immobile, aveva lo sguardo fisso come se fosse una bambola di pezza, “Adesso giochiamo” annunciò Davis che fece segno a John di accendere la cinepresa. “Che lo spettacolo cominci” dichiarò l’uomo una volta acceso l’attrezzo, a quel punto su Lucy venne puntata un occhio di bue. “Canta” le ordinò, la ragazza bisbigliò qualcosa e cominciò a cantare, Elizabeth la guardava sconcertata, non capiva cosa stesse succedendo, poi tutto le fu chiaro: Lucy era drogata, non era in grado di comprendere cosa stesse facendo, non sentiva altro che le parole di Davis, come se fosse ipnotizzata, solo che era un’ipnosi da cui non si sarebbe più svegliata.
Rimase impalata in piedi senza sapere cosa avrebbe potuto fare, capì immediatamente che i progetti di Davis si sarebbero spinti molto più in là di una semplice canzone, per Lucy era arrivata la fine, ora restava solo da capire quale fine le fosse stata destinata.
Davis si avvicinò alla ragazza e le sussurrò qualcosa all’orecchio, poi le consegnò in mano un cofanetto di raso nero e tornò a sedere. Elizabeth non riuscì a vedere cosa fosse custodito nel cofanetto, notò solo qualcosa scintillare nella penombra, ma non poté identificare cosa fosse.
Fu allora che successe qualcosa che Elizabeth non si aspettava, Lucy estrasse un’arma dal cofanetto e se la portò alle tempie, Davis annuì e la ragazza pose il dito sul grilletto.
Elizabeth urlò inutilmente alla ragazza pregandola di non farlo, ma lei non poteva sentirla. Di fronte alla reazione di Elizabeth, Davis rise: “Non capisci che è troppo tardi?” disse l’uomo prendendosi gioco della ragazza, che chiuse gli occhi, non voleva vedere, non poteva vedere Lucy distruggere la propria vita in pochi secondi.
La ragazza gemette, quasi avesse avuto per un attimo coscienza di quello che stava per succedere, ma quel momento di lucidità fu veloce come un lampo; la ragazza premette il grilletto tra le risate di Davis e le preghiere di John, ponendo fine alla propria vita in un boato.
Il suono dello sparo penetrò nelle orecchie di Elizabeth che si sentì mancare, scoppiò in lacrime cadendo a terra.
Il corpo ormai abbandonato da ogni soffio di vita fu spostato da John che si allontanò dalla stanza passando accanto ad Elizabeth che stava rannicchiata per terra dondolandosi, Davis si diresse verso di lei: “Adesso hai paura, vero?” le disse alzandole il mento per guardarla negli occhi annebbiati dalle lacrime, poi se ne andò chiudendosi la porta dietro le spalle e lasciando Elizabeth piangere al buio.
 
Le continue vibrazioni del suo cellulare svegliarono Nicole addormentata sul libro di spagnolo, con gli occhi ancora chiusi cercò il cellulare che smise di suonare quando lo prese in mano. “Sei chiamate perse” lesse sul display, “Colin!” esclamò sorpresa dopo aver controllato il registro delle chiamate, dal momento che le parse strano che Colin avesse insistito più di una volta non esitò a richiamare l’amico.
“Cole che succede?” gli chiese dopo che il ragazzo ebbe risposto. Colin con la voce rotta dal pianto farfugliò il nome di Ellie seguito da una frase che Nicole non riuscì a capire. La ragazza capì subito che doveva trattarsi di qualcosa di grave e si allarmò: “Che è successo? Che è successo ad Ellie?” chiese. Colin fece un respiro profondo per cercare di calmarsi e rispose: “E’ stata rapita”.
“Come rapita?”  domandò, per un momento pensò che Colin si fosse sbagliato. “Ma sei sicuro?”
“Sì, me l’ha detto Spencer…” spiegò deglutendo per mandare già il grappolo che gli si era formato.
“Oddio, ma non si sa nulla?”, ora anche Nicole era prossima alle lacrime, non sopportava l’idea che ad Ellie potesse capitare qualcosa di brutto. “No, niente…”
“Hai chiamato Blair?” gli chiese tentando di controllarsi. “No, ancora no…”
“La chiamo io” gli disse. “Stai tranquillo, vedrai che Spencer la troverà, è il suo lavoro” cercò di rassicurarlo, sapeva quanto a Colin stesse a cuore Ellie perciò le fu facile immaginare quanto potesse farlo soffrire una simile situazione.
 “Già… Chiamami se ci sono novità” le rispose e riattaccò.
Nicole rimase ferma incerta su cosa dire a Blair, doveva calibrare bene le parole, Blair era una persona molto sensibile, si sarebbe senz’altro subito spaventata. Una volta decise le parole da rivolgere all’amica, compose il numero e aspettò che la ragazza rispondesse. “Blair, scusa per l’orario ma devo dirti una cosa…” esordì un po’ titubante Nicole, non appena Blair rispose. “Che cosa è successo?” le chiese preoccupata, Nicole cercando di calmarla le consigliò di non agitarsi, poi le spiegò il motivo della sua telefonata: “Ellie si è cacciata nei guai”
“Che ha combinato adesso?” domandò seccata, era abituata alle continue stupidaggini di Elizabeth perciò non si sorprese.
“Colin mi ha detto che è stata rapita, glielo ha riferito Spencer”.
“Rapita? Ma che dici? Ieri sera era collegata con il cellulare…” Blair si bloccò di colpo, come se avesse appena ricordato qualcosa. “Non mi ha risposto però”
“E’ ancora collegata?” le chiese Nicole, forse Spencer e la sua squadra avrebbero potuto rintracciarla pensò.
“Ehm...controllo” e digitò subito sul portatile la password. Dopo qualche minuto di attesa Blair rispose: “Sì, è ancora in linea”
“Lo dobbiamo dire a Spencer…” osservò l’altra mordicchiando il labbro. “Hai il numero?”
“Sì, ma forse loro hanno già provato a rintracciarla in questo modo” disse la ragazza riflettendo.
“Non puoi saperlo, diciamoglielo lo stesso”
 “Ok, chiamo subito”
Dopodiché salutò l’amica e riattaccò. Ora doveva chiamare Spencer.
 
 
Erano nella casa di John Martin, quando il cellulare cominciò a squillare. Sussultò, ogni chiamata poteva essere una cattiva notizia, certo poteva essere anche buona, ma l’ottimismo in questa fase della sua vita l’aveva abbandonato e non sarebbe di certo tornato in questa particolare situazione.
Prima di rispondere, lesse il numero sul display, non lo riconobbe. “Chi è questo?” pensò prima di rispondere.
“Pronto…” disse la ragazza, la voce gli era famigliare, ma non era riuscito ad identificarla.
“Chi sei?” chiese Spencer. “Sono Blair, l’amica di Ellie…”
“Blair!” esclamò l’uomo, riconoscendola immediatamente. “Hai qualche notizia?” le domandò, infatti pensò che quello poteva essere l’unico motivo che avrebbe potuto spingere la ragazza a chiamarlo.
“Ehm… non esattamente. Ellie è collegata su Internet con il cellulare, non so magari riuscireste a rintracciarla…”
“Su Internet hai detto? Ma il cellulare non è raggiungibile…” gli sembrava impossibile che potesse essergli sfuggito.
“Non so, a me appare in linea” confermò la ragazza un po’ stranita.
“Blair, facci un favore, prova a contattarla. Io adesso chiamo il nostro analista informatico che si metterà in contatto con te. Forse riusciamo a rintracciare Ellie” disse alla ragazzina che non tardò a mettersi in contatto con l’amica e riattaccò.
Questa possibilità di rintracciare sua figlia lo rincuorò, la possibilità di riabbracciarla non gli sembrò più così lontana. “Chi era?” chiese Anne, non appena Spencer ebbe concluso la telefonata.
“Blair, un’amica di mia figlia. Forse abbiamo un modo per rintracciare Ellie” disse con un sorriso, sapeva che era sbagliato illudersi, ma non riuscì a trattenersi. “Dobbiamo chiamare subito Lucas e dirgli di mettersi in contatto con Blair”
“Ottimo! Faccio subito”  e chiamò subito Lucas aggiornandolo sul da farsi. Poi insieme si diressero verso il bureau speranzosi; finalmente dopo una notte insonne con la stanchezza che cominciava a farsi sentire, sentirono di essere vicini ad una possibile soluzione.
 
“Blair, sono Lucas, l’analista informatico” si presentò l’uomo dopo essersi messo in contatto con la ragazza.
“Adesso entrerò nel tuo sistema e insieme proveremo a rintracciare Ellie, va bene?”
“Sì…” e notò subito delle finestre sul suo portatile aprirsi. “Ok, ci sono”
“Prova a rintracciare Ellie. Io controllo le ricetrasmettenti delle zone, se è collegata un qualche segnale, anche se debole, lo dovrò pure avvertire”
“Va bene” rispose Blair, e inviò subito all’amica un messaggio sul social network dove solitamente si contattavano.
“Ok… usate una rete protetta tra di voi?” chiese Lucas, afferrando subito il motivo per cui prima gli era sfuggito il segnale del cellulare di Ellie.
“Sì, è un regalo di Penny” rispose Blair con tono affermativo. “Garcia…” farfugliò l’uomo, qualunque cosa facesse sembrava che avrebbe dovuto fare i conti con lei.
“Benissimo… sono quasi riuscito a rintracciare il punto da cui proviene il segnale” disse Lucas.
“Provo a inserire le coordinate…” continuò.
“Grazie, Blair il tuo aiuto è stato prezioso” la ringraziò calorosamente.  “Riuscirete a rintracciarla adesso?”
“Penso di sì” esclamò con tono speranzoso, non era ancora sicuro che il segnale gli avrebbe garantito la possibilità di rintracciare l’esatto punto dove si trovava Elizabeth, ma almeno avrebbe ristretto l’area di ricerca.
“Va bene…” rispose la ragazza immediatamente salutata da Lucas che si rimise subito al lavoro. Ora sapeva dove cercare.
 
 
 

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Capitolo 9
*** Finalmente ti ho trovata. ***


 

Finalmente ti ho trovata.

 
“La fede comincia appunto là dove la ragione finisce” . Søren Kierkegaard
 
 
“Ho trovato il segnale del cellulare di Elizabeth” annunciò Lucas appena Spencer mise piede nell’open space del bureau.  “Purtroppo non sono riuscito ad individuare il punto specifico” proseguì suscitando il disappunto di Spencer.
“Se contattassimo Garcia?” propose Anne. “Sì, è l’unica cosa da fare. Garcia ha creato per le ragazze una rete protetta, sicuramente lei saprà come sbloccare del tutto il segnale” le rispose.
“Bene, la chiamo subito” affermò la donna e si diresse verso la propria scrivania.
“Spencer hanno trovato un corpo a Leesburg Pike” lo informò JJ che aveva appena ricevuto la notizia, a quelle parole Spencer si sentì mancare.
“Non è Ellie, non può essere lei”  si ripeteva mentre si dirigevano verso il luogo del ritrovamento.
Arrivati sul posto, Spencer chiuse gli occhi, non voleva guardare. Aveva paura. Non si era mai sentito così impotente come in quel momento, così vicino ad una crisi nervosa al punto che non ebbe il coraggio di avvicinarsi al corpo.
“Non è lei” annunciò Derek senza mascherare il suo sollievo. Spencer fece un profondo respiro, si portò le mani dietro la testa tirando indietro i capelli per provare a calmarsi.
“Il corpo è di Lucy Sprouse, l’hanno appena identificato” li informò Rossi. “E’ scomparsa martedì sera, l’ultima volta che i suoi genitori l’hanno vista si stava recando ad un appuntamento con Davis”
“Bene, dobbiamo informare la famiglia” disse Hotch. “Torniamo a Quantico, qui non c’è più nulla da fare” continuò guardando il corpo massacrato della ragazza, improvvisamente si ricordò il dolore e la frustrazione provati durante gli anni di lavoro presso l’unità, e provò un forte desiderio di tornare a casa; lontano da tutto questo, lontano da quei ricordi che lo avevano tormentato tutte le notti per anni.
“Meno male, non è lei” disse Anne a Spencer intanto che tornavano al bureau.
“Hai visto quello che è successo a quella ragazza?” le domandò.
“Sì…” sussurrò la collega che rimase in silenzio da quel momento; sapeva che se non la trovavano in fretta, presto avrebbero pianto un’altra perdita. Il ritrovamento di un altro corpo significava che dovevano accelerare i tempi, non c’era un minuto da perdere. Dovevano sbrigarsi.
Anche Spencer non parlò per il resto del tragitto, era concentrato sul profilo di Davis. Pensava a dove avrebbe potuto portarla, da quanto si era evinto dalle fotografie trovate nella casa di Davis, l’uomo seguiva dei copioni ben precisi trasformando la morte delle vittime in recite da mettere in scena per alimentare le sue fantasie. Questo richiedeva un luogo lontano dalla città per evitare possibili disturbi, ma nemmeno molto in modo da potersi spostare facilmente e in fretta, oltre che un ampio spazio per poter contenere tutte le attrezzature necessarie.
“Devi pensare Spencer, non farti sopraffare. Pensa, pensa. Non puoi fallire adesso”  continuava a dirsi nonostante si sentisse sempre più vuoto e affranto, tutto ciò che desiderava in quel momento era riabbracciare sua figlia, la sua Ellie. “Non preoccuparti amore, papà sta arrivando”  pensò guardando la fotografia di sua figlia che portava sempre con sé nel portafoglio.
 
Nel frattempo Penelope, appena arrivata, si era messa al lavoro, era quasi riuscita a rintracciare il punto preciso da cui proveniva il segnale.
“Certo che sei brava!” fu il commento di Lucas dopo averla vista al lavoro. “E’ il mio sistema, so come gestirlo” affermò lei con un cenno di sorriso. “Prima o poi imparerai anche tu” gli disse JJ in tono ironico.
“Ci siamo… Kingsley Road, 650” annunciò la donna girandosi verso di loro. “Chiamo Spencer” affermò JJ prendendo il telefono.
“Spencer, abbiamo rintracciato il segnale del cellulare di Ellie” lo informò indicandogli il posto.
“Benissimo, andiamo subito lì”  rispose lui e chiuse la telefonata.
“Pensate che l’abbiamo trovata?” chiese Lucas alle due donne. “Non lo so, ma lo spero davvero” commentò JJ, anche lei desiderava che quella situazione finisse al più presto, non sopportava vedere Spencer in quel modo. Si sentiva male, ormai era sul punto di crollare. L’uomo annuì e uscì dalla stanza, aveva bisogno di una tazza di caffè.
“Come l’ha presa Madison?”  domandò Penelope a JJ una volta rimaste sole.
“E’ distrutta, nessuno si aspettava una cosa del genere tantomeno lei” le rispose.
“Appena l’ho vista, mi sono sentita male per lei. Nessuno dovrebbe vivere una situazione del genere”
“Già” sussurrò Penelope cercando di immaginarsi come si sarebbe potuta sentire lei al posto di Madison. Il solo pensiero che il suo adorato bambino potesse venir rapito la fece rabbrividire, ripensò a Spencer e Madison e si commosse fino alle lacrime, JJ l’abbracciò senza dirle nulla e insieme si diressero verso l’open space.
 
