Chronos

di SgF
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Raccoon City era un crocevia di voci e pettegolezzi e Susan Vickers lo sapeva bene. La sua lunga esperienza nell’ambito giornalistico l’aveva portata ai vertici della redazione del “Raccoon Press”, rinomato settimanale che forniva ai suoi lettori notizie di ogni tipo. Susan aveva cominciato a lavorare alla sede centrale del Press sei anni prima. Dopo solo un anno divenne caporedattrice. Lavoratrice accanita, sempre a caccia dello scoop, ma troppo presa per impegnarsi sentimentalmente. I suoi numerosi appuntamenti finivano sempre in un lungo ed estenuante sbadiglio di noia, tant’è che si chiedeva sempre se il problema fosse lei o gli uomini con cui usciva. Il successo le era stato garantito anche dal suo collega Ben Bertolucci, noto ed impeccabile giornalista. Nonostante il suo pessimo carattere,le era sempre stato accanto aiutandola nella redazione. Nessuno degli altri colleghi avrebbe mai detto che Bertolucci fosse una persona da ammirare, nessuno tranne lei. Dopotutto nessuno è perfetto.
Tra gli articoli più seguiti dell’ultima uscita del giornale c’era l’intervista al capo della polizia Brian Irons. Questa le era stata richiesta direttamente da Irons per mettere in buona luce la sua figura. Come se qualcosa lo turbasse e dovesse far vedere alla città che lui stava operando per la sicurezza dei cittadini. Susan, tuttavia, sapeva bene che Irons non faceva nulla per nulla: nascondeva qualcosa. Fu in quell’occasione, quando venne convocata alla stazione di polizia, che conobbe Jeremy Marcus.
 