Anne Walker affiancata dal collega Spencer Reid guidò più veloce che poté sfrecciando con la berlina nera fra il traffico di quel giovedì mattina. Non appena Spencer riconobbe la macchina di Ellie, capì subito che era stata portata lì per depistarli.”Non è qui…” urlò in preda alla disperazione, mancava poco alla scadenza del tempo concessogli da Davis, e ancora non avevano idea di dove fosse Ellie.
“Cazzo!” urlò sbattendo la portiera dell’auto. “Il cellulare è qui…” affermò Anne dopo averlo preso dalla borsa ed inviò un messaggio per avvertire gli altri.
“Praticamente siamo al punto di partenza?” domandò Spencer irritato.
“Non proprio. Potremmo stilare un profilo geografico” suggerì lei.
“Un profilo geografico?” chiese alla collega. “Abbiamo solo due punti: il luogo di ritrovo del corpo di Lucy Sprouse e questo. Non possiamo stilare un profilo…” rispose dopo aver valutato la proposta.
“E se provassimo a rintracciare con il GPS la posizione dell’automobile di Davis?” propose la donna.
“Davis dovrà pure essersi spostato in qualche modo per ritornare indietro…”
“Già, hai ragione. Chiamiamo Anderson e vediamo” rispose e avviò la chiamata subito dopo.
“Lucas, senti, controlla se riesci con il GPS a rilevare la posizione della macchina di Davis” gli ordinò.
“Certo, faccio subito…”. Dopo qualche minuto di silenzio, l’analista informatico rispose: “La macchina di Davis risulta parcheggiata davanti casa sua…”
Spencer passò il telefono ad Anne e si allontanò, la collega lo guardò ma non provò a richiamarlo e riprese a parlare con Lucas: “Allora, la macchina è parcheggiata davanti casa. Per caso, Davis aveva a disposizione una macchina aziendale?”  gli domandò. “Si. Nessun’altra auto risulta intestata a lui”
“E a John Martin? Forse l’automobile usata è intestata a lui” suggerì lei.
“Vedo subito… Sì, ha un’auto a suo nome, provo a rintracciarla”. Anne lo sentì digitare sulla tastiera e cominciò a pregare affinché fosse una buona notizia. “Allora la macchina in King Road…”
“E’ sempre nelle vicinanze, giusto?” gli domandò. “Si...” confermò.
“Ottimo, ora potremmo stilare un profilo geografico. Ti ringrazio”
“Sempre a tua disposizione, cara” fu la sua risposta e la salutò.
“Reid ti ho trovato il terzo punto” annunciò al collega che s’incamminò verso di lei.
“Su, andiamo”  continuò e insieme salirono di corsa nell’auto diretti verso il bureau.
 
Madison si svegliò di colpo al suono del campanello addormentatasi sul divano. Aveva dormito molto poco e male quella notte, svegliandosi più volte per via degli incubi. Il campanello suonò un’altra volta, a quel punto s’incamminò verso la porta sistemandosi sulle spalle uno scialle. Erano i suoi genitori, aprì il cancello e andò loro incontro.
 “Mamma, papà” esclamò appena li vide. Sua madre le sorrise e corse anche lei andandole incontro, invece suo padre James rimase in disparte mentre le due si abbracciavano.
“Tesoro, come stai?” le chiese Natalie prendendole la testa fra le mani. Madison la guardò, e dopo un attimo di riflessione, rispose: “Sto meglio, voglio dire, ho fiducia che Spencer la troverà”.
“Ne sono sicuro, Mads. È il suo lavoro” affermò suo padre posandole una mano sulla spalla di sua figlia, Madison annuì e baciò la mano, ormai rugosa, di suo padre come faceva da quando era bambina.
“Su, entriamo in casa” disse sua madre offrendo il braccio a tutti e due.
“I ragazzi?” le domandò una volta dentro. “Sono ancora da Jane. In mattinata li passo a prendere” fu la risposta di Madison che si adagiò sul divano facendo loro spazio.
“Hai novità? Hanno scoperto qualcosa sul perché questo qui abbia rapito Elizabeth?” chiese suo padre, al telefono non avevano potuto parlare quindi era allo scuro dei dettagli.
“A quanto pare, è stata Ellie ad andare da lui” chiarì Madison facendo un sospiro, ancora non riusciva a capire come Elizabeth avesse potuto fare una cosa tanto stupida.
“Come è stata lei? E come lo sapete?” domandò Natalie evidentemente scioccata dalla notizia.
“Sì, Ellie è rimasta così sconvolta quando ha saputo della possibilità che chiudessero le indagini al punto da decidere di procurarsi delle prove da sola” spiegò, dopo una breve pausa, riprese il racconto:
“Ieri mattina ha chiesto a Colin, un suo amico, di coprirla dal momento che doveva saltare la scuola. Colin ovviamente, essendo ignaro delle reali intenzioni di Ellie, ha accettato, e lei è andata da Davis senza dire a nessuno dove fosse diretta”
“Oddio, come le è saltato in mente di fare una cavolata simile?” affermò suo padre alzandosi dalla poltrona su cui si era seduto nel frattempo.
“Elizabeth è sempre stata impulsiva, probabilmente non ha pensato alla possibili conseguenze delle sue azioni, lo sapete com’è fatta…” tentò di giustificarla Madison, anche se si rendeva conto che stavolta aveva esagerato.
Poi si spostò una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso e si asciugò gli occhi con un piccolo fazzoletto che estrasse dalla tasca del pantalone che indossava.
Sua madre l’abbracciò di nuovo tirandola a sé, e la rassicurò: “Andrà tutto bene, vedrai”
“E se non fosse così? E se Spencer non dovesse farcela? Io che faccio?” urlò disperata, improvvisamente tutte le sue paure, che la stavano consumando dentro, tornarono prendendo il sopravvento. Sentì di nuovo le lacrime vicine, ma stavolta non si preoccupò di trattenerle e cominciò a piangere fra le braccia di sua madre.
“No, bambina. Non devi dire così, hai capito? Devi avere fiducia” disse suo padre avvicinandosi.
“Dio non lascerà che le succeda nulla di male, vedrai che tornerà a casa sana e salva”  confermò sua madre.
“Su, dai. Andiamo a bere una tazza di tè in cucina” le propose in seguito e l’accompagnò per la mano lungo il corridoio mentre Madison si asciugava le lacrime.
 
 
La porta si aprì improvvisamente e la stanza si inondò di una luce gialla e fastidiosa che costrinse Elizabeth a strizzare gli occhi. Un forte odore di sigaro mischiato a whisky le penetrò le narici provocandole una smorfia di disgusto. Era Davis.
L’uomo accese le luci e sistemò una sedia di fronte alla ragazza che arretrò di qualche passo; quel gesto gli provocò una risata, “Credi davvero di potermi sfuggire ragazzina?” le domandò ironico.
“Io non ho paura di te. È la tua puzza che mi dà fastidio” rispose Elizabeth acida.
Davis rise un’altra volta, e si alzò in piedi. “Sai, ho pensato molto a come mi potrei divertire con te” esordì l’uomo con tono riflessivo. “Che cosa posso fare con la figlia dell’agente Reid?” e si avvicinò a lei.
“Ucciderti sarebbe troppo poco, io voglio che tu soffra e tuo papino sia lì per vederti” le disse guardandola dritta negli occhi, Elizabeth non vacillò, rimase lì a fissarlo.
“Avrai bisogno di bere molto di più per trovare quel coraggio” gli disse. “La verità è che sei solo un lurido schifoso pervertito che non sarebbe in grado neanche di colpire una ragazzina, per questo le droghi. Solo così puoi avere il pieno controllo sulle loro azioni. Sei solo un debole” continuò Elizabeth decisa a sfidarlo.
“E’ questo che pensi di me? Permettimi di smentirti” affermò Davis, poi la prese per un braccio e la trascinò fuori dalla stanza, Elizabeth si contorse dal dolore, ma non urlò. Si trattenne mordendosi le labbra, a quel punto Davis si girò verso di lei e con forza la colpì più volte finché Elizabeth non si accasciò a terra.
“Non scherzare con me, ragazzina” l’intimò Davis che se ne andò subito dopo. John che aveva assistito alla scena senza farsi notare si sedette per terra vicino ad Elizabeth che si girò verso di lui. La ragazza vide John mostrarle una siringa e annuì. Stavolta non oppose resistenza, stavolta ne aveva bisogno.
Qualche minuto dopo i suoni diventarono indistinti, la testa smise di girarle, e il suo corpo non avvertì più alcun dolore. E tutto divenne buio, ancora una volta.
 
 
Anne Walker e Spencer Reid fecero ingresso nell’open space e si diressero subito verso la mappa che JJ aveva appena sistemato come da loro richiesto.
“Allora il corpo di Lucy Sprouse è stata trovato in Leesburg Pike” iniziò Anne facendo il riepilogo.
“Che si trova esattamente qui” rispose Spencer collocando una puntina nel punto segnato dalla mappa.
“La macchina di Ellie in Kingsley Road” proseguì Anne, ponendo anche lei la puntina nella mappa.
“E la macchina di John in Ring Road” completò Spencer sistemando l’ultima puntina.
“Ok, Spencer. Adesso tocca a te, sei tu il mago dei profili geografici” disse la giovane collega. “Anche perché a me non vuoi insegnarlo…” sussurrò lei in tono scherzoso per sdrammatizzare.
“Quando tutto questo sarà finito, ti prometto che vedrò dì insegnarti qualcosa, ora scusami…”  le disse.
“Oh, si!scusa…” e si fece subito da parte lasciando il dottor Reid ai suoi calcoli e speculazioni.
L’uomo cominciò a tracciare velocemente delle linee sulla mappa che Anne provò a decifrare senza alcun successo.
“Calcolando il tempo necessario per scaricare il corpo dalla macchina e trascinarlo al luogo dell’abbandono, i due non possono aver…” lo sentì mormorare Anne.
Ad un certo punto si voltò verso di lei, e dopo aver riflettuto qualche altro secondo, annunciò alla collega: “Considerando che tutte queste strade hanno la Gallows Road credo che l’area da prendere in considerazione sia questa” disse e cerchiò subito l’area sulla mappa.
“Ok, qui cosa abbiamo?” domandò lei a Lucas che nel frattempo si era unito a loro, l’uomo si recò nel ufficio e digitò velocemente le coordinate.
“Pessime notizie” dichiarò al suo ritorno. “E’ un complesso di vecchie case coloniali abbandonate…”
“In poche parole mi stai dicendo che Ellie potrebbe essere ovunque” disse rassegnato Spencer, sembrava che ogni suo sforzo fosse inutile.
“Cosa possiamo fare?” domandò Anne ed entrambi.
“Parliamo con Morgan e vediamo come possiamo organizzarci” suggerì Reid.
“Già… Spencer posso parlarti?” gli disse la donna che guardò l’analista informatico facendogli capire che doveva allontanarsi, l’uomo annuì e se ne andò. Aveva intuito cosa stava per dire Anne, la stessa cosa che pensavano tutti, ma che nessuno aveva il coraggio di dire.
“Spencer… credo che tu sappia che ora è il momento di farsi da parte” esordì Anne. Spencer le rivolse uno sguardo di odio e provò a replicare, ma Anne lo zittì immediatamente con la mano.
“Fammi parlare” gli disse e continuò il discorso: “Devi sapere che io sono dalla tua parte, insomma ti capisco, Spencer”
“Non credo che tu possa capire, Anne”
“E invece sì. Ma devi capire anche noi, Prentiss ti vuole fuori dal caso, e nessuno di noi per il momento ti ha detto qualcosa riguardo la tua indifferenza agli ordini del capo responsabile, ma adesso ti spingeresti troppo oltre”
“Walker non aspetta a te dirmi cosa devo e non devo fare” le rispose in tono acido. Il modo in cui si rivolse a lei la sorprese, mai l’aveva chiamata con il cognome da quando era entrata nell’unità e mai l’aveva rimproverata.
“Spencer, scusami. Io semplicemente…” provò a parlare, ma era troppo sconcertata.
“Non c’è bisogno. Ora scusami, ma ho da fare”  disse e se ne andò.
 
“Morgan”  lo chiamò Spencer distogliendo dalla conversazione in cui era impegnato.
“So dove dobbiamo cercare”  annunciò una volta che Derek fece segno agli altri di allontanarsi. 
“Lo so. Stiamo appunto discutendo su come procedere” lo informò.
“Ah” disse Spencer. “Cosa avete in mente?” gli domandò poi.
“Perlustreremo l’area con i cani, è il metodo più sicuro. Ci servirà un indumento di Ellie”
“Prendi il maglioncino che era in borsa” disse a JJ che andò subito a prenderlo.
“Mi stai dicendo che avete intenzione di cercare mia figlia con i cani? Ma mi prendi in giro?” urlò Spencer attirando su di sé gli sguardi di tutti.
“Reid, calmati. Comunque è l’unico modo, non possiamo mica fare un’irruzione in ogni singola casa. Attireremmo ancora di più l’attenzione”
“Perché invece dei cani possano inosservati?” domandò l’uomo, dalla voce si percepiva il suo astio.
“Hai qualche idea migliore Reid?” gli rispose a tono.
“No…” disse l’uomo sotto voce. “Allora si farà così” gli rispose e prese in mano il maglioncino che gli porse JJ, e si diresse verso la squadra che aveva appena radunato.
“Reid, stai qui. Ti terremo aggiornato”  dichiarò sulla soglia dell’ascensore.  
Spencer aspettò che Morgan e gli altri andassero via poi prese le sue cose e si avviò verso l’ascensore. Prentiss, uscita dal suo ufficio in quel momento, notò l’agente mentre entrava nell’ascensore, corse nell’open space per impedirgli di lasciare il bureau arrivando giusto in tempo per evitare che le porte si chiudessero; “Reid dove pensi di andare?” gli chiese posando una mano sulla porta che in quell’istante si riaprirono.
L’uomo la guardò con una strana luce negli occhi che lasciò Emily esterrefatta. “Mi dispiace Emily, ma non ho intenzione di restare qui”, poi premette il bottone del piano terra e le porte dell’ascensore si richiusero lasciando Emily senza la possibilità di replicare.
 
 
“Ragazzina! Svegliati…” “Su, dai!”
La voce di John seguita da uno strano torpore che invase il suo fragile corpo svegliarono Elizabeth dal “coma” in cui era ricaduta. John continuò a scuoterla finché la ragazza non si svegliò del tutto.
“Ragazzina, ho visto dei cani e un sacco di poliziotti pattugliare mentre facevo il mio giro di perlustrazione” le disse appena ebbe ottenuto la sua attenzione.
“Credo che tuo padre ti abbia trovato” continuò facendo un sorriso. “Forse dopotutto l’idea di rapire la figlia di un federale non è stata del tutto un errore” pensò, gli sarebbe costato il carcere ma almeno quell’incubo sarebbe finalmente finito.
“Papà…” disse Elizabeth cercando di concentrarsi sulle parole dell’uomo.
“Stammi a sentire Elizabeth” ricominciò chiamandola per nome. “Io ti ho appena iniettato una sostanza che contrasterà l’azione del farmaco, ma tu devi fare finta di essere ancora sotto l’effetto dei tranquillanti e al momento opportuno te la svigni, ok?”
“E tu?” gli domandò la ragazza. “Non preoccuparti per me, ragazzina. Io me la caverò in qualche modo” la rassicurò. “Ora vado, mi raccomando”
“Grazie…” sussurrò, ma ormai John era uscito dalla stanza e non poté più sentirla.
 
 
Spencer guidava da più di un’ora, ormai si stava avvicinando ad Ellie, lo sentiva. Non riusciva a spiegarlo, ma sapeva che era lì, vicina a lui. L’avvertiva come se avesse una connessione diretta con lei, qualcosa che in quel momento lo guidava. Forse era l’istinto, forse il destino o forse semplicemente era qualcosa che non era più in grado di spiegare: l’amore. Ci aveva messo ventotto anni della sua vita per capire che esistevano cose che non potevano essere spiegate, e gli era bastato un solo sorriso dei suoi figli per capire che qualsiasi cosa avessero detto o fatto non avrebbe mai potuto abbandonarli. Già, lui non poteva fare ai suoi figli quello che suo padre aveva fatto a lui semplicemente perché non ci sarebbe mai riuscito. Nonostante fossero passati tanti anni e in apparenza lui e suo padre fossero diventati buoni amici, in realtà Spencer non l’aveva mai perdonato, e forse mai ci sarebbe riuscito.
Si fermò davanti ad un cancello di legno e scese dalla macchina. Era sicuro che era arrivato, entrò dentro cercando di non fare rumore. Camminò sul vialetto fino a quando la sua attenzione non fu catturata da qualcosa di scintillante: era il braccialetto di Elizabeth. “Ero sicuro che eri qui” disse guardando il braccialetto che mise in tasca e si abbandonò ad un respiro di sollievo; finalmente era arrivato, ora doveva solo riprendersi sua figlia. Fu in quel momento che il suo cellulare cominciò a vibrare, dopo essersi assicurato che nessuno l’aveva visto dentro, rispose. Era Derek.
“Morgan” disse appena ebbe risposto alla chiamata.
“Reid dove cavolo sei?” disse l’uomo. Era tremendamente arrabbiato, non avrebbe dovuto disobbedire ad un suo ordine.
“Derek, i rimproveri a dopo. Ho trovato Ellie, venite a Tyson Corner” gli disse.
“Reid, non muoverti finché non siamo arrivati” lo raccomandò Derek, ma ormai Spencer era dentro e non aveva intenzione di tornare indietro. “Certo, non preoccuparti” mentì e chiuse la telefonata.
Rimase fermo sul vialetto incerto sul da farsi, doveva pensare ad una strategia, ma alla fine decise di agire d’istinto, cosa del tutto nuova per lui, ed entrò in casa. Una volta dentro prese la pistola in mano e cominciò a percorrere il corridoio della grande casa coloniale.  
Si accorse immediatamente che in casa non c’era nessuno, ringraziò il cielo per questo, ma doveva comunque sbrigarsi. Non poteva correre il rischio che Davis arrivasse o si accorgesse della sua presenza prima che Ellie fosse al sicuro con lui.
Entrò nella prima stanza che trovò lungo il corridoio; Ellie non era lì, sul tavolo in fondo alla stanza vide i farmaci utilizzati da Martin e fu subito attirato da un composto di taurina. “Taurina? Ma è una sostanza eccitante…” rifletté, tuttavia decise di non perdere tempo facendo ipotesi, non era il momento più consono per farlo e lasciò la stanza.
Mentre camminava sentì qualcuno tossire in fondo al corridoio; “Ellie sei tu?” la chiamò accelerando il passo.
“Papà…” disse la ragazza sotto voce, era ancora sotto shock per quanto era accaduto, e per un momento pensò di essersi immaginata la sua voce. “Papà sono qui…” lo richiamò.
Spencer aprì la porta della stanza; “Elizabeth…” esclamò non appena la vide e corse verso di lei.
“Tesoro stai bene?” le chiese dandole un bacio sulla fronte e abbracciandola, era sul punto di piangere. Non riusciva a credere di averla trovata, si sentiva infinitamente sollevato.
“Sì, sto bene. Dobbiamo sbrigarci, Davis tornerà fra poco” gli disse schiarendosi la voce, aveva ancora paura anche se suo padre era lì con lei.
“Certo…” poi la prese in braccio e si avviò verso la porta cercando di fare il più in fretta possibile.
“Posso camminare, John prima mi ha dato qualcosa per contrastare l’effetto dei tranquillanti” gli disse, Spencer la posò per terra e la prese per la mano. “Ecco a cosa serviva il composto di taurina” pensò.
“Ero sicura che saresti arrivato” sussurrò Ellie mentre camminavano lungo il corridoio .
“Non avrei mai permesso che ti facessero del male” rispose e si girò verso di lei, fu allora che notò i lividi sul suo corpo. “Ellie che ti hanno fatto?” le domandò prendendole il viso fra le mani.
“Non è nulla, io sto bene” ripeté anche se mentiva, il dolore non era affatto passato, e ad ogni passo aumentava sempre di più ma non voleva preoccuparlo. Tutto ciò che voleva era uscire di lì e porre fine a quell’incubo.
“Tesoro…”ripeté più volte, non riusciva a dire altro, era troppo sconvolto. Il solo pensiero di ciò che aveva affrontato sua figlia lo distruggeva. L’abbracciò di nuovo, Elizabeth non riuscendo più a trattenersi scoppiò a piangere.
“Ho avuto tanta paura…” confessò abbracciata a suo padre. “Lucy quella ragazza, lei…”
“Lo so, lo so” disse Spencer stringendola a sé con delicatezza per non farle male.
“Che bella scena, meno male che sono arrivato, me la sarei persa” esclamò Davis appena arrivato insieme a John. Elizabeth sussultò e gemette nascondendosi dietro suo padre. Spencer guardò Davis e lo intimò a non avvicinarsi.
“Agente Reid non credo che lei sia nella posizione di poter decidere come si svolgerà quest’incontro” esordì l’uomo facendo un sorriso malizioso.
“Noi siamo in due e lei invece… Beh, lei ha il supporto di una ragazzina” continuò. “Devo ammettere che mi ha dato filo da torcere, ma alla fine l’ho sistemata” e si avvicinò a loro. “Non ti avvicinare o ti giuro che ti ammazzo” lo minacciò di nuovo Spencer puntandogli la pistola contro.
“John metti fine a questa storia” gli disse Davis. John rimase fermo, non avrebbe seguito Davis anche in questo, era pronto ad assumersi le sue responsabilità, non avrebbe ucciso un’altra persona.
“John ti ho detto di mettere fine a questa storia” ripeté Davis a voce più alta.
“Lou è finita” disse l’uomo, Davis si girò verso di lui, mise la mano in tasca e cacciò una pistola.
“Decido io quando è finita” affermò, era fuori controllo ormai. “Lou non c’è bisogno che fai così…” ribadì John avvicinandosi a lui. Davis rise e sparò a John puntando dritto allo stomaco, l’uomo si accasciò a terra, portandosi la mano alla ferita e lasciando cadere pistola. Elizabeth urlò per lo spavento e strinse la mano di Spencer rimanendo sempre dietro di lui, Davis si girò verso Spencer; “Siamo solo noi adesso” affermò abbandonandosi ad una risata.
“Non ne uscirai vivo” lo sfidò Spencer guardandolo dritto negli occhi.
Davis si avvicinò a lui puntandogli sempre la pistola contro, a quel punto Spencer si lanciò in un corpo  a corpo con Davis tentando di togliergli la pistola.
L’uomo spinse Spencer contro il muro e si avvicinò ancora di più a lui. “Pessima scelta, agente Reid” gli disse nell’orecchio.
“Prima mi occuperò di te e dopo di quella bastarda di tua figlia” proseguì l’uomo.
Reid con tutta la forza che aveva in corpo spinse via Davis che barcollò senza cadere; l’uomo rise ancora e si lanciò su Spencer ancora una volta che non riuscì a bilanciare il peso e cadde per terra dopo che Davis lo ebbe colpito con la canna della pistola. Davis si affrettò a disarmarlo e spinse l’arma con il piede.
 Elizabeth di fronte a quella situazione decise d’intervenire per salvare suo padre e approfittando della distrazione di Davis strisciò fino alla pistola di Martin. Spencer con la coda dell’occhio si accorse quello che stava facendo sua figlia e tentò di tenere occupato Davis. Appena la prese Elizabeth fece un segno a suo padre e si alzò in piedi.
“Dì le tue ultime preghiere” disse Davis ponendo il dito sul grilletto, in quel momento Elizabeth sparò colpendo Davis ad un piede e lasciò cadere la pistola che riprese immediatamente. L’uomo urlò dal dolore e si girò verso Elizabeth che arretrò di qualche passo; “Ragazzina non avresti dovuto farlo” l’intimò, nel frattempo Spencer si alzò in piedi e riprese possesso della pistola.
“Io non lo farei se fossi in te” disse Davis avendo notato Spencer con la pistola in mano; “Hai molto da perdere” aggiunse e indicò Elizabeth che rabbrividì. Spencer sapeva che non avrebbe esitato a sparare perciò non si mosse.
Fu in quel momento che sentirono la sirena: il resto della squadra era arrivato.
Davis pensò in fretta, era consapevole che se rimaneva ancora non sarebbe riuscito a scappare, non c’era tempo da perdere perciò sparò contro il muro dove era poggiata Elizabeth per distrarre Spencer che corse verso sua figlia.
“Non è finita qui, agente Reid. Ci rivedremo ancora” disse prima di uscire, poi si diede alla fuga utilizzando il giardino sul retro.
Spencer non si mosse, non partì al suo inseguimento. Rimase seduto per terra vicino ad Elizabeth che piangeva cercando di consolarla: “E’ tutto finito, amore” le disse. Pochi minuti dopo entrarono gli SWAT seguiti da Derek e Hotch.
“Reid tutto bene?” chiese Derek.
“Sì… Davis è scappato, non sono riuscito a fermarlo” rispose Spencer.
“Non fa niente, lo prenderemo” affermò Derek poi diede ordine di sgomberare la scena e di chiamare l’ambulanza per Elizabeth.
Un agente accompagnò Spencer ed Ellie fuori dove li aspettava Anne che sistemò una coperta sulle spalle della ragazza. “Grazie… e scusami per prima” le disse Spencer riferendosi a quanto accaduto.
“Non fa nulla, è tutto a posto”rispose Anne con un sorriso che Spencer ricambiò e si allontanò lasciandoli soli.
 Spencer strinse la mano di sua figlia che gli fece un debole sorriso;  in quel momento una macchina si fermò davanti alla casa e scese Madison assieme a Jules e Thomas che corsero verso la sorella. Thomas le diede il Mister Skippy e l’abbracciò senza dirle nulla. “Grazie …” sussurrò al fratello e strinse la mano a Jules rimasta in piedi accanto a Thomas.
“Bambina … stai bene?“ le chiese Madison in preda alla commozione abbracciandola anche a lei.
“Sto bene, mamma, ma se mi stringete ancora di più soffoco” rispose Elizabeth con tono scherzoso, i due si staccarono da Ellie e risero. Madison poi si avvicinò a Spencer; “Stai bene?” gli chiese prendendolo per mano.
“Sì, adesso sì” rispose l’uomo.
Dopo un po’ arrivò l’ambulanza ed Elizabeth fu portata in ospedale dove avrebbe trascorso la notte in osservazione. Finalmente era tutto finito, ora solo una cosa restava da fare: prendere Davis.
 

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Capitolo 10
*** Rimettendo in ordine. ***


Rimettendo in ordine. 

 
"Una cattiva azione non ci tormenta appena compiuta, ma a distanza di molto tempo, quando la si ricorda, perché il ricordo non si spegne." Jean Jacques Rousseau
                                                              
“Spencer … Spencer” si sentì chiamare da una voce che ormai riconosceva come la sua, era quella di sua moglie. Madison gli accarezzò delicatamente i capelli spostandogli le ciocche ribelli che gli ricadeva sul viso, Spencer fece un respiro profondo e si ricompose.
“Vai a casa, tanto qui è tutto a posto” gli disse, sedendosi al centro del letto dove Elizabeth dormiva stringendo a sé il peluche portatogli da suo fratello. “Ellie non si sveglierà ancora per un po’”; si girò verso sua figlia e allungò la mano per sfiorarle il viso.
“Cos’è successo con George?” le domandò ricordandosi improvvisamente di averla vista discutere con lui poco prima di addormentarsi.
“Nulla, voleva che Ellie rimanesse un altro giorno, ma io voglio portarla a casa” spiegò lei. Poi si alzò dal letto e si diresse verso la finestra.
Fuori pioveva, era preoccupata anche se non lo dava a vedere, sapeva che Davis era ancora a piede libero e finché non l’avessero catturato né Ellie e né Spencer sarebbero stati al sicuro. Sospirò e chiuse gli occhi come per scacciare quel pensiero e si rigirò verso suo marito che osservava Elizabeth dormire perso nei suoi pensieri.
Anche lui in quel momento pensava a Davis, doveva mettere le mani su quel viscido figlio di puttana e fargliela pagare per ciò che aveva fatto a sua figlia. Ma ora non era il momento più adatto per abbandonarsi alla rabbia, una persona più importante aveva bisogno di lui e quella persona era Ellie; sapeva, meglio di chiunque altro, quanto quell’esperienza potesse essere devastante, quanto fosse difficile superarla senza l’aiuto di qualcuno. Ma conosceva Elizabeth, e in questo gli somigliava tantissimo, ed era consapevole che entrare nel mondo in cui sua figlia si era rifugiata sarebbe stato difficile, se non impossibile.
Anche lui si alzò e diresse verso la finestra, prese la mano di Madison nella sua e la strinse debolmente.
“Lo prenderò, non preoccuparti. E troveremo un modo di uscirne” le disse intuendo la preoccupazione di sua moglie dal suo sguardo, i loro pensieri erano entrambi rivolti verso di lei, verso Ellie; così come anche le loro preghiere e speravano ardentemente che tutto si sarebbe aggiustato, prima o poi.
 
 
“Mi chiedo come faremo a prendere Davis …” furono queste le parole che Anne pronunciò tornati dall’ospedale dove si erano accertati delle condizioni di Elizabeth e che contenevano in loro tutta l’insicurezza che si era insidiata negli animi dei membri della squadra dell’Unità Analisi Comportamentale.
“Lo faremo in qualche modo” rispose Derek senza distogliere lo sguardo dai fascicoli che aveva in mano, effettivamente l’attuale agente supervisore aveva un altro pensiero, non meno grave: doveva giustificare le azioni del suo sottoposto, ovvero di Spencer.
Già, Emily aveva richiesto un rapporto dettagliato di come si erano svolti gli eventi, in modo particolare di come Spencer avesse ritrovato Elizabeth e soprattutto di come fosse giunto nel nascondiglio di Davis nonostante gli fosse stato ordinato di rimanere nell’ufficio.
Ma soprattutto doveva trovare le parole giuste per spiegare a Spencer che forse sua figlia non avrebbe superato quell’incidente facilmente, convinzione che si era fatta breccia nella sua mente immediatamente ripensando ad Ellie, la figlia del detective Spice, e a quanto per lei fosse stato arduo andare avanti e riacquistare un po’ della fiducia e sicurezza persa; ma soprattutto perché conosceva quella ragazzina quasi quanto i suoi genitori, l’aveva vista crescere e sapeva che nonostante sembrasse felice e spensierata, la realtà era che Elizabeth aveva tante paure e ansie. Quell’atteggiamento in apparenza normale e forse troppo esuberante nascondeva una certa angoscia che nemmeno lei riusciva a spiegarsi, e soprattutto per cui non era in grado di chiedere aiuto.
Lo squillo del cellulare lo distolse dai suoi pensieri; era Nancy, sua moglie.
“Derek, come sta Ellie?” domandò la donna dal forte accento francese nonostante ormai vivesse negli Stati Uniti da oltre venti anni.
“Fisicamente bene, si riprenderà. Ma psicologicamente io …” non completò la frase, sua moglie era altrettanto consapevole dell’instabilità della figlia di Spencer.
“Dici che potrebbe commettere qualche altra sciocchezza?” domandò dal tono si riusciva a capire che era anche lei preoccupata.
“Non so, potrebbe …” nel frattempo si era allontanato dalla sala riunioni per cercare un po’ di privacy richiudendosi nel suo ufficio.  “Ma faremo in modo che non succeda” aggiunse sedendosi sulla poltrona del suo ufficio.
“Madison? Sta bene?” s’informò la donna, pensando a come potesse aver gestito la situazione l’amica.
“Sì, sta bene. È riuscita ad affrontare il tutto senza perdersi d’animo, la conosci meglio di me. E’ forte”
“Già …”
“E tu, amore? Quando pensi di tornare a casa?” chiese mentre spingeva la valigia dentro casa essendo appena rientrata da un seminario sull’arte impressionista che aveva tenuto a Baltimora per qualche giorno.
“Sto bene, starò meglio quando avremo preso questo bastardo. Tornerò il prima possibile. Megan? Si è comportata bene?” chiese dal momento non era riuscito a chiamare sua figlia durante i giorni del seminario.
“Oh! Bien sûr cheri!” esclamò sua moglie. “Nostra figlia diventerà un’artista”.
A quell’affermazione , Derek scoppiò a ridere. “Un’artista in casa basta e avanza” disse pensando ai pennelli, colori, tele sparsi per casa che sua moglie utilizzava nel suo lavoro.
“Certo.. certo!” rispose Nancy scoppiando anche lei a ridere. “Bene, ci sentiamo dopo allora caro”
“Sì, a dopo” chiuse la telefonata sorridendo e socchiuse gli occhi. Ora voleva solo rilassarsi.
 