 
Era il 3 Aprile.
Susan uscì dalla stampa e si incamminò verso la stazione di polizia. Passò di fianco al suo ristorante preferito, luogo dei tanti incontri falliti. Nonostante ciò aveva tanti bei ricordi di serate passate con i suoi genitori e suo fratello Brad. Il loro tavolo era sempre lo stesso, accanto alla finestra che dava sulla strada, ed era sempre prenotato per il sabato sera. Le migliori cene della sua vita, molto probabilmente, le erano state offerte proprio dal “Grill 13”. I genitori di Susan erano entrambi biochimici e lavoravano nell’ambito della ricerca bio-farmacologica, settore molto in voga negli ultimi anni. A causa del loro lavoro avevano abbandonato i figli ormai grandi per conseguire ricerche avanzate lontano da Raccoon City. Il fratello maggiore, Brad, si arruolò nella polizia all’età di ventiquattro anni e divenne, nove anni dopo, pilota della squadra alfa della S.T.A.R.S. , Special Tactics And Rescue Service. Nonostante non avesse mai avuto coraggio da vendere, aveva trovato la sua strada nel corpo della polizia.
Continuò a camminare per i vicoli della città pensando a quali domande rivolgere a Brian Irons. Il suo interesse per quell’intervista calava ad ogni passo che la avvicinava alla meta. Guardò l’orologio e si accorse di essere largamente in anticipo: avrebbe approfittato del tempo a sua disposizione per fare un saluto al fratello.
Da lontano comparve la stazione di polizia nella sua maestosità ed eleganza. Una grande vetrata padroneggiava sul tetto della struttura. Un orologio scandiva il tempo sopra l’ingresso principale. La cancellata era sovrastata dalla scritta “R.P.D. Raccoon Police” e delimitata da due bandiere al di sopra di due grosse lampade rotonde. Varcò la cancellata e si ritrovò davanti al portone color acqua. Il rumore che accompagnò il suo ingresso si perse nel solito stupore che la assaliva nell’ammirare il salone d’ingresso: la statua di una donna che sorreggeva un’anfora al centro della stanza, due rampe a lato che salivano leggermente fino al bancone principale, una balconata superiore che costeggiava i muri in pietra.
Si diresse verso il bancone per richiedere il pass di visitatore come richiedeva la procedura per chi volesse entrare nella stazione. Una giovane donna era seduta davanti al computer e non si accorse della presenza di Susan la quale si schiarì la voce.
«Sono Susan Vickers, giornalista del Raccoon Press. Sono qui per l’intervista al signor Brian Irons» annunciò Susan con voce robotica.
La donna controllò sulla lista degli appuntamenti del capo se era presente l’ospite.
«Ah, signora Vickers, è molto in anticipo rispetto all’orario stabilito. Le chiamo qualcuno per accompagnarla alla sala d’attesa al piano superiore così potrà…»
«No, non si preoccupi! Avrei bisogno di andare alla toilette prima di raggiungere l’ufficio del signor Irons. Conosco molto bene questo edificio. Posso arrivarci da sola senza problemi» Susan la interruppe sapendo che se qualcuno la avesse accompagnata non le sarebbe stato permesso di passare da suo fratello. Era sempre stata brava ad inventarsi scuse credibili per sviare da situazioni avverse. La donna al bancone le consegnò un bedge identificativo sul quale era riportata l’iscrizione “ID 2358”.
Susan si allontanò ringraziando la signora che sembrò leggermente scocciata dal suo comportamento. Varcò la porta alla sua destra appena scesa dalla rampa.
La sala d’attesa nord era stipata di gente e Susan fece fatica ad attraversarla. Gli sportelli erano in orario di chiusura ma la gente non dava cenno di voler abbandonare il proprio turno. Susan uscì dalla stanza e percorse un lungo corridoio tappezzato di finestre che davano sul giardino. Arrivò davanti alla sala conferenze dalla quale proveniva una voce familiare. Cercò di captare i discorsi di quell’uomo che non le aveva mai suscitato alcuna simpatia: Albert Wesker.
«… e tenetemi aggiornato sugli sviluppi di questa nuova serie di test. Dobbiamo concludere questa ricerca prima della fine del mese».
La voce si spense e dei passi veloci raggiunsero la porta dalla quale stava origliando. Susan si affrettò ad allontanarsi proseguendo lungo il corridoio. La porta alle sue spalle si aprì.
«Sbaglio o questa non è un’ala del dipartimento accessibile ai visitatori, signorina Vickers?»
Susan si voltò e si ritrovò davanti agli occhi il subdolo e snervante sorriso di Wesker. Albert Wesker era il comandante della squadra alfa della S.T.A.R.S., nonché il superiore di suo fratello. Aver conosciuto di persona il comandante Wesker era stata una delle sue peggiori esperienze: era di sicuro la persona più odiosa e presuntuosa che potesse esistere.
«Sbaglio o quella è la sala conferenze riservata ad Irons e alle consulte della polizia?» ribatté lei non lasciando trasparire alcuna soggezione nei confronti di Wesker.
Wesker, per qualche secondo,parve sembrare a disagio.
«A quanto pare la sorellina di Brad è venuta a fare una visita ai membri della squadra alfa. Lo sa, lei è sempre la benvenuta» disse Wesker con tono acido accentuando il suo finto sorriso, dopodiché si allontanò.
Se c’era qualcosa che non poteva sopportare di Wesker, oltre alla sua faccia, era di sicuro il suo modo di abbandonare la scena proprio quando le cose per lui si facevano difficili. E qualcosa del fatto che lei fosse lì in quel momento, mentre telefonava, lo aveva lasciato particolarmente spiazzato.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Una donna dall’aria stanca camminava avanti e indietro nella sala monitoraggio. Osservava passivamente i movimenti dei dipendenti che in quel momento mangiavano, scherzavano e ridevano gustandosi la loro pausa pranzo. Tutti eccetto un uomo sulla quarantina che era intento a studiare un rapporto al computer nel laboratorio di sintesi. Quell’uomo era suo marito ed era uno dei migliori scienziati attualmente al lavoro nell’ambito farmacologico. Le sperimentazioni che duravano ormai da anni stavano finalmente giungendo al termine. Decise di portargli qualcosa da mangiare per farlo riposare dal suo duro e continuo lavoro. Prese in mano un sacchetto e uscì dalla stanza. In quel momento fu assalita da una paura immensa: se solo qualcuno avesse cercato di impossessarsi delle ricerche del marito una volta terminate, sarebbe crollata una vita dedicata allo studio sulla rigenerazione dei tessuti. Sarebbe stato un grande passo avanti per la ricerca. Un grande passo avanti lo avrebbe fatto anche la Umbrella Corportation, nonché la finanziatrice degli studi operati dal marito. La Umbrella, da quando era stata creata, si era sempre dedicata alla produzione farmaceutica e, nascosti da sguardi indiscreti, alle armi biologiche.
Entrò nel laboratorio e cominciò a bussare al vetro anti-contaminazione.
«William! Ti ho portato qualcosa da mangiare» chiamò lei cercando di attirare l’attenzione del marito che subito alzò lo sguardo dal computer.
L’uomo si alzò dalla sedia e si diresse verso l’accesso del laboratorio sorridendo alla moglie.
«Ciao, cara! Non dovevi assolutamente disturbarti. Sarei venuto io fra poco. Dovevo solo finire di riguardare alcuni documenti di cui mi ero completamente scordato» disse cingendo la moglie fra le braccia.
«Oh, William. Sono solo preoccupata che tutto questo lavoro ti stia sfinendo. Hai quasi terminato il lavoro, potresti prenderti una pausa» sussurrò Annette abbassando lo sguardo come se fosse imbarazzata dalla richiesta.
«Quando avrò finito questo lavoro, ci prenderemo molto tempo libero. Andremo in vacanza lontano da qui, io, te e Sherry».
«Va bene. Ti ho portato un panino» sorrise e gli porse il sacchetto.
«Sei un angelo! Tu e Sherry siete la mia vita. Non sarei mai arrivato fin qui se non ci foste voi due a darmi la forza per andare avanti».
Annette arrossì leggermente e si affrettò a dare un bacio al marito prima che questo rientrasse in laboratorio. William varcò la porta automatica quando si ricordò di chiedere un favore alla moglie: «Ah,Annette! Avrei un favore da chiederti».
«Dimmi pure».
«Avrei bisogno che contattassi da parte mia il signor Spencer chiedendogli di richiamarmi al più presto».
Annette fece un cenno di approvazione e uscì dal laboratorio diretta alla sala registrazioni impronte. Entrò e si sedette alla scrivania in fondo alla stanza. Preso il telefono, digitò un numero ormai fin troppo conosciuto. Dall’altra parte il telefono prese a squillare.
«Pronto? Qui è la sede Umbrella delle Arklay. Cosa posso fare per lei?» rispose una donna dalla voce sgradevole.
«Chiamo da parte del dottor William Birkin e avrei bisogno di parlare direttamente con il signor Ozwell Spencer».
«Il signor Spencer in questo momento è in riunione. Riferirò, quando si libera, di chiamare il signor Birkin. Arrivederci». La chiamata si interruppe.
Annette si alzò e uscendo sbuffò pensando a quanto siano odiose le segretarie.
 