“Toc, toc si può?” disse Blair entrando nella stanza di ospedale dove soggiornava temporaneamente Elizabeth seguita dagli altri due amici, Nicole e Colin.
“Oh! Certo!” fu la risposta di Madison che si alzò dalla poltrona dove si era seduta, dirigendosi verso di loro per salutarli.
“Cuccioli della prateria mi siete venuti a trovare?” esclamò Ellie rivolgendo loro un enorme sorriso.
“Sì e non avremmo dovuto visto che sei una cretina e non meriti la nostra presenza qui!” rispose Colin con finto tono arrabbiato.
“Ma che diavolo ti è saltato in mente?” la riprese Nicole.
“È vero che noi diciamo sempre che sei WonderEllie ma questo è troppo pure lei!” proseguì Blair mentre gli altri due annuivano.
Madison rimase ad ascoltarli senza parlare ed aspettando che sua figlia almeno ai suoi amici rispondesse per vedere come si giustificava.
“Ma non vi hanno detto mai che non si dovrebbe tempestare di domandare, anzi no, puntare il dito contro qualcuno che ha appena subito un trauma come il mio?” ironizzò lei mettendosi seduta sul letto e sistemando i cuscini per poggiare la schiena.
“Ma stai zitta!” commentò Colin sedendosi sul letto e provò a darle una leggera spinta, ma Ellie si spostò dalla sua traiettoria facendogli la linguetta.
“Ragazzi, se ci siete voi, io andrei. Vado a vedere qualche paziente!” annunciò Madison poi salutò tutti ed uscì dalla stanza.
“Ma tuo padre?” chiese Blair improvvisamente accortasi dell’assenza dell’uomo.
“Boh! Sarà da qualche parte a fare telefonate!” rispose con noncuranza facendo spallucce.
“Allora che è successo in questi giorni? Qualche nuovo fidanzamento, anzi no, rottura?” domandò rivolgendo un’occhiata carica di curiosità.
“Scusa, tu ci stai chiedendo cosa è successo in questi giorni quando tu …” s’interruppe Nicole guardando interdetta l’amica come gli altri due.
“Ehm … sì” rispose lei guardandoli come se non capisse come mai le stessero dicendo una cosa del genere. “Allora Brooke sta ancora con Josh si o no?” domandò.
“Sì, ci sta ancora e la crisi è passata!” la informò Nicole decisa anche lei a far finta di nulla proprio come l’amica. Gli altri due si scambiarono un’altra occhiata incerta e si unirono alla conversazione.
In quel momento Spencer entrò nella stanza e si sedette sulla poltrona dopo aver salutato gli amici di sua figlia. Rimase lì ad osservarli parlare, anche se più che osservare i suoi amici, fissava lei: Ellie.
Tutto indicava che avesse rimosso l’accaduto o facesse finta di nulla per non spaventare i suoi amici, ai quali non aveva rivelato alcun dettaglio.
Si chiese cosa stesse in realtà pensando in quel frangente, se non sapesse che Ellie non avrebbe mai dimenticato, certezza che proveniva dallo sguardo che gli aveva rivolto quando parlava di Lucy al momento del ritrovamento, avrebbe pensato che sua figlia aveva semplicemente deciso di non pensare più a quell’orribile esperienza che aveva appena vissuto.
Era ancora in ascolto quando la porta si aprì ed entrò qualcuno che non si aspettava di vedere. Quella visione gli suscitò una piacevole sensazione, era contento che fosse lì. “Henry” esclamarono i quattro ragazzi che gli rivolsero un sorriso.
“Hey! Gente!” ricambiò lui salutando gli amici della ragazza con un bacio sulla guancia, poi si girò verso Spencer e salutò anche lui.
“Che ci fai qui? Non dovresti essere a Providence a fare qualche esame?” lo scherzò Ellie mentre lui si sedeva sul letto vicino a lei.
“Va bene, visto che tu sei qui..” disse Blair riferendosi a Henry. “Noi magari potremmo andare …” continuò lanciando un’occhiata complice a Nicole che sorrise e aggiunse: “Già, io devo andare in quel posto a prendere quella cosa che mi ha chiesto mia madre”
“Che cosa devi comprare? E dove? Non mi hai detto nulla prima” domandò sconcertato Colin che non aveva afferrato il motivo di quell’improvvisa partenza.
“Te lo dico strada facendo ...” lo rispose Nicole prendendolo per un braccio e trascinandolo fuori dalla stanza nonostante le proteste del ragazzo sotto lo sguardo divertito di Henry, Ellie e Blair.
“Beh anch’io vado. Devo chiamare Morgan” annunciò Spencer e alzandosi dalla poltrona. Sua figlia annuì e lo salutò con un cenno della mano e altrettanto fece Henry. “A dopo” disse l’uomo e chiuse la porta.
“Questa volta l’hai combinata grossa” la rimproverò Henry senza riuscire tuttavia a tenere un tono serio.
“Anche tu mi rimproveri?” si lamentò lei tirandosi le coperte sulla testa per non farsi vedere.
“Sì, anch’io ti rimprovero” tirò giù le coperte e prese le sue mani nelle sue. “Non farlo più, ok? Sennò io chi potrò prendere in giro per la sua totale ignoranza?” la rimbeccò facendo un sorriso.
Ellie ricambiò. “Vedrò di tenermi fuori dai guai così siamo sicuri che avrai sempre qualcuno con confrontare la tua immensa intelligenza” ironizzò lei. 
“Brava, era questo che volevo sentire” rispose lasciandosi sfuggire una leggera risata.
La risata di Henry si spense quasi subito, il ragazzo si alzò e andò alla finestra sotto lo sguardo curioso della figlia del suo padrino che aveva percepito il cambiamento nella sua espressione.
“Avresti potuto davvero morire..” sussurrò senza voltarsi. Alzò lo sguardo verso il vetro e incontrò il suo riflesso, aveva gli occhi lucidi e anche il naso pizzicava. Stava per scoppiare in lacrime.
Elizabeth non rispose limitandosi ad annuire nonostante fosse conscia che lui non potesse vederla.
“Ellie..” si voltò verso di lei rimanendo sempre alla finestra. “Io credo che..” quello che stava per confessarle era più difficile di quanto volesse ammettere. Gli occhi nocciola di Elizabeth erano puntati sulla sua figura e deglutì. “Tu mi piaci” affermò d’un fiato.
Elizabeth sgranò gli occhi e si umettò le labbra. “Credevo che..”
Il ragazzo si avvicinò a lei e prese di nuovo le mani di lei nelle sue. “Lo so quello che credevi. Devi capirmi, Ellie, io mi ricordo di te da quando pesavi poco più di due kg e mezzo e puzzavi di cacca”
La ragazza rise a quell’affermazione. “Bel ricordo..” ironizzò.
“Per me è difficile, anzi, è strano.. per te non è strano?” domandò alla ragazza che fece spallucce.
“Il concetto di stranezza nella famiglia Reid è piuttosto vago, Henry, quindi no. Non è strano per me” ribadì avvicinandosi di più al suo volto. 
“Sono migliorata da quando pesavo due kg e mezzo e puzzavo di cacca?” chiese mordicchiandosi il labbro inferiore, gesto che fece sorridere Henry.
“Sei bellissima” sussurrò e si avvicinò anche lui. Erano così vicini che potevano respirare l’uno il fiato dell’altra.
“Non scapperai di nuovo, no?” domandò lei prima che succedesse qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire.
Henry scosse la testa e le accarezzò la guancia. “Questa volta no”
 

Nel frattempo che i due si scambiavano confessioni nella camera di ospedale, Natalie entrò nella reception del Howard University Hospital e rimase ferma davanti al bancone di questa senza sapere bene cosa stesse cercando. “Signora, le serve aiuto?” domandò la giovane incaricata della reception rivolgendo un sorriso rassicurante.
“Ehm… si. Mia nipote… Elizabeth… è stata ricoverata qui” balbettò la donna cercando di recuperare un po’ di sicurezza.
“Elizabeth come?” chiese la giovane digitando già il nome della ragazza sulla tastiera.
 “Mamma…” la chiamò sua figlia appena la riconobbe. Si avvicinò alle due posando alcune cartelle sul bancone.
“L’accompagno io” informò la receptionist che annuì tornando al suo lavoro di archiviazione delle cartelle lasciate dal personale.
“E’ al primo piano, preferisci prendere l’ascensore o usiamo le scale?” domandò Madison avviandosi comunque verso le scale dal momento che odiava gli ascensori.
“Prendiamo le scale” rispose sua madre intuendo che la preferenza di sua figlia. Durante il breve tragitto le due donne rimasero in silenzio, lanciandosi ogni tanto delle occhiate. Madison riusciva a percepire la tensione che si accumulava nell’animo di sua madre ad ogni gradino in più salito, ma voleva aspettare che fosse lei a parlarne poiché sapeva esattamente cosa le avrebbe detto.
E quel metodo funzionò perché, infatti, sua madre poco prima di entrare nel corridoio che le avrebbe condotte in camera di Elizabeth, fece la fatidica domanda: “Cosa devo aspettarmi?”
“La verità, mamma, è che non lo so nemmeno io. È così strana Ellie da quando…” provò a spiegare Madison senza saper bene cosa dire.
“Non ne parla?” chiese sua madre cogliendo il senso di quella frase lasciata a metà da sua figlia.
“Esatto!” confermò lei. “Fa finta di nulla, io non so se questo sia un bene o un male” aggiunse con tono preoccupato.
“Ho paura che se non ne parla, se si tiene tutto dentro, possa commettere lo stesso errore che feci io” continuò Madison cercando un po’ di conforto negli occhi di sua madre che non glielo offrirono.
“Vedrai, andrà tutto bene” la rassicurò con tono poco convinto.
Fu in quel momento che incrociarono Spencer nel corridoio con in mano il cellulare  e il fascicolo di Davis mentre fissava uno dei tanti quadri appesi lungo le pareti.
“Spencer” lo richiamò sua suocera per catturare la sua attenzione, infatti l’uomo si girò verso di loro.
“Oh! Natalie! Sei arrivata!” esclamò senza molto entusiasmo. La donna fece un mezzo sorriso e tornò a fissare sua figlia aspettando che entrasse nella stanza.
“C’è qualcuno?” domandò Madison a Spencer prima di aprire la porta della camera.
“Dovrebbe esserci Henry” la rispose velocemente.
“Henry? Davvero?” anche Madison si rallegrò di quella visita, era sicura che se Elizabeth non aveva intenzione di parlare con loro, almeno lo avrebbe fatto con Henry.
Spencer annuì e aprì la porta della stanza facendo passare sua suocera. 
“Nonna!” trillò Ellie non appena vide sua nonna entrare, si alzò dal letto di scatto per salutarla ma dovette risedersi a causa di un capogiro, sentiva ancora il corpo intorpidito. Henry si avvicinò a lei come per aiutarla, ma Elizabeth gli fece capire segno di star bene.
“Tesoro ancora non puoi alzarti” le disse sua madre avvicinandosi anche lei.
Nel frattempo, Natalie l’abbracciò e si sedette accanto alla nipote sul letto dopo che Henry si fu spostato per fare spazio.
“Stai bene?” le domandò sua nonna prendendola per mano.  
“Certo nonna, è tutto ok..” sorrise lei ma scostò subito lo sguardo fissando la finestra per non far capire quanto fosse preoccupata e quanto quelle parole che aveva ormai detto e ripetuto fossero false.
 
Una settimana dopo Elizabeth, ormai dismessa dall’ospedale da qualche giorno, fu portata da suo padre negli uffici dell’unità analisi comportale dove era stata convocata da Emily Prentiss. Era arrivato il momento di fare la tanto attesa deposizione, cosa che la innervosiva terribilmente perché avrebbe dovuto descrivere nei dettagli cosa era accaduto in quei due giorni, e lei non voleva.
Perché descrivere significava ricordare e tutto ciò che lei voleva fare era dimenticare. Ma la consapevolezza che Davis era in attesa di un errore di valutazione di suo padre glielo impediva, non si sarebbe mai potuta sentire al sicuro finché l’uomo che aveva fatto crollare la sua fragile sicurezza non fosse stato catturato.
Tutte le notti fingeva di andare a dormire, ma in realtà restava sveglia a causa degli incubi in cui riviveva quell’esperienza mille volte ancora. Sentiva il sussurro della voce di Davis nelle orecchie ed a volte le pareva anche di sentire il suo odore, aveva paura non solo per sé, ma anche per suo padre. A quel pensiero rabbrividì, Spencer si girò verso di lei e le strinse la mano.
“Aspetta qui” le disse e le indicò le sedie posizionate davanti l’ufficio di Emily ed entrò nella stanza per avvisare l’ex collega che sua figlia era pronta a deporre.
Elizabeth cominciò a guardarsi intorno, era la prima volta che si trovava in quella parte dell’ufficio, o meglio di solito più lontano dell’open space durante le sue visite inattese non andava. Era troppo nervosa perciò decise di contare fino a cento per calmarsi, esercizio che Colin le aveva insegnato tempo fa. “Quando vedi la Currie conta fino 100 così non la rispondi male e chissà magari a fine anno ti promuove” le aveva detto quella volta riferendosi alla professoressa di storia che Ellie aveva in odio, ricordandosi di quell’episodio per un momento sorrise, ma poi le sue preoccupazioni le caddero di nuovo addosso.
Poggiò le mani sulla sedia come per sostenersi e sospirò, si girò verso la porta ancora chiusa, sentì la voce concitata di suo padre e quella più calma di Prentiss, stavano discutendo di lei. Ricominciò a contare: “1…2...3” “4…5…6”
“Ellie va tutto bene?” le domandò Anne guardandola un po’ stranita.
“Sì, certo! Tutto ok…” balbettò lei. “Aspetto di entrare” aggiunse fingendo un tono fermo di voce che però non le riuscì.
Anne le sorrise e bussò alla porta che si aprì lasciando passare la donna dentro per poi richiudersi nuovamente.
Dopo poco più di cinque minuti suo padre uscì avvisandola che appena Anne fosse uscita , lei doveva entrare, Ellie annuì e salutò con un cenno del capo il padre che scese di sotto.
“Allora come l’hai trovata?” chiese Prentiss alla giovane profiler una volta rimaste sole.
“Diciamo che è un vulcano sul punto di esplodere” affermò la bionda appoggiandosi contro lo schienale della sedia girevole. “Quindi potrebbe crollare da un momento all’altro?” domandò ancora la mora per meglio avere chiara la situazione.
“Potrebbe succedere” rispose senza aggiungere altro. “Bene, è meglio che la facciamo entrare” affermò Emily infine indicando con il dito la porta, Anne si alzò e salutò Prentiss uscendo dalla stanza. 
“Vai cara, Emily ti aspetta” le comunicò poco prima di sparire anche lei per le scale. Elizabeth fece un altro respiro profondo ed entrò. “Accomodati” le disse Emily alzandosi in piedi e indicandole la sedia dove fino a poco prima era seduta la collega di suo padre.
Elizabeth si sedette e rimase in silenzio in attesa di una domanda. “Come stai?” le domandò Emily per rompere il ghiaccio, la ragazza la guardò attonita, aprì la bocca e la richiuse.
Dopo aver inspirato nuovamente, parlò: “Credo che questa parte della conversazione la potremmo saltare. Chiedimi quello che devi chiedermi e chiudiamola qui”
Emily di fronte a quella risposta acida della ragazza sollevò il sopracciglio, si schiarì la voce e le rispose: “Bene, se è quello che vuoi”
“Cosa è successo Elizabeth quando tuo padre è arrivato?” domandò la donna poggiando le braccia sulla scrivania e spostandosi leggermente in avanti. “Non c’è scritto sul rapporto?” domandò lei un po’ stizzita.
“Sì, ma io voglio saperlo da te” le rispose utilizzando il medesimo tono acido della ragazza di poco prima.
“Mio padre è arrivato quando Davis non c’era, non so dove fosse andato. Io ero nella stanza in fondo al corridoio perciò non mi sono accorta subito della sua presenza, ma sapevo che sarebbe arrivato” iniziò il racconto Ellie interrotto subito da una domanda di Emily: “Come mai lo sapevi?”
“Me l’aveva detto John mentre mi somministrava il composto per contrastare l’effetto dei tranquillanti” le rispose.
“Quindi John voleva aiutarti?” s’accertò Emily. Elizabeth confermò con un cenno del capo.
“Davis ha ucciso John?” chiese alla ragazza che cominciava ad innervosirsi nuovamente.
“Si, non abbiamo potuto aiutarlo” disse con un velo di tristezza nella voce. “Cosa è successo dopo?”
“Papà e Davis hanno cominciato a litigare e Davis era riuscito a disarmare papà” s’interruppe, le si era formato un grappolo in gola, deglutì e riprese il racconto: “Così io ho fatto quel che dovevo fare”
“Hai sparato Davis?” domandò anche se non aveva alcun bisogno di conferme.
“Si, ma ho una pessima mira quindi a malapena il piede ho preso, perciò più che sparare diciamo che l’ho sfiorato con il proiettile” chiarì Elizabeth tenendo fisso lo sguardo sulla mora per osservare la sua reazione.
“Credo che la pessima mira sia una caratteristica della famiglia Reid” provò ad ironizzare Emily senza ottenere risposte nella ragazza. A quel punto la mora divenne nuovamente seria e si apprestò a concludere il colloquio, facendo una domanda che inquietò la ragazza: “Credi che se non avessi fatto qualcosa Davis avrebbe ucciso tuo padre?”
“Non ho dubbi, aveva la possibilità di farlo e soprattutto non si desiderava altro” rispose dopo una breve pausa.
“Per me è sufficiente così, puoi andare” affermò la donna, compilò velocemente una scheda e accompagnò la ragazza alla porta.
“Cosa hai scritto nella valutazione?” domandò Elizabeth alla mora quando giunsero alla porta intuendo che fosse quello il contenuto della scheda che aveva appena compilato.
“Non si ritiene indispensabile di sottoporre la vittima ad un trattamento psicoterapeutico” sciorinò la donna tenendo ferma la porta dell’ufficio con il palmo della mano.
“Non si ritiene indispensabile, ma è consigliato” concluse la ragazza, poi dopo essersi congedato da Emily uscì dalla stanza e scese le scale sotto lo sguardo vigile dell’ex collega di suo padre.
 
“Andiamo a casa?” chiese Elizabeth a suo padre dopo essere entrata nella sala riunioni senza aver chiesto il permesso.
L’intera squadra della BAU si voltò verso di lei con aria attonita, fu Spencer il primo a reagire.
“Tra un attimo, dobbiamo concludere una cosa” la rispose. “Io voglio tornare adesso non tra un po’ ” replicò acida la ragazza incrociando le braccia e portandosele al petto.
“Dobbiamo discutere di qualcosa che ti riguarda perciò siediti” le ordinò l’uomo ignorando l’atteggiamento indisponente di sua figlia e avvicinandole una sedia dove Elizabeth si sedette senza protestare oltre.
“Penso che ti renderai conto che non puoi uscire di casa senza qualcuno che ti controlli” esordì Derek.
Elizabeth annuì. “Cosa avete intenzione di fare? Mi rinchiudete in casa?” domandò.
“No, ma sarai costantemente sorvegliata fino a che non avremmo catturato Davis” spiegò Derek con il consenso degli altri agenti presenti nella stanza.
“Non andrò a scuola? Perché è un posto decisamente pericoloso e poco controllabile” suggerì la ragazza con tono piuttosto leggero.
“Certo che andrai a scuola, Elizabeth” tagliò corto suo padre suscitando il disappunto di lei che sbuffò.
“Ellie vorremo che tu capissi che questo non è un gioco e che tu sei seriamente in pericolo” riepilogò Derek guardando dritto negli occhi la figlia del suo collega per vedere se queste parole suscitavano in lei una qualche reazione.
“Lo so, non sono mica stupida” borbottò lei sospirando rumorosamente, dopodiché riprese il discorso: “Quindi qual è la prossima mossa?”
“Organizzeremo dei turni di sorveglianza a scuola mentre sarai lì, tu continuerai la tua solita routine. Ovviamente sarai sempre controllata e per un po’ eviterai i posti affollati, tipo i centri commerciali e le discoteche” le spiegò Spencer.
“A me questa non pare la solita routine…” replicò lei per niente contenta delle condizioni appena sciorinate da suo padre.
“Elizabeth, è per il tuo bene” intervenne Hotch rimasto in silenzio fino a quel momento. “Sono sicuro che i tuoi amici non avranno nulla da ridire se per qualche sabato non uscite” continuò l’uomo con tono paterno.
Elizabeth annuì e sorrise per la prima volta da quando ero entrata nella stanza. “Penso che a Colin in effetti non dispiacerà, è da un po’ che insiste sul fatto che vuole trascorrere una serata tranquilla giocando a “Indovina chi?” ”si auto convinse, guardando gli altri in cerca di approvazione che ottenne immediatamente.
“Quindi siamo d’accordo? Smetterai di fare la wild girl per un po’?” ironizzò Derek facendo un ampio sorriso.
“Si, ma solo per un po’” lo rispose con lo stesso tono allegro utilizzato dall’uomo.
La conversazione si spostò su argomenti più piacevoli, il che consentì ad Elizabeth, così come anche agli agenti, di rilassarsi e di allentare la tensione anche solo per un attimo e senza pensare al domani e a ciò che li aspettava, ma c’era qualcuno nell’ombra che non smetteva di pensare e aspettava il momento per agire e ormai il tempo stava per scadere.
Lui era pronto e questa volta non avrebbe fallito. 


 

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Capitolo 11
*** The last days. ***


“E so anche che potrebbe essere che anch’io fallisca/Ma so che tu eri come me/Con qualcuno deluso da te” (Numb, Linkin Park)
 
 
Diverse settimane trascorsero senza apparenti risvolti nelle indagini, le ricerche compiute sia da Garcia quanto da Lucas non sembravano condurre ad alcun risultato. Davis sembrava scomparso, o per lo meno nessuna traccia aveva lasciato di sé, tuttavia Spencer sapeva che la sua temporanea scomparsa non poteva che significare che il nostro uomo stava tramando qualcosa di sempre più pericoloso, a quel pensiero un brivido gli attraversò la schiena. Non c’era un minuto da perdere, doveva fare tutto quello che in suo possesso per porre finalmente fine a quella storia.
E con quest’intenzione raggiunse Quantico un mercoledì di mattina presto.
“Allora qualche novità?” domandò l’uomo al loro analista informatico intento a incrociare dati su dati.
“Buongiorno Spencer” lo salutò Lucas. “Comunque ancora nulla” rispose scuotendo la testa.
“Continua” gli disse Spencer e dopo averlo opportunamente salutato. L’analista informatico annuì e tornò al lavoro.
L’open space era completamente vuota quella mattina per una qualche ragione che Spencer non seppe spiegarsi e che non gli interessava particolarmente.
Si sedette alla sua scrivania gettando un’occhiata al piano di sopra dove notò Derek ed Emily discutere nell’ufficio di quest’ultima, incuriosito decise di raggiungerli.
“Spencer, proprio te stavo cercando” gli comunicò Emily non appena lo vide.
“Vi ho visto e ho pensato di salire” rispose lui infilandosi le mani in tasca, non si sentiva a suo agio in quella situazione, qualcosa dentro di sé gli diceva che quella conversazione non avrebbe portato a nulla di buono.
“Fatto bene, fatto bene …” mormorò la mora poi si rivolse a Derek invitandolo a lasciarli soli. L’uomo non se lo fece ripetere due volte e si allontanò rivolgendo a Spencer un sorriso di circostanza.
“Emily cosa c’è?” domandò l’uomo, dal tono si poteva percepire la sua stanchezza e soprattutto il desiderio di vedere posta una fine a quella situazione che non lo faceva più dormire la notte. 
“Credo che tu sappia bene cosa sto per dirti” affermò con evidente sicurezza la mora. Reid annuì e dopo qualche secondo di riflessione parlò: “Lo so, devo sottoporre Elizabeth a qualche terapia o cose così”
“Spencer so che può essere difficile per te accettare che lei non sia instabile …” la mora s’interruppe per deglutire e riprese il discorso per essersi umettata le labbra. “Insomma è tua figlia, posso capirlo. E poi tu hai già vissuto un’esperienza simile con tua madre …”
“Tu non capisci, tu non hai figli” l’addittò l’uomo con tono rabbioso, odiava quando si rivolgeva a lui con finto tono dispiaciuto, ma soprattutto odiava quando gli altri fingevano di sapere cosa si dovesse provare quando si prende la difficile decisione di rinchiudere la propria madre in una clinica psichiatrica.
“E un’altra cosa, Emily, lascia stare mia madre” concluse il discorso e lasciò la mora in corridoio senza nemmeno salutarla.
 
Ad un’ora di distanza dagli uffici dell’unità analisi comportale di Quantico, Elizabeth Reid si alzava da letto dopo l’ennesima notte insonne.  Uscì dalla sua stanza ed entrò in bagno chiudendosi a chiave dentro.
Osservò la propria figura riflessa nello specchio e sussultò. “Ho un aspetto orrendo …” disse toccandosi il viso con le punte delle dita e sfiorando le profonde occhiaie nere che le si erano formate sotto gli occhi.
Le sembrava non riconoscersi più, non era lei quella che le stava davanti. Era sempre convinta che la vera lei fosse ancora rinchiusa in quello stanzino buio dove Davis l’aveva drogata per due interminabili giorni in attesa che qualcuno la venisse a salvare. Sentì gli occhi bruciare e qualche secondo dopo lacrime silenziose cominciarono a scendere lungo le guance pallide di nuovo.
Poggiò una mano sul lavandino e aprì con l’altra il rubinetto dell’acqua per lavarsi il viso. “Basta, basta piangere” s’impose la ragazza fregandosi con le mani insaponate il viso.
Ma ormai non reggeva più, non aveva più voglia di fingere che tutto fosse okay, che lei stesse bene. Lei non stava bene ed era stanca di tutto. Di tutti.
Si guardò di nuovo allo specchio, la sua espressione era cambiata. Un lampo di luce attraversò i suoi occhi, doveva fare qualcosa per ovviare ai suoi pensieri che si susseguivano instancabili nella sua mente e lei sapeva cosa.
 
Fu così che quando erano ormai tutti accesi i lampioni nella strade di Washington Elizabeth a passo sostenuto si avviava verso la fermata dell’autobus eludendo la scorta a cui suo padre l’aveva assegnata.
Non era stato difficile ingannarli, come tutte le sere era uscita a buttare la spazzatura, quella sera però non aveva utilizzato il solito cassonetto da cui era ben visibile qualsiasi sua mossa, infatti riferì ai due agenti che il cassonetto era troppo pieno e che avrebbe utilizzato quelli in fondo la strada, i due avevano annuito ed erano ritornati alla loro conversazione sulla partita di Super Bowl della domenica scorsa. Elizabeth approfittando della distrazione dei due si allontanò velocemente, girò l’angolo e corse fino a che non fu giunta in fondo la strada, a quel punto prese la scorciatoia attraverso il parco e arrivò alla fermata.
“Finalmente libera …” si disse, si sedette sulla panchina e rimase lì ad aspettare l’autobus che arrivò circa una decina di minuti dopo. Vi salì e si sedette in uno degli ultimi sedili dopodiché spense il cellulare. Non aveva voglia di sentire nessuno. Non quella sera.
 
“Ryan, ma Elizabeth è passata?” domandò uno dei due agenti allungando il collo verso i cassonetti per vedere se la ragazza fosse lì.
“Ehm … non lo so. Io credo di no …” rispose l’altro con tono preoccupato passandosi la mano destra sulla nuca.
A quel punto si diressero verso i cassonetti dove trovarono la busta che fino a poco fa Elizabeth stringeva in mano posata per terra. Non ci volle molto per capire cosa fosse successo; Elizabeth era scappata e loro non se n’erano accorti.
“Reid… Reid ci ammazza!”urlò Ryan entrato nel panico calciando la busta che cadde rovesciando per terra tutto il suo contenuto.
L’altro agente rimase in silenzio cercando di riflettere su come si fosse svolta l’azione. Non l’avevano rapita, fatto su cui non vi era alcun dubbio, il che giocava a loro vantaggio. Si era allontana di sua spontanea volontà; “Ma per andare dove?” fu la domanda che si pose l’agente. Non riuscendo a giungere ad una conclusione plausibile, decise d’interrompere il piagnisteo a cui si era abbandonato l’altro.
“Su, dai!Ryan… Dobbiamo dirlo a Reid” gli comunicò e si mise subito in cammino verso l’abitazione della famiglia Reid seguito dal suo collega che camminava riluttante.
I due bussarono alla porta e rimasero in attesa. “E’ aperto” si sentì provenire da una voce dentro casa. Era quella di Jules.
“Cara ci potresti chiamare un attimo tuo padre?” le chiese gentilmente il più calmo tra i due agenti.
“E’ successo qualcosa?” domandò lei, il tono che aveva usato l’uomo l’aveva allertata.
“Nulla… nulla. I soliti rapporti di routine” mentì lui, la ragazza annuì e andò a chiamare suo padre che si presentò in salotto poco minuti dopo.
“Hopps, Stewart che fate qui?” s’informò subito Reid stranito dalla loro presenza in casa sua.
“Agente Reid, devo dargli una notizia per nulla piacevole” esordì Hopps; a quelle parole l’uomo trasalì.
“Elizabeth è scappata …” mormorò mortificato l’agente mentre abbassava la testa non riuscendo a sostenere lo sguardo di Spencer.
“Cosa?!” gridò Spencer sbattendo il pugno contro il tavolo del salotto. “Il vostro unico compito era quello di sorvegliarla e ve la siete fatta sfuggire” continuò diventando paonazzo in viso.
“Lei era andata a buttare la spazzatura, ci aveva detto che …” balbettò l’uomo cercando di dare una spiegazione che Spencer interruppe bruscamente.
“Non m’interessa quello che vi aveva detto!Vi avevo avvertito che ne sarebbe stata capace…” rispose mettendosi a sedere sulla poltrona.
“Noi non crediamo che ci sia Davis dietro a questo” disse l’altro agente più sicuro ora che Spencer si era leggermente calmato.
L’uomo sollevò la testa verso di lui e lo fissò. “Certo che non c’è Davis dietro a questo” asserì lui. Si alzò dalla poltrona e provò a chiamare sul cellulare di sua figlia. “Il telefono da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi” rispose una voce metallica dall’altro capo del telefono.
“C’è la segreteria” informò gli altri due che aveva aspettato in silenzio mentre Reid telefonava.
“Dove crede che possa essere andata?” gli domandò Stewart. “Non lo so. Non ne ho la più pallida idea” rispose l’uomo spostandosi verso la finestra. “Spero solo che stia bene” continuò.
Dopodiché congedò i due uomini dicendo loro di rimanere reperibili nel caso in cui Elizabeth si fosse fatta viva e si risedette sulla poltrona del salotto.
“Vedrai che tornerà questa notte. Sarà sicuramente andata a ballare” gli disse Jules che aveva assistito a tutta la conversazione in disparte. Suo padre si voltò verso di lei e sorrise. Tuttavia il suo sorriso era spento, come spento era stato il tono di voce di sua figlia minore.
 