William Birkin, assorto nei suoi pensieri, si ciondolava sulla sedia con lo sguardo fisso sul reagentario. Soluzioni tampone, arricchimenti di colture, substrati utili per la crescita virale e microbica stazionavano lì dentro in attesa di essere utilizzati per una nuova sperimentazione. Il suo grande intelletto lo aveva portato a coltivare il virus che avrebbe potuto rigenerare un tessuto avitale in pochi minuti. Le ultime ricerche stavano cercando di mettere a punto un parametro che non era di marginale importanza: la stabilità del virus negli organismi viventi. La modificazione virale comportava spesso delle grosse limitazioni poiché i virus non potevano definirsi organismi viventi, tantomeno non-vivente. La loro grande capacità ci invadere i tessuti si era rivelata il punto di partenza degli studi. Le modificazioni del virus per indurre la replicazione delle cellule ospiti aveva richiesto parecchi anni. E ora era arrivato al punto cruciale, il momento in cui il suo virus sarebbe diventato famoso. Negli ultimi mesi di lavoro era riuscito a somministrare il virus a una crisalide che acquisì delle connotazioni particolari. Oltre ad aver aumentato il ricambio tissutale, era riuscito a renderla straordinariamente grossa e resistente agli insulti meccanici. Aveva creato un virus in grado di potenziare le replicazioni e le differenziazioni di un semplice tessuto. Aveva chiamato il suo lavoro virus G.
Il telefono di Birkin prese a suonare.
«Mi cercavi, William?» domandò una voce roca.
«So che non è da me farlo, ma ho bisogno di un parere»
«Un parere? Da me?»
«Non esattamente. Ho bisogno di parlare con due scienziati che lavorano nella sede delle Arklay».
«Ma William, hai una troupe di ricercatori al tuo fianco e non hai mai avuto realmente bisogno di nessuno per sviluppare le tue ricerche»
«È di vitale importanza che queste due persone entrino a far parte del progetto G»
«Sei sicuro che queste persone con cui vuoi confrontarti siano in grado di capire le straordinarie potenzialità del virus G?»
«Le conosceranno già, non ti preoccupare».
«Ripongo in te la mia fiducia, William. Chi sono queste due persone?»
«I coniugi Vickers».

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Susan salì al primo piano e percorse il corridoio adornato da due statue e una scultura raffigurante un dio greco del quale ignorava l’esistenza. Arrivò davanti all’ufficio S.T.A.R.S. e bussò vigorosamente alla porta. Poco secondi dopo un volto famigliare aprì.

«Ehi, sorellina! Che cosa ci fai qui? Non hai niente di meglio da fare che venire in una stazione piena di sbirri?» commentò sarcastico Brad dandole una pacchetta sulla spalla in segno di affetto.

«E secondo te potrei perdere il mio tempo prezioso girovagando qui dentro come un morto-vivente in cerca di carne umana» rispose scherzosa Susan, accentuando la fine della frase sapendo quanto i mostri di fantasia spaventassero il fratello.

«Ah ah! Spiritosa! Entra dai» la invitò in una stanza che ormai conosceva bene.

La scrivania in fondo alla stanza sulla sinistra apparteneva al capitano Albert Wesker che in quel momento non sembrava essere presente. Gli altri membri della squadra erano Barry Burton, Jill Valentine, Chris Redfield, Joseph Frost e il fratello Brad.

«Ehi, reporter! Come ti va la vita?» Barry saltò su dalla sedia andando incontro a Susan. Le strinse la mano.

«Non c’è male, grazie. Vedo che ti stai cimentando in nuove modifiche alle pistole di serie della S.T.A.R.S.» commentò lei osservando la scrivania ricoperta di parti metalliche e attrezzi.

«È il mio passatempo!» Barry sorrise e tornò a sedersi alla sua scrivania riprendendo il lavoro.

«Dove sono tutti gli altri? E Wesker?» domandò incuriosita Susan, più per il capitano appena incontrato al piano inferiore che a quanto pare aveva di meglio da fare che stare al suo posto.

«Jill e Chris sono appena andati via, Frost è andato a prendersi un caffè al piano di sotto e il capitano Wesker… in realtà non so con precisione dove sia andato» rispose il fratello che sprofondò nei cuscini della sedia della postazione radio.

Susan ebbe l’impressione che Wesker stesse nascondendo qualcosa di molto più grosso di quel che potesse sembrare. Lei, da brava giornalista qual era, avrebbe voluto sapere cosa tramasse, ma non prima dell’incontro con Irons.

«Senti un po’, fratellone…» cominciò Susan avvicinandosi a Brad e abbassando la voce in modo tale da non far sentire a Barry, dopodiché continuò: «…come procede quella cottarella?». Brad diventò improvvisamente paonazzo, ma Barry non ci fece caso in quanto era troppo impegnato nel suo lavoro.