L’autobus era ormai giunto a fine corsa quando Elizabeth scese, camminò spedita verso uno dei tanti locali notturni aperti quella notte e si soffermò sull’ingresso.
“Ragazzina ce li hai diciotto anni?” domandò un uomo alto e robusto di colore posizionato sull’entrata. Elizabeth annuì e cominciò a frugarsi nelle tasche alla ricerca della carta d’identità. L’uomo le fece segno con la testa che non era necessario e la fece entrare senza accertarsi che avesse detto la verità.
Entrata nel locale, fu subito stordita dal fumo e dalle luci della piccola sala che componeva il locale in fondo alla quale si trovava il bar. Si diresse immediatamente verso quest’ultimo facendosi largo attraverso la folla, più volte fu fermata da ragazzi che l’invitavano a ballare e più volte fu costretta a dar loro degli spintoni per liberarsi dalla loro presa, infine raggiunse il bar e si sedette su uno dei pochi sgabelli liberi in attesa di venir servita.
“Se non li chiami, difficilmente ti serviranno” le disse uno che si girò verso lei lanciando un’occhiata maliziosa verso la sua figura.
“Ma visto che sei carina, vediamo se posso aiutarti io” continuò, poi chiamò il barista che a quanto lasciò intendere era un suo amico e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il barista si voltò verso Elizabeth e si lasciò sfuggire una risatina per poi rimettersi al lavoro.
Dopo pochi secondi le venne offerto un bicchiere colmo fino all’orlo con un liquido bluastro che Elizabeth bevve senza nemmeno chiedere cosa fosse dopodiché la sua nuova conoscenza l’invitò a ballare e lei accettò. Erano quasi arrivati al centro della pista quando la testa cominciò a girarle, perse più volte l’equilibro andando a sbattere contro le altre persone che le stavano attorno mentre il suo compagno rideva.
Poi la prese e la spinse contro la sua volontà verso il privet sotto gli occhi degli altri che continuarono a ballare come se nulla fosse. Più di una volta Elizabeth tentò di ribellarsi senza tuttavia riuscire a scrollarsi di dosso le sue mani che le tenevano stretti i fianchi; “Se collabori, finirà presto” le disse sporgendosi verso di lei che annuì chiudendo gli occhi.
Le sollevò lentamente la maglietta toccandole il seno, provò a baciarle la bocca ma Elizabeth spostava il viso di lato per impedirglielo pregandolo di lasciarla andare.
“Ti avevo detto di collaborare e non lo stai facendo” la minacciò lui prendendole con una mano il mento e muovendolo verso di lui, la bloccò con l’altra e provò ancora una volta a baciarla contro la sua volontà.
In quel momento in cui Elizabeth si stava per arrendere, qualcuno arrivò alle spalle del suo molestatore e lo spinse facendolo cadere per terra.
“Se la tocchi ancora, ti farai molto male. E’ una promessa” gli intimò Henry abbassandosi verso di lui per guardarlo meglio in viso, il ragazzo annuì, si alzò barcollando e si allontanò velocemente senza voltarsi indietro.
Henry aiutò Ellie che tremava ancora dalla paura ad alzarsi dicendole che l’avrebbe accompagnata casa, lei acconsentì facendo un cenno con il capo poi si aggrappò ad Henry che la portò fuori dopo aver avvisato i suoi amici che se ne andava.
Durante il tragitto in macchina non si scambiarono una parola anche se diverse volte Elizabeth tentò di spiegargli come si fosse cacciata in quel guaio, infine stremata e ancora intontita si addormentò poco prima di arrivare a casa.
Henry scese dalla macchina e bussò alla porta, fu Spencer ad aprirgli. “Ho trovato Elizabeth e l’ho portata a casa” spiegò semplicemente al suo padrino senza raccontargli cosa fosse successo.
Poi insieme fecero entrare la ragazza in casa e l’adagiarono sul divano dove continuò a dormire, nel frattempo Madison era scesa nel salotto, salutò il ragazzo e sistemò una coperta sulle gambe di Elizabeth.
A quel punto Henry si congedò dicendo che sarebbe passato l’indomani mattina, Spencer lo ringraziò mentre l’accompagnava all’ingresso e chiuse la porta a chiave una volta che il ragazzo se ne fu andato.
Madison era seduta sulla poltrona con lo sguardo fisso su sua figlia quando Spencer si avvicinò a lei posandole una mano sulla spalla, sua moglie alzò il viso verso di lui rivolgendogli un’occhiata inespressiva per qualche secondo per poi tornare a guardare Ellie. “Sai a volte mi chiedo dove sia …” gli disse a bassa voce come se temesse di svegliarla.
“Anche io” confessò Spencer mentre Madison posava la sua mano su quella del marito.
 
L’indomani mattina un senso di nausea accompagnato da una leggera vertigine svegliò Elizabeth che si trovò nel soggiorno di casa senza sapere come vi fosse giunta, andò in cucina a prendere un bicchiere e mentre tornava in soggiorno s’imbatté in suo padre. Si guardarono per qualche secondo e infine Spencer parlò: “Si può sapere che hai in testa?” la rimproverò l’uomo mentre la ragazza abbassava la testa.
“Non lo capisci che non ti tengo sotto protezione per mio sfizio personale, ma perché sono davvero preoccupato per te?” continuò con tono furioso, era davvero arrabbiato per l’incoscienza mostrata da sua figlia che non spiaccicava parola.
“E poi in quelle condizioni ti presenti a casa? Dio solo sa come Henry ti abbia trovato. Per te, Elizabeth, è uno scherzo questo? Non lo so, dimmelo tu”
“Che vuoi che ti dica? Forse si” gli rispose con tono arrogante. “E poi tu sei l’ultima persona che può giudicarmi” continuò la ragazza.
“Elizabeth, sono stanco di te e delle tue cazzate. Cresci un po’” continuò il rimprovero Spencer sperando che le sue parole ottenessero un qualche effetto sulla ragazza che invece s’infuriò ancora di più.
“Se sei così stanco di me e delle mie cazzate, perché non mi hai fatta morire? A quest’ora ti saresti liberato di me” urlò avviandosi verso la porta d’ingresso.
“Elizabeth torna qui, dove credi di andare?” la richiamò suo padre prendendola per il braccio.
“Lontano da te perché mi sono stancata dei tuoi rimproveri del tutto inutili” affermò Elizabeth con tono rabbioso.
“La verità è che tu sei esattamente come me. Anche tu hai deluso qualcuno e quel qualcuno sono io” concluse, poi si liberò dalla presa del padre approfittando del momento di debolezza provocato da quelle parole fredde che lo ferirono profondamente ed uscì di casa dopo aver preso le chiavi della sua Chevrolet posate sul tavolino d’ingresso.
 
Guidò a lungo senza una precisa meta fino a che le lacrime che le sgorgavano incessantemente dagli occhi la costrinsero a fermarsi. Rimase per diversi minuti con la testa appoggiata contro il volante della macchina mentre singhiozzava ripensando a ciò che aveva detto a suo padre. Sapeva di aver sbagliato, di aver ferito suo padre con quelle parole insensate, ma non era riuscita a controllarsi ed era tremendamente arrivata con se stessa per averlo fatto.
Quando fu in grado di assumere nuovamente il controllo di sé, ripartì diretta verso casa di Henry, parcheggiò davanti al vialetto e dopo aver fatto un respiro profondo per farsi coraggio scese.
Ad aprirle la porta fu sua zia JJ che la salutò calorosamente del tutto ignara di quello che era successo la sera prima, Elizabeth le domandò se Henry fosse in casa e la donna le rispose che era in giardino.
La ragazza chiese il permesso di raggiungerlo e poi si diresse verso il giardino dove trovò Henry intento a fare degli esercizi di algebra lineare con le cuffie alle orecchie. “Tu non smetti mai di studiare, eh?” esordì lei timidamente mentre si sedeva nella sedia libera accanto al ragazzo che sussultò al suono della sua voce.
“Che ci fai qui? Stai bene?” domandò alla ragazza togliendo le cuffie. “Si sto bene” confermò lei facendo un sorriso che Henry non ricambiò.
“Ellie non c’è bisogno che ti dica che hai fatto una grande cazzata, vero?” le disse rimproverandola anche lui. “Insomma tutti ti diciamo di stare lontana dai guai e tu li vai a cercare? Ti poteva capitare qualcosa di brutto se io …”
“Smettila, cazzo! Smettetela tutti” urlò lei alzandosi in piedi. “Sono stanca di sentirmi dire che sbaglio, che sono una cretina, che non ne combino una giusta. Ne ho abbastanza”
“Allora smettila di fare così!” gridò anche lui per niente intimorito dal tono rabbioso di Elizabeth.
“Ho sbagliato a venire qui, tu sei come tutti gli altri non capisci” l’accusò lei uscendo dal giardino sotto lo sguardo incredulo di JJ accorsa lì a seguito alle urla.
La ragazza salutò la zia e se ne andò ignorando JJ che tentava di farsi spiegare cosa fosse successo.
 
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa in quel momento perciò andò nella casa dell’unica persona che sapeva non l’avrebbe mai giudicata o rimproverata nonostante tutto, ovvero sua zia Penelope.
La donna non si sorprese nel vederla ferma lì davanti all’ingresso, la fece entrare e si offrì a prepararle una tazza di tè.
“Ellie che è successo?” le domandò dopo averle dato in mano una tazza fumante.
“Nulla …” mormorò lei. “Mi dispiace se sono piombata qui senza preavviso ma non sapevo dove andare e non volevo tornare a casa”le spiegò mentre prendeva un sorso di tè.
“Casa nostra sarà aperta per te” disse Kevin entrato in cucina, Penelope annuì per confermare quanto detto dal marito e sorrise; “Dov’è Alex?” domandò poi Elizabeth allo scopo d’introdurre un nuovo discorso.
“E’ a casa di un amichetto” rispose la donna versandosi anche lei una tazza di tè.
“A proposito, il gioco è fortissimo. Ci ho giocato l’altra volta con Tom, ovviamente ho perso. Lui sa già tutti i trucchetti”
“Colpa mia” confessò Kevin alzando le mani verso l’alto come per scusarsi mentre rideva.
“Stiamo lavorando alla continuazione, Tank girl tornerà a colpire con le sue caccole infuocate e ovviamente i rutti” le rivelò Penelope con tono divertito.
Elizabeth sorrise rimanendo in silenzio. “Sai tesoro dovremmo dire a tuo padre che sei qui, sarà sicuramente preoccupato” suggerì la donna tornando seria.
“Non c’è bisogno, io sto andando via. Se dovesse chiamare digli che sono da Dumbo” disse Elizabeth, Penelope le rivolse uno sguardo incredulo e l’accompagnò alla porta d’ingresso. A quel punto Elizabeth la ringraziò abbracciandola e se ne andò. Penelope rientrò in casa e chiamò Spencer riferendo dove Elizabeth fosse diretta nonostante non avesse la minima idea di quello che la ragazza intendesse.
 
Appena ricevette la chiamata da Penelope, Spencer uscì di casa; sapeva esattamente dove fosse andata sua figlia e non voleva perdere un minuto di più.
“Eccoti …” le disse non appena fu arrivato, la ragazza seduta su una panchina piuttosto piccola si spostò leggermente per fare spazio a suo padre.
“Non sapevo che avessero chiuso il parco. Quando è successo?” gli domandò con tono dispiaciuto.
“Cinque anni fa, il 21 ottobre se non mi sbaglio” rispose mentre si sedeva anche lui. “Come mai non l’ho saputo?”
“Non mi hai più chiesto di portarti al parco” disse lui. Elizabeth guardò verso lo scivolo ormai rovinato e vecchio da cui si era lanciata tante volte da bambina e parlò: “Quando abbiamo smesso di venire al parco?”
“Non lo so, ma non ha importanza. L’importante è che ci siamo tornati”. Ellie si girò verso di lui e l’abbracciò sussurrando un “mi dispiace”, suo padre le diede un bacio sulla fronte e la strinse.
“Su, dai! Andiamo a casa” disse infine l’uomo liberandosi dall’abbraccio di sua figlia e insieme tornarono a casa.
 
 
Il suono delle nocche contro il legno di mogano della porta che separava il suo studio dal corridoio distolse Spencer dall’analisi dei fascicoli che stava in quel momento rivedendo. Invitò la persona dietro la porta ad entrare e con piacere scoprì che era sua figlia maggiore, erano giorni che non usciva dalla sua stanza se non per andare a scuola e mangiare. Sapeva che non fosse arrabbiata, perciò le aveva lasciato i suoi spazi, capiva e accettava la sua esigenza di riflettere su ciò che aveva vissuto in quell’ultimo periodo.
“Ehm… io mi chiedevo se fosse possibile uscire a fare una passeggiata … sai io …” esordì la ragazza con lo sguardo basso mentre si torturava le punte dei suoi capelli castano dorato.
“Sei annoiata, vero?” le domandò sorridendo e aggiunse con tono divertito: “E direi che lo sei davvero molto se mi stai chiedendo di fare una passeggiata con te”
La ragazza annuì lasciandosi sfuggire una leggera risatina e gli rispose utilizzando il suo stesso tono divertito: “Beh tu comunque non mi faresti uscire con i miei amici quindi diciamo pure che non ho scelta”
“Allora andiamo?” insistette, desiderava davvero uscire quel pomeriggio a fare una passeggiata al parco.
“Certo, certo” si affrettò a rimettere i fogli sparsi per la scrivania nelle cartelle ed uscirono dallo stanzino.
“Devo prendere le chiavi della macchina?” domandò a sua figlia dato che non aveva ben chiaro dove volesse andare.
“Ehm… direi si . Volevo andare al Park Hyatt, c’è una specie di fiera oggi. “Aspettando l’estate” si chiama” gli spiegò con tono entusiasta, d’altra parte fin da bambina aveva amato le fiere che organizzavano spesso e volentieri a Washington e di conseguenza obbligato Spencer ad accompagnarla con la complicità di sua madre che adorava le fiere quanto lei.
“Dovevo intuire che si trattava di una fiera” ripose scuotendo la testa. “Meno male che ho prelevato ieri” continuò e scoppiò a ridere seguito da sua figlia.
Prima di uscire chiesero a Jules e Thomas se volessero andare con loro,ma i due risposero che preferivano restare a casa. Poi Spencer raccomandò sua suocera di avvisarlo immediatamente caso mai chiamasse qualcuno, infine salirono in macchina e partirono alla volta di Park Hyatt.
“E’ un peccato che mamma sia in ospedale. A quanto pare ha deciso di rubarti il titolo di stakanovista dell’anno. Immagino quanto sarai dispiaciuto ” ironizzò lei posando la sua mano su quella di suo padre che si girò verso di lei scuotendo la testa. “Sei una scema, lo sai vero?” le disse con lo stesso tono ironico utilizzato da Ellie.
“Si, credo di saperlo. Ma d’altra parte ho preso da te quindi non poteva essere diversamente ” lo stuzzicò lei, Spencer preferì non rispondere e l’invitò ad accendere la radio. Ellie si sintonizzò sulla prima stazione radio che casualmente stava trasmettendo la sua canzone preferita e incominciò a cantare a squarciagola facendo finta di avere un microfono in mano suscitando le risate di suo padre che assisteva allo spettacolo.
Arrivarono nella zona Park Hyatt dopo circa un quarto d’ora, parcheggiarono ad un paio d’isolati da quest’ultimo lungo per via della mancanza di parcheggi  perciò camminarono a piedi. Dopo un po’ Elizabeth notò l’ennesimo SUV nero appostato dietro l’angolo e roteò gli occhi innervosita.
“Perché li hai chiamati?” gli domandò sbuffando. “Credevo che oggi mi sarei risparmiata la loro compagnia!”
“Ellie, non fare così. Lo sai, potrebbe essere pericoloso perciò preferisco non rischiare” spiegò semplicemente suo padre.
Elizabeth annuì rassegnata. “Dovrò farci l’abitudine allora” disse a voce bassa, suo padre le mise il braccio intorno alle spalle per incoraggiarla e le propose di prendere i popcorn, proposta che la ragazza accettò volentieri.
Trascorsero insieme un piacevole pomeriggio tra risate e scherzi, infine quando incominciava a calare il sole decisero di tornare a casa.
 Erano pronti a salire in macchina quando Spencer si accorse che qualcuno li stava osservando, immediatamente ordinò a sua figlia di farsi indietro, la ragazza obbedì senza fare domande. Poi con un gesto appena percepibile chiamò i rinforzi e si portò una mano alla custodia della pistola.
In quel momento l’uomo uscì allo scoperto zoppicando senza attirare apparentemente l’attenzione di nessuno, ma Spencer così come anche Elizabeth non tardò a riconoscerlo: era Davis.
“Vedo dr Reid che ci rincontriamo di nuovo finalmente!” esordì l’uomo sul cui volto era comparso uno strano ghigno che spaventò ancora di più la ragazza.
“Cominciavo a preoccuparmi, pensavo che non avrei mai più avuto il piacere di rivedere sua figlia” continuò Davis accompagnando le sue parole con un’occhiata maliziosa che fece irrigidire Spencer dalla rabbia.
“Lascia stare Elizabeth, prenditela con me” lo sfidò Spencer facendo un passo in avanti. “Sono qui, che aspetti?” aggiunse compiendo ancora una volta un passo in avanti, Elizabeth allungò la mano per sfiorargli il braccio in modo da impedirgli di avvicinarsi ancora di più ma Spencer ben deciso a porre fine a quella storia l’ignorò e estrasse la pistola puntandola contro Davis che rise.
“Tutto qui, dr Reid? Una sola pistola?” domandò divertito. “No, due” disse una voce alle sue spalle che gli puntò un pistola contro la testa. “Io al posto tuo non farei scherzi e poserei la pistola” tuonò la voce di Derek raggiunto nel frattempo da un’intera squadra di SWAT che circondarono Davis costretto a posare la pistola e ad alzare le mani in alto.
Spencer raggiunse Ellie che si era allontanata non appena aveva visto arrivare Derek scortata da uno dei tanti SWAT giunti sul posto. “E’ tutto finito adesso” le disse abbracciandola, Ellie si aggrappò a lui nascondendo il viso contro il petto di suo padre che gli accarezzava i capelli. “Voglio andare a casa” gli disse distaccandosi, Spencer annuì e chiamò Anne arrivata assieme a JJ in quel momento chiedendole se per favore poteva accompagnarla a casa, la donna si rese subito disponibile ma Elizabeth disse di preferire andare da sola. Spencer si accertò che stesse bene e acconsentì alla richiesta di Ellie. L’accompagnò alla macchina raccomandandole di stare attenta, poi una volta che fu salita in macchina si allontanò dirigendosi verso Derek che stava mettendo ai polsi di Davis le manette.
“Agente Reid dovrebbe saperlo ormai che le persone come me non si catturano ma si fanno catturare” borbottò Davis mentre Derek stringeva con un’insolita forza, che provocò all’assassino più di una smorfia di dolore, i polsi con le manette.
Reid si voltò verso l’uomo in cerca di spiegazioni e aggrottò la fronte; “Che vuoi dire?” domandò. Questa domanda suscitò una risata maliziosa nell’uomo che mormorò a fior di labbra un “vedrai”. E fu allora che un rumore sordo ferì le orecchie dei presenti e un’ondata di calore li colpì, Spencer si rigirò in seguito a quel suono atroce e ciò che vide lo devastò colpendolo come mille proiettili al secondo.
La macchina, dove poco prima che era salita sua figlia, era diventata un cumulo di rottami ardenti. Un fumo nero intenso si sollevò in aria accompagnato dal rumore delle sirene delle macchine e dei negozi vicini.
“Elizabeth!” urlò l’uomo scoppiato in lacrime che incominciò a correre verso quel che restava della sua macchina e combattendo contro la nebbia di fumo che gli impediva di proseguire poiché gli ostacolava la vista; il fumo gli entrò nei polmoni rapidamente provocandogli una tosse convulsa, ma lui non si arrestò e quando giunse alla macchina con una forza che nessuno avrebbe detto che aveva fece uscire il corpo di sua figlia dall’automobile.
Si allontanò il più possibile con in braccio Elizabeth che giaceva immobile tra sue braccia e si sedette sulla strada stringendola sempre a sé.
“Ellie, amore. Guardami” le disse con la voce rotta dal pianto prendendo il viso annerito dal fumo della ragazza con la mano e girandolo verso di sé. “Andrà tutto bene, andrà tutto bene …” sussurrò tra i singhiozzi.
Elizabeth alzò debolmente le palpebre e con gli occhi socchiusi mosse le labbra da cui non fu emesso alcun suono. “Sssh! Risparmia le forze” la cullò suo padre allentando la presa per timore di farle male. “Mi dispiace davvero …” mormorò lei con la voce che sfumò in un rantolo. Ormai respirava affannosamente e il suo corpo s’immobilizzava sempre di più, come se la vitalità che un tempo lo contraddistingueva stesse a poco a poco scomparendo.
“Ti dispiace? Che dici amore?”; le sue parole tuttavia non furono più ascoltate da Ellie che smise di muoversi abbandonando la testa all’indietro. “Elizabeth … Elizabeth” la chiamò più volte l’uomo scuotendola leggermente come per svegliarla da un sonno profondo. “No … no ...” urlò con il tono sempre più concitato, gli sembrava di non riuscire più a respirare. Aveva il viso rigato dalle lacrime che sgorgavano calde dai suoi occhi e bagnavano le guance ormai pallide di Ellie.
Tutto intorno a lui pareva immobile stranamente calmo come se non esistesse null’altro che lui e lei. Ma da quel caos calmo si levò una risata che s’insinuò nelle orecchie dell’agente Reid. Era la risata di Davis.
Spencer si alzò posando delicatamente il corpo di sua figlia e si diresse verso l’uomo che gli aveva rubato ciò che aveva di più prezioso nella vita. “Bastardo” gridò guardando Davis che aveva dipinta sul volto un’espressione compiaciuta. Estrasse la pistola dalla custodia e gliela puntò contro, fu allora che due mani le bloccarono le braccia facendo si che il colpo venisse sparato in aria. 
“Spencer … Spencer no” lo fermò Derek con gli occhi lucidi. Reid lasciò cadere la pistola che fu prontamente spostata con un calcio dall’uomo di colore e s’abbandonò a un pianto convulso tra le braccia del’amico contro il petto del quale sbatteva i pugni.
“Mi dispiace.. mi dispiace” sussurrò più volte Derek abbandonandosi anche lui ad un pianto silenzioso. Con un cenno della testa diede ordine di far allontanare Davis portato immediatamente via da una volante della polizia. Anne rimasta ferma per tutto il tempo reagì su consiglio di JJ che tremava come una foglia.
La bionda si avvicinò a Spencer e provò a parlare ma finì per scuotere la testa senza riuscire a dire neanche solo una parola. Derek si staccò da Spencer e provò mentalmente a pensare a quello che avrebbero dovuto fare adesso. Il suo pensiero andò ad una sola persona: Madison. Si passò le mani per la testa pelata e provò a calmarsi respirando profondamente ma a nulla servì. Poi chiamò JJ che si diresse verso di lui con un gesto sistematico mentre continuava a guardare con la coda dell’occhio Spencer che era tornato da Elizabeth dondolandosi per terra con lei fra le braccia.
“Dobbiamo… dobbiamo andare da Madison” balbettò l’uomo che continuava a scuotere la testa.
“Io… io non posso” rispose JJ con la voce rotta dal pianto. La donna scosse la testa per rafforzare la sua affermazione mentre Derek la prendeva per le spalle continuandole a ripetere che era la cosa giusta da fare.
“Se succedesse a te, non vorresti a dirtelo fossero delle facce amiche?” le domandò l’uomo di colore cercando negli occhi arrossati dal pianto della vecchia amica una risposta affermativa. La donna annuì tra le lacrime e sussurrò un “si” appena appena udibile.
Entrambi si fecero forza e salirono in macchina dopo aver detto all’agente Walker di portare Spencer a Quantico  che annuì con poco convinzione deglutendo vistosamente. Mentre partivano giunse loro il suono della sirena dell’ambulanza arrivata troppo tardi.
Troppo tardi ormai.
 
La berlina nera dei due agenti del F.B.I. si fermò davanti all’abitazione del loro collega, Derek spense il motore e si slacciò la cintura imitato da JJ, ma nessuno dei due scese. “Coraggio, JJ. Dobbiamo dirglielo” disse più a se stesso che alla bionda.
Rimasero fermi per qualche altro istante ed infine aprirono le portiere dell’auto e scesero diretti verso la porta di casa di Reid che in quel momento si aprì lasciando uscire Madison che si diresse verso di loro dal momento che li aveva visti dalla finestra.
“Ragazzi che ci fate qui?” domandò loro con un sorriso che svanì immediatamente quando notò la loro espressione rammaricata e gli occhi arrossati dal pianto.
“Che cosa è successo?” domandò di conseguenza agitandosi di conseguenza anche se non capiva bene perché, una strana sensazione s’impadronì di lei come se qualcosa le si fosse spezzato dentro.
I due rimasero in silenzio mentre JJ abbassò lo sguardo ricominciando a piangere.
“Dov’è Spencer?” chiese con un tono di voce sempre più alterato, Derek scosse la testa senza riuscire ancora a parlare. “Dov’è Elizabeth?” domandò ancora una volta Madison cercando una risposta nel volto dell’amico che al suono di quel nome mormorò un “mi dispiace” accompagnato da una lacrima che scese lungo il viso.
Fu allora che Madison realizzò cosa era successo e le parse di avere un mancamento, deglutì profondamente e guardò Derek ormai scoppiato in lacrime che continuava a dire “mi dispiace” nascondendo il viso fra le mani.
La donna si portò una mano al basso ventre e cadde per terra in silenzio. Si sentiva vuota e confusa, si passò le mani per i capelli e il viso e incominciò ad urlare con la voce rotta dal pianto davanti ai colleghi di suo marito incapaci di reagire. Sua madre appena la sentì gridare uscì di casa seguita da Jules che venne bloccata da sua nonna che le ordinò di tornare in casa e andare da suo fratello in piedi sulle scale con espressione incerta. Jules annuì e tornò indietro senza sapere bene il perché richiudendosi la porta alle spalle.
“Madison… tesoro” disse sua madre posando una mano sulle spalle di sua figlia che si girò verso di lei urlandole di lasciarla stare. Natalie rimase pietrificata e guardò i suoi colleghi di suo genero e scoppiò anche lei in lacrime.
In  quel momento anche altri vicini uscirono di casa per capire cosa fosse successo dal momento che avevano sentito Madison urlare più di volte. Non ebbero bisogno di spiegazioni per comprendere quanto fosse accaduto, alcuni di loro rientrarono in casa scuotendo la testa mentre altri, i più coraggiosi, si avvicinarono alla casa della famiglia Reid per offrire il loro aiuto a Natalie che tremava e piangeva come una bambina.
Madison raccolse tutte le forze che aveva e si alzò in piedi aiutata da una vicina di casa; “Voglio vederla…” comunicò a bassa voce ai due amici. Derek annuì, non poteva impedirglielo d’altra parte.
Fece cenno a JJ che annuì anche lei guardando Madison per la prima volta da quando era arrivata. I tre salirono in macchina e rimasero in silenzio per il tutto tragitto. Tutto ciò che si sentiva era il suono del pianto di Madison che guardava fuori dal finestrino con un’espressione vuota.
 
Nel frattempo Reid era stato portato nei piani bassi della sede del F.B.I. dove si trovavano gli obitori, il corpo ormai freddo di sua figlia era stato posato su una barella di metallo in una delle tante sale illuminata da una luce diafana che si diffondeva per la stanza.
Appena entrato si gettò sul corpo di Ellie continuando a ripetere di perdonarlo. Non ricordava più come si fossero svolti gli eventi, tutto gli sembrava confuso ed irreale. Tutto ciò che risuonava nella sua mente erano le ultime parole di Elizabeth che lo tormentavano.
Il pianto sommesso dall’uomo fu interrotto dal rumore dei passi di sua moglie appena entrata nella stanza. Spencer si girò verso di lei e incontrò la sua espressione addolorata e si diresse verso Madison, la prese per mano e la condusse verso Elizabeth caduta in un sonno profondo da cui più non si sarebbe svegliata.
La donna accarezzò i capelli biondo dorati e il viso della figlia, diede un bacio sulla sua fronte e sussurrando al suo orecchio parole che Spencer non riuscì a capire e che nemmeno Elizabeth avrebbe mai più sentito. Poi si allontanò poggiandosi sulla parete e scivolando verso il basso fino a toccare terra.
 Anche Spencer che aveva assistito alla scena si sedette anche lui per terra accanto a sua moglie che prese per mano mentre ascoltava i suoi singhiozzi che tentava inutilmente di soffocare.
“Ha detto qualcosa?” gli domandò con la voce roca per via del pianto. “Si.. che ci voleva bene” mentì lui, aveva deciso di tenersi per lui le ultime parole di Elizabeth per aumentare ancora di più il dolore incommensurabile della sua famiglia. Madison si voltò verso di lui, gli gettò le braccia al collo e ricominciò a piangere.
Rimasero in quella posizione per diversi minuti o forse per diverse ore, ma che se fossero minuti o ore non aveva importanza. Al dire il vero nulla aveva più importanza ormai.
 
Quella notte Madison e Spencer non si ritirano a casa, dovevano organizzare il funerale della loro figlia maggiore che si sarebbe tenuto il giorno dopo contrariamente alla prassi grazie all’aiuto di Derek che aveva chiesto agli uffici di acconsentire a questa richiesta. Tuttavia nessuno in casa Reid riuscì comunque a dormire. Jules e Thomas si chiusero nella stanza degli ospiti e si coricarono nello stesso letto dove per tanti anni loro assieme alla sorella avevano dormito nelle notti d’estate.
Mentre i loro nonni assieme a Brian, il fratello di Madison accorso da Chicago dove viveva assieme alla sua famiglia, al piano di sotto tentavano di sistemare la casa che avrebbe accolto amici e familiari dopo la cerimonia. Anche Penelope era con loro.
Verso le quattro del mattino arrivarono a casa Madison e Spencer, dovevano scegliere i vestiti con cui sarebbe stata seppellita Elizabeth. Ad aiutare Madison fu Penelope che la condusse in camera di Ellie per mano facendole costantemente coraggio mentre Spencer si rinchiuse nel suo studio. Poco prima di arrivare a casa sua moglie gli aveva chiesto di scrivere un discorso.
“Non posso…” aveva sussurrato tutt’un fiato. “Spencer non vorrei  che lo facesse nessun’altro a parte te” lo aveva pregato lei stringendogli la mano, a quel punto l’uomo fece segno di sì con la testa e promise che lo avrebbe fatto.
E così mentre cominciava ad albeggiare, l’ormai stanco agente del F.B.I. scrisse un breve discorso su un foglio strappato da uno dei quaderni di Ellie, lo mise in tasca e scese di sotto mentre continuava a ripensare alle parole con cui avrebbe commemorato sua figlia.
Entrato in salotto, vide Jules e Thomas seduti sul divano, avevano gli occhi arrossati dal pianto e lo sguardo spento, nessuno di loro aveva dormito quella notte; quella visione li devastò il cuore, non avrebbe mai voluto che nessuno delle persone a lui care vivesse una simile tragedia, ma soprattutto mai avrebbe pensato che sarebbe potuto accadere alla sua famiglia.
L’uomo si sedette vicino ai suoi figli per cercare di far loro coraggio, “Ragazzi…” disse guardandoli ma non continuò la frase, non aveva alcun senso farlo. Nulla di quello che avrebbe potuto dire o fare li avrebbe mai confortati, non esistevano parole che potessero alleviare il loro dolore e lo sapeva.
Arrivato il momento di andare, Madison li chiamò assieme a sua suocera Natalie.
“Spencer, dai. Dobbiamo andare” gli disse sua moglie dandogli la mano per aiutarlo ad alzarsi, l’uomo gliela strinse e si mise in piede. “Maddie…” sussurrò, ma lei distolse lo sguardo fingendo di non aver ascoltato; quel gesto gli fece ancora più male, aveva bisogno di lei in quel momento più che mai, ma Madison non poteva essergli vicino. Aveva bisogno di rielaborare l’accaduto, desiderava solo restare da sola con il proprio dolore per poter realizzare quanto era avvenuto anche se quell’atteggiamento li avrebbe distrutti e lei n’era cosciente.
Fu un breve e soprattutto silenzioso viaggio quello che portò la famiglia Reid dalla loro casa al cimitero, mentre si allontanavano ebbero la sensazione che quella casa dove avevano fino a quel momento vissuto  non appartenesse più a loro dal momento che era fredda e vuota, come se la vitalità che riusciva prima a trasmettere fosse scomparsa assieme ad Ellie. Si sentivano traditi, soprattutto Spencer. Ciò che era successo aveva svegliato in lui vecchi impulsi che credeva di aver represso, o meglio che la vita felice e appagante che aveva condotto fino a quel momento aveva soffocato, ma ora erano riaffiorati e forse non avrebbe potuto ignorarli facilmente. 
I funerali ai quali parteciparono soltanto i famigliari e amici stretti, secondo quanto desiderato sia da Madison che da Spencer, si svolsero nel pomeriggio; la cerimonia come previsto fu molto breve.
I resti di Elizabeth furono collocati in un feretro, rimasto chiuso durante tutta la funzione, dal colore blu notte come richiesto da entrambi, essendo il colore preferito della loro bambina. Poco prima di dare ad Ellie l’estremo saluto, padre Richardson fece un cenno a Spencer invitandolo a dire qualche parola.
L’uomo si recò al centro dove padre Richardson l’aspettava. Il prete diede a Spencer una pacca sulla spalla per fargli coraggio e si allontanò.
Quando fu pronto Spencer prese il foglio che aveva lasciato in tasca e cominciò a leggerlo: “Ellie era…”. Improvvisamente si bloccò, riguardò il foglio su cui aveva scritto quelle parole che mai avrebbe voluto pronunciare, si schiarì la voce e riprese:
“Non voglio parlarvi di chi fosse Elizabeth, oggi voglio presentarvi una persona che Ellie non ha mai conosciuto: la splendida donna che sarebbe diventata, una madre e una amica eccezionale.
Ellie, voglio dirti ciò che non ti ho mai detto perché ero convinto che avremmo avuto tempo, ma purtroppo così non è stato; il destino ci ha diviso troppo presto, amore, portandoti via dalla tua famiglia… portandoti via da me. Ricordo ancora il giorno in cui sei nata, la felicità che avevo provato quando ti ho presa per la prima volta fra le braccia. Eri il più bel regalo che avessi mai ricevuto, hai riempito la mia vita di calore e luce.
Amore, avrei davvero voluto che ti vedessi attraverso i miei occhi affinché capissi quanto io fossi orgoglioso di te, della persona che eri diventata, perché non avessi più dubbi su quanto io ti amassi, e perché sapessi che tutti i nostri litigi a me mai sono importati.
Avrei voluto poterti stare vicino nei momenti più difficili della tua vita per consolarti, per dirti che sarebbe andato tutto bene. Avrei voluto essere un padre migliore per te …” a quel punto s’interruppe, aveva gli occhi velati dalle lacrime, non riusciva a proseguire. “Mi dispiace …” disse agli altri e s’allontanò.
Madison lo raggiunse immediatamente, e lo abbracciò stretto. Non poteva lasciarlo da solo ora, “Sssh” gli sussurrò all’orecchio quando Spencer ricominciò a singhiozzare tra le braccia di quella donna che rappresentava gli ultimi venti anni della sua vita, con cui aveva condiviso gioie e dolori e avvertì per un forte senso di colpa, “Come ho potuto farti questo…” pensò tra le lacrime.
“Come faremo adesso?” le domandò. “Non lo so, non lo so” rispose lei. Gli accarezzò le guancie e gli asciugò le lacrime.
“Dobbiamo farci coraggio per i ragazzi. Hanno bisogno di noi”
“Lo so …”, fu allora che li raggiunsero Jules e Thomas. “Tutto ok?” chiese timidamente Jules avvicinandosi a suo padre. “Si…”rispose lui.
Madison li strinse in un abbraccio baciandoli sulla fronte, e insieme ritornarono per dare l’ultimo saluto ad Elizabeth.
I presenti si girarono verso di loro e JJ andò incontro a Spencer consegnandoli i fiori avrebbero posato a breve sul feretro; avevano scelto il girasole, il fiore che meglio la rappresentava. Madison accompagnò Jules che fu la prima a lasciare il fiore accompagnato da un bigliettino, anche Thomas lasciò un biglietto così come anche i tre migliori amici di Elizabeth. Colin posò una mano sulla bara in segno di saluto, mentre Nicole e Blair lo tenevano per mano. “Non ti scorderemo mai” questa era la frase scritta sul biglietto che avevano lasciato poi si allontanarono lasciando spazio a Penelope che aveva in mano una stellina di peluche insieme al fiore.
“Ciao stellina” disse la donna in lacrime. “Abbi cura di tutti noi” posò il fiore e il peluche e si voltò verso suo marito Kevin che le tendeva la mano.
Man mano i presenti salutarono Elizabeth fino a che fu il turno di Madison.
La donna rimase ferma davanti alla bara, poi accarezzò il feretro e lasciò il fiore. Spencer la raggiunse e le posò le mani sulle spalle, la donna si voltò verso di lui e si fece da parte dirigendosi verso i figli rimasti vicino a sua madre.
Spencer rimasto da solo posò il girasole e socchiuse gli occhi. Ripensò a sua figlia e alle sue ultime parole e scoppiò nuovamente in lacrime senza riuscire a trattenere singhiozzi che gli impedivano di respirare ; inspirò a fondo per cercare di calmarsi, mandò un bacio ad Ellie posando le punta delle dita per l’ultima volta sul feretro che avrebbe custodito da allora in poi il corpo di sua figlia, poi lasciò il cimitero assieme a Derek che l’aveva aspettato in disparte.
“Non sai quanto mi dispiace, davvero” gli disse l’uomo con gli occhi lucidi e gli posò una mano sulla spalla.
“Non avrei mai voluto che …” continuò, ma Spencer lo interruppe con un cenno della mano.
“Non c’è bisogno, lo so” affermò l’uomo con aria affranta. Derek annuì e l’accompagnò fuori.
Anche questa giornata era finita.
 