«Ehm… sì… diciamo che… oh, senti, fatti gli affari tuoi» Brad schivò il colpo sapendo che la sorella sarebbe presto tornata alla carica con quella storia, ma fortunatamente fu salvato dall’ingresso di Joseph Frost. Joseph era un ragazzo giovane, particolarmente ottimista e scherzoso, dalle grandi aspirazioni. Era stato una delle prime reclute della squadra Bravo e successivamente passato alla squadra Alfa per volere del capitano Wesker. Jospeh era l’esperto di comunicazioni radio.

«Ehi ehi ehi, signorina Vickers che piacere averla ancora qui a farci compagnia!» esclamò il ragazzo vedendola seduta alla sua postazione.

«Ciao Jospeh, ti ho indubbiamente rubato il posto. Ora, però, per me è arrivato il momento di andare» rispose lei alzandosi e dirigendosi alla porta.

«Già te ne vai? Non vuoi neanche un caffè» chiese gentilmente Jospeh porgendo il bicchierini che teneva in mano.

«No, grazie Jospeh! Il capo mi aspetta nel suo studio per un’intervista e io mi sono dilungata troppo. La prossima volta sono già prenotata per il tuo caffè!» disse Susan scherzosa e aggiunse: «Ah, Brad, la prossima volta continuiamo il discorso che abbiamo lasciato a metà». Detto ciò ammiccò al fratello e uscì dalla stanza proprio nel momento in cui Joseph e Barry dissero all’unisono: «Che cosa nascondi, fifone?».

Susan sorrise divertita dalla frecciatina lanciata al fratello in presenza di due suoi colleghi. A passo veloce proseguì per la biblioteca della stazione. Gli scaffali prendevano posto lungo il muro alla sua sinistra e sulla piccola balconata che costeggiava i muri dell’intera stanza. Uscì dalla biblioteca e si ritrovò sulla balconata principale della hall. Si diresse verso la sala d’attesa a sud dell’edificio.

Appena entrò una segretaria alzò lo sguardo dalla sua postazione e sorrise.

«Lei è la signorina Vickers, giusto?» chiese con tono eccitato come se avesse appena visto il suo cantante preferito.

«Sì, ho un appuntamento con Brian Irons per l’intervista da lui richiesta» rispose svogliata all’idea di dover fare delle domande a un uomo ambiguo come Irons.

«Si accomodi pure nel suo ufficio: corridoio a sinistra, prima porta».

La segretaria aprì la porta alle sue spalle e indicò un corridoio che si interrompeva subito e svoltava a destra.

«La ringrazio».

Pochi passi e si ritrovò di fronte a una porta in legno massiccio evidentemente rinforzato. "Irons deve essere una persona davvero molto complessata! Questa porta la butti giù solo con del tritolo: che diavolo se ne fa in una stazione di polizia?" pensò Susan alzando gli occhi al cielo.

Un altro corridoio portava a una seconda porta rinforzata.

"Questo è completamente pazzo! Dopotutto si parla di una persona che ha pagato per ricevere un’intervista: unico motivo per cui gli era stata concessa".

Susan sentì delle voci provenire dall’interno della stanza.

«…e dovete essere certi che nessuno cerchi di fare il furbo: non voglio problemi di nessun tipo» disse una voce stranamente inquietante.

«Sissignore! Terremo d’occhio ogni possibile interessato» rispose una seconda persona.

«È tutto, Marcus» concluse il primo uomo.

«Arrivederci, capo!»

Susan non fece a tempo a spostarsi da dietro la porta che un uomo le sbattè contro e la fece cadere a terra come un sacco di patate. L’uomo poco più alto di lei vacillò per qualche secondo, stordito dallo scontro.

«Si è fatta male?» chiese porgendo una mano e aiutandola a rialzarsi.

L’uomo avrà avuto poco più di trent’anni. I suoi occhi azzurri brillavano nel tetro corridoio. I capelli, di un castano chiaro, si muovevano al ritmo dei suoi movimenti.

«No, tutto a posto. Ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Mi capita spesso» scherzò Susan abbozzando un sorriso sperando nel profondo del suo cuore che lo ricambiasse. E così fu. Perse completamente la cognizione di se stessa ammirando il suo sorriso. Non esisteva più quel luogo, l’intervista, la S.T.A.R.S., la città. Non esisteva più nemmeno Susan Vickers. Solo il sorriso di un uomo che accidentalmente le era venuto addosso perché lei stavo origliando qualche conversazione di troppo.

«Ehi, sei sicura di stare bene?» domandò realmente preoccupato osservando il suo sguardo perso nel vuoto.

Susan si destò dai suoi sogni e si impose di essere razionale nonostante quelle sensazioni le erano sempre state oscure fino a quel giorno.

«Dovresti essere un po’ più coerente: prima mi dai del lei e poi del tu senza nemmeno un appuntamento», Susan afferrò la mano e si accorse che aveva la pelle liscia come quella di un neonato. Se prima di allora era sempre stata scettica sul principe azzuro, in quel momento dovette ricredersi.

«Se è un appuntamento quello che vuole, per me non c’è nessuno tipo di problema. Sarebbe un peccato continuare a dare del lei a una donna così affascinante».

Susan non seppe cosa dire. Era sempre stata una donna forte, che non si faceva intimorire da niente e nessuno. In quel caso, però, aveva paura. Paura che non ci fosse una seconda chance.

«Ehm… io… non saprei» balbettò Susan cercando di fare mente locale su quando, dove e perché volesse quell’appuntamento.

«Allora facciamo venerdì alle 7, al Grill 13» decise lui senza nemmeno sapere se la data andasse bene a lei.

«Venerdì… Grill 13… devo vedere…» farfugliò Susan un po’ impacciata.

«Va bene, dopo andiamo anche al cinema che tanto è lì di fianco. Proiezione delle 8.30»

«Sì, mi piacerebbe» concluse Susan finalmente decisa a buttarsi in una nuova avventura. L’uomo deciso e pianificatore era sempre stato il suo ideale di uomo.

«Ottimo! Comunque sono stato cafone. Il mio nome è Jeremy Marcus. E lei è…?»

«Susan Vickers e puoi darmi del tu senza problemi».

Jeremy sorrise lasciandola senza fiato dopodiché si voltò.

«Venerdì alle 7, non dimenticartelo».

Jeremy si allontanò e scomparve dietro l’angolo. Come avrebbe potuto dimenticarsi un appuntamento con quell’uomo?

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Susan bussò alla porta semi-aperta.
«Si accomodi signorina Vickers» tuonò con voce imperiosa lo stesso uomo preoccupato della sorveglianza di determinate persone.
Susan entrò in un ufficio alquanto inquietante: poche luci rendevano tetro l’ambiente, reliquie di tassidermia erano appese ai muri, librerie e divani all’apparenza molto costosi riempivano la stanza.
«La ringrazio per essere venuta. Sa, è importante che la gente sappia come opera la polizia della città, soprattutto di questi tempi» disse Irons impegnandosi in un sorriso finto e sgradevole.
“Sì, come no! A questo interessa solo imbalsamare cervi e fare la bella faccia davanti ai cittadini” pensò Susan disgustata dall’odore di sudore che emanava il capo.
«Non deve ringraziare me, ma la stampa che le ha concesso questa intervista».
Irons parve irritato dall’atteggiamento di Susan che ovviamente si teneva a debita distanza.
“Come se non fossi io a decidere chi e cosa ci sarà sulla rivista”.
«Brian Irons» disse porgendole la mano.
«La sua fama la precede» rispose lei, stringendo la sua mano sudaticcia e pelosa.
«La prego, si sieda» la invitò mostrando i divani che a prima vista sembravano sudici quanto lui.
Susan si accomodò su una poltrona al centro della stanza trattenendosi dal fuggire da quel posto, e frugò nella borsa in cerca del proprio taccuino. Sperò in cuor suo che quell’intervista non durasse fino a notte.
 
Jeremy si accomodò alla sua scrivania nell’ufficio della sezione sud del dipartimento. La signorina Vickers era senza dubbio una donna interessante fisicamente e, molto probabilmente, anche dal punto di vista intellettuale. Ripensò alle sue sottili labbra rosee, ai suoi occhi nocciola da cerbiatto, ai suoi lunghi capelli lisci che scendevano lungo il collo, sulle spalle scoperte, raggiungendo il vistoso ma non volgare decolleté. La sua voce incerta aveva fatto breccia nel suo cuore: non poteva resistere alle donne timide e dolci. Tuttavia qualcosa gli diceva che la timidezza le appartenesse solo alla lontana. Aveva sempre creduto nel destino e in quel caso aveva giocato a suo favore. Era destino che avesse sbattuto contro quella donna; era destino che lei fosse stata in quel corridoio proprio in quel momento; era destino che lui fosse stato convocato dal capo proprio quando lei doveva andarci.
“Perché Susan era lì? Per quale motivo era stata invitata nell’ufficio del capo?” pensò Jeremy grattandosi la testa assiduamente.
«Non avrai mica i pidocchi?!» sbottò un ragazzo entrando nell’ufficio principale.
«Sì e sto per spedirtene qualcuno su quella testa vuota!» scherzò Jeremy fingendo di lanciare qualcosa.
«Cosa voleva il capo?»
«Rompere le palle, come al solito! Quell’uomo è peggio di una sanguisuga: se ti si appiccica non ti molla più» rispose Jeremy facendo una smorfia.
«Saputo qualcosa del caso Montague?»
«Zacary, perché non vai dal signor Montague e gli chiedi se per caso ha rubato allo Stato tre milioni di dollari?»
«Sei più simpatico del solito! Qualcosa è andato storto?»
«No, sto solo pensando a una donna fantastica con cui devo uscire venerdì sera» rispose sognante immaginando già l’incontro romantico con Susan.
«Te lo ripeto per l’ultima volta: Sarah Carter non vuole uscire con te!» ribatté Zacary intonando una cantilena.
«Ma non pensavo neanche a quella santarellina della Carter! Stavo parlando di Susan Vickers, una donna stupenda e affascinante»
«Susan Vickers? La sorella di Brad Vickers della S.T.A.R.S.?»
«La conosci?» , Jeremy si destò dal suo sogno e squadrò il collega con aria torva.
«Direi! Ci sono usciti un annetto fa, ma lei era più rigida di uno stoccafisso»
«Zacary, se una donna non viene a letto con te, non vuol dire che è rigida, significa che tu sei veramente palloso! Hai ventiquattro anni e non sai neanche come si corteggia una donna! Scommetto che hai sfoggiato la tua pessima battuta del pescatore»
«Mi sembra ovvio! Le donne non sanno resistere al mio umorismo!»
«Oh, Zacary… tu non hai nessun umorismo!»
«Allora vediamo come se la caverà il signor donnaiolo! Fidati di me: è una donna impossibile e troppo piena di sé»
Detto questo Zacary uscì dall’ufficio di Jeremy.
Nonostante le parole del giovane, non parve essere turbato né tantomeno scoraggiato. Lui dopotutto sapeva di essere una persona piena di fascino e divertente: non avrebbe avuto problemi.
Si alzò dalla sedia, prese una borsa nera posta sulla scrivania, e uscì dall’ufficio. Nella stanza c’erano ancora due poliziotti della sezione investigativa: Edward Elliot e David Ford. Li salutò augurandogli una buona serata e raggiunse l’atrio dal quale uscì dal dipartimento di polizia.
 