Qualche settimana dopo Spencer ricevette qualcosa che non si aspettava. Colin si era presentato un pomeriggio a casa con un pacchetto che gli aveva lasciato senza trattenersi a lungo.
“E’ di Elizabeth, lei te l’avrebbe dato ma …” aveva mormorato il ragazzo senza riuscire a trattenere una lacrima che scese lungo la guancia. Spencer provò a sorridergli, ma tutto ciò che riuscì a sfoggiare fu una smorfia storta, ringraziò il ragazzo che si congedò e aprì il pacchetto. Dentro vi trovò un cd e un foglio piegato con scritto “per papà”, riconobbe subito la calligrafia di sua figlia, per un momento esitò ad aprirlo. Non sapeva cosa aveva scritto, sapeva solo che questa era l’ultima lettera che lei gli aveva scritto. Non ce ne sarebbero state altre, mai più.
Aprì il foglio e lesse la lettera:
“Tu avevi detto che volevi sentire la canzone una volta scritto il testo, e allora io beh ho inciso questo. Spero davvero ti piaccia, ma se non è così non dirmelo però. Siamo d’accordo?
Ti voglio bene, Ellie.”
Rilesse quelle parole diverse volte che si fissarono indelebili nella sua mente, poi ripiegò il foglio e lo mise in tasca. Prese il cd, con cura lo collocò nel lettore e avviò il dispositivo premendo il tasto play.
La voce di Elizabeth risuonò cristallina nella stanza riempiendola e dandogli la sensazione che lei fosse lì con lui.
Si concentrò sulle parole della canzone che parevano così irreali e si lasciò cullare da quella voce che gli pareva di aver dimenticato …
“I was a little girl alone in my little world who dreamed of a little home for me. 
I played pretend between the trees, and fed my houseguests bark and leaves, and laughed in my pretty bed of green. 

I had a dream 
That I could fly from the highest swing. 
I had a dream. 

Long walks in the dark through woods grown behind the park, I asked God who I'm supposed to be. 
The stars smiled down on me, God answered in silent reverie. I said a prayer and fell asleep. 

I had a dream 
That I could fly from the highest tree. 
I had a dream. 

Now I'm old and feeling grey. I don't know what's left to say about this life I'm willing to leave. 
I lived it full and I lived it well, there's many tales I've lived to tell.
I'm ready now, I'm ready now, I'm ready now to fly from the highest wing. 

I had a dream”
 
Inevitabilmente si commosse. Era bellissima, per lui era bellissima. Ma lei non l’avrebbe mai saputo.
 
 
 
                               Elizabeth, le parole che non ti ho detto.
 
                                                             
Per tutta la vita andare avanti,
cercare i tuoi occhi negli occhi degli altri.
Far finta di niente, far finta che oggi sia un giorno normale.
Un anno che passa, un anno in salita.
Che senso di vuoto, che brutta ferita.
Delusa da te, da me. Da quello che non ti ho dato. 
                                                                                                                                                                  (Per tutta la vita, Noemi)
 
                                                                        Tre anni dopo
 
I giorni diventarono settimane, e le settimane mesi. Tutto sembrò tornare perfettamente normale.
Eppure quando quel silenzio a cui si era ormai abituato e per molti versi costretto sé stesso pareva soffocarlo, Spencer Reid andava in camera di Elizabeth dove nulla era stato spostato come se il tempo si fosse fermato a quel maledetto venerdì di tre anni fa, si sdraiava sul letto e affondava il viso nel suo cuscino che profumava ancora come lei per attutire il suono dei suoi singhiozzi che incontrollabili si susseguivano togliendogli il respiro.
E poi un giorno come un altro successe qualcosa.
“Spencer, puoi venire giù?” lo chiamò Madison dal piano di sotto. Uscì dallo studio e sentì diverse voci provenire dal salotto, dal loro tono allegro Spencer dedusse che doveva essere arrivata.
“Papà allora te la dai una mossa o ti devo mandare un invito?” lo scherzò Jules con la sua solita voce squillante.
“Arrivo” urlò Spencer precipitandosi dalle scale. “Finalmente ce l’hai fatta” lo salutò sua figlia dandogli un bacio sulla guancia.
“Dov’è?” le chiese impaziente allungando il collo per guardare fuori dalla porta.  “E’ con Tom e Jake, stanno scendendo il passeggino” spiegò sua figlia che contemporaneamente andò verso l’ingresso tenendo ferma con il piede la porta per facilitarli l’accesso, a quel punto Jake entrò di spalle sollevando il passeggino per superare il gradino mentre Tom lo spingeva in avanti.
“Su vieni dalla mamma” disse Jules abbassandosi verso la bimba e allargando le braccia per afferrarla una volta che il passeggino fu sistemato dai due dentro.
Anche Madison si avvicinò assieme a Spencer e le fece un buffetto sulla guancia della bimba che rise di gusto scuotendo i ricci biondi che le incorniciavano il viso mentre si voltava verso i nonni.
“Lizzie, sei stata dall’altra nonna? Ti sono mancata?” le disse Madison prendendola in braccio. “Ha mangiato?” domandò poi Spencer a Jules che scosse la testa in segno negativo e gli disse che era tutto già pronto dentro la borsa.
Tom si offrì per farla mangiare e la prese mentre Madison sedeva sul seggiolone la bimba che si sporgeva in avanti per toccare i capelli del nonno.
Tom prese il cucchiaino riempito fino all’orlo con la zuppetta di riso che Jules aveva preparato poco prima. “Lizzie, su dai” devi mangiare” l’incoraggiò suo zio avvicinando il cucchiaio al suo viso mentre lei scuoteva la testa e gonfiava le guance.
“Dai,lo so che sei una brava bimba. Apri la boccuccia” le disse poi, la bimba aprì la bocca e ingoiò la prima cucchiaiata.
Ma alla seconda fece un piccolo scherzetto allo zio spuntandogliela, Tom con le dita si tolse la pappa masticata da sua nipote dal viso urlando “che schifo” tra le risate degli altri.
“Se ci fosse stata Elizabeth avrebbe scritto una canzone su questo”  affermò con molta naturalezza  Jules tra una risata e l’altra, tutto si voltarono verso di lei al suono di quel nome che da tempo nessuno aveva il coraggio di pronunciare e la ragazza subito colpita da un improvviso senso di colpa si portò una mano verso la bocca.
Tom invece ignorando la reazione degli altri disse: “E si sarebbe mangiata anche il riso di Lizzie”
“Anche se poi sarebbe stata male tutta la notte perché il riso non lo digeriva bene” concluse Madison facendo un sorriso che sia Jules che Tom ricambiarono.
“Perché non andiamo al parco?” propose Jake. “E’ una bella giornata”; Madison e Tom si mostrarono subito entusiasti della proposta , ma Jules replicò dicendo di avere diversi compiti da fare.
“Ellie non li avrebbe fatti” affermò Spencer facendo anche lui un debole sorriso. “Già, hai ragione” asserì lei poi prese la giacchettina di Lizzie e gliela infilò.
Madison aiutò Jake a portare fuori il passeggino mentre Tom abbassava la serranda della finestra del soggiorno, Spencer però si scusò dicendo che non sarebbe andato subito con loro e che li avrebbe raggiunti dopo. Gli altri annuirono senza domandargli cosa dovesse fare e uscirono.
Spencer indossò la giacca che aveva appeso la sera prima all’appendiabiti, prese le chiavi della macchina ed uscì anche lui.
Mentre percorreva quella strada, che non compieva da più di tre anni, si ricordò di quel pomeriggio in cui vi entrò per la prima volta e inevitabilmente una lacrima scese lentamente lunga la guancia; non tardò molto a raggiungere il cimitero, tuttavia rimase a lungo sul suo ingresso senza trovare il coraggio di varcarlo.
Infine qualcosa si mosse dentro di lui e lo spinse ed entrò dirigendosi automaticamente verso il luogo in cui era sepolta Elizabeth.
A lungo aveva pensato a ciò che avrebbe fatto il giorno in cui avesse trovato la forza di andare a trovarla, ma in quel momento nulla di tutto ciò che aveva potuto pensare di dire o fare fu detto o fatto. Le parole sgorgarono dalla sua bocca senza alcun apparente sforzo rompendo il silenzio che caratterizzava quel luogo sacro.
“Ciao, amore. Mi dispiace se in tutti questi mesi, anzi anni, non ho mai avuto il coraggio di venirti a trovare, ma la verità è che mi era convinto che venirti a trovare significava ammettere che non c‘eri più ed io non ero pronto. Mi manchi terribilmente, la tua assenza credo che sarà qualcosa a cui mai riuscirò ad abituarmi, mi mancano le tue risate, le tue battute, persino le nostre litigate. Ellie, mi manca la tua voce, darei qualunque cosa per poterla sentire ancora ...”
“In questi ultimi tre anni non c’è stato giorno in cui non mi sia incolpato per ciò che ti è successo, per ciò che io ho permesso che ti succedesse. Sai, gli altri mi dicono che non c’era nulla che io potessi fare, che io non potevo saperlo, ma si sbagliano; dovevo morire io quel pomeriggio, non tu. E non mi potrò mai perdonare per questo …
… Nei giorni successivi alla tua morte mi sono tormentato continuamente ripetendomi che non avevo fatto abbastanza per renderti felice, ma poi ho sentito quella canzone, la tua canzone, e ho capito che tu eri felice e questo mi ha rassicurato, sai? Forse dopo tutto non sono stato un pessimo padre per te …”
“Tante cose sono cambiate da quando non ci sei più, avremmo tanto voluto che tu fossi stata con noi quando è nata Lizzie, Maddie  è impazzita, la conosci com’è fatta, lei adora i bambini …”
“Lizzie ci ha salvato, a me e tua madre intendo. Non so cosa sarebbe successo se non fosse arrivata, ho sempre pensato che tu ce l’hai mandata, forse è una stupidaggine ma io non smetto mai di pensarlo …
… Tua mamma mi dice sempre che un giorno ci rincontreremo tutti insieme in paradiso. Io mi auguro che sia vero perché voglio tanto rivederti e riabbracciarti di nuovo …”
Il flusso delle sue parole fu interrotto dal custode, uomo di mezza età dall’aria bonaria; “Dev’essere stata una ragazza molto amata. C’è sempre qualcuno che viene a trovarla” gli disse mentre spazzava le diverse foglie secche sparse per terra.
“E’ sempre così triste quando muoiono così giovani, soprattutto in quel modo così atroce…” continuò scuotendo la testa mentre con il braccio si poggiava sul rastrello. “Mi scusi l’indiscrezione, ma lei chi è? Non l’ho mai visto qui”
Spencer si voltò verso l’uomo che gli abbozzava un sorriso e rispose: “Sono il padre”. L’uomo aprì la bocca come per dire qualcosa ma la richiuse rapidamente, poi Spencer lo salutò cortesemente ed uscì dal cimitero mentre il custode ritornava alle sue faccende.
A volte la vita ci pone di fronte a situazioni che non sappiamo fronteggiare perché non possiamo, o semplicemente perché non vogliamo farlo. Ma la vita è frenetica e continua ad andare avanti anche senza di te e Spencer lo sapeva.
Perciò a distanza di tre anni da quel terribile pomeriggio che gli aveva devastato in pochi secondi la vita, decise che era pronto a riappropriarsi di quell’esistenza che gli stava sfuggendo sempre di più dalle mani trovando così la forza di ricominciare di nuovo.
Perché era quello che la sua Elizabeth avrebbe fatto e lui voleva che fosse orgogliosa di lui.
 
 
Fine.
 
 
È una mia personale convinzione che quando subisci una perdita così grande ed inaspettata, ciò che di più bello ti può capitare è di assistere alla nascita di una nuova vita perché i bambini ci ricordano che esiste qualcosa di puro e meraviglioso in questa vita che merita di essere vissuta, assorbendola fino all’ultima goccia.
So che mai una persona potrà prendere il posto di un’altra, che mai una persona a noi cara potrà essere dimenticata ma so anche che è importante e necessario che quando la pensiamo non ricordiamo quegli ultimi minuti che ce l’hanno portata via ma piuttosto quei bei momenti che abbiamo trascorso con lei; ed è per questo che ho creato Lizzie, perché così ogni volta che si penserà ad Ellie non sarà mai più tanto doloroso poiché si avrà in mente lei, Lizzie, che porta il nome di una persona che non la potrà mai conoscere ma che siamo sicuri che la proteggerà.
 
Spero che leggere questa storia vi sia piaciuto quanto a me è piaciuto scriverla. Grazie di avermi seguito.
Antonella.

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