L’intervista con Irons fu più breve di quanto si aspettasse. Il capo della polizia si rivelò solamente pieno di sé e mostruosamente spilorcio. Sembrava che la polizia di Raccoon fosse lui in persona, senza contare le persone che ci lavoravano dentro. La squadra di tattiche speciali non era nemmeno lo sfondo del suo grande lavoro per la cittadinanza. Ma secondo Susan il lavoro più grande che potesse fare era farsi una doccia ogni tanto. In generale, nulla di ciò che era appena uscito dalla bocca di Irons poteva interessarle. Uscita dall’ufficio del capo, si diresse all’atrio senza più deviazioni, decisa a tornare a casa per un po’ di meritato riposo. Appena varcò la porta d’ingresso, una voce familiare disse: «Sembra che il destino ci porti sempre sulla stessa strada, bella signora».
Jeremy Marcus stava in piedi davanti a lei, appoggiato all’arcata del cancello principale.
«Oppure è il belloccio che pedina la bella signora» ribatté Susan con tono soave.
«E chi mi assicura che non sia la bella signora a pedinare me, il belloccio affascinante e sexy?», Jeremy punzecchiò Susan che parve molto divertita dal suo modo di fare.
«Ho tre cose da dirti. Punto primo: come siamo modesti, caro signor belloccio! Punto secondo: le donne mature non si mettono a pedinare un uomo conosciuto da un’ora» Susan si interruppe per osservare la faccia incredula di Jeremy.
«E punto terzo?» chiese sicuro che l’ultima sentenza sarebbe stata a suo favore.
«E… smettila di chiamarmi “bella signora”! A venerdì sera Jeremy Marcus».
Susan scomparve dietro il cancello centrale del dipartimento.
«Le donne intraprendenti mi fanno impazzire, ancora di più di quelle timide» parlò Jeremy ad alta voce osservando la sua preda allontanarsi verso il tramonto.
Susan udì le ultime parole di Jeremy e si sentì lusingata. Era finalmente arrivato il giorno in cui qualcuno la sorprendeva con un modo diverso di interagire. Non era il solito imbranato che mugugnava a stento qualche parola sperando che lei accettasse di uscire. Il loro primo incontro era stato un vero e proprio botto. C’era stata quella scintilla che aveva acceso la sua speranza, e a quanto pare anche quella di Jeremy. Sviò tra le strade illuminate dal sole che restava placido sull’orizzonte. A quell’ora la città sembrava stregata: le persone ancora in giro si ritiravano per la cena, gli alberi si muovevano lenti come se cercassero il proprio ritmo, le tenebre prendevano possesso dei vicoli più nascosti. Per Susan ogni tramonto era uno spettacolo senza pari.
Passando per le strade di Raccoon le vennero in mente strani pensieri. Pensò a come dovesse essere se un giorno il sole tramontasse e non sorgesse più. La città avrebbe vissuto nelle tenebre. Per quanto romantico potesse essere girare nell’illuminata Raccoon City, non riuscì a trattenere un brivido di paura a quel pensiero. Salì sul treno diretto alla torre dell’orologio. La linea era sempre molto popolata, ma in quel momento sembrò essere deserta. Susan guardò l’orologio e si accorse che prima della partenza mancavano tredici minuti, motivazione per cui forse le vetture erano ancora vuote. Prese il suo cellulare dalla tasca dei pantaloni e compose un numero. Sembrava particolarmente impaziente mentre gli squilli rimbombavano nel suo orecchio. Il telefono squillò a lungo, come sempre. Ogni volta si chiedeva come mai ci mettesse tanto a rispondere. D’accordo il lavoro, ma lasciar squillare il telefono più di un minuto le parve strano.
«Susan! Qual buon vento ti spinge a chiamare il tuo vecchio? Qualche ragazzo ha respinto la mia bella bimba?»
«Papà, non ho più otto anni! Se un uomo mi respinge è perché non capisce le mie qualità» rispose lei sorridendo.
«Ah, hai imparato tutto dal tuo vecchio. Allora, Susan, cosa mi racconti di nuovo?»
«Mi spiace non avervi chiamato in questi giorni, ma sono sommersa dal lavoro e so che anche voi state facendo gli straordinari per il vostro progetto di ricerca».
«Non ti preoccupare, cara. Noi stiamo bene, anche se il lavoro ci sta assorbendo. Alla stampa?»
«Prendetevi un po’ di pausa! Avete sempre lavorato giorno e notte. Ho appena finito di intervistare il capo della polizia Brian Irons, un uomo a cui la taccagneria fa un baffo».
«Ah ah ah! Ho sempre pensato che quell’uomo fosse un pallone gonfiato. In effetti è parecchio ciccione».
«Mi sta venendo il vomito, cambiamo discorso. Come procede lo studio di enzimi, vitamine e cos’altro non lo so?» domandò Susan mentre si picchiettava la gamba con una mano.
«A rilento, ma non ci lamentiamo. Per raggiungere un traguardo bisogna faticare. Vuoi che ti passi la mamma?» tagliò corto il padre.
«Sì, va bene. Mi raccomando, cerca di riposare e sentiamoci più spesso».
«Va bene, bambina mia. Ciao».
Qualche secondo di attesa e una voce femminile prese la comunicazione.
«Susy, mi fa piacere sentirti! Come stai? Il lavoro va bene? Hai trovato un uomo con cui condividere il resto della tua vita? E Brad? Non mi chiama mai quello lì! Appena lo vedi digli di chiamarmi che sono in pensiero per lui. E poi…»
«Mamma, calmati! Respira e adesso ascoltami. Io sto bene, il lavoro procede a gonfie vele, l’uomo della mia vita per ora è il giornale per cui scrivo e Brad se la cava. E tu, mamma, come stai?»
«Ah, io sto benone! Volevo solo essere sicura che ve la cavaste anche senza la vostra mamma».
«Certo, mamma! Avrei preferito sentire la tua voce di persona, ma il lavoro è importante quanto la famiglia» disse Susan con una nota di malinconia.
«Scusami un secondo, Susy».
La voce dall’altra parte della comunicazione si spense. Delle voci in sottofondo parlavano di qualcosa che Susan non percepì. Nel frattempo il treno si era popolato di gente che tornava a casa dopo la giornata lavorativa. Tra i passeggeri c’era anche Zacary Thompson. Fece di tutto per nascondersi dalla sua vista, fino a quando la madre riprese a parlare.
«Mi spiace, Susy, ma siamo stati convocati dal direttore. Deve essere una cosa molto importante. Devo lasciarti. Telefonami presto!»
La chiamata si interruppe senza neanche dare il tempo a Susan di ricambiare il saluto. Dentro di lei crebbe un senso di nostalgia per i genitori. Erano sempre stati vicini in ogni momento della sua vita e ora si trovavano a chissà quanti chilometri di distanza con le mani immerse in qualche soluzione.
In realtà, poco distante da quel treno, un uomo dava il permesso ai coniugi Vickers di lasciare l’area, dopo essersi accertato che non ci fossero state fughe di informazioni riservate.
“Perdonaci, Susan. Mentirti è stato necessario per il bene tuo e di tuo fratello. Un giorno, forse, potremo dirti la verità”. Richard Vickers ripeteva quella frase ogni volta che la figlia chiamava, e periodicamente cadeva una lacrima che solcava il suo viso stanco.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


11 Maggio 1998,
sono stanco di lavorare qui dentro, non faccio altro che sorvegliare ogni angolo della villa attraverso un computer. Se solo potessi congedarmi da tutto questo da un giorno all’altro senza che nessuno mi venga poi a cercare… Conoscere, anche se indirettamente, gli esperimenti che vengono fatti qui dentro, mi porta a non poter decidere più della mia vita. Sono un burattino nelle mani della Umbrella. Le ricerche su questo fantomatico virus T, hanno portato alla creazione di un umanoide chiamato Tyrant. Spero solo che rimanga nella sua teca di vetro fino a quando sarò ben lontano, perché non sembra essere molto amichevole. Senza parlare delle altre mostruosità che galleggiano nelle vasche di stasi. Rabbrividisco al solo pensiero di quelle dannate creature fantascientifiche. Eh no, purtroppo è la realtà e da questa non posso nemmeno scappare. Che amarezza!
Giusto qualche giorno fa i coniugi Vickers sono stati trasferiti nella sede sotto Raccoon City. Erano stati proprio loro a contribuire allo sviluppo della Plant 42 che negli ultimi giorni pare essere inavvicinabile. Si dice che abbiano trovato una sostanza in grado di ucciderla in pochi secondi, ma per ora a nessuno sembra interessare molto.
Ieri ho scoperto un posto appartato nel giardino, lontano dalla villa, dalla casa del guardiano e dai laboratori. Sembra che nessuno sia a conoscenza di quel posto. Andrò a farmi un giro proprio ora, per rilassarmi lontano da tutta questa merda.
 
Più tardi…
Mi ero appisolato sul prato all’ombra di un albero. Tirava un bel venticello. Al mio risveglio le sirene di allarme stavano suonando all’impazzata. Ho aspettato un po’ fregandomene una buona volta di quel che succedeva in quella dannata magione. Più passava il tempo e più un senso di angoscia cresceva dentro di me. Temo che qualcuno abbia fatto qualche casino e a giudicare dalla persistenza delle sirene qualcosa di grosso. Dopo parecchio tempo che l’allarme suonava, ho raggiunto la mia postazione e ho notato, tramite i monitor, una grande agitazione nei ricercatori che correvano a destra e a manca per i laboratori sotterranei. Non oso immaginare quale grande cazzata abbiano fatto e chi l’abbia fatta. Poco mi interessa. Affari loro! Tra poco andrò a giocare a poker con Alias, Scott, Steve e quella canaglia del custode Mardock. L’ultima volta non sono riuscito a raggiungerli perché il capo premeva sulla sicurezza, ma mi hanno riferito che Steve ha vinto ogni mano, presumibilmente barando.
 
Verso sera…
Sono ancora rintanato in questo maledetto sgabuzzino! E in più ho una sudicia tuta anti-contagio perché quegli idioti dei ricercatori hanno “accidentalmente” contaminato la sede con il loro virus da quattro soldi. Siamo stati tutti sottoposti ad esami del sangue e in qualche modo, nella baraonda che c’era, sono riuscito a mettere il mio nome sulla provetta di un certo John. Ho una paura smisurata degli aghi e non mi farò certo infilzare da quei maledetti medici. In questo momento i ricercatori sono tutti riuniti nella sala conferenze nei sotterranei. Qualcuno di loro sembra grattarsi un po’ troppo. Sarà un effetto del virus T. Ormai non c’è scampo per nessuno di noi, dai residenti nella villa, alle camerate della casa del guardiano, ai ricercatori dei laboratori sotterranei. Io sarò l’unico a morire lontano da tutti visto che questo maledetto cubicolo è situato in un piccolo stabile di fianco alla villa. E anche oggi la partita a poker è saltata.
 
 
12 Maggio 1998,
ho passato una notte di inferno tra incubi e risvegli continui. Sarà stata la consapevolezza che ormai non mi rimane molto da vivere. I ricercatori ormai sembrano rassegnati. Quelli che lavoravano nel laboratorio principale dove sembra essere scoppiato il contagio, si stanno ricoprendo di pustole. Dove diavolo ci ha portato questo virus T? E per quale motivo è stato creato? Sono tutti pazzi!
 
14 Maggio 1998,
un film horror non ha niente a che vedere con quello che sta accadendo nei sotterranei. Alcuni ricercatori cominciano a perdere grossi pezzi di carne come se si stessero decomponendo. Il virus sembra accelerare in qualche modo il processo vitale dei tessuti. Se fosse solo questo sarebbe uno scherzo: oggi pomeriggio un ricercatore ha morso un suo collega. La quarta evidenza è il cannibalismo.
Anche il custode si sta riempiendo di pustole su tutto il corpo.
Ormai è inutile scappare se farò presto la stessa fine. Per ora non ho manifestato nessuno dei sintomi del contagio. Prima o poi cadrò anche io nel baratro creato da questa follia.
 
16 Maggio 1998,
comincio a pensare che non sia stato infettato da questo virus. Se così fosse non esiterei neanche un secondo a fuggire da questo posto degli orrori. Anche i residenti nella villa cominciano a manifestare i primi sintomi di questa “malattia”, se così si può chiamare.
Tra ieri e oggi ho assistito alla morte di quasi tutti i ricercatori dei sotterranei, vittime del cannibalismo di quelli che erano ormai… zombie. Sì, hanno tutte le caratteristiche di esseri non-morti. Vagano senza coordinazione motoria, senza pensiero, senza alcuna sensazione se non quella di cibarsi. Saziare la loro fame è diventata la loro priorità, tant’è che si sono mangiati gli ex colleghi. Tiratemi un pizzicotto e svegliatemi da questo incubo!
 
19 Maggio 1998,
ho deciso di togliermi questa tuta e fuggire finché sono in tempo. Evidentemente quando il virus è fuoriuscito, io ero a farmi la pennichella lontano dai laboratori, nel giardino. Forse il virus non è particolarmente resistente all’aria e non riesce a sopravvivere se non in un organismo ospite.
Gli zombie si erano lentamente impossessati anche dei giardini. Non ho intenzione di farmi sbranare da quelle creature assetate di sangue. Le poche persone che hanno ancora una testa con cui pensare si rifugiano nelle stanze, nelle cucine, nelle sale della villa più sicure. Gli zombie vagano ancora in cerca di carne fresca. Fortunatamente non sono abbastanza intelligenti da aprire le porte o risolvere gli enigmi della casa. La tenuta è piena di tranelli, chiavi nascoste, serrature particolari attivate con oggetti di valore. Da un lato, questa pazza idea di Spencer, può giocare a mio favore per intrappolare gli zombie nelle sale, dall’altro, sarebbe stato complicato reperire tutti gli oggetti per sbloccare le porte. Purtroppo la mia fuga sarà complicata anche perché tutti coloro che cercano di scappare vengono uccisi all’istante. Perfino Russell, uno dei principali ricercatori, dopo aver cercato di fuggire attraverso i boschi, è stato fucilato a pochi passi dalla villa. Ma una cosa la complica ancor di più: i cani da guardia della magione e della casa nel giardino sono tutti in preda a una fame smisurata. Anche loro sono stati evidentemente infettati. Non potrò ovviamente fuggire dalla porta principale.
Perfino la Plant 42 sembra aver avuto mutazioni importanti. Le sue dimensioni sono notevolmente aumentate e la sua aggressività l’ha spinta a uccidere, con il suo veleno, quasi tutti i ricercatori che ci lavoravano.
Ègiunto il momento di spegnere questi dannati monitor e fuggire da questo mattatoio!

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